Progettare per il mondo Beat: le discoteche radicali degli anni 60

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PRO GE TT ARE PER IL MO NDO BEA T: le discoteche radicali degli anni 60 in Italia

Politecnico di Milano Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni Laurea Triennale in Progettazione dell’Architettura A.A. 2017/2018 1 Sessione di laurea: settembre 2018 Studentessa: Federica Sirangelo 860507 Relatore: prof. Massimo Boffino


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In copertina Zattere per l’ascolto della musica di Ettore Sottsass (Il pianeta come festival, 1972) Architetture per meditazioni, discussioni, un tempio per esperienze erotiche e queste zattere da musica; piccole discoteche personali vaganti. C’è musica, paesaggio che muta, archiettura straordinaria e viva sensazione di galleggiamento.

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Indice

Abstract...........................................................................................................6 1. Dall’America all’Italia: Fernanda Pivano racconta la cultura underground 1.1 La beat generation americana.....................................................................10 1.2 1966: il Boom della controcultura in Italia.................................................... 20

2. Festa e musica: il linguaggio universale del mondo beat 2.1 La musica: il luogo privilegiato della Controcultura.................................... 30 2.2 La festa: il tempo del disordine...................................................................36

3. Il design per risvegliare la creatività 3.1 Un’architettura Big Bang..............................................................................44 3.2 Radical è beat.............................................................................................60

4. Dalla teoria alla pratica nel radical: le discoteche 4.1 Architettura come arte dell’inventare............................................................68 4.2 Il design della tecnologia; un’ esperienza sensoriale completa....................80

5. Da Torino a Roma: i night club nei ‘60 5.1 Il Piper di Roma: una swingin’ Rome..........................................................100 5.2 Il Piper di Torino: il Piper è la fine del mondo..............................................102 5.3 Il Piccolo Night Grifone di Bolzano: il night più piccolo...............................110 5.4 Lo Space Eletronic di Firenze: ambiente audiovisivo.................................122

6. Conclusioni.....................................................................................................136 7. Bibliografia.....................................................................................................144 8. Sitografia........................................................................................................148

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Discoteca Bamba Issa 2, UFO (Forte dei Marmi,1970)

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Abstract: italiano

In Italia, nel corso dei primi anni 60 si sente la necessità in architettura di andare alla ricerca di nuovi linguaggi, capaci di esprimere la propria contemporaneità, di promuovere idee e di sostanziare ideologie, in un clima di rottura con i vecchi schemi. Gli atteggiamenti che protendevano verso questa direzione vennero racchiusi sotto il titolo di “Architettura radicale”, coniato da Germano Celant. Basata su una riformulazione teorica della basi dell’ architettura, l’avventura

radicale

si

contrapponeva

al

passato

sfruttando le potenzialità del kitsch, del colore, dell’ironia e distorcendo le proporzioni. Tra le realizzazioni che più incarnano l’anima di questo “atteggiamento” architettonico si ritrovano le innovative discoteche radicali, nate in Italia intorno al 1966; città come Roma, Milano, Firenze, Torino furono sconvolte dall’ apertura di questi luoghi che univano innovazione, arte, musica, teatro e tecnologia in un unico ambiente. Obiettivo di questa tesi di laurea è ripercorrere e approfondire le modalità con cui l’architettura radicale italiana degli anni 60-70 abbia saputo dar voce allo “spirito del tempo” tramite la realizzazione e la progettazione di questi luoghi d’avanguardia, capaci di fornire una restituzione tridimensionale delle concettualizzazioni teoriche formulate dal Radical. L’argomentazione comprenderà casi studio e riferimenti, tra cui spiccheranno i nomi dei gruppi e delle personalità più rappresentative del mondo radicale, come il Gruppo Strum, gli Archizoom, i Superstudio, i 9999, gli UFO, Ettore Sottsass e Leonardo Savioli. 6


inglese

In the Italian architecture of the early 60s there was the necessity of researching new languages to express the contemporaneity, to promote new ideas and to transform ideologies into reality, breaking the old schemes. The flow that was moving toward this direction was described as “Radical Architecture”, a term coined by Germano Celant. Based on the theorical reformulation of the basis of the architecture, the radical adventure was opposed to the past by exploiting the potentiality of the kitsch style and the colours, distorting proportions through irony. Among the examples that best represent the soul of this new architecture attitude there are the innovative “radical disco clubs”, appeared in Italy around the year 1996; cities such Rome, Milan, Florence and Turin were shocked by these inventive places, able to unify art, music, theatre, technology and innovation all in the same location. The object of this work is to study the way in which the italian radical architecture of the 60s-70s gave voice to the “spirit of the time” through the design and implementation of this avant-garde places, able to give a three-dimensional representation of the theoretical conceptualization made by the Radicals. The thesis will include case studies and references of groups and personalities that best represent the Radical world such as Gruppo Strum, Archizoom, Superstudio, 9999, UFO, Ettore Sottsass, Leonardo Savioli.

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1. Dall’America all’Italia: Fernanda Pivano racconta la cultura dell’Underground

“Ma quel giorno non scrissi l’emozione della scoperta, la vibrazione della nuova scrittura, l’esplosione del nuovo ritmo; il nomadismo, l’avventura, l’energia vitale, l’America di Camino Real costeggiata da basse case di mattoni rossi e da grattacieli spogliati di orgoglio nella tenera luce dorata del tramonto, nuovo Stile di Vita, diseredati senza rivendicazioni e poveri per libera scelta, cafeterias e cofee shops, diners e negozi di vino a buon prezzo, hot dogs e Tokai, giovani pazzi di vivere e inconsapevoli suicidi di una vita troppo stellante e troppo spietata, troppo repressa e troppo ribelle, troppo irrequieta e troppo drammatica, libertà e spazi aperti, irresponsabilità e gioia di vivere, giovinezza vicina e morte lontana” [1]

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Fernanda Pivano a tavola con Allen Ginsberg, Julius e Peter Orlowsky, Bob Dylan, e Lawrence Ferlinghetti (New York, 1965)[1]

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1.1

La Beat Generation Americana

“Non lo dicevo per niente: non ci voleva molto a capire che i giovani cominciavano a diventare protagonisti della scena e che la scena era cambiata: che Kerouac rispondeva a un nuovo tipo di libertà come aveva fatto Hemingway a suo tempo. La nuova libertà era il decondizionamento globale fino all’irresponsabilità; la vita del desiderio sprigionata in un annullamento totale di Super Io o di qualsiasi vincolo o controllo, unica legge l’energia vitale, unico stimolo l’amore della vita, unica realtà l’ansia di sopravvivenza, senza posto per la scalata al potere, per la competizione economica, per la preoccupazione del futuro”.[2] E’ questo il giudizio editoriale che, il 16 settembre 1957 Fernanda Pivano, traduttrice, scrittrice, giornalista e critica musicale italiana, mandò alla Mondadori per la presentazione di On the road, libro di Jack Kerouac, giovane scrittore americano e simbolo di una nuova generazione. On the road racconta di viaggi, di tappe, di rivelazioni e di incontri in un cammino che vede protagonisti giovani animati da un’ infinita ansia di vita e di esperienza; è la narrazione di un andare senza fine che cancelli l’ombra della noia e quella più oscura della morte, di un equilibrio costante tra aggressione e regressione, tra desiderio di esplorazione e rivolta vitalistica e un opposto desiderio

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di consolazione e protezione, tra il desiderio del viaggio e il bisogno della sicurezza del ritorno a casa. Kerouac è il protagonista di questo viaggio e con lui lo sono i giovani americani, raccolti dal critico John Clellon Holmes[3], sotto il nome di beat generation. Nella postfazione intitolata la beat generation di On the Road, Fernanda Pivano scrive: “Non si tratta di professori o scrittori, professionisti aggrappati ad un impiego in Case Editrici o giornali, ma di giovani per lo più disperati e inquieti, che credono nella vita, ma respingono i sistemi morali e sociali precostituiti e vogliono scoprirne da sé i nuovi sperando - o illudendosi – di trovarli più efficienti. Il loro problema è il problema di tutti i giovani, e specialmente dei giovani che affrontano l’esistenza del dopoguerra […] Da quando sono stati classificati da Holmes, questi ragazzi irrequieti hanno bevuto molto, hanno fumato marijuana, hanno girato l’America con l’autostop e si sono esaltati ascoltando o improvvisando jazz.” [4] I giovani hanno per la prima volta la percezione di essere qualcosa di speciale, “una sorta di classe generale generazionale dotata di una cultura profondamente critica dello stato delle cose presenti”[5]. Identificati come “Gioventù bruciata”, i giovani americani non cercano battaglie da

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Fernanda Pivano e Jack Kerouac (Milano,1966)[2]

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combattere in sede estetica. Ernest Hemingway conduceva una lotta contro il conformismo per imporre il proprio credo prima estetico che morale; i beat invece si ripiegavano su se stessi descrivendo il loro dramma non tanto estetico, quanto morale. Dalla cibernetica alla bomba atomica, dai missili alla procreazione artificiale, i giovani degli anni 60 hanno subito una serie di violenze psicologiche che tendono tutte ad annullare l’importanza dell’individuo come essere umano nella realizzazione di programmi ultraterreni e ultraumani. Il concetto di bene e male non è più sufficiente a spiegare una realtà così poco ortodossa, la fede politica non basta più ad additar loro una scelta ideologica, il concetto di moralità pubblica e privata è ormai troppo segnato da scandali e da “un conformismo livellatore e soffocante di una società di massa sempre più anonima e impersonale che li attanaglia e li soffoca inducendoli ad un silenzio inquieto e risentito, carico di rancori e di complessi: un silenzio soprattutto da incompresi”.[6] E’ un mondo grigio, uniforme e sommesso, frutto di una società democratica in cui tutti stanno bene, ma non troppo e la cui saggezza consiste nel desiderare solo piccole mediocri cose facilmente raggiungibili. E’ proprio il rifiuto di questa mediocrità che ha portato i giovani della beat

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generation a chiudersi in se stessi in un totale isolamento, arrivando a coinvolgere non solo giovani artisti e ribelli ma anche giovani borghesi, che sotto lo strato di ghiaccio del conformismo morale a loro imposto dal proprio stile di vita, ribollono in segreto di passioni che urlano per uscire fuori. Il mondo si rigira, le convenzioni si rompono e questi ragazzi non credono più alle giustificazioni dei genitori per spiegare un mondo sempre meno legato alle leggi tradizionali e cercano autonomamente, attraverso esperienze personali, una realtà alternativa svincolata dalle convenzioni morali figlie di pregiudizi e luoghi comuni. Essi si sentono costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a credere; per questo la fuggono creandone una alternativa, in cui si organizzano in piccole bande più o meno segrete, di stampo “anticollettivista” che non vogliono compiere gesti di rivolta verso la società ma soltanto estraniarsene. Della droga e dell’alcool si servono nell’illusione di poter scoprire attraverso un’esaltazione momentanea il perché di tutte le cose, e il jazz lo considerano come un mezzo per liberarsi dall’angoscia della realtà, tramite ritmi violenti e ossessivi. E’ così che “ i tipici personaggi di On the road compiono, uno dietro l’altro, tutti i gesti che i genitori darebbero la vita per non vedere compiere ai loro figli; vivono come

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dei vagabondi, si ubriacano di alcol e di droga, passano da un’automobile all’altra schiacciando l’acceleratore fino a bucarsi la suola delle scarpe e sfogano la loro energia, la loro avidità di vita, la loro ansia, in un’intensità spesso apparentemente senza ragione.”[7] Per i critici superficiali, questa corsa così affannosa verso una meta così poco definibile aveva tutto l’aspetto di una fuga, quando in realtà si trattava piuttosto di una ricerca. Privi di interessi politici, lontani dalle attività sociali, sordi ai credo religiosi ortodossi, incapaci di seguire le norme morali dei coetanei perbene: sono ragazzi che gli adulti considerano facilmente amorali, irresponsabili, viziosi e talvolta criminali. Alcuni di questi arrivarono a vivere una doppia esistenza: figli di rispettabilissime famiglie che, accanto ad una vita ufficiale in Università, erano soliti partecipare ad orge, iniettarsi eroina e fumare marijuana. I ragazzi appaiono così come dei viziosi, dei sensuali, ma in realtà ciò che li anima è il tentativo di reagire al clima smorto, sbiadito, opaco della società di massa. La finalità principale è la lotta al collettivismo, basato su un benessere uniforme e generale, in cui l’individualità del singolo non riesce ad emergere; i ragazzi non credono nelle associazioni di massa (politiche, religiose) e lottano

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Autoscatto di Fernanda Pivano con Ettore Sottsass (Milano,1966)[3]

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Pagine della rivista Pianeta Fresco[4]

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per affermare il proprio individualismo e l’importanza della propria personalità. E’ così che i campioni della beat generation rivelano gli aspetti più segreti della misteriosa vita di adolescenti sempre più lontani, sempre più sconosciuti ai genitori. Non provano odio per un mondo non voluto da loro: lo considerano un caos amorale e ne rifiutano le norme e i valori morali ortodossi o convenzionali. Una totale tabula rasa con l’obiettivo di stimolare la propria individualità con ogni mezzo, anche superficiale come alcol e droga. Credono solamente negli eccessi e negli estremi; la violenza che esercitano su se stessi non ha niente a che fare con una volontà di rivolta contro la società, in quanto la finalità è distruggere non la società, ma ciò che di essa contamina il proprio io. “I giovani sanno che verranno condotti alla follia per alcolismo, alla prigione per uso di stupefacenti, alla morte in un incidente in automobile; ma non importa, perché preferiscono correre il rischio piuttosto che affrontare una vita collettiva comunitaria che appare loro come un baratro senza senso e senza valore”[8] L’unica cosa che importa è sentirsi liberi, in un mondo che spinge sempre di più verso un determinismo inaccettabile.

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Beatniks (1960)[5]

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1.2

1966: il Boom della Controcultura in Italia “Mentre il mondo cominciava a cambiare la sua faccia, mentre i jeans cominciavano a minacciare le sartorie e l’Alta Moda, mentre i sacchi a pelo cominciavano a minacciare gli alberghi di lusso, mentre le magliette cominciavano a minacciare i ristoranti con l’obbligo di cravatta, e intanto i capelli crescevano per gli uomini e si accorciavano per le donne, i passaporti venivano bruciati sulle pubbliche piazze come i libri al tempo di Savonarola, i bianchi parlavano col dialetto negro e i negri parlavano col dialetto ebreo, abbraccio di tutte le minoranze, lotta di classe scavalcata dall’abbraccio, sogno di scavalcare tutte le lotte, sogno di vivere soltanto per l’esistenza, sogno di liberarsi per sempre da Super Io e conformismi, da doveri senz’anima, da alienazioni senza futuro, denaro nemico, potere nemico, guerra nemica.”[9] Il mondo beat americano contribuì in gran parte anche nel nostro paese a fondare un nuovo modello di società alternativa a quella dominante e basata sui valori di solidarietà ed egualitarismo, che aveva come prima finalità non tanto quella di uno scontro frontale con gli apparati istituzionali (comunque duramente criticati) quanto di

Presentazione di Jukebox

instaurare una comunità reale e parallela, dotata di un

all’Idrogeno presso libreria

proprio habitat in cui ciascuno avesse la possibilità di

locandina (Torino 1966)[6]

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Hellas di Angelo Pezzana:


seguire e liberare le proprie inclinazioni individuali e artistiche. In Italia, come in America, si è sentita la necessità di ricostruire la realtà ex novo, e non solo quella sociale, ma anche quella musicale, artistica, architettonica, cinematografica, teatrale e mentale; ciò che prendeva vita erano dei segmenti liberati di terra e di spazio, isole di controcultura in cui il potere non potesse esercitare le sue fascinazioni e in cui le leggi delle gerarchie non avrebbero avuto corso alcuno. Mentre i gruppi organizzati sceglievano il terreno del confronto-scontro con lo Stato, il popolo dell’underground si dislocava in un “altrove” che non era sintomo di disimpegno o indifferenza verso il mondo politico, ma di autonomia e libertà. All’inizio del 1966 esce Jukebox all’idrogeno, una raccolta di poesie di Allen Ginsberg, nella traduzione di Fernanda Pivano: il libro viene presentato il 12 febbraio da Giuseppe Ungaretti e dalla stessa Pivano prima a Napoli e poi a Torino, presso la libreria Hellas di Angelo Pezzana. Grande folla in entrambi i casi; la nuova poesia americana è motivo Antonio Moravia, giovane

di attrazione dei giovani del popolo beat quanto lo è un

operaio[7]

concerto di musica rock. Il 1966 diviene così un anno pazzesco in cui si poteva assistere nella scena italiana a

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Presentazione di Jukebox all’Idrogeno presso la Libreria Hellas di Angelo Pezzana (Torino, 1966)[8]

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Giuseppe Ungaretti e Allen Ginsberg per la presentazione di Jukebox all’Idrogeno presso la Libreria Guida Galleria d’arte (Napoli, 1966)[9]

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ragazzi che tenevano Jukebox all’idrogeno, l’Antologia di poesie[10], Sulla Strada e I Sotterranei[11], altro capolavoro di Jack Kerouac, tutti con sé nei sacchi a pelo. Il salotto milanese di Fernanda Pivano e del marito Ettore Sottsass diventa uno dei principali punti di riferimento per questi ragazzi, artisti, designer, poeti “sfregiati alla fronte per essere costretti a coprirsi con la frangia di lunghi capelli aborriti da genitori e da tutti”. Racconta la Pivano: “ I giovani che avevano letto Ginsberg, Kerouac, Corso cominciarono ad arrivare alla spicciolata. Si fermavano pochi minuti, spaventati, e via via si fermarono sempre più a lungo; poi vennero sempre di più e si finì per chiacchierare insieme, si può immaginare di che cosa, interi pomeriggi e notti. Il gruppo dei ragazzi che arrivavano era eterogeneo e alcuni continuarono a venire per anni per portarci la loro ansia, le loro esperienze, i loro problemi. […] I cognomi non importavano perché a quei tempi i cognomi facevano parte delle strutture aborrite; i cognomi interessavano la polizia. Così questo gruppo di amici e compagni non ha certo l’aspetto orgiastico, immorale, disimpegnato che la gente normalmente attribuiva ai protagonisti della scena: sembra, piuttosto, un gruppo di ragazzi impauriti, perplessi, disillusi.[12]

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I ragazzi frequentatori del salotto milanese di Ettore Sottsass e Fernanda Pivano (Milano 1966)[10]

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1.

Riferimenti selezionati: testi 1. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.09 2. Fernanda Pivano, C’era una volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana, Editrice, Roma, 1976, pp.09 3. John Clellon Holmes: nato a Holyoke, Massachusetts nel 1926, è stato un autore poeta e professore americano. Con il suo romanzo “Go”, pubblicato nel 1952, diventa il primo autore di una cultura beat. 4. Fernanda Pivano, saggio in Sulla Strada di Jack Kerouac, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1959, pp.369 5. Pablo Echaurren, Claudia Salaris, Controcultura in Italia 1967-1977: viaggio nell’underground, Bollati Boringhieri Editore s.r.l, Torino, 1999, pp 10 6. Fernanda Pivano, saggio in Sulla Strada di Jack Kerouac, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1959, pp.372 7. Fernanda Pivano, saggio in Sulla Strada di Jack Kerouac, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1959, pp.384 8. Fernanda Pivano, saggio in Sulla Strada di Jack Kerouac, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1959, pp.386 9. Fernanda Pivano, C’era una volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana, Editrice, Roma, 1976, pp.13 10. L’Antologia di Poesia: raccolta di poesie degli autori americani della beat generation curata da Fernanda Pivano e pubblicata da Arnoldo Mondadori Editore nel 1964. 11. I Sotterranei: romanzo scritto da Jeack Kerouac e pubblicato a New York nel 1958. 12. Fernanda Pivano, C’era una volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana, Editrice, Roma, 1976, pp.77

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fotografie 1. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.70 2. http://www.lindiependente.it/fernanda-pivano-america/ 3. http://www.doppiozero.com/rubriche/3/201406/tutto-sottsass 4. https://www.flickr.com/photos/vedodesign/31259909151 5. http://norman.hrc.utexas.edu/nyjadc/ItemDetails.cfm?id=460 6. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.117 7. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.78 8. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.74 9. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.112 10. Fernanda Pivano, C’era una Volta un Beat: 10 anni di ricerca alternativa, Arcana Editrice, Roma, 1876, pp.77

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2. Festa e musica: il linguaggio universale del mondo beat

“Al Fillmore East [13] la sera del giorno dopo c’erano magari mille o duemila ragazzi seduti nelle poltrone al buio, erano una montagna sussultante di stracci, capelli, barbe, baffi, ragazze, collane, croci, sciarpe intorno al collo, pareva il raduno di tutte le tribù indiane delle terre del sud-ovest […] santi, predicatori, nomadi hindu coperti di stoffe fiorite e asceti tibetani dentro a giacconi afgani o nascosti sotto le pelli fetenti delle pecore dell’Himalaya; silenziosi rivoluzionari pacifisti, tornati dalle manganellate prese a Chicago, alti come gli angeli con gli occhi nontiscordardime più dolci che si siano mai visti; anarchici con le unghie sporche, maglioni grigi troppo larghi, braghe cadenti e scarpe da tennis.”[14]

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La folla davanti al Filmore East (New York, 1969) [11]

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2.1

La musica: il luogo privilegiato della controcultura giovanile La caratteristica più straordinaria dell’insurrezione giovanile degli anni 60 è il forte e spontaneo internazionalismo: da Berlino a Berkeley, da Zurigo a Londra i ragazzi che vi si riconoscono mostrano tra loro una viscerale affinità, con aspirazioni, stile, gusti, stati d’animo e vocabolario comuni. I capelli lunghi sono la loro dichiarazione di indipendenza dalle regole degli adulti, e la musica pop diventa il loro esperanto. E’ infatti la musica, con il suo linguaggio universale, ad essere l’espressione che affratella i beat di tutte le nazionalità; dall’inizio degli anni sessanta i ragazzi cominciano a viaggiare all’estero, le mete più ambite sono Londra e gli Stati Uniti, da cui tornano con notizie, abiti variopinti, dischi, idee architettoniche nuove. Cominciano a nascere in Italia numerose formazioni musicali, i complessi, che si rifanno alla musica anglosassone e si cimentano nella realizzazione di cover, traduzioni e interpretazioni di brani altrui, già famosi o comunque sperimentati all’estero. I termini beat e capellone rimbalzano in molti motivetti dell’epoca, il pacifismo si afferma attraverso le canzoni dei Giganti che cantano La bomba atomica (1966) e Mettete dei fiori nei vostri cannoni. Intorno alla musica comincia a giocarsi una partita cruciale che vede fronteggiarsi coloro i quali la vorrebbero come

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Copertina di Tema dei Giganti (1966)[12]


un territorio franco e incontaminato, luogo privilegiato della controcultura giovanile e della più libera espressività, accessibile a tutti, quindi gratuita, e chi invece vi scorge la possibilità di impiantarvi attività imprenditoriali, anche innovative ma sottoposte alle leggi del denaro. Contro quest’ultimi il popolo sotterraneo si ribella; “Controcultura per noi significa vita alternativa; non esiste un giornale un complesso un film un manifesto alternativo se non è prodotto da una vita alternativa. […] Mettiamo in pratica la rivoluzione della coscienza, la rivoluzione psichedelica che serve ad abbattere gli schemi di vita imposti dal potere. […]” [15] Psychedelic (dal greco psichè, anima e deloo io mostro) è un neologismo inventato nel 1957 da dottor Humfry Osmond in una lettera a Aldous Huxley, per definire quelle sostanze che rendono manifesto il pensiero e lo liberano dalle sovrastrutture delle convenzioni sociali. I poeti scrivono testi che raccontano le loro esperienze psichedeliche, i viaggi mentali e li condividono nella speranza che altri viaggiatori riconoscano qualche punto di riferimento sul sentiero che ciascuno di noi traccia attraverso il cosmo, Copertina di Che colpa abbiamo noi dei The Rokes (1996)[13]

che ne sia consapevole o no. Sono queste le parole utilizzate dal poeta George Andrews per introdurre la sua

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poesia Sapore del Cielo, pubblicata in Italia nel 1968 sul numero 2-3 di Pianeta Fresco[16]: Il razzo dell’Lsd è stato appena lanciato, onde nel cervello viaggiano alla velocità della luce trafitte da tutte le stelle movimenti di liquido ardente mi sconvolgono sono in tutti i mondi insieme […] tutti i secoli sono vivi in me adesso tutto è qui adesso […] Il termine psichedelico diventa d’uso corrente anche in Italia assieme al diffondersi tra i giovani della familiarità con sostanze psicotrope. La finalità consiste nel raggiungere una trance collettiva, un mondo parallelo alla realtà, in cui droga, alcol e rock and roll diventano i simboli di una gioventù trionfante, liberà dai taboo della società dei consumi. Scrive P. Restany[17], in un articolo per Domus nel 1967; “Il rock and roll è il canto dei beatniks […]: è molto di più di una moda, di una musica, di un infatuazione stagionale. E’ una esplosione, una marea, un nuovo stile di vita.”[18] Il rock and roll fu, anch’esso, un’importazione dall’America:

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Patty Pravo in una serata al Piper (Roma 1969)[14]

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il modello è un duro, egoista Elvis Presley, il rocker USA n. 1. Il r’n’r’ del Re di Memphis, rappresenta la scintilla che ha scatenato il processo a catena, che ha dato vita a tutti i fenomeni che lo hanno seguito; dai Beatles a Bod Dylan, dalla pop art all’underground ma anche dalla contestazione giovanile ai grandi scioperi etc.

Scrive Andrea Branzi,

in un articolo per Casabella, pubblicato nel 1973: “Le contraddizioni del sistema esistono in permanenza, motivi per ribellarsi ce ne sono sempre stati a migliaia, tutti li conoscono e li vivono continuamente, eppure passano lunghi periodi di anni senza una voce o un moto di protesta sociale; nessuno possiede la forza di muoversi, di rompere quelle strutture del proprio comportamento che le morali estetiche ci costruiscono intorno, disponendoci alla passività. E’ questo il piano sul quale agiscono fenomeni di massa come il r’n’r’; lo scatenamento di una attività psicomotoria come il ballo pop, o il sesso come base di comunicazione spontanea, creano nella società o in una parte di essa una nuova libertà che diventa di giudizio e di movimento, e quindi carica politica nuova che muove alla distruzione di un equilibrio fittizio basato sull’inibizione”.[19] Un fenomeno come il rock and roll non propone un modello culturale da raggiungere, ne possiede un messaggio

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ideologico in codice; tuttavia esso fa compiere alcune azioni, alcuni movimenti, e alcune attività che sono di per se stesse terapeutiche. Ciò che fa il rock and roll va nella stessa direzione in cui va l’avanguardia del tempo: radicalizza nei fenomeni culturali la componente primaria, che è sempre spontanea. Il grido-ritmo del rock and roll, Yeah Yeah, divenne in Europa ye ye. Se Presley in America rappresenta il furore di vivere, come scrive Pierre Restany, in Europa si fa strada fra i giovani la personalità di Johnny Halliday nella sua corsa contro la noia e il vuoto; senza ideali, senza cultura, Halliday si pone come interprete della lotta istintiva, elementare della gioventù delle grandi città e delle fabbriche contro la noia di vivere.

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2.2

La Festa: il tempo del disordine

In alto, I Satelliti in concerto al Piper di Roma (Roma, 1966)[15] In alto, a destra Rita Pavone in concerto al Piper di Roma accompagnata dalla band inglese The Talismen (Roma,1965)[16] In basso, a destra Ragazzi al Piper di Roma (Roma, 1966)[17][18]

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Obiettivo primario della

ricerca dei giovani beat è la

rivendicazione del potenziale rivoluzionario del tempo libero, quel tempo depurato da ogni configurazione di alienazione; una trasformazione dunque del tempo libero in tempo liberato. Non si trattava del desiderio di un tempo vuoto insidiosamente minacciato dalla noia, piuttosto di un “tempo del disordine; ciò che rimanda alla festa, all’inversione, all’orgia, all’eccesso, alla libera espressione delle pulsioni dionisiache; a quel tempo che si riallaccia al non-tempo, al trascendente, al primordiale”

. E’ un fatto

[20]

che nei focolai della contestazione tipica di quegli anni, il desiderio di evadere dalla realtà era sfociato in una rivolta che di certo non escludeva il vitalismo, l’elemento ludico, la festa. Radicale è la visione del gruppo di architetti fiorentini 9999. Scrive a proposito Andrea Branzi: “la vocazione che il gruppo teorizza coerentemente è quella di smettere di lavorare per potersi dedicare totalmente a vivere” In generale i beat attribuiscono al “gioco” la massima importanza, convinti fermamente che il “ludo” arricchisca la vita ; è il “gioco” disinteressato ad essere creazione vera; è il “gioco” l’elemento costitutivo dell’underground. Musica, happening, modo di vivere, tutto risponde al senso ludico: tempo libero e identità dei giovani ruotano intorno alla

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musica. “Uno dei molti modi in cui i giovani si ritagliano uno spazio virtuale, rivendicandone la realtà era riempiendolo con la loro musica”.

[21]

I ragazzi si recano ai concerti, ai

club, vano a ballare per calarsi in quel mondo alternativo di cui sono costantemente alla ricerca Ad istituzionalizzare la pratica di ballare su dei dischi, a permetterne l’assimilazione culturale fu, negli anni 60, la nascita della discoteca; essa rappresentava il luogo della protesta contro la società, un rito di passaggio che segnava l’indipendenza dei giovani nei confronti di un mondo non condiviso. Più di qualsiasi altro fenomeno culturale di fine anni cinquanta e inizio anni 60, le discoteche simboleggiano la nuova cultura dei giovani: esse contribuirono ad aumentare la coscienza generazionale e con i loro raduni ad ampio spettro innescarono le prime fantasie di un movimento giovanile. I dischi erano l’asse simbolico attorno cui ruotava la nuova comunità dei giovani, una comunità beat che adesso ricercava spazi adatti alla propria forma di contestazione. Non è una storia che ha a che fare unicamente con suoni, ma coinvolge i cambiamenti dei rapporti tra economia e lavoro, le nuove ubicazioni e la trasformazione degli ambienti architettonici, il nuovo pubblico e le nuove professioni musicali; è l’architettura radicale a rispondere alle necessità della controcultura in Italia.

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2.

Riferimenti selezionati: testi 13. Fillmore East: locale inaugurato nel marzo 1968, situato nel quartiene East Village di Manhattan (New York), ospitò i principali artisti della scena rock del tempo. Ettore Sottsass vi fece visita durante la sua permanenza negli Stati Uniti. 14. Testimonianza di Ettore Sottsass in Discoteca 1968: l’architettura straordinaria, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp.11 15. (1972), Get Ready, 1 16. Pianeta Fresco: rivista underground e psichedelica curata da Fernanda Pivano, Ettore Sottsass e Allen Ginsberg, 17. Pierre Restany: nato nel giugno del 1930, è stato un critico d’arte francese. Egli ha partecipato attivamente ai dibattivi riguardanti la diffusione e l’evoluzione dello stile ye ye. 18. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 19. Andrea Branzi (1973), Radical Notes: Rock e rivoluzione, Casabella, n.374, febbraio, pp. 10 20. Alain Corbin e altri, L’invenzione del tempo libero (1850-1960), Gius. Laterza & Figli, Roma, 1996, pp.04 21. Sarah Thortnton, Dai club ai rave (musica, media e capitale sotto culturale), Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1998, pp.31

40


fotografie 11.https://foto.gettyimages.com/archive/historic/10-albums-that-capturethe-sound-of-the-fillmore-east/ 12. https://www.musicaememoria.com/Copertine-Beat-Italiano-2.htm 13. https://www.musicaememoria.com/Copertine-Beat-Italiano-2.htm 14. https://www.birikina.it/piper/ 15.http://www.corrierediroma-news.it/2015/02/20/piper-roma-compiemezzo-secolo-storia/ 16.http://ritapavoneinterview.blogspot.com/2015/09/at-piper-inrome-1965.html 17.http://curiosando708090.altervista.org/discoteca-piper-storia-foto-1965/ 18.http://curiosando708090.altervista.org/discoteca-piper-storia-foto-1965/

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3. Il design per risvegliare la creatività

“Abbiamo pensato ad uno spazio che avvicinasse le persone a certi fatti veri e falsi della vita, che si snodasse come un lungo viaggio disordinato, chiaro, incoerente, brutale, dolce, ma vero come le esperienze della vita. E questo è stato fatto prendendo in considerazione gli elementi propri del nostro mondo, oggetti che la società odierna ama, disprezza o ignora, ponendoli in un ordine tale da essere indicazione e suggerimento della realtà e verità delle cose, per dare la possibilità alla società di viverle, capirle, meravigliarsi, ribellarsi, ricordare e dimenticare”.[22]

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No Stop City, Archizoom (1970)[19]

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3.1

Un’architettura Big Bang

Radicali erano i locali, i club che negli anni 60’ si posero in contrapposizione con l’architettura delle tradizionali sale da ballo, i cui interni erano gli stessi da anni e i cui modelli di eleganza erano di tipo aristocratico o, addirittura, ottocentesco; Radicale era l’ attitudine, inizialmente forse inconscia che, in seguito alla scoperta di numerose metodologie nel design, portò la dimensione professionale architettonica a perdere i suoi connotati tradizionali, per dedicarsi ad un’attività più innovativa, un rinnovo di tutti i parametri dell’architettura. L’obiettivo era scrivere una pagina nuova, inedita, della storia dell’architettura italiana, che difatti diventa una componente della storia sociale, partendo dal contesto politico e culturale di quegli anni senza il quale non si potrebbe parlare di “Architettura Radicale”. Le rivolte studentesche per una migliore didattica nelle università e le conseguenti occupazioni, gli scioperi degli operai, l’ondata rivoluzionaria proveniente dal campus californiano di Berkeley, il People Park, la nascita della Pop Art in Inghilterra, la crisi dell’architetto dopo la fine del Movimento Moderno, la de-strutturazione del linguaggio, l’attraversamento disciplinare tra arte, architettura, musica, teatro e letteratura, hanno determinato quel sottofondo culturale nel quale è nata l’avventura radicale.

Superarchitettura, manifesto realizzato da Archizoome e Superstudio (Pistoia,1966)[20]

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Più che il termine rinnovo, si dovrebbe utilizzare il termine rifiuto: una condizione che legittimava la libertà da un fondamento logico del lavoro, rendendo possibile il recupero di una dimensione che esprimeva indipendenza e, dunque, invenzione. “L’invenzione, come fatto emergente capace di modificare dinamicamente l’insieme, scardina i vecchi modelli di comportamento e ne propone di nuovi: suggerisce gli sviluppi pur senza contenerli. L’invenzione fornisce gli utensili per la costruzione delle nuove idee”.[23] Come il giovane beat, l’architetto radicale non combatte battaglie, non cerca di demolire il mondo architettonico precostituito: il rifiuto non è la negazione di

un ruolo,

piuttosto si tratta di una riscoperta, un’ inversione dei termini, una maniera di riscoprire l’architettura, attraverso la sua concettualizzazione e ideazione prima della realizzazione. Presso la Facoltà degli Studi di Firenze, alcuni professori, come Leonardo Savioli e Adolfo Natalini, convengono con i loro studenti che il segno sia solo uno delle componenti del processo artistico e che l’emozione sia essenziale poiché rappresenta Superarchitettura, manifesto realizzato da Superstudio (Modena, 1967)[21]

l’interpretazione

della

contemporaneità,

il tentativo di assimilare i fermenti della cultura più innovativa in ogni campo dell’espressione artistica, di

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tutte quelle esperienze che, nella scena internazionale, portavano avanti una nuova idea di spazio. Ciò contribuì a consolidare la convinzione che il progetto avrebbe dovuto includere fenomenologie di natura e linguaggio sociale, mediate dalla ricerca portata avanti dalle arti visive (Pop Art, Arte Concettuale, Arte Comportamentale): essa non avrebbe più dovuto coincidere con il semplice valore del segno o dell’oggetto finito, piuttosto con una sequenza di azioni e di esperienze, una serie di frammenti che ottenevano unità e coerenza tramite l’uso. Numerosi erano i metodi di composizione che l’architetto radicale poteva assumere dalle arti visive e utilizzare in maniera non solo demistificatoria o ironica, ma prima di tutto creativa. Spaesamento, trasposizione di scala, assemblaggio, montaggio,

scomposizione,

ripetizione,

iterazione,

contaminazione rappresentavano i nuovi termini e stimoli che hanno dato alla progettazione lo scatto necessario per passare da materia di studio o da routine professionale ad azione creativa e attiva. Quello che Adolfo Natalini definisce come un processo pop sottolinea la necessità di prendere consapevolezza di tutte le possibilità che si offrono nel mondo contemporaneo

all’architettura e di

acquistare così l’elasticità e la ricettività necessarie ad

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Istogrammi di Architettura, Superstudio (1969)[22]

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48


Monumento continuo, Superstudio (1969)[23]

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utilizzare qualsiasi cosa per un discorso autonomo. Si portava avanti a Firenze, non tanto l’idea di un’architettura integrata, quanto di un’architettura interdisciplinare. Nella strutturazione di uno spazio o di una forma era in atto una sorta di rifiuto dell’uso dei mezzi propri: l’azione progettuale vera e propria consisteva nel riconoscere propri i mezzi altrui, nel trovare fuori dallo spazio i motivi stessi di spazio. “Lo spazio non è immagine definitiva, simbolica, tipologica, ma diviene immagine allusiva, evocativa, pretestuale […] Un’immagine, perciò, che viene consegnata per ogni possibile interpretazione”.[24] Ciò che appariva veramente innovativo era proprio la trasformazione dell’architettura in immagini e la demistificazione volontaria del progetto come strumento, una contaminazione linguistica che rifletteva la radicalità dell’impalcatura concettuale. Le nuove immagini di spazio propongono ora una condizione più attiva dell’utente , richiedono una diversa idea della durata stessa delle strutture che costituiscono lo spazio architettonico e un diverso tipo di rapporto verso ogni genere di oggetto. Scrive Leonardo Savioli: “Lo spazio mi sembra debba perdere del significato simbolico tradizionale; debba perdere del significato di convinzione di un’immagine definitivamente

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Fotoromanzo: Utopia, Gruppo Strum (1972)[24]


costituita, della normatività di un messaggio il cui cifrario è consegnato e conosciuto fin dall’inizio, della indiscutibilità di un’immagine da imprimersi definitivamente nella memoria, dell’autorità, infine, di un’immagine tipologica” [25] Si trattava di sbloccare fin dall’interno la fissità, la schematicità dello spazio architettonico, in cui l’utente si veniva a trovare nella condizione di dover subire tutto ciò che di predisposto, preordinato, fissato e precostituito gli veniva di volta in volta somministrato. E ciò valeva sia al livello urbanistico, che nel design, in cui l’oggetto singolo, isolato da un contesto più generale, si è raffinato, impreziosito, acquistando significati diversi e ambigui. La radicalità manda in rovina i confini interdisciplinari e le barriere spaziali e temporali: essa legittima l’uso di molteplici linguaggi, anche di quelli che erano stati allontanati dai progetti più tradizionali. Oggi possiamo dire con certezza che il radical fosse un utopia. Utopia è la parola corretta se ciò di cui vogliamo parlare è un processo di reazione costruttiva che coinvolge la necessità di un’ analisi critica, di nuovi riferimenti, e di valori formali che trascendono la pura geometria e UFO, manifesto (1967)[25]

considerano ogni linguaggio legittimato nell’ambito del design. Un processo di rinnovo che portò, e che ancora

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porta, coloro che provenivano dal mondo delle arti visive a strutturare la ricerca spaziale tramite l’uso degli strumenti dell’architettura e, viceversa, coloro che si erano formati come architetti ad utilizzare gli strumenti delle arti. Fu l’Utopia che rese possibile omogeneizzare sempre più il campo comune della sperimentazione nel mondo disciplinare delle arti visive. Con le parole di Andrea Branzi: “L’Utopia era strumentale, scientifica; non presenta un mondo che è differente da quello corrente; piuttosto essa rappresenta il mondo attuale ad un livello cognitivo superiore”[26] L’influenza era quella della pop art, ma più in generale questa era connessa con la cultura dei giovani del tempo e alla necessità di formulazioni architettoniche che si differenziavano più nei termini del linguaggio che dei contenuti. Un ruolo fondamentale nella definizione delle nuova architettura fu svolto da Ettore Sottsass che, attraverso il suo pensiero e la sua creatività, fu il primo ad interpretare l’arte e l’architettura “come inno alla felicità e alla comprensione della vita”[27]. La sua ricerca artistica, etica ed esistenziale, tesa alla continua sperimentazione, si

Metafore, vuoi guardare il

accompagnava ad una poetica ironica e gioiosa, capace di

muro?... O vuoi guardare

domandarsi e investigare sul perché delle cose. Fu questa

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la valle? di Ettore Sottsass (Travertel, 1973)[25]


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sua nuova sensibilità progettuale, questa continua ricerca di zone inesplorate della coscienza e l’intuizione che il colore potesse tradursi in spazio, che avvicinò Sottsass alla visione liberata della filosofia psichedelica che, attraverso una visione non acritica della realtà, stava introducendo percorsi alternativi di ricerca. L’Arte Psichedelica proponeva più di un rimando alle tendenze artistiche visionarie della tradizione classica; Arti primitive e orientali, Art Nouveau, Simbolismo, Surrealismo, tutte correnti accomunate da una volontà di esprimere le manifestazioni della psiche. Essa si pose come uno strumento di comunicazione attiva dall’immaginazione, mappa della coscienza, in cui la creatività si manifesta sempre come valore estetico delle sensazioni atto a trasmettere, mediante simboli, la potenza e la sacralità della Bellezza. Il più grande contributo che Sottsass lasciò al mondo architettonico, radicale, beat è un’attitudine ad essere consapevoli attraverso l’arte, attuando sempre delle scelte coscienti e liberatorie. Scrive l’architetto in un articolo apparso su Domus, Milano, n. 484: “Quindi mi pare che il problema sia di trasferire nel disegno

In alto, Superonda Poltronova, Achizoom(1967)[26]

degli strumenti che vengono via via a popolare sempre più la nostra esistenza, l’immagine dei processi con i

In basso, Luna Park permanente

quali il corpo umano aderisce meglio e si espande meglio

Branzi (1966)[27]

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a Prato, Tesi di laurea di Andrea


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negli ordini cosmici e di aiutarlo invece a liberarlo dalle costrizioni, deformazioni, manipolazioni e condizionamenti cui è sottoposto con la scusa della falsa organizzazione sociale e delle false realtà politiche. Mi pare che questa possa essere la vera e ultima funzione del design. Una funzione terapeutica”. [28] Non si può parlare di un vero e proprio movimento radicale: si può parlare di Archizoom, Superstudio, 9999, UFO, ZZiggurat, Gruppo Strum e dei singoli designers Ettore Sottsass, Remo Buti, Gianni Pettena, i fratelli Capolei. Come i Beatles e i Rolling Stones in ambito musicale, essi contribuirono, attraverso le loro opere che esplodevano con energia, a rivoluzionare le tradizioni architettoniche del tempo e degli anni a venire. Alcuni di questi autori definirono i loro lavori come utopie negative, nella misura in cui mettevano in scena palinsesti urbani volti a monitorare e avvertire l’imminente alienazione dell’uomo, la commercializzazione, la normalizzazione del pensiero, un mondo che era completamente uguale e ripetibile, freddo, senza emozioni. La forza di queste opere risiedeva precisamente nella loro sfacciata messa in scena delle contraddizioni e dei conflitti di quegli anni; la loro attualità e ricchezza risiedeva nel fatto che queste fossero suscettibili

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a numerose interpretazioni e significati, senza perdere mai la loro carica esplosiva. Una sorta di architettura Big Bang[29] che continua a farsi strada oggi, mentre tiene vivo il chaos delle proprie origini, scintille che accendono fuochi anche dopo molto anni, opere che tendono a farsi strada nel tempo, per fungere da letto caldo per le idee future.

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3.2

Radical è beat

L’uomo, l’utente non è più solo fruitore del progetto a lui destinato, ma ne diventa protagonista attivo: è questa la risposta che l’architettura e il mondo radical danno alla ricerca di senso, operata dai giovani negli anni 60. Alla necessità di definire la propria individualità, creatività e indipendenza, gli architetti radicali rispondono dando vita ad un nuovo modo di fare architettura in cui niente è definitivo, in cui l’invenzione risulta slegata da qualsiasi confine. Affascinati dall’esuberanza della Pop Art, dalle utopie tecnologiche inglesi e austriache, a fianco di un numeroso gruppo di artisti e intellettuali che in quegli anni lavoravano a Firenze, gli architetti radicali cavalcarono l’onda dell’originalità, del divertimento e dello spasso che rompeva con tutti gli schemi della tradizionale e spenta cultura. Cresciuti dall’arte contemporanea, dalla musica sperimentale, dal teatro, dalla performance, dall’idea di viaggio non da turisti ma da esploratori dell’antropologia, dai grandi festival giovanili che professavano pace e amore, gli architetti radicali erano essi stessi i capelloni, la gioventù bruciata, i beat e cercavano di essere gli interpreti di un nuovo mondo e di una nuova comunità che lottava per il diritto alla felicità per tutti.

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Umberto Eco in pasto agli UFO (1968)[28]

59


Come i giovani beat, il loro obbiettivo era voltare pagina, inviare onde d’urto contro la rispettabilità del piccolo borghese

attraverso

opere

irriverenti,

sarcastiche,

deliberatamente ironiche nei confronti di una società che era bianca o nera, grigia, anacronistica, austera. Lontani dal nuovo ruolo demiurgico dell’architetto in quanto erudito liberatore delle masse, la riforma portata avanti dai radicali era piuttosto una rivoluzione interamente personale, determinata dalla costante pratica svolta in prima persona per rimodellare e sottoporre a revisione l’attività professionale dell’architetto. Usando le parole di Laura Chiesa, essi compirono “il più grande cambiamento possibile tramite l’uso di mezzi tradizionali di espressione”[30]; con la massima consapevolezza e interrogandosi sulla relazione tra il lavoratore e il consumatore, dimostrarono di saper sfruttare la potenzialità dei materiali e delle nuove tecnologie, grazie all’ esser liberi dalle controversie e dalla necessità di dimostrare il loro ruolo nel rispetto del passato; hanno avuto il merito di rompere con l’idea di un soggetto dell’architettura come un elemento autonomo e isolato, e di aver ricondotto l’architettura al cuore del mondo artistico. Sull’esempio di Kerouac gli architetti radicali viaggiano

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Ettore Sottsass al suo tavolo di lavoro[29]

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molto, alla ricerca di nuove esperienze, curiosi di conoscere nuove culture, nuova musica, nuovi modi di intendere l’architettura: da New York a San Francisco, da Londra a Parigi il viaggio diventa per loro il mezzo di scoperta e indagine del mondo; esempi ne sono i viaggi di Mario Preti e Carlo Caldini in India e negli Stati Uniti, la permanenza di Fabrizio Fiumi in California in contatto con la comunità hippie, il soggiorno di Ettore Sottsass e di sua moglie Fernanda Pivano a New York. Di fatto, l’obiettivo del progetto non era tanto il prodotto finito, quanto il processo in sé, l’esperienza e l’arricchimento che da questo derivavano: d’ora in poi il design avrebbe riguardato solo la realizzazione personale e la soddisfazione delle proprie ambizioni. I ruoli specifici erano stati aboliti: l’architetto era adesso contemporaneamente il designer, il costruttore e il fruitore dello spazio da lui progettato. In alcuni casi si associava la figura del designer a quella del farmer: il contadino rappresentava nelle immagini di propaganda colui che interveniva direttamente con il proprio lavoro sullo spazio che lo circondava, che egli organizzava e progettava in base ad una propria cultura generata dall’esperienza diretta e dalla pratica artigianale, e che egli sfruttava per il proprio sostentamento. Come scrisse Carlo

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Caldini ironicamente nelle pagine di Architectural Design: “Noi siamo architetti terribili. Noi non abbiamo clienti. Non avremmo potuto continuare così abbiamo aperto una discoteca che ci avrebbe dato da vivere. La miseria che siamo riusciti a guadagnare ci ha permesso di fare ciò che volevamo come architetti.”[31]

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3.

Riferimenti selezionati: testi 22. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 23. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 24. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 25. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 26. Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadori, Radical Utopias (Archizoom, Buti, 9999, Pettena, Superstudio, Ufo, Zziggurat), Quodlibet Habitat, Firenze, 2017, pp. 27. Francesca Caputo, Pianeta Fresco: L’anima psichedelica di Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, Archivio Carta Stampata 28. Ettore Sottsass, (1970), Memoires di panna montata: arcobaleno su Londra, Domus, n. 484, pp. 33 29. Def. di Gianni Pettena 30. Def. di Laura Chiesa 31. Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadori, Radical Utopias (Archizoom, Buti, 9999, Pettena, Superstudio, Ufo, Zziggurat), Quodlibet Habitat, Firenze, 2017, pp.

64


fotografie 19. https://architizer.com/blog/practice/details/archizoom-retrospective/ 20. http://iedmaster.com/2016/07/20/superstudio-50-mostra-maxxi/ 21. http://www.arengario.it/opera/superarchitettura-2834/ 22. https://theartstack.com/artist/superstudio/istogrammi-d-architettur 23.http://www.concematic.com/2016/09/06/superstudio-monumentocontinuo/ 24. http://quaderns.coac.net/en/2013/06/struggle-for-housing/ 25. http://www.edueda.net/index.php?title=UFO 26.http://www.frac-centre.fr/auteurs/rub/rubinventaire-detaille-90. html?authID=180&ensembleID=861 27.http://www.lastampa.it/2015/02/25/cultura/colleghi-designer-ilpericolo-il-nostro-mestiere-r2oTP5M5vMHMx9HR8FaggL/premium.html 28.http://www.artribune.com/report/2012/10/oggetti-non-identificatiatterrano-a-prato/attachment/umberto-eco-in-pasto-agli-ufo-1968/ 29.http://www.floornature.it/mostra-ettore-sottsass-oltre-il-designparma-13382/#

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4. Dalla teoria alla pratica nel radical: le discoteche

“ […] Si stava molto bene isolati e soli dentro alla gigantesca sfera materiale di suono che arrivava addosso vibrante come una valanga d’acqua; pareva di essere sottomarini in viaggio ventimila leghe dietro al suono, una cosa del genere, con i musicanti che erano statue grigie sparse sul palcoscenico tra gli armadioni cromati degli altoparlanti che ci scatenavano contro, toccando le loro corde elettroniche e i loro soprannaturali tamburi elettronici, ondate asfissianti di boati, lasciandoci disarmati e soli in quel fragore, come sordi, senza possibilità di comunicazione con la superficie, soli con la misura che si riusciva a cogliere di noi stessi e dello spazio sonoro”. […] Era qui, sulla sponda orientale che finalmente mi sentivo bene, mi andava via la paura, ogni paura: qui mi sentivo nel centro dell’unico modo possibile di vivere”.[32]

66


L’Altro Mondo, Gruppo Strum (Rimini, 1967)[30]

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4.1

Architettura come arte dell’inventare

E’ nello spazio pubblico che si confrontano gli artisti e gli architetti radicali, ma c’è un luogo che rappresenta l’unica possibilità per un architetto degli anni Sessanta di esprimere il concetto di modernità: la discoteca, uno spazio indipendente per un libero e autogestito intervento, che consentiva alla nuova figura del progettista di non dover più rapportarsi con commissioni e offerte. L’architetto poteva agire liberamente in quanto era esso stesso il committente e il fruitore del suo spazio; al contempo i giovani beat che vi si recavano, trovavano nel locale il loro luogo di evasione dalla realtà contestata, raggiungendo quella libertà che tanto cercavano. Discoteca negli anni 60 significava libertà e creatività: “Avevo la fortuna di non sapere che differenza ci fosse tra creazione e progetto. Mi sfuggiva uno dei grandi problemi di identità dell’architettura […] non capivo la correlazione che legava la creazione alla sua epoca. Solo oggi imparo e condivido quell’ architettura che è definita come l’arte dell’inventare, disporre e ben costruire gli edifici. L’edificio di cui ti parlo è la discoteca. Mario, intuisci la formidabile chance? Ero entrato in un’architettura dove

In alto, Sala da Ballo Lutrario,

il visibile, il classificabile, gli oggetti sono solo confini al

Carlo Mollino (1962)[31]

cui interno si produce l’identificazione, l’equivalenza tra l’artista e l’estimatore dell’arte, dove il costruito, l’inventato

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In basso, L’Altro Mondo, Gruppo Strum (1966)[32]


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ed il ben disposto dall’architetto sono il suolo su cui tu ed io avremmo potuto essere gli architetti della nostra vita, artisti, antenne paraboliche o qualunque altra cosa […]”[33] Sono queste le parole con cui Fulvio Ferrari descrive la sua visita al Piccolo Night Grifone, progettato dagli architetti Cesare Casati ed Emanuele Ponzio nel 1968. La progettazione o meglio l’ideazione di una discoteca rispondeva alla necessità degli architetti radicali di “fare ogni oggetto con il più alto grado di creatività possibile” e, quindi, di “inventare”.[34] Contemporaneamente, erano gli anni dell’esplosione del rock and roll e, anche in Italia, era il “complesso” a far spettacolo da sé; la formula yè yè collettiva cominciò a porre il problema del locale, dello spazio ideale per la sua manifestazione. Il rock ricercava la saturazione fisica e uditiva, l’ambiente surriscaldato, gli effetti di luce e di ombra. “La boite ye ye esigeva un’architettura ye ye”[35]. Nel 1967 i concerti non erano più solo concerti. Fedeli alla filosofia sinestetica della psichedelica, gli spettacoli di molte band diventano degli happening, delle esperienze multisensoriali dove la musica e i musicisti sono parte di

Articolo di Casabella:

mescolanze di luci, proiezioni, performance e visioni. I club

Spazio di Coinvolgimento,

del tempo risultavano troppo esclusivi e non bastavano

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Savioli e Natalini (Firenze 1967)[33]


più: occorreva creare lo spazio volumetrico per la trance collettiva. Non bastavano più i lenti, il liscio oppure qualche timida imitazione di shake americani. I ragazzi pretendevano di sfogare non solo con la rabbia, ma anche con la gioia, la loro voglia di cambiamento. Il successo dei Piper, di questi “pifferai” incantatori, aperti in quegli anni in Italia corrispondeva a questa esigenza. Ogni architetto radicale si cimenta nella realizzazione di

questi

spazi

all’avanguardia;

il

cuore

della

sperimentazione è, anche in questo caso, Firenze, grazie al corso di Arredamento e Architettura degli Interni, tenuto dall’architetto Leonardo Savioli, che fa suo il tema della discoteca (Piper) insieme all’assistente Adolfo Natalini, membro fondatore dei Superstudio. Il suo corso aveva come scopo principale la progettazione di un locale per la “ricreazione e lo spettacolo del tutto particolare: un Piper cioè, da ubicarsi alle Cascine di Firenze”.[36] Il progetto di questo ambiente permetteva di destreggiarsi con tematiche architettoniche complesse come l’impiego di nuovi materiali, di nuovi mezzi di percezione e comunicazione, di nuove Articolo di Casabella:

metodologie di progettazione. I temi affrontati erano vari; la

Spazio di Coinvolgimento,

realizzazione di spazi flessibili e polifunzionali e il rapporto

Savioli e Natalini (Firenze 1967)[34]

tra i centri storici cittadini e le necessità della cultura di

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massa. Fondamentali furono gli stimoli provenienti dai corsi universitari nella formazione dei futuri designer radicali; tuttavia la loro opera sarebbe stata influenzata anche dai loro molteplici e vasti interessi, oltre che dai mutamenti in corso in campo sociale che inevitabilmente si

rispecchiavano

nell’ambito

della

progettazione

architettonica e della produzione dell’oggetto. Saranno alcuni tra gli allievi di Leonardo Savioli, gli architetti Capolei, gli autori del primo Piper in Italia, aperto a Roma nel 1965. I Superstudio realizzano nel 1967 il Mach2, mentre i 9999 saranno gli autori nel 1969, della discoteca più nota, lo Space Electronic che gestiscono ospitando concerti di gruppi emergenti inglesi, happening e performance del teatro sperimentale. La disco Bamba Issa degli UFO apre a Forte dei Marmi, ispirata dal fumetto di Topolino del 1951 Paperino e la clessidra magica, il ristorante Sherwood a Firenze, la boutique Altre Cose con annessa la disco Bang Bang di Ugo La Pietra vengono inaugurate a Milano. Il Piper di Torino (1966) progettato e gestito da Pietro Derossi, diventa un ritrovo per l’Arte Povera. E’ in questi luoghi che gli architetti sperimentavano i numerosi metodi di composizione ereditati dalle arti

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Spazio di Coinvolgimento, lavori degli studenti di Savioli e Natalini (Firenze,1967)[35]


73


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Da sinistra a destra, Il Piper di Viareggio, Francesco e Giancarlo Capolei, Manlio Cavallo (Viareggio,1970)[36][37] Discoteca Bambanella, Studio 65 (Dubbione di Pinasca,1972)[38][39] In basso, L’Altro Mondo, Gruppo Strum, (Rimini, 1966)[40]

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visive. Molto spesso venivano utilizzati oggetti tolti dai loro contesti abituali e riproposti in scale differenti per caratterizzare gli interni (spaesamento); pezzi di lavatrici, frigoriferi ecc. che, riproposti nel mezzo di una grande sala, tramite assemblaggio, venivano uniti tra loro instaurando nuove

relazioni

e

stimolando

nuove

associazioni

mentali. Attraverso la ripetizione e iterazione gli elementi assumevano una precisa serialità e nuovi rapporti ritmici in un’ottica macchinista: un insieme di oggetti relazionanti e relazionati era l’anima della ricerca. Lo spazio e gli oggetti dell’architettura non erano più definiti solo dalla loro geometria, ma anche dalla loro neutralità “che permetteva a te di progettare con le tue capacità creative, di proporti, di sperimentare la tua comunicazione al mondo”[37] . Andrea Branzi a molti anni di distanza avrebbe parlato di un modello spaziale che “consisteva in un’ immersione in un fluido continuo di immagini, lampade stroboscopiche, musica stereofonica ad altissimo volume, fino a raggiungere una sorta di straniamento totale del soggetto che, ballando, perdeva progressivamente il controllo dei propri freni inibitori, avanzando verso una sorta di liberazione psicomotoria. Essa non significava per noi una integrazione passiva nei consumi sonori e negli stimoli visivi, bensì una

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liberazione di tutti i potenziali creativi dell’individuo”.[38] Anche nel caso del Piper si poteva dunque parlare di opera aperta in cui l’utente poteva essere fruitore e ricevitore allo stesso tempo. L’architettura si adopera ora a modificare il ruolo del corpo umano; elettricamente esteso e sempre più desideroso di raccogliersi nella stereo estasi dell’alta fedeltà musicale, il corpo umano partecipava direttamente a definire il senso del posto che occupava, come presenza fisica motrice , come corpo in grado di adattare l’ambiente su se stesso e non più viceversa. La finalità era quella di creare uno spazio in cui il fruitore potesse agire direttamente sulle sue componenti; nel quale cioè potesse essere lui stesso a contribuire nel modificarne l’aspetto e lasciarvi così impressa la propria impronta. Allo spazio interno delle discoteche, liberato dai suoi vincoli fissi e tradizionali, si poteva ora attribuire capacità di continua, variabile testimonianza degli atti della esistenza quotidiana. Questi interni venivano utilizzati per ospitare gli eventi più diversi; dalle serate all’insegna del progressive rock nazionale e internazionale alle mostre d’arte, dalle lezioni sulla nuova architettura alle performance del Living Theatre[39]. Piuttosto che delle vere discoteche, esse erano dei punti di incontro per i giovani, accomunati dai

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sentimenti, le passioni e gi stili di vita propri della loro comunità, la comunità beat. I nomi nuovi che si sentivano nella musica e gli arredi rinnovati rappresentavano la costante ricerca di questi locali di liberarsi dalla tradizione; negli anni 60 la discoteca non solo rifiutava le fantasie aristocratiche della sala da ballo, ma sorpassava anche la distinzione gerarchica tra queste e i nightclub dell’elite. La discoteca, ancora una volta dando voce allo spirito della cultura giovanile, era considerata priva di distinzioni di classe, un luogo egualitario in cui “era lo stile di vita a rendere unici i giovani, non i soldi, né il potere o la posizione, il talento o l’intelligenza… i vestiti sono arrivati a simboleggiare la loro indipendenza da un’idea di vita basata sulla successione dei lavori”.[40]

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Discoteca Bamba Issa 2, UFO (Forte dei Marmi, (1970)[41]

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4.2

Il design della tecnologia: un’esperienza sensoriale completa Il riferimento erano i locali internazionali; gli architetti, così come i giovani, si recavano nelle capitali dell’underground per visitare questi locali da cui rimanevano colpiti e conquistati e di cui riprodussero la forza e la vitalità nelle città italiane. In alcuni casi si trattava di stanze cupe, cantine, in altre di chiese smesse. Carlo Caldini e Fabrizio Fiumi, progettisti dello Space Electronic, rimasero scioccati dalla loro esperienza all’Electric Circus di New York; qui Rudi Stern, artista eclettico e visionario, sperimentava una nuova forma d’arte, l’Arte Multimediale, caratterizzata dalla compresenza e interazione di più linguaggi (testi scritti, immagini, suoni, giochi di luce e animazioni) in uno stesso supporto. Fulvio Ferrari riporta la testimonianza di Ettore Sottsass presso il Paradiso di Amsterdam: “Percettibile, vivace, creativo, disposto ed inclinato ad uno spazio che non si misura in mq né in ordinate, il Paradiso, immenso, offriva musica, pavimento per ballare, giornali, fumo, amore, torta all’hashish e luci. Il Paradiso era l’estrema possibilità della discoteca, ne era il confine realizzato con l’architettura staordinaria che Sottsass Indagava”.[41] In Wardour Street, a Londra, la “Discoteque”, il nuovo juke-box stereo in grado di diffondere musica ad alto volume con una minima distorsione, era illuminata molto

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Articolo di Casabella: Breve Storia dello Stile ye ye, P. Restany (1967)[42]


debolmente, malinconica, con una serie di letti matrimoniali sparsi qua e la sulla pista. Il The Place di Hanley, sempre in Inghilterra, era illuminato da luci rosse e interamente decorato in nero con l’eccezione dell’entrata, le toilette e una saletta che era dipinta di bianco e illuminata con luce blu, chiamata the fridge. Si trattava, sia in Italia che all’estero, di locali le cui pareti venivano bombardate di immagini, diapositive, spezzoni di film e liquidi colorati, mentre si alternavano musica dal vivo e musica registrata; l’effetto era un coinvolgimento totale di musica, immagini e azioni. Numerose erano le soluzioni formali innovative: la frammentazione della percezione visiva e l’alterazione delle relazioni spaziali, temporali e dimensionali, illusioni ottiche, varietà di forme particolari che mutavano in maniera caleidoscopica, la preferenza per un segno grafico fluido e curvilineo, l’esplosione di colori acidi, intensi e cangianti che deformavano l’immagine per rappresentarne la carica emozionale. Il pubblico si trovava davanti ad un uso rivoluzionario del colore; magenta, zafferano, turchese, oro, arancione facevano da sfondo a questa esperienza psichedelica. Articolo di Casabella: Breve Storia dello Stile ye ye, P. Restany (1967)[43]

Ciò che, tuttavia, rendeva realmente innovativi questi spazi era un uso totalmente nuovo delle tecnologia: la

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Video proiezioni, Piper di Roma, (Roma, 1966)[44]

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Visita di Carlo Caldini all’ Electric Circus di New York (1965)[45]

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traiettoria seguita dalle discoteche era diventata quella di moltiplicare le cose da vedere. La luce, in particolare, era diventata un elaborato accompagnamento della musica, di cui sottolineava il ritmo e illustrava gli accordi. A volte, i raggi colorati sfrecciavano per la pista e i flash delle strobo decoravano la gente, dando vita ad un grande spettacolo; a volte i laser saettanti e le figurazioni luminose generavano dei veri e propri fenomeni ottici. I Frattali generati al computer e altri disegni astratti di luce colorata potevano fungere da equivalenti visivi dei suoni della vita quotidiana, mentre film mandati in loop, proiezioni di diapositive e videoclip inframezzavano lo spazio con effetto figurativo. Tutto si giocava in un’atmosfera di luci, wood e ombre. Scrive Lillian Roxon[42] nella sua Rock Encyclopedia: “Mentre la musica scorre, lo stesso fanno la luce ed il colore, di solito su di un largo schermo sopra e dietro i musicisti, spesso sugli stessi musicisti e sul pubblico e le pareti e il soffitto, abbattendo un’ulteriore barriera tra spettacolo e spettatori […]. I light show usavano meccanismi di ogni genere – film, diapositive, luci stroboscopiche, faretti, vernici a olio che vorticavano dentro piatti pieni d’acqua – in ogni sorta di combinazioni. Hanno fatto a livello visivo ciò che il Rock ha fatto a livello musicale: espandere la coscienza e riprodurre

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meccanicamente e in modo più innocuo, ciò che l’LSD, la mescalina e altri allucinogeni facevano chimicamente”[42] Annullando la contrapposizione tra pieno e vuoto, lo spazio interno acquistava una nuova dimensione esistenziale capace di coinvolgere totalmente il suo fruitore ponendosi come campo d’esperienza. Le discoteche sono state un tentativo di offrire un’esperienza sensoriale completa, spesso intensificata dal ricorso all’alcool e/o alle droghe in quella che, dai giovani beat, veniva definita come una trance psichedelica. Scrive Fulvio Ferrari: “ti riducevi ad atomo allo stato nascente, vibrante, nato in quel momento e caricato di un polo elettrico in forte tensione. Allora tutta la “fabbrica del Duomo” si condensava e scattava la tua creazione. Quella che gli architetti ti avevano apparecchiato con spazio speciale, con mobili trasparenti, con energie luminose sparse per tutto lo spettro del visibile, con neon eccitato ed i raggi violetti del Wood fuori fuoco. Perché l’incantesimo del progetto della discoteca è disegnare un territorio simbolico che sta sotto, sotto il nostro conscio, dove ti immergi nel fluido delle tue origini che non sai, dove la magia delle luci e dei suoni che ti stralunano è parte del progetto a cui nessun politecnico inizia.”[43]

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4.

Riferimenti selezionati: testi 32. Ettore Sottsass, Al Fillmore East dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 11 33. Fulvio Ferrari, Lettera a Mario dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 18 34. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 35. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp. 34-44 36. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 37. Fulvio Ferrari, Lettera a Mario dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 20 38. Andrea Branzi, La casa calda, Idea Books, Milano 1984, pp.55. 39. Living Theatre: compagnia teatrale sperimentale contemporanea, fondata a New York nel 1947 dall’attrice statunitense Judith Malina, e dal pittore e poeta Julian Beck, esponente dell’espressionismo astratto newyorkese. 40. Sarah Thortnton, Dai club ai rave (musica, media e capitale sotto culturale), Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1998), pp.75 41. Fulvio Ferrari, Lettera a Mario dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 18 42. Letizia Bognanni, Grande angolo, sogni stelle”: storia del concerto più assurdo mai visto su un palco italiano, rock.it, 2016 43. Fulvio Ferrari, Lettera a Mario, Parma, 1989, pp. 22

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fotografie 30. https://www.rockit.it/articolo/radical-disco-architecture-italy-icalondon 31. http://www.leroi.torino.it/contents/index.php/dal-cinema-al-dancing 32. https://www.curbed.com/2015/12/4/9894308/italian-radical-disco-ica 33. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 34. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 35. Leonardo Savioli, Adolfo Natalini (1968), Spazio di Coinvolgimento, Casabella, n. 326, luglio, pp. 32-45 36. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 37. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 38. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 39. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 40. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 41.https://www.domusweb.it/it/design/2017/11/14/utopie-radicali-10-annidi-progetti-rivoluzionari-in-mostra-a-firenze.html 42,43,44. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 45.https://www.brooklynbowl.com/blog/uncategorized/a-history-of-newyears-eve-concerts-in-new-york-that-you-need-to-know-about/

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5.. Da Torino a Roma: I night club dei ‘60

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Piper Club [46]

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5.1

Il Piper Club di Roma: una swingin’ Rome

“Immaginiamo allora il Piper, che in quegli anni era il posto dove succedevano le cose, dove si sentiva (e vedeva) la musica cambiare […] immaginiamo una performance lunga più di cinque ore, che coinvolge musicisti, artisti visuali, ballerini, poeti, quattro schermi in cui si alternavano spezzoni di film, video, immagini e colori. Per la prima volta a Roma si fuma Maijuana in pubblico”[44]

Francesco e Giancarlo Capolei, Manlio Cavalli Via Tagliamento 9, Roma 1965 90


5 4 2

3

1

9

7

6 8

1. Atrio 2. Guardaroba 3. Palco Componibile 4. Orchestra 5. Il Giardino di Ursula 6. Bar 7. Self Service 8. Magazzino Alcolici 9. Pista da ballo

Piper Club di Roma: planimetria (1:300)

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Da un grande loft, che era stato destinato a diventare un cinema in via Tagliamento 9, presso il quartiere Coppedè a Roma, Giancarlo Bornigia tornato da un anno passato a New York, insieme all’avvocato Alberto Crocetta ed a Pier Gaetano Tornelli decise di dar vita ad un locale con l’intento di fornire alla nuova generazione di giovani ciò che più essi chiedevano: musica e libertà. L’idea forte era semplice: musica beat e divertimento trasgressivo sul modello americano o della “swingin’ London”, dove già la cultura giovanile si stava prepotentemente affermando. Il Piper fu inaugurato il 17 febbraio 1965; è la prima discoteca radicale aperta in Italia. “Il Piper apriva i battenti ad una generazione che, per la prima volta, assumeva una propria identità; non più bambini, non più adulti, solo giovani, i ragazzi italiani del ’65 avvertivano nell’aria il profumo di una musica per la prima volta solo ed esclusivamente loro”.[45] In poco tempo il Piper divenne un’icona di una generazione intera ed un vero e proprio fenomeno di costume, il simbolo di un passaggio d’epoca, un punto di aggregazione, una pista di lancio per i nuovi talenti dell’Italia dinamica dei secondi anni 60, un mezzo per l’affermazione di un nuovo modo di fare musica. Il progetto venne firmato

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Piper Club di Roma: interni[47]

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dagli architetti Francesco e Gianfranco Capolei, (figli degli insegnamenti di Leonardo Savioli e Adolfo Natalini presso l’Università di Firenze) e da Manlio Cavalli, ideatori del progetto in collaborazione con il pittore Claudio Cintoli. In questo caso, non si parla di una progettazione completamente autonoma da parte degli architetti radicali, come si è potuto osservare nello Space Electronic; tuttavia, al Piper si è potuto attuare ciò che, per il mondo radical, era rimasto fino ad allora solo un’esigenza intellettuale; giungere ad un gruppo operativo integrato, ad una piena collaborazione tra pittura e architettura, tra arti visive e progetto. Questo genere di collaborazione era antitetica nei confronti dei termini tradizionali della progettazione in cui il pittore era chiamato ad opera architettonica finita. Collaborare significò, invece, programmare e progettare insieme uno spazio nel quale le possibilità inventive tra arte e architettura si integrassero e gli interventi fossero coordinate. Il primo momento della progettazione consistette nel pensare ad un ambiente happening, dove il pubblico intervenisse da autore-spettatore modificando, momento per momento, la conformazione plastica e determinando il ritmo delle situazioni in un continuo sempre nuovo e

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Patty Pravo: la ragazza del Piper[48]


imprevisto. Si trattava di un gigantesco caleidoscopio, in cui le luci, i suoni, i colori, le masse costituivano le sfaccettature di uno spettacolo del divenire. Il locale così conformato, previsto il tipo di musica che vi sarebbe stata suonata agisce imperiosamente sullo spettatore, in modo da inserirlo, come presenza attiva e partecipe nella massa del pubblico, liberandolo da ogni inibizione. La finalità era, in primis, la seguente: eliminare ogni tradizionale barriera fra attore e spettatore, fra orchestra e pubblico, fra spazi attivi e passivi, ed in luogo di tutto ciò, dar vita ad un ambiente che fosse tutto agibile, tutto fruibile, tutto aperto alla partecipazione di tutti. Venne attuata la soluzione di frammentazione del palcoscenico in una combinazione dinamica di pedane a diversi livelli: ciò poneva da parte l’idea del “polo” in cui, tradizionalmente, si svolgeva il rituale schermo-pista da ballo-palcoscenico. La presenza di questi parallelepipedi, digradanti in diagonale verso il centro, spezzano l’unità dell’ambiente e creano un insieme di fatti volumetrici. L’unità veniva reattribuita allo spazio tramite una parete, composta da sezioni pittoriche. Era sul fondo del Concerto dei Pink Floyd al Piper Club, locandina (Roma 1968)[49]

palcoscenico che l’artista Claudio Cintoli aveva realizzato il pannello murale Giardino per Ursula, probabilmente

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A sinistra dall’alto verso il basso, Il Giardino di Ursula, Claudio Cintoli (1965)[50] Vista dall’alto[51] Tavoli[52]

Palco con moduli componibili[53]

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un omaggio ad Ursula Andress, attrice svizzera e diva del momento, composto da due dipinti e da materiale eterogeneo assemblato aggettante, oggi perduto. A questi oggetti era stata attribuita la funzione di accentuare i valori spettacolari del murale, accostando diversi modi di lavorare corrispondenti, ognuno, alla fase di un’ipotetica sequenza di sensazioni visive. Per il popolo scalmanato del Piper il fondale-icona della discoteca più famosa di Roma era la “bocca”, dipinta nel murale. Eppure, oltre al sorriso, molte altre figure popolavano sullo sfondo la musica dell’Equipe 84, gli acuti di Rita Pavone, il rock dei Pink Floyd, il movimento indiavolato dei giovani danzanti; nel murale, alto tre metri e mezzo e lungo quasi venti, c’era il volto di una donna, un giardino, altre figure dipinte, oltre all’assemblaggio di scarti urbani (ruote di auto, cartelli stradali, rottami), che avevano il compito di ricordare le scorie e le immondizie, che si accumulano quotidianamente nella città. Era stata utilizzata un’illuminazione variabile su tutta la superficie in modo che i colori fossero artificialmente violentati e si valorizzasse l’idea della zoomata verso il primo piano della bocca. I diversi mezzi usati nell’eseguire la zona dipinta (pennelli, vaporizzatore, retini, mascherini)

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Piper club: locandina[54]


consentivano di realizzare la diversa qualità della luce nelle varie sezioni. L’insieme dei parallelepipedi, che prolungavano il proscenio nel vivo della sala facevano si che il pubblico risalisse a contatto con il murale investendolo e quasi concludendosi in esso. “I trespoli dell’illuminazione, che intervengono spazialmente a comporre un discorso globale con la parete composita e le pedane; le luci policrome ad accensioni molteplici, i materiali usati brutalmente nella loro cruda presenza, concorrono a dare all’ambiente l’aspetto di una grande palestra, in cui strutture e oggetti prendono vita dalle presenze umane” .[46] In alcuni casi si era dovuto rinunciare a molto, a causa di ragioni pratiche; un primo progetto prevedeva addirittura delle pedane trasparenti e di vetro, così che i ballerini che vi esibissero, sembrassero quasi sospesi in aria. La sala da ballo era illuminata da 350 luci multicolori parzializzabili, sulla pista erano disposti cubi luminosi sui quali le ragazze potevano salire e ballare; l’impianto sonoro era d’avanguardia, e consentiva un impatto mai sentito prima, grazie allo spiegamento di 85 sistemi d’altoparlanti e ad una buca dell’eco realizzata Concerto degli Small Faces al Piper Club, locandina (Roma 1968)[55]

sotto la platea. Numerose erano le opere presenti nel locale di cui,

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tuttavia, non esiste alcuna documentazione: materiale che spaziava da Andy Warhol a Robert Rauschenberg, da Mario Schifano a Piero Manzoni. Il Piper è stato teatro principale e palcoscenico per la musica sperimentale; “un’aggressione musicale, immagini sfocate e irreali, luci accecanti e frenetiche, effetti imponenti di dilatazione e amplificazione di specie stroboscopica”. [47] Chi ha letteralmente incendiato la miccia della polveriera Piper è stata l’Equipe 84 che, insieme ai Rokes inaugurano la sala per poi lasciare il palco ai Dik Dik, Mal e i suoi Primitives, Rocky Roberts, I Giganti, I Corvi, ecc. Le balere estive erano il banco di prova dove le band suonavano durante la bella stagione ma l’obiettivo di tutti era quello di esibirsi al Piper. E’ al Piper che la musica suona forte grazie al potentissimo impianto di amplificazione che fa saltare di gioia i ragazzi. Sono i frequentatori della discoteca, battezzati “piperini” e “piperine” i protagonisti dei giornali italiani di quegli anni al punto che anche all’estero arrivò la notizia che in via Tagliamento stava succedendo qualcosa di importante, magari sulla falsa riga di Carnaby Street, ma comunque stava succedendo: non è un caso che si parlasse addirittura di una Swingin’ Rome.

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Concerto dei Rokes all’inaugurazione del Piper Club[56]

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5.2

Il Piper Club di Torino il piper è la fine del mondo

“Il locale scintilla con le sue pareti argentate, ha riflettori su monorotaie aeree, ha sei proiettori che agitano su una parete-schermo scene di “amore beat”. Ha palchi per due orchestre e, quando i musicisti prendono fiato, ci sono apparecchi che provvedono a riempire il silenzio con suoni e voci amplificate. E’ un locale di foggia fantascientifica”.[57]

Gruppo Strum Torino 1966 102


2

4

2

3

1

1. Atrio 2. Palco Componibile 3. Ponte sopraelevato 4. Pista da ballo

Piper Club di Torino: planimetria (1:300)

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Alla scala di ingresso a due rampe (una per l’entrata ed una per l’uscita) del Piper di Torino, collocata in un tubo rivestito di laminato di polivinile su supporto di cotone, si accedeva attraverso una tenda in plastica metallizzata e comandata con cellule fotoelettriche. A questo canale d’accesso si voleva attribuire la facoltà di intermediario tra la strada, il mondo esterno e il contenitore, il mondo interno: a tal fine si è inventato un effetto musicale frutto del collegamento, ancora tramite cellule fotoelettriche, dei gesti del fruitore ad una macchina apposita, con l’intento di proporre una sintesi sonora della vita esterna. Sono quaranta le piste registrate che, muovendosi a comando in un’alternanza quasi infinita di combinazioni, mescolano effetti di cronaca, musica elettronica, lettura di tesi, discorsi di personalità. Una seconda tenda automatica, questa volta a comando a pedana, da accesso alla sala rettangolare; quest’ultima è rivestita in lamiere di alluminio, di 2 mm di spessore, su intelaiature metalliche, in parte appena lucidate e specchianti e in parte anodizzate opache; una delle pareti costituisce una parete-schermo per le proiezioni. Le due parti estreme del locale sono collegate da un palco in struttura metallica smontabile in tubi Mero cromati e dà

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Piper Club di Torino: interni[57]

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accesso alle due cabine sopraelevate di regia; una per luci e suoni, una per gli spettacoli di proiezione. “Le varie possibilità d’uso e l’evidente disponibilità delle attrezzature dovrebbero essere un invito alla partecipazione diretta alla definizione del senso del “posto”: l’uomo fabbricatore di senso.” [48] Il Piper di Torino vuole essere un locale pluriuso, cioè adatto a rispondere in modo specializzato alle esigenze di molte forme di spettacolo collettivo. Si è inteso il locale come composto di un contenitore fisico (struttura principale) e di attrezzature adattabili a vari usi previsti. Il contenitore non è altro che una scatola con le pareti di alluminio appena riflettenti, munita di servizi essenziali; le attrezzature sono oggetti posati nel contenitore e caratterizzati da diversi gradi di complessità e di flessibilità, corrispondenti a precisazioni sulle variazioni d’uso, di obsolescenza e di adattabilità. “L’ambizione era di creare, con queste aperture funzionali, un senso nuovo di spazio senza cadere nell’invenzione scenografica, nello stordimento visivo o nella ricerca di effetti magici”[49] Di fatto, i piani del pavimento sono trasformabili attraverso un sistema di parallelepipedi mobili (rivestiti in gomma come il pavimento fisso) che permettono di creare soppalchi

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Arredo e ponte[58]

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per l’orchestra, piste da ballo sopraelevate, palcoscenici centrali, ecc; inoltre questi parallelepipedi attraverso un apposito giunto possono diventare supporto dei sedili, ed elementi per la composizione di tribunette gradonate. I sedili sono in resina di poliestere rinforzati in fibra di vetro, di vario colore. Il soffitto, rivestito di pannelli fonoassorbenti di colore rosa, è attraversato da cinque rotaie tipo “Blindotrolley”, ciascuna munita di tre contatti striscianti e, a due intervalli regolari, di prese per i microfoni , per altoparlanti e di prese luce per eventuali apparecchiature supplementari per l’illuminazione. Nella rotaia centrale, per mezzo di un motoriduttore, scorre a comando percorrendo la sala in senso longitudinale una macchina luminosa progettata da Bruno Munari, che proietta sulle pareti quattro effetti luminosi diversi. Sulla rotaia esterna sono appese cinque macchine di proiezione per diapositive: macchine per film, macchine cinetico-luminose, ed altro, possono essere facilmente applicate. Le rotaie portano scatole di lamiera di diverse dimensioni in cui sono incassati piccoli proiettori con luce di diversi colori e gli altoparlanti principali: tutte queste apparecchiature sono sostituibili e mobili. Su tutto

Melanconie ye ye al nuovo

il perimetro, all’incontro delle pareti con il soffitto, corrono

Piper, Luciano Curino per La

due rotaie a diversa altezza, alle quali può essere appeso

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Stampa (1966)[59]


qualsiasi tipo di oggetto a seconda delle manifestazioni temporanee che si susseguono. Le diverse proposte d’uso rinnovano infatti il locale con nuove richieste di spazio adattato e con il relativo nuovo assetto formale che gli compete; ma ogni volta, anziché assegnare senso definitivo allo spazio si evidenzia un senso tra molti. Si trattava di un rifiuto di prendere posizione, lasciando all’evoluzione delle cose la possibilità di creare qualsiasi spazio. Il Piper Club di Torino, dunque non è un ambiente composto da strutture rigide che impongono il loro stile, un’atmosfera tipica ed una clientela fissa, oltre alla loro funzione di macchine sonore: è piuttosto la massima rappresentazione di un’architettura swinging che, di volta in volta, costruisce un nuovo ambiente. Scrive Tommaso Trini, docente universitario del tempo: “Nel locale si è cominciato a disporre la struttura principale, piuttosto fissa, al pluriuso con l’incantevole Mini-Midinette che balla, e Cathy-fromCarmel che canta, e la mostra-piovuta-dall’alto di Marisa Merz e al tempestivo passaggio del Living Theatre, così che sotto il segno di questa unica arte popolare che è la Piper: paradiso del beat

musica folk entra in maggior contatto con la vita anche

(ma con il divieto di spaccare),

l’arte visiva e di rappresentazione”.[50]

Gianni Ranieri per La Stampa (1966)[60]

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5.3

Lo Space Eletronic di Firenze ambiente audiovisivo

“Il flash nei tuoi occhi che picchia come i nostri cuori ti porta al punto di piangere. Quei riflessi sulle pareti d’argento sono ormai diventati una miriade di stelle rosse simili a fragole marce in un muro di cemento armato impressionato con assi di legno. Il delicato paracadute bianco, arancione e verde da San Bernardino, in California, galleggia come le spumeggianti onde del mare con il vento che soffia dalle bocchette dell’aria condizionata gialle vaporizzando un leggero profumo di pino legnoso. L’architettura dello Space Electronic, in realtà, non esiste” [51]

Gruppo 9999 Firenze 1969 110


Space Eletronic: interni[61]

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Da una vecchia officina meccanica alluvionata, con un perenne odore di nafta e grande circa 800 m² disposti su due piani, in via Palazzuolo, 37, i 9999, gruppo composto da Carlo Caldini, Fabrizio Fiumi e Paolo Galli realizzarono lo Space Electronic, il locale di intrattenimento più underground della città di Firenze. Venne inaugurato il 27 febbraio del 1969 con un concerto zero eseguito da due band italiane, i Dik Dik e i New Trolls, e con esibizioni di danza e proiezioni di immagini. Tutti e tre gli architetti parteciparono alla progettazione del locale: Caldini

si

occupò del ponte e della regia, Fiumi progettò ingresso, bar e balconata, mentre Galli pensò all’arredo. Una volta aperto, Caldini e Fiumi assunsero la gestione del locale insieme a Mario Bolognesi. Il locale venne attrezzato con un impianto di amplificazione, con proiettori da diapositive, cineprese, lavagne luminose, monitors a circuito chiuso, proiettori 8 mm, kodak carousel, laser, ecc., apparecchi che avevano già avuto un primo utilizzo nel settembre del 1968, in occasione dell’Happening a Ponte Vecchio, performance che aveva visto le pareti del ponte accarezzate da luce, inondate di immagini con una volontà da parte dei 9999 di dimostrare come si poteva “intervenire su di una architettura senza utilizzare martello

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Space Eletronic: interni[62]

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e scalpello, ma servendosi solo di luci e di immagini”[52] L’oggetto architettonico si trasformava dall’essere un supporto (Il Ponte Vecchio), ad essere un contenitore, (Lo Space Electronic): all’interno dei locali gli apparecchi erano posizionati su di un ponte metallico sospeso che attraversava tutta la sala, un parallelepipedo nero, una scatola elettronica con intorno pedane a scalino e ai lati balconate sopraelevate. Monitor a circuito chiuso diffondevano l’immagine della folla intenta a ballare; da una sala regia veniva mandata la musica e si azionavano le luci stroboscopiche, psichedeliche, e i proiettori che bombardavano le superfici di immagini a ripetizione, inducendo una continua stimolazione sensoriale ed emotiva, i cui effetti erano amplificati dal pavimento ricoperto da una grande lastra scintillante in alluminio di 15 x 25 metri. Ogni settimana vi si potevano trovare nuovi allestimenti, nuovi oggetti non identificati e strani materiali. Definirla solo una discoteca sarebbe riduttivo in quanto si trattava piuttosto di un punto di ritrovo per giovani, dove ballare, assistere a mostre e spettacoli di teatro, installazioni, un luogo dove presentare artisti. Il locale

Scuola Separata per

rimaneva aperto giorno e notte cambiando destinazione

l’Architettura Concettuale

d’uso a seconda dell’ora: la mattina e il pomeriggio era un

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Espansa, S-Space, manifesto 9999 (Firenze 1971) [63]


luogo di studio, un’aula di progettazione e sperimentazione sia per il Gruppo 9999, sia per studenti della facoltà di Architettura della Scuola di Firenze; la sera ospitava concerti dal vivo, jam session, installazioni di gonfiabili, e rappresentava, grazie ad una continua ricerca sul campo, un punto di ritrovo per artisti emergenti in qualsiasi campo, artisti che potevano ritrovare nello Space un punto di ritrovo per tutti coloro che erano creativi. Oltre ad assumere caratteristiche diverse nel corso della giornata il locale mutava il suo aspetto a seconda degli eventi che ospitava: durante il S-Space Mondial Festival che si svolse dal 9 all’ 11 Novembre 1971 e che fu uno degli eventi più caratterizzanti, il locale assunse un nuovo aspetto. I partecipanti a questo raduno di architetti radicali fiorentini (ma non solo) presentarono ed elaborarono materiali diversi a seconda della loro specificità. Il Gruppo 9999 realizzò al centro della discoteca un vero e proprio orto su di una piattaforma sopraelevata, con terra e piante trapiantate che venivano annaffiate tutti i giorni. Il piano inferiore fu completamente allagato con 30 cm di acqua e Space Electronic: enviroment audiovisivo, Casabella, n. 356 (1971)[64]

intorno venne realizzato un ambiente naturale con pesci, erba e alberi; pietre di varie dimensioni ne rendevano possibile l’attraversamento.

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I diversi scenari dello Space[65]

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L’installazione rappresentò il living room della Vegetable Garden House, progetto che l’anno successivo avrebbe vinto il primo premio al concorso per giovani designer indetto dal MoMA, nell’ambito della mostra Italy The New Domestic Landscape. Non è un caso che lo Space Electronic venne scelto come sede in cui realizzare parte di uno dei progetti più in vista al tempo per il gruppo 9999; la natura e l’ambiente con i suoi delicati equilibri e le sue armonie affascinava e coinvolgeva sempre più il gruppo che, nelle sue quotidiane osservazioni, si trovava di fronte ad un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, quasi una divinità che lo governava senza che nessuno si accorgesse dei danni irreparabili prodotti alla natura stessa. E proprio in virtù di questo che il gruppo proclama la sua filosofia: “L’uomo e il suo ambiente sono al centro della ricerca del gruppo 9999 che nei suoi progetti esprime l’ipotesi fondamentale di un equilibrio tra progresso scientifico e natura. Questo avviene grazie ad una tecnologia altamente sofisticata, purificata da rifiuti e inquinamenti, che opera esclusivamente a servizio e protezione dell’uomo e del suo ambiente.”[53] Il locale diventa il luogo più adatto per mettere in pratica

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Vegetable Garden House allestito allo S-Space mondial festival (Firenze,1971)[66]

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questa dottrina: lo si vede nell’arredamento, ideato da Paolo Galli che era in gran parte composto da oggetti riciclati volti a salvaguardare l’ambiente e realizzati dagli stessi architetti, come cestelli di lavatrici e carcasse di frigoriferi, serpentoni di plastica usati come divani, e un acquario completo di piranha. Lo stesso Paolo Galli afferma: “noi da soli, con le nostre mani abbiamo costruito lo Space Eletctronic per 1500 persone”.[54] L’orto rimase all’interno dello Space Electronic per oltre due settimane: veniva costantemente curato e annaffiato e, durante le serate, le persone vi ballavano attorno e lo osservavano come una delle attrazioni più interessanti del locale, insieme al continuo gioco di luci, suoni e immagini che davano vita ad un vero e proprio multimedia enviroment, sul modello dell’Electric Circus newyorkese: un contenitore strutturale all’interno del quale i dispositivi tecnologici lavoravano sulla costante iniezione di stimoli indirizzati a tutti i sensi dell’ individuo che lo abitava e che dimenticava così di trovarsi in uno spazio, per come questo era stato concepito fino ad ora. “Qual è il limite dello spazio? E’ impossibile da definire? E perché noi pensiamo che lo spazio non possa essere fatto da suoni o profumi oppure dalle ombre e dalle luci?[55]

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Vegetable Garden House allestito allo S-Space mondial festival (Firenze,1971)[67]

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5.4

Il Piccolo Night Grifone di Bolzano il night più piccolo

“Questi oggetti del Piccolo Night Grifone, non sono più definiti solo dalla loro geometria, ma anche dalla loro neutralità che permette a te di progettare con le tue capacità creative, di proporti, di sperimentare la tua comunicazione al mondo, di figurare il tuo essere biologico come causa di architettura e realtà creativa di danza infinita”.[56]

Emanuele Ponzio e Cesare Casati Bolzano 1968 122


1 2 4

1. Atrio 2. Palco 3. Tavoli/ Pista da ballo 4. Bar

3

Piccolo Night Grifone: planimetria (1:300) sezione (1:300)

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Il Night dell’Hotel Grifone, presso la città di Bolzano, realizzato nel 1968 da Cesare Casati ed Emanuele Ponzio, era stato ricavato da una vecchia cantina, dove veniva messo a stagionare lo speck; si trattava di un piccolissimo ambiente a tunnel, lungo 16 metri e largo 7, che però conteneva tutti gli elementi fondamentali di un vero night club degli anni 60. Un American bar, un box per il disk-jockey provvisto di tutta l’attrezzatura elettronica necessaria, una zona con i tavoli ed una pista per ballare. La particolarità più interessante dell’ambiente consisteva nella pista da ballo in acciaio inossidabile: questa era coperta da una grande cuffia afonica che smorzava i fortissimi suoni della pista per chi sedeva intorno. SI ballava in pieno rumore e si discorreva o cenava con sottofondo musicale. Questa sorta di barriera era costituita da teli flessibili in PVC trasparente, che erano ritagliati come delle nuvole da Gino Marotta, artefice anche della lunga serie in metacrilato verde che correva lungo tutto il tunnel. Questo verde è l’unico colore di contrasto ai rosa, ai blu e ai viola dell’ambiente e dei sedili. Dall’imitazione delle forme naturali, Marotta si apre all’uso di leggi strutturali: è così che egli crea boschi, prati, fiori e frammenti di varia natura, la cui forma organica non

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Piccolo Night Grifone: interni[68]

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è inventata ma si ordina visivamente secondo modi di concezione e di crescita. Così egli crea delle delicate rose in metacrilato, piatte e trasparenti, chiuse ermeticamente in trasparenti scatole di plexiglass ed assume il modulo tecnologico della serialità. “Egli ha sostituito non solo l’esperienza al senso di natura, ma anche l’immagine sensitiva della nostra estraneazione dalla natura alle pretese razionalistiche dei nostri schemi […] L’opera di Marotta mostra nella sua funzione sostitutiva di essere autonoma ed efficace, come un duplicato di reale. O un’estati extraplastica.”[57] Extraplastica sono dunque queste sculture-design che si affidano a più di un effetto sensoriale. Nell’opera di Marotta la natura è in nostro possesso e, per noi, si tratta solo di usarla; le immagini della natura sono pervase dal pensiero pratico-funzionale che fonda ogni operazione normalizzatrice, di design, ed è grazie a questo che egli può ancora dire bosco, rosa, prato. E’ così che la siepe in plexiglass verde parlava di natura artificiale, di rappresentazione, di abbandono del realistico. Come la serie del designer, anche tutti i mobili sono in metacrilato: metacrilato trasparente, ma pigmentato così da reagire alla luce di Wood che emanava dalla base

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Globo Tissurato, Ugo la Pietra (1968)[69]


dei tavoli. Questo faceva si che, durante l’illuminazione normale dell’ambiente, tutto fosse trasparente, mentre con i tavoli accesi tutto il metacrilato si colorasse in viola e in blu, creando un effetto quasi fantastico, sottolineato ancor di più dal fatto che l’accensione delle luci fosse collegata al ritmo della musica. “La sorprendente analogia formale tra il Globo Tissurato ed il tavolino della discoteca ne evidenzia gli stilemi dell’epoca”[58] Il Globo Tissurato, progettato nel 1968 da Ugo La Pietra, avvincente come oggetto a sé stante, rappresentava un tentativo di modulare una sorgente luminosa al di là di un semplice interruttore dimmer. L’uso di Metacrilato consentiva a La Pietra l’inserimento di bolle in plastica così da modificare la luce in uscita (un effetto dinamico e gradevole). Si trattava in entrambi i casi di forme geometriche elementari derivate dall’utilizzo di materiali industriali semilavorati che nascondevano componenti tecnologiche d’avanguardia (dimmer e luce riflessa da doppia superficie bianca e cromata nel Globo; luce di Wood e neon, schermatura e metacrilato con pigmenti nel tavolino) e sottendevano Tavoli illuminati[70]

tematiche di ambito spaziale; la “tissurazione” come appropriazione dello spazio e comunicazione telematica,

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Arredi illuminati e opera di Gino Marotta[71]

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Arredi illuminati e composizioni in metacrilato di Marotta sullo sfondo[72]

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gli arredi come dei robot servimuti I vassoi di servizio erano dei grandi dischi in metacrilato bianco, con un foro nel mezzo, che venivano inseriti sui piani dei tavoli, forniti di un portacenere fissato nel centro. Le volte erano tutte bianche e lucidissime; il soffitto della pista e del bar era in nido d’ape di plastica, cromato. Il pavimento quando non era d’acciaio, era in moquette blu. Gli artisti erano soliti muoversi efficacemente in questo vero e proprio laboratorio: numerosi erano gli esponenti dell’Arte Povera che partecipavano ad eventi, mostre e serate del Grifoncino. Mario Merz ballava con le colonne di acciaio inox, gli artisti Pistoletto e Mondino si sfidavano in numerosi happenings di borotalco e decine di metri di teli in polietilene. Il genere beat, con la presenza di Mal dei Primiteves, era anche qui il genere piÚ in voga. Il Living Theatre era di casa.

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Frequentatori del Piccolo Night Grifone[73]

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5.

Riferimenti selezionati: testi 44. Letizia Bognanni, Grande angolo, sogni stelle: storia del concerto più assurdo mai visto su un palco italiano, rock.it, 2016 45. Maria Corbi, Piper: un ballo lungo 40 anni, La Stampa, 23 gennaio 2005 46. Francesco e Gianfranco Capolei, Manlio Cavalli, Claudio Cintoli, Le ragioni di un arredamento: Piper Club 47. Alberto Moravia, Al Night club con i vietcong’, L’Espresso, dicembre 1967 48. Fulvio Ferrari, Progettare per il mondo beat: il piper di torino, dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 30 49. Fulvio Ferrari, Progettare per il mondo beat: il piper di torino, dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 30 50. Tommaso Trini, (1968), Divertimentifici, Domus, n. 458, gennaio, pp. 14-22 51. (1971), Space Electronic: enviroment audiovisivo, Casabella, n. 356, maggio, pp. 46 52. Intervista a Carlo Caldini 53. Intervista a Carlo Caldini 54. Pino Brugellis, Gianni Pettena, Alberto Salvadori, Radical Utopias (Archizoom, Buti, 9999, Pettena, Superstudio, Ufo, Zziggurat), Quodlibet Habitat, Firenze, 2017, pp. 161 55. (1971), Space Electronic: enviroment audiovisivo, Casabella, n. 356, maggio, pp. 46 56. Tommaso Trini, Marotta Extraplastico, dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co,

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fotografie 46. Pierre Restany, (1967), Breve storia dello stile ye ye, Domus, n. 446, gennaio, pp.34-44 47. http://www.bmiaa.com/tag/italy/page/6/ 48. https://www.musicaememoria.com/trentennale_del_piper_club.htm 49. https://www.musicaememoria.com/trentennale_del_piper_club.htm 50. http://xl.repubblica.it/fotogallerie/il-piper-club-compie-50-anni/17205/ 51.https://zero.eu/magazine/zero-design-festival-radical-clubbing-piperdi-roma-capolei-cavalli/ 52.https://zero.eu/magazine/zero-design-festival-radical-clubbing-piperdi-roma-capolei-cavalli/ 53. http://www.flashartonline.it/article/page/90/ 54. https://digilander.libero.it/pinkside/piper98.htm 55. https://digilander.libero.it/pinkside/piper98.htm 56.http://www.spettakolo.it/2017/02/15/51-anni-di-piper-il-racconto-diunepoca/ 57. http://www.derossiassociati.it/radical-disco-architecture-and-nightlifein-italy-1965-1975/ 58.http://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-iswho/2017/11/piper-discoteca-torino-artissima-paola-nicolin/ 59.http://www.mqcvisions.net/TorinoSparita/TorinoSparitaBackup/ Page_0613.html 60.http://www.mqcvisions.net/TorinoSparita/TorinoSparitaBackup/ Page_0613.html 61. http://www.dagospia.com/mediagallery/Dago

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5.

Riferimenti selezionati: testi Parma, 1989, pp. 47 57. Tommaso Trini, Marotta Extraplastico, dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 47 58. Fulvio Ferrari, Globo Tissurato, dal libro Discoteca 1968: l’architettura straordinaria di Fulvio Ferrari, Umberto Allemandi & Co, Parma, 1989, pp. 43

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fotografie 62. http://www.dagospia.com/mediagallery/Dago 63. http://www.arengario.it/edizioni-dellarengario/architettura-radicale/ 64.(1971), Space Electronic.Enviroment audiovisivo, Casabella, n 356, maggio, pp. 46 65. https://spaceelectronic.wordpress.com/2014/06/04/archivalphotographs/living-theatre/ 66. http://www.notteitaliana.eu/persone/carlo-caldini-gruppo-9999-daicampus-universitari-di-new-york-allo-space-electronic-di-firenze/ 67. http://www.notteitaliana.eu/persone/carlo-caldini-gruppo-9999-daicampus-universitari-di-new-york-allo-space-electronic-di-firenze/ 68. Cesare Casati ed Emanuele Ponzio (1970), Il Night più piccolo, Domus n. 491 ottobre pp.29-33 69. http://www.design-is-fine.org/post/162294306969/ugo-la-pietraglobo-tissurato-1968-for-zama 70. Cesare Casati ed Emanuele Ponzio (1970), Il Night più piccolo, Domus n. 491 ottobre pp.29-33 71. Cesare Casati ed Emanuele Ponzio (1970), Il Night più piccolo, Domus n. 491 ottobre pp.29-33 72. Cesare Casati ed Emanuele Ponzio (1970), Il Night più piccolo, Domus n. 491 ottobre pp.29-33 73. Cesare Casati ed Emanuele Ponzio (1970), Il Night più piccolo, Domus n. 491 ottobre pp.29-33

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6. Conclusioni

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No Stop City, Archizoom (1970)[74]

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Il percorso affrontato da questa tesi, ha voluto seguire l’itinerario percorso dall’architettura in Italia nel corso degli anni 60, che ha visto nell’arco di pochissimo tempo, mutare completamente le fondamenta che la caratterizzavano, grazie all’apporto dell’avanguardia radicale. Partendo da una doverosa analisi dello spirito sociale e culturale che animava quei tempi, l’argomentazione è stata condotta prendendo in esame l’elemento della discoteca, considerata in questa sede uno dei più alti risultati concreti e tridimensionali delle teorie radicali e, al contempo, la risposta che gli architetti fornirono alla richiesta di senso da parte della nuova generazione beat. Scrive Andrea Branzi, “è la distruzione dei modelli culturali il fine ultimo dell’azione svolta dalla cultura d’avanguardia”[59] una cultura che non stabilisce nessun modello da imitare e che afferma che l’unico riferimento possibile consiste nella libera creatività individuale estesa a tutta la società. La discoteca era, negli anni 60, il simbolo della libertà e della creatività, luogo di sperimentazione, luogo d’esperienza, luogo che per eccellenza rifiutava il concetto di funzionalismo, considerandolo “un’arida strada che conduce dritta al semplicismo spirituale”.[60] Si legge nel manifesto degli Archizoom e di Superstudio:

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“Una nuova architettura non può nascere da un semplice atto di progettazione, ma dalla modificazione dell’uso che l’individuo può fare del proprio ambiente.”[60] E’ questo il concetto alla base della definizione di uno dei progetti utopici urbani più importanti, firmato dagli Archizoom; la No Stop City. La città diventa una struttura residenziale continua, priva di vuoti e quindi priva di immagini architettoniche: grandi piani attrezzati teoricamente infiniti, interni illuminati artificialmente e micro-climatizzati, dentro i quali è possibile organizzare nuove tipologie abitative aperte e continue, per nuove forme comunitarie. Dentro grandi piani attrezzati l’individuo può realizzare il proprio habitat come attività creativa liberata. In un’intervista per Domus, alla domanda “ in cosa risiede la qualità della città?” Andrea Branzi risponde, parlando di una “rivoluzione urbana compiuta dall’interno: gli interni spesso vengono intesi solo come interni, cioè come eventi ambientali, mentre la loro progettazione dev’essere intesa come una maniera di aggiornare la città con funzioni e attività che l’architettura tradizionalmente non riesce a prevedere. Il progetto degli interni permette di aggiornare la città e cambiarne il funzionamento dal di dentro”.[62] Si rompono le barriere tra la piccola e la grande scala, non

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esiste più il concetto di urbano o di interno; la città stessa diventa un grande interno. E’ questa l’utopia del movimento radicale che, si può dire, trova una sua concretizzazione nello spazio delle discoteche; non sono questi luoghi in cui non esistono facciate o immagini architettoniche? Luoghi definiti da un arredo mai stabile e sottoposti a diverse possibilità d’uso, piani attrezzati, interni illuminati artificialmente e micro climatizzati, in cui l’individuo può realizzare il proprio habitat come attività creativa e libera? Non sono questi i luoghi di sperimentazione, di vitalità di spontaneità in cui l’uomo, per dirlo con le parole di Ettore Sottsass, non viene più considerato come “un minerale o un prodotto chimico” ma come un “affare strano che affolla i campi sportivi e si scalmana, gli ospedali e urla, le chiese e si commisera, affolla i teatri e si commuove, […] un affare strano con tumori e sesso, con pazzia e lacrime”[63]. Sono questi i luoghi dell’effimero, se per effimero intendiamo luoghi continuamente soggetti a cambiamenti nella loro articolazione, nella loro funzione; luoghi in cui la lavorazione manuale e le tecnologie “povere” non si pongono come alternativa alla produzione industriale, ma servono a definire diversamente l’area della produzione stessa, intesa non più come meccanismo di riproduzione,

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ma come “settore specifico e limitato che serve e stimola un’area non provvisoria destinata alla creatività individuale e alla comunicazione spontanea”[64]. Erano questi i luoghi di cui parlavano Leonardo Savioli e Adolfo Natalini nelle loro lezioni presso la facoltà degli Studi di Firenze, luogo di nascita della cultura radicale; spazi di coinvolgimento capaci di sbloccare fin dall’interno la fissità, la schematicità la perentorietà dello spazio architettonico. Le discoteche risultano essere il perfetto punto di incontro tra spirito beat e architettura radicale; incarnano dunque al meglio l’avanguardia del tempo.

141


6.

Riferimenti selezionati: testi 59. Andrea Branzi, (1968) Radical Notes: elite e creatività di massa, Casabella n. 367, pp. 20 60.Alessandro Mendini, (1972), Radical Design, Casabella n. 367, pp.6 61. Manifesto degli Archizoom e di Superstudio: Superarchitettura 62. Davide Fabio Colaci, Andrea Branzi: la preistoria non è terminata, Domus, 18 gennaio 2018 63. Riccardo Venuti, Utopie Radicali a Firenze, Doppio Zero, 17 Gennaio 2018 64. Andrea Branzi, (1973), Radical Notes: Global Tools, Casabella n.377, maggio, pp.8

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143


7.

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146


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147


8.

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Ad un’esperienza continuamente in bilico tra il desiderio del viaggio e il bisogno del ritorno a casa. Ai miei genitori, a mia sorella; alla Casa.

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