Architettura in trasformazione

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F. DE MATTEIS Architettura in trasformazione

Federico De Matteis è ricercatore presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, “Sapienza” Università di Roma, dove insegna Progettazione architettonica.

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La trasformazione dell’esistente si configura come uno degli ambiti che, nell’architettura, raggiunge un alto grado di complessità, chiamando in causa tutte le risorse della disciplina. Si tratta quasi di un progetto di secondo grado, legato alla pratica del restauro architettonico ma al contempo dotato di una specificità disciplinare del tutto autonoma. Nella storia culturale dell’architettura l’opera di trasformazione dell’esistente, soprattutto nel contesto italiano, ha rivestito costantemente un ruolo fondante del ragionamento teorico come anche della pratica progettuale. Questo libro ripercorre le tappe salienti di questa vicenda, evidenziando come il rapporto con le manifestazioni fisiche del passato sia stato interpretato, di volta in volta, seguendo l’onda lunga del pensiero filosofico di ogni periodo. Le preesistenze sono «materiale di progetto»: in quanto tali, l’autore contemporaneo ne può disporre il destino, interpretandole ed inserendole nella vita delle nuove architetture. Le modalità di questo processo ermeneutico sono ampie e diversificate, tanto da costringere i progettisti a mettere in gioco tutte le loro capacità perché antico e nuovo possano convivere, armoniosamente, nello stesso orizzonte di cose. Costruzione, utilità, bellezza: viene chiamato in causa l’intero spettro degli strumenti del progetto, sino a riflettere sull’architettura in toto. Nonostante il carattere fondante di questa problematica, la riflessione critica in merito risulta ancora frammentaria e disarticolata. Scopo di questo libro è pertanto riordinare i ragionamenti ed i problemi critici all’interno di un sistema metodologico coerente.

Federico De Matteis

Architettura in trasformazione Problemi critici del progetto sull’esistente

Prefazione di Benedetto Todaro

I S B N 978-88-568-0422-5

€ 00,00

(U)

9

788856 804225

Serie di architettura e design

FRANCOANGELI


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Il presente volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento Ar_Cos - Architettura e Costruzione, “Sapienza” Università di Roma

In copertina: Yerebatan Sarai, Istanbul


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Indice

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1. L’uomo e l’architettura nell’arena del tempo

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2. Le trasformazioni dell’esistente nel pensiero architettonico

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35

3. Linguaggio e morfologia: preesistenze e venustas

»

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4. Tecnica e costruzione

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5. Riutilizzo e rifunzionalizzazione

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6. Il progetto sull’esistente nella cultura architettonica italiana

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7. Conclusione. La persistenza dell’architettura

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Bibliografia

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Indice analitico

»

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Ringraziamenti

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Prefazione, di Benedetto Todaro

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1. L’uomo e l’architettura nell’arena del tempo

Il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici, ciascuno al proprio posto. Non dobbiamo irrigidirci contro il “nuovo”, tentando di conservare un bel mondo condannato a sparire. E neppure cercare di costruire in disparte, mediante una fantasiosa forza creatrice, un mondo nuovo che si vorrebbe porre al riparo dai danni dell’evoluzione. A noi è imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione e possiamo assolvere tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili, con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso. Il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire. Romano Guardini1

Come tutti gli oggetti del mondo, l’architettura appartiene al tempo. Prima ancora che un’opera venga completata, dal momento stesso in cui inizia a possedere un corpo fisico, essa subisce continue trasformazioni, processi lentissimi e graduali o subitanei e rapidissimi. Nella natura stessa della materia è implicita la suscettibilità al cambiamento, ovvero il destino ineluttabile del mutare di tutte le cose sottoposte al tempo. Il tempo è ciò che lega l’architettura al terreno ontologico della fisicità. La corporeità degli oggetti costruiti si colloca in equilibrio tra due diversi modi di attraversare il tempo: il cambiamento, che consente all’osservatore di constatarne le mutazioni, per quanto lentamente esse possano avere luogo, e la permanenza, che non origina dall’inerzia bensì dalla dilatazione della trasformazione oltre la soglia della cognizione dell’uomo, della durata del singolo individuo. Sul corpo fisico dell’architettura il tempo agisce attraverso le forze naturali che si riappropriano dell’artificialità del costruito, restituendolo ad un ordine ineluttabile, teleologicamente indirizzato, secondo diverse traiettorie, verso il disgregamento ultimo di ogni cosa. Il tempo fisico, lineare ed univoco per quanto inafferrabile, si affianca al tempo storico, più stratificato ed ambiguo, mutevole come gli oggetti che vi sono sottoposti. Anche a questo l’architettura appartiene, entrando a far parte del tempo descritto dall’uomo come storia, soggettivizzazione dell’ordine fisico che 15


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investe tutte le cose del mondo. Nella storia quale immagine del tempo umano, permanenza e trasformazione non sono più distinte unicamente dalla soglia di cognizione dell’osservatore: si configurano come fenomeni ontologicamente diversi, l’uno imparentato all’invariabilità e al perdurare degli archetipi, l’altro legato alla mutevolezza degli uomini, del loro pensiero e delle necessità contingenti. È in questo tempo descritto che l’architettura esprime il suo senso più pieno, quale oggetto costruito nell’orizzonte antropico, carico di ideologie, significati e figurazioni intrecciati nella cultura, solo in parte prestato alla transitorietà del mondo materiale. Nell’orizzonte storico la fisicità dell’architettura può essere elusa attraverso l’infinito ritorno dei modelli, il riemergere degli archetipi, l’azione della memoria e dell’invenzione quale modalità genetica del nuovo. Esiste poi un terzo tempo cui l’architettura partecipa: quello del soggetto, di tutti il più imperscrutabile, che sfugge alla misurazione e descrizione. Il tempo interiore si muove lungo traiettorie mistilinee composte da tracce mnesiche e cognitività, intenzionalità e memoria del corpo. A differenza del tempo esteriore questo non è orientato, né è possibile identificare con precisione i punti lungo la sua traiettoria: il prima e il dopo si confondono, perdendo chiarezza. Nonostante la congenita indeterminazione del tempo interiore, è questo che più profondamente influenza il rapporto tra l’architettura e chi la utilizza; determina altresì, come basso continuo, l’operare di chi la progetta. Nell’architettura come nel soggetto questi tre stati ontologici si intersecano, flettendosi per la reciproca influenza; in misura differente, ciascun oggetto partecipa di queste temporalità multiple che nell’incontrarsi generano di volta in volta armonia, dialettica o contesa. Nell’arena del momento presente il confronto chiama dunque in causa le ragioni del passato, rappresentate nella storia descritta e nella memoria indescritta: l’architettura nel suo stato presente stabilisce il punto di partenza, mentre l’uomo ne orienta la trasformazione, catturando in quest’atto frammenti di passato e futuro, costituendosi dunque come agente metatemporale del cambiamento. Esiste dunque un momento presente, abitato dagli oggetti architettonici che ne formano il corpo materiale con la loro fisicità certa; in quanto presenze fisiche essi allestiscono la scena per l’operare dell’uomo quale agente della trasformazione. In questo ruolo di sostrato materiale dell’esperienza del soggetto, l’architettura funge da tramite tra uomo e civiltà: come il libro è stato il veicolo materiale della parola scritta, il costruito si pone come strumento di trasmissione per la cultura nella sua interezza. L’architettura svolge un ruolo imprescindibile quale cardine tra mondo fisico e mondo antropico, ancorando l’esperienza umana ad entrambe le entità: in assenza di questa manifestazione materiale, 16


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l’esperienza del soggetto perde di senso. La materia fisica dell’architettura viene modificata nel tempo dalle leggi naturali; l’uomo, quale altro agente della trasformazione, interagisce con essa modificandola, imponendole mutamenti che perseguono molteplici finalità. Può trattarsi della volontà di sottrarre alcuni oggetti di particolare rilievo agli effetti del tempo, restituendoli ad uno stato cronologicamente anteriore rispetto al momento dell’intervento; ovvero dell’esigenza di appropriarsene più pienamente nel tempo presente, attribuendo loro nuovi significati e usi. In qualunque modo si agisca, con diversa consapevolezza la trasformazione interviene sulla linearità cronologica, trasferendo gli oggetti fisici dell’architettura avanti o indietro rispetto alla loro originaria collocazione temporale. Le sorti della trasformazione dell’esistente si giocano dunque nell’individuazione dei fondamenti ontologici dell’operare nel tempo. Chi modifica gli oggetti costruiti ne decide il destino, imponendo loro un ritorno al passato o una diversa partecipazione al momento presente. Nella trasformazione viene esplicitata l’intenzionalità di chi interviene sugli oggetti del mondo dato: l’assunzione di una posizione critica rispetto al significato del tempo nell’architettura rappresenta il primo passo di chiunque operi le trasformazioni. In questa ideale arena delle temporalità si svolge la contesa tra l’uomo ed il mondo da lui stesso costruito: quali sono gli strumenti critici che gli consentono di affrontare l’impresa nel migliore dei modi? È questo l’interrogativo di fondo cui cercheremo di dare risposta.

Il nuovo e l’antico: la questione del frammento Gli oggetti di architettura del passato che pervengono al presente si manifestano sotto una molteplicità di vesti, dalla rovina archeologica all’edificio storico, dal tessuto urbano sedimentato al tracciato regolatore. Raramente questi reperti mantengono le loro caratteristiche originarie: più spesso sono già il risultato di precedenti trasformazioni, mutazioni derivanti da interventi deliberati o dalla sola azione del tempo. Dell’intenzione originaria rimane a volte poco, lacerti occultati dagli innumerevoli eventi che il trascorso ha stratificato sul corpo materiale. Ma anche quando le sorti delle architetture hanno consentito una sopravvivenza più completa del costruito, si tratta comunque di una conservazione solamente parziale: scomparso o mutato l’universo culturale che lo ha originato, l’oggetto del passato è per sua stessa natura frammento. Molto del fascino dell’antico risiede proprio in questo carattere di frammen17


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tarietà. Ciascun frammento rappresenta un rimando ad un contesto di riferimento, ad un’epoca terminata, ad un significato assente: attraverso il frammento, il passato viene inscenato nell’orizzonte dell’osservatore, consentendogli di varcare la soglia della temporalità presente. La fascinazione romantica per le rovine artificiali trovava la sua radice in questa capacità demiurgica dell’immagine, in grado di trasportare il soggetto avanti e indietro nel tempo. Fra tutti gli strumenti di cui l’architettura dispone per costruire un legame con la memoria, l’uso del frammento è quello più significativo dal punto di vista della presenza fisica: la citazione, la reminiscenza, l’imitazione o altri artifizi poetici che perseguono la medesima finalità, agendo attraverso la rappresentazione rimangono svincolati dalla materialità dell’oggetto. La trasformazione dell’architettura, ovvero l’azione del progetto sulla materia esistente non può che avvenire in presenza degli oggetti stessi, nel momento in cui nuovo e antico si trovano ad occupare il medesimo orizzonte. L’architettura comprende per definizione molteplici aspetti che esulano rispetto alla sola consistenza materiale; questa costituisce però la condizione fondante, l’elemento basilare senza il quale risulta difficile se non impossibile concepire l’architettura in quanto tale. Il corpo costruito fonda l’esperienza dell’osservatore, la àncora alla terra, ne orienta la percezione: in altre parole, si pone come tramite tra l’uomo e la conoscenza del mondo. Sulla materia costruita si innestano poi altri fattori di rilievo: il ruolo di un edificio nell’ambito di un tessuto urbano, il suo significato simbolico individuale o collettivo, la sua capacità di partecipare della vita economica di una comunità. Tutti questi fanno parte dell’architettura e possono essere coinvolti nella trasformazione; la loro esistenza è tuttavia subordinata alla presenza fisica del costruito. In che modo una nuova architettura può appropriarsi dei frammenti del passato? In un dipinto conservato alla National Gallery di Washington, Sandro Botticelli racconta un’Adorazione dei Magi ambientata in un luogo del tutto particolare (Fig. 1). La stalla nella quale la Sacra Famiglia ha trovato rifugio è ricavata dalle rovine di un tempio classico; il tetto, crollato, è stato sostituito da una copertura di fortuna realizzata con tre capriate in legno, appoggiate sull’architrave dell’ordine architettonico2. Antico e nuovo si propongono qui in una singolare antitesi. Le vestigia del tempio appaiono pericolanti: sulla sinistra, tre blocchi di pietra sporgono avventurosamente nel vuoto, provvidenzialmente privati del loro peso dalla mano del pittore; sulla destra, una situazione di analoga rovina ci viene risparmiata dalla presenza di un giovane albero che copre provvidenzialmente l’imminenza di un crollo. A fronte di tanta instabilità, la modesta capriata giustapposta appare sta18


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Fig. 1 Sandro Botticelli. Adorazione dei Magi (1480 circa). Washington, National Gallery

bile, pervasa da un senso di firmitas che viene negato ai lacerti di architettura classica. Al contrario, l’elegante decorum dell’ordine architettonico non trova spazio nella nuova costruzione, senz’altro opera di un umile carpentiere ignaro del valore estetico del costruire. Eppure questi due mondi così diversi sembrano essere in grado di convivere serenamente. La capriata dona all’antico tempio un nuovo invaso, una copertura che questo non sembra disdegnare, memore di un precedente tetto che potrebbe essere stato simile. In alto a sinistra, un frammento di cornice (difficile capire se si tratti di un blocco inclinato incidentalmente o dell’ultima traccia di un timpano) indica una pendenza: la nuova capriata si allinea diligentemente ad essa, quasi a testimoniare la presa d’atto di una condizione data. Infine, l’occhio dell’osservatore: Botticelli sceglie di raccontare l’evento tramite una prospettiva acceleratissima, che lancia tutti gli oggetti verso l’esatto baricentro della scena, suddividendo la composizione in spicchi triangolari. Antico tempio e nuova copertura vengono così coinvolti nello stesso rapido movimento, apparentemente senza sforzo in una singola architettura. Il significato iconologico della rappresentazione è evidente: il mondo cristiano nasce dalle rovine di quello pagano, portando con sé una nuova Verità, figurata nella rudimentale ma fermissima capriata. Ciò che più colpisce l’occhio è tuttavia il modo in cui Botticelli decide di raccontare l’evento, esempio para19


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digmatico di un preciso atteggiamento architettonico nei confronti dell’intervento sull’esistente. Oggetti anche profondamente differenti tra loro si trovano a coesistere, contiguamente, entro il medesimo orizzonte fenomenologico; il divario temporale che li separa viene colmato da un’intenzione progettuale che ingloba l’antico nel nuovo. La particolarità del progetto sulle preesistenze si enuncia dunque non tanto per la specificità del metodo che viene applicato, quanto attraverso la patente intenzione del progettista di considerare la situazione data nel processo, dalla fase conoscitiva preliminare sino alla realizzazione. Se la materia preesistente diviene materiale di progetto, essa produrrà sul nuovo una traccia riconoscibile, che dà conto della relazione causale tra le due parti, imparentandole ben più strettamente di quanto non avvenga nel caso più generale in cui un’architettura si inserisca un ambiente già colonizzato. In altre parole, è il progettista stesso a trasformare il contesto in una preesistenza, instaurando intenzionalmente un rapporto dialettico tra le diverse parti. In questo processo, l’antico viene trasformato, trasfigurato, risignificato: la presenza del nuovo intervento cambia anche lo status degli oggetti preesistenti. L’intenzione del progettista di coinvolgere, a diverso titolo, una situazione data nel processo che conduce alla realizzazione del nuovo intervento, costituisce dunque una delle caratteristiche fondamentali del lavoro sulle preesistenze. Come si è detto, sussiste la possibilità che, a seguito dell’intervento, nuovo e antico non costituiscano due entità separate – almeno concettualmente – bensì partecipino di un’intenzione comune, come nel caso del dipinto botticelliano. L’ipotesi che nuovo e antico possano coesistere sullo stesso piano ontologico implica una considerazione trascendente del fatto storico, per la quale la ragione dei singoli eventi rimane slegata rispetto ad una contingenza dell’hic et nunc. Benché l’universo culturale che ha dato vita ad un determinato oggetto possa essere mutato o estinto ormai da lungo tempo, le ragioni sottese alla sua creazione potrebbero non aver subito la stessa sorte e perdurare con immutata validità anche nel momento presente. Come spesso accade, dunque, nel rapportarsi con la storia, l’attività intellettuale dell’architetto viene influenzata dalla presenza del passato: spesso, tuttavia, questa si manifesta in maniera umbratile, incerta, implicita nell’interpretazione che della storia viene operata da ciascun autore, niente affatto determinata dalla positività della materia. Al contrario, è solo in presenza di questa materia storica – fondamentale ancoraggio alla particolarità delle cose – che può avere luogo la trasformazione dell’architettura. Il progetto sulle preesistenze è dunque contesa dialettica: antico e nuovo si confrontano ad armi pari, nella medesima arena percettologica; entrambi contribuiscono allo svolgimento della scena con il loro corpo, presentandosi all’os20


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servatore in prima persona piuttosto che attraverso figure metaforiche. Non è pertanto necessario che il nuovo si sobbarchi il peso dell’allegoresi, narrando quanto avviene fuori dal teatro: tutte le dramatis personae avranno l’occasione di esporre ciò che hanno da dire, utilizzando la propria vis rhetorica, la peculiare capacità narrativa che le caratterizza. Il senso complessivo della storia, dell’unica storia che emerge, si potrà dedurre dalla combinazione di queste testimonianze, e tale significato finale sarà diverso da quelli espressi dall’uno e dall’altro contendente.

Modi di intervento Nella pratica contemporanea, diverse modalità di intervento si occupano della trasformazione dell’architettura: restauro, recupero, ampliamento, ristrutturazione, allestimento, riconversione, rifunzionalizzazione, spoglio – l’elenco potrebbe estendersi ad includere altre modalità più o meno codificate. Ciò che accomuna questi termini è chiaramente l’azione diretta su un oggetto architettonico precedente, sia essa intesa per la conservazione o la trasformazione; a questi risulta inoltre necessario aggiungere tutte quelle operazioni che, pur non intervenendo direttamente sulla materia architettonica data, mettono comunque in atto quel sistema dialettico che abbiamo individuato quale fondamento concettuale dell’intervento sull’esistente. Ciò che invece distingue questa molteplicità di modi di intervento è la distanza critica che l’autore assume rispetto agli oggetti preesistenti. Per quali motivi si è indotti ad attribuire ad un oggetto artistico – estendendo tale termine nel modo più ampio possibile – un valore, una particolare importanza? Da un lato perché si riconoscono in questo oggetto delle qualità intrinseche, rapportabili a criteri estetici comunemente accettati: armonia, abilità tecnica nella realizzazione, espressività – in una parola, bellezza. Dall’altro, perché l’oggetto rappresenta una testimonianza – di un’epoca, di un evento, di una persona o di qualsiasi altro fatto passato che, per l’individuo o la collettività, merita di essere ricordato: in altre parole, quando l’oggetto viene elevato alla condizione di monumento. Questi due diversi processi – spesso inestricabilmente intrecciati – attribuiscono all’oggetto artistico un duplice stato ontologico. È evidente che nessuno dei due può ambire all’universalità, essendo il primo sottoposto alle trasformazioni del gusto, il secondo al carattere transeunte della memoria storica: in entrambi i casi l’universo culturale entro il quale il progettista opera fornisce indicazioni più o meno precise – spesso anche normative – su quale 21


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debba essere la fascia di rispetto di un oggetto esistente. Lo spazio marginale tra queste indicazioni o imposizioni, ovvero la libertà di interpretazione e interazione disponibile può essere dunque sfruttata in diversi modi. In questo consiste la distanza critica tra il progettista e l’oggetto preesistente: nella posizione relativa che egli assume rispetto alla condizione data sulla quale si trova ad operare, sia a seguito delle proprie scelte sia dei vincoli impostigli dall’esterno. La questione della distanza critica lega fortemente l’operare sulle preesistenze alla problematica, propria della filosofia artistica, del rapporto tra l’autore e l’oggetto artistico considerato come modello. L’imitabilità dell’opera costituisce uno dei nodi centrali dell’estetica classica; la riflessione sulle modalità tramite le quali l’artista contemporaneo può interagire con il modello hanno a lungo occupato filosofi e critici d’arte. Se da un lato l’opera d’arte, oggetto ieratico per definizione, viene considerata come conclusa in sé stessa, resa perfetta dalla intenzionalità dell’atto creativo, è anche innegabile che qualsiasi oggetto artistico può essere inteso come aperto e rientrare – eventualmente sotto forma di interpretazione – nel processo che porta alla costituzione di una nuova opera. È evidente che questa dinamica si rispecchia anche nell’architettura, nel momento in cui il progettista è chiamato a rapportarsi con oggetti esistenti. La specificità del caso risiede nuovamente nell’interazione materiale con le preesistenze: l’opera architettonica non viene recepita, in genere, con la stessa assolutezza dell’oggetto d’arte. È per sua natura meno distante, più oggetto d’uso che di contemplazione. È lecito pertanto ipotizzarne una trasformazione anche materica, operazione questa difficilmente pensabile per l’oggetto ‘da museo’, se non in situazioni del tutto particolari. Se già il modo in cui il progettista considera l’oggetto dell’intervento stabilisce in partenza l’uso che ne farà, l’ampiezza del campo decisionale è però sovente ristretta da fattori esterni: un bene vincolato per legge lascia al progettista uno spazio di azione relativamente ristretto, dovendosi inderogabilmente privilegiare le proprietà dei manufatti esistenti; al contrario, nell’intervento su oggetti di meno conclamato valore testimoniale le limitazioni possono essere piuttosto dettate da condizioni economiche, di programma, di rapporto con la committenza ecc. La scelta di una posizione critica rimane tuttavia prerogativa del progettista: il modo di procedere rispetto alla situazione data scaturisce dalla sua intenzionalità e capacità. Valore attribuito all’oggetto preesistente e distanza critica sono dunque due fattori complementari: all’aumentare dell’universalità del giudizio rispetto all’opera data, la distanza che rispetto ad essa il progettista può assumere tende a diminuire. Il progetto di restauro rappresenta in questa prospettiva il grado 22


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Fig. 2 Yerebatan Sarai, Istanbul. Una delle due teste utilizzate come base per le colonne che sostengono le volte della cisterna Fig. 3 Dimitris Pikionis. Casa Garis, Atene (1964). Frammenti lapidei inseriti nella muratura

minimo di libertà disponibile: è necessario mettere in primo piano le esigenze di conservazione e recupero del manufatto storico, relegando quanto di nuovo viene aggiunto sullo sfondo dell’entità estetica che si viene a produrre; il portato iconografico e simbolico: i significati esistenti vengono rigorosamente conservati. All’estremo opposto dello spettro metodologico troviamo invece lo spoglio, quale radicale operazione di ri-significazione: il nuovo oggetto, pur incorporando frammenti di opere preesistenti, può inglobarli in maniera tale da trasformarne completamente il ruolo nel sistema figurativo del nuovo intervento (Figg. 2, 3). Nell’architettura storica abbondano gli esempi di riuso di materiali di spoglio, adoperati senza attribuire loro alcuna importanza: capitelli inglobati in murature, partizioni architettoniche utilizzate come riempitivi, o ancora frammenti di statuaria destinati a fungere da basi di pilastri; in altre parole, l’unico valore che si attribuiva all’oggetto antico era quello economico rappresentato dai suoi materiali costituenti. Benché nell’architettura contemporanea le opere di spoglio siano rare, è evidente quanto questo atteggiamento sia mutato rispetto alla tradizione storica dello spoglio: se anche estrapolati dalla loro cornice originaria, in mancanza della quale difficilmente riescono a conservare la loro dimensione linguistica pertinente, i frammenti di antico ridivengono protagonisti della nuova opera, spesso a seguito della creazione di un collage di oggetti 23


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Fig. 4 Christo & Jeanne-Claude. The Gates Project, Central Park, New York (2005). La percezione del parco viene trasformata attraverso l’introduzione di una fitta sequenza di schermi

non sempre sintatticamente correlati. Rispetto a questa tassonomia di possibilità di intervento, il progetto dell’effimero occupa evidentemente una posizione del tutto autonoma. La premessa della temporaneità non solamente tende a dissolvere molti dei vincoli normativi che spesso limitano l’intervento progettuale, ma contribuisce altresì alla riduzione delle considerazioni di carattere etico che generalmente investono la cultura architettonica. Gli allestimenti temporanei sono in grado di sondare la reazione di un oggetto architettonico sottoposto a determinate trasformazioni, quasi si trattasse di esperimenti scientifici a carattere non invasivo. Avendo la possibilità di agire in maniera più libera, chi progetta l’effimero può guidare l’osservatore attraverso un’esperienza amplificata della preesistenza architettonica, mettendo in evidenza aspetti dell’opera precedentemente non visibili, o addirittura non intesi per essere visti in alcun caso. Gli oggetti possono essere altresì nascosti, secondo una poetica di rivelazione attraverso l’occultamento, o ancora trasformati in entità differenti dalla loro (Fig. 4). Il limite alle potenzialità di queste operazioni è dato solo dal vincolo di reversibilità. Le distinzioni che sono state sinora introdotte riguardo la molteplicità metodologica dell’intervento sull’esistente rispondono essenzialmente a criteri qualitativi, che trovano il proprio fondamento nell’ambito culturale dal quale emergono. Come varia questa problematica in base al cambiamento della scala di riferimento? Interventi su singoli oggetti, su spazi interni, sono equiparabili ad ampie trasformazioni su scala urbana, quali ad esempio l’inserimento di nuove architetture nei tessuti storici sedimentati? Di nuovo, la distinzione sembra esse24


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re pertinente piuttosto agli strumenti che non al metodo da utilizzare: è evidente che l’analisi condotta sul singolo manufatto si concentrerà maggiormente sulle sue proprietà, sull’individuazione delle sue regole genetiche, mentre un intervento su scala urbana avrà il suo punto di partenza nell’ambito della città intera.

Strategie della trasformazione La pratica di trasformazione dell’esistente si può avvalere di tutti gli strumenti operativi propri del progetto di architettura, ulteriormente incrementati da quanto sviluppato in ambiti attigui quali il restauro o l’allestimento museale, o anche le esperienze nel campo dell’arte contemporanea. Il rapporto tra il nuovo e l’antico viene però sovente coniato attraverso l’adozione di alcune strategie che trovano nella pratica della trasformazione il loro campo di applicazione privilegiato. Queste modalità della modificazione intervengono su particolari aspetti degli oggetti preesistenti, alterandone le condizioni rispetto allo stato ante operam. La figurazione dell’architettura è un primo campo sul quale è possibile operare la trasformazione. Ciascun oggetto fisico si manifesta attraverso la produzione di immagini, elementi fondanti del processo di cognizione linguistica. All’immagine singola prodotta dall’oggetto individuale si affianca l’immagine

Fig. 5 Aldo Rossi. Scholastic Building, New York (1995). L’inserimento nello stretto lotto urbano di SoHo avviene deducendo le altezze dei marcapiani dall’edificio a sinistra e gli accostamenti cromatici dall’edificio a destra

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collettiva determinata dalla sequenza o sovrapposizione di una molteplicità di entità: è questo il caso dell’ambiente urbano, nel quale la compresenza di più scale dimensionali conduce alla continuità figurativa tra piccoli e grandi oggetti. La conoscenza dell’architettura come della città si basa in larga parte sulla tipicità delle immagini, sulla loro ripetizione anche al di là degli ambienti noti a ciascun individuo (Fig. 5). Riconoscere un edificio significa generalmente ritrovare in esso caratteri già precedentemente incontrati in altri; il sistema-città tradizionale diviene riconoscibile in virtù della ricorrenza di specifiche sequenze di immagini riferibili a elementi tipici – la strada, la piazza, il parco ecc. Quando però un edificio o un tessuto urbano si presentano sotto forma di frammento può accadere che essi non siano più riconoscibili. La mancata completezza degli oggetti genera un disturbo nella figurazione che può severamente menomare la possibilità di fruizione estetica dei frammenti: in molti casi il progetto sull’esistente mira, sulla piccola come sulla grande scala, alla riparazione di quelle situazioni nelle quali, per diversi motivi, si sono venute a formare delle lacune. La teoria brandiana del restauro enuncia un fondamento estetico per la necessità di ricostituire la completezza di immagine di un oggetto artistico; non ci sembra impropria l’ipotesi di estendere tali considerazioni anche a manufatti più ampi, quali possono essere ambienti, edifici o addirittura interi ambiti urbani. La presenza di un vuoto nel tessuto cittadino – soprattutto in quello sedimentato – viene sovente recepita come una privazione impropria che riduce la completezza che tale ambiente dovrebbe essere in grado di generare: al posto di una facciata, di un volume, l’osservatore è posto di fronte alle viscere della città storica, che entrano prepotentemente nel suo campo percettivo, spesso negando la qualità di momento sintetico dell’esperienza estetica all’unitarietà dell’effetto complessivo. Il vuoto costituisce in questi casi un elemento di disturbo, che può essere ridotto – di nuovo in analogia con le formulazioni di Brandi – tramite il ricorso a riempimenti stilisticamente distinguibili, eppure adatti all’interazione con una situazione già avviata. Il problema del completamento di immagine assume un rilievo particolare in tutti quei casi in cui i nuovi interventi si trovano ad interagire con ambienti di carattere omogeneo, quali i centri storici. Nella loro accezione di opera d’arte collettiva, nonché per la loro qualità di res publica gli ambienti urbani sedimentati pongono frequentemente vincoli non trascurabili ai progettisti, a causa dell’esigenza più o meno espressa di conservare l’immagine della città storica. Spesso però questi vincoli si limitano alla qualità dei prospetti: nel lasciare al progettista un ben più ampio margine di libertà relativamente agli spazi interni, non è infrequente che si verifichino discutibili disgiunzioni tra facciata e interno3. 26


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Fig. 6 Luigi Moretti. Edificio per uffici a Piazzale Flaminio, Roma (1975). Dalla terrazza tra Piazza del Popolo ed il Pincio, il peculiare coronamento dell’edificio sembra voler proseguire le curve del complesso di Porta del Popolo

Anche alla scala del singolo edificio il procedimento di completamento dell’immagine può avere luogo secondo modalità analoghe. Le valenze iconiche di un edificio non si limitano alla figurazione, bensì includono tra gli altri anche il proporzionamento, il dimensionamento e l’articolazione morfologica. Il completamento dell’immagine può dunque attuarsi attraverso l’aggiunta all’esistente di nuove parti che deducono da questo indicazioni per la loro definizione. Per via analogica, la trasformazione accoglie gli elementi metrici, introducendoli in un processo di trasfigurazione; anche in assenza di una precisa correlazione linguistica, la costruzione della nuova immagine può assumere i caratteri di un completamento (Fig. 6). È evidente che, sempre seguendo l’analogia con la teoria del restauro di Brandi, il completamento implica necessariamente il riconoscimento e l’acquisizione di un’immagine preesistente, alla quale si attribuisce una determinata validità ed un significato. L’immagine originaria viene acquisita e quasi interiorizzata nel nuovo progetto, diventando dunque elemento fondante del nuovo. Nel delineare lo sviluppo della pratica di progetto sull’esistente, Vittorio Gregotti rileva che alla nozione di modificazione si accompagna costantemente quella di appartenenza: nella sua interpretazione, si può modificare solo ciò che è parte integrante del proprio orizzonte culturale4. Questa posizione implica la continuità dell’atto di trasformazione, ovvero la persistenza di determina27


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ti fatti rispetto alla variabilità imposta dal movimento del tempo. Quello di continuità non è tuttavia un concetto universalmente applicabile, poiché sovente la trasformazione avviene in maniera dialettica, opponendo ad un ordine dato procedimenti ad esso radicalmente opposti. Al centro del lavoro sull’esistente può dunque collocarsi il dialogo tra una molteplicità di piani temporali: il confronto – o in alcuni casi conflitto – di storicità. Nella permanenza della materia antica il progettista contemporaneo può riconoscere quanto appartiene alle sue fondamenta culturali, rifiutando al contempo ciò che non considera significativo: ciascuna trasformazione, ogni operazione sulla materia precedente andrà ad aggiungere un ulteriore livello alla stratigrafia del mondo antropizzato. Mentre la strategia del completamento implica il riconoscimento della possibile analogia tra antico e nuovo, stabilendo pertanto delle similitudini con la pratica del restauro, le operazioni dialettiche devono necessariamente fare leva sull’alterità di quanto viene affiancato alla preesistenza. La scelta di rendere autonomo il nuovo intervento può perseguire il fine di rendere evidenti in negativo i caratteri dell’esistente, contrapponendo morfologie, linguaggi e tecniche distinti. Può dunque trattarsi della creazione di uno “specchio in negativo”, attraverso il quale l’osservatore viene messo in grado di conoscere più chiaramente, per differenza, l’una e l’altra parte. Nell’intervento sull’esistente le vie dialettiche sono ovviamente più di una: la contrapposizione può essere misurata ovvero produrre un impatto forte, a volte tanto da rendere difficile la sopravvivenza della materia data. L’introduzione forzata di linguaggi, l’innesto di morfologie aliene o ancora la brusca variazione delle caratteristiche ambientali di un edificio esistente possono in alcuni casi produrre risultati discutibili. Al contempo è innegabile che l’enfatizzazione delle differenze costituisce un validissimo strumento alternativo all’analogia. La dialettica tra preesistenza e nuovo intervento può anche verificarsi relativamente al solo contenuto funzionale: ciò può risultare fondamentale – non diversamente dal trapianto di un organo – per un manufatto che, pur non essendo considerato monumento in quanto tale, ha esaurito la propria vita economica, non essendo più in grado di generare i profitti necessari a giustificarne il mantenimento; non sono rari i casi in cui la trasformazione dell’uso di questi oggetti costituisce l’unico modo per promuoverne il recupero. Palazzi gentilizi trasformati in spazi per uffici, impianti sportivi riadattati a caserme, stazioni ferroviarie dedicate alla cultura, fabbriche che ospitano aule universitarie: nel recupero delle architetture si è spesso fatta di necessità virtù, adattando in maniera più o meno efficace vecchi contenitori a contenuti totalmente diversi 28


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Fig. 7 Massimo e Gabriella Carmassi. Musealizzazione della miniera Ravi Marchi, Gavorrano (2001). Il percorso di visita viene predisposto svolgendo un nastro continuo all’interno del sito, determinando le viste privilegiate della preesistenza

per i quali non erano stati intesi. Ma c’è chi sostiene che il vero pregio delle buone architetture è proprio quello di sapersi lasciar trasformare in altro senza eccessiva sofferenza e soprattutto senza perdere il proprio carattere. Analogia e dialettica rappresentano due contrapposte strategie di interazione con il sistema linguistico del costruito esistente. A monte della cognizione strutturale, l’esperienza diretta dell’architettura è tuttavia determinata dal modo in cui questa informa la percezione dell’osservatore. Se la preesistenza viene considerata secondo la sua qualità di oggetto dato, ne consegue che il nuovo intervento può costituirsi come dispositivo di lettura: interagendo in un preciso modo con la situazione esistente, è in grado di disvelarne aspetti inusitati, consentendone una comprensione aumentata rispetto alla condizione di partenza. Così come un ritrattista evidenzia determinati tratti di un volto, rilevando aspetti peculiari di una persona altrimenti meno visibili, così anche l’interazione del nuovo con l’antico può consentire all’osservatore di carpire caratteristiche non del tutto evidenti. A prima vista, questo può aver luogo predisponendo percorsi e punti di vista privilegiati tramite i quali l’osservatore viene condotto attraverso un preciso itinerario di esperimento dell’oggetto preesistente; in termini più generali, il nuovo intervento determina e diventa parte integrante dell’orizzonte fenomenologico dell’antico (Fig. 7). Attraverso l’uso delle tecniche costruttive, le proprietà dei materiali e l’illuminazione, il progettista può indurre effetti di riflessione, trasparenza, attenuazione o accentuazione degli spazi, enfatizzando o smorzando determinate caratteristiche: l’inversione della percezione – dal buio alla luce, dal silenzio al rumore – può trasformare un ambiente noto in un’esperienza del tutto originale. La modificazione dell’esistente si può espletare dunque nell’alterazione o 29


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raggio ad un passato che non ha la capacità di dare forma al futuro. La promessa di «rivoluzione attraverso l’architettura» ha generato la consapevolezza del potere demiurgico del progetto; allo stesso tempo lo ha condannato al destino del mutamento quotidiano, rendendolo schiavo della temporalità. Entrambi questi atteggiamenti estremi privano il tempo del suo significato – da un lato escludendolo dall’orizzonte umano, dall’altro relativizzandolo sino al punto di renderlo inconsistente. Il pericolo esiziale in cui rischiano di incorrere è lo stesso: quello di dimenticare che l’architettura appartiene al tempo. A nostro avviso il progetto – e a maggior ragione la trasformazione dell’esistente – non possono risolversi né nel tentativo di conservare pervicacemente al costo di mummificare la storia, tantomeno nel dictum piranesiano «Novitatem meam contemnunt, ego illorum ignaviam». Ciò che il progetto richiede è ben più complesso: contemperare istanze multiformi e disparate, alla ricerca di un preciso punto di equilibrio che sarà l’espressione sintetica di come l’autore affronta la dialettica tra presente e passato. Per il solo fatto di trovarsi ad operare in un ambiente storicizzato, il progettista non può e non deve rinunciare al potere demiurgico dell’architettura, veicolo di modernità: nonostante la profondità ed il carattere pervasivo della riflessione critica che ha interessato gli strumenti del moderno, l’istanza di operare attraverso i «mezzi del nostro tempo» non ha ancora esaurito la propria attualità. Il progetto contemporaneo sull’esistente può affrontare la contesa tra presente e passato solo se è piena espressione di un presente dialettico, consapevole della sua precisa collocazione nell’orizzonte storico del tempo. Attraverso questa cognizione della storicità del presente deve concretarsi dunque la relazione con la materia esistente: il momento attuale non è necessariamente disgiunto rispetto agli eventi che hanno prodotto tale materia; si tratta semmai di comprendere la propria distanza critica rispetto al passato. Se anche le cause materiali sono mutate nell’ampliarsi del divario, un filo di continuità permane invariabilmente in ogni rapporto tra antico e nuovo. Le appropriazioni di una situazione data, sovente operate proprio nel nome di questa continuità, devono poter essere circoscritte e limitate. Un’esauriente lettura dell’oggetto preesistente, del tessuto urbano sedimentato o del contesto ambientale è senza dubbio operazione preliminare inderogabile: il progetto che deriverà da questa analisi non può però esaurirsi nell’operazionismo del fornire una risposta a ciascuna delle condizioni che sono state rilevate. Persino il progetto di restauro – per definizione il più vincolato alla materia presente – deve produrre interpretazioni critiche, atte a delimitare l’estensione dell’intervento; a maggior ragione ciò deve avvenire in misura significativa nel progetto 31


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incremento delle modalità percettive intrinseche nella preesistenza, anche in contrasto rispetto all’intenzione originaria. Nell’ambito dello stesso intervento possono naturalmente essere applicate contemporaneamente diverse strategie, al fine di includere nella trasformazione tutti i livelli di esperimento dell’architettura. I modi della modificazione, le vie prescelte dai progettisti per giungere alla narrazione del passato attraverso il presente sono numerosissimi e resistono peculiarmente ad una sistematizzazione – indice con ogni probabilità della resilienza dell’antico a qualsiasi atto di semplificazione concettuale.

Il compito Progetto, strategie, metodi e strumenti: la strada è tracciata. Nello studio che segue si tenterà di comprendere con quali armi l’architettura possa combattere la contesa del tempo in presenza delle manifestazioni materiali del passato. Si è già detto che all’origine del confronto l’architetto si trova faccia a faccia con l’ineffabile tempo stesso, ordine sfuggente e polimorfo di tutte le cose: in relazione a questo egli deve comprendere e definire la propria identità. È forse il compito più arduo per ognuno, poiché intrinseca alla condizione umana è l’oscillazione tra la permanenza ed il cambiamento, l’ambizione di sconfiggere l’eternità e l’inesauribile energia dell’innovazione. L’aspirazione all’eterno è la ricerca di una radice profonda, del senso di appartenenza ad una continuità umana, unica garanzia di invincibilità di fronte alle maree del tempo. In nome di questa permanenza l’architettura del passato ha eretto i suoi monumenti; anche nel ventesimo secolo, Louis Kahn costruiva gigantesche rovine moderne, asserendo che «ciò che sarà è sempre stato», mentre Adolf Loos sognava una titanica colonna dorica svettante nel cielo di Chicago, segno della persistenza del passato. Eppure le intuizioni dei maestri hanno anche aperto la strada alle aberrazioni di chi non ha saputo coglierne il senso profondo, provocando gli eccessi dello storicismo o la conservazione oltranzista, entrambi incapaci di accettare lo scorrere del tempo, diffidando del futuro e abusando della memoria storica. Per chi crede troppo fermamente nella permanenza delle cose, il tempo può apparire come un trascurabile incidente ontologico. All’estremo opposto il tempo diviene invece misura di tutte le cose: non è possibile sfuggirgli ricorrendo alle immagini archetipe o ai modelli classici. Il momento presente è l’unico campo su cui confrontarsi, nel tentativo di orientare il percorso del tempo; tutto ciò che esula da quest’ambito è superfluo anco30


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architettonico. Evidentemente, nell’operare sull’esistente la timidezza non paga: così come l’antico può beneficiare della presenza del nuovo, entrando a far parte di un impianto estetico che valorizzi entrambi, così anche il nuovo non deve temere di utilizzare – anche spregiudicatamente – la materia esistente per dare concretezza e fondamento alle proprie ragioni architettoniche. Se abilmente adoperato, il rapporto con la materia storica può rivelarsi eccellente strumento nella produzione del senso dell’architettura contemporanea. La positività del progetto, il suo potere innovatore, trovano dunque il loro contrappeso nella materialità dell’esistente, nell’evidenza degli oggetti sui quali si interviene. Non è attraverso la demagogia delle operazioni mimetiche, né con la volgarità degli exploit dall’immagine dirompente che si può ottenere una coabitazione sensata di oggetti separati dal mare del tempo. «Il nostro tempo,» scrive Romano Guardini, «è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire»: non diversamente, ci sembra che l’unico modo per contemperare le istanze del passato con l’attualità del momento presente sia quello di rendere solidali la visione del futuro con «il mondo che ci è stato dato».

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Note 1 R. Guardini, Lettere dal Lago di Como, Morcelliana, 1993, p. 95. 2 In ciascuna delle rappresentazioni dell’Adorazione, in particolare nelle tavole conservate alla National Gallery di Londra e agli Uffizi, Botticelli interpreta in maniera differente il tema del rapporto tra rovine e nuove costruzioni. Di fondo rimane l’intento metaforico di fusione tra nuovo e antico mondo, inteso come punto cardine nel Tempo, segnato dall’arrivo del Messia. 3 Non sono pochi i casi in cui la necessità di conservare le facciate per non creare lesioni all’interno di un ambiente urbano ha portato ad una totale spaccatura fra gli ambiti interni ed esterni di singoli manufatti, dei quali i soli prospetti vengono pudicamente conservati al fine di simulare l’autenticità di quanto autentico non è. Questa pratica, tristemente nota nell’area mitteleuropea come Fassadismus, non ha ovviamente mancato di trovare estimatori in Italia, vuoi per le difficoltà di adeguare gli spazi interni alle stringenti normative tecnologiche odierne, o anche per l’impossibilità di rendere sufficientemente redditizi impianti distributivi antiquati ed eccessivamente vincolanti, o spesso ancora per semplice inettitudine dei progettisti. Può dunque accadere che dietro ad una elegante facciata d’epoca si celi un edificio del tutto disgiunto da quest’ultima, sul quale i resti dell’antico sono stati “incollati” per fornire una parvenza di decorum. La pratica di questa architettura di facciata non è ovviamente auspicabile per nessun motivo: nel migliore dei mondi possibili, un progettista cui viene richiesto un programma tale da non consentirne lo sviluppo nei ragionevoli limiti imposti dall’oggetto esistente dovrebbe avanzare un’obiezione di coscienza. Con molta probabilità, la demolizione e successiva ricostruzione rappresenta un’alternativa ben più decorosa, che non pretende ipocritamente di ridurre il fatto architettonico ad un trompe l’oeil storico applicato su un oggetto completamente alieno. 4 V. Gregotti, “Modificazione”, Casabella, n. 498-499 gennaio-febbraio 1984. «Bisogna innanzitutto […] partire dalla considerazione che negli ultimi trent’anni si è verificato, in modi spesso divergenti e con esiti anche discutibili, un progressivo interesse da parte della cultura architettonica per un’altra nozione che accompagna quella di modificazione: la nozione di appartenenza. Questa nozione di appartenenza (ad una tradizione, ad una cultura, ad un luogo e così via) si oppone progressivamente all’idea di tabula rasa, di ricominciamento, di oggetto isolato, di spazio infinitamente ed indifferentemente divisibile»; p. 2; «La “modificazione” è, nella sintassi linguistica, un modo di essere del modo, cioè della categoria del verbo, che definisce la qualità dell’azione (modo congiuntivo, indicativo ecc.), quindi essa rivela anche la coscienza dell’essere parte di un insieme preesistente, la trasformazione introdotta in tutto il sistema dal cambiamento di una delle sue parti ed indica che essa si sviluppa nel tempo e, attraverso la radice etimologica che la ricollega al concetto di misura (modus), si congiunge poi al mondo geometrico delle cose finite», p. 5.

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