la valenza politica dell'amicizia

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in Filosofia

Elaborato finale

la valenza politica dell'amicizia HANNAH ARENDT INTERPRETA LESSING

Relatore Chiar.ma Prof.ssa Olivia GUARALDO

Candidato Daniele BASSI Matr. VR077928

Anno Accademico 2010 – 2011

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Indice CAPITOLO 1: Hannah Arendt riceve il premio Lessing 1.1 Profilo storico

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1.2 Ricevere un premio in rapporto con il mondo

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1.3 Gotthold Emprahim Lessing: un illuminista non alla moda

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CAPITOLO 2: Il ruolo politico della compassione 2.1 Politica e sentimentalismo

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2.2 Compassione e rivoluzione

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CAPITOLO 3: Mondo, amicizia e politica 3.1 I tempi bui e la fuga dal mondo

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3.2 La condizione paria

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3.3 Il valore politico della questione ebraica

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3.4 FraternitĂ tra gli oppressi: quali risvolti politici?

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3.5 Dopo la catastrofe: la politica come dispositivo umanizzante

34

3.6 Decidere di non condividere il mondo: quali conseguenze?

36

3.7 Emigrazione interiore e padroneggiamento del passato: un

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problema diffuso 3.8 Dalla veritĂ teologica alla ragione scientifica: ripartiamo da

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Lessing CONCLUSIONE

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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CAPITOLO 1: Hannah Arendt riceve il premio Lessing 1.1 Profilo storico Il 28 settembre del 1959, presso l'università di Amburgo, venne conferito ad Hannah Arendt un importante riconoscimento, istituito dalla città, noto come Premio Lessing. In questa occasione Arendt pronunciò un discorso che dieci anni più tardi avrebbe costituito il prologo della raccolta di saggi intitolata Men in dark times. Quest'ultima opera non è stata tradotta integralmente in italiano 1, mentre lo è il discorso del '59 a cui ci si può riferire chiamandolo Discorso su Lessing o, rimanendo fedeli alla sua edizione italiana, l'Umanità in tempi bui. Il premio in questione fu il primo riconoscimento pubblico dell'autrice, ed è giusto ritenere assolutamente significativo che tale premio le venne offerto in Germania, suo paese d'origine, dal quale dovette fuggire, in quanto ebrea, nel 1933 e che la condannò allo stato di apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza americana. Nel corso degli anni cinquanta l'autrice compì già dei viaggi in Germania, conseguenza di nuovi contatti con i suoi maestri di un tempo, i filosofi Heidegger e Jasper, ma quello che la riportò in Europa nel '59 «fu la tournée di un'intellettuale i cui libri avevano già provocato molte discussioni oltreoceano e che ora veniva acclamata nelle principali città tedesche»2. Per qualche anno Arendt sarebbe stata al centro dell'attenzione del dibattito intellettuale e poté godere di una certa fama positiva. Questa celebrità la portò a profonde riflessioni, come ci viene testimoniato dall'incipit dello stesso Discorso su Lessing, incentrato tutto sul significato che porta con sé l'ottenere un premio, sul nostro rapporto e i sui nostri doveri verso il mondo, che con esso cambiano. Questo periodo, forse l'unico in cui Arendt fu così integrata ed accolta nella comunità intellettuale a lei contemporanea, non durò molto e si interruppe nel 1963 con lo scoppio del caso Eichmann 3. Significativo, a 1

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In lingua italiana infatti non sono stati pubblicati la totalità dei saggi contenuti nella raccolta del 1968. Questa parziale traduzione è nota con il titolo Il futuro alle spalle. In essa sono contenuti, tra altri meno celebri, i saggi su Kafka, Brecht e Benjamin, mentre mancano quelli su Heidegger, Jasper, Luxemburg e Papa Giovanni XXIII, così come non è riportato, posto in apertura nel testo inglese, il discorso del '59. Laura Boella, Introduzione a l' Umanità in tempi bui di Hannah Arendt, trad. it. Laura Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 9. Hannah Arendt nel 1961 fu inviata a seguire il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, presso Gerusalemme, per conto del "New Yorker". Dalle sue corrispondenze e dai suoi appunti nascerà un

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tal proposito, è che nel 1964 Hannah Arendt affermerà di ritenersi una teorica della politica e scriverà nero su bianco di non sentirsi affatto una filosofa e nemmeno di essersi mai vista accolta nella cerchia dei filosofi. Ora è importante per noi concentrare l'attenzione sul contenuto della conferenza del '59 e sul profondo legame che intercorre tra essa e l'esperienza biografica dell'autrice. E' infatti opportuno approcciarsi alla lettura dei singoli libri di Hannah Arendt pensandoli «come parti di un unico tentativo di comprensione della catastrofe storicopolitica del Novecento, che era stata anche per molti aspetti la tragedia della sua vita» e, nello specifico, ritenere che il testo del discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Lessing sia «uno degli esempi più riusciti della capacità arendtiana di tradurre in pensiero e in scrittura il proprio vissuto»4. 1.2 Ricevere un premio in rapporto con il mondo Come già accennato, Arendt, ricevendo il Premio Lessing, tiene un discorso pubblico in cui, in apertura, riflette sul significato del conferimento di un onore, come il premio in questione, che in primo luogo «impartisce una vigorosa lezione di modestia»5. Questo riconoscimento, attraverso il quale «il mondo prende la parola» 6, ci impedisce di giudicare noi stessi e i nostri meriti con i medesimi criteri con cui giudichiamo quelli degli altri. Nel momento in cui tale onore viene accettato, la nostra posizione nel mondo cambia, viene «rafforzata»7 e ci lega ad esso in maniera decisiva. Innanzitutto dobbiamo rinunciare a pensare a noi stessi e decidere «di agire interamente nell'ambito del nostro

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libro pubblicato nel 1963 con il titolo La banalità del male. Il testo in questione fece ricadere sull'autrice aspre polemiche legate soprattutto alle critiche mosse da Arendt al neonato stato di Israele specialmente per la gestione del processo stesso. Numerosi intellettuali ebrei accusarono infatti Arendt di "non amare il popolo ebraico". Il libro, al di là della questione ebraica, fece, e fa ancora, discutere per la sua posizione di fondo: rigettando ogni rassicurante manicheismo, Arendt ritiene che Eichmann e tanti altri nazisti rappresentino un male "banale". La banalità di cui parla Arendt consiste nel fatto che tanti funzionari nazisti non furono altro che normalissimi e banalissimi burocrati. Questo tipo di banalità non ridicolizza né sottovaluta l'abominio nazista ma lo rende semmai più terrificante. A macchiarsi di crimini orribili furono normali persone, che in fondo per molti versi ci assomigliano, non demoni o creature disumane. Laura Boella, Introduzione a l'Umanità in tempi bui, cit. pp. 15, 18. Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, trad. it. Laura Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 39. Ivi. p. 39. Ivi. p. 40.

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rapporto con il mondo»8: questo non ci muove solo alla gratitudine ma anche a dei doveri verso di esso. Arendt ritiene che ricevere un onore presupponga un accordo con il mondo e tale accordo «non è mai stato facile nella nostra epoca e nelle condizioni del nostro mondo, e lo è ancora meno per noi»9, riferendosi alla sua appartenenza ebraica. L'esempio di Lessing, a tal proposito, è estremamente significativo: egli non trovò mai, e forse non volle trovare, la pace con il mondo ma verso quest'ultimo si sentì sempre debitore. Il suo atteggiamento fu «radicalmente critico»10. La sua fu una critica che sempre prese «partito per il mondo»11. Lessing comprendeva e giudicava ogni cosa in base alla sua posizione nel mondo in un dato momento senza dunque approdare, per nessuna ragione, ad una visione definita e immune ad ulteriori esperienze. Secondo Hannah Arendt abbiamo molto da imparare da Lessing e da questo suo modo di pensare: un pensare completamente libero, che per amore del mondo non si appoggia alla storia e arriva a sacrificare il principio di non contraddizione, un pensare che noi siamo portati a considerare privo di autorità, perché da Lessing non ci separa solo il XVIII secolo ma anche il XIX, con la sua ossessione per la storia e per l'impegno ideologico. Lessing ha avuto coraggio, non soltanto intelligenza, e questo per Arendt costituisce la straordinaria potenzialità del suo pensiero; seminò «fermenta cognitionis» 12, non per diffondere conoscenze, ma per stimolare il «pensare da sé»13 senza muovere costrizioni di nessun tipo a sé stesso e agli altri. «Il monito del "guardare con i propri occhi"» fu per lui «un precetto imperativo» 14 a cui coerentemente non venne mai meno. 1.3 Gotthold Emprahim Lessing: un illuminista non alla moda Prima di addentrarci nel cuore delle questioni sollevate da Arendt nel Discorso su Lessing è bene, per ovvie ragioni, cercare di far luce sulla figura di Gotthold Emprhraim 8 9 10 11 12 13 14

Ivi. p. 39. Ivi. p. 41. Ivi. p. 44. Ivi. p. 49. Ivi. p. 52. Ibidem. Nicolao Merker, Introduzione a Lessing, Laterza, Roma, 1991, p. 58

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Lessing: nato nel 1729 a Kamenz, nella Lusazia superiore, era figlio di un pastore protestante. Studiò a Lipsia e Berlino, dove conobbe Voltaire. Lessing, dal 1770, si guadagnò da vivere come bibliotecario al servizio del principe ereditario Ferdinando, duca di una piccola città della Bassa Sassonia. In realtà Lessing fu dal duca mal pagato e maltrattato ma, al seguito di quest'ultimo, poté viaggiare e nel 1775 compì anche un viaggio in Italia di cui era appassionato per ragioni artistiche. Nel 1780 sposò Eva König che però morì poco dopo, insieme all'unico figlio, durante il parto. Lessing cadde così in una profonda depressione che lo portò, insieme ad altre cause, a morire nel 1781. Lessing fu un autore brillante, nella sua carriera scrisse per molte riviste, ma la sua attività raggiunse l'apice nel teatro. In una lettera alla madre del 1749, in cui tentò di spiegarle le ragioni per cui decise di abbandonare l'università in favore di una piena dedizione al teatro, Lessing parla del teatro come istanza morale e scuola di vita alternativa al sapere libresco. Infatti «la convinzione che il teatro fosse un veicolo di idee etico-pratiche illuministe»15 non venne mai meno nel drammaturgo tedesco. Ovviamente queste sue convinzioni portarono il giovane Lessing ad uno scontro con i genitori che, saldamente luterani, vedevano nell'attività teatrale una pericolosa via di perdizione. L'interesse culturale di Lessing fu prevalentemente riservato alla filosofia dell'arte e alla filosofia della religione. La sua indole, ed è soprattutto su questi aspetti che si fonda la ripresa

arendtiana

dell'autore

settecentesco,

fu

radicalmente

antitirannica

e

antidogmatica. Questa sensibilità si tradusse efficacemente nelle sue opere più celebri. Tra queste va ricordata il Libero pensatore (1749) che mostra chiaramente «la capacità polemico-critica dell'autore di ribaltare luoghi comuni dell'illuminismo dozzinale allo scopo di spingerli al paradosso e così, denunciandone l'insostenibilità, di mostrare invece che altro doveva essere il livello del rischiaramento vero» 16. In questo senso possiamo parlare di «illuminismo non alla moda» di Lessing. Nell'opera del 1749 viene coraggiosamente messo alla berlina l'anticlericalismo astratto e superficiale di molti "liberi pensatori". Il protagonista infatti, un presunto "libero pensatore", ha un nome fortemente simbolico, Adrasto, ossia l' "irremovibile". Adrasto giudica ipocrita ogni 15 16

Ivi. p. 33. Ibidem.

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prete, cattolico o protestante che sia, ma nell'opera è destinato ad incontrare un altro personaggio, anche lui caratterizzato da un nome emblematico, Teofane, ovvero il "rivelatore di dio". Teofane, che è un pastore luterano, non vuole in realtà essere depositario di nessuna "Rivelazione" e dimostra concretamente ad Adrasto di proporgli una sincera e leale amicizia. La conclusione rappresenta uno scambio delle parti, almeno rispetto a quanto il lettore possa prevedere nei primi atti. E' infatti il pastore luterano a convincere il "libero pensatore" a non guardare «tutto attraverso la lente colorata delle opinioni preconcette» (atto V, scena 3). Altra opera giovanile che merita di essere accennata è Gli Ebrei, sempre del 1749, costituita da un atto unico «impostato anch'esso sulla discrepanza tra ciò che per pregiudizio si ritiene vero e poi, invece, vero non è». Il protagonista è un barone antisemita e la vicenda ruota attorno ad una aggressione da esso subita ad opera di due ladroni barbuti. Pregiudizialmente il protagonista ritiene che i suoi rapinatori siano ebrei mentre, in realtà, l'unico ebreo in scena è un giovane viaggiatore corso in salvo del barone. Anche qui la morale è che il protagonista «annebbiato da preconcetti razziali deve ricredersi e incassare l'ammaestramento impartitogli dal suo salvatore» («A dir la verità, sono contrario a giudizi generali su interi popoli...direi che in tutte le nazioni c'è gente buona e cattiva»: scena 6).17 Tra le opere non giovanili, invece, è bene richiamare la tragedia antitirannica L'Emilia Galotti (1772). In essa, alludendo alla miseria politica e morale della Germania, l'autore mise in realtà sulla scena la miseria politica e morale del principe di Guastalla e della corte da cui lui stesso dipendeva. Il duca Ferdinando, infatti, «era, tra i principi del settecento tedesco una figura particolarmente spregevole» che «incamerava soldi vendendo i sudditi come mercenari a potenze straniere».18 Lessing definì la tragedia in questione come una modernizzazione dell'antico episodio romano di Virginia 19 e cercò di presentarla pubblicamente come del tutto priva di risvolti politici. In ogni caso al 17 18 19

Cfr. ivi, pp. 33-34. Ivi. p. 91. Nel terzo libro dell'Ab Urbe Condita, celebre opera dello storico ed autore latino Tito Livio (59 a.C.17 d.C.), si narra infatti della vicenda in cui è coinvolta Virginia, giovane romana di cui Appio Claudio, capo dei decemviri che hanno steso la legge delle XII tavole, si è innamorato. Il padre di Virginia, di fronte all’impossibilità di ottenere giustizia dalla legge rappresentata dallo stesso Appio, che ne fa un uso palesemente arbitrario e a suo favore, facendo schiava la ragazza, uccide la figlia, donandole la libertà.

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duca, «che seguiva la moda delle ambientazioni vagamente classicistiche, bastò che il dramma richiamasse, alla lontana, qualcosa narrato da Tito Livio» mentre «Giuseppe II d'Austria, che nel luglio del 1772 vide due volte l'Emilia ed evidentemente non ne capì nulla, disse che mai in vita sua aveva riso così tanto durante una tragedia» 20. In scena compaiono pochi personaggi rilevanti: il principe di Guastalla che ,cinico e tiranno, si considera padrone assoluto di tutte le cose e delle persone che vivono nel principato, un ministro di quest'ultimo, Marinelli, fedele servitore del principe, Emilia Galotti, figlia di un vecchio oppositore repubblicano di Ferdinando, e Appiani, un giovane conte promesso sposo di Emilia che, se pur disgustato dalla corte, per un malinteso senso dell'onore, continua a servire il principe. Quest'ultimo, innamoratosi di Emilia, incarica Marinelli di uccidere Appiani e di portare al palazzo l'amata. «Sarà alla fine costei, presa nel voluttuoso vortice della vita di corte e delle lusinghe del principe a cui non è affatto insensibile, a supplicare il padre di ucciderla per poter lei, così, riscattare la propria alienazione con il supremo atto di libertà di una morte volontariamente scelta». Di fatto nessun personaggio coinvolto nella vicenda appare il protagonista decisivo. Alcuni critici hanno interpretato questo elemento caratteristico dell'opera come il frutto di una specifica e consapevole volontà dell'autore volta a mostrare che «in ciò che nel bene e nel male i personaggi fanno, essi sono condizionati da quello che nella tragedia sembra essere il protagonista vero, ma impersonale [...] l'effettivo protagonista dell'azione è lo spirito di Guastalla» ovvero «l'ideologia di un feudoleggiante mini-Stato dispotico la quale nei suoi effetti alienanti coinvolge sia i regnanti che i sudditi» 21. L'Emilia Galotti è di fatto, «dall'inizio alla fine, una denuncia dell'ideologia di corte»22. L'attenzione di Lessing per le questioni legate alla religione e al rapporto tra le religioni, come già accennato, fu molto profonda e sarà al centro di Nathan il saggio, un dramma in versi del 1779, a cui fa riferimento Arendt nel discorso del 1959 dedicando grande attenzione a certi elementi contenutistici che fanno di Nathan il saggio il capolavoro di Lessing e anche, più in generale, della letteratura tedesca dell'illuminismo. Nathan, vero e proprio «monumento di umanesimo etico laico»23, è infatti il poema della tolleranza 20 21 22 23

N. Merker, Introduzione a Lessing, cit., p. 92. Ivi, p. 93 Ivi, p. 94 Ivi, p. 33.

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nel senso più ampio possibile, non solo, quindi, religiosa. La scena si svolge a Gerusalemme, città sacra alle tre grandi religioni rivelate, durante la terza crociata. Il protagonista è Nathan, ricco e saggio commerciante ebreo. Il primo atto si apre con Nathan che, al ritorno da un lungo viaggio d'affari, scopre che durante la sua assenza un incendio ha colpito la sua casa e che la figlia adottiva Recha sarebbe morta bruciata se non fosse stato per

l'intervento di un giovane coraggioso, e

inizialmente sconosciuto, templare. Altro personaggio fondamentale è il sultano Saladino che, poco prima dell'incendio, aveva liberato il templare, facendolo così scampare alla pena di morte, perché il giovane soldato gli ricordava un suo fratello morto durante una precedente crociata. Tra i personaggi si creano e si svelano al lettore, progressivamente allo svolgersi del dramma, dei legami profondi. Tra il templare e Recha nasce anche una relazione d'amore, ma nelle ultime scene emerge che i due giovani sono in realtà fratelli. Entrambi figli del fratello del sultano. La storia, in sintesi, mostra come Nathan, Saladino e il templare riescano a superare le differenze tra le loro religioni, mentre la complicata vicenda dei due giovani esprime la forza di un amore che rimane tale anche se cambia drasticamente di segno. Ciò che l'autore vuole comunicare, attraverso una storia davvero intricata e piena di peripezie, è, come accennato, l'importanza della tolleranza e del rispetto tra gli individui. La costruzione teorica che regge questo insegnamento è l'idea per cui la storia deve essere letta come storia progressiva. Lessing, in generale accordo con l'illuminismo, aderisce infatti a tale concezione, e ritiene che anche la religione debba essere inserita in questo continuo progresso dell'umanità. Tutte le religioni rivelate sono dunque, allo stesso modo e con la stessa dignità, tappe della coscienza umana. Il punto più alto dell'opera, sia per contenuto che per suggestione letteraria, è la parabola dei tre anelli a cui Arendt, non a caso, si riferisce durante il suo discorso richiamando “l'anello perduto”24. La parabola è costituita dalla risposta di Nathan al sultano Saladino dopo la domanda di quest'ultimo relativa alla necessaria veridicità di una religione rispetto alle altre: «Tu che sei così saggio dimmi, una volta per tutte, qual'è la fede, qual'è per te la legge più convincente di ogni altra?». Nathan per accontentare la volontà del sultano racconta una storia che narra di un «anello 24

Ivi, p. 88.

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inestimabile» che aveva il potere di «rendere grato a Dio e agli uomini chiunque lo porti con fiducia». L'uomo che, molti anni or sono, per primo ottenne in dono tale anello, lo diede in eredità al figlio più amato lasciando scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato e che quest'ultimo, per la sola forza dell'anello, diventasse automaticamente il capo e il signore del casato. L'anello cominciò così ad essere tramandato di figlio in figlio fino a quando giunse in mano di un padre che amava ugualmente e indistintamente i suoi tre figli tanto da promettere a tutti questi l'anello. Poco prima di morire, questo padre si rattristò all'idea di dover deludere due figli per favorirne uno e così pensò di incaricare un gioielliere di riprodurre due anelli assolutamente identici al suo. Le copie furono realizzate talmente bene che il padre stesso non fu in grado di distinguerle dall'originale. Rallegratosi per questo, il padre chiamò a sé i figli, regalò ad ognuno un anello, e morì sereno. Da quel giorno, continua Nathan, ogni figlio vuole essere il signore del casato. «Si litiga, si indaga, si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l'anello vero come per noi provare quale sia la vera fede». A queste parole il sultano si infastidisce e, credendo che Nathan si stia prendendo gioco di lui, afferma che se pur gli anelli della storia appaiano identici, le religioni a cui lui faceva riferimento «si possono distinguere persino nelle vesti, nei cibi e nelle bevande». Nathan, per quanto ammetta giusta l'obiezione di Saladino, ribatte che le religioni non si distinguono però nei fondamenti e riprende la storia portandola a conclusione. I tre figli si accusarono in giudizio e tutti, in assoluta buona fede, giurarono al giudice di aver ricevuto l'anello, e molto tempo prima, la promessa direttamente dal padre. Il giudice decise che la parola spettasse all'anello stesso, in quanto solo quello vero «ha il magico potere di rendere amati, grati a Dio e agli uomini», e la domanda che rivolse ai contendenti fu chi di loro risultasse il più amato. Di fronte all'incapacità dei tre a rispondere il giudice chiuse la questione accusando i fratelli di essere «truffatori truffati», ognuno «ama solo se stesso» dimostrando così che gli anelli sono tutti e tre falsi. Probabilmente, proseguì il giudice, «l'anello vero si perse, e vostro padre ne fece fare tre per celarne la perdita e per sostituirlo». «Vostro padre, forse», conclude il giudice, «non era più disposto a tollerare in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre […] sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù 10


della pietra del suo anelloÂť25.

25

Cfr. e cit. Lessing, Nathan il saggio, trad.it. Andrea Casalegno, Garzanti, Milano, 2007, da pp. 155163.

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CAPITOLO 2: Il ruolo politico della compassione 2.1 Politica e sentimentalismo Nel corso del XVIII secolo si affermò la concezione di una natura umana unitaria, mossa dalla convinzione che comportamento umano e naturale siano la stessa cosa. Vi sono a riguardo teorie celebri che trovano il loro massimo sostenitore in Rousseau, convinto inoltre che il carattere compassionevole dell'uomo sia una palese e oggettiva prova della natura umana comune o, appunto, unitaria. Con un accordo che Arendt definisce «degno di nota» 26, anche per Lessing l'uomo migliore è quello più compassionevole, tuttavia egli è turbato dal carattere egualitario della compassione. Per capire questa posizione di Lessing, che può in un certo senso sembrare contraddittoria, è bene precisare che devono essere distinti due piani: uno lo possiamo definire individuale e sentimentale, l'altro invece rimane propriamente e squisitamente politico. Questa distinzione è valida anche per comprendere certe analisi arendtiane sui vari atteggiamenti che gli individui, o intere comunità, possono adottare nei confronti del mondo. Un esempio emblematico, su cui più avanti ritorneremo, è il giudizio che Arendt riserva per il fenomeno della “emigrazione interiore”, ossia la fuga dalla sfera pubblica in “tempi bui”. Questa non è un male per l'individuo ma da un punto di vista politico, lo è indubbiamente per la collettività. Vi è qui un evidente doppio livello di interpretazione: da una parte l'individuo e la sua esistenza privata,

e dall'altra la

collettività e la sua esistenza politica. Esso è figlio di una convinzione arendtiana molto significativa che la porta a scontrarsi con la concezione aristotelica dell'uomo come zoon politikon. Precisamente, Arendt critica l'idea secondo la quale nell'uomo vi sia un'essenza politica; l'uomo in realtà è per lei a-politico. La politica non nasce nell'uomo, ma «tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell'Uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra, e si afferma come relazione»27. Tenendo conto di questo, è più facile riuscire a scindere quel doppio piano interpretativo 26

27

Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, trad. it. Laura Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 59. Hannah Arendt, Che cos'è la politica?, trad. it. Marina Bistolfi, Einaudi, Torino, 2006, p. 7.

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su cui la affermazione di Lessing, «un uomo integralmente politico»28, ci ha portati. Tornando al confronto Rousseau-Lessing, possiamo dire che mentre la Rivoluzione Francese vede nella fraternità il massimo compimento dell'umanità, Lessing preferisce considerare tale l'amicizia, in quanto questa risulta «tanto selettiva quanto egualitaria è la compassione»29. Lessing è anche convinto che i «sentimenti filantropici» e le «inclinazione fraterne»30 corrano il rischio di portarci ad odiare il mondo in seguito alla condizione in cui riversano gli uomini. Mentre più avanti vedremo come, nella lettura arendtiana, la fraternità trovi il suo luogo naturale tra gli sfruttati e gli umiliati, ora è opportuno riflettere sul ruolo svolto dalla Rivoluzione Francese nell'elevare a categoria politica, insieme alla libertà e all'uguaglianza, la compassione. Quest'ultima infatti, intesa “alla Rousseau” come conferma di una natura umana comune, divenne «il motore centrale della rivoluzione di Roberspierre»31. La compassione è indubbiamente un affetto naturale che colpisce ogni persona normale davanti alla sofferenza altrui e di conseguenza «potrebbe costituire la base ideale di un sentimento in grado di istituire una società in cui gli uomini possano veramente diventare fratelli»32. Questo almeno era quanto intendeva fare l'umanitarismo rivoluzionario. Per Arendt però «non bastano né la compassione né la condivisione delle sofferenze»33 per giungere ad un tale tipo di umanità. Nel discorso del '59 Arendt, molto brevemente, dichiarando che non è la sede adatta per discuterne approfonditamente, parla di vero e proprio «danno provocato dalla compassione alle rivoluzioni moderne, quando ha tentato di riscattare la massa degli sventurati, invece di istituire la giustizia per tutti»34. A tal proposito è utile tornare agli antichi, sia per prendere le distanze dal nostro modo di pensare, sia per la loro autorevolezza in materia di politica. La netta opposizione tra la valutazione degli antichi e quella dei moderni riguardo alla compassione colpisce ancora di più se si considera che entrambi concordano sulla naturalità della stessa. Nell' 28 29 30 31 32 33 34

Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, cit., p 98. Ivi, p. 59. Ivi, pp. 59-60. Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, cit., p. 62. Ivi, p. 63. Ibidem. Ibidem.

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antichità l'uomo compassionevole non era ritenuto migliore di quello pauroso, proprio perché veniva riconosciuta con chiarezza la natura affettiva della compassione. Paura e compassione sono entrambe emozioni passive e rendono dunque impossibile l'azione, ed è per questa ragione che Aristotele le tratta congiuntamente. Ancora più sorprendente, leggendo Cicerone, è sapere che gli stoici paragonavano la compassione all'invidia. Nelle Tuscolane Disputationes leggiamo che “poiché l'uomo piange la sventura altrui, soffre anche della felicità altrui”. Di seguito Arendt si pone quindi la seguente domanda: “siamo incapaci di portare aiuto senza provare compassione?”. Sostanzialmente da questi stimoli Arendt, che ritiene comunque un errore ridurre la compassione alla paura, «come se la sofferenza degli altri facesse nascere la paura per noi stessi»35, si chiede se gli uomini «sarebbero meschini al punto di non poter agire umanamente senza pietà, senza essere sollecitati e per così dire costretti dalla loro propria compassione, quando vedono gli altri soffrire»36. Qui è ovviamente centrale la questione dell'altruismo e dell'apertura agli altri che è di fatto la condizione necessaria dell' ”umanità”. Ora è chiaro che da questo punto di vista condividere la gioia «è infinitamente superiore rispetto al condividere la sofferenza» 37 ed è quindi la gioia, non la sofferenza, ad essere loquace. E' la gioia che dà il tono al vero dialogo umano, un dialogo intriso del piacere che si prova per l'altra persona e per ciò che dice. Un dialogo dunque nettamente distinto dalla semplice conversazione. Il peggior vizio dell'umanità, ciò che sembra renderla impossibile, è l'invidia. Tale sentimento infatti impedisce a chi ne è afflitto di godere della felicità altrui e quindi impedisce quel dialogo umano, sopra

descritto, che trova origine solo dalla

condivisione della gioia. Ciò non toglie, comunque, che «l'opposto della compassione non sia l'invidia ma la crudeltà, che è un affetto tanto quanto la compassione, ma perverso, perché consiste nel provare piacere quando naturalmente si dovrebbe provare dolore»38.

35 36 37 38

Ivi, p. 64. Ivi, p. 65. Ibidem. Ivi, p. 66.

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2.2 Compassione e rivoluzione Se nel discorso del '59 Arendt si limitò solamente ad accennare la questione del ruolo dannoso svolto dalla compassione nella storia delle rivoluzioni, nel 1963 la approfondirà nel celebre saggio Sulla Rivoluzione. In tale testo l'autrice riconfermerà l'idea secondo la quale fu Rousseau ad aver «introdotto la compassione nella teoria politica», e sarebbe stato in seguito Roberspierre a portarla «sulla pubblica piazza con tutta la veemenza della sua grande oratoria rivoluzionaria» 39. Fino al XVII secolo, per quanto fosse la religione cristiana a determinare i valori morali dell'occidente, «la compassione operò al di fuori del campo politico». Fu tra «quelli che fecero la rivoluzione francese», uomini del XVIII secolo, che iniziò ad essere condivisa una «innata ripugnanza a veder soffrire una creatura umana»40. «Da allora la passione della compassione», secondo Arendt, «ha ossessionato e trascinato gli uomini migliori di tutte le rivoluzioni»41. Soltanto una rivoluzione si distingue, per questo aspetto, dalle altre. «La passione della compassione», infatti, «era del tutto assente dalle menti e dai cuori degli uomini che furono artefici della rivoluzione americana» 42. Da qui ha origine la convinzione arendtiana sul fallimento delle due più celebri rivoluzioni, quella francese e quella sovietica, e la sostanziale riuscita di quella americana. La chiave del successo di quest'ultima, per Arendt, va ricercata nella sua natura squisitamente politica, in quanto fu una lotta per la libertà. Il fallimento delle altre due è invece rintracciabile nelle scelte dei rivoluzionari che, mossi dalla compassione, decisero di non puntare più alla libertà ma di elevare a «scopo della rivoluzione [...] il benessere del popolo» 43. L'autrice ritiene comunque che sarebbe assolutamente scorretto «considerare scontato il successo della rivoluzione americana e arrogarsi il diritto di giudicare il fallimento degli uomini della rivoluzione francese». La riuscita della rivoluzione americana non è per Arendt dovuta solo alla saggezza, per quanto indiscussa, dei padri fondatori, ma si deve anche considerare che «la ragione del successo e del fallimento fu che la condizione di povertà era assente dalla scena americana ma presente in tutti gli altri paesi del mondo», intendendo, spiega l'autrice, non l'assenza di «controversia fra ricchi e poveri», ma che 39 40 41 42 43

Hannah Arendt, Sulla Rivoluzione, trad. it. Maria Magrini, Einaudi, Torino, 206, pag 86. Ivi, p. 73 Citazione di Rosseau. Ivi, p. 73. Ivi, p. 89. Ivi, p. 62.

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sulla scena americana mancarono «la miseria e il bisogno». «I laboriosi in America erano poveri ma non miserabili» e questo rappresentò il grande vantaggio dei fondatori della repubblica, rispetto ai rivoluzionari europei, che in questo modo «non furono spinti dal bisogno, e non arrivarono a sopraffare la rivoluzione. Il problema che essi ponevano non era sociale, ma politico»44. Arendt, tuttavia, osserva criticamente che l'assenza della questione sociale in America fu piuttosto illusoria, in quanto «una miseria abietta e degradante esisteva ovunque nella forma della schiavitù e del lavoro dei negri». Tra l'altro ritenere che Arendt muova solo considerazioni positive alla rivoluzione americana sarebbe anche testimonianza di una superficiale lettura dell'ultima parte del saggio del '63, in cui l'autrice analizza la degenerazione dello spirito originario dell'azione politica dei costituenti. Arendt ritiene sostanzialmente che, con l'instaurazione del sistema rappresentativo e l'affermarsi di un modello culturale rivolto al benessere materiale e al consumo della ricchezza, anche in America l'azione politica sia stata liquidata in nome degli interessi materiali. 45 La sua non è quindi una esaltazione tout court della rivoluzione americana, ma il suo interesse per essa è motivato proprio dal fatto che «la questione sociale, sia che fosse veramente assente o soltanto nascosta nel buio, era inesistente a tutti i fini pratici e con essa mancava la passione più potente, e forse la più devastatrice che abbia mai motivato i rivoluzionari: la passione della compassione».46 Nella sua analisi del fenomeno rivoluzionario francese, invece, Arendt considera un punto di svolta significativo la presa del potere da parte dei giacobini «non perché fossero più radicali ma perché non condividevano la preoccupazione dei girondini per le forme di governo». Fedeli a Rousseau, essi «credevano nel popolo piuttosto che nella repubblica e “avevano fede nella naturale bontà di una classe” piuttosto che nelle istituzioni e nelle costituzioni». Ciò su cui Arendt riflette maggiormente sono le seguenti parole di Robespierre: «Con la nuova costituzione le leggi si dovrebbero promulgare nel nome del popolo francese invece che nel nome della repubblica francese»47. Per l'autrice, questo rappresentò il superamento della teoria che pone il 44 45

46 47

Ivi, pp. 70-71. Cfr. Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 261262. Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, cit., pp. 73-74. Ivi, Pag. 79.

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consenso popolare come condizione imprescindibile della legittimità di un governo. Per questo i governi rivoluzionari non furono capaci di sanare la frattura che divideva governati e governanti, e inoltre si rivelarono «non dissimili in questo dai loro predecessori, non erano né del popolo né eletti dal popolo: tutt'al più erano per il popolo»48. Tuttavia, contrariamente all'analisi arendtiana, nel corso dell' Ottocento e del Novecento ha avuto successo l'idea per cui la teoria rousseauiana della volontà generale sembrerebbe opporsi, in senso democratico, alla verticalità del rapporto politico hobbesiano49, in cui il sovrano rappresenta la totalità dei sudditi espropriati della loro capacità di agire pluralmente. Ma Hannah Arendt invece non si limita solamente ad istituire una profonda continuità tra la sovranità di Hobbes e la volontà generale di Rousseau, ma ritiene che il «proprio» del politico, ossia la sua dimensione relazionale, venga maggiormente tradito da «un iperpoliticismo» scorgibile nella «democrazia plebiscitaria e nazionalistica» del filosofo di Ginevra ancor più che nell'obbedienza e nel patto hobbesiani.50 Questo perchè «se Hobbes lasciava sussistere, almeno nel privato, una libertà di carattere negativo, e se nel suo appellarsi al consenso originario rimaneva traccia di una pluralità residuale, con Rousseau il monismo politico si farebbe totale». «Per quanto mai dichiarato apertis verbis , l'assunto forte di questa interpretazione è in alcuni aspetti concorde con tutte quelle letture che vedono nella democrazia rousseauiana i germi di una concezione totalitaria» 51. In sostanza la volontà generale di Rousseau, identificata dallo stesso con la "sovranità popolare", «uccide anche quello spazio della privatezza che il Leviatano lasciava in vita». Secondo la sensibilità arendtiana, con Rousseau non assistiamo a nessun capovolgimento delle 48 49

50 51

Ivi, Pag. 77. Thomas Hobbes (1588-1679), celebre filosofo britannico. Qui ci si riferisce al Leviatano, famoso volume pubblicato nel 1651. Fondamentalmente Hobbes distingue nettamente una condizione naturale, o stato di natura, caratterizzata da una situazione di isolamento e guerra permanente dettata dagli interessi dei singoli, e una condizione civile in cui, grazie alla fondazione dello Stato, prevale la pace e la sicurezza. Secondo la tesi hobbesiana dunque la libertà, puro non impedimento, è incompatibile con il concetto di pace. La libertà equivale infatti ad una ricerca di dominio che deve essere alienata nello stato. Da qui nasce il contrattualismo hobbesiano: l'unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune è quello di delegare e conferire, tramite un patto, ad un uomo, o ad un gruppo comunque ristretto, il loro potere e la loro forza, al fine che tale istituzione possa ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica. Il patto, o contratto, che rappresenta appunto l'alienazione del diritto naturale, cioè della libertà assoluta, ha quindi in sé i concetti di autorizzazione e rappresentanza. Cfr. Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 159. Ivi, p. 160.

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teorie hobbesiane perché «la volontà generale non restituisce ai sudditi, strappandolo al sovrano, il monopolio della libertà di agire. L'identità tra la volontà generale e sovranità popolare non è che la drastica radicalizzazione della riduzione della pluralità all'unità, messa in atto da Hobbes.» La politica rousseauiana è sicuramente configurata come una dimensione collettiva, ma il suo soggetto, e in questo senso possiamo, arendtianamente, parlare di tradimento del senso «proprio» della politica, «è una volontà generale che si comporta come il più solitario degli uomini» e «la qualità di questa volontà è un'unanimità che toglie voce a qualsiasi minoranza e fa tacere ogni dissenso» 52. Per la pensatrice tedesca non è infatti un caso che la parola "consenso", che implica una scelta deliberata e una meditata opinione, sia stata sostituita dalla parola "volontà", che invece esclude ogni processo di scambio d'opinione ed ogni eventuale tentativo di conciliare opinioni diverse in quanto non vi è mediazione possibile tra volontà diverse, mentre lo è tra diverse opinioni53. Tornando allo specifico caso della rivoluzione francese, ciò che avrebbe dovuto, secondo Robespierre, «unificare le diverse classi della società era la compassione di quelli delle classi alte per quelli del basso popolo». Il retroterra culturale di questa convinzione è l'idea di Rousseau secondo la quale la compassione è «la reazione umana più naturale alle sofferenze degli altri e perciò la vera base di ogni rapporto umano naturale». Sia Rousseau che Robespierre, nota Arendt, non potevano avere idea della bontà naturale dell'uomo se non indirettamente, deducendola dalla corruzione della società. Ciò di cui avevano invece esperienza diretta era «l'eterno giogo tra ragione e passioni da una parte, e dall'altra il dialogo interiore del pensiero in cui l'uomo conversa con se stesso», e, continua Arendt, «poiché essi identificavano il pensiero con la ragione, concludevano che la ragione ostacolava sia la passione sia la compassione, poiché “rivolge la mente dell'uomo su se stessa e lo separa da ogni cosa che potrebbe disturbarlo o affliggerlo”»54. La ragione quindi rende l'uomo egoista e gli impedisce “di identificarsi con l'uomo che soffre”. Il rischio che corriamo, abituati a considerare rigidamente il XVIII secolo, epoca della ragione e dei lumi, opposto al XIX, epoca del romanticismo, è di «trascurare o sottovalutare la forza di queste prime voci in difesa 52 53 54

Ivi, p. 165. Cfr. Ivi., p. 166. Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 84.

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della passione, del cuore, dell'anima, specialmente “l'anima lacerata” di Rousseau». Un'anima insomma divisa «in un luogo del due-in-uno che si manifesta in quel tacito dialogo della mente con se stessa che noi chiamiamo pensare». Tacito dialogo che in realtà è un conflitto che «genera passione nel suo duplice senso di intensa sofferenza e intenso ardore». Tale sofferenza venne da Rousseau esaltata «contro l'egoismo della società da una parte, contro l'indisturbata solitudine della mente, impegnata nel dialogo con se stessa dall'altra». Per Arendt è «a questa sua esaltazione della sofferenza, più che a qualsiasi altra parte delle sue dottrine, che Rousseau deve appunto la sua enorme influenza […] sugli uomini che erano destinati a fare la rivoluzione e che si trovarono di fronte alle strazianti sofferenze dei poveri». Inoltre «quel che contava,in questo grande sforzo di generale solidarietà umana, era l'abnegazione, la capacità di immergersi nelle sofferenze degli altri, piuttosto che la bontà attiva; e ciò che appariva estremamente odioso, e persino estremamente pericoloso, era l'egoismo, piuttosto che la malvagità». 55 Ed è qui che per l'autrice «dobbiamo cercare le radici della sorprendente crudeltà di Robespierre, in cui si prefigurava la perfidia ancora maggiore che doveva svolgere un ruolo così mostruoso nella tradizione rivoluzionaria»56. In pratica la volontà di migliorare le condizioni del popolo, mossa dalla passione della compassione, generò, ancora una volta, una storia di sacrificio di esseri umani e di terrore. In nome del benessere del popolo tutto era permesso, e «questo stato di illegalità […] contribuì a scatenare un oceano di infinita violenza»57. Il fallimento della rivoluzione francese fu poi interpretato dal giovane Marx come conseguenza dell'incapacità giacobina di risolvere la questione sociale. La conclusione marxiana fu la constatazione dell'incompatibilità tra povertà e libertà. Per Arendt, il contributo più significativo e originale di Marx alla causa della rivoluzione «è il fatto ch'egli interpretò i bisogni impellenti della povertà di massa in termini politici», teorizzando una rivolta che puntasse non solo al miglioramento delle condizioni di vita, ma anche alla libertà. Questo perché ciò che Marx capì dall'esperienza francese fu proprio «che la libertà può essere una forza politica di prim'ordine». La trasformazione della questione sociale in forza politica «è contenuta nella parola “sfruttamento”, ossia 55 56 57

Ivi, p. 85. Ivi, p. 95. Ivi, p. 98.

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nel concetto che la povertà sia il risultato dello sfruttamento esercitato dalla classe dominante che è in possesso degli strumenti della violenza». Marx insegnò dunque che la povertà non è un fenomeno naturale, dipendente da qualche necessità storica o altro, ma un fenomeno esclusivamente politico, non causato dalla scarsità di beni ma dalla violazione e dalla violenza. Questa consapevolezza «suscitava uno spirito di ribellione che può scaturire solo dal sentirsi violentati, non dal sentirsi soggetti all'impero della necessità»58. Nonostante queste grandi intuizioni, Arendt ritiene che «il posto di Marx nella storia della libertà umana resterà sempre ambiguo» perché fu lo stesso Marx «che in quasi tutti gli scritti successi al Manifesto del Partito Comunista ridefinì lo slancio schiettamente rivoluzionario della sua gioventù in termini economici». Sostanzialmente, dove in un primo periodo Marx vide violenza ed oppressione deliberatamente esercitate dall'uomo sull'uomo, e non, come altri, necessità legate alla condizione umana, «in seguito, dietro ogni violenza e ogni sopruso ravvisò in agguato le ferree leggi della necessità storica». Identificando la necessità, in accordo con gli antichi, con le esigenze impellenti del processo vitale, Marx, secondo Arendt, «si trovò a rafforzare più intensamente di qualsiasi altro quella che è la dottrina politicamente più dannosa dell'età moderna, ossia che la vita è il bene supremo e che il processo vitale della società è il centro stesso di ogni sforzo umano». Così, come avvenne nella pratica rivoluzionaria francese, nella teoria marxiana l'obiettivo della rivoluzione non era più la liberazione degli uomini dallo sfruttamento dei loro simili ma la liberazione «del processo vitale della società dai ceppi della miseria, in modo che potesse prosperare nel fiume dell'abbondanza. Non la libertà, ma l'abbondanza diveniva ora lo scopo della rivoluzione»59. Probabilmente Marx fu spinto a ribaltare le proprie categorie a causa della sua impostazione scientifica e della sua ambizione a «sollevare la sua “scienza” a livello di scienza naturale, la cui categoria fondamentale era ancora la necessità». Per Arendt «da un punto di vista politico, questa svolta condusse Marx a una vera e propria capitolazione della liberà davanti alla necessità». In generale la lettura arentiana del pensiero marxiano se «non perde l'occasione di elogiare la grande acutezza con cui Marx percepisce sia le dirompenti novità del moderno sia l'impossibilità di esprimerle attraverso il quadro concettuale tràdito, 58 59

Ivi, pp. 63-64. Ivi, p. 65.

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altrettanto energicamente insiste sul fallimento del pensiero marxiano, rispetto alla sua volontà di sovvertire la tradizione». Esso infatti sembra non riuscire «ad opporsi al potere coercitivo delle categorie ereditate dalla filosofia politica» 60. Ed è in questo tentativo di dar voce al nuovo, ma non poterlo fare se non con strumenti concettuali vecchi, che per Arendt hanno origine le aporie, le contraddizioni e i paradossi più grandi di Marx. Tra quest'ultimi il più significativo riguarda la glorificazione del lavoro che, storicamente considerato come l'attività più degradante, diventa con Marx l'attività che denota l'uomo in quanto uomo ma che, nella prospettiva della realizzazione del socialismo, dovrà essere abolito. In sostanza Marx non abbandona l'idea per cui l'uomo crei se stesso tramite il lavoro (concezione che rigetta intenzionalmente sia il dogma cristiano del Dio creatore, sia la definizione filosofica dell'uomo come animal rationale), ma la fa incosapevolmente convivere con la speranza della liberazione dal lavoro stesso. Per Arendt «questo significa che, accanto alla provocazione rappresentata dalla glorificazione dell'attività lavorativa, in lui rimane in vita il pregiudizio, profondamente radicato nella filosofia, che vede nel lavoro un peso, o una maledizione, da cui ci si deve liberare»61. Altra "colpa" marxiana, argomentata ampiamente da Arendt in Vita Activa, riguarda la mancata distinzione tra processo lavorativo e fabbricazione. Nell'indistinzione operata da Marx, quest'ultimo dimentica la sua stessa definizione di lavoro come "metabolismo dell'uomo con la natura" e insiste sul fatto che il processo lavorativo finisca in un prodotto che produce il mondo umano piuttosto che essere immediatamente inglobato, consumato e annullato dal processo vitale del corpo. Marx, di conseguenza, proiettando, anche qui in perfetta continuità con la tradizione, la sua idea di Uomo al Singolare sugli uomini al plurale, approda ad una concezione della storia umana come processo necessario di fabbricazione di un prodotto che nella prospettiva collettivistica coincide con la società senza classi. Ed è qui implicito, perchè dettato dalla relazione mezzi-fini che caratterizza la fabbricazione, l'uso violento e manipolativo della materia prima.62 Tale violenza altro non è che «l'inevitabile conseguenza, venuta con Marx in piena luce, del guardare all'azione dal punto di vista della fabbricazione». L'intera interpretazione arendtiana di Marx è dunque volta «a 60 61 62

Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 189. Ivi, p. 191 Cfr. ivi, pp. 193-194

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mostrare come nel patrimonio marxiano precipitino, e trovino sistematizzazione, quelle dinamiche della tradizione filosofica che si sono rese "responsabili" del fraintendimento della politica»63. Per quanto Marx fosse sinceramente mosso dalla speranza di realizzare una società in cui, grazie ad una produzione enormemente aumentata della forza lavoro, il modello dell'Atene di Pleriche potesse diventare realtà per tutti, in verità «l'umanità socializzata di cui ci parla si configura piuttosto come una società di schiavi, nella quale il tempo libero dell' animal laborans non è mai speso in altro modo che nel consumo, e più tempo gli rimane più rapaci ed insaziabili si fanno i suoi appetiti». Per questo Arendt, come gà riportato, vede spostarsi l'obiettivo della rivoluzione, marxianamente intesa, dalla libertà politica al soddisfacimento dei bisogni fisici e biologici, soddisfabili tramite l'abbondanza. Secondo la ricostruzione arendtiana della storia del pensiero rivoluzionario Marx ripeté così l'errore di Robespierre e la stessa cosa avrebbe fatto Lenin, il suo più grande discepolo, «nella rivoluzione più grandiosa e terribile che i suoi insegnamenti abbiano finora ispirato»64. Anche Lenin però, «malgrado il suo marxismo dogmatico», «sarebbe stato forse capace di evitare questa capitolazione». Questa possibilità viene dedotta dalla formulazione di Lenin con la quale quest'ultimo tentò di riassumere gli scopi della rivoluzione d'ottobre: “elettrificazione più soviet”. Per Arendt, tale formula, «da gran tempo dimenticata», merita grande attenzione soprattutto perché non riconosce nessun ruolo al partito e non esplicita come obiettivo l'edificazione del socialismo. Al posto di questi due, passati alla storia come mezzo e fine delle teorie e delle pratiche leniniste, «troviamo una separazione, del tutto non-marxista, fra economia e politica; una differenziazione fra l'elettrificazione come soluzione della questione sociale russa e il sistema dei soviet come nuova struttura politica, emersa durante la rivoluzione al di fuori di tutti i partiti». Mediante i mezzi tecnici, non quindi tramite il socialismo, il problema della povertà diviene risolvibile. Questo, essendo la tecnologia politicamente neutra, al contrario della socializzazione «non prescrive nè preclude alcuna specifica forma di governo». In sintesi la questione sociale della povertà sarebbe stata risolta con l'elettrificazione, la questione politica della libertà, invece, con la nuova forma di governo dei soviet. Ma questa idea, osserva Arendt, che rappresenta «uno dei casi non 63 64

Ivi, p. 195 Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 66.

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infrequenti in cui il talento di Lenin come uomo di stato predomina sulla sua educazione marxista e sulle sue convinzione ideologiche», venne meno quando lo stesso Lenin «rinunciò alle possibilità di sviluppo economico razionale […] del paese insieme alle potenzialità di nuove istituzioni per la libertà, quando decise che solo il partito bolscevico poteva essere la forza motrice sia per l'elettrificazione sia per i soviet» 65. Questo cambiamento di posizione è attribuibile a ragioni economiche più che politiche, in altre parole all'elettrificazione più che al potere del partito. Lenin, in sostanza, si convinse che il popolo, sia per la sua incompetenza sia per l'arretratezza del paese, non sarebbe stato in grado di risolvere i problemi sociali in condizioni di libertà politica. Per questa ragione Arendt sostiene che «Lenin fu l'ultimo erede della rivoluzione francese: non aveva un concetto teorico di libertà, ma quando nella realtà pratica si trovò di fronte ad essa, comprese quale posta era in gioco, e quando sacrificò le nuove istituzioni di libertà, i soviet, al partito che, egli pensava, avrebbe liberato i poveri, le sue motivazioni e il suo ragionamento erano ancora in accordo con i tragici errori della tradizione rivoluzionaria francese»66. Prima di concludere questa digressione sul ruolo della compassione nelle rivoluzioni, e più in generale, nella politica, è bene precisare che Arendt, lungi dall'essere “reazionaria”, come spesso è stata superficialmente giudicata, non rinuncerà mai alla prospettiva di un radicale mutamento che sappia tenere insieme la questione sociale e la libertà politica senza che la prima escluda la seconda. Quello arendtiano non è dunque un rifiuto della rivoluzione, ma semmai un rifiuto della riduzione degli obiettivi rivoluzionari alle sole problematiche sociali. La rivoluzione è legittima finché rimane fedele al suo obiettivo, politico, di creare spazi di libertà politica. Per questo la pensatrice tedesca ci mette così insistentemente in guardia dagli effetti negativi che la compassione, in quanto passione, porta con sé nel momento in cui prevale nella sfera politica. Inoltre, ricollegandosi straordinariamente ai contenuti del Discorso su Lessing, Arendt, sempre nel saggio del '63, ci spiega come la compassione, sentimento di per sé non negativo, non possa essere elevata a categoria politica perché «abolisce la distanza, ossia quello spazio interno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici e si colloca 65 66

Ivi, p. 67. Ivi, p. 68.

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l'intero campo delle vicende umane»67. La sua dimensione è dunque assolutamente impolitica anche perché alla compassione, che si rivolge solamente al singolo uomo che soffre, è del tutto estraneo l'interesse discorsivo e argomentativo per il mondo. Comprendiamo ora a fondo perché Lessing si preoccupò del carattere egualitario della compassione e perché ad essa preferì l'amicizia al punto che, scrive Arendt, la sua volontà fu di essere «l'amico di molti ma il fratello di nessuno»68. Questa prospettiva rivela chiaramente l'altissimo valore politico dell'esistenza di un uomo come Lessing, così come ci introduce esplicitamente alla problematica della valenza politica ed umanizzante dell'amicizia come condizione necessaria del dialogo tra gli uomini.

67 68

Ivi, p. 91. Hannah Arendt, l'Umanità in tempi bui, cit., p. 97.

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CAPITOLO 3: Mondo, amicizia e politica 3.1 I tempi bui e la fuga dal mondo Nel Discorso su Lessing Arendt tratta ampiamente una questione da lei giudicata come uno dei maggiori problemi della nostra epoca: il nostro atteggiamento verso il mondo. E' qui centrale la definizione arentiana di mondo, non inteso come il luogo abitato dagli uomini, ma come il luogo che si instaura tra gli uomini. E' questo “tra” l'oggetto della sua massima preoccupazione. Arendt ritiene infatti evidente che la sfera pubblica abbia perso la sua «intensità» e «luminosità originaria» 69. Tale constatazione inevitabile è legata al fatto che sempre più persone, anche nei paesi occidentali, si ritirano dal mondo e dagli obblighi nei suoi confronti. Ognuno di questi ritiri non è necessariamente un male per l'individuo, che può anzi trarne beneficio, ma lo è indubbiamente per il mondo. Si perde quel“tra”, specifico ed insostituibile, che doveva formarsi tra l'individuo e i suoi simili. I periodi in cui le persone non chiedono alla politica niente di più che non sia assicurare gli interessi vitali e la loro libertà privata sono definibili con un'espressione presa in prestito da Brecht: «tempi bui» 70, tempi in cui si perde quella luminosità originaria sopra citata. Ciò che interessa ad Arendt è che il tipo «di umanità nella forma della fraternità» 71 si manifesti

principalmente

in

“tempi

bui”.

La

fraternità 72

insomma

sembra

inevitabilmente fare la sua comparsa presso i popoli ridotti in schiavitù. In queste comunità i perseguitati si avvicinano gli uni agli altri tanto da cancellare il “tra” che dovrebbe separare gli individui mettendoli allo stesso tempo in relazione. In pratica, siamo di fronte alla scomparsa del mondo. In queste circostanze si possono verificare casi di bontà e gentilezza di cui comunemente gli uomini non sono capaci. Da questo punto di vista siamo davanti al grande privilegio delle comunità dei perseguitati, ed è da qui che sembra anche avere origine la vitalità e la gioia che questi popoli,

chiamati da Arendt popoli paria,

manifestano, e che «può colpire chi è entrato in contatto con quei gruppi come un 69 70 71 72

Ivi, p. 42. Ivi, p. 57. Ivi, p. 60. Qui ci si riferisce alla concezione arendtiana di fraternità, trattata nel secondo capitolo.

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fenomeno quasi fisico»73. Altro vantaggio di queste comunità, strettamente legato alla dinamica della perdita del mondo, è che i paria sono di fatto esonerati da qualunque tipo di dovere nei sui confronti. La sensibilità dell'autrice, però, definisce questa perdita del mondo come un duro prezzo da pagare. Per i casi in cui poi la condizione di paria si è prolungata per tempi lunghi, Arendt utilizza il termine inglese "worldlessness", traducibile in italiano con "acosmia", indicativo di una mancanza radicale del mondo dichiarando che questa «è sempre una forma di barbarie»74 . 3.2 La condizione paria E' bene però, prima di proseguire, approfondire il concetto di popolo paria. Il termine ha origine nel sistema delle caste indiano e specificatamente indica la casta degli intoccabili75. Già nel corso del XIX secolo era diffusa in Europa la metafora politicoletteraria che paragonava la condizione degli ebrei a quella della casta dei paria. E' con Max Weber però che «la rappresentazione del popolo ebraico come popolo paria si trasforma nel

modello sociologico di “un popolo ospite che vive in un ambiente

straniero”. In Economia e società76, Weber osserva che il popolo ebraico, come gli “intoccabili” delle caste indiane, fonda la propria identità comunitaria non su “un autonomo legame politico”, ma sull'esclusione dalla comunità dominante; la credenza in un destino comune e la speranza di redenzione divengono, in casi come questi, la base di un'appartenenza tanto solida quanto esclusiva»77. Hannah Arendt, quando utilizza l'immagine dei paria, è debitrice di tale elaborazione weberiana. E' facile, e lo sarà maggiormente con i successivi sviluppi della questione, comprendere perché Arendt giudichi «tale modello di vita comunitaria come pericolosamente “impolitico”» 78 in 73 74 75

76

77 78

Hannah Arendt, l'Umanità in tempi bui, cit., p. 61. Ibidem. Cfr. Ilaria Possenti, Paria, in Il novecento di Hannah Arendt, a cura di Olivia Guaraldo, Ombre corte, Verona, 2008, p. 92. Max Weber (1864-1920), filosofo, sociologo ed economista tedesco. Economia e società è un'opera pubblicata postuma nel 1922 ed essa rappresenta l'apice degli studi sociologici weberiani. Nell'opera in questione, infatti, l'autore non si limita a definire l'oggetto e il compito della sociologia, ma cerca anche di analizzare il rapporto tra il sistema capitalistico e le forme di comunità e associazione (dalla dimensione domestica alle varie forme di potere, passando anche per le comunità etniche e religiose). Economia e società, per questa ragione, rimane ancora oggi un efficace ed interessante studio sui caratteri strutturali e distintivi del capitalismo moderno. Ilaria Possenti, Paria, cit., p 93. Ibidem.

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quanto «il sentimento religioso di appartenenza e di amore per il proprio popolo genera una comunità coesa, ma impreparata ad agire e giudicare autonomamente»79. Da parte sua, Arendt allargherà la metafora dei paria oltre il popolo ebraico, estendendola a tutti «i membri di minoranze, i senza patria e i rifugiati che tra le due guerre si ritrovarono privi di documenti e della protezione di uno stato»80. In questo senso, la figura del paria si lega a quella, a noi più comune, dell'apolide. Anche qui la lucida analisi arendtiana mostrerà, come nota Judith Butler, che «l'apolidia non era un problema ebraico, ma una contraddizione

dello stato nazione del ventesimo secolo» 81. In Le origini del

totalitarismo infatti, nel celebre capitolo sul tramonto dello stato nazione e sulla fine dei diritti umani, l'autrice incentra un paragrafo interamente sulla questione e dichiara che «l'apolidicità è il fenomeno di massa più moderno, e gli apolidi sono il gruppo umano più caratteristico della storia contemporanea»82. 3.3 Il valore politico della questione ebraica Con l'inizio del terzo capitolo dell'Umanità in tempi bui irrompe nella discussione l'esperienza biografica dell'autrice e in particolar modo la sua origine ebraica. «In questo contesto non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda “chi sei?” fosse “un'ebrea”» 83. Soltanto questa risposta non rappresentava una fuga dal mondo e permetteva di difendersi nell'unico modo possibile, ossia «attraverso l'identità che viene attaccata» 84. Dicendo “un' ebrea” Arendt non intendeva dunque riferirsi ad un particolare tipo di umanità e nemmeno «ad una realtà dotata di specificità storica», ma non riconosceva altro che «un fatto politico»85. Aver risposto alla domanda “chi sei?” dicendo “una donna” o “un uomo”, come ci restituisce il senso delle parole di Nathan il saggio, sarebbe stata «una grottesca evasione dalla realtà»86. 79 80 81 82

83 84 85 86

Ibidem. Ivi, p. 91. Judith Butler, Ebraismo, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p. 42. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. Amerigo Guadagnin, Einaudi, Trento, 2009, p. 385. Ivi, p. 70. Ivi, p. 72. Ivi, p. 71. Ivi, p. 70.

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La superiorità che certi individui possono sentire nel momento in cui rifiutano le identificazioni che vengono da un mondo ostile è «la superiorità di un paese dei sogni»87, una superiorità «che non è più di questo mondo» 88 e che è quindi del tutto priva di rilevanza politica. Riportando tale riflessione arendtiana abbiamo in realtà toccato una questione non secondaria che riguarda più in generale il significato politico della questione ebraica, argomento che è stato trattato da Arendt ampiamente nel terzo capitolo de Le origini del totalitarismo intitolato Gli ebrei e la società. Questo capitolo compone, insieme ad altri, la prima parte del libro, in cui l'autrice si cimenta in una ricostruzione storica dell'antisemitismo. E' in particolare il paragrafo Fra paria e parvenu ad essere per noi interessante. Per Arendt la parità di condizioni è un requisito essenziale della giustizia e deve essere garantita «da un'organizzazione politica nel cui ambito individui diseguali hanno eguali diritti»89. Secondo l'analisi arendtiana, però, tale concetto politico di eguaglianza è stato trasformato, nelle moderne società di massa, in un concetto psicosociale che «scambia l'eguaglianza per una qualità innata di ciascun individuo» e questo risulta «particolarmente pericoloso quando la società lascia alle differenze uno spazio relativamente esiguo, dando così luogo a una gran quantità di conflitti». Ed è questa distorsione del concetto di eguaglianza a generare il razzismo che risulta, in questo senso, essere «la reazione all'esigenza, posta dal concetto di eguaglianza, di riconoscere ogni individuo come mio pari»90. Tale distorsione determinò, nel caso specifico, che «quanto più le condizioni ebraiche si avvicinarono all'eguaglianza, tanto più sorprendenti apparivano le differenze. Questa constatazione produsse nell'ambiente circostante sia antipatia che attrazione verso gli ebrei; le due reazioni combinate determinarono la storia sociale dell'ebraismo occidentale». Sia l'antipatia che l'attrazione «finirono per avvelenare l'atmosfera sociale, pervertendo i rapporti fra gli ebrei e i gentili e dando vita a quello che è stato definito tipo, o tipico atteggiamento, ebraico» 91. L'individuazione di uno stereotipo di ebreo determinò la possibilità che vi fossero, tra gli ebrei, dei casi d'eccezione che si «staccavano dalla massa ebraica» e, in 87 88 89 90 91

Ivi, p. 72. Ibidem. Ivi, p. 76. Ivi, p. 77. Ibidem.

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conseguenza, potevano essere accettati dalla società gentile. In pratica la società iniziò a rifiutare gli ebrei «a meno che non si trattasse di individui eccezionali». Questi ultimi vivevano l'ambigua condizione «di essere ebrei, ma non come gli ebrei» ed «ecco perché essi volevano allo stesso tempo essere e non essere ebrei». Questo paradosso, per Arendt, aveva comunque «una solida base nella realtà». Infatti «la società pretendeva che il nuovo venuto fosse “istruito” come i suoi membri e che, pur non comportandosi come un “ebreo comune”, fosse e producesse qualcosa fuori dal comune poiché, dopotutto, era un ebreo». Sostanzialmente «anche se invitati a non comportarsi come gli ebrei comuni, gli ebrei erano accettati soltanto perché tali». All'origine di tale situazione per Arendt vi fu anche un certo umanesimo che, con Herder 92, vedeva negli ebrei «dei nuovi esemplari di umanità che erano stati creati per tutta la terra e finalmente trovati nei vecchi vicini». Per gli illuministi tedeschi, inoltre, «gli ebrei erano la prova vivente che tutti gli uomini erano uomini [… ] e proprio perché era un popolo disprezzato e oppresso, quello ebraico era un modello ancora più puro di umanità». Per l'autrice questa idea «secondo cui era da presumere che gli ebrei, divenuti esempi di umanità, dovessero

essere

anche

individualmente

più

umani»

fu

una

conseguenza

dell'impressione suscitata e del «fraintendimento» di Nathan il saggio di Lessing93. Queste convinzioni, per Arendt, determinarono tra gli ebrei colti e occidentalizzati degli effetti disastrosi sulla loro posizione sociale e psicologica. Non solo ad essi era richiesto di «staccarsi dal loro popolo» ma «da essi si pretendeva che fossero addirittura eccezionali campioni di umanità»94. Il vero problema di questa dinamica fu che, nell'arco della loro «millenaria esperienza politica», gli ebrei si resero «ciechi ai pericoli dell'antisemitismo politico, ma ipersensibili a tutte le forme di discriminazione 92

Johann Gottfried Herder (Mohrungen, 1744-Weimar 1803) filosofo, teologo e letterato. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 79-80. Qui l'autrice intende dire che attraverso una superficiale, e forse anche strumentale, lettura del testo di Lessing, si possa ritenere che la figura di Nathan, con la sua cultura, la sua saggezza e la sua bontà d'animo, sia proprio l'idealizzazione di questo stereotipo di ebreo rappresentante di una umanità straordinaria, ma che viene riconosciuta solo alla luce dell'originaria appartenenza. Nathan diventerebbe così anche un simbolo del fenomeno (esposto nella tesi tra poche righe) dell'assimilazione, dunque di una ebraicità svuotata del suo valore politico. Arendt parla di fraintendimento perchè è evidente che la sua interpretazione è di segno radicalmente opposto: Nathan non è emblema di assimilazione e non dimentica per nessuna ragione di essere ebreo, ma, semmai, è emblema di tolleranza e apertura verso un dialogo (arendtianamente) politico, poichè, partendo da questa sua appartenenza, Nathan si apre al dialogo con chiunque, senza disporsi all'esclusione forzata delle differenze tra gli individui ma, eventualmente, alla valorizzazione di queste, intendendole come occasione di crescita umana e come fondatrici di possibili amicizie. 94 Ivi, p. 81. 93

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sociale»95. Ed «è stata una disgrazia che soltanto i loro nemici, e quasi mai i loro amici, si rendessero conto che la questione ebraica era essenzialmente politica» 96. I fautori dell'emancipazione si rivelarono incapaci di non ridurre il problema ebraico ad un fatto esclusivamente educativo, diventando così i fautori di quel fenomeno chiamato, successivamente, «assimilazione». Infatti, sempre nel citato capitolo, Arendt presenta la figura del parvenu, ossia l'ebreo assimilato che, «per ottenere l'accesso a una società dove si è tollerati soltanto alla condizione di tacere la propria origine ebraica» 97, ha rinunciato per sempre ad attribuire qualsiasi significato politico alla sua appartenenza originaria, vivendo cercando di «essere un uomo nella strada e un ebreo a casa» 98. Secondo Hannah Arendt tale formula, proposta da un ebreo russo, «potrebbe servire come motto per l'assimilazione nell'Europa occidentale» 99. Laura Boella, commentando lo stesso passo del Discorso su Lessing, riporta una significativa lettera di Arendt a Jasper che, oltre a metterci ancora una volta davanti alla necessità di scindere un livello individuale e uno politico, riconferma il senso per cui la pensatrice tedesca attribuiva all'ebraismo un valore esclusivamente politico: «Lei mi chiede se sono tedesca o ebrea. Per essere onesta, devo dire che da un punto di vista individuale e personale, la cosa mi è del tutto indifferente [...] sul piano politico, parlerò sempre a nome degli ebrei, in quanto sono costretta dalle circostanze a esibire la mia nazionalità»100. Per le stesse ragioni, se nel Terzo Reich un tedesco e un ebreo avessero giustificato la loro amicizia affermando di essere due uomini saremmo stati di fronte ad una fuga dal mondo comune ad entrambi e non ad una presa di posizione contro la persecuzione. «Una legge che proibisse ogni rapporto tra ebrei e tedeschi poteva essere elusa, ma non smentita da uomini che negassero ogni realtà alla distinzione»101. 3.4 Fraternità tra gli oppressi: quali risvolti politici? Nel discorso del '59 l'autrice insiste nell'argomentare che «l'umanità creata dalla fraternità si adatta difficilmente a chi non appartiene al novero degli umiliati e degli 95 96 97 98 99 100 101

Ivi, p. 76. Ivi, p. 79. Ivi, pp. 92-93. Ivi, p. 91. Ibidem, in note. Laura Boella, Introduzione, in l'Umanità in tempi bui, cit., p. 29. Hannah Arendt, l'Umanità in tempi bui, cit., p. 82.

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offesi e non può parteciparvi se non mediante la compassione» 102. Chi solidarizza dall'esterno con i paria è in un'altra posizione rispetto al mondo e di conseguenza ha altre responsabilità nei suoi confronti. Ciò non nega che il calore dei paria, sostituto della luce che viene meno nei tempi bui, sia estremamente affascinante per «tutti coloro che si vergognano del mondo così come è, al punto di voler rifugiarsi nell'invisibilità»103. E' qui fondamentale concentrarsi a fondo sul concetto di invisibilità. Nascondersi in essa, nella sua oscurità, significa non avere più bisogno di vedere il mondo visibile. Eccoci nuovamente davanti alla perdita del mondo e alla «misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che esse si sviluppano nell'acosmia» 104 e quindi senza collegamento ad un mondo comune a tutti. In questa circostanza irreale si giunge facilmente alla conclusione che comune agli uomini non è il mondo, andato perduto, ma la “natura umana”. Qui possiamo scegliere la via del razionalismo e insistere dunque sulla ragione, di cui sono universalmente dotati gli uomini, o scegliere di percorrere quella del sentimentalismo ponendo l'accento sulla capacità, comune a tutti, di compatire. Ma nel XVIII secolo queste due vie sono solo «due aspetti della stessa situazione» 105. Entrambe corrono il rischio di condurci all'entusiasmo eccessivo, portandoci a sentirci legati «con vincoli di fraternità a tutti gli uomini» 106. Razionalità e sentimentalismo sono qui «sostituti psicologici»107 del mondo comune perduto. La natura umana e il corrispondente sentimento di umanità manifestatosi nella condizione di acosmia non solo non può trovare riscontro nel mondo ma si perderebbe nel momento in cui si dovesse tornare alla visibilità del mondo comune. A sostegno di questa sua tesi Arendt afferma che «l'umanità degli umiliati e offesi non è mai sopravvissuta all'ora della liberazione»108, volendo così mostrare che se da un lato è servita «a rendere sopportabile l'umiliazione»109 da un punto di vista esclusivamente 102 103 104 105 106 107 108 109

Ibidem. Ivi, p. 67. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 68. Ibidem. Ibidem.

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politico l'umanità creatasi durante la persecuzione risulta «assolutamente irrilevante»110. 3.5 Dopo la catastrofe: la politica come dispositivo umanizzante Come abbiamo potuto vedere, Arendt non ci parla solo di umanità ma anche di “vari tipi di umanità” che possono fare la loro comparsa a seconda delle circostanze e in base al tipo di atteggiamento che gli uomini decidono di adottare rispetto ad esse. Il concetto di umanità è indubbiamente fondamentale in tutta l'opera di Arendt. «Il pensiero arendtiano nel suo complesso ripropone infatti la questione dell'umano in tempi di distruzione di innumerevoli esseri umani, di catastrofe dell'eredità culturale e filosofica europea fondata sul valore o sul postulato dell'umanità» 111. In questo senso «Hannah Arendt trae le più amare e demolitrici conclusioni dalla catastrofe della tradizione occidentale culminata nel totalitarismo, e insieme pensa che la partita dell'umanità degli esseri umani non sia definitivamente perduta» 112 e si rivela straordinariamente capace di «pensare la politica

dopo la catastrofe» 113 intendendola come un «dispositivo di

umanizzazione»114. «Questo è il significato della politica per Hannah Arendt, della sua fede nella capacità umana di iniziare, della sua utopia luxemburiana e consiliare della politica (innanzitutto antifascista), in cui l'azione è direttamente libertà e innovazione»115. La ragione per cui Arendt non attribuisce valore politico a “quel tipo di umanità” che si manifesta tra gli sfruttati e i perseguitati è dovuto al fatto che alla base della sua teoria politica ci sia «l'idea che la dignità della condizione umana si giochi quando ne va di qualcosa di più della vita» 116, intesa come sopravvivenza, quando insomma «ne va dell'amore del mondo, della preservazione dello spazio dell'essere insieme»117. E' già stata trattata l'idea arendtiana per cui il mondo si umanizza nel momento in cui gli uomini, che con la loro «pluralità di esseri unici» lo vanno anche a costituire, ne fanno oggetto del loro discorso. Il dialogo umano, non la semplice conversazione, ha dunque 110 111 112 113 114 115 116 117

Ibidem. Laura Boella, Umanità, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p. 128 Ivi, p. 130. Olivia Guaraldo, Introduzione, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., 2008, p. 9. Laura Boella, Umanità, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit. p. 136. Ivi, p. 128. Laura Boella, Umanità, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p. 130. Ibidem.

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un'importanza straordinaria. Al riguardo è illuminante il capitolo di Vita Activa (1958) dedicato all'azione e nello specifico il paragrafo intitolato, molto significativamente, Il rivelarsi dell'agente nel discorso e nell'azione. In quest'ultimo leggiamo: «discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda sull'iniziativa, un'iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità»118. Laura Boella ci insegna a leggere il Discorso su Lessing come l'apertura «di una fase cruciale in cui l'impianto del pensiero formulato in Vita activa119 inizia a dispiegarsi in maniera ampia e precisa» 120. Infatti, sempre nel già citato paragrafo, troviamo affermazioni di grande aiuto per capire a fondo perché Arendt riservi così tanta importanza alla relazione tra gli uomini e in che senso parli di rilevanza o irrilevanza politica di alcune esistenze rispetto ad altre. «Una vita senza discorso e senza azione», scrive l'autrice, «è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini» 121. Ed è dello stesso capitolo l'idea secondo la quale è «con la parola e con l'agire» che «ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita» 122. Per Arendt, pensatrice della libertà, la politica, dispositivo umanizzante che è azione e discorso, entra in gioco quando non è la necessità, prima fra tutte quella della sopravvivenza, a condizionarci. La rinascita di cui ci parla è un «inserimento» che infatti «non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall'utilità, come l'operare. Può essere stimolato dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non è mai condizionato. Il suo impulso scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa»123. Questi riferimenti alla teoria politica arendtiana, evidentemente caratterizzata da una assoluta originalità, ci mostrano come «Hannah Arendt brilla nella schiera di pensatori che, da Battaille a Foucault, dalla Weil a Lyotard, da Levinas a Derrida, fino a Nancy, 118 119 120 121 122 123

Hannah Arendt, Vita Activa, trad. it. Sergio Finzi, Bompiani, Milano, 2008, p. 128. Vita Activa venne pubblicato l'anno precedende al Discorso su Lessing, dunque nel 1958. Laura Boella, Introduzione, in L'umanità in tempi bui, cit., pp. 23-24. Hannah Arendt, Vita Activa, cit., p. 128. Ibidem. Ibidem.

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sono stati capaci di dare vita ad una filosofia radicale e libertaria, in grado di elaborare da un'esperienza storica, in particolare quella del nazismo e dello stalinismo, una categoria teorica, che va al di là della configurazione concreta, e apparentemente contrapposta, di quei regimi»124. Comprendere che il fine della politica, arendtianamente intesa, debba, in ultima analisi, rimanere la libertà e che alla politica appartenga la sfera dell'azione e del discorso, attività umanizzanti, piuttosto che la sfera della necessità fisica e biologica, ci serve anche a comprendere più a fondo la critica alla tradizione rivoluzionaria trattata nel precedente capitolo. 3.6 Decidere di non condividere il mondo: quali conseguenze? Attraverso l'esposizione dell'idea arendtiana secondo la quale l'umanità degli umani, e del mondo, non sia una qualità propria, necessariamente data, della condizione umana naturale, ma per cui è il dialogo la condizione necessaria all'umanizzazione dell'umano, così come è solo nel momento in cui questo dialogo riguarda il mondo comune (l'infra della relazione), e la volontà di prendersene cura, che quest'ultimo diviene umano, siamo giunti alla definizione di politica, la cui essenza è l'azione e il discorso, come dispositivo umanizzante. L'umano, arendtianamente inteso, è dunque «un nome che è il risultato di una attività politicamente discorsiva e plurale, sempre precaria e in trasformazione»125. A riguardo è emblematica la posizione che, in conclusione della Banalità del male, Arendt assume nei confronti della sentenza contro Eichmann. Al processo di Gerusalemme Arendt mosse diverse critiche. Queste furono incentrate prevalentemente sull'argomentazione di una illegittimità di fondo del processo stesso, in quanto il crimine contestato, secondo l'autrice, «era un crimine contro l'umanità, perpetrato sul corpo del popolo ebraico» e «nella misura in cui il crimine era un crimine contro l'umanità, per far giustizia occorreva un tribunale internazionale»126. Inoltre Arendt riteneva palese, basandosi sui toni retorici dell'accusa, che il processo stesse in realtà tentando di soddisfare un desiderio, e forse anche un presunto diritto, di vendetta, piuttosto che un desiderio di giustizia, che dovrebbe in realtà essere il fine di 124

125 126

Simona Forti, Male, in Il Novecento di Hannah Arendt, a cura di Olivia Guaraldo, Ombre corte, Perugia, 2008, p. 55. Olivia Guaraldo, Introduzione, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p.11 Hannah Arendt, La banalità del male, trad. it. Piero Bernardini, Feltrinelli, 2007, Milano, p. 275.

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ogni processo. Arendt, al di là di queste critiche, sembra comunque condividere la condanna a morte dell'imputato, ma la ripropone in una formulazione completamente diversa rispetto a quella della corte. Mentre la ragione ufficiale della condanna a morte di Eichmann è stata fondata sulla base di «principi antiquati», quali, per esempio, l'idea che «un delitto grave offende la natura sicché la terra stessa grida vendetta; che il male viola un'armonia naturale che può essere risanata soltanto con la rappresaglia» 127, secondo l'autrice, invece, «tutti avrebbero visto che il processo di Gerusalemme era giusto se i giudici avessero avuto il coraggio» di rigettare la difesa di Eichmann in base al rifiuto dell'idea per cui «dove tutti o quasi tutti sono colpevoli, nessuno lo è». Eichmann infatti si difese rivendicando che il suo ruolo nello sterminio degli ebrei fu del tutto «casuale», ammetendo anche che chiunque altro avrebbe potuto prendere il suo posto. Arendt pensa che la corte avrebbe dovuto rivolgersi all'imputato nella seguente maniera: «anche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio [...] e come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie razze [...] noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato»128. Abbiamo precedentemente riportato i passi di Vita activa in cui si sostiene che a rivelare la paradossale condizione umana, la condizione dell'unicità nella distinzione, siano esclusivamente l'azione e il discorso. In modo del tutto esplicito l'autrice afferma che nessun essere umano può astenersi da questa dimensione, necessariamente relazionale, senza perdere

la

sua umanità.

Serve dunque essere

capaci

di «disporsi

all'umanizzazione» nel senso di «accettare la sfida di una umanità in fieri, accettare di condividere con altri il processo mai compiuto di definizione e universalizzazione dell'umano»129. Eichmann ha invece deliberatamente scelto di non condividere nulla. Ha infatti obbedito a degli ordini, e «in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa», che, come si legge nella riformulazione arentiana della condanna, lo hanno portato alla non condivisione del mondo («..quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire 127 128 129

Ivi, p. 283. Ivi, p. 284. Olivia Guaraldo, Introduzione, in Il novecento di Hannah Arendt, cit., p. 11.

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chi deve e chi non deve abitare la terra» 130). Eichmann ha deciso di porsi in una posizione non umana e non umanizzante. Dialogo e mondo sono stati, di fatto, rifiutati dalle sue scelte. Heichmann, il burocrate dello sterminio, ha perso la sua umanità. «Per questo, e solo per questo» Arendt, come dicevamo, dimostrandosi profondamente legata alle sue elaborazioni teotiche, appare favorevole alla sua condanna a morte. 3.7 Emigrazione interiore e "padroneggiamento del passato": un problema diffuso Arendt riconosce che tutte le sue riflessioni sulla condizione paria possono essere sentite distanti da chi non ha conosciuto il destino degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale se non per sentito dire, ma ritiene anche significativo «che nello stesso periodo esistesse un fenomeno noto come “emigrazione interiore”» 131 e scrive che «chi sa qualcosa di quell'esperienza può facilmente riconoscere talune questioni e conflitti che presentano un'analogia con i problemi che ho sollevato» 132. Ora l'attenzione dell'autrice è rivolta a questa “emigrazione interiore”, un fenomeno «curiosamente ambiguo» perché se da un lato capiamo che vi furono individui che scelsero di comportarsi come degli emigrati, è anche vero che di fatto non erano emigrati ma «ritirati in uno spazio interiore, nell'invisibilità del pensare e del sentire»133. Anche se in quell'epoca, «oltremodo buia» 134, in Germania fu particolarmente forte la tentazione di abbandonare lo spazio pubblico in favore di una esistenza interiore o più semplicemente con la volontà di ignorare un mondo insopportabile, Arendt ci invita a non cadere nell'errore di ritenere tale fenomeno rigidamente circoscritto all'area tedesca e al periodo nazista. Finita la guerra, infatti, e non nella sola Germania, si è diffusa la tendenza ad «agire come se gli anni dal '33 al '45 non fossero mai esistiti», 135 a comportarsi insomma come se quelle vicende storiche si potessero rimuovere dai manuali. Il successo mondiale del Diario di Anna Frank mostra per esempio che il tentativo di «ridurre l'orrore a sentimentalismo»136 non è esclusivo dei tedeschi. 130 131 132 133 134 135 136

Hannah Arendt, La banalità del male, cit., p 284. Hannah Arendt, L'Umanità in tempi bui, cit., p. 72. Ibidem. Ivi, p. 73. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 74.

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Questa incapacità di affrontare la realtà del passato è figlia dell'emigrazione interiore, oltre che una eredità diretta del Nazismo in quanto «conseguenza della colpa organizzata in cui i nazisti coinvolsero tutti gli abitanti dei paesi tedeschi» 137, coinvolgendo gli “emigrati interiormente” non meno dei convinti sostenitori di Hitler138. Il passato rimane dunque non padroneggiato, ma la Arendt contesta ora che la cosa da fare sia padroneggiarlo: «probabilmente ciò non è possibile con nessun passato, di sicuro non è possibile con la Germania di Hitler» 139. Ciò che possiamo fare è «riconciliarci con esso»140. Il massimo che possiamo ottenere è sapere cosa è stato, riconoscerlo e saper sopportare tale conoscenza per poi «aspettare e vedere cosa viene fuori dal sapere e dal sopportare». Per spiegarsi, l'autrice ricorre alla letteratura, ed in particolare alla forma tragica, scegliendo come riferimento il romanzo di William Faulkner, Parabola, mostrando come il tentativo di «padroneggiamento del passato» 141, relativo alla Prima guerra mondiale, sia stato fallimentare. Il romanzo in questione, a distanza di quarant'anni da quella guerra, rappresentò una «rivelazione trasparente della verità segreta degli eventi»142 e solo grazie ad essa «fu possibile dire: si, è così che è stato» 143. Nell'opera di Faulkner vengono spiegate e descritte poche cose e nel modo più assoluto «nulla è padroneggiato»144. Alla fine del romanzo, ciò che rimane è «l'effetto del piacere tragico, la sconvolgente emozione che mette in grado di accettare il fatto che qualcosa come quella guerra sia potuta accadere»145. Qui si spiega la scelta della forma letteraria: l'eroe tragico, attraverso il patire, giunge al sapere. L'apice è raggiunto nel momento in cui «l'agire si trasforma in patire»146, perché ciò avvenga è necessario che la collera e l'indignazione si siano 137 138

139 140 141 142 143 144 145 146

Ibidem. Arendt nella Banalità del male giudicherà "isteriche" certe manifestazioni di senso di colpa proprie della gioventù tedesca per crimini oggettivamente non commesi da quest'ultima. A riguardo l'autrice tornerà a parlare di sentimentalismo, definendolo "a buon mercato", come rifugio e via di fuga dai problemi reali. Hannah Arendt, l'Umanità in tempi bui, cit., p. 75. Ivi, p. 77. Ivi, p. 75. Ivi, p. 76. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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placate e per questo occorre molto tempo. Ora capiamo in che modo possiamo riconciliarci con il passato: «la forma di questa riconciliazione è il lamento che sgorga da ogni reminiscenza»147. Significative al riguardo sono le parole con cui si esprime Goethe nella dedica al Faust: “si rinnova il dolore, ripete il lamento / il folle corso labirintico della vita”. Padroneggiare il passato può essere possibile solo nel momento in cui si racconta ciò che è accaduto. Questo perché la ripetizione nel lamento istituisce il significato di ogni azione che «si rivela solo quando si è compiuta e diventa suscettibile di narrazione» 148. Tale narrazione, e quindi tale padroneggiamento però, che pur dà forma alla storia, «non risolve alcun problema e non allevia alcuna sofferenza», in pratica, «non si padroneggia nulla una volta per tutte»149. Ciò che possiamo fare piuttosto, «finché il senso degli eventi rimane vivente» 150, è dare forma al padroneggiamento con un'incessante narrazione. Fondamentale è qui il ruolo dei poeti e degli storici che devono saper avviare l'attività di narrazione e coinvolgerci in essa. La nostra familiarità con tale processo ha origine nella nostra esperienza in quanto, pur non essendo né poeti né storici, sentiamo il bisogno di raccontare a noi stessi e agli altri gli avvenimenti significativi delle nostre esistenze. In questo senso spesso ci apriamo alla poesia e rimaniamo in sua attesa. E quando essa irrompe in qualche essere umano accade che un racconto in più, «provvisoriamente compiuto» 151, si aggiunge tra le altre cose nel mondo. In questo posto la narrazione sopravviverà, continuerà a vivere come «una storia tra molte»152. Tale bisogno di raccontare agli altri le nostre esistenze ci riporta nuovamente al ruolo fondamentale del dialogo umano e quindi ci ritroviamo, ancora una volta, di fronte all'amicizia e al valore politico che essa può assumere. Un'amicizia, arendtianamente, può diventare politica nel momento in cui due individui, nettamente distinti, si pongo in relazione fra loro riconoscendo vicendevolmente la loro reciproca alterità. Solo queste condizioni garantiscono l'inverarsi della paradossale condizione umana, ossia la 147 148 149 150 151 152

Ivi, p. 77. Ivi, p. 78. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 79. Ibidem.

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pluralità di esseri unici. Se un'amicizia, al contrario, negasse la distinzione e narcisisticamente fosse una mera ricerca di sé stessi nell'altro, si porrebbe su un piano propriamente impolitico perché, oltre ad essere una condizione che nega quel “tra” che costituisce il luogo della politica, priverebbe il dialogo del suo significato umanizzante (quindi politico) e lo trasformerebbe in un dialogo tra un individuo e la copia di sé stesso. La questione del rapporto con il passato e della sua narrazione si ricollega all'emigrazione interiore e al problema, come già riportato, giudicato da Arendt come il più rilevante, ossia il nostro atteggiamento verso il mondo. Nello specifico, ora ci si chiede: «quale misura di realtà occorra mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non si vuole ridurre l'umanità a vuota frase o fantasma»153. L'autrice ammette che l'emigrazione interiore non sia necessariamente sbagliata e addirittura possa essere «l'unico atteggiamento possibile»154 in determinati casi. Ciò che è fondamentale, e che giustifica la fuga dal mondo in tempi bui, è che la realtà non venga mai ignorata ma «costantemente riconosciuta come ciò da cui si deve fuggire»155. In questo modo la fuga rimarrebbe inerente al mondo da cui deve fuggire e la realtà del mondo sarebbe espressa così dalla fuga stessa. In questo caso saremmo davanti ad una scelta per nulla irrilevante ma «allo stesso tempo», dice Arendt, «non possiamo ignorare il limitato significato politico di una tale esistenza» 156. Dobbiamo insomma stare attenti a non «gettare via l'umanità insieme alla realtà» 157, come fece chi aborrendo le idee naziste si rifugiò nella propria interiorità. Ritorna utile l'esempio dei due amici, uno tedesco e l'altro ebreo, nella Germania di Hitler. Abbiamo visto come questi potevano eludere la legge senza combatterla. Per non perdere il contatto con la realtà, la realtà della persecuzione, e dare un valore politico alla loro amicizia «essi avrebbero dovuto dirsi: tedesco, ebreo, e amici 158». Una posizione di questo tipo quando si è verificata ha prodotto «una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano»159. 153 154 155 156 157 158 159

Ibidem. Ivi, p. 80. Ibidem. Ivi, p. 81. Ivi, p. 82. Ibidem. Ivi, pp. 82-83.

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3.8 Dalla verità teologica alla ragione scientifica: ripartiamo da Lessing Il riferimento all'amicizia, e alla sua valenza politica, ci porta nuovamente a confrontarci con gli antichi, che specularono molto sulla questione, ma la loro eredità ci è pervenuta in qualche modo distorta. Noi siamo portati a pensare che gli amici veri si distinguano nella sfortuna e nella sofferenza, ma nell'antichità l'attenzione era rivolta alla condivisione della felicità, tanto da ritenere quest'ultima impossibile nell'eventuale assenza di un amico che la condivida (ricordiamoci che «non la sofferenza ma la gioia è loquace»). La nostra sensibilità moderna ci fa vedere nell'amicizia «un fenomeno di intimità» che «non tiene conto del mondo e delle sue esigenze» 160. Da qui ha origine la nostra difficoltà a riconoscere il valore politico dell'amicizia, al punto che siamo capaci di capovolgere il significato delle parole di Aristotele riguardo la “philia”, da lui intesa come condizione imprescindibile per il benessere della città. Noi tendiamo a pensare che Aristotele si riferisca all'assenza di conflitti e fazioni, ma la nostra interpretazione è del tutto sbagliata. In realtà per i greci l'essenza dell'amicizia «consisteva nel discorso»161, ed è questo costante scambio che rivela l'importanza politica dell'amicizia e «l'umanità che la caratterizza»162. Questo passaggio è importantissimo perché porta con sé una straordinaria e originale interpretazione “dell' umanità del mondo”, che abbiamo già accennato nei riferimenti a Vita Activa relativi al concetto, appunto, di umanità. Il mondo non diviene umano perché abitato dagli uomini ma lo diventa solo «quando è oggetto del discorso» tra gli umani. «Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare umani»163. Per questo la sola preoccupazione di un «uomo interamente politico» come Lessing (la politica, lo ricordiamo, è un dispositivo umanizzante) «era di umanizzare l'inumano con un incessante parlare continuamente ricondotto alle vicende e alle cose del mondo» 164. Questo tipo di umanità, che trova compimento nel dialogo dell'amicizia, era chiamata dai Greci filantropia. Opposta ad essa era la misantropia, intesa come condizione in cui non si 160 161 162 163 164

Ivi, p. 84. Ibidem. Ivi, p. 85. Ivi, pp. 85-86. Ivi, p. 97.

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trova nessuno con cui condividere il mondo e prendersene cura. Nella cultura latina il concetto greco di filantropia è stato tradotto con “humanitas”, ma non senza subire mutamenti. Il più politicamente significativo, secondo Arendt, è il fatto che a Roma, persone di origine etnica diversa potevano ottenere la cittadinanza e divenire così partecipi a pieno titolo della sfera pubblica e del dialogo umano su di essa. Questo sfondo politico è ora del tutto venuto meno in ciò che i moderni hanno chiamato “umanità”, «termine con cui comunemente non designano che un semplice fenomeno di educazione»165. E' per questa ragione che tale concezione politica dell'amicizia è da noi sentita così lontana e di conseguenza troviamo sconcertante che Nathan il saggio, per quanto sia un testo moderno, «potrebbe essere considerato a buon diritto il dramma classico dell'amicizia»166. Arendt ammette di essere colpita dalle parole di Nathan: “dobbiamo essere amici”. Per Lessing l'amicizia è talmente importante da sacrificare a questa non solo la passione d'amore. Nell'opera assistiamo addirittura ad un conflitto tra «amicizia ed umanità, da una parte, e la verità dall'altra» 167. La saggezza di Nathan in fondo risiede proprio nella sua disposizione a sacrificare la verità in favore dell'amicizia. Lessing è stato quindi capace di rallegrarsi che la verità, se mai qualcuno sia stato capace di raggiungerla, sia andata perduta. Tra doxa e aletheia avrebbe serenamente sempre scelto la prima «per amore delle infinità delle opinioni possibili in cui si riflette il dialogo degli uomini sulle questioni di questo mondo» 168. In questo senso va letta la Parabola dei tre anelli riportata nel primo capitolo. Ed è con le sue parole conclusive, con la sua presa di posizione contro la tirannia della verità di un solo anello, che questa storia entra a pieno titolo in un discorso sul valore politico ed umanizzante del dialogo umano. Se si pervenisse alla verità, se esistesse l' anello autentico della storia di Nathan e venisse scoperto, ciò comporterebbe, su questo insiste l'interpretazione arendtiana di Lessing, «la fine del dialogo, quindi dell'amicizia e, in ultimo, dell'umanità»169. Significativo a tal proposito che il sultano, persuaso e affascinato dalle parole del Saggio, non sia praticamente capace di dire nulla a questo se non 165 166 167 168 169

«va! - ma sii mio amico».

Ivi, p. 86. Ivi, p. 87. Ibidem. Ivi, p. 88. Ibidem.

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Sostanzialmente, di ciò che da sempre ha gettato i filosofi nella disperazione, ossia che la verità pronunciata diviene immediatamente opinione tra le altre, Lessing è stato invece capace di compiacersi. Ed anche qui per Arendt risiede la sua grandezza. Le questioni legate ai limiti dell'intelletto umano divennero poi il grande tema delle critiche Kantiane. Tralasciando i pur numerosi punti di contatto tra Lessing e Kant, l'autrice ci porta a comprendere come i due pensatori si distinguessero in un punto decisivo: Kant avrebbe sì, con Lessing, sacrificato la verità alla libertà umana ma non «all'umanità senza esitazione, alla possibilità dell'amicizia e del dialogo tra gli uomini»170. L'assoluto kantiano, l'imperativo categorico, «decisivo in tutte le questioni umane» non «può essere trasgredito nemmeno per amore dell'umanità in qualunque senso la si intenda». Hannah Arendt ritiene che la disumanità della tesi kantiana risieda nell'aver postulato un assoluto e di averlo introdotto nell'ambito umano, costituito da relazioni, contrastando così «la sua fondamentale relatività»171. Il conflitto umanità – verità, che costituisce il dramma di Nathan, è da noi sentito distante perché oggi è raro che vi siano persone convinte di possedere la verità, ma piuttosto incontriamo «quelli che sono sicuri di aver ragione» 172. La differenza sta nel fatto che al tempo di Lessing la questione della verità, come ci testimonia la storia degli anelli, era ancora esclusivamente filosofica e teologica. Oggi invece l'aver ragione è un problema che ha origine nel campo della scienza. L'autrice non vuole qui giudicare in termini positivi o negativi questo mutamento, ma si limita a constatare che ciò è avvenuto. Oggi siamo affascinati dalla ragione scientifica «quanto gli uomini del XVIII secolo lo erano della verità»173. Possedere la verità e l'aver ragione hanno comunque una cosa in comune: coloro che abbracciano uno dei due punti di vista «non sono in generale disposti a sacrificare la loro prospettiva all'umanità o all'amicizia in caso di conflitto»174. In entrambi i casi l'obbiettività viene elevata a dovere. Per aiutarci a capire possiamo «tradurre il conflitto di Lessing in un altro, più vicino alla nostra esperienza»175 e tornare così a riflettere sul Terzo Reich. L'autrice si chiede se, 170 171 172 173 174 175

Ivi, p. 90. Ibidem. Ivi, p. 92. Ivi, p. 93. Ivi, pp. 93-94. Ivi, p. 94.

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supponendo che sia stata dimostrata scientificamente l'inferiorità di una razza, ciò giustificherebbe il suo sterminio. La risposta ovviamente è facile, basta «invocare il non uccidere» che dalla vittoria del cristianesimo regge il pensiero giuridico e morale dell'occidente. Ma in un'ottica di pensiero completamente libero tanto da “cambiare con la vita”, come quello di Lessing, la domanda dovrebbe essere posta come segue: «una dottrina di tal genere, per quanto provvista di prove convincenti, potrebbe giustificare il sacrificio di una sola amicizia tra gli uomini?». 176 A questa domanda Lessing risponderebbe senza esitazione. La sua “umanità”, che consiste nello stare sempre dalla parte degli uomini, il suo atteggiamento politico sempre rivolto a favore del mondo, lo avrebbero portato a ritenere «un errore ogni dottrina», indipendentemente dalle argomentazioni, «che rendesse impossibile in via di principio l'amicizia tra gli uomini»177. Niente gli avrebbe impedito di allacciare un'amicizia o di dialogare con chiunque. «Chiunque tu sia», chiede appunto Nathan, «mi sei amico?178». La volontà di Lessing, ricordiamolo, era di essere «l'amico di molti, ma il fratello di nessuno». In chiusura del suo Discorso su Lessing, Arendt sceglie una citazione di Lessing stesso ritenuta dall'autrice «quanto è stato detto di più profondo sul rapporto tra verità e umanità»179: “dica ognuno cosa gli sembra verità, e sia raccomandata a Dio la verità”.

176 177 178 179

Ivi, p. 95. Ivi, p. 96. Lessing, Nathan il saggio, cit., p. 35. Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, cit., p. 99.

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CONCLUSIONE E' bene in conclusione riflettere non solo sul significato che può assumere studiare oggi Hannah Arendt, ma anche sul modo con cui approcciarci e interpretare il suo pensiero politico. «Dopo le celebrazioni, le canonizzazioni e dopo le feroci demonizzazioni»180, se vogliamo dare seguito al suo insegnamento è bene non farsi possedere né dal passato né da un'ansia di futuro, ma occorre essere totalmente presenti. L'approccio al pensiero arendtiano, dunque, non può essere un mero tentativo di confezionare «elegantemente il pensiero di Hannah Arendt come un prodotto da esporre negli scaffali dei dipartimenti di filosofia (magari tra Heidegger e Benjamin)»181 ma deve sforzarsi di cogliere «ciò che di esso possiamo legittimamente attualizzare per comprendere l'oggi». In fondo, è stata la stessa Arendt ad abbozzare per la prima volta il pensiero che del totalitarismo, dopo la sua sconfitta storica, rimanga ben più di un ricordo. Molte sono infatti le «aporie politiche del presente (dalle guerre umanitarie ai Cpt, dall'emergenza dei migranti alla naturalizzazione o biologizzazione dell'umano)», le quali, spinti dall'urgenza di comprendere le aberrazioni del nostro tempo, possono essere «alla base di un'attualizzazione del pensiero arendtiano»182. Saper cogliere che non si eredita un passato imbalsamato, ma «sempre il presente con la sua porzione di passato che non passa e di apertura su un futuro ignoto ed incerto», è forse «l'unico modo in cui si può parlare dell' eredità di Hannah Arendt»183. E il ricorrere a questa eredità può sicuramente aiutarci «a decifrare i nuovi tempi bui nei quali siamo precipitati» 184. Come già riportato, nel Discorso su Lessing, Arendt definisce "tempi bui" i periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e gli individui non chiedono alla politica nulla di più rispetto alla salvaguardia dei loro interessi vitali e della loro libertà privata. Anche nei paesi occidentali, dove dal declino del mondo antico la libertà politica è stata innalzata a libertà fondamentale, osserva l'autrice, «un numero sempre crescente di persone [...] fanno uso di questa libertà ritirandosi dal mondo e dagli obblighi nei suoi confronti» 185. 180 181 182 183 184 185

Olivia Guaraldo, Introduzione, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p. 7. Laura Boella, Umanità, in Il novecento di Hannah Arendt, cit., p. 130. Ivi. p. 11. Laura Boella, Umanità, in Il novecento di Hannah Arendt, cit., p. 127. Olivia Guaraldo, Introduzione, in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., pp. 8-9. Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, cit., p 42.

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Queste parole, pronunciate da Arendt nel 1959, conservano oggettivamente una grande attualità. Per quanto sicuramente ci siano state significative eccezioni, dal '68 ai Social forum, è chiaro che la tendenza alla "disaffezione" e all'allontanamento dalla politica in favore del ritiro dallo spazio pubblico non ha fatto che affermarsi ed estendersi. Per questa ragione la concezione della politica di Hannah Arendt mantiene ancora una forza propositiva straordinaria. In particolare con i riferimenti ai saggi Sulla rivoluzione e Vita Activa si è qui cercato di fornire una prima esposizione della teoria politica della pensatrice tedesca: in primo luogo va ricordata l'idea secondo la quale alla politica non possa, per definizione, appartenere la sfera delle necessità fisiche e biologiche. Da qui la critica alla tradizione rivoluzionaria che storicamente ha sempre posto in rilievo, almeno nelle sue pratiche, il soddisfacimento dei bisogni primari sulla libertà politica e la proposta di una concezione di quest'ultima che, attraverso l'azione e il discorso, si presenta come strumento in grado di soddisfare «la volontà dell'autrice di delineare un criterio che riscatti l'uomo dal suo "essere naturale"» 186. Abbiamo infatti definito la politica, arendtianamente intesa, come «dispositivo umanizzante». L'umanità degli umani, non il mero sostentamento fisico degli uomini, è dunque il fine a cui la politica deve aspirare. A riguardo è bene riportare nuovamente le parole di Laura Boella secondo la quale «il pensiero arendtiano nel suo complesso ripropone infatti la questione dell'umano in tempi di distruzione di innumerevoli esseri umani, di catastrofe dell'eredità culturale e filosofica europea fondata sul valore o sul postulato dell'umanità». Hannah Arendt, ebrea e apolide scampata ai campi di concentramento, attenta a «non ridurre l'umanità a vuota frase o fantasma» attraverso facili e rassicuranti sentimentalismi, «rimette in gioco la questione dell'umano dal suo punto zero» 187 e la proietta «fuori dalle tenebre dei campi e soprattutto dal possibile compimento del progetto totalitario di sostituzione di un mondo umano con uno non più umano» 188. Chiaramente l'idea di umanità compare qui, sullo sfondo della ricostruzione del totalitarismo, in termini di trasformazione della natura umana e di riduzione di interi gruppi e popolazioni a "esseri superflui", completamente «rovesciata rispetto all'epoca dei lumi: essa si colloca nel vuoto che ci separa da essa, nelle tenebre dei tempi bui. 186 187 188

Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 266. Laura Boella, Umanità, cit., p. 131. Ibidem.

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Allo stesso modo, il mito del progresso si disintegra nelle macerie prodotte da un mito ancora più fatale, quello della Storia e del processo» 189. Arendt, in tutto il suo enorme tentativo di comprensione della catastrofe, si è mostrata tenacemente e coraggiosamente interessata e attenta alla questione dell'eredità umanistica. I grandi ideali di egalité, liberté e fraternité infatti, secondo la ricostruzione arendtiana, affondarono «nella corrente impetuosa del processo storico, perdendo il radicamento in un'altra prassi, quella dell'individuo che non "realizza" la libertà e la giustizia, ma è libertà vivente e operante, obbligato verso un mondo giusto, libero, a venire, mai garantito» 190. Se teniamo ben presente questi elementi della sensibilità arendtiana è facile comprendere perchè, ai grandi e più celebri rappresentanti dell'epoca dei lumi, l'autrice preferisca rifarsi alla figura di Lessing, l'illuminista, come dicevamo, "non alla moda" che si prese gioco dei paradossi dell'illuminismo dozzinale. Hannah Arendt sembra qui davvero debitrice nei confronti dell'autore di Nathan il saggio, sembra che ad esso si ispiri per l'atteggiamento critico che manifesta nei confronti dell'umanitarismo astratto, fatto appunto di "frasi vuote", di certa tradizione filosofica e politica che trova origine proprio nel '700. Tuttavia, ciò per cui Arendt sembra più riconoscente a Lessing è l'intuizione di questi sulla "convenienza" dell'essere amici piuttosto che fratelli. Per quanto nel discorso del '59 la questione sia in fondo solo accennata, come uno di quei "fermenta cognitionis" che Lessing amava seminare, sembra che tale convinzione sia alla base di tutte le riflessioni arendtiane attorno al concetto di politica. La dimensione eminentemente relazionale che Arendt riserva alla politica si fonda inevitabilmente su un rapporto tra individui che non può essere di fratellanza. Ben oltre il fatto che anche qui Arendt ci mette al riparo dai sentimentalismi che possono scaturire da una formulazione astratta come è quella di fratellanza, abbiamo precedentemente argomentato come soltanto un rapporto di amicizia, non privo del recupero della sensibilità antica, garantisca in ultima analisi lo spazio della politica. Se la fratellanza cancella le distanze ponendosi in una dimensione muta ed impolitica, l'amicizia le valorizza politicamente facendone occasione di dialogo e, dunque, occasione di umanizzazione. In questo senso l'amicizia costituisce lo "spazio pubblico", quindi lo "spazio della politica". «Occorre innanzitutto precisare che la parola "spazio" non 189 190

Ivi. p. 132. Ivi. p. 133.

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rimanda necessariamente ad una collocazione fisica né, tanto meno, ad un concreto principio di territorialità [...] più che identificarsi con ambiti concreti, lo spazio pubblico arendtiano è piuttosto la condizione di possibilità dell'essere-insieme; più che una forma politica determinata, è il trascendentale della politica»191. Arendt, sopravvissuta allo sterminio, dopo aver tratto conclusioni severe sulla cultura occidentale, si è mostrata capace di riproporre un dispositivo di umanizzazione, la politica. Solo essa è in grado di lasciare aperta la partita dell'umanità degli umani. Ciò, tuttavia, non le esclude di sviluppare in Vita Activa amare considerazioni «sulle minacce quasi mortali che attentano alla vita politica in una società di massa sulla quale incombe l'ombra del potere anonimo, ma pervasivo, della burocrazia [...] dove l'invadenza della tecnica, nell'accezione più vasta del termine, combinata alla disgregazione prodotta dal moltiplicarsi degli interessi particolari»192 può portare all'eclissi della politica. Ma in realtà «la molteplicità delle posizioni da cui si osserva e si denuncia il tramonto della politica implica l'assunzione di un presupposto di fondo: che la politica, o meglio il politico, abbia una propria autonomia, e che soltanto in virtù di questa autonomia sia possibile denunciarne la scomparsa»193. Possiamo invece sostenere che, a conclusione di quanto si è detto sullo spazio pubblico arendtiano, per Hannah Arendt la politica, che è libera azione e libero discorso, rimanga, in ultima analisi, sempre salvabile perché lo spazio pubblico è potenzialmente ovunque le persone si mettano in relazione, mai necessaria, ma sempre possibile. Di fronte alla riduzione della politica a mera amministrazione, volta a gestire prevalentemente interessi privati e particolari, Arendt non constaterebbe la fine del politico ma un tradimento del suo significato originario. Nonostante Arendt sia consapevole che se il "sociale" colonizzasse ogni ambito, le potenzialità del politico potrebbero manifestarsi sempre meno, in lei prevale l'idea che la politica è una possibilità non determinata e finché ci sarà "un mondo" costituito dalla relazione di una pluralità di esistenti unici, «il certificato di morte della politica non può essere firmato»194 e con essa non muore la «sfida di una umanità in fieri» mai compiuta, sempre perfettibile e sempre umanizzabile. 191 192 193 194

Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., pp. 277-278 Ivi. p. 295. ivi. p. 296. Ivi. p. 301.

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NOTA BIBLIOGRAFICA Opere •

Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, trad. it. Laura Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

Hannah Arendt, Che cos'è la politica?, trad. it. Marina Bistolfi, Einaudi Torino, 2006.

Hannah Arendt, Sulla Rivoluzione, trad. it. Maria Magrini, Einaudi, Torino, 2006.

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. Amerigo Guadagnin, Einaudi, Torino, 2009.

Hannah Arendt, Vita Activa, trad. it. Sergio Finzi, Bompiani, Milano, 2008.

Hannh Arendt, La banalità del male, trad. it. Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano, 2007.

Gotthold Eprhaim Lessing, Nathan il saggio, trad. it. Andrea Casalegno, Garzanti, Milano, 2000.

Studi critici •

A cura di Olivia Guaraldo, Il Novecento di Hannah Arendt, Ombre Corte, Verona, 2008.

Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

Nicolao Merker, Introduzione a Lessing, Laterza, Roma, 1991.

Giovanni Reale, Dario Antiseri, Storia della filosofia dall'Umanesimo a Kant, Editrice La Scuola, Brescia, 1997, pp. 643-647.

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