La barraca di Federico Garcìa Lorca - il teatro degli umili

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE E CONTEMPORANEE

TESI DI LAUREA TRIENNALE

LA BARRACA DI FEDERICO GARCÍA LORCA Il teatro degli umili

Relatore: Prof. Nicola Pasqualicchio

Laureando: Massimo Foladori


ANNO ACCADEMICO 2009/2010

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INDICE

Introduzione

p. 7

Capitolo Primo – I COLORI DI FEDERICO GARCÍA LORCA

p. 9

Musica e folklore nella notte del Cante Jondo

p. 10

La neve della poesia al sole del teatro

p. 13

L’evoluzione del teatro: da El maleficio de la mariposa a La casa de Bernarda Alba

p. 15

Capitolo Secondo – LA BARRACA

p. 22

Cenni storici

p. 22

Il teatro degli umili

p. 25

Capitolo Terzo – IL REGISTA DELLA BARRACA La nascita della Barraca

p. 30 p. 30

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Il Secolo d’Oro del teatro spagnolo

p. 34

Fuenteovejuna

p. 37

La vida es sueño

p. 41

La regia di Federico García Lorca

p. 48

Bibliografia

p. 55

Ringraziamenti

p. 57

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“Parola mia di cavaliere errante, appena ho visto questo carro ho pensato che mi si presentasse qualche grande avventura. Andate con Dio, brava gente, e fate pure la vostra festa, e se potete chiedermi cosa in cui possa esservi utile, lo farò volentieri e di buon grado, perché sin da ragazzo ho avuta una passione per il teatro, e nella mia giovinezza quando vedevo una compagnia di comici morivo d’invidia.” Miguel de Cervantes Don Chisciotte della Mancia

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Introduzione

Nell’estate del 1936, nei pressi di Granada, Federico García Lorca, all’età di trentotto anni, venne assassinato ad opera dei falangisti spagnoli. L’evento sconvolse la coscienza del popolo iberico e rappresenta tuttora uno degli episodi più bui e riprovevoli della storia della letteratura mondiale. Ricordando un tale avvenimento, ciò che maggiormente turba ed impensierisce è non solo la percezione della perdita di una delle più genuine figure di poeta, drammaturgo ed artista, ma anche, e soprattutto, la consapevolezza dell’emblematico significato che un tale omicidio viene ad assumere: esso diventa espressione della sostanziale incompatibilità tra intellettuali e tiranni. L’esigenza di libertà e solidarietà che si leva dalla poesia, dal teatro e dall’attività di organizzatore culturale di Lorca non poteva certo riscuotere le simpatie della destra spagnola guidata da Francisco Franco. La natura di regime reazionario, tipica del fascismo di tutti i tempi, si è impegnata a soddisfare la necessità, insita in ogni dittatura, di far tacere le voci libere. E libera, di certo, era la voce di Lorca. La grande sensibilità di Federico ha dato vita ad un’arte popolare, attuale e vivace, mai indifferente alle problematiche della propria epoca e della propria nazione. Tra le varie attività culturali al servizio del popolo di cui Lorca è ideatore e promotore, la Barraca riveste un ruolo rilevante ed esemplare. Questo moderno carro di Tespi, di cui Lorca fu direttore, è rappresentativo di una forma di teatro alternativo e, in qualche maniera, rivoluzionario; un teatro che, negli anni Trenta del Novecento, si libera dalle soffocanti convenzioni in cui registi ed imprenditori l’avevano recluso per riscoprire metodi e modalità che ricordano 7


piuttosto il mondo dei comici dell’arte ( o, per rimanere in ambiente spagnolo, dei comicos de la lengua). Lorca dà vita con la Barraca ad una forma di teatro popolare, che al popolo si rivolge e che dal popolo è acclamato. Il carattere di questa tesi è prevalentemente espositivo: lo scopo principale è quello di presentare, descrivere ed analizzare lo spirito fondante della Barraca, mettendo in evidenza l’intimo legame che esiste tra l’ideale etico e filantropico di quest’ultima e la sensibilità del suo creatore. Dopo aver introdotto in un primo momento la figura di Federico García Lorca e aver esaminato i tratti essenziali della sua arte (in particolar modo di quella drammaturgica), l’attenzione si concentra sulla natura della Barraca e sugli ideali che ne sostengono l’attività. Infine, nel terzo ed ultimo capitolo, vengono descritte le modalità registiche con cui Lorca firmava le rappresentazioni della Barraca. La scarsa documentazione rintracciabile sull’argomento, almeno in ambiente italiano, ha fatto sì che per la stesura di questa tesi ci si concentrasse particolarmente sui testi e opere dello stesso Lorca, ma importanti sono stati anche i due saggi di Ubaldo Bardi e di Ferruccio Masini (fondamentali sono le interviste che Lorca rilasciò a varie riviste spagnole e che Masini riporta nel suo testo) assieme al saggio francese di Estelle Trepanier (contenuto nella rivista “Revue d’histoire du théatre”) ed al testo spagnolo di Luis Sáenz de la Calzada.

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Capitolo Primo I COLORI DI FEDERICO GARCÍA LORCA

E’ di cenere il cielo. Gli alberi sono bianchi, e le stoppie bruciate sono carboni neri. La ferita del Tramonto ha sangue inaridito, e la carta incolore del monte è aggrinzita. La polvere del sentiero Si perde nei dirupi, le fonti sono torbide e stanno quiete le gore. Il campanaccio del gregge ha un suono grigio rossiccio e la noria materna ha chiuso il suo ciclo. E’ di cenere il cielo. Gli alberi sono bianchi.1

Quasi fosse un pennello mosso dall’abile mano del pittore, la poesia crea un quadro campestre in cui le parole del poeta regalano agli occhi della nostra mente lo scorcio di un paesaggio rurale. Si tratta certamente di un testo carico di suggestioni e 1

Federico García Lorca, Campagna, in Id., Libro de poemas, Roma, Newton, 1971, p. 201.

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capace di risvegliare nell’animo del lettore svariate immagini e riferimenti. Noi, che siamo nati in Italia, potremmo forse, quasi inconsciamente, pensare alla letteratura verista ed immergere l’aspra bellezza del paesaggio qui descritto nella campagna siciliana. Se il lettore invece non fosse nato in Italia, ma in terra spagnola, con buona probabilità non collocherebbe istintivamente il testo all’interno del movimento verista italiano, ma le sensazioni e le emozioni suggeritegli dalla lettura sarebbero assai simili a quelle da noi provate. Egli non penserebbe alla Sicilia, ma evocherebbe la campagna andalusa, immaginerebbe le voci dei contadini della Vega granadina, avvertirebbe l’immobilità dell’abbagliante calura del mezzogiorno spagnolo. Se egli poi volesse tentare di ricercare la paternità di questo brano tra gli autori della sua letteratura, inizierebbe a passare mentalmente in rassegna nomi di poeti e prosatori, alla ricerca di colui che si sia dimostrato capace di trasmettere sensazioni legate alla terra, alla natura, alla semplicità, al folklore, all’uomo: penserebbe a Federico García Lorca. E non sbaglierebbe.

Musica e folklore nella notte del Cante Jondo García Lorca nasce a Fuente Vaqueros, paese nei pressi di Granada, il 5 giugno 1898. Figlio primogenito di un ricco proprietario terriero, Federico García Rodrìguez, e di Vicenta Lorca Romero, maestra granadina, egli trascorre la sua infanzia sullo sfondo della Vega di Granada, a stretto contatto con la natura e pacificamente immerso nella vita di campagna. E’ in questi anni e all’interno di una simile condizione che prendono forma la sua emotività e la sua sensibilità di poeta e di uomo. L’odore che permea le opere della sua prima produzione è infatti l’odore della terra. Nel 1934, due anni prima di cadere sotto i colpi dei fucili dei falangisti, dichiarò: “Amo la terra. Mi sento legato ad essa in tutte le mie emozioni. I miei più lontani ricordi di bambino sanno di terra”2. E di certo le radici da cui trae vita la 2

Ian Gibson, García Lorca. Breve vita di un genio, Torino, Einaudi, 2002, pp. 3- 4.

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poesia lorchiana vanno ricercate nella campagna, che egli amò con un trasporto ed un impeto estremamente vitali: basterebbe sfogliare le pagine della sua prima raccolta poetica, Libro de poemas, per accorgersi di quale entusiasmo e di quale gioia di vivere vibrino tra questi versi. Il modo con cui Lorca si accostava alle cose, agli elementi naturali e agli abitanti del paesaggio granadino, è il modo con cui il bambino (come il fanciullino di pascoliana memoria) muove i primi passi nel mondo e con occhi curiosi ed entusiasti osserva ciò che lo circonda, spostando la sua attenzione con frenetica energia ora su questo, ora su quello. La candida ed ingenua esperienza che i bambini fanno del mondo costituisce anche una porta d’ingresso attraverso la quale Federico giunge ai temi della sua più matura produzione letteraria: nei bambini infatti “ […] risiede il canto della ninna nanna e il mito della favola, primi elementi delle caratteristiche fondamentali della sua poesia che sono appunto la musica e la tradizione popolare”3. Nato in una famiglia dalla spiccata predisposizione artistica, i cui membri sovente improvvisavano balli e canzoni popolari al suono di chitarre e pianoforti, Federico, già ai tempi del liceo, si dimostra degno erede di una tanto intensa passione musicale, avendo come quasi esclusivo interesse proprio quello per la musica. I genitori, assecondando il desiderio del figlio, gli cercano un maestro. E così, sotto la guida di Antonio Segura Mesa, vecchio compositore fallito, Lorca inizia a muovere i suoi primi passi sui tasti di un pianoforte. La musica lo accompagnerà per tutto il resto della vita, portandolo anche a comporre delle piccole opere, e permeerà, come già accennato, tutta la sua produzione artistica, facendosi ora voce dei campi tra il coro dei grilli, il gorgoglio del fiume, il fruscio delle foglie, e ora canto dei contadini nelle sue opere drammatiche. Dall’amore per la musica a quello per il folklore il passo è breve. Basti pensare alle innumerevoli reinterpretazioni che Federico fece di centinaia di canzoni popolari. Ma vi è una figura che più di qualunque altra nella vita di Lorca può essere considerata l’anello di congiunzione tra i due mondi: il grande musicista Manuel de Falla. Il primo incontro tra i due artisti avviene nel 1919, durante una visita del 3

Claudio Rendina, Prefazione a: Federico García Lorca, Libro de poemas, cit., p. 8.

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compositore a Granada, dove poco dopo si trasferirà. La stima reciproca e le passioni comuni (tra cui quella per il teatro dei burattini andaluso) fanno sì che presto si instauri tra loro una profonda amicizia. E’ l’inizio di una intensa collaborazione i cui frutti saranno preziosi per Federico in vista delle sue future rappresentazioni drammatiche. L’incontro con de Falla stimola ulteriormente l’interesse di Lorca per la musica popolare: nel periodo a cui risale il loro primo incontro, Manuel de Falla stava indagando sulle remote origini del Cante Jondo, forma canora prettamente andalusa, “rarissimo esempio di canto primitivo, il più vecchio di tutta l’Europa”, dotato della “fremente emozione di tutte le razze orientali” 4. Le discussioni di de Falla, Lorca e amici al riguardo vertevano su come poter salvare e riportare in vita questo straordinario patrimonio di cultura popolare. Fu così che de Falla ebbe l’idea di organizzare una pubblica manifestazione in cui si sarebbero esibiti i cantaores, ovvero contadini in grado di intonare vecchie storie e leggende tramandate da padre in figlio. L’organizzazione dell’evento entusiasmò Lorca, che si impegnò nella ricerca dei cantaores. Tale compito lo portò a visitare il cuore dei bianchi villaggi che costellavano la Vega, permettendogli di penetrare nei recessi più intimi della lontana arte popolare e di fare diretta esperienza dei luoghi in cui ancora palpitava forte lo spirito della Spagna antica: “Uomini cotti dal sole, scavati dalla pena, chiusi ad ogni confidenza, ad ogni accerchiamento, diventavano improvvisamente loquaci, quando si scioglievano al fuoco del suo giovanile entusiasmo per quanto doveva accadere a Granada”5. Sono questi uomini, umili contadini, lontani dalla vita culturale cittadina, che costituiranno il principale pubblico a cui Federico si rivolgerà con le rappresentazioni teatrali della sua Barraca. Dire che la Fiesta del Cante Jondo fu un successo sarebbe non rendere pienamente giustizia alla portata dell’evento: essa accese e diede energia agli animi di Granada, unendoli nella voce viva di una Spagna da lungo assopita; fu un momento in cui musica e tradizione popolare si svelarono come vigorosi elementi di comunione per un’intera popolazione. 4

Manuel de Falla, Escritos, p. 56, cit. in Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, Firenze, Tipografia Nazionale di Firenze, 1978, p. 11. 5 Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, cit., p. 13.

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Sono dunque queste le vivande che costituirono il nutrimento principale della sensibilità di Federico García Lorca: attaccamento alla terra, nostalgia per l’infanzia, magia della musica, forza vitale del folklore andaluso. Da questo fertilissimo terreno culturale crebbe la sua poetica, che investì con energica dolcezza la poesia ed il teatro.

La neve della poesia al sole del teatro Secondo l’opinione comune, corrente in molti paesi tra cui il nostro, l’attività e gli interessi di Lorca avrebbero riguardato in primo luogo la poesia e solo successivamente il teatro e la scrittura drammatica. Tale errore è forse dovuto alla scarsa conoscenza che si è avuta fino a poco tempo fa dello sviluppo ordinato delle sue opere teatrali, unita alla cattiva traduzione compiuta in alcuni paesi. Comunque stiano le cose, la realtà è che il teatro fu l’attività a cui Lorca si dedicò più intensamente, che più accese i suoi ardori e stimolò il suo ingegno, fino ad assorbire totalmente gli anni della sua maturità. Il periodo che Federico dedicò alla poesia è infatti tutto compreso fra il 1921 e il 1931. Per quanto infatti Lorca componesse poesie già in giovane età, è comunque all’interno di questo intervallo di dieci anni che si collocano tutte le sue raccolte e pubblicazioni poetiche, partendo da Libro de poemas, passando per il Romancero gitano fino ad arrivare a Poeta en Nueva York e a El Diván del Tamarit (unica poesia che si collochi al di fuori di tale decennio è il Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, poiché la morte dell’amico torero, motivo che diede l’ispirazione per questo componimento, avvenne nell’agosto del 1934). Questo è dunque l’arco cronologico in cui prende vita e quindi muore la poesia di Lorca. Ben più ampio è invece il periodo di tempo che abbraccia la sua produzione drammatica: dal 1919, anno della prima rappresentazione de El maleficio de la mariposa (Il maleficio della farfalla), fino alla data riportata in fondo all’ultima pagina del 13


manoscritto de La casa de Bernarda Alba (La casa di Bernarda Alba), e cioè il 29 giugno 1936, giorno così fatalmente vicino a quel 27 luglio in cui Federico troverà la morte. Lorca dialoga con il teatro iniziando all’età di vent’anni e spingendosi fino all’ultimo mese di vita. Non solo, ma spesso il linguaggio e il ritmo teatrale dilagano e si diffondono fino a rompere le barriere della esclusiva scrittura drammatica e arrivano a penetrare ed influenzare la poesia. E’ teatro quella azione in potenza che sembra sempre sul punto di esplodere e che pervade i versi del Romancero gitano; è teatro quell’attenzione alla descrizione che porta Lorca a comporre versi che paiono didascalie: Silenzio di calce e mirto. Malve tra le gramigne. La monaca ricama violacciocche su una tela paglierina. Volano nella lucerna grigia sette uccelli del prisma6.

E, ancora, sono teatro quei veri e propri dialoghi che irrompono nel linguaggio poetico del Cante Jondo: TENENTE COLONNELLO: Sono il tenente colonnello della Guardia Civile. SERGENTE: Sì. TENENTE COLONNELLO: E non c’è chi mi smentisca. SERGENTE: No7.

Se poi volessimo intraprendere il percorso inverso, e quindi rinvenire tracce poetiche all’interno delle sue opere teatrali, ci accorgeremmo come la preoccupazione di Lorca fosse quella di liberare progressivamente il dramma dalla poesia: se l’animo del giovane compositore de El maleficio de la mariposa è ancora un animo lirico (l’opera è interamente scritta in versi e le tematiche proposte al suo interno sono 6 7

Federico García Lorca, Romancero gitano, in Id., Poesie, Roma, Newton, 2007, p. 189. Federico García Lorca, Poema del Cante Jondo, in Id., Poesie, cit., p. 59.

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impregnate di romantica spiritualità), il Lorca di Bodas de sangre (Nozze di sangue), di Yerma, di La casa de Bernarda Alba, è un Lorca immerso nella realtà quotidiana, un Lorca che ritrova la terra dei suoi padri contadini, che riveste i suoi protagonisti di una viva grandezza drammatica, che rivolge l’attenzione alla condizione vissuta dalla donna nella Spagna patriarcale e che si fa portavoce delle parole degli umili. García Lorca amò molto, amò le sue amicizie, amò la vita, il folklore, l’arte. Ma l’idea che più accese i suoi ardori fu probabilmente quella di parlare alla gente, di entrare in diretto contatto con le masse, di lavorare per aiutare chi lo meritasse, di riscattare quei volti bruciati dal sole che popolavano la campagna della sua infanzia; per questo provò un così intenso trasporto per l’arte drammatica: il teatro costituì il miglior mezzo per far vibrare le corde più emotive e nascoste nell’animo umano e divenne il miglior canale con cui raggiungere le orecchie di chi doveva sentire.

L’evoluzione del teatro: da “El maleficio de la mariposa” a “La casa de Bernarda Alba” Nel mese di giugno del 1919, Federico incontra a Granada Gregorio Martínez Sierra, uno degli uomini di teatro più conosciuti nella Spagna dell’epoca. Durante una delle loro conversazioni, Martínez Sierra sente Lorca recitare una poesia che parla di una farfalla caduta ferita in un prato. Uno degli scarafaggi che accorrono per prestarle soccorso ne rimane innamorato; egli è condannato a perdersi una volta che la bella creatura, guarita, si allontana in volo. L’impresario ne rimane commosso e promette a Lorca che, se fosse stato capace di farne una trasposizione teatrale, egli l’avrebbe rappresentata nel suo teatro di Madrid, l’Eslava. E così nel marzo del 1920 Federico incontra per la prima volta il pubblico portando sulla scena El maleficio de la mariposa. La sera della prima segnò tuttavia un clamoroso insuccesso. Le grida e risate degli spettatori permisero a stento agli attori di portare a termine la 15


rappresentazione, tanto che in seguito i critici si dichiararono incompetenti nel giudicare l’opera per non essere riusciti a seguirla. Comunque si sia svolta la vicenda, El maleficio de la mariposa rimane nei fatti, e per ammissione dello stesso autore, una commedia immatura e ancora troppo “poetica”. Il giovane scrittore non si dà per vinto e nel 1922 compone una farsa “guignolesca”, riallacciandosi alla tradizione del teatro dei burattini: Tragicomedia de don Cristóbal y la señà Rosita (Tragicommedia di don Cristóbal e donna Rosita). La strada del guiñol verrà ripresa più avanti, nel 1931, con il Retablillo de don Cristóbal (Teatrino di don Cristóbal). Il risultato migliore che Lorca consegue in questo periodo, è però del 1928, ed è costituito dalla prima rappresentazione di Mariana Pineda: questa tragedia, che prende spunto da un fatto storico, vede come protagonista Mariana, una giovane vedova appartenente alla piccola nobiltà della Granada del 1831, fatta giustiziare da Ferdinando VII per aver partecipato al movimento liberale durante la rivolta di Torrijos. Il tema della bandiera della libertà ricamata da Mariana costituisce il filo rosso dell’opera. Ciò che ci impedisce di vedere in Mariana un’erede dell’omerica Penelope è il finale tragico: Mariana, compromessasi per amore di Pedro, che nella mente della donna diviene il simbolo stesso della libertà, fungendo da punto d’incontro tra amore e ideali, cade nelle mani di Pedrosa, governatore del re, e viene quindi condannata a morte. L’ideale della libertà conquista Mariana nel momento in cui la donna accetta di morire per non tradire i compagni, anche quando è ormai evidente che Pedro non verrà a salvarla: “In Mariana, questa oscura fede sentimentale, che ci ripropone l’antagonismo […] tra l’intelletto e il cuore, diventerà tanto potente da trasformare questa appassionata figura di donna in una martire della libertà”8. Subito dopo Mariana Pineda, nel 1926 Lorca compone La zapatera prodigiosa (La calzolaia ammirevole), opera che riveste un ruolo importante all’interno dell’evoluzione della sua drammaturgia: si sviluppa qui una più forte coscienza critica e sociale, tesa a proiettare la visione lirica all’interno di una forma drammatica che sia strettamente legata alla realtà, e quindi specchio della sostanza 8

Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, Rocca San Casciano, Cappelli, 1941, p. 33.

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umana. Per la prima volta quindi Lorca ricorre al mito per farne punto d’incontro tra favola e realtà, tra fantasia e vita: “La calzolaia è insieme un tipo e un archetipo, è una creatura primitiva e un mito della nostra pura illusione insoddisfatta” 9. La vicenda della calzolaia arriva così ad assumere la forma e l’aspetto della nostra quotidianità. La storia è incentrata sulle difficoltà del rapporto tra la protagonista e suo marito, complicato dalle malelingue del vicinato. La fantasia e le illusioni della calzolaia si infrangono contro il muro di perenne insoddisfazione eretto dalla realtà quotidiana. Il punto d’origine di tale stato viene rinvenuto dalla protagonista nel marito, contro cui ella scaglia la propria violenza fino ad arrivare a cacciarlo di casa. La sua assenza è fonte però di nostalgia e amore, amore che verrà infine riappagato con il ritorno del marito e con l’accoglienza fattagli dalla moglie. La lotta che la calzolaia intraprende è quindi una guerra mossa contro la realtà circostante in nome della fantasia, per cui la prima verrà accettata soltanto quando conterrà almeno un briciolo della seconda. Nel finale di questo dramma, che forse non a caso sembra richiamare il capolavoro di Calderón de la Barca La vida es sueño, la protagonista riesce a far conciliare vita e sogno, appunto, al termine di un percorso che passa attraverso la vita di tutti i giorni. Al 1928 risale Amor de don Perlimplín con Belisa en su jardín (Amore di don Perlimplino con Belisa nel suo giardino). Questa “aleluya erotica”, come la chiama lo stesso autore, verso la quale i critici hanno assunto posizioni contrastanti, narra l’amore che Perlimplino prova per la giovane moglie Belisa, la quale gli è però infedele, tradendolo durante la prima notte di nozze con i “rappresentanti di tutt’e cinque le razze umane”10. Una volta palesatosi l’adulterio, però, Perlimplino non assume l’atteggiamento tipico del marito tradito, ma, entrato in confidenza con la moglie, scopre che questa si è innamorata di un sesto uomo, con il quale non ha mai avuto però un incontro. Perlimplino decide di offrirle il suo aiuto: viene così fissato un appuntamento notturno tra Belisa e l’uomo misterioso. Tuttavia, prima che questi arrivi, Perlimplino svela alla moglie di voler uccidere il suo nuovo amore: tramite la 9

“La Naciòn”, Buenos Aires, 20 ottobre 1933, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 36. Federico García Lorca, Amor de Don Perlimplín con Belisa en su jardín, in Id., Teatro, Torino, Einaudi, 1994, p. 203.

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morte il giovane amante potrà così appartenere interamente e per sempre a Belisa. Ma lo sconosciuto che cadrà mortalmente ferito tra le braccia di Belisa, è lo stesso Perlimplino: egli, fingendosi un altro e indossando la maschera del mistero, è riuscito a far innamorare la moglie, ma una volta raggiunto questo obiettivo non ne raccoglie i frutti, preferendo darsi la morte per annullare la distanza che lo separa dalla sua amata. Belisa, divenuta un’altra donna, che veramente ama oltre che con la carne anche con l’anima, è ora intrappolata nelle spire di un amore impossibile, non potendo raggiungere l’oggetto dei suoi desideri: Perlimplino muore infatti non come un marito tradito ma come un amante infinitamente desiderato, permettendo così la metamorfosi di Belisa, che troppo tardi ha toccato con mano la potenza del vero amore. Nel giugno del 1929 Federico inizia un viaggio che lo porterà a raggiungere New York. Questa esperienza si rivelerà determinante per l’evoluzione del pensiero di Lorca. Egli entra infatti in contatto con una realtà che lo scuote e lo sconvolge profondamente, un inferno civilizzato popolato da giganti meccanici, avvolto dal frastuono, brulicante di frenetici volti anonimi, che vive trascinandosi giorno dopo giorno nel nome di un progresso inumano. La sensibilità di Federico non può rimanere impassibile davanti a un tale mostro; nel cuore della sua arte inizia a maturare in modo dirompente una nuova coscienza politica e sociale. Il grido di dolore e di protesta che scaturisce dallo scontro tra il poeta e questa terribile realtà pervade la raccolta poetica che egli compone durante il soggiorno americano, Poeta en Nueva York (Poeta a New York), in cui per la prima volta compare quel vincolo tra poesia e denuncia che, indissolubile, caratterizzerà il resto della produzione lorchiana. E’ nel clima di questa nuova ossessione che Federico, nel 1931, porterà a termine la stesura di Así que pasen cinco años (Aspettiamo cinque anni). Con questa commedia si rompe definitivamente quell’equilibrio tra realtà e sogno che aveva caratterizzato, seppur con esiti differenti, il mondo della Zapatera e del Don Perlimplín. Opera dai caratteri simbolici ed allegorici, Así que pasen cinco años porta sulla scena le tappe di un percorso esistenziale caratterizzato dalla vacuità, 18


dall’astrattezza, dallo svuotamento dell’azione, indice dello sgretolamento della società. L’esistenza e le azioni dei personaggi, poco più che fantasmi privi di personalità, sono guidate ed influenzate ora dalla speranza nell’avvenire, ora dalla voglia di immergersi nel presente, ora dal rimpianto per il passato; essi sono di fatto incapaci di prendere una decisione e, simili a larve in balìa degli eventi, hanno inconsapevolmente rinunciato ad essere padroni della propria vita. Torna, dopo Mariana Pineda, il tema dell’attesa che, manovrando i fili di colui che vive nell’inazione, conduce la sua marionetta verso la sfida contro il tempo, condannandola alla sconfitta e alla non esistenza. La figura del giocatore di rugby, tipo di uomo a cui aspira la civiltà americana, bene incarna la critica che viene mossa a questa società, una società che, intrisa di materialità, ha rinunciato al sogno e a quanto è in grado di accendere l’animo umano. Privi di slanci emotivi e senza uno scopo, gli uomini si sono tramutati in zombi. L’ultima fase del percorso della drammaturgia di Lorca è anche la stagione più matura del suo teatro. Appartengono a questo periodo, che va dal 1933 fino al 1936, le sue più grandi opere drammatiche: Bodas de sangre (Nozze di sangue), Yerma (Yerma), Doña Rosita la soltera (Donna Rosita nubile), La casa de Bernarda Alba (La casa di Bernarda Alba). Come abbiamo visto, Lorca è ora portato a formulare un giudizio critico sulla realtà sociale e sui pregiudizi morali della Spagna del suo tempo. Nello specifico, con il suo ultimo teatro addita gli aspetti sociali, morali e religiosi più deprecabili chiusi nel microcosmo provinciale e contadino andaluso. La strada che ora Federico sceglie per poter meglio assecondare questa esigenza è quella del teatro epico, in cui la realtà irrompe prepotente sul palcoscenico. In una intervista del 1934, egli afferma: “Quel che è grave è che la gente che va a teatro non desidera che la si faccia pensare sopra nessun tema morale”11. La risposta di Lorca a questa problematica è proprio la rappresentazione epica, in cui lo spettatore, come avrebbe detto Brecht, non viene immerso all’interno della situazione rappresentata, ma vi viene posto di fronte, ed è così messo in condizione di svolgere una più limpida riflessione. La via del teatro epico permette inoltre a Lorca di incrementare e dare 11

“El Sol”, Madrid, 15 novembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 87.

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maggior peso al discorso che prima si è fatto riguardo al mito: la realtà portata sulla scena ha una funzione catartica simile a quella del mito, ma mentre in quest’ ultimo è a una favola che viene affidata la funzione di rappresentare una totalità, nella realtà non vi è più una rappresentazione, ma una esemplificazione di ciò che al di fuori del palcoscenico realmente potrebbe accadere o accade. “Nella realtà, narrata in termini epico-drammatici, il mito si dissolve nello spazio da esso stesso creato […] Il mistero invisibile del mito diventa, nel teatro, un mistero visibile, cioè la figura epica di una storia umana”12. La tematica costantemente presente nelle ultime opere teatrali lorchiane, che probabilmente risentono del periodo storico in cui vengono composte, è significativamente quella della morte. La tragedia nasce dalla consapevolezza che prende piede nell’animo delle protagoniste dell’inconciliabilità tra il desiderio e l’amore che le animano, e la vita che invece le imprigiona. Di fronte a questa terribile evidenza esse cercano una liberazione tragica nella morte: il desiderio di maternità della sterile Yerma diventa una inappagabile ossessione, simbolo del disumano rapporto che ha col marito, dominato dall’egoismo sessuale dell’uomo, e la divorerà fino a spingerla all’omicidio, contemporanea uccisione del marito e del proprio sogno; Donna Rosita, vittima innocente dei pregiudizi di una provincia bigotta e ottusa, si lascerà sfiorire nell’attesa del ritorno del suo fidanzato, preferendo mantenere intatto l’onore piuttosto che vivere appieno la sua giovinezza. E’ però ne La casa de Bernarda Alba, considerato non a torto il capolavoro di García Lorca, che questa tematica acquista maggior forza e vigore. La fanatica e prepotente Bernarda costringe in casa le cinque figlie perché possano meglio osservare il lutto per la morte del padre. Sulle cinque protagoniste si consuma la tragedia di una clausura forzata, dominata da una follia erotica mai appagata, su cui tiranneggia la non presente ma, proprio per questo, ossessiva figura del maschio. Il loro desiderio di libertà si infrange contro una tradizione dispotica e implacabile. Opera efficacemente monocromatica, dai toni claustrofobici a vantaggio di una tensione interna sempre al limite di rottura, La casa de Bernarda Alba è il più forte attacco di Lorca a una 12

Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 89.

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Spagna matriarcale arroccata all’interno di convinzioni inumane, di spietate consuetudini d’onore e di costumi ferini duri a morire. Lorca è infine riuscito a fare del teatro un efficace strumento al servizio dei propri nobili scopi, portando sulla scena, e quindi all’attenzione del pubblico, il dolore e la verità di un popolo, denunciando la disumanità presente in alcune convenzioni sociali e facendo risuonare libera e potente una voce che parlava di libertà, di amore, di vita. In questa breve presentazione delle opere drammatiche di García Lorca, non abbiamo ancora però parlato dell’esperienza teatrale che forse più di tutte lo appassionò e a cui maggiormente dedicò la sua attenzione e le sue energie: la Barraca, teatro popolare, gratuito e ambulante.

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Capitolo Secondo LA BARRACA

Se immaginassimo l’animo umano come un terreno fertile pronto ad accogliere il germe delle passioni e delle idee, idee che una volta attecchite avrebbero avuto le potenzialità di dare frutto e quindi diventare azioni, potremmo dire che l’animo di Lorca fosse pronto ad accogliere il seme della Barraca molto tempo prima che questa vedesse effettivamente la luce. Sappiamo però che un seme, per schiudersi e germogliare, ha bisogno, oltre che di un buon terreno, anche di un clima mite e favorevole al suo sviluppo. Se la Barraca non nacque prima del 1931 è perché solo allora si vennero a creare un clima e un contesto che permisero la realizzazione di un tale sogno. Non è probabilmente un caso infatti che l’esistenza di questo moderno carro di Tespi13 si collochi in un momento storico, culturale e sociale, situato a cavallo tra due dittature.

Cenni storici Nella seconda metà del XIX secolo si assiste ad un proliferare delle rivendicazioni europee sui territori africani. Le cause di una tale spinta coloniale, che passò alla storia col nome di “corsa all’Africa”, vanno ricercate nelle esigenze di avere nuovi mercati a disposizione, per poter così efficacemente rispondere alla crisi di sovrapproduzione che colpì l’Europa tra il 1873 e il 1895. 13

Tespi è stato un leggendario poeta e drammaturgo greco. La leggenda attribuisce a lui l’invenzione della tragedia greca. Secondo alcune fonti egli si sarebbe spostato da una città all’altra dell’Attica a bordo di un carro su cui erigeva un palco.

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La partecipazione della Spagna alla “corsa all’Africa” non rivestì un’importanza particolare, ma nel 1912 il trattato di Fez, stipulato tra Francia e Spagna, le permise di ottenere il protettorato sulla parte settentrionale del Marocco. L’occupazione spagnola scatenò però il malcontento delle popolazioni dei territori interessati, causando così feroci scontri tra colonizzatori e colonizzati. Il 21-22 luglio 1921 le truppe spagnole vennero duramente sconfitte ad Anoual dai guerriglieri capeggiati da Abd el-Krīm. Il disastro ebbe in patria conseguenze gravissime sulla vita politica spagnola, scatenando un malcontento generale di cui approfittò il generale Primo de Rivera. Il 15 settembre 1923 egli salì al potere con un colpo di stato, appoggiato da esercito, latifondisti e imprenditori, e venne subito riconosciuto dal re Alfonso XIII, che lo nominò primo ministro. Il governo di Primo de Rivera manifestò ben presto il suo carattere dittatoriale, sospendendo la costituzione, istituendo la legge marziale e bandendo tutti i partiti politici. Primo de Rivera mantenne il potere fino al 1930, quando l’inflazione causata dall’eccessivo investimento nelle opere pubbliche gli procurò l’antipatia della popolazione. Egli, nel gennaio dello stesso anno, fu così costretto a ritirarsi. Il vento che avvolge la Spagna dopo la caduta di Primo de Rivera ha la forza di spazzare via la nube tossica della dittatura e insieme di portare un’aria carica di cambiamenti: la monarchia sta attraversando un periodo di forte discredito per l’appoggio dato al dittatore e i repubblicani sono intenzionati a sfruttare il momento a loro propizio; Berenguer e Aznar, successori di De Rivera, promettono di convocare libere elezioni. Il 12 aprile 1931 il popolo spagnolo si reca così alle urne e sancisce un risultato storico, optando per la Repubblica a danno della monarchia; ad Alfonso XIII non rimane che sospendere la potestà reale ed abbandonare il paese. Due giorni dopo viene ufficialmente proclamata la Repubblica tra i festeggiamenti e l’allegria della popolazione.

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Si formò un governo provvisorio a cui parteciparono i rappresentanti delle varie fazioni politiche e vennero indette nuove elezioni della Corte Costituente per il 28 giugno. La sinistra spagnola ne uscì trionfante. A dicembre, dopo tre mesi di intenso dibattito che vide i settori dei cattolici più conservatori e la destra centralista dare battaglia allo schieramento della sinistra, venne approvata la nuova costituzione, di carattere spiccatamente progressista e democratico. Priorità dei repubblicani fu quella di dare avvio ai cambiamenti di cui la nazione, risorta dalle ceneri della dittatura, aveva bisogno, volti all’ammodernamento dell’intero paese, quali la riforma agraria, dell’esercito, l’avvio delle trattative tra baschi e catalani. Uno degli obiettivi fu anche quello di fornire cultura al popolo, al cui interno serpeggiava ancora un forte analfabetismo. Per questo furono create nuove scuole, fu aumentato il salario dei professori e fu dato il via a missioni pedagogiche aventi come obiettivo l’accesso facilitato per la popolazione rurale a teatro, cinema, arte e in generale alla vita culturale. Tra queste iniziative c’è quella della Barraca; per ora basti notare marginalmente il contesto in cui essa è inserita, torneremo in seguito ad analizzare questo aspetto. La Repubblica in ogni caso non ebbe vita facile, dal momento che il clima di scontro con le forze della destra caratterizzò più o meno intensamente tutti i cinque anni in cui questa restò in vigore. Il periodo di più forte tensione si distende però lungo gli ultimi tre anni, ed ha inizio il 17 luglio 1936, quando forze conservatrici e nazionaliste si sollevarono contro il nuovo governo del Fronte Popolare. Le frange rivoltose comprendevano la maggioranza dei cattolici praticanti, del clero, dei latifondisti e dell’alta borghesia imprenditoriale e capitalista, più alcuni elementi dell’esercito. Le file repubblicane erano invece composte dalle masse operaie, dalle classi contadine e da parte del ceto medio. Non passa molto tempo prima che il generale Francisco Franco si imponga sugli altri leader della rivolta e ne imbrigli le redini: è l’inizio della guerra civile spagnola, che terminerà nel 1939 con la soppressione della Repubblica. 24


Nei primi giorni della guerra, oltre 50.000 persone vengono giustiziate o assassinate dai falangisti. Le vittime vengono scovate nei loro rifugi, portate fuori dalla città e quindi fucilate. Questo è il destino che toccherà in sorte a Federico García Lorca. Il 20 luglio 1936 le fiamme della rivolta divampano a Granada. Nell’agosto vengono uccise molte persone di sinistra: Lorca è evidentemente in pericolo. Il poeta Luis Rosales, suo amico e appartenente a una famiglia di falangisti, decide di ospitare Federico nella casa del padre, nel tentativo di proteggerlo. Ma le forze “nazionali” rispondono denunciando i Rosales e il 16 agosto si presentano nella loro casa per arrestare Lorca. Ancora oggi diversi fatti riguardanti l’arresto e l’assassinio di Lorca rimangono oscuri: non si sa chi abbia fatto scattare la denuncia, né si conosce la data esatta della fucilazione. E’ però quasi sicuro che sia stato il governatore José Valdés Guzmán, appoggiato dal generale Quieto de Llano, a dare segretamente l’ordine di procedere all’esecuzione, nonostante la promessa di liberazione fatta a Luis Rosales. Nella notte del 18 o 19 agosto, Federico viene condotto a Víznar, a nove chilometri da Granada, e all’alba viene fucilato. La sua morte provoca lo sdegno del mondo intellettuale. Il ricordo di Federico García Lorca rimane impresso nella mente di tutta la popolazione e nel 1975, alla morte di Franco, la sua figura riesce ad occupare quel posto che gli spettava nel panorama della cultura internazionale, a fianco dei grandi protagonisti della letteratura mondiale.

Il teatro degli umili Facciamo ora un passo indietro. Il panorama storico che si è qui sommariamente delineato ci serve come punto di partenza per poter sviluppare una considerazione a cui si è per altro già accennato: la natura della Barraca si è 25


dimostrata incompatibile con i regimi dittatoriali; lo abbiamo detto, lo abbiamo visto. E, ripetiamolo, non è probabilmente un caso che un’iniziativa di questo tipo, carica di spirito artistico e antropologico, prenda vita in un intervallo di tempo capace di spaccare in due l’oscurantismo perpetrato dai tiranni, De Rivera prima, Francisco Franco poi. Una boccata d’aria tra un’apnea e l’altra. D’altronde, se è vero, come è vero, che la Barraca fu il mezzo con cui Lorca meglio riuscì a far risuonare per il territorio andaluso la voce del suo animo, pregno di spirito fraterno e filantropico, ricercatore delle radici dell’uomo che tutti ci accomunano, vicino e attento alla condizione degli oppressi e bramoso per essi di riscatto sociale; se fu la Barraca il giusto veicolo che riuscì a incanalare questa indole e a diffondere per le strade un così “pericoloso” messaggio, non c’è poi troppo da sorprendersi se Federico dovette attendere la Repubblica per dar vita al suo carro di Tespi. Se è vero, come sostiene Arnold Hauser nella sua Storia sociale dell’arte14, che nel corso della storia l’arte è stata uno strumento sostanzialmente elitario, spesso appannaggio di una certa classe sociale e pertanto estranea al popolo e alle masse, la Barraca costituisce un’eccezione e fa risaltare, per contrasto, il carattere rivoluzionario dell’impresa di Lorca. Il teatro a cui Federico darà vita tramite la Barraca è infatti un teatro pensato non soltanto come fondamentale mezzo di istruzione popolare, ma anche, e soprattutto, come elemento intimamente appartenente alla vita stessa del popolo, che al popolo si rivolge e che ad esso deve essere riconsegnato. Dice Federico: “Si tratta di restituire al popolo della nostra cara Repubblica quel teatro che è suo”15. Egli non indugia a criticare il panorama teatrale contemporaneo, popolato da “personaggi tronfi, totalmente vuoti, nei quali si può scorgere, attraverso i panciotti, soltanto un orologio fermo, un osso posticcio o uno sterco di gatto, come se ne trovano in soffitta”16; personaggi morti, incapaci di insegnare alcunché, creati (per usare un’efficace metafora dello stesso Lorca) per la platea, non per il loggione.

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Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi, 1976. “La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 55. 16 Ibidem. 15

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Ben diverso il teatro di cui parla Federico, un teatro vivo, specchio sincero della realtà, da cui trarre insegnamenti volti alla crescita interiore e che, tramite la Barraca, raggiunge il suo apice rivolgendosi al pubblico popolare, ad un pubblico cioè vergine, non contaminato da stantii pregiudizi intellettuali, più sensibile alla vera essenza della poesia e meritevole di riscatto culturale. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Ho dato al teatro molte ore della mia vita. Ho del teatro un concetto personale e convincente. Il teatro è la poesia che esce dal libro e si fa umana. E mentre si fa, parla e grida, piange e si dispera. Il teatro esige che i personaggi che appaiono sulla scena portino un abito di poesia e che, nello stesso tempo, si vedano loro le ossa, il sangue. Devono essere così umani, così orrendamente tragici e legati alla vita e al quotidiano con una forza tale, da mostrare i loro difetti, valutare i loro dolori, cosicché affluisca alle loro labbra tutta la forza delle parole colme d’amore e d’odio. Quello che non può continuare è la sopravvivenza dei personaggi drammatici che oggi sono portati sulla scena dalla mano dei loro autori […] Oggi, in Spagna, gran parte degli autori e degli attori occupano una zona appena intermedia. Si scrive di teatro per la platea e si lasciano insoddisfatte le gradinate e il loggione. Scrivere per la platea è la cosa più triste del mondo. Il pubblico che va a vedere queste cose resta defraudato. E il pubblico vergine, il pubblico ingenuo, che è il pubblico popolare, non capisce quando gli si parla di problemi da lui disprezzati nei cortili del vicinato. In parte la colpa è degli autori. Non è che siano cattive persone, ma: “Mi ascolti, Tizio- e giù un nome d’autore- vorrei che mi facesse una commedia nella quale io sia…io. Sì, sì, voglio fare questo e quello. Voglio rinnovare un vestito primaverile. Mi piace avere ventitrè anni. Non lo dimentichi”. E così non si può fare del teatro. Così quello che si fa è cercare di far vivere una giovane donna attraverso il tempo e un ganimede a dispetto dell’arteriosclerosi17.

La finalità principale di Lorca fu quindi la diffusione di un’educazione teatrale tra i ceti contadini e operai, da sempre relegati, come ci conferma Hauser, ai margini della cultura, in una condizione di subordinazione sociale e civile. Le masse proletarie dunque, secondo Federico, si differenziano dal pubblico tradizionale della borghesia colta, che frequenta il teatro soltanto per la forma e senza amarlo realmente e che si dimostra pigro e svogliato quando si tratti di farlo riflettere su un qualche argomento morale. 17

“La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 110-111.

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Per Lorca la rinascita del teatro è strettamente legata al cambiamento del suo destinatario, che deve ora essere quel pubblico popolare spontaneamente capace di ritrovare lo spirito dionisiaco dell’arte (come avrebbe detto Nietzsche) piuttosto che farne l’autopsia e analizzarla come una cosa morta, atteggiamento dell’annoiato pubblico borghese: Ho potuto vedere ad Alicante tutto un popolo levarsi in piedi assistendo ad una rappresentazione del capolavoro del teatro cattolico spagnolo, La vita è sogno. Che non mi si venga a dire che non lo sentivano. Per comprenderlo sono necessari tutti i lumi della teologia. Ma per sentirlo, il teatro è la stessa cosa sia per la signora intellettuale che per la domestica18.

In questa affermazione è racchiusa tutta la poetica di Lorca: il teatro, la poesia, l’arte prendono vita in quella zona dell’umano che sta fuori dalla razionalità e dall’intelletto e appartiene tutta alla sfera emotiva, in cui risiede il sangue primigenio che tutti ci accomuna e che ci fa uomini. Condividendo la stessa natura, nessun uomo è più degno di un altro di attingere alla mensa di Apollo e di Dioniso. E’ evidente come una tale individuazione di un proprio pubblico, visto come originale custode della verità umana del teatro, non potesse passare inosservata nemmeno nel contesto della seconda Repubblica (al cui interno d’altronde, come abbiamo visto, furono sempre presenti scontri e attriti). Proprio questo elemento, unito all’intento più strettamente politico riscontrabile nella Barraca, scatenò l’ostilità di ambienti clericali e reazionari, dando vita a tentativi di sabotaggio delle rappresentazioni: basti ricordare i disordini creati dall’Associazione degli studenti cattolici durante la rappresentazione dell’opera di Calderón de la Barca, da loro ritenuta sacrilega, nella chiesa di San Juan de Duero a Soria, o il divieto di accesso al teatro imposto alla troupe dalle stesse autorità a Vinuesa. La ragione di una tale ostilità è presto detta: Agli occhi della borghesia ottusamente conservatrice e tradizionalista, simpatizzante con le destre e avversa alla costituzione, gelosa […] del proprio isolamento di classe e del proprio 18

“El Sol”, Madrid, 15 dicembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 70.

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monopolio culturale, l’opera della Barraca rappresentava una punta avanzata, in seno al popolo, di quella pericolosa mobilitazione dei gruppi democratico-intellettuali ai quali non bastava la professione innocua del letterato. Federico poi, il “gitano”, rappresentava, con i suoi ideali di libertà e la sua istintiva simpatia per gli oppressi, con la sua ostentata indipendenza d’“irregolare”, il suo paganesimo e il suo amoralismo, una troppo stridente antitesi all’immagine biecamente “rassicurante” della Guardia Civil19.

E’ quindi senza dubbio notevole la dimensione politica che vitalizza l’impegno di Lorca. Quando Federico critica la vacuità del panorama drammatico, a entrare nel suo mirino è la stessa Spagna denunciata nelle sue opere teatrali, una Spagna soffocante, chiusa e bigotta, indebolita dallo strapotere della Chiesa, schiavizzata dalle catene di una borghesia ottusa ed individualista, capace di condannare la vita culturale di un’intera nazione attraverso la propria ipocrisia. Non bisogna d’altronde dimenticare che il periodo che vede Lorca impegnato con il suo carro di Tespi segue di poco l’esperienza americana che egli fece nel 1929, esperienza che tanto lo segnò e dalla quale nacque quell’urgenza di denuncia sociale che lo portò a protestare in nome degli emarginati, attraverso la poesia, i drammi e, infine, tramite quel teatro d’azione sociale che è la Barraca. Ecco spiegata l’esigenza di un teatro vivo, di un teatro attuale che si interroghi sulle problematiche della propria epoca e, insieme, di un teatro di massa, pensato per il popolo, capace di raggiungere il grande pubblico, frutto di una disperazione interiore a cui corrisponde, all’esterno, una forza nuova, positiva e costruttiva, indirizzata a colorare di realtà l’idea utopistica del sogno: Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro povero. Uno ha la pancia piena, l’altro riempie l’aria con i suoi sbadigli. Il ricco gli dice: “Che barca graziosa si vede sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero risponde: “Ho fame, non vedo nulla. Ho fame, molta fame”. Naturalmente. Il giorno che la fame scomparirà, avverrà nel mondo l’esplosione spirituale più grande che l’umanità conosca. Gli uomini non potranno mai immaginare la gioia che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando da socialista puro?20. 19 20

Ferruccio Masini, Federico García Lora e la Barraca, cit., pp. 70-71. “La Voz”, Madrid, 7 aprile 1936, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit. pp. 111-112.

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Capitolo terzo IL REGISTA DELLA BARRACA

La nascita della Barraca Nel 1927 Federico assiste a Barcellona ad una recita dei Compagnons de Nôtre Dame. E’ a questo episodio che risale probabilmente la prima idea di creare anche in Spagna un carro teatrale ambulante, che avesse come scopo quello di peregrinare per campagne e città a presentare al proletariato analfabeta i capolavori del teatro classico spagnolo. Lorca concepì un tale progetto come una missione da compiere negli interessi del popolo. “Nobile avventura andare per le strade, immergersi nelle province più lontane come gli antichi comicos de la lengua21, come gli attori del tempo di Juan de Encina…”22. Passano quattro anni, si arriva al 1931, nasce la Repubblica: la Barraca può germogliare. Dovrebbe essere una caratteristica intrinseca all’essenza di ogni repubblica quella di voler incrementare l’attività culturale del proprio paese per permettere così un’elevazione intellettuale della maggior parte possibile della popolazione. Questo aspetto era ben presente ai protagonisti della vita politica della Seconda Repubblica spagnola. Abbiamo infatti detto che uno dei principali obiettivi dei repubblicani fu quello di fornire cultura al popolo, intesa come strumento in grado di condurre la Spagna fuori da quella condizione di miseria e abbrutimento in cui la dittatura di Primo de Rivera l’aveva costretta. Gli intellettuali di questo periodo (che non a caso

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Si tratta di compagnie ambulanti del teatro spagnolo quattrocentesco, affiancabili ai nostri comici dell’arte. “La Vanguardia”, Barcellona, 1 dicembre 1932, in Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, cit., p. 17. 22

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viene definito “secondo rinascimento” dalla critica successiva) guardano proprio al teatro come a un mezzo fondamentale di diffusione della cultura a livello popolare. Se ora, in aggiunta a questi presupposti, ci si ricorda di quale esigenza di libertà si levi dalla poesia, dai drammi popolari, dall’attività culturale di Lorca, si può facilmente immaginare quale ruolo da protagonista possa aver avuto Federico all’interno di un tale programma politico, e come il progetto della Barraca fosse concordante con gli obiettivi di politica culturale della Repubblica. Per la verità, l’esigenza di un teatro universitario era sentita da molti studenti e poeti (Vicente Aleijandre, Manuel Altolaguirre, Luis Cernuda e, ovviamente, lo stesso Lorca) a cui si unirono due professori universitari (Pedro Salinas e Amèrico Castro). Una volta data forma all’idea, studenti professori e poeti si riuniscono a creare un “Comitato in favore del teatro della Barraca”, così battezzato da Lorca. Nell’ottobre del 1931 vengono così presentati al congresso dell’ U.F.E.H. 23 (che poteva fornire una sovvenzione statale) sedici articoli, per poter brevemente descrivere quelle che sarebbero dovute essere le caratteristiche essenziali della Barraca. Eccone, sintetizzati, alcuni: - articolo 2: gli obiettivi della Barraca sono di carattere educativo e popolare; - articolo 3: la Barraca si propone di essere un teatro rivoluzionario, intenzionato a reagire contro quei registi attardatisi all’interno delle modalità nelle quali verteva allora il teatro spagnolo; - articolo 6: la Barraca si compone di un teatro fisso a Madrid e di uno ambulante per poter accedere alle differenti regioni della Spagna; - articolo 7: il teatro deve essere sostenuto da una “società degli amici della Barraca”. E’ necessaria anche una rivista che divulghi le attività della Barraca e l’istituzione di una biblioteca che tratti dei problemi generali del teatro e che funga inoltre da archivio foto-cinematografico; - articolo 14: nel repertorio della Barraca figureranno creazioni riservate agli amici della Barraca, rappresentazioni a prezzo ridotto per gli studenti, 23

Unión Federal de Estudiantes Hispanos.

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rappresentazioni gratuite per il popolo e, infine, rappresentazioni pubbliche a prezzi ordinari; - articolo 15: la Barraca si impegna a dare alla luce creazioni mensili; - articolo 16: il cartellone comprenderà i classici spagnoli fino a quelli romantici e le opere moderne spagnole e straniere rifiutate dalle imprese commerciali teatrali. Il progetto del Comitato fu accolto favorevolmente, dal momento che la Barraca ben si allineava alle missioni pedagogiche istituite dall’allora ministro dell’Educazione Nazionale Marcelino Domingo, le quali pure daranno vita ad un altro gruppo teatrale, divergente negli intenti educativi-divulgativi dalla compagnia di Lorca, nei confronti della quale mantenne sempre un atteggiamento di sdegnosa indifferenza. Tuttavia i punti proposti dal Comitato subirono delle trasformazioni: gli articoli da sedici divennero otto (indicati con le lettere dell’alfabeto dalla A alla H) e vennero apportati dei cambiamenti. Ecco alcune modifiche: E- si dovrà formare un teatro di marionette indirizzato ai bambini, specialmente a quelli delle scuole pubbliche; F- la Barraca ha intenzione di propagare la musica popolare spagnola; H- al fine di estendere la comprensione delle varie rappresentazioni, queste verranno precedute da letture, conferenze ecc… Una volta stabilite e approvate le modalità in cui la Barraca avrebbe dato vita al suo teatro, il Comitato decise di nominare García Lorca direttore ed organizzatore di questo carro di Tespi. Egli rivestirà in realtà molteplici ruoli, non trascurando quello di regista e di attore e sarà, inoltre, un presentatore incomparabile: prima di ogni rappresentazione Federico sale sul palco e spiega quello a cui si assisterà; con tono cordiale stabilisce tra attori e pubblico quella comunione che prepara all’illusione drammatica. Egli, infine, tra uno spettacolo e l’altro, catalizza l’attenzione del pubblico liberando il suo genio musicale, improvvisando al piano arrangiamenti di arie popolari.

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Ferdinando de los Rìos, successore di Domingo e grande amico e ammiratore di Lorca, stabilì per la Barraca la cospicua sovvenzione di 300.000 pesetas, per poter provvedere a vitto, alloggio e trasporto della compagnia. L’instabilità politica del governo nel corso del biennio successivo fece però calare la somma, che dapprima passò a 100.000 e infine a 50.000 pesetas. L’importanza di un tale finanziamento risulta evidente se si pensa che le rappresentazioni della Barraca dovevano essere per la maggior parte gratuite (aspetto non trattabile questo per Lorca, dal momento che la Barraca si poneva come incarnazione di un teatro libero il cui miglior interlocutore era rappresentato dal popolo più umile); nemmeno gli attori, scelti tra gli studenti universitari, ricevevano alcuna retribuzione economica. Gli studenti venivano informati del possibile ingaggio da un avviso esposto nella Università Centrale di Madrid. Le prove di ammissione comprendevano la lettura di un brano in prosa, la dizione a memoria di un testo poetico e quindi un saggio di recitazione. Ognuno doveva infine interpretare tutti i personaggi di una determinata pieza. Gli attori scelti venivano così catalogati, per rispondere a un’esigenza di praticità, a seconda dei ruoli che meglio riuscivano ad interpretare; venivano usate indicazioni come “galante”, “seduttore”, “donna pericolosa”, “infelice”, “traditore” ecc. Le parti venivano inoltre assegnate cercando di mantenere all’interno della compagnia un certo equilibrio e una sobria omogeneità, in modo da evitare ogni forma di protagonismo. Dice Federico in merito: Qui non esistono né primi né secondi attori; non si ammettono i divi. Formiamo una specie di falanstero nel quale tutti siamo uguali e ciascuno lavora spalla a spalla, secondo le sue attitudini. Se uno fa il protagonista, un altro si incarica di distribuire le scene, un altro si trasforma in tecnico delle luci e quello che sembra non abbia nulla da fare sta senz’altro espletando egregiamente la sua mansione di camionista24.

A conferma di questa impronta democratica ed ugualitaria, i “Barracos”, così venivano chiamati i componenti della troupe, indossavano una divisa blu scura, da 24

“La Vanguardia”, Barcellona, 1 dicembre 1932, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 57.

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operai, identica per tutti, con un distintivo su cui era raffigurata una maschera nera e bianca sullo sfondo della ruota di un carro. La compagnia attraversava i territori urbani e agresti spagnoli spostandosi a bordo di un camion messo a disposizione del poeta dalla Direción General de Seguridad,

sul quale veniva caricato il materiale scenico necessario: un palco

smontabile d’otto metri per cinque realizzato dagli studenti d’architettura, un sipario nero ad arco che fungeva da fondale, alcuni sipari neri, due siparietti laterali per le entrate e le uscite degli attori, costumi, riflettori, dischi e fonografo. La scenografia della Barraca venne affidata a José Caballero, studente di ingegneria, ma scenografi furono anche lo stesso Lorca e Manuel Angeles Ortíz. Condirettore fu Eduardo Ugarte, uno dei più importanti collaboratori e consiglieri di Federico: “Ugarte è il mio controllore. Io creo; lui osserva ogni cosa e mi dice se va bene o male, e io seguo il suo consiglio perché so che è sempre giusto”25.

Il Secolo d’Oro del teatro spagnolo Le rappresentazioni della Barraca costellarono il territorio spagnolo in modo omogeneo, andando a toccare città e villaggi, grandi centri e borghi, da La Coruña a Malaga, da Salamanca a Barcellona, passando per Madrid e Toledo. Intenzionato a parlare il linguaggio della tradizione, capace di abbattere ogni barriera sociale in nome dell’appartenenza ad un’unica nazione, Lorca indirizzò la propria scelta di repertorio al grande e condiviso patrimonio teatrale del Siglo de Oro. Oltre all’indiscusso valore artistico e morale, questo teatro possiede più specifiche caratteristiche atte ad attirare l’interesse di Lorca. Innanzi tutto è da notare come proprio nel corso del Cinquecento si faccia strada un nuovo tipo di drammaturgia. Se fino agli inizi del XVI secolo, infatti, le rappresentazioni teatrali erano rivolte a un pubblico determinato a priori e delimitato, fosse quello delle corti 25

“La Naciòn”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 116.

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nobiliari o di circoli intellettuali o di collegi gesuitici, a partire dai primi anni del Cinquecento si assiste alla creazione di nuovi spazi teatrali atti ad accogliere un pubblico non solo più numeroso, ma anche più socialmente variegato. Il teatro esce dai palazzi nobiliari e si diffonde tra gli strati popolari, come spettacolo sia religioso che profano. E proprio in campo religioso si hanno le più importanti rappresentazioni popolari, ovvero gli autos sacramentales, celebrazioni teatrali messe in scena per le strade delle città in occasione del Corpus Domini. La tradizione dell’auto raggiunge il suo apice con Calderón de la Barca, a cui veniva affidato annualmente il compito di organizzare questi spettacoli. Dall’analisi di tali opere si può intuire come l’allegoria e il simbolo fossero i capisaldi del discorso calderoniano, e di come il drammaturgo se ne servisse rimanendo comunque fedele all’intento didattico che egli aveva nei confronti del popolo. Oltre ai testi teatrali ci sono pervenute le descrizioni delle scenografie, dei carri allegorici e degli archi trionfali che venivano installati in queste occasioni. Anche in ambito laico, tuttavia, si verifica l’apertura dello spettacolo al grande pubblico, si moltiplicano e si differenziano i luoghi teatrali, tra i quali un ruolo rilevante assume il corral. Per corral si intende un cortile di forma più o meno rettangolare delimitato da più edifici: uno spazio a cielo aperto, quindi, con il palco situato a una estremità, di fronte al quale si affollava il pubblico, in piedi; questa zona del teatro è conosciuta come patio, mentre sui due lati vi erano altri spazi per il pubblico, separati dal patio, posti ad altezze diverse e dotati di gradinate […] Certi cortili erano parzialmente coperti da una tenda, che fungeva da schermo ai raggi solari e permetteva una migliore visibilità del palcoscenico e quanto su di esso accadeva; quest’ultimo era invece dotato di un tetto. La facciata della casa che delimitava il fondale del palco aveva un lungo balcone che si trovava sempre all’ombra, riparato dal tetto; anche sotto di esso c’era una zona più ombreggiata, utile per le scene notturne. Ciò è molto importante, visto che le rappresentazioni erano rigorosamente pomeridiane […] Sulla parete della casa che costituiva il fondale del palcoscenico si aprivano varie finestre e balconi, a formare una facciata utilizzabile nelle commedie che richiedessero una diversità di livelli26. 26

Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Vol. I, Torino, Einaudi, 2000, pp. 703-704.

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Sebbene all’interno dei corrales il prezzo delle rappresentazioni variasse a seconda del posto scelto dal pubblico, dando quindi alle possibilità economiche personali un ruolo rilevante, in queste strutture potevano tuttavia trovare posto spettatori appartenenti a diverse classi sociali, a differenza di quanto avveniva nell’ultimo decennio del XV secolo, quando gli spettacoli teatrali venivano effettuati esclusivamente a corte, facendo di duchi e marchesi gli unici possibili destinatari. I contesti sociali e culturali della Spagna del Siglo de Oro e di quelli degli anni trenta del Novecento sono naturalmente tra loro diversissimi: resta il fatto che mai vi è, storicamente, periodo teatrale più adatto del primo a rintracciare nella storia spagnola una necessità ampiamente sociale del teatro e una sua diffusione anche tra ceti meno abbienti e non culturalmente elevati. Tuttavia al di là di questa considerazione generale, è importante esaminare le effettive scelte di repertorio effettuate da Lorca in un così ricco giacimento drammaturgico. Vediamo dunque quali sono i drammaturghi presenti nel cartellone della Barraca: il nome di Cervantes appare in tredici tournées, quello di Calderón de la Barca in cinque, quello di Lope de Vega in otto; figurano poi in due tournées Machado, Juan del Encina e Lope de Rueda, in tre Tirso de Molina e in una lo stesso Lorca (è questa l’unica volta in cui viene rappresentata un’opera di Federico, e non si tratta per di più una delle maggiori, ma di un guigñol: El retablillo de don Cristóbal). I nomi che compaiono con maggior frequenza sono quelli dei tre poeti più grandi: Cervantes, Calderón e Lope de Vega. Le opere di Cervantes rappresentate dai Barracos sono degli intermezzi, ovvero dei brevi pezzi comici che “si soleva intercalare tra il primo e il secondo atto di una commedia […] I personaggi dell’entremés sono spesso ricavati dalla realtà vicina allo spettatore; il gergo quotidiano o dialettale, l’invettiva, gli usi e costumi popolari”27.

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Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, cit., p. 700.

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Esclusi questi brevi intermezzi, i drammi veri e propri a cui la compagnia dedica più attenzione sono Fuenteovejuna di Lope de Vega e La vida es sueño di Calderón de la Barca. Oltre ad essere due tra le più importanti opere drammatiche del teatro spagnolo, e non solo, sono anche incarnazione e portavoce di ideali e messaggi consoni alla visione lorchiana.

Fuenteovejuna Lope de Vega fu autore poliedrico, estremamente versatile ed incredibilmente fecondo, la cui arte si impose sulla scena teatrale spagnola del XVII secolo, tanto da dotarla di nuove caratteristiche e da differenziarla dalla commedia precedente. Tra i numerosi elementi distintivi rintracciabili nell’opera di Lope è interessante sottolineare, ai fini del rapporto con Lorca, la sua capacità di miscelare elementi colti e popolari, ricercati e tradizionali; proprio questo aspetto contribuì in larga misura a fare del suo teatro un vero fenomeno di massa, in grado di celebrare “alcuni semplici valori collettivi condivisi da tutti e nei quali tutti si riconoscono, dai nobili fino agli elementi più umili della società”28. Ne è testimonianza uno dei suoi capolavori, la tragicommedia Fuenteovejuna. Quest’opera prende spunto da un episodio storico avvenuto nel 1476, che rimanda all’eterna lotta condotta dal popolo contro i soprusi e le angherie dei potenti: Essendo le cose di quest’Ordine [di Calatrava] nello stato ora detto, don Fernán Gómez di Guzmán, Commendatore Maggiore di Calatrava, che aveva la sua dimora a Fuenteovejuna, borgo appartenente alla sua Commenda, commise tante e sì gravi angherie contro gli abitanti del paese che costoro, non potendo più oltre sopportarle né dissimularle, decisero, tutti d’accordo e con un sol volere, di sollevarsi contro di lui e d’ammazzarlo […] Si radunarono in una notte del mese d’aprile dell’anno 1476 i Podestà, i Reggitori, i Magistrati e il Consiglio, insieme con tutti gli altri 28

Daniela Capra, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, cit., p. 717.

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borghigiani, e a mano armata penetrarono di viva forza nel palazzo della Commenda Maggiore, dove dimorava il suddetto Commendatore […] E così, mossi da un maledetto e rabbioso furore, si fecero addosso al Commendatore e lo percossero e gli assestarono tanti colpi da farlo cadere al suolo privo di sensi […] Dalla corte venne inviato a Fuenteovejuna un Giudice Inquisitore con il mandato da parte dei sovrani cattolici, di appurare la verità dei fatti e castigar poi i colpevoli. Ma per quanto egli mettesse alla tortura molti di coloro che avevano partecipato all’uccisione del Commendatore Maggiore, mai nessuno volle confessare chi fossero stati i caporioni o i sobillatori del delitto, né pronunciarono mai i nomi di coloro che vi avevano preso parte. Il Giudice domandava: “Chi ha ammazzato il Commendatore Maggiore?”; e quelli rispondevano: “Fuenteovejuna!” Tornava a chiedere: “E chi è Fuenteovejuna?”; e quelli: “Tutti gli abitanti di questo borgo” […] Così il Giudice Inquisitore dovette tornare presso i sovrani cattolici per riferire sull’accaduto, per sentire che cosa volevano si facesse; e le loro Altezze, essendo intanto informate della tirannia esercitata dal Commendatore Maggiore, che era stata la vera causa della sua morte, ordinarono che non si facessero più altre indagini intorno al fatto29.

Il frammento appena citato costituisce probabilmente la fonte da cui Lope de Vega trasse il suo dramma. Se Manzoni avesse letto Fuenteovejuna vi avrebbe trovato un buon esempio di quella che egli chiamava “verità storica”: Lope de Vega non aggiunge alla trama del suo capolavoro nessun elemento che non fosse già narrato nei documenti storici, e i personaggi che egli inventa sono dotati di grande veridicità e attendibilità, tanto che avrebbero benissimo potuto trovare un ruolo reale all’interno dell’episodio storicamente avvenuto. La struttura del dramma riesce inoltre da una parte a dare il giusto ritmo teatrale alla vicenda, dall’altra a rispettare l’importanza storica dell’evento: il fatto riguarda l’azione rivoltosa compiuta da un’intera popolazione oppressa dai capricci di un signorotto e, specularmente, nel testo di Lope sarebbe difficile trovare un protagonista che non si identifichi con tutto l’insieme dei borghigiani; centro dell’attenzione è la sofferenza di un’intera cittadinanza, di una comunità che, non sopportando più lo stato di sfruttamento nel quale versa, si ritrova unita e compatta e si solleva sotto la spinta di una indignazione unanime, mostrando un’alternativa all’onore e alla vendetta individuali. E’ da notare 29

Francisco de Rades y Andrada, Cronaca dei tre ordini cavallereschi di Santiago, Calatrava e Alcàntara, in Antonio Gasparetti, Prefazione a: Lope de Vega Carpio, Fuenteovejuna, Milano, Rizzoli, 1965, pp. 5-7.

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inoltre che l’intento di Lope non fu certamente quello di voler instillare nel pubblico un sentimento rivoltoso: l’azione degli abitanti di Fuenteovejuna non costituisce un rivolgimento politico contro il potere costituito, contro la monarchia (essi sostituiranno infatti il blasone del commendatore ucciso con lo stemma dei sovrani, riconoscendo nella Corona una supremazia capace di agire per il bene comune), ma rappresenta piuttosto un anelito teso alla conquista di una giustizia superiore, paritaria e democratica. Ce n’è abbastanza per fare di Fuenteovejuna una delle opere più rappresentate dalla compagnia della Barraca. Raccontare alle orecchie dei miseri una storia in cui si potessero riconoscere e che dimostrasse come anche nelle condizioni più disperate fosse stato possibile trovare uno spirito collettivo e unitario in grado di dare voce alle esigenze più nobili dell’uomo, deve aver rappresentato per Federico un momento di grande importanza, bellezza, e speranza. Tuttavia, oltre a queste motivazioni, ve n’è probabilmente anche un’altra che può aver spinto i Barracos a mettere in scena questo dramma di Lope: il 3 febbraio 1933, durante un congresso a cui non parteciparono né Lorca né gli altri membri della troupe, il comitato d’amministrazione della Barraca viene destituito. La motivazione di un tale provvedimento va ricercata nell’esigenza dell’ U.F.E.H. di dare maggior rilievo alla dimensione politica della Barraca, a scapito di quella meramente artistica adottata fino a questo momento. E’ anche quindi per venire incontro a questa volontà che si spiega la presenza di Fuenteovejuna all’interno del repertorio del teatro mobile di Federico. Va però notato che la scelta di interpretare il dramma di Lope è precedente al congresso tenutosi nel febbraio del ’33, che quindi deve aver rappresentato per la compagnia diretta da Lorca poco più che un mero momento di conferma. Lorca fa di Fuenteovejuna uno spettacolo lirico. Le canzoni indicate dal testo del Secolo d’oro sono armonizzate da Ernesto Halffter per chitarra, mandolino e liuto. Nel corso dello spettacolo si danza e si canta. Le musiche indicate nel testo di Lope vengono reinterpretate dal genio gitano e folklorico di Federico: la strofa di “Al 39


Val de Fuenteovejuna” impronta un’aria sivigliana in cui si riconosce il ritmo sincopato della musica orientale, mentre la strofa di “Sal a bailar” addotta un ritmo originario delle Asturie. Ne risulta uno spettacolo indiavolato di danza, di canto e di musica strumentale. Ecco qual è la visione di teatro classico spagnolo che Lorca propone al pubblico. Lo spettacolo messo in scena dalla Barraca fu in realtà, secondo la definizione dello stesso Lorca, “un’antologia di Fuenteovejuna”: furono infatti soppresse dieci scene, in particolare la scena finale in cui sono i sovrani a fare giustizia assolvendo la popolazione. Questa eliminazione permise a Federico di rafforzare e avvalorare il diritto del popolo e la sua forza rivendicatrice. Per la verità operazioni di questo tipo non furono del tutto infrequenti: vennero tolti anche una ventina di versi de La dama boba (Lorca mantenne il titolo originale di quest’altro dramma di Lope de Vega, che venne in seguito modificato dallo stesso autore diventando La niña boba) e le tre scene finali del Caballero de Olmedo. In ogni caso tali interventi vennero effettuati con estrema cautela, poiché “togliere equivale a concatenare”30. Secondo Federico infatti un’operazione del genere poteva risultare utile per meglio incastrare tra loro gli episodi delle varie opere e mantenere alta l’attenzione del pubblico, a patto che in questo intervento si prestasse la massima prudenza. In gioventù Lorca si divertiva a leggere i classici ai suoi amici ed ogni tanto si interrompeva per indicare un passaggio che gli sembrava troppo lungo. Al momento di mettere in scena queste stesse opere trova quindi necessario alleggerirle. Dice Lorca in merito alla rappresentazione di Fuenteovejuna: Di quest’opera non ho fornito che sessanta scene. Ho tagliato tutto il dramma politico e mi sono limitato a seguire il dramma sociale. Ma ho avvisato. Non ho detto “adesso andrete a vedere ed ascoltare Fuenteovejuna”, ma ho annunciato: “vado a presentarvi un’antologia di Fuenteovejuna”31. 30

“La Naciòn”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 67. “Mirador”, Barcellona, 19 settembre 1935, in Estelle Trepanier, García Lorca et La Barraca, in “Revue d’histoire du théatre”, aprile-giugno, 1966. pp. 175-176. 31

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Tornerò in seguito sugli aspetti riguardanti gli adattamenti e la regia compiuti da Lorca nell’ambito delle rappresentazioni della Barraca. Prima di affrontare questo argomento ci rimane infatti ancora da considerare la seconda delle due opere del repertorio della Barraca che ho scelto di analizzare: La vida es sueño.

La vida es sueño Con Calderón de la Barca il teatro del Secolo d’oro raggiunge il suo apice. Assieme a Lope de Vega è l’autore che più di chiunque altro contribuì a dare prestigio al dramma barocco spagnolo. Come tutti i grandi poeti non si limitò a rimaneggiare le tendenze culturali a lui contemporanee e già sperimentate, ma fu importante innovatore e promotore di un nuovo linguaggio teatrale. Gli elementi da lui introdotti riguardano differenti aspetti della creazione drammatica, dalla scenografia (le rappresentazioni di Calderón prevedevano un importante contributo dell’apparato scenografico) al linguaggio, impregnato di allegoria e simbolo. E forse è proprio nell’efficace fusione tra campo linguistico e tematico che risiede la grandezza di Calderón. Tramite il sapiente uso delle figure retoriche egli riesce a far rifrangere sulla superficie delle parole la profondità dei concetti espressi. Lo scontro tra opposti stati esistenziali (uno dei temi più presenti nella produzione calderoniana) viene per esempio espresso attraverso l’antitesi, l’ossimoro o il chiasmo, enfatizzando così l’immagine ed allineando su uno stesso piano contenuto e parola. Fondamentale è la metafora, la vera lingua parlata da Calderón. Le varie opere sono concatenate tra loro da un vero e proprio sistema di immagini poetiche che, ripresentandosi con sistematica frequenza, diventano portatrici di un messaggio organico da ricostruire, come le tessere di un puzzle, tra i vari drammi. Per esempio la luce simboleggia la vita o l’amore, mentre le immagini tratte dall’astronomia rimandano spesso alla maestà reale (ne La vida es sueño il re Basilio è un abile 41


astrologo: “Quei circoli di diamanti, quelle sfere di cristalli, che decorano le stelle ed illuminano gli astri, sono lo studio primario dei miei anni” 32).; il cavallo è emblema dell’orgoglio, la caduta da esso rappresenta l’avventatezza e la sfrontatezza; l’animale ibrido, il mostro chimerico sono portatori di caos e alla caoticità rimanda pure il disequilibrio che talvolta si viene a creare nel sistema alla cui costruzione concorrono, con vago sapore aristotelico, i quattro elementi naturali e attraverso il quale si manifesta la volontà divina. E’ quindi dal regno della natura che Calderón trae più frequentemente le sue immagini poetiche e metaforiche, quello stesso regno che andò a toccare il cuore del giovane Lorca e che, nelle sue mani, divenne carta e verso. Le opere di Calderón de la Barca si possono approssimativamente suddividere in due gruppi: ad una prima fase appartengono le commedie d’intreccio (La dama duende, Casa con dos puertas mala es de guardar, Dar tiempo al tiempo…) nelle quali Calderón si accosta, inevitabilmente, all’autorevole figura di Lope de Vega. E’ però al gruppo delle opere religioso-filosofiche che appartengono i drammi più importanti di Calderón, dai quali spicca maggiormente la sua personalità. E’ da questi lavori che emerge il pessimismo del poeta sulla vanità universale e sull’inquietudine della condizione umana. Da tale scetticismo prendono forma i temi calderoniani: la vita come apparenza ed illusione, il mondo come finzione e teatro, ipocrite maniere comportamentali che si ripresentano sempre uguali in personaggi sempre diversi. La volontà divina e la razionalità umana sono le uniche entità in grado di stemperare il catastrofismo di Calderón e a cui egli affida le sue speranze. Di tale stampo sono opere come La devoción de la Cruz, Los Macabeos, El Purgatorio de san Patricio, El mágico prodigioso, fino ad arrivare al capolavoro assoluto La vida es sueño. Opera di grande complessità, adattabile a diverse chiavi di lettura e dai molteplici livelli semantici, La vida es sueño rappresenta uno dei vertici massimi raggiunti dalla letteratura teatrale. Si tratta di un dramma denso di significati, prestabile a diverse interpretazioni e sempre attuale, tanto che, nel corso dei secoli, le 32

Calderón de la Barca, La vita è sogno, Milano, Garzanti, 2003, p. 47.

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diverse generazioni vi hanno letto e tratto insegnamenti di volta in volta frutto della loro propria sensibilità. In particolare il romanticismo ha dato grande rilievo ad uno dei temi principali, ovvero la visione dualistica dell’esistenza che si suddivide tra realtà ed apparenza (altro tema primario riguarda la precarietà della vita umana a cui si accompagna un malinconico cruccio esistenziale). A causa di una profezia nefasta letta nelle stelle, Basilio, re di Polonia, decide di rinchiudere il suo neonato figlio Sigismondo in una torre remota, per allontanarlo dalla corte e impedire l’avverarsi della previsione, secondo la quale “Sigismondo sarebbe stato l’uomo più arrogante, il principe più crudele e il monarca più perverso, sì da ridurre il suo regno in fazioni contrapposte, in scuola di tradimenti, e in accademia di vizi”33. Passati degli anni Basilio decide però di dare a Sigismondo una possibilità, convinto che il libero arbitrio possa vincere la predestinazione. Così, con l’aiuto di un narcotico, Sigismondo viene trasferito a corte per una prova decisiva: se egli si dimostrerà un valente sovrano potrà a buon diritto insediarsi sul suo trono, altrimenti verrà ricondotto nella torre e gli verrà fatto facilmente credere che l’esperienza avuta a corte fosse stata in realtà un sogno. Sigismondo, divenuto provvisoriamente re, si abbandona a violente intemperanze, tutte da attribuire alla sua natura, regredita allo stato selvaggio dopo tanti anni di prigionia. Tornato ad essere un recluso e credendo di essersi risvegliato da un sogno, egli è in preda al tormento per aver gettato al vento l’occasione che in sogno gli si presentava; Sigismondo ha conosciuto la vita soltanto nella dimensione onirica e, terminata in un battere di ciglia la realtà che egli riteneva a sé più congenita, arriva a convincersi della fugacità della vita. Tuttavia una rivolta popolare riporterà sul trono Sigismondo, il quale, dopo la vittoria sul re Basilio, si rimpadronisce del titolo e del regno. Ma l’esperienza fatta tra le due realtà opposte, come opposta è la vita rispetto all’illusorietà del sogno, lo ha reso saggio e maturo: egli perdona il padre e, divenuto un sapiente sovrano, restaura pace e giustizia. 33

Calderón de la Barca, La vita è sogno, cit., p. 51.

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Quella che viene narrata è la storia di un principe che per vivere la dimensione che gli è propria cerca di liberarsi dal sogno, ovvero da quella situazione di incertezza e apparenza nel quale l’uomo è immerso e che gli impedisce di elevarsi e di giungere alla completa consapevolezza del proprio essere. “Sogno” sta a significare una condizione sfuggente e precaria certo, ma anche uno stato di finzione e di menzogna, di paralisi parziale della volontà e un’angoscia dell’essere e dell’esistere («il delitto d’essere nato») che consiste nel non poter imporre agli altri il proprio essere ed esistere.34

E’ questa, in sintesi, la principale tematica che attraversa le pagine de La vida es sueño. Ci troviamo innanzi ad un’opera monumentale, polisemica e sempre rinnovabile, dotata di differenti livelli di comprensione e profondità, in grado di parlare ad ogni tipo di orecchie, ad ogni tipo di animo, custode di un messaggio che, appellandosi alla condizione di tutti gli uomini, a tutti gli uomini è destinato. Si tratta insomma di un’opera che Lorca, nel suo intento di riscattare culturalmente gli umili, avrebbe potuto difficilmente trascurare. Rappresentare questo dramma presso il popolo del XX secolo è un atto se non rivoluzionario sicuramente innovativo. Bisogna infatti precisare che La vida es sueño non nasce come auto sacramental, ma fa originariamente parte di quei drammi religiosi etico-filosofici che Calderón non destina al corral, ma al pubblico ecclesiastico e di corte. Solo successivamente, nel 1673 (circa quarant’anni dopo la sua composizione), esso viene riproposto nella nuova formula dell’auto. Soltanto ora La vida es sueño entra in qualche modo in contatto con le masse, ma sempre (come direbbe Hauser) sotto il controllo e l’egida della Chiesa e cioè di un potere istituzionale. A questo punto è necessario chiarire che Federico realizza il suo spettacolo non utilizzando il testo del dramma originario di Calderón, ma quello pensato per l’ auto sacramental: Lorca ripropone al popolo un’opera a lui destinata, sottraendola però al controllo dell’autorità. 34

Dario Puccini, Prefazione a Calderón de la Barca, La vita è sogno, cit., p. XXIII.

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Le due differenti formule (dramma e auto) dell’opera di Calderón sono tra loro del tutto diseguali. Nell’auto non è narrata la vicenda di Sigismondo e completamente assenti sono i personaggi del dramma. Quella che viene rappresentata è una scena allegorica, in cui l’uomo, guidato dalla grazia divina e dalla razionalità, riesce a vincere l’apparenza, giungendo così alla completa consapevolezza del suo essere. Si potrebbe quindi dire che Calderón esplori a fondo la stessa tematica affrontandola attraverso due differenti modalità. Federico, convinto della capacità da parte di contadini e operai di riuscire a vivere fino in fondo uno dei massimi frutti artistici prodotti dall’uomo, anche se oscurato dal linguaggio concettoso dell’allegoria, rimane fedele al testo dell’auto calderoniano, se si esclude l’elisione di una decina di versi (dal 275 al 286) e la divisione dello spettacolo, non prevista dall’autore, in tre atti. La scenografia è affidata a Benjamin Palencia e si compone di un sipario pitturato, sul quale compaiono alcune costellazioni e le quattro fasi del ciclo lunare, assieme all’albero stilizzato del bene e del male. Lo spettacolo messo in scena dalla Barraca si apre sulla lotta intrapresa dai quattro Elementi per il possesso di una corona rappresentante il potere. I volti degli attori venivano truccati di pittura argentata per l’acqua e l’aria, rosso per il fuoco, marrone e verde per la terra. Il conflitto degli Elementi viene interrotto dall’entrata in scena di Virtù, Saggezza e Amore che ristabiliscono l’ordine tra i quattro contendenti, affidando ad ognuno il proprio regno. I vari personaggi abbandonano così la scena, mentre un fuoco azzurro annuncia l’arrivo dell’ Ombra (interpretata dallo stesso Lorca) e del Principe delle tenebre, illuminato da un fuoco rosso. Le due figure iniziano ad ordire un complotto per gettare l’Uomo negli abissi. Quest’ultimo è attanagliato da angosce esistenziali, e sentendosi in una posizione di inferiorità nei confronti degli altri elementi del creato, costituirà una facile preda dei due demoni. Il primo atto si chiude così nello sconforto: l’Uomo,irretito, è sul punto di essere sconfitto dal sonno della coscienza. 45


Nel secondo atto l’Intelletto e la Luce della Grazia tentano di convincere il Libero Arbitrio ad allontanarsi dall’Ombra e dal Principe delle tenebre. Il loro giusto proposito non va però a segno e così, poco dopo, l’Uomo, istigato dal Libero Arbitrio, getta l’Intelletto da un precipizio. Si scatena così un potente terremoto e sulla scena incombe una luce verde simboleggiante la gravità del peccato commesso. Nel terzo atto Amore e Virtù decidono di perdonare l’Uomo, che si trova ora in preda allo sconforto a causa dell’atto compiuto. Egli intende così fuggire dall’Ombra. Intelletto si dirà disposto ad aiutarlo e a salvarlo dalla colpa se questi si mostrerà grato e totalmente devoto a Dio. La vicenda si avvicina così positivamente alla sua conclusione: dopo aver convinto il Libero Arbitrio a porsi al servizio dell’Uomo, Saggezza, Amore, Intelletto e Virtù sconfiggono l’Ombra e il Principe delle tenebre, consegnando così all’Uomo, debole ma valevole, la salvezza eterna. Come abbiamo detto, e come è facile notare, Calderòn compone per l’auto un testo estremamente differente da quello pensato per il dramma. Tuttavia, ad una attenta analisi, ci si può accorgere di alcune analogie. Quello che è importante osservare è come la struttura portante sia comune ad auto e dramma: quella che in entrambi i casi viene narrata è una storia pedagogica, un percorso educativo ed esistenziale che muovendo da una condizione di debolezza e di cieca bramosia, e passando per il riconoscimento e pentimento dei propri errori, giunge ad uno stato di serena accettazione ed illuminata saggezza. Alcuni episodi dell’auto sembrano poi richiamare da lontano certi passi del dramma: basti ricordare il disprezzo per il creato provato da Sigismondo e dall’Uomo all’inizio di entrambe le opere, o come i due si pentano di aver gettato il primo un servo dalla finestra e il secondo l’Intelletto da un burrone, prendendo coscienza della loro esistenza e dell’illusorietà del sogno. “Garcìa Lorca scelse l’auto di Calderòn per il suo valore poetico propizio ad una interpretazione scenica molto libera, più vicina alla pura suggestione plastica del balletto che all’emozione drammatica diretta, nella quale lo studio deve fingere la spontaneità”35. Lorca concepisce infatti questo spettacolo come un ballo in cui gli 35

Rivas Cherif Cipriano “Apuntes para el Teatro Drammatico Nacional”, “El Sol”, 22 luglio 1932, in Estelle Trepanier, García Lorca et La Barraca, in “Revue d’histoire du théatre”, aprile-giugno, 1966. p. 170.

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Elementi della natura vengono introdotti in una danza forsennata che suggerisce la loro lotta reciproca. E’ uno spettacolo essenzialmente visuale, in cui il preciso utilizzo delle luci, che si alternano a seconda dei personaggi presenti in scena, abbinando così a ciascun personaggio un preciso sentimento, contribuisce a creare una magnetica atmosfera emotiva. Lorca aggiunge anche delle impressioni auditive: gli Elementi della natura formano un coro di voci armoniose che ricorda il coro delle lavandaie in Yerma. Il momento in cui gli Elementi della natura si arrendono all’Uomo viene sottolineato da un canto melodioso e dolce. Federico realizza uno spettacolo emotivo e assolutamente coinvolgente, ipnotizzando pubblico e collaboratori. Per avere un’idea di quale potere magnetico emanasse questa realizzazione del direttore della Barraca basti pensare che: Nella piazza di un paese, poco dopo l’inizio della rappresentazione all’aperto, si mette a piovere implacabilmente, un’acquerugiola fine. Gli attori s’inzuppano sul palcoscenico, le donne del paese si tirano lo scialle sul capo, gli uomini si stringono e si fanno compatti: l’acqua viene giù, la rappresentazione continua: nessuno si è mosso36.

La regia di Federico García Lorca Dopo aver parlato delle due opere maggiormente rappresentate dalla Barraca, rimangono ora da analizzare i caratteri generali della regia di Federico. L’aspetto più rilevante nell’interpretazione lorchiana dei drammi del Siglo de Oro è la cura dedicata ai vari elementi della messa in scena. Federico si dimostra estremamente attento ed esigente per quanto riguarda musica, luci, colori, costumi, entrate in scena, posizione degli attori. In campo musicale egli persegue l’incontro del teatro classico con elementi folklorici, componendo e armonizzando svariate arie e armonie 36

J. Guillen, F.G.Lorca, Milano, 1960, p. 34, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 74-75.

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popolari, mettendo a frutto la propria passione per il folklore, le proprie conoscenze musicali e l’amicizia con de Falla. Questi studi, queste conoscenze, queste passioni gli tornano ora utili per dare voce alla sua sensibilità artistica. Federico raccoglie e armonizza più di trecento canti popolari, tutti destinati alle tournées della Barraca. All’interno di questo canzoniere compaiono seguidillas seicentesche, sivillanas cinquecentesche, varie coplas anonime e molte altre antiche arie popolari di diversa provenienza. Ecco alcuni esempi: nel Retablo de las maravillas di Cervantes, Lorca sostituisce una sevillana alla zarabanda prevista dall’autore; nel Burlador de Sevilla introduce il canto popolare “La Jerigonza” ed altre arie popolari armonizzate da Lorca compaiono ne La tierra de Jauja di Lope de Rueda; nella Egloga di Juan del Encina viene eseguito un arrangiamento del romance “Estando cosendo”; in Fuenteovejuna, infine, compaiono canti corali interamente composti da Federico, come “Las Agachadas”, e il balletto “Sal a bailar”. E’ soprattutto tramite la dimensione musicale, quindi, che Lorca colora di folklore il teatro classico: Per dieci anni ho indagato nel folklore, ma con animo di poeta e non solo di studioso. Per questo mi vanto di sapere molto e di essere capace di fare quello che in Spagna non si è ancora fatto: di mettere in scena e di far gustare questo canzoniere spagnolo così come ci sono riusciti i Russi37.

Come abbiamo però detto non è solo sulla musica che si concentra l’occhio da regista di Federico. Egli è attento ad ogni singolo aspetto della messa in scena. Se si pensa che, come racconta Pablo Neruda, per la rappresentazione di Peribañez y El commendador de Ocaña Lorca bussò alle porte delle case contadine nel tentativo di ricercare vecchi indumenti secenteschi eventualmente custoditi, si può capire quale peso venisse dato ai costumi. Per fare un altro esempio, sempre in Fuenteovejuna Federico fece indossare al Commendatore un vestito di velluto a coste, a simboleggiare la rigidezza del suo comando, mentre ai personaggi del suo seguito toccò la divisa delle guardie giurate, forza armata controllata dall’autorità ma in realtà 37

Federico García Lorca, Obras completas, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 68.

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pagata dai grandi proprietari terrieri per difendere i loro possedimenti. Ecco quindi che il costume diventa un importante elemento comunicativo, in grado di fornire maggiore impatto e spessore ai personaggi. La scrupolosa accuratezza nella messa in scena da parte di Federico bada insomma ad ogni cosa, non ultima, e anzi forse prima di tutto, la resa attoriale: il poeta dà precise indicazioni sul tono di voce, cura le entrate in scena, i movimenti, i gesti e l’espressività dei suoi attori. Lorca dunque dirige gli attori, ma senza renderli una sorta di super-marionette: il suo intento è piuttosto quello di aiutarli a conferire al personaggio profondità e spessore. Da questo punto di vista, egli, se confrontato con i grandi rinnovatori della messa in scena del ventesimo secolo, sarebbe in qualche modo da avvicinare a Stanislavskij. La prima preoccupazione di Federico è la dizione, e non è infatti un caso che proprio la voce rappresenti uno dei più importanti criteri di selezione degli attori. Lorca cura inoltre particolarmente il gesto, estremamente controllato e pulito, e ha una nozione precisa dei tempi che regolano lo spettacolo: Bisogna provare molto e molto meticolosamente per ottenere il ritmo che deve sostenere la rappresentazione di un’opera drammatica. Per me è questa la cosa più importante. Un attore non può indugiare un secondo di più dietro una porta […] Che l’opera cominci, si sviluppi e si concluda armonicamente secondo un ritmo appropriato è una delle cose più difficili da ottenere in teatro38.

Ecco dunque il principale obiettivo di un tanto minuzioso zelo da parte del direttore della Barraca: il ritmo drammatico, quel delicato equilibrio statico-dinamico che è indice della buona o cattiva fusione tra tutti gli elementi dello spettacolo. D’altronde la precisa attenzione al fattore scenico di Lorca è riscontrabile anche nelle didascalie dei suoi drammi, in cui vengono date indicazioni che, non disdegnando a volte la sinestesia (compaiono persino descrizioni degli odori che dovrebbero essere presenti in scena), tendono a creare davanti agli occhi dello spettatore dei piccoli quadretti. Il poeta fornisce in realtà descrizioni tanto ricercate e precise, da divenire talvolta difficilmente realizzabili sul palco: non è infrequente nel 38

“El Sol”, Madrid, 15 dicembre 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., p. 75.

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teatro di Lorca trovare salotti dai “toni in grigio, bianco e avorio, come in una litografia antica”39; biblioteche in cui d’improvviso “la luce diminuisce e una luminosità azzurrina di temporale invade la scena” 40; bianche stanze immaginate in modo da riuscire a rendere “un’impressione monumentale di chiesa” 41; strade popolate da maschere che “esprimono un puro sentimento di terra”42; cipressi che al suono di una tromba “cominciano a tingersi di una luce dorata” 43, fino ad arrivare a scene in cui sono presenti “pause impercettibili e improvvisi silenzi pieni, durante i quali lottano disperatamente le anime dei due personaggi”44. Lorca estende questa scrupolosa attenzione e precisione ad ogni aspetto della sua scrittura drammatica, non trascurando la dimensione fantastica. Egli è infatti zelante nel presentare non solo quegli elementi che è necessario che imitino alla perfezione la realtà (si pensi a La casa de Bernarda Alba), ma anche quegli ingredienti che concorrono a creare attorno allo spettatore atmosfere oniriche e poetiche, la cui presenza è tanto forte nella produzione artistica di Federico. L’oculatezza scenica di Lorca risponde quindi ora al richiamo della veridicità, ora a quello del sogno, a seconda dell’esigenza del poeta. Tale “doppio registro” (realistico/fantastico) è confermato dal Lorca regista. Sotto la sua direzione nascevano rappresentazioni sì estremamente precise, ma non necessariamente realistiche. Accanto a movenze attoriali molto controllate comparivano scenografie spesso esagerate e quasi grottesche, in cui, per esempio, “un piatto ed un coltello divenivano oggetti iperbolici dipinti e ritagliati, in modo da potersi attaccare ad una tavola ugualmente dipinta in senso verticale o dal profilo smisurato”45. Atmosfere da sogno venivano create anche grazie al sapiente uso delle luci, si pensi all’utilizzo che ne viene fatto nella rappresentazione de La vida es sueño o alla scena finale di Fuenteovejuna, in cui accanto al Commendatore moribondo

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Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 70. Federico García Lorca, Así que pasen cinco años, in Id., Teatro, cit., p. 240. 41 Federico García Lorca, Bodas de sangre, in Id., Teatro, cit., p. 352. 42 Federico García Lorca, Yerma, in Id., Teatro, cit., p. 399. 43 Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 110. 44 Federico García Lorca, Mariana Pineda, in Id., Teatro, cit., p. 91. 45 Ubaldo Bardi, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, cit., p. 24. 40

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viene posta una luce rossa, simboleggiante il dramma della morte del personaggio, sconfitto dalla giustizia e dall’integrità. Gli spettacoli messi in scena dai Barracos sono un buon esempio di unione tra realismo e stilizzazione, tra favola e autenticità; l’obiettivo è quello non di compiacere la borghesia farisea e vogliosa di vedere a teatro la propria quotidianità decantata ed elogiata, ma di donare al pubblico popolare una favola morale e pedagogica, che non disdegni di ricorrere al sogno per andare meglio a toccare le corde più intimamente umane dell’animo. García Lorca mira a ricreare un’immagine viva del teatro del Secolo d’oro, non per forza realistica, strettamente legata ai canoni della quotidiana veridicità, ma esuberante ed essenziale; non generatrice di fredde considerazioni intellettualistiche, ma di un’ esperienza viva e intensa, capace di far sussultare gli animi, rivolgendosi non alla mente ma al cuore. Nell’animo del poeta della Barraca si agita il duende. Nella conferenza Gioco e teoria del duende, tenutasi a Buenos Aires il 20 ottobre 1933, Federico García Lorca suscitò l’entusiasmo del pubblico in sala tenendo una breve lezione “sullo spirito nascosto della dolente Spagna”46, su quel demone dell’arte che fu chiamato da Lorca duende, da Nietzsche spirito dionisiaco e da Socrate δαίµων. Il duende è un potere misterioso, nascosto e dormiente nell’animo umano, risvegliabile solo a patto di rinunciare ad ogni regola o forma, lasciandosi totalmente trasportare dall’impeto e dalla frenesia che colgono l’artista nel momento di più irrequieta estasi. Per usare le parole di Lorca: Tutto quel che ha suoni neri ha duende […] Questi suoni neri sono il mistero, sono le radici che sprofondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da cui ci giunge quanto è sostanziale nell’arte […] Ebbene il duende è un lottare e non un pensare […] non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto […] è, in definitiva, lo spirito della Terra […] Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta 46

Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, Milano, Adelphi, 2007, p. 11.

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la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile […] Una volta la cantaora andalusa Pastora Pavón, la Niña de los Peines, cupo genio ispanico […] cantava in una tavernetta di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio […] Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori rimanevano zitti […] Allora la Niña de los Peines si alzò come una pazza, affranta alla maniera di una prefica medievale, e si bevve d’un sorso un gran bicchiere di cazalla infuocato, e si sedette a cantare, senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a liquidare tutta l’impalcatura della canzone, per cedere il passo a un duende furioso e travolgente, amico dei venti carichi di sabbia, che faceva sì che gli ascoltatori si strappassero i vestiti […] Dovette depauperarsi di capacità e di certezze; cioè dovette scacciare la sua musa e rimanere inerme, perché il suo duende venisse e si degnasse di lottare fino allo stremo delle forze. E come cantò! La sua voce non giocava più, la sua voce era un fiotto di sangue47.

Duende: si tratta di un fluido inafferrabile, di un’entità dotata di natura demoniaca e tellurica: demoniaca perché sfida l’intelletto e contempla l’impossibile, scavalcando i limiti della ragione; tellurica poiché il suo regno è il regno della forza terrena della natura, del corporeo, dell’umano. Il duende è totalmente avviluppato alla vita, e della vita si nutre a tal punto che, nella lotta che intraprende con l’uomo, esso impugna lo spettro della morte: Il duende non arriva se non vede una possibilità di morte, se non sa di dover girare intorno alla sua casa, se non ha la certezza di dover cullare quei rami che tutti portiamo, che non hanno, che non avranno consolazione […] Il duende ferisce, e nella cura di questa ferita che non si rimargina mai risiede l’insolito […] Il duende si incarica di far soffrire, per mezzo del dramma delle forme vive, e prepara le scale per una evasione dalla realtà che ci circonda48.

Ecco che cosa sconquassa l’animo di Yerma, di Adele, di Martirio e delle altre protagoniste dei drammi di Federico, e che fa insorgere in loro il furore per un’idealità disattesa, imprigionata e condannata. Ed è questo spirito che, a mio parere, si può indovinare osservando tra le maglie degli spettacoli della Barraca. Lorca, l’abbiamo detto, realizza rappresentazioni dal forte carattere emotivo, che si 47 48

Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, cit., pp. 12-13, 16-19. Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende, cit., pp. 25-27.

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appellano al sangue e al mito, portatrici di una potente funzione comunicativa in grado di instaurare un’intensa empatia tra artefice artistico e comunità umana. La Barraca costituisce un’esperienza a cui Federico si dedica totalmente ed intensamente, con una fede ed un trasporto simili a quelli che colgono l’artista nel momento d’ispirata lotta col duende: La Barraca, per me, è tutta la mia opera, l’opera che mi interessa e mi esalta, ancor più della mia produzione letteraria, e per essa ho molte volte tralasciato di scrivere un verso o di concludere una commedia, come Yerma, che avrei già ultimato se non mi fossi interrotto per lanciarmi attraverso le terre di Spagna in queste stupende escursioni del “mio teatro” […] La Barraca è un’impresa ammirevole, quasi unica. E’ un teatro universitario, e quantunque ve ne siano altri nelle università di Oxford e Cambridge, di Columbia e di Yale […] dico quasi unico, non solo per la qualità degli spettacoli che offre, ma anche per il fervore, la disciplina, l’entusiasmo, la coesione, il soffio d’arte che anima tutti i suoi componenti […] E’ curioso constatare l’intimo piacere, l’attenzione rapita con le quali i contadini, capaci di battere colui che abbia fatto loro perdere una battuta con il più piccolo rumore, seguono nei villaggi, apparentemente più arretrati di Spagna, le nostre rappresentazioni, che sono l’immagine reale, la versione più fedele del nostro teatro classico49.

Non c’è poi troppo da stupirsi se la Barraca assume agli occhi di Lorca un’importanza tale da poter persino “oscurare” la sua produzione letteraria: Federico dedicò gli ultimi intensi anni di vita ad un’esperienza che fu più di un teatro girovago e popolare. La Barraca rappresenta un modo di vivere l’arte, di intendere la poesia e l’incontro tra uomini. Nel breve intervallo di tempo che intercorre tra l’apertura del sipario e l’inchino degli artisti, pubblico e attori vivono la magia di un intenso momento di comunione e di condivisione, concentrato e racchiuso nello spazio di un attimo, di un istante carico dell’essenza del particolare che, aspirando al cuore di tutti gli uomini, tende al mondo e all’universale.

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“La Nación”, Buenos Aires, 28 gennaio 1934, in Ferruccio Masini, Federico García Lorca e la Barraca, cit., pp. 116117.

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Bibliografia

- BARDI, Ubaldo, Federico García Lorca musicista, scenografo e direttore della Barraca, Firenze, Tipografia Nazionale di Firenze, 1978. - CALDERÓN DE LA BARCA, Pedro, La vita è sogno, Milano, Garzanti, 2003. - CAPRA, Daniela, I Secoli d’Oro del teatro spagnolo, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Vol. I, La nascita del teatro moderno. Cinquecento-Seicento, pp. 669-803, Torino, Einaudi, 2000. - DE LA CALZADA, Luis Sáenz, La Barraca teatro universitario seguido de Federico García Lorca y sus canciones para la Barraca, Madrid, Publicaciones de la Residencia de Estudiantes, 1998. - DE VEGA CARPIO, Felix Lope, Fuenteovejuna, Milano, Rizzoli, 1965. - FELICI, Glauco, Lirismo e rivolta nella scena spagnola, in ALONGE, Roberto, DAVICO BONINO, Guido, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Vol. III, Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, pp. 737-756, Torino, Einaudi, 2000. - GARCÍA LORCA, Federico, Epistolario, Milano, Archinto, 1996. - GARCÍA LORCA, Federico, Gioco e teoria del duende, Milano, Adelphi, 2007. -

GARCÍA LORCA, Federico, La casa di Bernarda Alba, Torino, Einaudi, 1976.

- GARCÍA LORCA, Federico, Lamento per Ignazio Sánchez Mejías, Parma, Guanda, 1969. - GARCÍA LORCA, Federico, Poesie, Roma, Newton, 2007. - GARCÍA LORCA, Federico, Poesie (Libro de poemas), Roma, Newton, 1971. - GARCÍA LORCA, Federico, Teatro, Torino, Einaudi, 1994. 54


- GIBSON, Ian, García Lorca. Breve vita di un genio, Torino, Einaudi, 2002. - HAUSER, Arnold, Storia sociale dell’arte, Torino, Einaudi, 1976. - MASINI, Ferruccio, Federico García Lorca e la Barraca, Rocca San Casciano, Cappelli, 1941. - TREPANIER, Estelle, García Lorca et La Barraca, in «Revue d’histoire du théatre», aprile-giugno, 1966.

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Ringraziamenti

Dopo aver riempito i bicchieri dei convitati, Massimo si alzò in piedi e, levato il calice, si rivolse ai presenti: - Cari amici, questa cena non avrà forse la sfarzosità di quella indetta da Trimalcione, ma vi ho comunque voluti riunire, con quel poco che ho da offrire, per condividere con voi questo momento. So che non è necessario che io vi esprima la mia gratitudine per avermi accompagnato fino alla fine del mio lavoro, ma è per me importante farlo. Non consideratela una formalità, ma un gesto di sincera riconoscenza. Sulla tavolata risuonarono scherzose risate e qualche applauso incoraggiante, che lasciarono presto il posto ad un silenzio vagamente solenne, ma al tempo stesso sereno e gioioso. Lievemente imbarazzato Massimo iniziò a fare il giro della tavola, fermandosi accanto ad ogni invitato. Dapprima si avvicinò al professor Pasqualicchio, ringraziandolo dovutamente dell’attenzione e del tempo dedicatogli: - Il mio debito è da riconoscere in particolare nei confronti della sua disponibilità, che mi ha permesso di ricorrere al suo consiglio anche durante il suo tempo libero e al di fuori dei ristretti momenti previsti dal ricevimento settimanale. Passando oltre andò incontro ai suoi parenti. I genitori per primi lo accolsero tra le braccia: - Mamma, papà, avete seguito con viva partecipazione lo sviluppo del mio lavoro. Il vostro apprezzamento ha significato per me la sicurezza nei momenti di più dura difficoltà. Il sorriso che scorgevo di nascosto sui vostri volti mentre leggevate le mie righe mi ha rincuorato e spinto ad andare avanti. Voglio poi ringraziare te, caro zio, per avermi fatto conoscere l’opera di Hauser e per avermi piacevolmente intrattenuto una sera discutendo di arte medievale e 56


della poesia di Lorca. E’ stata per me un’occasione di studio personale e un’importante opportunità di riflessione. Finito di salutare i familiari, Massimo passò dall’altro lato della tavolata, dove lo aspettavano gli amici. Subito si avvicinò ad Andrea, visibilmente in imbarazzo, e lo salutò col suo tipico inchino a schiena dritta e mani giunte: - Jotti, sei stato davvero un ottimo traduttore. Ti sei fatto aiutare da cafè e grappa, ma alla fine sei riuscito ad avere la meglio anche sul francese. Senza il tuo aiuto molte pagine della mia tesi non avrebbero visto la luce. I due si abbracciarono, ma furono presto interrotti e circondati da un folto gruppo festante di persone, dai volti dipinti e dai costumi colorati: la compagnia teatrale iniziò a saltare e danzare per la sala, facendola riecheggiare di risate. Una tesi che parli di teatro non può sussistere senza l’amore per il teatro, e una tale passione necessita di chi l’accenda e la alimenti. Massimo festeggiò con i suoi compagni di teatro, presenti e passati: Elena, Milo, Vivi, David, Marcy, Giampi, Riki, Andrea, Vale, Alice, Anna, Albi, Nica, Cami, Paola, Efrem. Dopo aver ballato e realizzato brevi improvvisazioni, Massimo si staccò dal gruppo ed arrivò infine al fondo della tavola: - Giulia, l’idea della mia tesi è nata un pomeriggio, ai tavoli di un bar, mentre i nostri due animi imparavano a conoscersi. E’ stato bello vivere con te la poesia di Lorca ed è stato importante saperti al mio fianco mentre studiavo e scoprivo sogni e modi di vita che, come io e te sappiamo, vanno ben oltre la semplice stesura di una tesi, ma mettono in discussione ciò che siamo in nome di ciò che potremmo diventare. Grazie per avermi così dolcemente spinto fra le braccia di Federico. Grazie per aver aperto i miei occhi e le mie mani. Grazie per avermi insegnato a cercare la bellezza.

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