UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI VERONA
F A C O LT Á D I L E T T E R E E F I L O S O F I A CORSO DI LAUREA IN LETTERE
TESI DI LAUREA
D O P O L’ 1 1 S E T T E M B R E : D A L L’ A U M E N T O D E L C O N T R O L L O A D U N A D E R I VA S E C U R I TA R I A
R elatore: P r o f . S T E F A N O TA N I
Laureando MARCO POLIMENI Matricola: VR074329
A N N O A C C A D E M I C O 2 0 1 0 - 2 0 11
A mio nonno Amedeo: la mala erba non muore mai.
Libertà, l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato (F.De André, Il suonatore Jones)
INTRODUZIONE
La mattina dell’undici settembre 2001 tre velivoli civili vennero dirottati da diciannove uomini affiliati alle rete terroristica di Al Qa’ida e fatti schiantare contro obiettivi civili e militari sul territorio statunitense. Il primo e il secondo aereo raggiunsero il loro scopo, il più eclatante, quello che ha conferito quest’aurea metonimica alla data in questione, schiantandosi contro i grattacieli del World Trade Center, le “Torri Gemelle”, sull’isola di Manhattan. Il terzo volo colpì un’ala del Pentagono, sede del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America senza provocare eccessivi danni. La versione ufficiale, poi, parla di un quarto aereo, il cui obiettivo si crede fosse la Casa Bianca, primo ufficio del Presidente americano. Questo velivolo pare essersi schiantato in un campo vicino Shanksville, nella contea di Somerset in Pennsylvania, dopo che passeggeri e membri dell’equipaggio tentarono di riprendere il controllo dell’apparecchio, ma molti dubbi restano sulla veridicità di quest’ultimo evento. Oltre ai 19 dirottatori le vittime di quella giornata furono 2974 come conseguenza immediata, oltre a 24 dispersi. La gran parte delle vittime erano civili, appartenenti a 90 diverse nazionalità. Questo elaborato non vuole analizzare le possibili cause di questi attentati, né tantomeno conferire ragione o torto all’una o all’altra parte. Non vuole parlare specificamente della guerra che ne è scaturita e che continua tutt’ora, e nemmeno affrontare le voci insistenti secondo le quali questi attentati furono una semplice messa in scena o, addirittura, furono concordati tra governo americano e terroristi
islamici. Ho scelto, piuttosto, di approfondire alcuni argomenti ritenuti secondari dai più, ma che ritengo molto interessanti. Per questo ho suddiviso il mio lavoro in tre parti. Nelle prime due parti mi sono concentrato su due aspetti prevalentemente sociali e psicologici: il fantomatico scontro tra civiltà, concetto dilagante nella società odierna e nato proprio da questi avvenimenti, e l’idea, evidentemente sbagliata, che si aveva precedentemente a questi attentati sull’invulnerabilità degli Stati Uniti. Per fare questo ho confrontato passi di opere di alcuni esponenti di spicco delle varie scuole di pensiero sorte in merito a questa vicenda. La terza parte, infine, vuole analizzare un cambiamento. Il cambiamento occorso negli stati occidentali in seguito a questi fatti: la loro risposta. Dall’isolazionismo scelto da Wilson in seguito al primo conflitto mondiale sino all’interventismo anti-hitleriano, l’America è stata protagonista dichiarata, o velata, degli avvenimenti più importanti occorsi sul nostro pianeta dall’inizio del ventesimo secolo ad oggi. Ora si affaccia all’esterno con un atteggiamento totalmente nuovo che desidero approfondire, una sorta di commistione, appunto, tra interventismo e isolazionismo. E l’Europa, dal canto suo, è diventato un grande territorio videosorvegliato, pattugliato da camionette di militari e governato da coalizioni politiche che fanno della sicurezza il proprio cavallo di battaglia.
CAPITOLO PRIMO: lo scontro di civiltà
IL NOVECENTO: UN SECOLO AMBIGUO
Il ventesimo secolo è stato forse il più controverso della storia dell’umanità, se non altro per la quantità di notizie discordanti che i media ci hanno fornito, e continuano a fornirci, su di esso. Controverso, appunto, per la duplice natura che lo ha caratterizzato: da un lato l’umanità ha raggiunto picchi molto elevati da un punto di vista di progresso culturale, morale, scientifico-tecnologico. Si pensi a tutto ciò che contrassegna il nostro quotidiano: dal telefono cellulare al televisore, dall’automobile al computer. Si pensi alle esplorazioni spaziali, agli aeroplani, ad auto e treni sempre più veloci. Si pensi, ancora, ai passi da gigante che ha compiuto la medicina o a pensatori, intellettuali e politici del calibro di Foucault, Pasolini, Luther King, Sartre, Calvino, Mandela. Come accennato precedentemente, però, questa medaglia ha un triste rovescio: nonostante risultati così poderosi, infatti, difficilmente l’uomo aveva toccato simili livelli di abominio, quali le due guerre mondiali, l’olocausto, l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, la guerra del Vietnam e tanti altri stermini di massa più o meno taciuti1.
1 Si fa riferimento allo sterminio degli armeni cristiani operato in Turchia nel 1915, l’Holomodor (la carestia indotta al popolo ucraino da parte dell’Unione Sovietica nel 1932), i gulag, la pulizia etnica subita dai bosniaci durante il conflitto in ex Yugoslavia di cui si sono macchiati i dirigenti comunisti serbi, il genocidio dei Maya in Guatemala, quello subito dai curdi ad opera del governo di Saddam Hussein a partire dal 1973 o le varie guerre che hanno insanguinato il continente africano in cui ad aver la peggio sono sempre state le minoranze etniche (tra le altre, quelle del Darfur, del Ruanda, del Burundi, della Nigeria, del Sudan).
Da un punto di vista prettamente politico il secolo scorso ha visto formarsi una contrapposizione di “blocchi” costante per natura, in cui però cambiavano gli attori protagonisti. Primo esempio in questo senso sono gli schieramenti del primo conflitto bellico con gli Imperi Centrali da una parte e la Triplice Intesa dall’altra. Ancora più marcata, poi, la separazione fra le dittature dell’asse Roma-Berlino-Tokyo e il resto del mondo guidato da Unione Sovietica e Stati Uniti. Questi ultimi due saranno, in seguito al secondo conflitto mondiale (più di 70 milioni i morti tra civili e militari), i protagonisti assoluti della prima contrapposizione percepita anche dai contemporanei: la fantomatica “guerra fredda” che ha visto il pianeta ad un passo dalla sua distruzione. L’11 settembre 2001, in questo senso, rappresenta una data epocale. Dopo il disgregamento fisico (la caduta del “Muro di Berlino” nel 1989) e politico delle forze comuniste, il mondo ha vissuto una fase di stallo che quel mattino newyorkese di poco meno di dieci anni orsono ha spezzato in un istante. Oggi viviamo, infatti, uno scontro avanzato da più parti, e in termini sempre diversi, tra due mondi: lo scontro Est-Ovest, percepito anche precedentemente, è diventato uno scontro tra l’Occidente e l’Oriente che dal punto di vista terminologico è la stessa cosa, ma non è così dal punto di vista fattuale: la vecchia contrapposizione tra Stati Uniti e Urss, con il mondo diviso in questi due schieramenti, salvo rare eccezioni, è stata ora sostituita da quella fra stati Occidentali cristiani e mondo Islamico. In questo primo capitolo analizzerò diverse opinioni in merito a questo fenomeno.
UNO SCONTRO TRA FONDAMENTALISMI Gli intellettuali occidentali trovano comodo parlare di “cause più profonde” come l’odio per i valori e il progresso occidentali. Si tratta di un buon modo per evitare le domande sulla stessa rete di Bin Laden e sulle pratiche che producono rabbia, paura e disperazione in tutta la regione, che così diventa un serbatoio al quale le cellule terroristiche radicali islamiche possono di quando in quando attingere.2
Lo scontro tra civiltà altro non sarebbe che uno scontro tra fondamentalismi, le cui vittime sono le popolazioni dei due blocchi. Portavoce di questo pensiero è Noam Chomsky3, il quale ravvisa sostanzialmente l’impossibilità di definire un vero e proprio conflitto tra civiltà, in primo luogo perché, a suo avviso, non è giusto separare Occidente e Islam: tracciare una linea di demarcazione tra queste due culture risulterebbe sbagliato, trattandosi di uno scontro tra governi in cui, come già detto, sarebbero le popolazioni a pagarne le conseguenze. Secondariamente Chomsky affronta il tema delle origini della rete di Bin Laden. Quest’ultimo nell’era della globalizzazione più spietata incarnerebbe una specie di marchio aziendale, con il logo del male stilizzato sulla sua barba grigia e sul turbante bianco:
2
Noam Chomsky, 11 settembre. Le ragioni di chi?, Milano, Marco Tropea, 2001, pp. 74-75.
3 Avram Noam Chomsky (, ) è un , e . Professore emerito di al è riconosciuto come il fondatore della , spesso indicata come il più rilevante contributo alla del . A partire dagli , grazie alla sua forte presa di posizione contro la ed al suo notevole impegno politico e sociale, Chomsky si è affermato anche come intellettuale e . La costante e acuta critica nei confronti della politica estera di diversi paesi e, in particolar modo, degli , così come l'analisi del ruolo dei mass media nelle democrazie occidentali, lo hanno reso uno degli intellettuali più celebri e seguiti della americana e mondiale.
Bin Laden personalmente può essere più o meno implicato in quanto è successo, ma è molto probabile che lo sia di più la rete di cui è un esponente di punta, quella delle forze istituite dagli Stati Uniti e dai loro alleati per i propri fini e foraggiate finchè utili a ottenerli.4
In sostanza è doveroso secondo il noto linguista americano fare luce sull’origine della rete terroristica di Bin Laden, più che concentrarsi su ciò che oggi può indirizzarne le mosse; indagare sulla funzionalità che in passato tali terroristi ebbero nel disegno politico internazionale, piuttosto che condannarli per il crollo delle Torri.
SANTO IL DENARO, SANTA LA GUERRA Le cause più profonde a cui Chomsky fa riferimento e che i media occidentali tacciono non sono altro che gli aiuti che gli Stati Uniti hanno offerto nel recente passato ai terroristi islamici. Tutto ha inizio nell’estate del 1979 quando il Consulente americano per la sicurezza nazionale, Zbigniew Brzezinski, il dipendente più ferocemente antisovietico dell’amministrazione Carter, indusse l’allora presidente degli Stati Uniti a finanziare i mujaheddin 5, in modo da aumentare le difficoltà incontrate dai russi nel conflitto scoppiato poco tempo prima in Afghanistan. La jihad6, per dovere di cronaca, si era sostentata anche col traffico di droga e con la 4
Noam Chomsky, p.75.
5 Dall’arabo “combattente”(per la fede). Il termine ha una doppia accezione; dall’originario significato di combattenti musulmani impegnati nella guerra santa contro gli infedeli, infatti, ha preso origine il nome del gruppo di guerriglieri del movimento nazionale islamico dell’Afghanistan.
6 Con il termine jihad, dall’arabo “lotta”, “combattimento”, si indica la guerra, considerata santa, condotta dai seguaci dell’islamismo contro i fedeli ad altre religioni, considerati infedeli.
compravendita di fucili e missili in tutto il Medio Oriente; ma l’aspetto più interessante
per il mio lavoro è il reclutamento di mercenari addestrati dalla
superpotenza occidentale. John K. Cooley in un suo libro d’inchiesta sui collegamenti tra la CIA e l’estremismo islamico parla di un vero e proprio esercito: Negli Stati Uniti i finanziamenti ufficiali alla jihad cominciarono poco a poco. […] Uno dei pochi aspetti da risolvere, legato al reclutamento, era come assicurare e mantenere le retribuzioni [..,] all’inizio dell’81 non si poteva ancora prevedere che sarebbero stati così tanti gli adepti radunati intorno alla bandiera americana camuffata da bandiera verde dell’Islam.7
Cooley fa riferimento a circa 150.000 guerriglieri a tempo pieno, operativi già a partire dal 1983 in 300 settori diversi delle 28 province in cui è suddiviso lo stato afgano. Tutto questo poiché la jihad islamica era considerata come un aspetto importantissimo nel contesto della guerra fredda, un organo vitale ai fini del disgregamento della potenza sovietica, uscita, in effetti, consunta da dieci anni di combattimento senza sosta. Quando gli ultimi soldati russi si ritirarono, nel 1989, la guerra era costata all’URSS svariati miliardi di dollari (per non parlare del milione e più di vite umane). Osservando gli sviluppi di questa vicenda e osservandone soprattutto l’epilogo riaffiora sempre più viva alla memoria un’affermazione di Niccolò Machiavelli: Le [armi] mercenarie et ausiliarie sono inutili e pericolose […] perché le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele; gagliarde fra li amici, fra nimici vile; non timore di Dio,
7
John K. Cooley, Una guerra empia. La CIA e l’estremismo islamico, Milano, Elèuthera, 2000.
non fede con gli uomini. […] La ragione di questo è che le non hanno altro amore né altra cagione che le tenga in campo, che un poco di stipendio.8
In merito a questo argomento è doveroso se non altro citare il delicato tema dello scandalo che interessò sul finire degli anni 80 la sede statunitense di Atlanta della BNL, uno dei maggiori gruppi bancari italiani. Scandalo conclusosi con la condanna a 37 mesi di carcere dell’ex direttore della sede nordamericana del colosso finanziario, Christopher Drogoul. La condanna non è poi gran cosa, se si pensa che dai 347 capi di imputazione da cui partiva il primo rinvio a giudizio del 1991 l’ultimo accordo con i magistrati fu raggiunto tramite patteggiamento: Dragoul ammise la propria colpa soltanto su 39, mettendo a tacere definitivamente con questa sentenza un caso tra i più contorti di intrecci tra finanza e politica; un passaggio illecito di svariati miliardi di dollari direttamente nelle tasche dell’allora buon alleato anti-iraniano Saddam Hussein, non ancora il sanguinario dittatore capace di rifornire il proprio paese di un arsenale batteriologico a cui la stampa occidentale pochi anni dopo avrebbe dedicato decine di migliaia di prime pagine, reportage ed inchieste. Noam Chomsky affronta anche lo spinoso argomento del terrorismo occidentale, considerato dai media statunitensi ed europei tutt’al più una normale azione di guerra, magari volta a ripristinare la libertà e l’ordine. Tra i vari episodi che il leader del
8
Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di Giorgio Inglese, Torino, Einaudi, 1995, pp. 76-77.
9 Due per false dichiarazioni alla Federal Reserve e alle autorità di vigilanza, un terzo per “frode via cavo”. Una condanna, in sostanza, non per aver commesso il reato, ma per aver precedentemente negato di averlo fatto.
“popolo di Seattle”10 narra, riserva particolare attenzione a quanto avvenuto in Nicaragua11 nel corso degli anni Ottanta, ricordando che gli Stati Uniti sono l’unica nazione condannata per terrorismo dalla Corte internazionale di Giustizia che abbia rifiutato di aderire ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. NEL NOME DEL PADRE Si può considerare civile, dunque, una società capace degli orrori di cui si sono macchiate Europa e Stati Uniti d’America? Civile è una società che genera campi di sterminio, che sgancia un’atomica, che spreme il pianeta fino all’ultima goccia? Trovo che la risposta, beffarda e caustica sin che si vuole, ma decisamente calzante, stia racchiusa nel titolo di un saggio di Franco Berardi12: “Due civiltà ripugnanti che si fanno la guerra”13. In questo testo lo scrittore e filosofo bolognese traccia una 10 Con questa espressione si fa riferimento al movimento mondiale dei no global, la cui prima comparsa si ritiene comunemente sia avvenuta a Seattle, negli Stati Uniti, in occasione del Wto (World Trade Organization).
11 Durante gli anni Ottanta il Nicaragua fu sottoposto ad una serie di attacchi da parte degli Stati Uniti che lo devastarono. Migliaia di persone morirono e l’economia del piccolo paese centroamericano ne uscì sconvolta. Dietro a questi attacchi le elezioni del 1984 in cui il partito socialista si impose per l’ennesima volta. La commissione internazionale indetta dall’Onu giudicò regolari queste elezioni, ma non gli Stati Uniti. Chomsky fa riferimento a questo avvenimento perché di fronte a questi attacchi da parte degli Stati Uniti, che egli definisce terroristici, il Nicaragua rispose appellandosi al consiglio di sicurezza dell’Onu anziché reagire militarmente.
12 Franco Berardi (Bologna, 2 novembre 1949) è uno scrittore, filosofo e agitatore culturale italiano. Ex esponente del gruppo extraparlamentare Potere Operaio, nel 1976 partecipò alla fondazione di Radio Alice, tra le prime stazioni radio “libere” nel nostro paese.
13 Franco Berardi, “Due civiltà ripugnanti che si fanno la guerra”, in AAVV, La guerra dei mondi. Scenari d’occidente dopo le Twin Towers, Roma, DeriveApprodi, 2002.
panoramica sconfortante del mondo odierno che vede nell’11 settembre l’inizio ufficiale di una guerra “destinata a concludersi solamente con l’eliminazione definitiva di uno dei due contendenti, o di tutti e due”.14 Per Berardi la causa di tutto quanto avvenuto risiederebbe nell’assimilazione teorica del sapere Occidentale (che a sua volta deriverebbe dalla storia del mondo arabo-islamico dei secoli dell’apogeo musulmano) da parte delle popolazioni musulmane, che però ne ignorano la tecnica. Per l’autore felsineo, in sintesi, si tratterebbe di uno sorta di svezzamento che gli Occidentali avrebbero già passato, abbandonando tutti i radicalismi e le esasperazioni derivate da fedi politiche e religiose, verso un appiattimento culturale tanto preoccupante da un lato quanto, certamente, rassicurante per i governanti. Questo gli integralisti islamici non sono mai riusciti a capire […] Istericamente abbarbicata a quel bisogno di un fondamento, quella cultura non ha potuto integrarsi con la sostanza stessa dell’Occidente che è l’assenza di ogni fondamento, a cui la coscienza (infelice, se volete, ma lucida) dell’Occidente giunge con Nietzsche, con Marx e con Heidegger. […] Per tutto questo l’integralismo islamico, come solo il nazismo seppe essere, costituisce una minaccia mortale per la civiltà moderna occidentale e capitalistica. Perché ne assimila le procedure ma non si porrà mai sullo stesso piano ontologico, né quindi storico, né quindi morale.15
14
Franco Berardi, p. 67.
15
Franco Berardi, pp. 66-67.
Una componente di integralismo religioso, poi, è possibile, senza neppure sforzarsi molto, individuarla nella stessa società occidentale dove l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, George W. Bush (a detta di Berardi “l’uomo più incolto che abbia mai ricoperto un incarico pubblico nell’epoca moderna”), avrebbe rappresentato durante i suoi due mandati consecutivi gli interessi elettorali del fondamentalismo cristiano. Scrive Chomsky: Gli Stati Uniti sono un Paese estremamente fondamentalista. Bush vuole dare di
sé
l’immagine di un cristiano rinnovato che si rivolge a Dio in continuazione. In qualunque altro Paese, ciò costituirebbe materia sufficiente per destituirlo dalla sua carica. Qui invece viene considerato un fatto meraviglioso. […] Una elevata percentuale di popolazione, infatti, è formata da quelli che vengono chiamati “armageddonisti”, ovvero persone che prendono alla lettera l’Apocalisse, ultimo libro della Bibbia. […] Probabilmente credono che ci sarà una battaglia tra il Bene e il Male, in cui tutti si uccideranno tra di loro e solo i salvati andranno in cielo.16
LA PAURA DEI BARBARI Un aspetto cruciale della realtà odierna che induce forse più di ogni altra cosa a considerare inevitabile lo scontro fra la nostra opulenta e sfavillante civiltà e quell’altra così misera e tetra sta nell’universalismo dei comportamenti che oggi più che mai caratterizza l’intero mondo occidentale. Esiste, infatti, ormai un solo modus vivendi. Come detto precedentemente, nella civiltà Occidentale è tracciato il sentiero verso un totale appiattimento dei costumi e così risulta sempre più difficile 16
Noam Chomsky, Presidente Bush, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 129, 130.
comprendere fenomeni appartenenti ad altre società quali, ad esempio, la poligamia, i matrimoni indotti dalle famiglie degli sposi o il tanto discusso burqa 17. Guardando, però, uno dei tanti servizi televisivi dedicati a questo argomento viene quantomeno da sorridere poiché non si discosta tanto dalla propaganda cinematografica che caratterizzò i regimi occidentali del secolo ventesimo. Pensare, d’altro canto, all’interpretazione islamica dei nostri usi e costumi, alla nostra ossessione riguardo al sesso, oramai meglio visto che fatto in prima persona, al successo tanto più soddisfacente quanto più rapido e immeritato, è un esercizio che nessuno di noi credo abbia fatto sufficientemente bene. Chi sono, dunque, i barbari? Questo termine è nato nell’antica Grecia, dove veniva utilizzato comunemente, in particolare dopo le guerre contro i persiani. Questa parola si contrapponeva ad un’altra, e le due insieme permettevano di dividere il mondo e le sue genti in due classi disuguali: i greci (noi) e i barbari (gli altri, gli stranieri). I barbari nella cultura classica erano tutti coloro che “balbettavano”, non conoscevano, cioè, la lingua greca. Oggi ai greci possiamo tranquillamente sostituire gli
occidentali, dove con occidentali si intende,
chiaramente, chi sposa il modello americano. Sposare questo modello legittima a sentirsi civilizzati. Ma la questione linguistica non risolve più la faccenda. Il mondo non può essere più diviso tra greci e barbari. Per ovviare a questo problema, trovo molto interessante la divisione della razza umana proposta da Tzvetan Todorov nel suo libro La paura dei barbari18. L’autore franco-bulgaro divide il mondo 17 Con il termine burqa si indica un capo di abbigliamento tradizionale delle donne di alcuni paesi di religione islamica che ne copre interamente il corpo, dalla testa sino ai piedi.
18
Tzvetan Todorov, La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà, Milano, Garzanti, 2009.
contemporaneo in tre grandi tipologie di stati: gli stati con appetito, gli stati con risentimento e gli stati con paura. Gli stati dell’ appetito: “La loro popolazione ha spesso la convinzione […] di essere stata esclusa dalla ripartizione delle ricchezze; oggi è venuto il suo turno”19. A questo gruppo appartengono, tra gli altri, la Cina, il Brasile e l’India. Gli stati del risentimento: “Deriva da un’umiliazione, reale o presunta, che sarebbe stata loro inflitta dai paesi più ricchi e più potenti” 20. Ne fanno parte quei paesi che hanno una maggioranza di popolazione appartenente alla religione musulmana. Gli stati della paura: Questo gruppo riguarda i paesi Occidentali, “che hanno dominato il mondo per molti secoli”. Todorov distingue il sentimento di paura che questi paesi provano per i paesi del primo e per quelli del secondo gruppo in questa maniera: Dei paesi dell’appetito i paesi occidentali, soprattutto quelli europei, temono la forza economica, la capacità di produrre a minor costo e dunque di fare man bassa sui mercati, insomma, hanno paura di subire il predominio economico. Dei paesi del risentimento temono invece gli attacchi fisici che ne deriverebbero, gli attentati terroristici, le esplosioni di violenza; e poi le misure di ritorsione di cui questi paesi sarebbero capaci sul piano energetico, dal momento che i più grandi giacimenti di petrolio si trovano nei loro territori.21
Per quanto riguarda il risentimento di cui parla Todorov nella sua classificazione si tratta dello stesso sentimento a cui si riferiva Chomsky quando affermava che “nella massa delle popolazioni più povere e sofferenti, questa amarezza è assai più
19 20 21
profonda”22 e ancora che “gli Stati Uniti hanno affrontato questi problemi limitandosi a esasperarli”23. Ritengo poi necessario considerare che, molto spesso, la paura di cui parla Tzvetan Todorov, quella che provano gli occidentali, sfocia in un’ intolleranza ben rappresentata da alcune figure di spicco del giornalismo e dell’elite culturale del “nostro” mondo. Oriana Fallaci, in questo senso, ha incarnato il prototipo dell’occidentale arroccato a difesa della propria identità, la propria Patria, la propria terra, il proprio paesino. La storica firma del Corriere della Sera, infatti, ripudia il concetto di paura, perché a suo dire nella vita e nella storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura, perché risulta immorale e incivile. E definisce successivamente coloro che provano questo sentimento “oltre che codardi, sciocchi e masochisti” 24. Sì, perché l’autrice fiorentina incarna a meraviglia la più curiosa tra le ideologie che voglio analizzare in merito al tanto osannato “scontro tra civiltà”. Per la Fallaci, infatti, non esiste questa contrapposizione, poiché di civiltà ne esiste una sola, quella occidentale, i buoni: E a tal proposito, vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto (ed io chiamo Conflitto) tra le Due Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture […] Perché dietro alla nostra civiltà [...] c’è l’antica Grecia col suo Partenone, la sua scultura, la sua architettura, la sua poesia, la sua matematica, la sua filosofia, la sua scoperta della Democrazia. C’è l’antica Roma con la sua grandezza, la sua esperienza giuridica, il suo concetto della Legge, il suo Diritto Romano […] C’è anche una Chiesa che ci ha dato l’Inquisizione, d’accordo. Che ci ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, che ci ha 22 23 24
quasi ammazzato Galilei, ce lo ha umiliato e zittito, che per secoli ci ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne. Ma che ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero […] E poi c’è il Rinascimento […] C’è l’Illuminismo […] E c’è la musica. Quella musica che nella loro cultura o supposta cultura è proibita: guai se gorgheggi una canzonetta o intoni il coro del Nabucco […] E infine c’è la Scienza, perdio, e la tecnologia che ne deriva.25
Ma la vera stoccata arriva quando si giunge alle considerazioni politiche che la Fallaci compie per disegnare quelle che sono le reali distanze tra le due società, aldilà dei rispettivi profili storici: E non dimentichiamo lo standard di vita che la cultura occidentale ha raggiunto ad ogni livello della società. Il fatto che da noi non si muoia più di fame e di freddo, di stenti e di malattie prima considerate inguaribili. Il fatto che da noi le donne contino ormai quanto gli uomini. Nonché il fatto che da noi chiunque possa esprimere la propria opinione. Ed anche se tutto ciò fosse roba da buttar via, il che non mi sembra proprio, dimmi: dietro l’altra cultura, la cultura dei barbuti con la sottana e il turbante, che c’è?26
La giornalista italiana in queste considerazioni tanto forti sembra ignorare, forse volutamente, le cause27 di questi dislivelli sociali. Il celeberrimo filosofo e politico indiano Mohandas Karamchand Ghandi, meglio conosciuto semplicemente come il “Mahatma”28, fu il primo grande teorico della resistenza pacifica; parlando con un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse della civiltà occidentale, rispose:“Potrebbe essere una buona idea”.
25 26 27 28
CAPITOLO SECONDO: invulnerabilità americana GROUND ZERO: DA HIROSHIMA A MANHATTAN Un aspetto senz’altro importantissimo evidenziato dagli attentati dell’11 settembre 2001 risiede nel fatto che questi furono il primo attacco militare di forze esterne agli Stati Uniti d’America avvenuto sul loro territorio. Questo contribuì in misura enorme a rendere epocale questa data, in percentuale maggiore di ogni altro aspetto interessato. Ground Zero è da allora chiamato il luogo in cui sorgevano le Torri Gemelle, il complesso del World Trade Center. Ground Zero è il termine con il quale, in inglese, si designa il luogo perpendicolare all’epicentro di una esplosione atomica. La storia ha corsi e ricorsi, e così nella memoria collettiva questo termine inglese non rimanda più alle deflagrazioni che interessarono le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945, più di 300.000 i morti complessivi, ma a quel giorno di fine estate, a New York. Questa idea sorge, principalmente, a causa della convinzione che circolava in tutto il mondo riguardo all’invulnerabilità che si attribuiva agli Stati Uniti d’America e al loro territorio. Mai, come già detto, un attacco vi era stato compiuto e mai questo sembrava poter accadere. INVULNERABILI NOI?
Alle ore 8 e 48 minuti di quel mattino a Manhattan, quell’aereo che si schianta, tagliandone come burro la scorza di cemento, contro una delle due torri del complesso del World Trade Center distrugge in un solo istante, commentato da migliaia di penne, fotografato milioni di volte, ripreso da tutte le televisioni del pianeta, la stessa concezione della realtà geopolitica che l’intero mondo aveva. Una mondializzazione che attraverso vari rovesciamenti, guerre mondiali palesate e psicologiche29, si era fondata su di un’unica costante: l’invulnerabilità del suolo americano. Parecchie, però, sono le voci che si distanziano da questo coro, su tutte quella di Oriana Fallaci. La nota scrittrice, infatti, si dichiarò contraria all’idea che gli Stati Uniti, come qualsiasi altro paese libero da regimi dittatoriali, potessero essere considerati inattaccabili. Invulnerabilità? Ma come Invulnerabilità? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti e i massacri […]. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi [quelli dell’ex blocco comunista, del Nord Africa e del Medio Oriente] io mi sono sempre sentita sicura […]. Negli aeroporti e sugli aerei americani, due volte nervosa. E a New York, tre volte.30
Non esisteva, dunque, mai era esistita per l’autrice fiorentina, questa fantomatica invulnerabilità tanto chiacchierata, principalmente perché essendo l’America il paese più forte e più ricco del mondo non poteva che, attraverso le libertà che concede ad ogni suo cittadino, trasformarsi nel proprio carnefice, come la Fallaci spiega: E quando un Mustafà viene diciamo dall’Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce 29 30
di iscriversi a un’università per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. […] E detto ciò quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della supremazia economica e militare americana? […] Sono i suoi grattacieli. […] Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai sostituiscono i camion e le ferrovie perché tutto o quasi tutto qui si muove con gli aerei. […] E dove li ha colpiti, Osama Bin Laden? Sui grattacieli. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia.31
LA MADRE DI TUTTI GLI EVENTI A tal proposito trovo doveroso citare il filosofo francese Jean Baudrillard 32. Quanto costui afferma in merito ai fatti dell’11 settembre 2001 risuona come una condanna netta e decisa della coscienza collettiva occidentale, tanto da far pensare che l’invulnerabilità della superpotenza statunitense sia rimasta integra, essendosi trattato semplicemente di un suicidio. Pur accettando, infatti, che la realizzazione a livello concreto degli attentati in questione venga attribuita ad un gruppo di terroristi islamici, Baudrillard insiste affinché si ammetta che è stata “nostra” la volontà; che è stato lo stesso mondo occidentale, europeo e statunitense, a volerlo. La condanna morale e l’alleanza sacra contro il terrorismo sono commisurate alla gioia prodigiosa di veder distruggere la superpotenza mondiale o, meglio ancora, vederla in qualche modo autodistruggersi, suicidarsi in bellezza. […] Il fatto che tutti noi avessimo sognato questo evento […] è inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente. Ma è comunque un dato di fatto, che si misura per l’appunto con la violenza patetica di tutti i discorsi che vogliono cancellarlo.33
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Il crollo delle due torri, insomma, rappresenterebbe il suicidio dell’Occidente, in risposta a quello dei kamikaze: Del resto è verosimile che i terroristi (e nemmeno gli esperti!) non avessero previsto il crollo delle Twin Towers, che è stato, ben più del Pentagono, lo shock simbolico maggiore. Il crollo simbolico di un intero sistema è avvenuto grazie a una imprevedibile complicità, come se, implodendo da sole, suicidandosi, le torri fossero entrate in gioco per ultimare l’evento.34
Il filosofo francese ritiene dunque che lo stesso mondo Occidentale, attraverso tutti i discorsi e i commenti che ha speso in merito all’argomento, tradisca una gigantesca pulsione per l’evento stesso, confermata dallo spropositato richiamo che il pubblico di questi paesi subisce dagli innumerevoli film-catastrofe, testimoni di un fantasma che scongiurano attraverso l’immagine, annegandolo negli effetti speciali. Una attrazione che sento di poter accomunare a quella generata da altri due elementi che caratterizzano alla perfezione il cittadino-spettatore: la pornografia e la cronaca nera35. L’egemonia di una sola potenza, dunque, genera necessariamente un virus, la sua crescita esacerba la volontà di distruggerla; il tutto, poi, è acutizzato dal contesto di una società che necessita di eventi come si ha bisogno dell’aria. In sostanza con gli attentati suicidi dell’11 settembre, e, soprattutto, con tutta la loro potenza visiva emblematizzata dal crollo delle due torri, la realtà ha finalmente ripreso il suo posto primario in un’epoca in cui gli eventi latitavano e anche le guerre erano diventate semplici spettacoli televisivi. Più che la fine dell’invulnerabilità 34 35
interna statunitense ad opera di forze straniere, insomma, questa data simboleggia una sorta di pausa alla virtualità postmoderna. Parlo di pausa, poiché il percorso verso il quale il mondo stava andando prima di quella data ha ripreso inesorabilmente il suo corso. Il percorso di una mondializzazione dettata dal modello nordamericano. Il terrorismo, infatti, mi pare sia nient’altro che una risposta a quella globalizzazione che intesse una rete sempre più grande, capace di fagocitare costumi e tradizioni vecchi di millenni. Per dirla con le parole di Baudrillard: Possiamo giustamente parlare di guerra mondiale, non della terza, bensì della quarta e unica vera guerra mondiale, perché la posta in gioco è la stessa mondializzazione. Le due prime guerre mondiali corrispondevano all’immagine classica della guerra. […] La terza che ha ben avuto luogo sotto forma di Guerra Fredda e di guerra di dissuasione [ha messo fine] all’immagine classica della guerra. Dall’una all’altra siamo andati ogni volta più lontano sulla via di un unico ordine mondiale. Oggi, quest’ordine, è virtualmente giunto alla fine e si trova alle prese con le forze antagoniste ovunque presenti nel cuore del sistema mondiale, in ciascuna delle sue attuali convulsioni. […] Scontro talmente inafferrabile che ogni tanto occorre rammentarsi dell’idea di guerra, attraverso spettacolari messe in scena come quelle del Golfo o, oggi, dell’Afghanistan. Ma la quarta guerra mondiale è altrove. Essa è ciò che infesta ogni ordine mondiale, ogni dominio egemonico. Se l’Islam dominasse il mondo, il terrorismo si rivolterebbe contro l’Islam. Poiché è lo stesso mondo a opporre resistenza alla mondializzazione.36
Un percorso totalizzante, dunque, quello della mondializzazione, che ha ripreso il suo cammino già nelle guerre scoppiate in Afghanistan ed in Iraq in seguito agli attentati kamikaze. Ma che, più semplicemente, fa il suo corso in ogni sfera del nostro quotidiano: attraverso i reality che dominano i palinsesti televisivi, portatori di un modello unico che deve essere necessariamente seguito; attraverso le nuove forme di comunicazione, dai social network ai telefoni cellulari, sempre più imprescindibili 36
bussole della post-modernità; ma anche attraverso la moda, la dieta, le idee suggerite da opinionisti di mestiere che regnano nelle trasmissioni televisive e sui giornali.
CAPITOLO TERZO: l’aumento del controllo
C’ERA UNA VOLTA L’ISOLAZIONISMO “Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarlo” (J.F.Kennedy)
Nel gennaio del 1918, in un quadro politico post-bellico in cui gli Stati Uniti, protetti geograficamente da due oceani, si configuravano come prima, e forse unica, potenza economica mondiale rimasta di fatto immune dalla “grande guerra”, l’allora presidente nordamericano Woodrow Wilson37 espose al senato i suoi principi relativi al nuovo ordine mondiale. Il ventottesimo presidente della storia degli Stati Uniti d’America intendeva, in questo modo, promuovere il concetto di una “pace senza vincitori”, perché convinto che l’imposizione forzata di uno stato di subordinazione ai paesi vinti avrebbe creato i presupposti per un nuovo conflitto. Era allora necessario un assetto internazionale basato fondamentalmente sull’autogoverno dei popoli e l’eguaglianza delle nazioni, la soppressione di quella diplomazia segreta che aveva caratterizzato buona parte dei passaggi chiave della politica estera dei decenni precedenti, uno scambio di efficaci garanzie che gli armamenti dei singoli stati sarebbero stati ridotti al minimo compatibile con la sicurezza interna, ed una libera navigazione dei mari.
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In pratica, i quattordici punti di Wilson sancirono, in seguito alla conferenza di pace tenutasi a Versailles fra il 1918 e il 1919, la nascita della Società delle Nazioni; la vittoria del Partito Repubblicano nelle elezioni del 1918, però, diede origine a un paradosso che segnò la politica americana sino al 1940 38: nonostante fossero stati proprio gli sforzi del presidente statunitense Wilson a far nascere questa organizzazione, gli Stati Uniti non vi aderirono mai. In seguito alla seconda guerra mondiale cambiò l’indirizzo della politica estera della potenza nordamericana: dall’adesione del 1946 alle Nazioni Unite, organizzazione nata per sostituire la fallimentare Società delle Nazioni, sino a quella, nel 1949, al Patto Atlantico, la NATO 39; e molti altri furono gli interventi successivi in questioni internazionali da parte della superpotenza americana40.
OPERAZIONE ENDURING FREEDOM Dopo la seconda guerra mondiale, dunque, l’orientamento americano in materia di politica estera ha preso una strada chiara e decisa, volto a partecipare in veste di protagonista assoluto nel panorama internazionale. In questa ottica, ben si allinea al resto degli interventi militari già citati l’operazione “Enduring Freedom” 41, termine utilizzato per denominare la missione lanciata nel 2001 in Afghanistan contro i
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Talebani, primo atto della guerra dichiarata al terrorismo dall’amministrazione Bush in risposta agli attentati dell’11 settembre, e quella subito successiva in Iraq. Il leitmotiv del periodo immediatamente posteriore ai crimini di matrice terrorista che colpirono l’America era sempre lo stesso: catturare Osama Bin Laden, rovesciare i governanti degli stati “canaglia”. Ma, mentre in ambito mondiale gli Stati Uniti continuavano a farla da padroni, nuovo e diametralmente opposto era l’atteggiamento scaturito dai suddetti attentati in materia di politica interna; un atteggiamento che continua a interessare direttamente le popolazioni del Mondo Occidentale. Le riforme introdotte dall’amministrazione americana dopo l’11 settembre hanno toccato in modo particolare la sicurezza interna, espandendo i poteri delle autorità investigative e centralizzando le operazioni di intelligence e di controllo del territorio. In questo senso assume un valore fondamentale una legge 42 promulgata il 26 ottobre del 2001, poco più di un mese dopo gli attentati terroristici contro il WTC ed il Pentagono: questo provvedimento consente un maggiore e più veloce scambio di informazioni tra le agenzie di intelligence e le autorità investigative, elimina una serie di restrizioni al potere statale di accedere e trattare i dati personali dei singoli cittadini, allenta i vincoli alle perquisizioni, espande i poteri federali soprattutto, cosa molto importante, nei rapporti con i cittadini stranieri.
OLTRE IL CONFINE CHISSÁ…
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Non importa che la guerra stia davvero avvenendo, e, poiché nessuna vittoria decisiva è possibile, non importa che la guerra stia andando male. Tutto quel che serve è che uno stato di guerra esista (George Orwell, 1984)
Gli attentati terroristici dell’11 settembre hanno cambiato radicalmente la percezione della sicurezza a livello planetario; questo ha dato nuova enfasi al concetto di frontiera, oggi come non mai di vitale importanza per la salvaguardia dell’ordine interno. Il confine tra gli Stati Uniti d’America e il Messico, che divide i due paesi dall’Oceano Pacifico a quello Atlantico per circa 3000 chilometri, è sempre stato avvertito dalla potenza nordamericana come un serio pericolo legato soprattutto alla criminalità, al traffico di droga e all’immigrazione clandestina. Negli anni Novanta del secolo scorso questo problema ha trovato alcune risposte pratiche: un muro 43 di circa trenta chilometri è stato costruito tra Tijuana e San Diego, e sono state attuate altre strategie di controllo congiunte fra i due paesi interessati lungo altre zone nevralgiche della frontiera. In seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 la situazione si è sicuramente inasprita: la guerra al terrorismo ha aumentato la paura della popolazione statunitense nei confronti delle frontiere aperte e la politica ha raccolto ben volentieri questo segnale. Quello che il Messico vorrebbe proporre al proprio vicino è una politica simile a quella dell’Unione Europea, esplicata nel celeberrimo “trattato di Schengen”, visto, tra le altre cose, che mentre sempre più rigidi, come detto, sono i controlli per i 43
cittadini messicani diretti negli USA, di nessun visto necessitano i cittadini statunitensi che volessero compiere l’operazione inversa. La visione statunitense, però, è, come in molti altri ambiti, quella unilaterale di una superpotenza che esporta solo il 15% delle proprie produzioni nel confinante paese centroamericano; quest’ultimo dal canto suo esporta negli USA il 90% del prodotto della propria industria. Va comunque senz’altro sottolineato che, nonostante l’irrigidimento nel controllo delle frontiere, il flusso di migranti non è affatto diminuito: grande spinta all’economia nordamericana è data proprio dalla manodopera a bassissimo costo, proveniente dal Messico, legale o clandestina che sia. Per questo l’obiettivo statunitense è quello di mantenere la frontiera “permeabile”, tanto da favorire o scoraggiare l’ingresso di lavoratori, in accordo con le necessità della propria economia. LA PROSPETTIVA DEMOCRATICA L’ordine internazionale che attualmente caratterizza il nostro pianeta si fonda su un processo di gestazione lungo almeno due millenni, che ha visto e continua a vedere nel sistema democratico il proprio vessillo, ma anche lo strumento unico e ultimo al fine della realizzazione di una situazione di pace globale fra i popoli. Questo è, perlomeno, il pensiero del mondo Occidentale, che la mondializzazione sta lentamente
propagando
in
tutti
il
pianeta.
Nel mondo però sono esistite e continuano ad esistere altre forme di civiltà che si fondano su premesse diverse da quelle proprie della nostra democrazia. Gli attentati dell’11 settembre in questo senso evidenziano la presenza di quel virus di cui
parlava Baudrillard, che non combatte il mondo Occidentale in quanto tale, ma la stessa mondializzazione intesa come fenomeno di annullamento di ogni realtà altra. Può dunque il nostro sistema essere assunto come sistema unico? Per rispondere a questa domanda credo sia necessario innanzitutto porne un’altra, che analizza più a fondo la questione: il processo democratico è realmente compiuto? Non è possibile, infatti, pensare di esportare un sistema di valori che non ha ancora trovato una sua piena realizzazione neppure nel “nostro” mondo, come suggerisce Carlo Tullio-Altan: Il carattere eteronomo della cultura morale è un dato che compare […] in tutti i paesi la cui storia si è sviluppata al di fuori della tradizione greco-romana e giudaico-cristiana del mondo occidentale. Possiamo dunque chiederci se tale differenza possa essere eliminata con la pura e semplice accettazione del nostro punto di vista sul mondo da parte di altri popoli, e cioè con la loro acculturazione al nostro modello di democrazia. Questo modello […] tuttavia, non si presenta affatto nella nostra civiltà, in una versione univoca, ma a sua volta in versioni differenziate. […] Per giunta risulta essere operativo solo all’interno di ogni singola formazione storico-sociale, ma non sul piano internazionale44.
La democrazia occidentale, secondo l’antropologo e sociologo italiano, ha conosciuto parecchie sconfitte, che ne hanno evidenziato parecchi limiti strutturali, che dovrebbero far riflettere sulla possibilità di applicare questo modello a tutto il mondo civilizzato: I tentativi di stabilire regole e istituzioni capaci di garantire il principio democratico del dialogo e della tolleranza attiva reciproca fra soggetti nazionali diversi sono fino ad oggi praticamente falliti, se si tiene conto delle guerre che non è stato possibile e non è tuttora
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possibile impedire. In sostanza nemmeno la democrazia occidentale è stata in grado di garantire la pace tra i popoli45.
Gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 non hanno scosso solo gli Stati Uniti, ma anche l’Europa. Il vecchio continente ha, infatti, sempre guardato all’America come a un modello di democrazia e libertà, come il paese dove meglio, e forse soltanto, si è concretizzato l’ideale democratico. Per questo la minaccia di Al Qa’ida si è estesa a tutto il mondo occidentale e nelle popolazioni europee si è nuovamente sviluppata una vecchia psicosi collettiva: la paura del terrorismo. La politica non è certo rimasta a guardare e le nuove risposte prodotte in questo senso cavalcano e talune volte addirittura fomentano queste nevrosi. Oggi nel nostro continente è assolutamente normale imbattersi in aree video sorvegliate, pattuglie di militari che controllano le strade, fino alle ronde notturne di cittadini con un eccessivo e sospetto senso civico, passando per la miriade di nuovi divieti e restrizioni securitarie, talvolta quantomeno bizzarre, in funzione delle quali la sicurezza si trova ad essere curiosamente intrecciata con l’opinabile nozione di “decoro”46. In questa ottica, essendo la questione continentale troppo complessa ed articolata per essere svolta compiutamente all’interno di questo lavoro, ho preferito concentrarmi su una realtà più circoscritta che conosco direttamente, trattandosi della città in cui vivo: Verona.
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THERE’S NO WORLD WITHOUT VERONA WALLS Nel terzo atto di Romeo e Giulietta, Mercuzio, fedele amico di Montecchi, mentre sta morendo per mano di Tebaldo, cugino di Giulietta, lancia una celebre maledizione sulle due famiglie:“mi sento mancare. Peste alle vostre famiglie! Mi hanno ridotto cibo per vermi: ah, le vostre case!”47. Romeo, che aveva appena sposato Giulietta in gran segreto e aveva assistito inerme all’uccisione dell’amico, non volendo intervenire contro Tebaldo, cugino dell’amata e quindi anche suo, percepisce forse per la prima volta gli effetti concreti della sua infatuazione per una ragazza appartenente ad una famiglia nemica: Questo gentiluomo, parente del Principe, e mio vero amico, è stato colpito a morte per causa mia. Il mio onore è macchiato dall’offesa di Tebaldo che da un’ora è mio cugino. O dolce Giulietta, la tua bellezza mi ha reso effemminato e ha indebolito la tempra del mio coraggio. […] Il cupo fato di questo giorno penderà su molti giorni che verranno; questo inizia la sventura: altri la compiranno.48
Questa profezia di sventura pronunciata dal protagonista del dramma shakespeariano fa riflettere se applicata alla realtà veronese dei giorni nostri. Centinaia di migliaia di turisti ogni anno visitano, tra le altre meraviglie che hanno fatto di questa città un patrimonio mondiale dell’UNESCO, la fantomatica 49 casa di Giulietta, che tanto ha contribuito alla investitura di Verona a città dell’amore. Questa medaglia, però, ha un mesto rovescio: sono sempre di più, all’ombra dell’Arena, gli episodi di violenza la cui matrice politica racconta di fondamentalismi xenofobi sedimentati in una 47 48 49
cittadinanza che, proprio come la città, manifesta due facce contrapposte: gli stessi “butei” che la domenica allo stadio impiccano manichini raffiguranti giocatori africani e accompagnano con ululati ogni tocco di palla di calciatori di colore, durante la settimana frequentano l’Università, hanno un lavoro ben retribuito, portano la ragazza a bere lo spritz nella mondana Piazza Erbe. Ogni città ha la sua storia e quella di Verona parla di un insediamento strategicamente fondamentale per tutte le popolazioni che l’hanno abitata nel corso dei secoli. Nel 174 a.C. Roma conquistò dopo varie peripezie la Gallia Cisalpina ed iniziò, libera dalla minaccia dei Galli, un’opera di espansione nel territorio dell’Italia Settentrionale: la collocazione geografica di Verona risultò importantissima, tanto che il Senato Romano richiese alle popolazioni autoctone di ampliare il castrum fortificato che esse gli avevano concesso sul colle di San Pietro. Nei secoli successivi, poi, Verona fu sotto i domini degli Scaligeri, di Venezia, di Napoleone e dell’Austria: il denominatore comune per chi l’ha governata fu sempre un rigido arroccamento a strenua difesa di una città che risultava, e risulta tuttora, essere un crocevia importante tra il Nord Europa e il Mediterraneo, tra l’Est e l’Ovest. Si tratta, insomma, di una città che ha vissuto per secoli e secoli in uno stato di forte tensione e all’interno della quale è sempre stato molto rigido il controllo esercitato da parte delle autorità sui cittadini, tanto che ancora oggi Verona rappresenta in Italia un gioiello della sicurezza, uno dei fiori all’occhiello per le politiche securitarie che stanno investendo l’Europa. C’è dunque un male oscuro a Verona? A questa domanda si propone di rispondere il giornalista Giancarlo Beltrame quando afferma (ammettendo
che la violenza, le aggressioni e i pestaggi succedono anche altrove, magari anche peggio) che a Verona è riscontrabile qualcosa che nelle altre città non c’è: Qui c’è una specie di primogenitura. Qui, in quegli stessi ambienti di famiglia bene, di scuole come si deve, di amicizie virili, nacque Ludwig. […] In una città attraversata dai fantasmi del terrorismo di sinistra e di destra, tra bombe per le peggiori stragi che prima di insanguinare il paese passavano o stazionavano nei covi di ultradestri dagli strettissimi legami con servizi segreti italiani e americani, tra rapimenti di generali USA in nome del popolo oppresso e attentati incendiari contro proprietà simbolo o rapine per autofinanziarsi, ci fu chi decise di mettere in pratica la propria personale pulizia della società eliminando bersagli simbolo: nomadi, omosessuali, tossicodipendenti, prostitute, frequentatori di luoghi di perdizione. E lo fece usando emblemi, simboli e parole d’ordine del nazionalsocialismo. Nel nome della purezza della razza.50
Quello che preoccupa di Verona è la continuità che lega questi eventi: un filo che si snoda lungo i secoli, una matassa molto ingarbugliata che affonda senz’altro parte delle proprie radici in quel biennio, 1944-1945, in cui Verona fu di fatto capitale della Repubblica Sociale di Salò. Come suggerisce Giuseppe Brugnoli, infatti, un tizzone fascista cova ancora sotto la cenere in questa città dove, subito dopo la liberazione, vi fu una generale confluenza nelle fila della Democrazia Cristiana: Rimasti a Verona dopo la guerra questi ex fascisti […] allevarono nei loro figli generazioni di nostalgici […] Verona, città appartata e lontana dal circuito dei grandi centri di attrazione politica o dalle scuole di elaborazione ideologica, come le università, forniva un terreno di coltura adatto a far crescere rivendicazioni e a favorire aggregazioni0 amicali che trovavano una giustificazione culturale in saghe pseudoesoteriche che impostavano il pathos del loro racconto sul mito del conflitto di civiltà e della necessità di mantenere una irrazionale e anacronistica purezza originaria del popolo.51
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E proprio in questo habitat, lo stesso in cui sono nati movimenti politici di estrema destra come Ordine Nuovo, Fronte Nazionale, Veneto Fronte SkinHead (solo per citarne alcuni), continuano a verificarsi azioni isolate di singoli individui o piccoli gruppetti per i quali molto spesso non esiste nemmeno più un’ideologia di riferimento, se non un’adesione di facciata, ma il cui unico obiettivo è una violenza mirata nei confronti di chi è individuato come diverso52. Il “diverso” a Verona però non deve fare i conti solo con questi sparuti gruppi di “nuovi crociati” che combattono ogni virus di non allineamento, ma anche con un’ amministrazione comunale che sembra far di tutto per complicare la vita a chi già non la ha semplice. Le panchine antibivacco sono la perfetta sintesi di quella commistione di sorveglianza e decoro che sfocia dalle direttive politiche veronesi: seduti sì, sdraiati no. Per non parlare dell’ausilio che l’esercito offre alle forze dell’ordine nel pattugliare le strade: con il decreto legge numero 92 del 23 maggio 2008, poi convertito in Legge, la numero 125 del 24 luglio 2008, la Presidenza del Consiglio ha autorizzato l’impiego di personale delle Forze Armate per servizi di vigilanza a siti sensibili e pattugliamento di alcune aree urbanizzate, congiuntamente alle forze di polizia. Verona è stata subito inserita nell’elenco delle città interessate a questa iniziativa, alla quale sono stati destinati su tutto il territorio italiano 3000 militari delle quattro Forze Armate, 2600 dei quali appartenenti all’esercito. In sostanza, camminare per le vie del centro ed essere fermati da una pattuglia di soldati oggi a Verona è cosa del tutto normale; così come è normale incorrere in una sanzione per aver consumato del cibo nei pressi di monumenti, aver chiesto l’elemosina, aver 52
scritto su una panchina o attaccato adesivi sui bidoni per la raccolta differenziata o, perfino, aver suonato uno strumento musicale in una piazza o in un parco dopo le ore 22. Il contesto, poi, è lo scenario orwelliano in cui si assiste, giorno dopo giorno, ad un allargamento spropositato delle aree video sorvegliate, delle iniziative di vigilantes che pattugliano, volontari per la libertà, zone nevralgiche della città in ausilio alla forze dell’ordine, o, ancora, di guardie giurate che svolgono il loro lavoro su autobus di linea, nelle ore serali, per sorvegliare l’incolumità dei cittadini.
CONCLUSIONI
Mentre scrivo su tutti gli organi di informazione rimbalzano notizie riguardanti l’assassinio del leader del gruppo terroristico di Al Qa’ida, Osama Bin Laden, per mano di un gruppo di soldati statunitensi. Ci sono voluti dieci anni per scovare lo “sceicco del terrore”, considerato la mente degli attentati dell’11 settembre 2001: dieci anni fa, infatti, fu lanciata la campagna che vedeva nella sua cattura l’obiettivo principe da conseguire nella lotta contro il terrorismo internazionale. Oggi l’America informa il mondo che ancora molto c’è da fare, mentre gli integralisti islamici annunciano che l’Occidente deve aspettarsi una vendetta ancora più terribile di quella che quel mattino di quasi dieci anni fa scosse New York e tutta l’America, e con essa il mondo intero. Ci si trova, in definitiva, ben lontani dalla fine di questo conflitto designato a più riprese come scontro tra civiltà, ma che si manifesta sempre più evidentemente come uno scontro tra i potenti che le governano, prima di tutto economicamente. Due sono, poi, i punti salienti che ho toccato nell’analizzare la questione: il crollo del mito plurisecolare dell’invulnerabilità americana e soprattutto l’aumento del controllo sociale che ne è conseguito. Per quanto riguarda la credenza, che la storia ha bollato come sbagliata, che vedeva negli Stati Uniti una nazione invulnerabile, ho preferito dar credito all’idea di Baudrillard secondo cui il terrorismo non combatte il mondo Occidentale in quanto tale, ma in quanto artefice di un
disegno di mondializzazione che vuole comprendere il mondo intero: se l’Islam rappresentasse la potenza egemone, gli Stati Uniti dirotterebbero aerei. In merito all’aumento del controllo, invece, ho cercato di dimostrare che molto spesso il problema sta a monte: non si tratta infatti di appoggiare o criticare determinate scelte politiche di stampo securitario, quanto di interrogarsi sulla loro reale necessità e, ancora, sul circolo vizioso che queste stesse politiche instaurano nella società. Molto spesso trovo che sia la stessa paura a fomentarne di nuove, molto più che problemi reali e concreti, tanto da rischiare di generare delle psicosi collettive.
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RINGRAZIAMENTI Ringrazio il professor Stefano Tani, fonte inesauribile di pazienza e di ottimi consigli. Grazie ad Enrico e Massimiliano: l’insegna della SNAI sopra di me, la scommessa vincente dentro di me. Un grazie sentito a tutti quelli che ci hanno creduto, spesso anche più di me, e mi hanno sempre sostenuto e spronato, su tutti Isabella. A Mia madre, mio padre e mio fratello: non c’è bisogno che specifichi il perché. Alla mia cara nonna Angelica e alle zeppole. Alla maestra Marilisa che mi ha insegnato a leggere e scrivere e al professor Marcello Bonizzato che mi ha insegnato come. Grazie a Josè Mourinho e Alvaro Recoba, artefici di quel calcio “ultima rappresentazione del sacro”. Ringrazio di cuore la letteratura, che mi ha portato fino a qui.