Tra erranza e nostalgia. L'emigrazione nei racconti di Nina Berberova

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Università degli Studi di Verona

Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Corso di laurea triennale in Lingue e Culture per l’Editoria

Tra erranza e nostalgia L’emigrazione nei racconti di Nina Berberova

Relatore

Laureanda

Prof. Stefano Aloe

Silvia Uberti

Anno Accademico 2008-2009


INDICE

Introduzione

pag 3

Biografia

pag 4

1. La condizione dell’emigrato: la nostalgia

pag 7

2. Tentativi di riscatto

pag 18

2.1 Il lavoro

pag 18

2.2 La vendetta

pag 23

2.3 L’amore

pag 25

3. Una possibile via d’uscita: Felicità

pag 32

Conclusione

pag 36

Bibliografia

pag 37

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Introduzione

Credo di aver trasformato ogni zavorra in qualcosa (di triste o di felice), ma sempre in qualcosa di vivo. Guardandomi, vedo che tutto, come si suol dire, mi ha fatto bene, e se a volte il prezzo è stato alto, era per la vita che lo pagavo. Sempre sono stata consapevole che per la vita non c’è e non può esserci un prezzo troppo alto, e che la paura di pagare troppo significa la morte interiore.1

In questa frase è riassunto al meglio lo spirito dell’opera di Nina Nikolaevna Berberova, scrittrice russa colpita costantemente dagli eventi del suo secolo, emigrata prima in Europa e poi in America, e in questa sua forza sta anche il fascino di una scrittura esposta alla storia. Non sono soltanto i temi trattati – la vita degli immigrati russi all’estero – a rendere la sua opera meritevole di attenzione, ma è soprattutto il modo di raccontare queste vicende, il modo con cui esse si dispiegano, il moto ritmico sempre incisivo tra profondità e superficie, tra lo spazio narrativo concesso al mondo interiore dei personaggi e quello degli eventi nei quali sono come invischiati. Come Dostoevskij, al quale è stata spesso paragonata, l’attenta scrittrice dell’emigrazione ha una curiosità quasi morbosa per le complessità dello spirito, una propensione a esplorare l’inconscio e un interesse inesauribile per le motivazioni segrete e gli istinti nascosti. È anche per questo motivo che Berberova riesce a far emergere l’immensità della solitudine dei suoi personaggi, immigrati che hanno perso tutto tranne il loro animo, in un costante tentativo di preservarlo. È a questo tentativo che si rivolge il presente lavoro, teso ad ascoltare il rapporto che, mutevole ma sempre presente, lega i personaggi alla madre patria. Rapporto di una vita costretta all'esilio in un paese straniero e sempre influenzata nel suo corso dal paese d’origine. Nella mia analisi vorrei concentrarmi principalmente su sei racconti lunghi e due romanzi scritti da Berberova tra il 1929 e il 1959, in quanto, credo, sono la parte della sua opera più significativa per quanto riguarda il tema dell’emigrazione, anche se

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Berberova N., Il corsivo è mio, cit., p. 18.

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esso ricorre comunque in modo molto simile in tutto il resto della sua opera biografica, teatrale, poetica e di reportage. Purtroppo, vista la scarsa popolarità di questa scrittrice, soprattutto in Italia, non potrò avvalermi di un vasto apparato critico, per lo più mi baserò su articoli trovati su riviste specializzate, ma soprattutto sui testi, dato che per il momento non è ancora stato compiuto uno studio approfondito e completo sulla sua opera.

Biografia

Nina Nikolaevna Berberova nasce a San Pietroburgo l’8 agosto 1901, da padre armeno, funzionario statale, e madre russa di origini nobiliari2; frequenta un istituto scolastico all’avanguardia, e proprio negli anni del liceo decide di intraprendere la carriera letteraria, comincia ad entrare in contatto con la letteratura del ‚secolo d’argento‛ e a mostrarsi già molto critica nei confronti dello zarismo. Nel 1915 ha già scritto delle poesie e viene presentata ad Anna Achmatova e ad Aleksandr Blok dalla sua professoressa di francese, sorella di Georgij Adamovič3. Nel 1918 la famiglia si trasferisce a Mosca dove per la prima volta Nina conosce la solitudine e la fame, tra il 1919 e il 1920 studia a Rostov sul Don e in seguito, a causa della perdita del lavoro del padre, si trasferiscono in Armenia, dove frequenta la facoltà storico-filologica e nonostante le continue difficoltà inizia a sviluppare alcuni aspetti importanti del suo carattere, in particolare la caparbietà, e ad acquistare fiducia in se stessa. Ritornata a San Pietroburgo (in quel periodo Pietrogrado) nel 1921 Nina Nikolaevna entra in contatto con la cerchia dei giovani artisti e scrittori e filosofi russi tra cui Nikolaj Gumilëv e Vladislav Chodasevič4, e inizia a frequentare i circoli letterari ‚Casa delle

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“Porto come un dono del destino quella condizione per cui due sangui diversi, quello russo, settentrionale, e quello armeno, meridionale, si sono fusi in me, condizionandomi sin dall’infanzia. Questa contrapposizione, come un’intera serie di contrapposizioni e persino di contrasti che io riconoscevo in me, smise a poco a poco di essere causa di conflitti: cominciai a sentirla come unione di polarità e cominciai a compiacermi coscientemente di me stessa come di una «cucitura»”. Ivi, p. 37. 3 Nina Berberova à Paris et Longchêne, 09/07/2004, http://www.terresdecrivains.com/NinaBERBEROVA. 4 Елена ДРУЖИНИНА, Мы не в изгнании, мы - в послании, http://www.inkap.narod.ru/old_article/archiv_a011.html.

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Arti‛ (Dom isskustv) e ‚Unione dei poeti‛ (Sojuz poétov) e a scrivere racconti. Nel giugno del 1922 a causa delle forti repressioni e della fucilazione di alcuni loro amici, Berberova e Chodasevič, nel frattempo sposati, decidono di emigrare in Europa.

Che si potesse essere presi, imprigionati e messi al muro sembrava allora impensabile; però già tutti pensavano che presto sarebbero stati oppressi, tormentati, che gli avrebbero tappato la bocca e li avrebbero costretti a morire *<+, oppure ad abbandonare la letteratura5

Per i primi tre anni vagano tra Berlino – primo centro culturale degli emigrati russi, dove entrano in contatto con Andrej Belyj, Vladimir Nabokov, Marina Cvetaeva, Viktor Šklovskij, Boris Pasternak, Ivan Bunin6, – Saarow, Marienbad, Sorrento, dove sono spesso ospiti di Gor’kij7, e infine Praga e Belfast, per stabilirsi poi nell’aprile del 1925 nella periferia di Parigi, centro culturale dell’emigrazione russa dagli anni Venti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche qui la vita si rivela difficile dal punto di vista materiale, sono molto forti le preoccupazioni riguardanti il lavoro, data l’impossibilità di essere assunti come operai o impiegati a causa del passaporto internazionale, e quindi Berberova e Chodasevič sono costretti a svolgere lavori umili e malpagati, come per esempio infilare perle, per provvedere alle necessità fisiche di ogni giorno; ma Berberova si inserisce perfettamente nell’ambiente culturale parigino dell’emigrazione russa: collabora a numerose riviste tra cui ‚Sovremennye Zapiski‛ (1920-40), di impostazione socialista-rivoluzionaria, che ospita soprattutto scrittori già affermati in madrepatria, ‚Volja Rossii‛ (1922-23) rivista praghese orientata soprattutto al panorama letterario sovietico e aperta alla nuova generazione di scrittori, ‚Beseda‛ (1923-25), ‚Novyj korabl’‛ (1927), ‚Zveno‛ (1927), ‚Poslednie Novosti‛ con tendenze di sinistra, ‚Russkaja Mysl’‛ (1940-49) su cui spesso vengono anche pubblicate a puntate le opere degli scrittori in esilio. A Parigi entra in contatto con Georgij Adamovič, Vladimir Nabokov, Aleksandr Kuprin, Aleksej Remizov, Michail Osorgin, Anton

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Berberova N., Il corsivo è mio, cit., p. 147. Bethea D., Pljuchanova M., La letteratura dell’emigrazione, in Colucci M., Picchio R. (a cura di), Storia della civiltà letteraria russa. Vol. 2: Il Novecento, UTET, Torino 1997, XII, p. 408. 7 Ibid. 6

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Ladinskij, David Knut, Il’ja Fondaminskij e tanti altri8, inizia a pubblicare i suoi primi racconti brevi in una raccolta intitolata Le feste di Billancourt (Bijankurskie prazdniki 1928-40) che parlano principalmente di emigrati russi che lavorano nelle fabbriche della Renault e che comunque gravitano all’interno del quartiere di BoulogneBillancourt alla periferia di Parigi, della loro vita misera e disperata, anticipando quindi il tema che porterà avanti per il resto della sua opera. Proprio negli anni Trenta si afferma con la maggior parte dei suoi racconti: Gli ultimi e i primi (Poslednie i pervye 1930), La Sovrana (Povelitel’nica 1932) romanzo introspettivo, il suo primo racconto lungo intitolato L’accompagnatrice (Akkompaniatorša 1934), Il lacchè e la puttana (Lakej i devka 1937), Felicità (Kniga o sčast’e 1938) e Alleviare la sorte (Oblegčenie učasti 1938), ma anche le biografie su Čajkovskij (1936), su Borodin (1938), su Aleksandr Blok (1947, unico libro scritto in francese), il reportage sul caso Kravčenko9 e il romanzo Myc Bur’ (Il capo delle tempeste, 1950). Nel 1932 la relazione sentimentale tra i due scrittori finisce10 e nel 1939 Chodasevič muore, mentre nel 1938 Berberova si trasferisce a Longchêne, nella campagna a sud-ovest di Parigi con il secondo marito, il pittore Nikolaj Makeev dal quale divorzia nel 1947. Nel ’50, finita la Seconda Guerra Mondiale, Berberova decide di trasferirsi in America, essendo rimasta profondamente delusa dalla freddezza della vita intellettuale francese e dalle difficoltà materiali incontrate11. Stabilitasi a New York, entra in contatto ancora una volta con gli ambienti legati all’emigrazione russa della città. Nel 1954 sposa il musicista Georgij Kočevickij da cui divorzierà nel 1983. Collabora con le riviste ‚Mosty‛ (1958-68) e ‚Novyj Žurnal‛, dal 1958 al ‘62 insegna letteratura russa alla Yale University e dal 1963 al ‘77 alla Princeton University. Scrive i racconti Il giunco mormorante (Mysljaščij trostnik 1958) e Il male nero (Čërnaja bolezn’ 1959), la commedia Malen’kaja devočka ( Bambinella 1962), la sua biografia Kursiv moi (Il corsivo è mio 1960-66) e Storia della Baronessa Budberg (Železnaja Ženščina 1981). È invece del 1983 la pubblicazione di una raccolta di poesie

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Guerra R., L’emigrazione russa dagli anni Trenta agli anni Sessanta, in Etkind E., Strada V. (a cura di), Storia della letteratura russa, 3 v. Il Novecento, Einaudi, Torino 1989-1991, p. 131. 9 Русское зарубежье. Золотая книга эмиграции. Первая треть ХХ века. Энциклопедический биографический словарь, Российская политическая энциклопедия, москва 1997, С.75-77. 10 Berberova N., Il corsivo è mio, cit., p. 372. 11 Cfr. Livak L., Nina Berberova et la mythologie culturelle de l’émigration russe en France, «Cahiers du Monde Russe», 42/2-3, Avril-Septembre 2002, p. 464.

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scritte fin dal 1921. Nel 1985 la casa editrice francese ‚Actes Sud‛ acquista i diritti su tutta l’opera della scrittrice, dedicandosi ad una pubblicazione sistematica coronata dal successo, vista anche la rapidità con cui verrà tradotta in molte altre lingue. Nel 1989 Berberova ritorna ancora una volta in Russia, visitando Mosca e Pietroburgo, ma ne rimane fortemente delusa. Muore in ospedale il 23 settembre 1993 a 92 anni, a Filadelfia in Pennsylvania.

1 - La condizione dell'emigrato: la nostalgia

Nonostante la diversità delle vicende narrate, i racconti di Nina Berberova conservano un solido nucleo ricorrente, come il punto di partenza da cui tutti gli eventi e gli accadimenti sono destinati a prendere vita. In particolare, i personaggi che si muovono in essi sono sempre dei russi, spesso di San Pietroburgo, che emigrano a Parigi o eventualmente negli Stati Uniti; molto raramente, e solo per brevi periodi, in altri paesi. Ma non si tratta semplicemente di una questione geografica. Persino il tempo ne è segnato, come cristallizzato, e così ecco che tutte queste vicende si depositano forzatamente negli anni che intercorrono tra il 1915 e il 1950: in primo luogo, quelle ambientate in territorio russo, che si sviluppano più precisamente a partire dagli ultimi anni del regno dello zar Nicola II e dalle due rivoluzioni del 1917 a Pietrogrado – in pratica la nascita dell’Unione Sovietica – fino ai primi anni della dittatura di Stalin; in secondo luogo le altre, la maggior parte delle quali europee, ambientate tra il primo ed il secondo dopoguerra. Chiaramente, ciò non può che comportare la presenza di molti elementi autobiografici all’interno dei racconti, sia come sporadiche comparse legate alla vicinanza con la narrazione, sia come veri e propri motivi scatenanti la stessa. E' bene ricordare che la stessa Berberova si sposta per la Russia e in Armenia con la sua famiglia, per poi errare nelle maggiori città europee, fino a stabilirsi a Parigi con il marito Chodasevič, e successivamente negli Stati Uniti. C'è un sapore di vissuto, una traccia di ricordo nelle vite di miseria e di privazioni, nella tristezza e in 7


quell'impressione di non avere una via d’uscita che si trovano nella sua opera, come se lei stessa li avesse provati, prima che sulla carta, sulla superficie esposta della propria pelle. Tuttavia non bisogna lasciarsi troppo trarre in inganno dalle somiglianze di questo percorso: laddove ricordo ed immaginazione si incontrano, è meno la storia ad imporsi che lo stile a dettare le proprie regole. La forza e l’originalità di Nina Berberova sono quelle di essere scrittrice dell’emigrazione. Una scrittura dell'emigrazione, dunque, che non si mostra tale soltanto nelle proprie tematiche, ma che in qualche modo segue anche fedelmente la stessa sorte della mano che la scrive. Scrittura senza riposo, frenetica, testimoniata dall’incessante produzione così come da un'indecisa erranza tra la finzione, la biografia e l'autobiografia. Scrittura costretta all'emigrazione, a non trovare pace, a non rivedere la patria, nemmeno in sogno, caratterizzata dal rifiuto di fare del passato il proprio rifugio, di fare della nostalgia il manto sotto il quale nascondersi e isolarsi12. Al contrario invece, i suoi sono personaggi inquieti, erranti, si interrogano spesso sul senso della propria esistenza, così come su quelle sensazioni di solitudine, di inautenticità e di noia che li invadono proprio laddove nessuna terra e nessuna famiglia sono prossime a proteggerli. Ciò che in qualche modo li assedia senza tregua è, per usare le parole di Andrej Tarkovskij,

una profonda e sempre più spossante malinconia che ci attanaglia, permeando ogni istante dell’esistenza, quando siamo lontani da casa e dai nostri cari. Si tratta di un sentimento ossessivo, che diventa fatale, della propria dipendenza dal passato, di una sorta di sempre più intollerabile malattia il cui nome è ‚nostalgia‛ *<+ Ciononostante vorrei mettere in guardia il lettore dall’identificazione dell’autore col suo protagonista lirico: la cosa, infatti, risulterebbe troppo semplicistica. L’utilizzazione delle proprie immediate sensazioni esistenziali nella creazione artistica è naturale: non disponiamo, purtroppo, di altre esperienze! Tuttavia il fatto che si attingano stati d’animo e soggetti dalla propria vita il più sovente non costituisce un fondamento per istituire un forzato collegamento tra l’artista e i suoi personaggi. Forse ciò deluderà qualcuno, ma

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Cfr. Armaganian-Le Vu Gayaneth, Le thème de l’émigration dans l’œuvre en prose de Nina Berberova: mémoire et création, Thèse Doctorat : Études Slaves, 1999. Paris 4, p. 67.

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l’esperienza lirica dell’autore raramente coincide con i fatti della sua esistenza quotidiana13

La differenza sta nella risposta ai cambiamenti: questi personaggi sono esattamente l’opposto di quello che è stata Berberova, che scrivendo le loro storie ha dato vita al proprio io creativo, positivo e completo capace di integrare il passato ed il presente, quindi esorcizzando il suo destino. Forse sono proprio questo suo distacco deciso dalla nostalgia della patria, e questa ironia sempre presente con cui ce li descrive che le permettono di narrarci queste storie.

Assai sovente accade che una grande opera nasca dallo sforzo compiuto dall’autore di superare i propri punti deboli, un superamento che non significa eliminazione, bensì esistenza nonostante essi.14

La maggior parte dei protagonisti dei racconti sono donne, di solito di mezza età, ma non mancano nemmeno gli uomini, e grande importanza è data anche ai personaggi secondari. Quasi tutti presentano dei tratti comuni, il loro esilio è un esilio fisico ma anche metaforico: essi non sono capaci di fondere quel passato ormai perduto con il presente in cui errano, e vi si aggrappano a tutti i costi determinando il proprio fallimento nella vita quotidiana. Questo disimpegno a vivere nel presente li rende tutti delle ‚persone fantasma‛, di troppo. ‚L’immagine della patria lontana fa della nostra presenza al mondo una presenza distratta, una presenza assente‛15. Anche i personaggi che in apparenza sembrano riuscire a trovare il loro posto nella società forse sono quelli il cui fallimento è più evidente nel loro inutile tentativo di cancellare ogni legame col passato e con le loro origini russe. È bene notare che i russi non sono dei semplici emigrati, come potevano esserlo gli italiani nello stesso periodo a Parigi. Essi sono sì alla ricerca di un miglioramento delle condizioni di vita ed economiche, ma sanno che non potranno mai più tornare in

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Tarkovskij A., Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988, p.183. Ivi, 42. 15 Jankélévitch V., La nostalgia, in Prete A. (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992, p.127. 14

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patria. La loro è una partenza definitiva, irreversibile, hanno fatto dell'erranza, forzata o meno, la loro condizione esistenziale. Le storie che ci vengono narrate sono profondamente tragiche: questi emigrati hanno rifiutato il nuovo regime e quindi non sono accettati nel loro paese di origine. Ma nemmeno lo sono nel nuovo paese, sono estranei ovunque. E ora questo dolore e quest’impossibilità di comunicare in un’altra lingua li avvolge in una nebbia di sospiri, di parole indicibili e chiuse in questa incomunicabilità. Qui si radica e rimane tutta l’intensità della loro solitudine e angoscia. Sono personaggi che non parlano ma mormorano solamente. Non hanno da dire, non sanno cosa dire, non posseggono altro che questo mormorio, appunto, un soffio d'alito che testimonia dopotutto della semplice, irriducibile presenza. E questo nonostante ogni difficoltà, nonostante gli spazi sempre più angusti. A tutti è chiaro che è ormai diventato impossibile vivere in Russia sotto il regime sovietico, ancora meno è possibile vivere fuori. Ma forse la patria tanto sognata in realtà non è mai esistita, è una Russia idealizzata, ed è per questo che la loro condizione è senza via d’uscita. Ricordo, immaginazione, desiderio, questi sono gli ostacoli più ardui che essi trovano a sbarrare la propria vita. Già prima di emigrare Vera in Felicità è ben cosciente che forse la patria alla quale tanto è legata non è mai davvero esistita: ‚Come prima l’emisfero orientale pendeva sul divano, e la Russia, la Russia in tutta la sua estensione, era colorata di verde, ma si trattava di un inganno, perché quella verde Russia non esisteva.‛16 Dopo la rivoluzione bolscevica e le due Guerre Mondiali, il mondo al quale facevano riferimento gli emigrati si sgretola e il desiderio di tornare in patria è qualcosa che rimarrà sempre deluso, non ci si sentirà mai più a casa, non si ritroverà mai più ‚il proprio posto‛. Ed è proprio da qui che muove il paradosso della nostalgia degli emigrati russi, la loro ‚nostalgia è irrazionale perché è sproporzionata rispetto alla sua causa; perché in realtà non ha ‚causa‛ ‚17, si illudono che se potessero tornare ritroverebbero quello che hanno lasciato, ma in fondo capiscono benissimo che il ritorno non sarà la soluzione.

16 17

Berberova N., Felicità , TEA, Milano 1998, p. 45-46. Jankélévitch V., La nostalgia, op. cit., p. 133.

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Nelle fantasmagorie dell’esilio, nelle sue raffigurazioni, è l’immagine della partenza che si costituisce – nel tempo della lontananza – come soglia e origine di un rimuginare che è vocazione, desiderio, dolore per l’impossibilità del ritorno. *<+ La partenza, per l’esiliato, ha raccolto tutto lo spazio dell’origine. 18

Dunque la partenza, l’addio alla terra natale non è assolutamente percepito in modo romantico, ma come una frattura che sancisce l’impossibilità di un ritorno, è qualcosa di bruciante che investe tutta la persona e che cambia completamente la sua vita futura. Non è affettato, ma è perforante, improvviso, ‚l’uomo, quando gli si fa cambiar posto o paese, fa l’esperienza di uno strappo crudele‛19 La Russia è lontana, inavvicinabile, gli antichi splendori di molte famiglie spazzati via per sempre, i sogni degli intellettuali di poter ricostruire un pezzo di quel mondo fuori di esso vani, la speranza di rientrare in patria accettati dal nuovo regime ma senza compromessi con esso del tutto inesistente. Il ‘paradiso perduto’ della terra di origine resta pesantissima e tragica eredità soprattutto psicologica di un’intera generazione, che preferisce rifugiarsi in ciò che ne è rimasto nella memoria, incapace di perdonare a quella l’abbandono e a se stessa la fuga.

Tutti conoscono lo straniero che sopravvive con lo sguardo volto al paese perduto delle sue lacrime. Innamorato melanconico di uno spazio perduto, egli non si consola effettivamente di avere abbandonato un tempo.20

Nei racconti alcuni personaggi si sentono visceralmente legati alla Russia, tanto da condividerne il destino di rovina. In Gli ultimi e i primi Aleksej Ivanovič Šajbin, dopo aver passato molti anni al servizio della guardia bianca ed essere ritornato a casa parzialmente invalido a causa dei combattimenti, si sente così intimamente parte della Russia e del passato da dire, in risposta alla proposta da parte del vecchio amore Vera Kirillovna Gorbatova, di voler lavorare per riscattarsi e salvarsi:

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Prete A., Trattato della lontananza, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 28. Jankélévitch V., La nostalgia, op. cit., p. 122. 20 Kristeva J., Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990, p. 16. 19

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«Da cosa?» «Dalla morte». «Perché, quand’è morta la Russia?». *<+ «Sì, io sono la Russia e affonderemo insieme». «Fermatevi. La Russia è eterna, risorgerà. E voi invece, dove sarete voi allora?»21

«Volete lo stesso destino della Russia, benché il destino della Russia, e di conseguenza anche il vostro futuro, sia assai cupo. Be’, Vasja è privo di appigli e non ha la Russia alle spalle. E in questo terrore indicibile cerca le proprie radici e si rifiuta di morire».22

Vasja è il figlio di Vera Kirillovna, che pur avendo vissuto in Russia solo da piccolo vorrebbe tornarvici perché sente di avere proprio là le sue radici. È il desiderio di appartenere a una comunità, di sentirsi parte di un unico movimento, accogliente così come rassicurante, quasi un secondo spazio materno. Ma Berberova comprende, senza dubbio molto presto, che far parte di una comunità di esiliati, fosse anche di esiliati fieri della loro differenza, va a cancellare le singolarità di ciascuno, nel momento in cui sotto questa cappa di appartenenza le componenti e le particolarità di ogni esistenza sono come cancellate. È merito del filosofo Jean-Luc Nancy aver mostrato come questo desiderio di appartenenza e di ritorno sia in qualche modo cifra costitutiva dell'individuo occidentale, a causa del suo doppio retaggio prima classico (si pensi ad Ulisse errante che desidera un ritorno impossibile) e poi cristiano (la fraternità col divino, con i beati, persa con il peccato originale):

In ogni momento della sua storia, infatti, l’Occidente è già sempre consegnato alla nostalgia di una comunità più arcaica e ormai scomparsa, al rimpianto di una familiarità, di una fraternità e di una convivialità perdute.23

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Berberova N., Gli ultimi e i primi, Passigli, Firenze-Antella 2002, p. 29. Ivi, 37. 23 Nancy Jean-Luc, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli 2003, p. 34. 22

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Ma questa perdita, così come si è costruita nei secoli, così come si è cristallizzata a tal punto da essersi resa inscindibile dai desideri stessi degli individui, dai loro ricordi, allo stesso modo resta dato fondamentale, ineliminabile. Ogni tentativo di ritornare ad essa, o di sopperire al vuoto con cui essa si mantiene, non può che essere votato al fallimento. Incisivo è il caso di Boris in Roquenval, un ragazzo di origini russe che non ha mai visto la Russia, ma prova una certa attrazione per il castello di Roquenval nell’Îlede-France, di proprietà di una famiglia nobile decaduta, le cui radici russe si sono perse nel corso del tempo. Questo alone di ‚Russia‛ che sente aleggiarvi intorno lo cattura a tal punto da indurlo a pensare, durante la sua prima visita: ‚provai una gioia immensa, dato che ormai mi ero rassegnato all’idea che non avrei mai visto e conosciuto la Russia vera‛.24

Lo guardavo e aspettavo che davanti a me si spalancasse la Russia, quella Russia che stormiva nel viale di tigli di Roquenval ed era fuggevolmente balenata nel nome di Praskov’ja Dmitrievna, seduta sulla poltrona alle mie spalle.25

Boris sarà l’ultimo, finito il soggiorno delle vacanze estive, a rimanere nel castello vuoto e decadente, le cui pareti di legno poco a poco vengono rose dai tarli e i cui arazzi sono stati strappati; andandosene commenterà dicendo: ‚in quel mattino sembrava il monumento a un mondo che da tempo non esiste più né qui, né nel mio paese, né in nessun altro luogo.‛26 In realtà quello che manca a questi personaggi non è la Russia in particolare o una particolare epoca, ma sentono il bisogno di radici, di appartenere a una comunità, provano una nostalgia che sembra inspiegabile quanto difficilmente definibile. ‚Nostalgia di un impossibile approdo. Desiderio del paese che si ignora. Fascino di quel che sta, come spina e insieme come sogno, come alterità priva di promessa, nel cuore del visibile e del presente.‛27

24

Berberova N., Roquenval: cronaca di un castello, Guanda, Parma 2005, p. 10. Ivi, 23. 26 Ivi, 77. 27 Prete A., Trattato della lontananza, op. cit., p. 169. 25

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La figura dell’emigrato che ci viene descritta è quella di una persona spogliata del proprio territorio, dei propri affetti, della propria lingua, e che in cambio ottiene solo un forte dolore per l’impossibilità del ritorno in patria, come se pure quella gli fosse stata sottratta, come se ormai solo un'immagine, una rappresentazione fantasmatica ne testimoniasse la traccia. Nemmeno gli è permesso di avere notizie dei parenti rimasti, di mantenere seppur fugaci relazioni con il passato. Esule immerso in un mondo nuovo e straniero a cui non riesce ad adattarsi,

avverte con particolare acutezza la propria condizione di ‚estraneo‛ che guarda la vita altrui dall’esterno, oppresso dai ricordi del passato che affiorano ossessivamente nella sua memoria con i volti dei suoi cari, con i suoni e gli odori della sua casa paterna 28

È quindi talmente prigioniero della propria vita passata da sentirsi posseduto da un’impotenza creatrice: dovendosi scontrare con la dura realtà di tutti i giorni, il quotidiano dell’emigrato non è fatto che di nostalgia e di sogni, un’impotenza e una nostalgia sterile che spesso vengono deviate, stornate con i mezzi più eccessivi. Molti dei personaggi, soprattutto maschili, nella prosa di Berberova ci vengono descritti come degli individui completamente distrutti, incapaci di vivere al passo della loro stessa vita fuori dalla Russia, visceralmente attaccati a qualcosa che non possono ritrovare, profondamente tragici non per la vita nei sobborghi poveri e sporchi di Parigi, o per l’alcol che sempre li accompagna, ma per i loro sguardi e il loro modo di ridere che spesso sembra più un pianto, non si preoccupano più di vivere dignitosamente, ma aspettano questa fine ineluttabile che sembra però non essere poi così vicina, sempre troppo lontana per quanto la si desideri. Ecco allora lo stordimento, la rovina, la disfatta. Fanno parte di questa cerchia molti personaggi secondari che troviamo nei racconti di Berberova come in Pianto, dove il padre di Saša, provato rapidamente dalla morte

della moglie, l’abbandono da parte della figlia maggiore

Ariadna,

dall’emigrazione a Parigi e da una vita piena di miseria e di privazioni, sembra

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Tarkovskij A., Scolpire il tempo, op. cit., p. 180.

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davvero cedere, come se qualcosa dentro di lui si sia irreparabilmente spezzato. Terminato il movimento dell'immaginazione, cadute le ultime illusioni che sostenevano i ricordi, il pensiero di non poter mai più tornare indietro, la sensazione definitiva della perdita lo rendono pazzo:

Mio padre, che per i primi sette anni aveva lavorato come guardiano in un garage a vari piani e poi come fattorino in una pasticceria, era rimasto senza lavoro. Ma non avrebbe più potuto lavorare in ogni caso, né cercava alcuna occupazione. I suoi racconti da matto erano sempre gli stessi, senza né capo né coda, come una volta amava trarre in inganno le persone a cui si rivolgeva. Ma ora, alla fine di ogni aneddoto, si voltava verso di me in mezzo alle lacrime e diceva: ‚Oh, figlia mia, mia Cordelia!‛ Quando non ero con lui, lo diceva voltandosi nella direzione dove, secondo lui, mi dovevo trovare.29

In seguito, sempre più isolato e chiuso in se stesso, morirà con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, come se il colpo questa volta fosse troppo grande, come se quest’ultimo cambiamento repentino gli fosse stato fatale. Ma forse la situazione peggiore non è quella di chi non ce l’ha fatta, bensì di chi ancora resiste suo malgrado, nonostante le difficoltà e che si consuma piano piano aspettando la fine. Come zia Varvara che una volta faceva la cameriera e poi, dopo essere scivolata e rimasta zoppa è costretta a svolgere qualsiasi tipo di lavoro, i suoi conoscenti russi sono ormai vecchi e portano su di loro i segni della fatica della vita, ‚Ormai del tutto incanutiti, calvi, sdentati rauchi, bevevano e cantavano (vodka, una chitarra) con le loro donne di sempre (alcune da tempo nonne), a una festa per Natale‛30.

Varvara, borbottando qualcosa, aggiustava e rammendava, lavava e faceva da mangiare: in agosto restava sempre senza lavoro e non riusciva mai a darsene pace, si lagnava di continuo, malediceva l’estate e la propria inutilità. 31

29

Berberova N., Pianto, in Id., Alleviare la sorte, Feltrinelli, Milano 2004, p. 101. Ivi, 108. 31 Ibid. 30

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Lei stessa si rende conto della pateticità dei suoi amori ormai piuttosto attempati, della gelosia dei suoi pretendenti, dello squallore delle serate passate insieme seduti al tavolo della cucina a bere e fumare, e ad un certo punto chiederà alla nipote di non giudicarli, ‚Aleksandra Evgen’evna, non sia severa con noi se ci comportiamo come ragazzini. La passione è vita, come disse uno spagnolo‛32, come se fosse cosciente che non è la perdita di dignità a segnare l’irreparabile e il punto più basso: per loro non c’è via d’uscita possibile, nessun ritorno, nessuna risalita. Questo, dopo tutto, è il destino che si è costretti a condividere con coloro che si sono staccati dalla Russia. Questi personaggi non sembrano aver compreso l’impossibilità del ritorno. Non si tratta di una questione meramente geografica, a cui si può rimediare con un altro viaggio, fosse anche sui propri stessi passi, fosse anche percorrendo gli itinerari dei propri ricordi e dei propri desideri. Come scrive Antonio Prete,

Di fatto non si ha nostalgia di un luogo ma del tempo vissuto in quel luogo. Se nell’ordine dello spazio possiamo muoverci da un punto all’altro, o tornare da un punto d’arrivo al punto di partenza, non possiamo fare altrettanto nell’ordine del tempo: questa discrasia è il fondamento dell’impossibilità del nostos, e del dolore per quella impossibilità. Posso rivisitare il me stesso di un tempo solo nel ricordo, e il ricordo è sempre sfumato, privo di contorni definiti, fuggitivo. 33

Per questo motivo sono impossibilitati ad adattarsi, dentro di loro mai si è spento il pensiero che va continuamente alla Russia, il desiderio di poter tornare indietro. In questo assomigliano molto ai personaggi che rappresenterà più avanti Tarkovskij nei suoi film:

Volevo parlare della nostalgia dei russi, cioè di quel particolare e specifico stato d’animo che si crea in noi russi quando siamo lontani dalla patria. Volevo parlare del fatale attaccamento a queste cose che essi portano con sé per tutta la vita,

32

Ivi, 116.

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indipendentemente da dove li abbia condotti il destino. I russi raramente sono capaci di cambiare natura e di adattarsi alle nuove condizioni di vita. 34

Solamente riuscendo a comprendere l’impossibilità di un ritorno in quanto ‚L’oggetto della nostalgia non è questo o quel passato bensì il fatto del passato, in altre parole la passatità‛35, si può davvero cercare una soluzione a questa condizione disperata e senza via d’uscita in cui si trovano questi personaggi esiliati. Vedremo come solamente una piccola parte di loro alla fine riuscirà a farcela, a sopravvivere, letteralmente, alla catastrofe.

33

Prete A., Trattato della lontananza, op. cit., p. 83. Tarkovskij A., Scolpire il tempo, op. cit., p. 179. 35 Jankélévitch V., La nostalgia, op. cit., p. 140. 34

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2 – Tentativi di riscatto 2.1 - Il lavoro

Un aspetto molto importante nella vita dell’emigrato è il lavoro. È questo in qualche modo ad innestarlo nel nuovo tessuto sociale, a deciderne, si può dire, il suo prossimo destino. Purtroppo, trovandosi in un paese straniero, penalizzati a causa della lingua, così come dalla mancanza di conoscenze, molte volte capita che ci si trovi a far fronte a difficoltà burocratiche insormontabili, anche solo per ottenere i documenti necessari36. Questo determina inevitabilmente l’impossibile riscatto delle condizioni economiche degli emigrati, costretti così a trovare occupazioni piuttosto umili e non gratificanti. Aleksej Grigor’evič Astašev, ad esempio, in Alleviare la sorte, prima che diventasse agente di assicurazioni sulla vita:

lavare i piatti in un ristorante, fare il fattorino in una pasticceria russa, andare di porta in porta a vendere aspirapolvere? Questi lavori li aveva fatti tutti, infreddolito e affamato, tremando per ogni centesimo guadagnato.‛37

Molti immigrati tuttavia seguiteranno a svolgere lavori umili fino alla fine della loro vita, come Saša, stiratrice in Pianto; o Katja e Ivan in La sovrana, rispettivamente sarta a domicilio e taxista notturno. E ancora Tanja ed il tenente Bologovskij in Il lacchè e la puttana: lei si arrabatta come può ricamando o facendo piccoli lavori su commissione, mentre lui lavora come cameriere in un ristorante russo. Si potrebbe continuare ancora per molto, ma si mancherebbe comunque la questione fondamentale: cosa significa per l’emigrato il lavoro? Si tratta dello stesso significato che interessa l’uomo qualunque o qualcosa cambia in questo rapporto, a causa dell’esilio? In primo luogo, si può notare come molti di loro non si sentano degradati dallo svolgere mansioni che nessun abitante autoctono svolgerebbe. È il caso di Evgenij

36

Cfr. Armaganian-Le Vu Gayaneth, Le thème de l’émigration dans l’œuvre en prose de Nina Berberova: mémoire et création, op. cit., p. 116. 37 Berberova N., Alleviare la sorte, Feltrinelli, Milano 2004, p. 18.

18


Petrovič in Il male nero, il quale una volta trasferitosi da Parigi a New York lavora come segretario per l’anziano Lev L’vovič Kaljagin, ma allo stesso tempo accetta di preparargli la cena, di scegliere i vestiti, ordinare la camera e ascoltare di tanto in tanto le sue confidenze. Non è solamente un’umiliazione, ma anche uno dei modi apparentemente più facili per riscattarsi. In La sovrana Ivan cerca di lavorare il più possibile per pagare gli studi al fratello minore Saša, nella speranza che una volta conclusisi brillantemente, essi gli permettano di lavorare in uno studio legale specializzato in diritto internazionale. Dal canto suo Saša è talmente immerso nello studio da dimenticare che cosa ci sia d’altro da vivere, come se lo studio facesse da cuscinetto tra lui e il resto della vita, come se non avesse dei desideri particolari: semplicemente si ‚piega‛ alle cose così come vengono. È solo nel momento in cui l’amore entrerà nella sua vita, come un intruso, che se ne renderà conto. Solo allora si accorgerà della pressione di tutto ciò che è contingenza:

gli sembrava di non vivere pienamente, ma solo per un decimo; non gli era facile abituarsi all’idea che tutto ciò che faceva e tutto ciò che pensava si limitasse a portarlo a una meta, senza avere di per sé valore, quasi vivesse nel malsano torpore di un’attesa 38

Un altro studioso infaticabile è Astašev in Alleviare la sorte: già da piccolo passava tutta la settimana chiuso nella sua camera a studiare i manuali degli anni successivi al suo: sarà proprio questa tenacia, cieca ed infaticabile, ad assicurargli una vita agiata da scapolo, anche a Parigi. Dentro di sé ha sempre sentito un forte disprezzo per tutto ciò che è russo: ‚io sono nato europeo, e vivere in Russia mi sarebbe sembrato grottesco‛39; non è assolutamente interessato alla letteratura, e addirittura da piccolo barattava i classici russi della madre per i manuali scolastici. Per arrivare ai suoi scopi non trova metodo migliore che rinnegare le proprie origini e cercare di acquisire una naturalezza propria solo dei francesi: vuole perfezionarsi sempre più nella lingua per poter non essere

38 39

Berberova N., La sovrana, Adelphi, Milano1996, p. 70. Berberova N., Alleviare la sorte, cit., p. 10.

19


riconosciuto come straniero ‚Ormai conosceva anche in francese la gamma di espressioni adatte in simili situazioni, tanto più che negli ultimi tempi pensava più spesso in francese che in russo‛40, e cerca il più possibile di frequentare solo francesi, perfino il suo ideale di bellezza ne è influenzato. Ma la contraddizione è già palese se si guarda il suo passaporto: ‚’Francese nell’anima’,

diceva

spesso,

ma

il

passaporto

era

rimasto

quello,

inutile,

internazionale‛41; inoltre, nonostante i suoi grandi sforzi per assimilarsi alla cultura circostante, Ženja si innamorerà di lui proprio in quanto russo: ‚tutto le piaceva e la illanguidiva in lui, dal nome che portava fino alla sua natura russa che nessuna espressione francese poteva nascondere‛42. È chiaro come il suo tentativo è fallito, portandolo solamente ad una dimensione umana senza radici, che sembra essere causa ed effetto allo stesso tempo, della sua spietatezza e aridità spirituale43. È in Gli ultimi e i primi però, che il lavoro riveste maggiormente importanza: Vera Kirillovna e i suoi tre figli Il’ja Stepanovič, Mar’janna e il fratellastro Vasja dopo essere emigrati a Parigi, decidono di spostarsi in Provenza per lavorare la terra come operai agricoli; sono disposti a sopportare le più grandi fatiche per poter risparmiare e sognano prima o poi di avere i soldi per creare una piccola comunità russa. Il progetto si spinge così avanti che il figlio Il’ja riesce a mantenere rapporti con Parigi, nella speranza di trovare gente che voglia contribuire a questo progetto e organizzando loro il viaggio e il primo periodo di lavoro in campagna.

lo straniero potete riconoscerlo dal fatto che considera ancora il lavoro come un valore. Una necessità vitale certo, l’unico mezzo della sua sopravvivenza, che non aureola necessariamente di gloria ma che semplicemente rivendica come diritto primario, grado zero della dignità.44

40

Ivi, 25. Ivi, 32. 42 Ivi, 54. 43 Cfr. Kalb J. E., Nina Berberova: creating an exiled self, «Russian Literature», Volume 50, Issue 2, 15 August 2001, North-Holland, pp. 148-152. 44 Kristeva J., Stranieri a se stessi, op. cit., p. 22. 41

20


È chiaro come in questo contesto il valore del lavoro oltrepassi decisamente il vantaggio economico, sia un mezzo per riuscire un giorno a riscattarsi dalla condizione di esiliato, di straniero, nel tentativo di ricreare un ambiente più familiare e simile alla Russia, di riparare, per quanto possibile, alla perdita subita a causa dell’esilio. In questo libro spesso viene sottolineato il rapporto dei russi con la ‘terra’ come elemento che fa parte della vita di tutti i giorni; sembra che solo accettando questo e riappacificandosi con un’altra ‘terra’ – quella della Provenza – ci possa essere davvero la possibilità di non sentire quello strappo così forte dalla propria. Spesso tuttavia, nonostante una vita di duro lavoro e sacrifici, gli emigrati non sembrano trovare soddisfazione ai loro desideri. In Pianto, Saša lavora come stiratrice per tutta la sua giovinezza, mantiene il padre e la zia sacrificandosi completamente a loro e piegandosi a questa vita che mai avrebbe immaginato così vuota; mette da parte dei soldi sognando un giorno di poter visitare l’Italia che le piace così tanto, ma quando muore il padre è costretta ad usarli per il funerale, con grande sorpresa della zia Varvara che mai si era immaginata che qualcuno nella sua famiglia fosse così previdente da risparmiare dei soldi:

‚Ma che sei, francese, forse? Da dove ti è venuto? Ma guardala, la nuova generazione, sono macchine, non esseri umani, non hanno nessuna passione, nessuna follia, solo ragione, solo calcolo < E noi, noi invece! Sì, si può dire, sapevamo vivere bene, non pensavamo al domani, ci fregavamo da soli *<+ Alla tua età io pensavo solo a divertirmi.‛45

In questa reazione è racchiusa la differenza che passa tra la generazione più anziana di emigrati e quella dei loro figli che in Russia hanno vissuto ben poco: i primi, già di una certa età, si lasciano andare davanti ad un cambiamento troppo grande e repentino e non riescono ad elaborare un nuovo modo di vivere; i più giovani invece, avendo ancora davanti a loro la maggior parte della loro vita, e non trovando un appoggio nella generazione precedente, sono costretti a provvedere a loro stessi e

45

Berberova N., Pianto, cit., p. 112.

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spesso anche ai familiari, devono per forza adattarsi alla nuova realtà e trovare un modo per cavarsela come possono. Tuttavia non sempre questi sforzi hanno buon esito, e così per Saša, quando il bagliore intravisto nella speranza di un viaggio sfuma definitivamente a causa delle spese per il funerale del padre, la vita continua sempre uguale, sempre più soffocante e triste, sembra che il tempo sia tornato indietro e tutto assomigli alla Russia

Non avevo scoperto nulla qua, che tutto quello che avevo in me c’era già là: la conoscenza della vita, la disperazione della solitudine, i miei sentimenti segreti ed elevati, le lacrime, le idee, il coraggio tenuto di nascosto a tutti: tutto ciò lo avevo portato con me, tutto ciò mi era stato donato in Russia, ed ero rimasta così per sempre. 46

bisognava convincersi a forza che si era a Parigi seta, pizzi e champagne, e non a Obojan’ non a Čeboksary, in mezzo alle armate bianche e alle armate rosse, non nel venti, ma nel quaranta, nel quarantuno e nel quarantadue e che la terra girava come un tempo intorno al sole47

In fondo Saša si rende conto del peso di questo passato di cui non ci si libera mai, ma dal quale – in qualche modo – bisogna anestetizzarsi, e sembra accorgersi solo alla fine della mancanza di qualsiasi futuro o possibilità, mancanza alla quale si è condannata lei stessa con il suo rigoroso modo di vivere; nel tentativo di salvare se stessa e gli altri dalla miseria, di non lasciarsi andare all’apatia, ha perso però il suo lato più umano. Si è completamente dimenticata di vivere, ha semplicemente organizzato tutto nel modo più logico, evitando qualsiasi impaccio, ma dimenticandosi della bellezza della vita, della gioia che può portare. Si rende conto che la sua vita non è poi migliore di quella della zia e dei suoi conoscenti, semmai sembra essere ancora più vuota e desolata perché in realtà ha rifiutato di viverla fino in fondo.

46 47

Ivi, 102. Ivi, 115.

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2.2 – La vendetta

Non tutti gli emigrati di cui ci racconta Berberova hanno la forza di reagire in modo dignitoso 48; solo alcuni tentano in qualche modo di tornare ad essere parte di una comunità, e di sentire la prossimità delle nuove relazioni. Altri, al contrario, si lasciano pervadere dall’invidia e meditano altre vie per riscattarsi. Sonečka, in L’accompagnatrice, è figlia di una pianista e non ha mai conosciuto suo padre (il patronimico che essa porta non è altro, infatti, che l’invenzione della madre), anche lei suona il pianoforte e finiti gli studi comincia a lavorare, ma sempre saltuariamente, nel 1919 conosce la cantante Marija Nikolaevna Travina ed inizia a lavorare per lei come accompagnatrice; viene trattata con amicizia e rispetto, ma da subito si instaura un rapporto basato sull’invidia e sulla voglia di rivalsa nei suoi confronti. A causa del lavoro e della situazione politica saranno obbligate prima ad andare a Mosca e poi, dopo una serie di concerti in giro per la Russia, a trasferirsi a Parigi, dove Sonečka si troverà ancora più sola. Marija è una donna completamente opposta a lei, sembra aver ricevuto tutte le fortune della vita: è bella, ricca, gentile, di successo, ha un rapporto perfetto con suo marito e passando gli anni non invecchia ma semplicemente acquista più fascino, al contrario di lei che si descrive dicendo: ‚Non ero intelligente e neppure bella; non avevo vestiti costosi, non possedevo qualità eccezionali. Insomma non ero niente.‛49 Sonečka non riesce a sopportare questa differenza ed inoltre il suo ruolo di accompagnatrice la porta sempre in primo piano nei trionfi di Marija Nikolaevna, ma allo stesso tempo sempre un passo indietro rispetto a questa; a dir la verità molto più di un passo, come se lei non fosse nemmeno sullo stesso palco. Inoltre dal momento che è ormai la cantante ad influenzare e controllare tutta la sua vita, si crea un rapporto di possesso nei suoi confronti: la ama e la detesta allo stesso tempo, si identifica in lei e vorrebbe diventare come lei ma se ne dissocia50.

48

Cfr. Kalb J. E., Nina Berberova: creating an exiled self, op. cit., p. 143. Berberova N., L'accompagnatrice, Feltrinelli, Milano1996, p. 19. 50 Cfr. Paterson N. L., The Private I in the works of Nina Berberova, «Slavic Review 60», no. 3, University of Illinois 2001, p. 507. 49

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Ma l’irritazione di Sonečka per la perfezione della vita di Marija, per il modo impeccabile con cui affrontava le situazioni complicate e portava avanti la sua carriera la spinge a cercare un modo per incrinare questa sua felicità. È convinta che abbia un segreto da nascondere e seguendola scopre, infatti, che ha un amante: Andrej Grigor’evič Ber, un amico del marito Pavel Fëdorovič. Continua a spiarli nei giorni seguenti e sente una loro conversazione in cui parlano dell’impossibilità di stare insieme a causa del marito. A quel punto Sonečka decide che per poter veramente avere un ruolo nella vicenda, per lasciare finalmente un’impronta ed essere lei a decidere il corso degli eventi, ucciderà Pavel Fëdorovič.

Se avessi potuto regolare i conti in altro modo – attaccarla apertamente, portarle via Ber, far impallidire la sua voce a confronto del mio accompagnamento, fare in modo che non esistesse accanto a me, anche per una persona soltanto. Ma non avevo altri mezzi, dovevo vendicarmi selvaggiamente. 51

Eppure sembra che la vita ancora una volta si prenda beffa di lei e Pavel Fëdorovič, che aveva già scoperto tutto, si suicida proprio il giorno dopo con la pistola di casa. ‚Correvo verso casa, sentivo che dovevo sbrigarmi, che la vita, lì accanto, stava per superarmi‛52, anche questa volta il suo presentimento si rivela corretto, ‚quello che era accaduto, era accaduto senza di me, al di fuori di me, come se non fossi neppure esistita.‛53 Nonostante tutti gli sforzi non riesce a portare a termine il suo piano; tutto torna come prima, Marija Nikolaevna parte per gli Stati Uniti con Ber e lei si ritrova di nuovo sola, a Parigi dove ritrova la sua solitudine e la sua erranza, la miseria, il silenzio e un avvenire cupo che non lascia veramente intravedere una via d’uscita.

pensavo che era impossibile che quella fosse la stessa Parigi, che stavo sognando, che non era possibile che fossi sola in tutto il mondo, senza un essere umano, senza una

51

Berberova N., L'accompagnatrice,cit., p. 80. Ivi, 90. 53 Ivi, 94. 52

24


speranza, senza qualcosa che mi permettesse di vivere in mezzo agli altri – persone, animali, cose <54

Sonečka non ha patronimico e questo la differenzia da tutto il resto dei russi, ma nonostante sia ‚partita svantaggiata‛ l’autrice ci fa capire che è solo sua la colpa del fallimento. È talmente presa da quest’ossessione di fare del male a Marija Nikolaevna per poter regolare i conti con la vita, che nemmeno per un secondo riflette sulle conseguenze che potrebbero ricadere su di lei, non si preoccupa assolutamente di cosa voglia dire compiere un omicidio. Completamente assuefatta dal suo piano, cerca nel dolore degli altri il motivo di una sua felicità. La vicenda è raccontata con lucidità e freddezza, sempre con la stessa rassegnazione, attraverso un potente monologo interiore che strazia la protagonista; i suoi sentimenti, la sua miseria umana e le sue speranze lontane sono minuziosamente trascritti, e li viviamo con lei allo stesso tempo arrivando a comprendere la sua frustrazione. Apparentemente è un personaggio spento ma pieno di sentimenti sotterranei che cercano inutilmente in qualche modo di venire alla luce per essere ascoltati e che esplodono in questa volontà di affermazione nonostante tutto, che viene puntualmente disattesa. Anche in Il lacchè e la puttana ritroviamo lo stesso tema declinato questa volta sotto forma di storia d’amore vera e propria. Tat’jana Arkad’evna Sabunina dopo essersi trasferita prima in Siberia e poi in Giappone con la famiglia – dove conducevano una vita piuttosto agiata – ed essersi sposata poi con il pretendente della sorella, contro ogni logica decide di volersi trasferire a Parigi. Sfortunatamente lì il marito muore e lei si ritrova senza soldi, costretta a fare piccoli lavori che mai le consentono di guadagnare abbastanza per vivere dignitosamente e lasciare la sua stanza d’albergo. Vive relazioni piuttosto lunghe con degli uomini, ma invece che un’amante, come lei immagina di essere, viene considerata piuttosto come una prostituta, dato che sono proprio questi uomini a provvedere al suo sostentamento. Tanja cerca sempre un uomo che possa mantenerla, che la salvi da quella vita così dura che la priva ogni giorno della sua bellezza; la sua è una figura estremamente patetica,

54

Ivi, 101.

25


completamente volta a preoccupazioni esteriori, incapace di uscire dalla sua dimensione di banalità quotidiana. La sua occupazione principale è immaginare cosa possano pensare gli altri di lei e interessarsi a quello che dicono le sue poche amiche per cui prova una forte invidia:

E Tanja si sentiva mancare quando veniva a sapere che bastava un piccolissimo errore, una manica mal cucita, un colletto tagliato male, per rovinare un vestito e insieme al vestito il destino di una persona. 55

Berberova è impietosa nella descrizione degli inutili tentativi di Tanja di conservare la sua bellezza truccandosi in modo eccessivo, di cercare di trovare un uomo che la mantenga. Ogni sua debolezza ci viene mostrata dalle descrizioni del suo aspetto ormai vecchio, grasso e stupido, quelle che una volta potevano essere delle qualità adesso sembrano solo renderla volgare e patetica, ‚il disgusto – per sé, per lui – le spezzava l’anima. Non sapeva cosa fosse la vita, ma sentiva che non era quello, non poteva essere quello‛56, ed è forse proprio da questa situazione della quale Tanja è ben consapevole, pur senza ammetterlo mai, che matura il suo piano per riscattarsi. Sente la sua vita scorrere via sempre più, senza che lei abbia ottenuto ciò che voleva e inizia a meditare di suicidarsi e far ricadere la colpa sul tenente Bologovskij, cameriere in un ristorante russo che da alcuni mesi vive con lei, per vendicarsi di tutti gli uomini che non sono stati capaci di darle quella vita che tanto sognava. L’ispirazione la prende dalle pagine di cronaca nera dei giornali che ora legge insaziabilmente, la pistola la trova frugando nelle poche cose che Bologovskij ha portato nella sua stanza d’albergo e finalmente dopo un litigio le si presenta l’occasione: quando lui rientra lei lo aspetta con la rivoltella nascosta sotto lo scialle, ma poi non ha il coraggio di usarla e lui la uccide soffocandola. Anche questo è chiaramente un altro tentativo di autoaffermazione fallito irrimediabilmente a causa della continua esitazione che contraddistingue questi personaggi, che impedisce loro di agire, che li obbliga sempre ad essere spettatori e mai

55 56

Berberova N., Il lacchè e la puttana, Adelphi, Milano 2000, p. 24. Ivi, 69.

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autori del proprio destino, come se tutto fosse già stato deciso altrove, senza di loro. Sembra che il loro passato continuamente ritorni impedendo loro la realizzazione di qualsiasi cosa, e di conseguenza la possibilità di un futuro.

2.3 - L’amore

L’unico modo per affermarsi sembra allora l’amore, al quale molti personaggi si attaccano sperando che almeno questo possa salvarli, in assenza della speranza di ritornare nella propria patria; hanno bisogno almeno di un contatto ravvicinato con persone che abbiano vissuto le loro stesse esperienze. Attaccarsi all’amore sembra la cosa più naturale per il tenente Bologovskij, ormai vecchio e senza più notizie della sua famiglia, costretto a lavorare duramente per mantenersi. Bologovskij trova un rifugio in Tanja, e soprattutto in quel passato comune che condividono: entrambi di San Pietroburgo. Quando la incontra inizia a chiederle che gente frequentasse e disperatamente cerca di trovare un nome familiare, che possa legarli indissolubilmente, per ricreare in qualche modo un mondo perso per sempre di cui sente un grande bisogno. ‚Sempre più insistentemente, sempre più senza rendersene egli stesso conto, si aspettava aiuto dall’amore‛57, e questo lo porta ad illudersi che anche Tanja provi le stesse cose per lui e lo rende completamente succube. Altro personaggio analogo è Njuša Slëtova. Nel racconto Gli ultimi e i primi, Njuša ha inizialmente una relazione con Aleksej Ivanovič Šajbin, il vecchio amore di Vera Kirillovna, ma presto si innamorerà del giovane figlio di quest’ultima – Il’ja – di cui ammira la forza, la voglia di cambiare. Tuttavia sarà proprio il fatto che i due siano tanto diversi tra loro a dare a Njuša la misura della propria sconfitta, e della sua incapacità di risollevarsi da sola. È dalla differenza caratteriale dei due amanti che si può capire il processo di cambiamento che avviene nella donna:

il primo è

decisamente più anziano di lei ed è ancora legato in tutto il suo essere alla Russia, incapace di sentirsi a proprio agio in un paese diverso, e pertanto costretto a vagare fino in Africa alla ricerca di un posto dove vivere; il secondo molto più giovane, non

57

Ivi, 77.

27


solo si integra perfettamente nella comunità francese, ma cerca addirittura di cambiare la propria situazione e quella dell’intero villaggio russo attraverso un programma di coltivazione dei campi. È dall’amore per lui che spera di essere salvata: ‚una volta anche Njuša, con gioiosa disperazione, ci si era sentita soffocare; ma ora lei non voleva più soffocare, cercava una via di fuga‛58.

«Non devo né andarmene né restare, capite?» *<+ «Non posso vivere. Voglio vivere, voglio salvarmi, ma non posso uscire in alcun modo da questa situazione». ‚Tutto cambia, tutto passa < Non sapete ancora quanto < Solo, non cercate aiuto. Non sono le persone che vi salveranno, sarete voi stessa a farlo, se lo desiderate davvero, e attraverso voi, forse, qualcun altro prenderà coraggio.‛59

Sta proprio qui il punto: la maggior parte degli emigrati sono talmente provati dalle difficoltà vissute che si aspettano che sia qualcun altro ad aiutarli, a tirarli fuori da quella miseria, ma proprio in questo modo di pensare sta la ragione del loro fallimento. Sono tutti incapaci di amare davvero, sembra che la vita abbia fatto perder loro questa capacita, dovendo anestetizzarsi contro il dolore della perdita della patria e la difficoltà di una vita in miseria, perdono anche la capacità di amare e di aprirsi agli altri, riescono a vedere solo compassione.

molti degli emigrati russi di Nina Berberova sono cadaveri viventi, personaggi che non riescono a riconoscere la preziosità della vita malgrado le sue privazioni. Vivi solo nel nome, tendono a rifiutare l’amore, l’arte, la libertà, e la vita stessa in favore di un’esistenza asserita su visioni irrealistiche di un passato scomparso e un presente vuoto.60

Ne è un esempio la stessa Vera Kirillovna Gorbatova: ‚aveva circa quarant’anni. Un matrimonio precoce, i figli, una passione segreta e intensa e il

58

Berberova N., Gli ultimi e i primi, cit., p. 58. Ivi, 68. 60 Kalb Judith E., Nina Berberova: creating an exiled self, op. cit., p. 147 (la traduzione è mia). 59

28


disastro della Russia l’avevano resa com’era‛61; quando Aleksej Ivanovič Šajbin torna definitivamente dopo molti anni e molti abbandoni non si sente più capace di amarlo, distrutta dalla fatica della vita e dalle ripetute delusioni cerca comunque di aiutarlo facendolo lavorare nel suo campo, ma preferisce che tra di loro le cose rimangano così come sono. È molto raro nei racconti della Berberova trovare amori tra russi emigrati e gente del luogo. In Gli ultimi e i primi, il matrimonio della sorella con un francese viene guardato con sospetto, ma anche con speranza: ‚Prima temevo una cosa del genere, mi opponevo all’integrazione, che mi sembra il danno peggiore – alla pari del resto del ritorno in patria – *<+ in questo caso forse è un bene.‛62 Sembra che questo legame sia l’unico esente da quella morbosità tipica dei legami russi descritti nel racconto e per questo motivo forse capace di portare serenità nella loro vita. Al contrario, è un amore ingenuo ed incondizionato quello che in Alleviare la sorte spinge Ženja al suicidio: completamente inesperta ed incapace di gestire la situazione, dopo essere uscita una sera con Aleksej Astašev, pensa che sarà lui finalmente a salvarla da quella vita grigia, monotona e modesta che conduce, ma quando si scontra con la durezza della realtà e la natura volgare della relazione che Aleksej vuole avere con lei, non regge il colpo. Tutto il suo mondo crolla e lei, che ha sempre cercato di passare inosservata, di vivere accanto alla propria vita, non riesce a sopportare la violenza con cui essa le si è insinuata dentro. È importante notare anche come il profondamente cinico Aleksej Astašev, nonostante dica di aver sempre avuto e voler avere solo donne francesi e brune, sarà fortemente scosso proprio dalla relazione con Ženja, questa semplice ragazza decisamente russa63, cassiera al cinematografo, capace di fargli pensare, anche se solo per un attimo, alla possibilità di cambiare la sua vita e finalmente di creare una sua famiglia.

61

Berberova N., Gli ultimi e i primi, cit., p. 11. Ivi, 45-46. 63 Cfr. Berberova N. Alleviare la sorte, cit., p 49: “era una donna povera, sola, la sua vita era tetra, priva di felicità, di entusiasmi, tanto da fare apparire incongrui la sua naturale grazia, gli occhi allungati, i capelli d’oro lisci e leggeri e le gambe slanciate che lei amava rivestire di calze sottili, con scarpe scamosciate in modo da lasciar intravedere la peluria e un neo che aveva sulla caviglia.”. 62

29


Il rifiuto dell’amore come arma di difesa, tentativo di non esporsi ancora una volta alle delusioni è il tema portante de Il male nero: poco prima di lasciare Parigi per New York Evgenij Petrovič si trova suo malgrado a dividere la sua stanza con una ballerina, Alja Ivanova, con cui subito instaura una certa familiarità e una routine quotidiana. Dopo un mese di questa convivenza forzata, al momento della partenza, lei gli chiede di restare, ma Evgenij decide di partire comunque e di proseguire il suo progetto. Una volta arrivato a New York e trovato lavoro come segretario, conosce la figlia del suo datore di lavoro, Ljudmila, i due iniziano una relazione che sembra andare molto bene, ma ancora una volta Evgenij Petrovič decide di partire per Chicago, Ljudmila vorrebbe seguirlo ma lui si oppone. Il paradosso sta nel fatto che la donna interpreta alla rovescia il suo stato d’animo e il suo modo di vivere: ella non si rende conto di quanto la sua determinazione, il suo controllo sulla vita

e sul suo

comportamento siano alla fine un semplice guscio dietro al quale l’uomo nasconde la propria fragilità. Al contrario, ai suoi occhi non è altro che un uomo realizzato e sicuro di sé:

«Lei è davvero un uomo felice», mi disse con un tono di voce che suonava nuovo (o era quello di una volta, usato un tempo e poi abbandonato), «il primo uomo felice che incontro. Non che nella sua esistenza, naturalmente, sia mancato il dolore, come potrebbe essere altrimenti? Tutti ne provano. Ma poi lei ha vissuto come ha voluto, si è accettato, ha dimenticato e adesso vola libero come un uccello, non ama nessuno, non desidera amare. Non soffre, non vuole soffrire.64

Al contrario Evgenij si sente immobilizzato dalla propria tragedia, si sente senza speranza e per quanto lui abbia cercato di vivere una vita normale, non riesce a far altro che fuggire

Sono un uomo debole, insignificante, preda dell’immobilismo, assolutamente privo di una dote che hanno tutti, cioè la capacità di morire e rinascere interiormente; non amo

64

Berberova N., Il male nero, Guanda, Parma 2003, p. 76-77.

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la vita né gli uomini, il tempo, non diversamente dagli altri, o forse anche di più. Non sono libero, è molto che non mi riesce più di essere felice.65 Mi ripeterò di continuo che sono stato io a costringermi, che ho trovato la forza di resistere e ho dimostrato a me stesso di volermi liberare della condizione in cui ho vissuto per tanti anni.66

Ma purtroppo ogni volta che cerca di ricominciare una nuova vita da capo, il ‚male nero‛ lo segue, dopo la perdita della moglie a causa di un bombardamento non c’è più nulla da fare, ha perso per sempre la possibilità di essere felice, si sente già morto e continua a vagare per città diverse convincendosi che è riuscito a liberarsene, che è riuscito a costruire qualcosa, ma ogni volta il contatto troppo ravvicinato con una persona lo spinge ad andarsene, a proseguire sentendosi incapace di vivere veramente. ‚Non avevo le risorse necessarie per riparare alla perdita, per accettare la sventura, per sfruttare con talento la catastrofe‛67. Alle persone che gli stanno accanto potrebbe sembrare un uomo positivo, che è riuscito a prendere in mano la propria vita, ma lui in realtà non ha costruito niente e si rifugia nella sua fuga verso Družin, questo suo amico immaginario, di cui è sempre alla ricerca, unica molla che lo spinge a continuare, a spostarsi, a cercare altrove una felicità che gli sarà ormai negata per sempre. Sopperisce alla mancanza di uno scopo vero e proprio, di una patria, di una persona da amare, che non può più ritrovare creandosi qualcosa, in questo caso qualcuno, per cui valga la pena andare avanti, che gli dia la forza di vivere, viaggiare, lavorare nonostante per lui ormai sia tutto irrecuperabile. L’erranza e la disperazione occupano un grande posto in questo testo che non si conclude veramente; arrivato a Chicago Evgenij stesso inizia a convincersi che forse da qualche parte questo amico esiste veramente, e la ricerca della felicità continua. Ma si può vivere quando portiamo in noi il male nero? Quando l’esilio sembra innato e la fuga è la sola cosa che si conosce? Oppure il fallimento è già insito nelle condizioni di partenza?

65

Ivi, 78. Ivi, 86. 67 Ivi, 88. 66

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3 – Una possibile via d’uscita: Felicità

Ma cosa davvero impedisce di realizzare il proprio scopo, di raggiungere la felicità? Da dove viene questa totale incapacità di agire? Sembra essere proprio questo il problema, dato che la ricerca della felicità è un’eco che risuona spesso tra i personaggi di Berberova

Eppure, l’unica cosa che desidero nella vita è la felicità. Non la calma, né la libertà, ma la felicità. E non voglio che sia un istante del quale devo impadronirmi per pensarci dopo: cerco uno stato di felicità stabile, perenne. Una pienezza assoluta e perpetua. Una felicità totalitaria, per così dire. E il mio compito, il mio obiettivo, tutto il senso della mia vita è la ricerca di questa felicità.68

Tuttavia questi personaggi, finché rimangono attaccati ai loro ricordi, alla loro vita passata, non riescono a risollevarsi, sono perdenti. ‘Ultimi’, essi cercano di ripararsi dall’inevitabile accontentandosi di quel poco che hanno. Solo nel momento in cui smettono di sentirsi obbligati a vivere nella nostalgia, attaccati morbosamente al proprio passato, solo in questo momento riescono a vivere di nuovo. Si devono staccare dall’idealizzazione del passato o dalle aspirazioni di futuro nostalgico per poter accettare la vita senza riserve ed abbandonarvisi69. In Felicità la protagonista Vera Jur’evna attraversa proprio questo percorso: nell’infanzia era innamorata di un bambino che abitava di fronte a lei, Sam Adler, da cui sarà costretta a separarsi a causa della rivoluzione, ma che non dimenticherà mai; ciò nonostante si sposerà con Aleksandr Al’bertovič, un uomo malato che la obbligherà a restare al suo fianco fino alla sua morte. Fino a questo punto Vera sembra vivere una vita che le è stata imposta dalle circostanze e la sua curiosità e voglia di vivere di quando era piccola sembra spegnersi poco a poco.

68

Berberova N,. Le cap des tempêtes, ACTES SUD, Arles 2005, p. 60 (traduzione mia). Cfr. Armaganian-Le Vu Gayaneth, Le thème de l’émigration dans l’œuvre en prose de Nina Berberova: mémoire et création, op. cit., p. 264. 69

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La cosa che le pesava di più era che non poteva assolutamente scoppiare a piangere: per cosa? Per chi? Per la vita che amava tanto e che la ripagava ora con una felicità così malata e insoddisfatta.70

Sembra rimanere inspiegabile il motivo di questa felicità che tanto contrasta con la tristezza della situazione in cui vive, praticamente segregata in casa al fianco di un uomo con cui si è sposata per un equivoco e per cui non ha mai provato una vera e propria passione, continuando a pensare a quell’amore dell’infanzia che non riesce a dimenticare:

una felicità piegata, di una discrezione piena di paura, malgrado l’intrusione penetrante, perché lo straniero continua a sentirsi minacciato dal territorio di un tempo, afferrato dal richiamo di una felicità o di un disastro – sempre eccessivi.71

È solo dopo la morte del marito e di Sam, che si è suicidato senza avere il coraggio di rivederla e dopo averle scritto una lettera, che Vera riesce finalmente a chiudere con il passato. A differenza degli altri personaggi assenti al proprio corpo e agli altri, che sembrano appartenere allo spazio in cui sono stati gettati dal caso, Vera ricomincia a battersi per la propria vita, senza accettare semplicemente quello che le succede per caso: si trasferisce da Parigi a Nizza con la cognata Lizi e là avrà una storia con Karelov, da cui però lei fugge nel momento in cui capisce che la felicità che provava con lui avrebbe potuto durare. Non è così facile abbandonarsi alla felicità, anche questa a suo modo è un’esperienza dolorosa, e addirittura cerca di respingerla con tutte le sue forze nel momento in cui Karelov trova la sua casa a Parigi, sentendola troppo vicina:

Si avvicinò al tavolo su cui erano poggiate disordinatamente una lima e delle forbici ricurve. «Io l’aspettavo», disse a mezza voce, e l’agitazione le invase il petto, «ma lui, lui

70 71

Berberova N., Felicità , cit., p. 98. Kristeva J., Stranieri a se stessi, op. cit., p. 11.

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<» e si infilzò le forbici nel braccio all’altezza del gomito. Quindi fasciò il braccio con un fazzoletto e spense subito la luce. «Soffocalo, finché puoi soffocarlo.»72

Come la tragedia è troppo immensa per essere detta, la nostalgia e la miseria degli esiliati e degli espatriati non possono essere che suggerite, mai interamente descritte; allo stesso modo la felicità sembra essere un mistero, uno stato d’animo in fin dei conti molto difficile da accettare. I momenti epifanici che costellano l’itinerario di Vera appartengono alla stessa famiglia di esperienze. È lo stesso sentimento di pienezza della vita che provoca nell’eroina una sensazione di gioia soffocante, improvvisa e inattesa. È questo che rende la sua felicità così forzata da sembrare irreale. Ma la soluzione sembra esserci suggerita dalla struttura stessa del romanzo, costruito sull’alternanza di flashbacks e narrazione della vita presente: solamente nell’accettazione del passato come tale e nella sua integrazione con il presente è possibile vivere in armonia e trovare la felicità. Vera parlando della vecchia casa di Sam, che visita prima di partire, dice: ‚non sarebbe più stata qui e non ci sarebbe stato nessun «qui», perché la vita era come esplosa‛73. E ancora riguardo alla sua infanzia: ‚L’infanzia! Era ormai trascorsa. Era trascorso un periodo che non si sarebbe ripetuto mai più‛74. È solo con questa consapevolezza e con il distacco definitivo e forzato dai suoi due vecchi amori che può cominciare a cercare la sua felicità da sola, senza aspettarsi più che sia qualcosa di esterno a ‘salvarla’. È così che decide di essere lei protagonista della propria vita e di liberarsi dalle circostanze, perché per Berberova la felicità è sempre una solitudine, è qualcosa a cui si deve arrivare da soli con le proprie forze e non dipende dagli altri o più semplicemente dalla situazione in cui si vive, o si ha vissuto. La reminiscenza ristabilisce il legame tra l’io attuale e l’io di una volta e sfocia in una fusione con il mondo circostante, a differenza della nostalgia insormontabile per il

72

Berberova N., Felicità, cit., p. 126. Ivi, 53. 74 Ivi, 83. 73

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passato che impedisce lo svolgersi di una vera vita nel presente: ‚Vera sentì che lo scorrere del tempo non la scavalcava, che lei era questo tempo, che viveva assieme al sole, agli uccelli e all’universo.‛75

Un’armonia, che non ho ancora trovato, ma che esiste senza dubbio, palpabile, incontestabile. *<+ questo mondo è per me un tutto e non concepisco felicità assoluta e perfetta se non nella fusione con questo tutto, nell’osmosi con esso; voglio condividere lo stesso tormento che vive, ma anche la sua armonia. 76

Così finalmente trova la forza di affermare il suo desiderio di vivere, così come di scavarsi un posto nel mondo. E questo proprio attraverso il contatto con il presente, un riappropriarsi del suo scorrere che porta ad uscire dalla dimensione passata in cui sono contenute e da cui provengono tutte le difficoltà, i cambiamenti e le sofferenze. Anche Karelov, nonostante abbia alle spalle un matrimonio con una moglie pazza e la perdita prematura della figlia, attraverso l’amore quasi catartico per Vera trova ancora la forza di ricominciare e di non sentirsi colpevole per questo suo desiderio più che naturale di ricostruirsi una vita:

«Voglio essere felice. Voglio essere orgoglioso della mia felicità, non voglio avere dubbi, né provare vergogna perché sono fortunato, e nemmeno punirmi se gli altri sono sfortunati. Voglio la felicità. Voglio che tra le prime parole che ci siamo scambiati non fosse già incluso un futuro addio. Non voglio né la ‘quiete’, né la ‘libertà’, voglio proprio la felicità.»77

Non è più l’amore che salva ma è la propria volontà di vivere, la memoria non è più vissuta come un qualcosa di doloroso che ci tormenta, la vita riprende una dimensione umana di equilibrio tra il passato ed il presente, e per la prima volta si profila la possibilità di un futuro. ‚Tutto il loro passato volava via, scompariva, si

75

Ivi, 110. Berberova N,. Le cap des tempêtes, cit., p. 61 (traduzione mia). 77 Berberova N., Felicità, cit., p. 134. 76

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purificava, e grazie alla forza distruttrice di cui è capace solo la memoria umana si disfaceva completamente mentre il futuro si librava su di loro‛78. Sono l’integrazione e l’assimilazione del passato che permettono di vivere nel presente con una prospettiva aperta, che rende i personaggi completi e nuovamente capaci di vivere e progettare un futuro, di emanciparsi da questo passato che sempre incombe sulle loro vite e pronto a fagocitare chiunque si lasci andare alla nostalgia e all’apatia. Non è l’amore fine a se stesso, possessivo e disperato, che può stimolare questo cambiamento, ma è quell’amore reciproco in cui ci si sostiene a vicenda senza troppe idealizzazioni: solo esso permette di uscire da questa condizione esistenziale stagnante.

Conclusione

L’esperienza dell’estraneità a se stessi dovuta alla discontinuità tra l’io attuale e l’io di una volta è chiaramente legata all’impossibilità di lasciar andare il passato per vivere nel presente e darsi la possibilità di un futuro; per ricominciare è necessario scappare a tutti i costi da questo tempo che sembra immobile, cristallizzato, sbloccare questo ingranaggio e permettere che il tempo scorra di nuovo nella fusione tra presente e passato; il sogno del ritorno aiuta a vivere, fa parte di noi ma niente può cambiare la realtà, il passato è un’illusione. Rifugiarvisi potrebbe creare una situazione inestricabile. Bisogna anche abbandonare tutte le ambizioni e la volontà di rivalsa per poter vivere serenamente, bisogna cercare di integrare le proprie radici con il nuovo modo di vivere altrimenti non c’è speranza di sopravvivere, sapersi fondere con il proprio presente senza perdere il passato.

tutta la mia vita è stata il superamento in me stessa delle contraddizioni: tutti i tratti differenti e spesso opposti sono ora fusi in me. Ormai da tempo non mi sento più

78

Ivi, 145.

36


composta da due metà, avverto fisicamente non una spaccatura, ma una cucitura. Io stessa sono una cucitura.79

Il rifiuto della nostalgia non significa certo rifiuto del passato e della memoria: spesso questa memoria può generare felicità, ma anche follia e sofferenza, dolore, paura< Ma la nostalgia è come il fuoco che brucia e dalle cui ceneri si può rigenerare la vita. Per Berberova è chiaro che perdere la memoria, anche se questa memoria fa male, non è una soluzione. Quelli che non hanno più memoria, passato, patria, non soffrono più, e tuttavia sono dei mostri che non hanno più niente di umano. Perdere la memoria significa perdere il proprio animo, perdere una parte di noi che comunque rimane incancellabile. La perdita della propria lingua è sintomatica della perdita della memoria e per questo Berberova si è sempre rifiutata di scrivere in qualsiasi altra lingua che non fosse il russo. La scrittura non deve ravvivare la ferita dell’esilio, né tanto meno promettere l’oblio e il niente, ma coniugare l’oblio con la situazione presente, con il contemporaneo, esorcizzarlo facendo nascere la vera vita con i suoi amori, le sue passioni, per rilanciare la memoria creatrice. Allontanarsi dal passato, dimenticarlo, è una tappa indispensabile per poterlo ‚raccontare‛80. La trasformazione del ricordo melodrammatico in memoria tragica sarà la sua ultima tappa; dato che quello che interessa alla scrittrice è di fare del suo presente di emigrato un passato di cui noi, lettori, potremo rammentarci. Il suo compito si situa nella coscienza di essere lei stessa una parte vivente di questa Russia, una parte della sua cultura e delle sue tradizioni letterarie. Berberova vive in una feroce immanenza, un istante tagliato dal passato, ma che si apre sul tutto, contenendo tutto, senza limiti81. Nel momento in cui ci si concentra sul tempo, è il solo istante capace di contenere la tragicità dell’esilio perché in fondo

79

Berberova N., Il corsivo è mio, cit., p. 37. “The narrative act is an integrative one, an enabling moment that permits formation both of text and of the self.” Kalb J.E., Nina Berberova: creating an exiled self, op. cit., p. 142. 81 Cfr. Paterson N.L., The Private I in the works of Nina Berberova, op. cit., p. 494. 80

37


Siamo, tutti, in esilio. In esilio da un tempo che piĂš non ci appartiene. Da un luogo che ci è stato sottratto o dal quale ci siamo allontanati. Da un altrove che abbiamo vagheggiato, pur consapevoli della sua inesistenza. *<+ La condizione dell’esiliato coincide con la condizione umana: dice il turbamento per la distanza da un tempospazio che pensiamo piĂš proprio al nostro sentire, in dialogo con il nostro desiderio. 82

82

Prete A., Trattato della lontananza, op. cit., p. 86.

38


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