UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN SCIENZE DEI BENI CULTURALI
TESI DI LAUREA VILLA GUASTAVERZA A RAMEDELLO DI CEREA. DA DIMORA RURALE A "BUEN RETIRO" DI NOBILI E INTELLETTUALI
Relatrice: prof.ssa DANIELA ZUMIANI Laureanda: VALERIA BIGARDI
ANNO ACCADEMICO 2009-2010
INDICE PREMESSA........................................................................................................1 CAPITOLO 1: La bassa veronese, Cerea: villa Guastaverza tra fumi di nebbia, comunione con la terra, molteplicità di acque e argini.....................5 CAPITOLO 2: La famiglia Guastaverza: vicende di un casato veronese e del suo patrimonio tra XV e XVIII secolo............................................... 11 CAPITOLO 3: Cenni sui passaggi di proprietà............................................ 23 CAPITOLO 4: Descrizione della villa............................................................29 4.1. Vicende di trasformazione e aggiornamento della fabbrica nel Settecento..................................................................................................... 29 4.2. Caratteri architettonici e tipologici.......................................................34 4.3. Alcuni cenni sulle sculture che decorano l’esterno............................... 38 4.4. Comunione tra architettura e natura......................................................39 4.5. L’oratorio privato.................................................................................. 41 CAPITOLO 5: Gli interni: affreschi, stucchi e decorazioni........................47 5.1. Lo spazio privato: prevalenza del linguaggio barocco..........................47 5.2. Affreschi e quadrature del piano nobile................................................ 51 5.3. Le quattro alcove...................................................................................59 CAPITOLO 6: Silvia Curtoni Verza e “la sua parte del Mondo in sulla scena”................................................................................................................ 63 6.1. Silvia Curtoni Verza e il “gabinetto d’Armida”....................................63 6.2. Vita campestre e vita mondana a Ramedello........................................71 APPENDICE.................................................................................................... 77 1. Albero genealogico.................................................................................. 79 2. Catasto Napoleonico................................................................................ 81 3. Catasto Austriaco..................................................................................... 83 4. Piante, prospetti e sezioni.........................................................................85 TAVOLE E ILLUSTRAZIONI..................................................... 95 (I-XXVII) ABBREVIAZIONI E FONTI ARCHIVISTICHE........................................97 BIBLIOGRAFIA..............................................................................................99
PREMESSA Le ville sono nel paesaggio della bassa veronese una presenza assai significativa, costituiscono una testimonianza concreta di un passato in cui la villa partecipava a quel fenomeno storico, culturale, artistico che potremmo definire "civiltà di villa". Simbolo di potere politico, queste corti avevano una funzione economicamente incisiva, erano centri di organizzazione e conduzione delle possessioni terriere, ma anche luoghi riservati al riposo, allo svago, all'otium; aperte al godimento della campagna, esse rappresentavano la testimonianza concreta di una gestione esercitata da parte del patriziato veronese, e non solo, sui propri possedimenti terrieri, oltre che manifestazioni della cultura e raffinatezza di gusti dei proprietari. Simili dimore di campagna costellano anche la fascia del territorio ceretano, dove appunto sorge la villa oggetto della nostra ricerca. Il mio interesse sul complesso dominicale Guastaverza che sorge a Ramedello, nelle vicinanze di Cerea, al confine con San Pietro di Morubio, risale a qualche anno fa quando, in occasione di un progetto-concorso indetto dalla Regione Veneto "A caccia di tesori nascosti", ebbi l'opportunità di riprodurre graficamente uno dei camini della villa. Questo edificio ha suscitato in me curiosità ed interesse per la qualità estetica dell'impianto architettonico e la piacevolezza degli interni. Pur nella variazione delle funzioni abitative ed operative, la villa ha mantenuto la propria connotazione storica, riconoscibile nella ricchezza di elementi artistici e culturali ancora in essa presenti. Volendo dare ascolto agli stimoli ricevuti, ho deciso di approfondire le vicende del complesso, ad oggi ancora poco studiato. Il presente lavoro, per gli ovvi limiti imposti in questa sede, non ha la pretesa di essere esauriente; si pone tuttavia l'obiettivo di analizzare il palazzo dominicale e le vicende legate al complesso nel modo più approfondito e completo possibile. Lo studio si sviluppa sulle premesse esposte nel capitolo introduttivo dedicato a contestualizzare la villa nel paesaggio della bassa veronese: comprensorio ricco di fiumi e acque di risorgiva, che a partire dal Cinquecento vide un progressivo investimento di capitali 1
nell'acquisizione di vaste proprietà terriere; si tratta di un'area particolarmente fertile e a prevalente sviluppo agricolo, ancora oggi riccamente punteggiata di episodi di architettura rurale densi di significati storici. Nel secondo capitolo ho analizzato le vicende che hanno segnato le tappe evolutive dei Guastaverza, famiglia di mercanti arricchiti, che a partire dal Quattrocento investirono il denaro accumulato in beni terrieri; essi diventarono protagonisti indiscussi (soprattutto nel corso del Settecento) della domus dominicalis di Ramedello. Nel terzo capitolo mi sono soffermata sui vari passaggi di proprietà . Il quarto prende in considerazione le vicende che hanno caratterizzato la costruzione e in particolar modo la ristrutturazione dell'edificio, avvenuta verosimilmente intorno al terzo-quarto decennio del XVIII secolo, come risposta concreta al desiderio di autoaffermazione e di prestigio della famiglia; il riassetto della struttura sottintendeva una revisione del modello precedente alla luce di un virage classicistico, quale testimonianza -nel XVIII secolodella diffusione delle tendenze neoclassiche. Nello stesso capitolo ho analizzato i caratteri architettonici artistici della villa e, in parte, il suo rapporto con la campagna circostante, consapevole che le vicende della villa sono sempre intimamente connesse a quelle del paesaggio agrario. Ho posto anche l'attenzione sul piccolo oratorio, antistante al palazzo. Nel quinto capitolo sono presi in considerazione gli spazi interni: la realizzazione decorativa, plastica e pittorica, espressione baroccheggiante di un'esibizione compiaciuta della ricchezza e del lusso della famiglia. Infine l'ultimo capitolo riguarda un personaggio significativo: Silvia Curtoni Verza, nobildonna che andò in sposa ad un membro della famiglia e che contribuÏ -attraverso i suoi salotti letterari- a rafforzare culturalmente il prestigio dei Guastaverza: la residenza di Ramedello si connotava, dunque, come centro operativo e azienda agricola, ma anche come sede di raccoglimento contemplativo e luogo mondano non disgiunto dalla partecipazione di personaggi intellettuali. Questo complesso, alla luce della sua importanza dal punto di vista storicoculturale e artistico, costituisce un caso meritevole di interventi di restauro, soprattutto in relazione allo stato di conservazione precario degli affreschi e della pala dell'oratorio.
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Si auspica, pertanto, un' attenzione e una sensibilitĂ da parte degli organi preposti, mirate alla valorizzazione di questa prestigiosa villa della Bassa veronese. Desidero fin d'ora esprimere la mia riconoscenza nei confronti di tutte le persone che, in modi diversi, mi sono state d'aiuto e hanno permesso e incoraggiato la realizzazione e stesura di questa tesi. I miei sentiti ringraziamenti vanno alla professoressa Daniela Zumiani che mi ha seguito durante la redazione del lavoro, fornendomi adeguati consigli, e indicandomi opportunamente le fonti bibliografiche e archivistiche piĂš appropriate al tipo di lavoro svolto. Ringrazio la dott. ssa Gemma Caterina Brenzoni e il prof. Andrea Tomezzoli per avermi indicato utili segnalazioni e preziosi suggerimenti. Devo inoltre un particolare ringraziamento, per la disponibilitĂ e le cortesie dimostrate nel corso della ricerca, alla famiglia Bottura, proprietaria di villa Guastaverza, e in particolare ad Anna Bottura e a Francesco Cavallo che con la loro gentilezza mi hanno fornito materiale e informazioni e mi hanno concesso di visitare e fotografare gli ambienti. Un ringraziamento anche al personale dell'Archivio di Stato di Verona e di Venezia, delle Biblioteche Civica e del Museo di Castelvecchio di Verona, dell' Accademia delle Arti, Scienze e Lettere di Verona.
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CAPITOLO 1
La bassa veronese, Cerea: villa Guastaverza tra fumi di nebbia, comunione con la terra, molteplicità di acque e argini Nel territorio ceretano, in località Ramedello, a metà strada fra i comuni di San Pietro di Morubio e Cerea, sorge Villa Guastaverza- Bottura, un’elegante costruzione risalente, verosimilmente, al Cinquecento e ristrutturata nella seconda metà del Settecento; tuttora abitato e ben conservato, l'edificio testimonia, grazie alla qualità e alle dimensioni architettoniche, i valori sociali e culturali affidati dai committenti alle proprie residenze. Certamente questa villa padronale costituisce un episodio di grande interesse, per le connotazioni artistiche, ma anche per i risvolti sociali ed economici a cui essa è legata. Ramedello come scriveva il Silvestri in suo articolo nel 1971, 1 è un nome poco noto ai veronesi e lo si trova più che altro nelle mappe antiche e nelle carte topografiche. Si tratta di una località a breve distanza da San Pietro di Morubio, lungo la strada per Cerea, dove probabilmente era presente un castello, oggi scomparso, che insieme a quelli di Asparetto e di Cerea, deteneva nel Medioevo una funzione difensiva. 2
Il contesto territoriale è quello della bassa veronese, che nell’immaginario collettivo appare come un luogo di stabilità e armonia, con la piatta pianura che si estende all’infinito, con le strade uguali e monotone che costeggiano gli argini dei fiumi e le depressioni vallive. Il paesaggio –pur nelle sue mutate condizioni economiche e sociali, in seguito al processo di industrializzazione, e ai nuovi metodi di coltivazione agraria- evoca un’immagine mitica fatta di terra viva, di acqua ferma che ristagna sotto un cielo di piombo, dove la natura pare trovare massima espressione. L’elemento della 1
G. SILVESTRI, 1971.
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Il borgo di Cerea –risalente verosimilmente al X secolo- era costituito da una cinta fortificata con all’interno il castello dominato da una torre. Di questi edifici nel XVI secolo, come testimonia uno scritto del parroco Filipperio, rimanevano solo pochi resti. (B. BRESCIANI, 1962, pp. 47-50, N. GRIGOLLI, 2003, pp. 155-158). Si veda infra nota n°9.
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terra come manifestazione di fertilità e la presenza dell’acqua, sono aspetti imprescindibili per comprendere il paesaggio in cui è collocata villa Guastaverza. Il rimando va ad un universo arcadico, ad una dimensione mitica di campagne dove cielo, terra e acqua si impastano in un’atmosfera mutevole, in cui l’indefinitezza della nebbia costituisce e determina, insieme alla luce, due facce complementari di uno stesso "sogno": è ancora una volta la terra piana “e generosa d’abbondante sostentamento”.3 Quello della bassa pianura è un paesaggio che facilmente si espande e si nasconde anche quando la nebbia ne sfuma i contorni, quando la sera si posa sulla campagna feconda. La pianura padana è, sia chiaro, uno spazio profondamente mutato dall’uomo; la natura finisce per essere domata, per perdere i suoi connotati di dimensione panica e di mistero, diventa afferrabile e dominabile in seguito all’intervento dell’uomo e alla razionalizzazione dell’ambiente. E in effetti la pianura nel Medioevo era interessata soprattutto dal bosco e dalla palude ma nel Cinquecento e nel Seicento, in seguito all’interesse della proprietà cittadina ed ecclesiastica per gli interventi di miglioramento, si presenterà disboscata, bonificata e agrarizzata. 4 Un paesaggio artificiale dunque, in cui il primitivo ambiente naturale, fu modificato e adattato dall’uomo per rispondere alle necessità produttive agricole. Le corti rurali disseminate nella pianura veronese rappresentano una testimonianza tangibile della “civiltà agraria” che si è andata sviluppando a partire dal XV secolo, nel pieno di una congiuntura economico-culturale in cui la nobiltà, sull’esempio di quella veneziana, mostrava interessi sempre più forti per le proprietà terriere e per il piacere del vivere in campagna; tali insediamenti sono, di conseguenza, uno specchio utile, seppure oggi deformato, di una società in cui l’organismo-villa rappresentava un’intricata realtà di relazioni, dove esigenze pratiche legate alla gestione dell’azienda e ricerche estetiche e ricreative si legavano in un felice connubio. Il quadro paesistico attuale della bassa pianura veronese e il ruolo della villa si sono chiaramente
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L. PUPPI, 2005, p. 30.
Nel XVI-XVII secolo la Serenissima promosse una politica di valorizzazione agricola, coinvolgendo la nobiltà del Veneto in attività volte all'appropriazione e al miglioramento dei terreni più produttivi. Sulla progressiva espansione dello spazio coltivato nella bassa veronese si rinvia in particolare a G. M. VARANINI, 2005, p. 39; 46, Id, 1982, p. 222-223. Si veda, inoltre, P. LANARO, 1992, p. 246. 4
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trasformati in seguito all’irruzione della meccanizzazione agricola e ai mutamenti della società.5 Il Comune di Cerea dove sorge la residenza Guastaverza fa parte di una vasta area accomunata dal problema cruciale della gestione delle acque. 6 Si tratta della fascia di territorio compresa fra Adige e Menago: quest'ultima si è formata da antichi depositi fluviali atesini e si presenta caratterizzata da un paesaggio morfologicamente vario con depressioni vallive (che costituiscono l’alveo di scorrimento dei fiumi), alternate a dossi sabbiosi. Sono, dunque, i corsi d’acqua i veri protagonisti della mutazione del paesaggio agrario, evoluzione che dobbiamo tenere presente per avere una precisa percezione del territorio in cui sorge villa Guastaverza. Il Bussé, a nord, e il Menago, a ovest, hanno coinvolto, già a partire dall’epoca medievale, l’uomo in interventi di bonifica (attraverso canali di scolo) e in attività volte al corretto e redditizio sfruttamento delle terre sopraelevate e sabbiose, miglioramento reso possibile mediante la realizzazione di “seriole” (canali conduttori per l’approvvigionamento idrico).7 Lo Stato di Venezia e i proprietari terrieri furono gli agenti responsabili del cambiamento del paesaggio. 8 Cerea fu interessata da trasformazioni già a partire dalla seconda metà del XIII secolo, quando nel 1233 i Mantovani alleati con i Bresciani in guerra con i Veronesi saccheggiarono e devastarono -per ben due volte nello stesso anno- l'abitato del paese, distruggendo buona parte della cinta muraria. 9 Altro colpo soffrì nel 1438 durante il 5
Sull’argomento basti qui ricordare E. TURRI, 1975, pp. 25-50, in particolare sulle situazioni che legano la villa al paesaggio circostante si rimanda a pp. 30-40. Il territorio era soggetto alle piene dell’Adige il quale, in tempi remotissimi, cambiava di continuo il proprio corso; è dunque caratteristico delle pianure alluvionali. Per quanto riguarda i dissesti idraulici e il governo delle acque in quest'area, si veda E. BEVILACQUA, 1982, pp. 13-20. 6
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Sulle trasformazioni del territorio ceretano e la gestione delle acque si rinvia a R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), passim, in particolare pp. 4-5. 8
Per quanto riguarda gi interventi di trasformazione del mondo naturale veneto mediante le attività di bonifica e irrigazione incentivati dalla classe patrizia e dalla Magistratura sopra i Beni Inculti, si è fatto riferimento qui a D. COSGROVE, 2000, pp. 211-244. 9
Su Cerea medievale B. BRESCIANI, 1954, pp. 55-56, scrive: “il borgo era murato, porte si aprivano in almeno tre direzioni, nel suo centro si allargava una piazza. Inoltre vi sorgeva un castello turrito e ben munito, capace di accogliere in caso di pericolo gli abitanti con masserizie, vettovaglie ed anche il bestiame. Documentata è l’esistenza di tredici torri erette dalle famiglie più ragguardevoli, pure i Canonici di Verona, ai quali Cerea rimase infeudata fino al 1233, tenevano una residenza da ritenersi a ragione un vero e proprio fortilizio perché aveva forma quadrata, spesse mura e qualche torre agli angoli, ma di tutto ciò non rimane che qualche muro annerito dal tempo e qualche casa camuffata da posteriori
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conflitto fra il Duca di Milano e la lega veneziana, e ancor di più nel 1509 a causa delle guerre all'epoca della coalizione di Cambrai contro la Serenessima.10 La fisionomia del borgo a poco a poco cambiò e prese l’aspetto di un centro di pianura a carattere soprattutto agricolo: non più connotata da vie strette e anguste con mura merlate, bensì da strade ariose e aperte fiancheggiate da semplici abitazioni a due piani; edifici rurali nelle zone strategiche per i raccolti, alcuni dei quali trasformati in residenze signorili contornate da giardini e da grandi parchi.11 L’edilizia entrava così in una relazione libera e funzionale con la campagna circostante, ampia e aperta. Bruno Bresciani ricorda che esistevano -prima che avvenisse la trasformazione del paese rurale in una vera cittadina 12
- i cosiddetti “vaoni” o “vò”, ovvero delle "stradelle alla buona”. Questi vicoli
dipartendosi da una larga strada principale –cosa inconsueta per un centro agricolo- si fermavano al Menago, consentendo alla popolazione di attingere l’acqua o di lavare i panni.13 Le ville si costruirono nel centro abitato di Cerea, ma soprattutto fuori, nelle vicine contrade. Ricordiamo, oltre a quella oggetto della nostra ricerca, la dimora a Cà del Lago dei marchesi Dionisi,14 quella del Piatton dei conti Franco-Cattarinetti,15 la rimaneggiamenti”. 10
L'alleanza di Francia, Spagna, Impero e Papato con gli Stati di Milano, Firenze e Napoli formò la Lega di Cambrai contro la Serenissima. Sulle conseguenze della disfatta di Agnadello e le sue ripercussioni sul paesaggio veneto dopo il recupero dei propri territori, dedica interessanti riflessioni D. COSGROVE, 2000, pp. 75- 79. 11
Le ville costituiscono nella fascia della bassa pianura insediamenti di grande respiro collocati al centro dell'azienda agricola, presentano solitamente un impianto quadrato o rettangolare e sono delimitate da fabbricati rustici per l'immagazzinamento dei prodotti agricoli. Per quanto concerne la tipologia della casa rurale nella pianura veronese si veda C. D' ALBERTO, 1983, pp. 363-370, in particolare p. 366. 12
La trasformazione più forte riguarda soprattutto il centro di Cerea, in seguito all’evidente incremento edilizio conseguito negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. L'urbanizzazione del paese è dovuta anche alla rapida crescita delle attività imprenditoriali a livello famigliare, con un indebolimento progressivo del settore primario dell’agricoltura. Sulle dinamiche economiche novecentesche basti qui citare B. BRESCIANI, 2000, p. 107-109. Vedremo però che la zona del territorio ceretano in cui è collocata villa Guastaverza, è stata coinvolta in questa trasformazione solo in minima misura. 13
Ivi, p. 120.
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Su villa Dionisi a Cà del Lago si veda G. VIVIANI, 1975, p. 700-cat. n°260, Villa Dionisi..., 1986, passim, A. SANDRINI, 1991, pp. 272- 274, E. AZZOLIN, 2003, pp. 108-110-cat. vr 093. 15
Su villa Cattarinetti Franco, Bertelè detta "Il Piatton" si veda G. VIVIANI, 1975, p. 698-cat. n° 259, A. SANDRINI, 1991, pp. 269-271, E. AZZOLIN, 2003, pp. 106-108-cat. vr 091.
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villa Ormaneto all’ Isolella,16 villa Murari17 e villa Monselice in località Aselogna,18 la corte dei Verità alle Colombare,19 la villa Brenzoni alla Pozza, e quella dei nobili Widman ad Aselogna.20 La villa Guastaverza, in esame, fa parte del territorio di Cerea situato ad est del fiume Menago.21 In seguito all’introduzione del Catasto Napoleonico (1813), il territorio fu suddiviso in due Comuni Censuari, quello di San Zeno di Cerea a nord e quello di Cerea a sud (analizzando il Catasto Austriaco, appare confermata la stessa divisione). La villa Guastaverza si trova appunto sotto il Comune Censuario di San Zeno di Cerea, 22 più precisamente è situata nella parte orientale prossima al dugale Lavigno, (un canale di scolo, necessario per garantire un adeguato sgrondo delle acque) 23; si trattava di un’area -come informa Remo Scola Gagliardi24- prevalentemente occupata da terreni arativi (semplici, arborati, e vitati), pochi invece i terreni coltivati a risaia probabilmente 16
Su villa Ormaneto, Bertelè, si veda G.VIVIANI, 1975, p. 701-cat. n°261, E. AZZOLIN, 2003, p. 115cat. vr 098. 17
Su villa Murari G. VIVIANI, 1975, p. 702- cat. n°262, E. AZZOLIN, 2003, p. 115- cat. vr 097.
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Su villa Monselice, De Stefani, si veda G. VIVIANI, 1975, p. 702-cat. n°263, E. AZZOLIN, 2003, p. 114- cat. vr 096. 19
Su villa Verità, Sparavieri, Marangoni, G. VIVIANI, 1975, p. 696-cat. n°257, E. AZZOLIN, 2003, p. 116- cat. vr 099. 20
Le ville Brenzoni alla Pozza, e quella dei Widman ad Aselogna, sono solo citate in B. BRESCIANI, 1954, p. 58. Il fiume Menago percorre il quadrante sud-orientale della campagna veronese per Bovolone e Cerea e scorre all’interno di un antico alveo formato dal fiume Adige; attraversa la bassa pianura veronese e determina un paesaggio agreste che in buona misura conserva il suo genius loci originario. Conclude il suo tragitto nell’area delle Grandi Valli Veronesi. Le vicende storiche collegate all'uso delle sue acque sono indagate in Cerea, storia di una comunità..., 1991, passim, R. SCOLA GAGLIARDI(b), 1991, passim. 21
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Nel Comune Censuario di San Zeno di Cerea, da nord-ovest verso sud-est, sono presenti le contrade dell’Isolella, del Piatton, di Campi de Sù, di Cà Rotte (prima Cà Nove), di Cà del Lago, di Ramedello e della Palesella. (ASVr, Catasto Austriaco, mappa n. 280, Comune Censuario San Zeno di Cerea) 23
Il territorio compreso fra Adige e Menago, all'altezza di Cerea, era solcato da quattro canali, il Corno, la Fochiara, il Lavigno e la Nichesola, canali necessari per lo scolo delle acque. (R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 9). 24
R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(a), pp. 249-250.
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a causa delle difficoltà che incontrava l’approvvigionamento idrico.25 La fascia che scorre parallela al Menago e che interessa anche la zona di San Pietro di Morubio e di Cerea è caratterizzata, come si è detto, da dossi sabbiosi in cui l’incolto si alternava con la coltura di cereali, tra cui segala e miglio. Già a partire dal Quattrocento -con uno sviluppo nei secoli successivi- in questa zona si era affermata la “piantata padana”, con la vite che si sposava al gelso, una coltura che rompeva la monotonia dei terreni a seminativo della pianura. Ancora oggi la fascia di territorio situata ad est del fiume Menago -soprattutto nella zona della Palesella, della Paganina, e della stessa Ramedello- presenta un paesaggio agrario in cui si spalancano aperte visioni di campagne coltivate: una pianeggiante estensione territoriale di tanto in tanto interrotta da semplici case coloniche e dimore patrizie, in parte le stesse che figurano negli antichi disegni (ovviamente sottoposte a ristrutturazioni e aggiunte). La costruzione della linea ferroviaria con la conseguente limitazione dell’espansione edilizia, infatti, ha fatto sì, che quest’area –a differenza del centroconservi tutt’oggi un aspetto facilmente rimandabile a quell’immagine rurale che la connotava nei secoli scorsi, come testimonianza ancora tangibile della sua antica tradizione agricola. Talvolta accade che campagna e città si confondano in un territorio misto, in uno spazio che si presenta ibrido, senza “anima”. La perdita delle peculiarità forti del paesaggio, dei suoi i riferimenti culturali, storici, ambientali, l’indebolimento del genius loci del luogo, determinano il disorientamento, e rischiano il venir meno di un’identificazione forte dei suoi abitanti. Tuttavia questa zona ha conservato nel tempo la sua identità; tutt’oggi si assiste, soprattutto nella zona di Ramedello, ad una serena armonizzazione tra paesaggio naturale e paesaggio industriale, tra edilizia e campagna.
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Tra la fine del XVII secolo e la prima metà del XVIII secolo furono ridotti a risaia pochi campi: dodici campi al Piatton dei Franco, trentasei ai Campi de Sù dai Rubiani, dieci campi a Cà del Lago dai Dionisi e infine dieci campi da Nicola De Medici. (R. SCOLA GAGLIARDI, 1991 (b) p. 10).
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CAPITOLO 2
La famiglia Guastaverza: vicende di un casato veronese e del suo patrimonio tra XV e XVIII secolo La residenza di Ramedello ha sicuramente avuto il momento di massimo prestigio con la famiglia Guastaverza, soprattutto dal Settecento, in seguito alla manifestazione di una precisa volontà autocelebrativa di nobilitas e di potere. Conviene, per avere un quadro d’insieme quanto più completo possibile, seguire prima di tutto l’origine e la condizione dell’evoluzione economica della famiglia. I Guastaverza o Verza26 -di cui è attestata la presenza a Soave già dalla prima metà del Duecento27- fecero la loro apparizione a Verona nel corso del XIV secolo; 28 nel 1337 erano in condizioni economiche agiate quando un loro membro, Alberto Guastaverza “diede una somma a censo all’Università dei cittadini veronese” 29, sostenendo finanziariamente la signoria scaligera.30 Anche dopo la caduta degli 26
Per quanto riguarda gli esponenti di tale famiglia si veda l'albero genealogico in Appendice 1, allegato in fondo al presente lavoro, per la cui ricostruzione (attraverso le fonti archivistiche) si è fatto riferimento soprattutto al periodo sui cui verte la nostra ricerca, compreso tra il XVII e il XVIII secolo, e parte del secolo successivo. 27
G. M. VARANINI, 1982, p. 261, nota n°221.
28
Sulla famiglia si vedano F. SCHRÖDER, 1830, p. 414, A. CARTOLARI, 1854, p. 87, Id, 1855, p. 30, CROLLOLANZA, 1965 (ed. orig. 1886-90) vol. 26, p. 510; Contributi più recenti in R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), pp. 80-81, R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(a), p. 262. Brevi informazioni in F. FAVALLI, 1995, p. 63. 29
A. CARTOLARI, 1855, p. 30.
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Nel 1337 (e successivamente nel 1339) Mastino II e Alberto II della Scala -per risollevarsi da un momento di particolare difficoltà a causa alla guerra veneto-fiorentina-scaligera- chiesero ai cives cittadini un prestito volontario al fine di sostenere le spese belliche. La richiesta di denaro da parte di Mastino II della Scala può essere classificata come un prestito su pegno: in cambio di una somma di denaro il prestatore riceveva l'usufrutto di una proprietà o comunque di un diritto. Furono alienati gran parte dei diritti del mercato, dell'Arena, e una parte della campanea veronesis. A tutela dei diritti dei prestatori si costituì l' Università dei cittadini, un istituto amministrativo che durò fino al XVIII secolo e in cui ciascuno godeva dei redditi nella misura della somma versata. Sull'argomento si rinvia a G. FERRARI, 1914, pp. 69-77, E. ROSSINI, 1983, pp. 211-213, G. VARANINI, 1988, p. 116 (in particolare si veda la scheda, nello stesso volume, pp. 386-387).
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scaligeri, la famiglia continuò a godere di una buona situazione finanziaria, tanto che dal 1440 la casata figurava costantemente nel Consiglio dei nobili 31 della città restandovi fino al Settecento e diventando, specie nel XVIII secolo, una delle più notevoli casate del patriziato veronese.32 Le loro ricchezze dipesero dall' attività legata alla sfera commerciale e nello specifico alla mercatura dei panni.33 Del resto Verona era sicuramente fin dal XIV secolo il centro produttivo laniero più importante del Veneto, e il lanificio rappresentava il perno dell’economia cittadina. 34 Iacopino Guastaverza, di cui offre un interessante profilo Gianmaria Varanini,35 era un commerciante di panni vissuto nella prima metà del XV secolo, residente a Soave probabilmente in seguito all’immigrazione della famiglia a Verona, avvenuta nel tardo Trecento. Apparteneva alla fascia media della classe dirigente cittadina, un mercante modesto dunque, ma fortemente motivato e intraprendente. Varanini ci informa che Iacopino lasciò un libro di conti e di fitti abbastanza accurato negli anni compresi tra il 1430 e il 1444 in cui registrava i fitti perpetui dei prati e delle vigne con i loro ricavati; annotava vicende legate al suo patrimonio, riportava la situazione anagrafica delle famiglie dei contadini che avevano ricevuto in possesso dei campi. Risulta, da tali documenti, che avesse un podere nei pressi di Isola della Scala, affidato ad un lavorente di Vigasio, e un altro a Palesella di Cerea di circa 120-140 campi; evidentemente, già a 31
A. CARTOLARI, 1855, p. 30. Essere iscritto al Consiglio dei Nobili significava appartenere al patriziato urbano. Il seggio in Consiglio, l’averlo detenuto per anni, pur nell’alternanza tra famiglie, è il fondamento dell’essere patrizio. Sulle dinamiche socioeconomiche veronesi in età veneta particolarmente utile è l'indagine di G. BORELLI, 2001, soprattutto p. 206. Sul processo di chiusura oligarchia del Consiglio Civico, si veda P. LANARO SARTORI, 1992, pp. 56-61: la studiosa descrive che nel Cinquecento si verificò un irrigidimento della struttura sociale, fissa e organizzata in classi chiuse, secondo uno schema a tre ordini: gentiluomini, popolari e plebei. 32
La famiglia come altre del ceto dominante, tra cui i Lavezzola, i Brenzoni, gli Spolverini, gli Allegri, costruì i propri averi sviluppando attività legate alla lavorazione della lana e alla loro commercializzazione (G. BORELLI, 2000, p. 40). Sempre nell'area rurale a sud della città, a Nogarole e a Pradelle, anche i Bevilacqua-Lazise, prima di intraprendere l'investimento terriero, erano impegnati nei traffici mercantili legati all’arte della lana (G. M. VARANINI, 1982, p. 194.) 33
Sul lanificio tra XIII e XIV secolo rimandiamo a S. A. BIANCHI, 1993, pp. 57-85, E. DEMO, 1999. Tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento l'attività del lanificio era entrata in una fase di decadenza, da cui non si sarebbe più risollevata. Tale crollo in parte fu determinato dalla diminuzione della materia prima locale e dalla sua sostituzione con lana di qualità inferiore; sulla crisi del lanificio si rinvia a P. LANARO, 1992, pp. 231-233. (Inoltre si veda infra nota n°71; nota n°76). 34
35
G. M.VARANINI, 1982, pp. 245-246.
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partire dal XV secolo, esistevano di proprietà dei Guastaverza alcuni terreni nelle vicinanze di Cerea. Nel 1548 Pietro Filippo Guastaverza, figlio di Giacomo e residente nella contrada di San Silvestro a Verona, aveva acquistato da Marcello Clerici un appezzamento di terra con palazzo, corte, orto, confinante con i nobili Rambaldi. 36 Tuttavia solo fra gli inizi e la metà del Seicento vennero acquistate una serie di tenute a Ramedello. In questo periodo la famiglia disponeva di un reddito annuo compreso fra i 2000 e i 3000 ducati che conferma -già a metà del XVII secolo- il raggiungimento di una considerevole posizione economica; sicuramente risultava essere fra le più abbienti del panorama veronese.37 Nel 165338 Paolo Filippo Verza, figlio di Orazio (figura ancora residente a Verona nella contrada di San Silvestro), era titolare di “una possessione in villa di Cerea con casa da patron e da boari de quantità de campi 116 in contrà da Ramedel, arradori con vigne e morari, et viene danneggiata la suddetta possessione dal dugal Nichesola”.39 Nella stessa dichiarazione d’estimo, figura anche una possessione a Cerea in contrà Cà del Lago con casa di paglia da lavorenti “et da patron”, con 76 campi, che rendeva ducati 120; è denunciata inoltre una possessione nella villa di Pradelle di Nogarole in “contrà del Dosso” e una casa a Verona nella contrada di San Felice. I Guastaverza investirono dunque in fondi rustici della piana veronese: tale spinta in acquisto di terre -scelta condivisa con tutta la nobiltà veronese, data la notevole rendita di tale investimento- fu determinata anche da un aumento demografico che R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 253. Sulla famiglia Rambaldi basti qui rinviare a A. CARTOLARI, 1855, p. 56, Ivi, p. 50 e p. 97: nel Seicento essi risultavano appartenere al grado maggiore di nobiltà. I contributi più recenti sono di R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 97. 36
37
R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 51.
Per i cittadini veronesi le denunce dei loro beni con relativi redditi furono presentate all’Ufficio dell’Estimo del Comune di Verona negli anni 1653, 1682, 1696 e 1745. Dunque a partire dalla seconda metà del Seicento la Serenissima impone l'obbligo della conservazione delle polizze d'estimo, cioè le dichiarazioni che tutti gli estimati erano tenuti a presentare. Su gli aspetti economici e sociali di Verona nel Seicento -attraverso le polizze fiscali- si veda l'analisi approfondita di V. CHILESE, 2002, passim. Sulle proprietà del ceto dirigente veronese, ineludile il rimando a G. BORELLI, 1974, passim. Per un'indagine delle proprietà agrarie e delle colture -condotta attraverso le polizze d'estimo- in ambito ceretano, si veda B. CHIAPPA, 1991(a), pp. 221-226. 38
ASVr, AEP, a. 1653, reg. 30, c. 317. Inoltre, per quanto riguarda il fossato o dugal Nichesola, esso iniziava in territorio di Roverchiara e dopo avere attraversato i ponti della Cappafredda, del Pero e del Minello, entrava nel territorio di San Pietro di Morubio e quindi di Angiari. (R. SCOLA GAGLIARDI, 2006, p. 17). 39
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aveva comportato una maggiore domanda di derrate agricole e la conseguente crescita dei loro prezzi e del valore delle terre. Cosicché la famiglia Verza, come varie altre, a testimonianza di una vivace imprenditorialità agraria, intuiva che era giunto il momento di affiancare all’attività mercantile, l’impegno terriero; 40 lo dimostra l’energia economica impiegata –al fine di incrementare il valore delle proprietà fondiarie- per le opere di bonifica e per il miglioramento dei terreni come canalizzazioni e deviazioni dei corsi d’acqua.41 Dalla polizza d’estimo del 1696,42 i fratelli Girolamo, Bartolomeo e Paolo Filippo, “figlioli del q. mo sign. Orazio” figuravano ancora possessori di una residenza urbana in contrada San Silvestro con corte, orto e stalla, specificatamente indicata come loro abitazione; inoltre risultavano titolari di possessioni in pertinenza di Cerea, tra cui la villa Guastaverza “in contrà di Ramedello” 43 con 130 campi (attestando pertanto un ampliamento del patrimonio di 14 campi). Nello stesso documento si legge: “una possessione nella pertinenza di Cerea in contrà Ramedel luogo magro con casa da patron e da boari con corte e brolo de quantità di campi 130 in diversi corpi parte sotto il comune di Malavicina, parte sotto Cerea, e parte sotto Roverchiara et Angiari e sono soggetti spesse volte alle inondazioni delle acque del Bussé, Nichesola et Adige.” Dalla polizza, inoltre, risulta che i Verza avevano allargato la tenuta in contrà Cà del Lago e possedevano “in contrà Faval” 44 “una casa da patron e da lavorente” di campi 110 indicati in buona parte sabbiosi e poco fertili e coltivati a vite e con morari; 45 denunciavano anche beni a Casaleone, Raldon, San Felice, Pradelle di Nogarole, 40
Si rinvia, per approfondimenti, a G. BORELLI, 2000, p. 42.
41
Per quanto riguarda le terre della pianura veronese interessate alla politica delle acque si veda P. LANARO, 1992, pp. 244-256. 42
ASVr, AEP, a. 1696, reg. 85, c.545.
43
Ivi.
Risulta pertanto dall’esame della polizza d’estimo del 1696 che i Guastaverza –alla fine del Seicentoavevano a Cerea possessioni nelle contrade di Cà del Lago, Ramedello e in Contrà Faval (quest’ultima si trova nella parte settentrionale del territorio comunale di Casaleone). Su corte Verza a Faval sintetiche informazioni in E. AZZOLIN, 2003, p. 715-cat. vr575. 44
45
ASVr, AEP, a. 1696, reg. 85, c.545.
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Caprino,46 ammontando in totale a campi 663. La vicenda dei Guastaverza, e del loro processo di penetrazione nel contado, conferma alcune linee di tendenza che hanno contraddistinto l’aspetto economico e la vita civile nella bassa veronese, in particolare evidenzia la fissazione del modello insediativo costituito dalla corte con casa padronale, affiancata da tenute poste nelle località limitrofe, con possessioni minori e “casa da lavorente”.47 Quest’ultime, modeste abitazioni affiancate da piccoli appezzamenti, ospitavano i “lavorenti”, contadini con il compito di partecipare direttamente alla conduzione dei fondi rustici. Dalle ricerche effettuate siamo in grado di farci un’idea delle proprietà fondiarie legate alla famiglia; attraverso la cartografia 48 e le dichiarazioni d’estimo49 e, in parte, analizzando i dati ricavati dal Catasto Napoleonico 50 e dal Catasto Austriaco,51 è stato possibile risalire all’utilizzazione dei loro terreni, anche se dobbiamo tenere conto che le indicazioni trovate sono pur sempre generiche. Le possessioni terriere erano divise soprattutto fra campi arativi, arborati vitati e vignati, prativi per il 46
Per quanto concerne i beni che i Verza possedevano a Caprino M. MARANGONI, 1965, p. 38 scrive: “poco discosto trovasi palazzo Nichesola. Ricavato nel 1400 dalla preesistente Villa Verza. È in stile della Rinascenza con caratteristici camini, bella loggia, buoni affreschi, porticato e grondaia sporgente del tempo. La nobile famiglia possedeva nei pressi un secondo palazzo di costruzione più recente, ricco d’un bel parco e dotato d’una bella Chiesetta”. L’8 agosto 1849 Scipione Nichesola ereditò nell’area di Caprino i beni di Orazio Guastaverza tra cui alcune possessioni terriere per un totale di circa 60 campi. Tra le proprietà dei Verza era compresa la suddetta villa dotata di quattro singolari e orientaleggianti comignoli e per questo detta villa “dei camini”; essa dal 1442 era di proprietà dei Montagna e, verosimilmente, in precedenza dei Dal Verme, oggi di proprietà della famiglia Ferrario-Toffoli; (D. ZUMIANI, 1999, pp. 262-267, V. SENATORE GONDOLA, 2006, pp. 9;34;36; nota n°49). Nella polizza d’estimo del 1696 dei Guastaverza, i fratelli Girolamo e Paolo Filippo, figli di Orazio, descrivevano la loro proprietà, precisando che il brolo era soggetto “ ad esser spesse volte ingiarato dal progno vicino”. (ASVr, AEP, a. 1696, reg. 85, c. 545). Sulle tipologie di villa si rinvia a L. PUPPI, 1975, pp. 87- 140. Per gli aspetti più generali si veda J. S. ACKERMAN, 1992, passim. Sulle corti della bassa veronese, per quel che a noi qui interessa, ineludibile il rimando a Cerea, storia di una comunità..., passim, in particolare si rinvia nello stesso volume a R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(a), pp. 243-268, Id, 1991(b), pp. 119-128. 47
48
In particolare ASVr, Fondo VIII vari, Decima Grande di Cerea, dis. n° 3.
49
Più in generale in base alle dichiarazioni rilasciate dal patriziato veronese, il tipo di coltura prevalente (fino alla metà del Settecento) è quella arativa con vigne e gelsi; esso caratterizzava buona parte dei terreni di proprietà delle nobili famiglie veronesi. Per quanto concerne i beni terrieri, il tipo di coltivazione prevalente e la descrizione delle modalità di conduzione della stessa, si rinvia a V. CHILESE, 2002, pp. 449-467, in particolare pp. 450-451. 50
Si veda Appendice 2, nell'apposita sezione finale.
51
Si rimanda ad Appendice 3.
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bestiame da lavoro, con una netta prevalenza dell’arativo, quest’ultimo tipo di terreno era valutato fino a due volte di più di quello a pascolo. Ad esempio per quanto riguarda la tenuta di Ramedello –oggetto della nostra analisi- alla fine del Seicento i campi arativi vignati con pochi morari erano circa quaranta, gli arativi garbi (ossia non arborati) circa settanta.52 La maggior parte dei beni fondiari erano gestiti “a lavorenzia”, una variante della mezzadria, un contratto parziario più favorevole al colono e ricorrente anche nelle altre zone della bassa veronese. 53 Si trattava di “un rapporto contrattuale nel quale il proprietario si accontenta di qualcosa in meno sul piano della ripartizione dei frutti […]. Ma si impegna per parte sua, in misura inferiore di quanto non faccia il proprietario in un rapporto di mezzadria classica”. 54 Nella polizza d’estimo del 174555 Paolo Filippo Guastaverza risulta residente in contrada Ferraboi:56 beninteso la famiglia risulta esserlo già dal 1701 con l’acquisto del palazzo sanmicheliano, “il più ammirato palazzo del Liston” 57 che apparteneva 52
ASVr, AEP, a. 1696, reg. 85, c. 545.
La lavorenzia si diffonde, a partire dal XVI secolo, soprattutto in pianura. Sull'argomento A. FERRARESE, 2006, p. 108, scrive: “le scelte operate dall’ente [si riferisce al Monastero di Santa Maria della Giara] confermano già dai primi decenni del secolo [il Cinquecento] la diffusione capillare della lavorenzia nelle diverse possessioni della pianura (Roverchiara, Cerea, Porto di Legnago). Per quanto riguarda la contrattualistica agraria quattrocentesca ineludibile il rimando a G. M. VARANINI, 1982, pp. 188-199; per analoghe considerazioni relative al secolo successivo si rinvia a P. LANARO, 1982, in particolare pp. 333-334. Sulle diverse forme di conduzione a seconda della zona, collinare e della pianura, si veda anche E. TURRI, 2003, in particolare p. 46. 53
54
G. M. VARANINI,1979, p. 199.
55
ASVr, AEP, a. 1745, reg. 120.
Nel XV e nel XVI secolo si assiste ad un accrescimento –che durerà anche nei due secoli successividell’importanza delle contrade più periferiche tra quelle poste all’interno della città comunale, oltre San Fermo, San Pietro Incarnario, Falsorgo, San Michele alla Porta, anche Ferraboi. Esse erano nobilitate dalla presenza di palazzi appartenenti alle famiglie dell’élite cittadina; le tipologie edilizie si connotavano dunque come luoghi urbani di identificazione sociale, strettamente connesse al contesto spaziale e rimandavano più precisamente alla volontà di siglare –nell’elemento architettonico- la propria posizione. Si rimanda a tale proposito al contributo di S. LODI, 2000, pp. 81-90 in cui l’autore prende in considerazione la relazione esistente tra le contrade e le famiglie patrizie veronesi, tra ricchezza e spazio urbano. Inoltre, a conferma dell’importanza raggiunta dalla contrada Ferraboi, dal secondo Settecento, Piazza Bra risultava essere il nuovo fulcro dello sviluppo urbanistico e della vita amministrativa di Verona. In merito si veda F. GIACOBAZZI FULCINI, 2001, p. 251-252. Sulla distribuzione contradale ineludibile il rimando a P. LANARO, 1992, pp. 134-143. 56
Sul palazzo F. DAL FORNO, 1973, p. 217, L. PUPPI, 1971, pp. 120-126, D. CALABI, 2000, pp. 188189, P. DAVIES, D. HEMSOLL, 2000 pp. 328-333. Riferimenti utili si trovano in R. BRENZONI, 1937, p. 66; G. BORELLI, 2001, p. 192.
57
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originariamente agli Onori.58 Il programma di acquisizione dell’intero isolato da parte dei Guastaverza, era iniziato nel 1696 e verrà concluso nel 1710. 59 La residenza urbana progettata nel secondo Cinquecento dal Sanmicheli, il palazzo “in cui tutto ride di grazia” per usare le parole di Da Persico, 60 accoglieva dibattiti di una cerchia selezionata di amici e intellettuali, ma sul salotto della Curtoni Verza ritorneremo nell’ultimo capitolo; dopo i Guastaverza il palazzo pervenne per diritto di successione ai conti Sparavieri.61 La residenza urbana doveva certamente costituire un’ulteriore garanzia di prestigio, confermare l’ascesa sociale e palesare il risultato conseguito dai Verza. Anche la dimora rurale a Ramedello rivestiva un chiaro significato simbolico, sociale e artistico; come ulteriore conferma dell’importanza raggiunta dalla famiglia in questa località, alla fine del Settecento Filippo Guastaverza contribuì a garantire un nutrito aiuto economico per la costruzione della chiesa di San Pietro di Morubio, 62 non lontano dalla villa; in un documento dell’archivio parrocchiale di San Pietro di Morubio –un quaderno di memorie- si dice: “La chiesa fu eretta con offerte cospicue del Signor Verza, proprietario di Ramedello.” 63 Alla metà del XVIII secolo Paolo Filippo Guastaverza possedeva 656 campi, distribuiti tra Cerea, Casaleone, Pazzon, Arcole e Villafontana con una rendita di circa 58
Nel 1555 un membro della famiglia, Bonaventura Onori chiedeva al Consiglio cittadino il permesso di apportare modifiche al proprio palazzo originario. L’architetto designato per la realizzazione degli ammodernamenti fu Michele Sanmicheli. 59
G. MAZZI, 2000, p. 214, nota n°78.
60
G. DA PERSICO, 1820, vol. I, p. 159.
A testimoniare ulteriormente il passaggio di proprietà del palazzo, segnaliamo un appunto trovato fra i carteggi di Silvia Curtoni Verza in BCVr e che riporto di seguito. Carteggio S. Curtoni Verza busta 619/40 : “colla morte del c.e Orazio Guastaverza il patrimonio di lui pervenne per diritto di successione legittima alla nobile famiglia Sparavieri di Vienna e Bonzi di Crema. Il signor Tommaso Piatti quale segretario e procuratore dei Conti Bonzi in quelle eredità rimase in possesso di molte carte inconcludenti rapporto all’interesse, fra le quali era la unità ricevuta di cui facemi dono nel maggio 1863 ”. 61
La chiesa parrocchiale di San Pietro di Morubio fu costruita nel 1789 a lato del preesistente edificio, di dimensioni molto più contenute. Il suo ideatore fu Don Evangelista Masanielli che il 4 maggio 1789 incoraggiato dall’aiuto economico disposto a offrirgli Filippo Guastaverza- inviò ai Sopraprovveditori di Venezia una supplica volta ad ottenere il permesso di erigere la nuova chiesa. (APSp.M., Libro Mastro erigenda nuova chiesa pp. 4-5; si veda, inoltre, F. FAVALLI, 1995, p. 65; Id, 1997, pp. 13-20). 62
63
F. FAVALLI, 1995, p. 216, nota n°35.
17
2000 ducati; a Villafontana di Oppeano erano titolari di "una casa da Patron e da Lavorente", con stalle e fienile.64 L’intera corte rimase alla famiglia anche nel secolo successivo, e nel 1849 figura come casa di villeggiatura. 65 Oltre alle polizze d'estimo, anche alcune mappe trovate in archivio consentono di avere ulteriori informazioni sulle cospicue possessioni della famiglia e sulla loro strategia di conduzione agraria, volta a migliorare mediante attività di bonifica e di irrigazione la qualità dei terreni da loro posseduti. 66 Un disegno datato 177867 e realizzato da Antonio Roveda, perito per i Beni Inculti, mostra nelle pertinenze di Pazzon, sotto il comune di Caprino, alcuni terreni arativi e prativi dei nobili Filippo e Ignazio Guastaverza; è indicata anche l’irrigazione dei cosiddetti “Feniletti”, prati con vigne, morari e alberi da frutto [Tavola I]. Un’altra mappa del 178568 conferma la richiesta, rivolta alla Magistratura dei Beni Inculti, di poter erogare un corpo d’acqua dal condotto Ronco-Tomba69 “per gli usi implorati di risaia” nelle pertinenze di Roverchiara ed Angiari70 [Tavola II]. 64
ASVr, AEP, a. 1745, reg. 120.
Si tratta di villa Guastaverza, Benciolini; alcune informazioni sul complesso sono contenute in G. VIVIANI, 1975, p. 721-cat. 282, R. SCOLA GAGLIARDI, 1992, p. 143, E. AZZOLIN, 2003, p. 358- cat. vr281. Nella polizza d'estimo (ASVr, AEP, a. 1745, reg. 120) esso è denunciato da Paolo Filippo Guastaverza come "una possessione in pertinenza di Mazzagatta in contrà della Tombella in Villafontana con casa da Patron e da Lavorente, Stalle e Fenil. Viene lavorata da due versori, campi 120 circa, paga la decima del 10 e alcuni campi pagano il quinto al vescovato. Pochi campi vignadi spesso danneggiati dalle zurle. Alquanti ne sono con morari ma vecchi e mal governadi. [...]. Detratti i campi che pagano gravezza alla villa di Mazzagatta a lavorente si può cavar d. 150". La corte rimase ai Verza anche nell'Ottocento: fu intestata ad Orazio, figlio di Paolo Filippo e di Margherita Sparavieri. 65
66
Il processo di acquisizione dei beni terrieri, con l'obiettivo di creare delle estensioni omogenee mediante acquisti e permute, è caratteristico del modo in cui il notabilato veneto organizzava i propri possedimenti nel territorio. Significative in tal senso sono le modalità adottate dalla famiglia Godi nel vicentino analizzate da C. COSGROVE, 2000, pp. 190-206. Lo studioso prende in considerazione, inoltre, l'importanza della rappresentazione cartografica del paesaggio ai fini di una sua ricostruzione. (Ivi, in particolare pp. 211-271). 67
ASVr, Fondo Prefettura, dis. n°284: i campi veronesi ammontano a 29, vanezze 13, tavole 17.
68
ASVr, Fondo Dionisi Pio Marta, n°23.
R. SCOLA GAGLIARDI, 2006, p. 13: “Il 3 settembre 1593 si deliberò la costruzione di un canale di scolo, denominato Retratto di Ronco e Tomba con lo scopo di far defluire le acque ristagnanti di Ronco e Tomba nel fiume Adige, poco più a nord di Angiari”. 69
La possibilità di espandere la coltivazione del riso si stava rivelando altamente remunerativa tanto che dal Cinque- Seicento molti nobili investivano in terreni della bassa pianura con lo scopo di coltivarli a risaia; la coltivazione di questo cereale si sviluppò in seguito all'incremento demografico e all'aumento 70
18
Nella seconda metà del XVIII secolo i nostri avevano, inoltre, possedimenti che ammontavano a campi 310 nelle località di Cerea, Malavicina, San Pietro di Morubio e Roverchiara come testimonia una mappa del 1778, eseguita da Antonio Roveda, 71 in cui sono evidenziati i terreni prativi e quelli arativi di tali proprietà con prevalenza di vigne e morari (gelsi).72 Questa attenzione all’elemento "terra" dei due fratelli Ignazio e Paolo Filippo in parte dipendeva certamente da motivazioni strettamente economiche 73 -del resto la maggior parte del reddito proveniva dai beni fondiari- ma rientrava altresì nella tradizione culturale ed economica della famiglia Guastaverza. Il loro stesso padre, Orazio, era infatti molto interessato alle questioni connesse al funzionamento della vita rustica e, in particolare, ai problemi sociali e produttivi della Bassa Veronese; uomo taciturno e severo, sosteneva la necessità del diretto impegno del padrone nella conduzione del fondo. Era stato eletto membro dell’Accademia di Agricoltura fin dalla sua fondazione, il 13 marzo 1769; un anno prima, il 10 settembre, il Senato della della domanda di derrate alimentari. Così i ricchi proprietari facevano pressione al governo veneziano affinché venisse concesso loro l'uso delle acque necessarie per convertire i terreni in risaie. Un disegno di Francesco Cuman datato 22 agosto 1684 (ASVr, Fondo Dionisi Pio Marta, dis. n° 8) mostra la supplica presentata da Ottavio Dionisi, rivolta alla Magistratura dei Beni Inculti di convertire in risaia alcuni terreni nelle pertinenze di San Pietro di Morubio. Questo dimostra che alla fine del 600 erano sistemati i terreni destinati a risaia dei quali risulta proprietaria anche la famiglia Verza. ( I fatti sono ricordati da F. FAVALLI, 1995, p. 55). A Cerea, oltre ai Dionisi, avevano terreni investiti a riso anche i Rubiani, i Pompei, i Franco, i Medici. (B. CHIAPPA, 1986, p. 27; si veda anche precedentemente nota n° 25, cap. 1 del presente lavoro). La progressiva estensione della coltivazione del riso è stata indagata in numerosi studi all'interno di opere a carattere generale sull'economia e la società veronese; si segnalano, per quel che qui interessa, gli studi di G. ZALIN, 1981, passim, G. BORELLI, 1982, passim. I contributi più recenti sono di P. LANARO SARTORI, 1992, passim, V. CHILESE, 2002, passim. 71
ASVr , Fondo Campagna, dis. n° 306. (Tavola IV). Sul disegno torneremo in seguito, nel cap. 4, par. 4.1. La gelsibachicoltura cominciò a diffondersi nel Cinquecento quando i proprietari fondiari si impegnarono nel piantare gelsi per ricavarne in fasi successive di lavorazione, la seta grezza. È interessante notare come la bachicoltura sia stata una delle novità più importanti del Settecento veronese, secolo in cui il mercato della seta si sostituì a quello della lana; si segnalano i contributi di P. LANARO SARTORI, 1992, pp. 231- 227, F. VECCHIATO, 1996, p. 136, G. BORELLI, 2000, p. 51, P. LANARO SARTORI, 2005 p. 151-152. Beninteso, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e all’avanzata dell’industria tessile, l’allevamento dei bachi da seta, cadde in disuso. La prevalenza nel Settecento di terreni nella zona di San Pietro di Morubio coperti da gelsi, è messa in evidenza da F. FAVALLI, 1995, p. 23: lo studioso scrive che essi fornivano anche il frutto della mora che veniva consumato direttamente, oppure serviva per fare “il meleto”, una sorta di confettura. 72
Caratteristica precipua delle società preindustriali era quella di avere nell’agricoltura l’elemento portante della loro economia. Per quanto riguarda “la corsa alla terra” come investimento economico da parte del patriziato veronese, si rinvia a G. M. VARANINI, 1982, pp. 185-262, P. LANARO, 1992, pp. 225-237. 73
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Repubblica di San Marco aveva disposto che in ogni città di terraferma si formasse un’accademia di esperti agricoltori che “si occupasse con buoni metodi e assiduo impegno sui modi di trarre dalla terra quel maggior frutto che rispettivamente alla diversa natura del suolo può essa somministrare” 74. Dunque l’obiettivo preposto dalla Serenissima era rivolto al miglioramento dei terreni per accrescere quanto più possibile il reddito delle coltivazioni anche attraverso la promozione di opere di bonifica. Orazio Guastaverza, registrato tra i primi soci di quella che poi, in un secondo momento, verrà nominata Accademia di Agricoltura, Commercio e Arti75 (per un allargamento dei suoi interessi), era ben disposto a fornire le sue conoscenze in fatto di agricoltura; la sua attiva partecipazione alla commissione accademica rappresenta una testimonianza evidente di un’attenzione sempre più ampia connessa a quella civiltà di villa, legata, in primis, al suo ruolo di azienda agricola. 76 I Guastaverza quindi, nati come mercanti di lana –in seguito al declino della mercatura a Verona- tra Quattrocento e Cinquecento,77 convertirono la propria economia dall’attività commerciale al settore primario, investendo capitali per assicurarsi il possesso di beni fondiari. Le terre fertili, di medio impasto o argillose, della zona di Cerea, San Pietro di Morubio e Angiari permettevano di fornire una buona produttività e furono sicuramente molto ambite dalle nobili famiglie veronesi e dagli enti ecclesiastici: nel Seicento l'arativo e l'arativo vitato consentivano rendite dominicali spesso superiori ai due ducati al campo. 78 Grazie a tali investimenti, nel XVIII secolo i 74
AA.SS.LL. Lettere ducali di A.Mocenigo del 10 settembre e del 1 ottobre 1768.
L’Accademia di agricoltura veronese era una sorta di palestra culturale a cui partecipavano personaggi appartenenti alla classe dirigente cittadina: i soci dovevano essere per statuto tutti nobili o grandi possidenti terrieri; argomenti inerenti all’agricoltura e alla vita rustica erano sicuramente al centro di appassionati dibattiti. Si rimanda, a tale proposito, a F. GIACOBAZZI FULCINI, 2001, pp. 248-252. 75
Sul fenomeno storico, economico, culturale definito da più parti “civiltà di villa”, i testi che trattano dell’argomento sono molteplici. Per quel che qui interessa si veda in particolare L. PUPPI, 1975, pp. 87140, J. S. ACKERMAN, 1992, pp. 3-37, Andrea Palladio e la villa veneta..., 2005, passim. 76
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Il commercio dei pannilana nel Quattrocento costituiva la fonte primaria della ricchezza della città. Nel corso del XVI secolo, invece -a causa di avvenuti mutamenti sociali e ideologici- l'arte della lana e la mercatura subiranno un crollo drammatico: non più accettate tranquillamente come arti nobili e sconsigliate al patriziato, persero la loro preminenza; nel Cinquecento l'interesse da parte delle ricche famiglie veronesi, e non solo, si spostò verso l'attività agraria. A tale proposito si veda P. LANARO, 1992, pp. 58-59. 78
Le informazioni sono tratte da R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 8.
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Verza79 avevano raggiunto una piena dignità patrizia e una ragguardevole condizione economica come dimostrano le possessioni denunciate e, nell’area della bassa veronese, contribuirono a quella politica, promossa dalla Serenissima, di risanamento e miglioramento dei terreni;80 per la durata della loro presenza nel territorio ceretano e per l’estensione delle loro proprietà in questa zona, esercitarono un ruolo determinante per la società e l’economia di Cerea e San Pietro di Morubio, diventando –specie nel Settecento- protagonisti indiscussi della suggestiva villa di Ramedello.
79
Nel Settecento, in particolare, la nobiltà veronese insiste soprattutto nell’incrementare e organizzare interventi di bonifica e irrigazione dei terreni al fine di un loro corretto e redditizio sfruttamento (Sulla gestione delle acque si veda precedentemente note n° 6-7, cap.1). Alla metà del XVIII secolo, il possesso di beni fondiari costituiva ancora la principale risorsa economica del patriziato veronese. Secondo l'analisi sistematica condotta da Valeria Chilese -attraverso le polizze d'estimo- la maggior parte dei possedimenti (circa il 50%) interessava la zona della bassa veronese, area caratterizzata dal problema della gestione delle acque, ma in grado di garantire buone rese (V. CHILESE, 2002, pp. 449-450). 80
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22
CAPITOLO 3
Cenni sui passaggi di proprietà Prima di analizzare la struttura architettonica della villa, è opportuno soffermarci sui passaggi di proprietà che coinvolsero la residenza, e quindi sulle famiglie che si sono succedute. Per l’indubbio loro apporto anche alle trasformazioni strutturali e formali, essi rappresentano i veri protagonisti della residenza e, ovviamente, dell'organizzazione agraria ad essa collegata. Dall’analisi con confronti incrociati del “Campion delle strade” 81 relativo ai comuni di Cerea, Bonavicina e San Pietro di Morubio -come rileva Remo Scola Gagliardi- è possibile stabilire che verso la fine del XVI secolo, in contrada Ramedello, proprio al confine dei suddetti comuni, la famiglia Rambaldi possedeva tre tenute, tra cui quella da noi presa in considerazione, poi ceduta ai Verza. 82 Nel documento si legge: “una via comune inizia all’Olmo di fronte alla casa del Comune mediante la quale si va a S. Pietro di Morubio ed esce dai confini di Cerea in contrada Ramedello di fronte agli illustrissimi Canali ed a quelli detti Rambaldi, più oltre continuando si entra nei confini di S. Pietro sopradetto.” I Rambaldi erano presenti a Verona già dal XIII secolo e rivestivano cariche pubbliche importanti.83 Nel Cinquecento la famiglia investì i propri capitali in tutto il territorio veronese, ma soprattutto nella zona della bassa; la loro azione si concretizzò attraverso una massiccia serie di acquisti di beni terrieri in particolare nell’area di Palù, Cerea, Casaleone, territori che sottoposero ad importanti attività di bonifica. 84 Fin dal 1591 erano divenuti possessori di quasi mille campi, principalmente risarivi, in località 81
ASVr, Comune, reg. 313, f. 15.
82
R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 97.
83
Sulla famiglia Rambaldi, si rimanda a nota n° 36, nel cap. 2 del presente lavoro.
84
Per quanto riguarda l'impegno da parte dei Rambaldi in attività volte al miglioramento dei fondi terrieri si veda. R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), p. 97, P. LANARO, 1992, p. 253, A. FERRARESE, 2006, p. 120.
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Pranovi, sotto il Comune di Casaleone: in questa contrada all'inizio del Cinquecento avevano acquistato una tenuta con casa padronale, torre colombara, stalle e barchessa. 85 Per motivi che non ci è dato di conoscere, nel corso del Seicento decisero di spostare i propri interessi nell’alta pianura; così delle tre residenze a Ramedello solo una rimase in possesso dei Rambaldi. I Verza, come già accennato, si erano insediati nella stessa località a metà del XVI secolo, ma solo agli inizi del Seicento, verosimilmente, acquistarono dai detti Rambaldi la tenuta oggetto della nostra analisi. Nella polizza d’estimo dei Guastaverza del 1653 la villa è denunciata già come “casa da patron”: questo ci basta per smentire la presenza fra i proprietari, dalla metà del XVII secolo fino al 1682, dei Sagramoso. 86 Gli studi sulla villa sin qui citati 87 hanno infatti erroneamente assegnato il bene stesso alla casata veronese, ritenendo che fosse pervenuto alla famiglia per via dotale. In realtà il complesso arrivato ai Sagramoso dovrebbe essere villa Aldighiri – Righetti, detta “Castello di Ramedello”, 88 collocata a Ramedello, vicino alla nostra villa (esattamente a nord). L'edificio risale molto probabilmente al Quattrocento ed era di appartenenza sicura della stessa famiglia Rambaldi, poi passò ai Bevilacqua e successivamente ai Sagramoso. È credibile che proprio questo sia l’edificio confuso con il nostro. Non sappiamo nulla al momento sull’assetto e sulla configurazione della preesistente residenza dominicale, prima cioè delle operazioni di aggiornamento della domus, avvenute per volontà dei Guastaverza. La mappa redatta dal Bresciani nel 1725 è l’unico esiguo indizio che possediamo e mostra una struttura formata da torre colombara, affiancata da vari corpi; nel documento è disegnato un organismo architettonico molto diverso dall’attuale (ma su questo punto ritorneremo in seguito). Tuttavia è plausibile che all’epoca dei primi proprietari, i Rambaldi appunto, si trattasse di un’azienda agricola in cui la residenza dominicale era un palazzo di modesta 85
Sulla corte dominicale Rambaldi- Basadona ai Pranovi si veda R. SCOLA GAGLIARDI, 1992, pp. 255-256. Scrive G.F. VIVIANI, 1975, p. 258: “Fino a metà Seicento la villa deve essere appartenuta ai Rambaldi e da allora fino al 1682 ai Sagramoso ai quali sarebbe pervenuta per via dotale”. 86
87
Tale passaggio di proprietà viene confermato anche da E. AZZOLIN, 2003, p. 111-112- cat. vr 094.
88
Su Villa Aldighiri-Righetti, detta "Castello di Ramedello" alcune informazioni sono contenute in R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(a), p. 266, E. AZZOLIN, 2003, p. 105-cat. vr090.
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importanza; solo successivamente –con i Verza- si riqualificò attraverso una organizzazione e ristrutturazione degli spazi, abbelliti anche con la realizzazione di un apparato decorativo (soddisfacendo così la volontà di autocelebrazione della famiglia). Francesco Guastaverza, primogenito di Orazio e della contessa Lucrezia da Lisca, nel suo testamento stilato il 3 aprile 1781, nominava come sua erede universale di tutte le sue facoltà la moglie Silvia Curtoni Guastaverza, costituite da “beni, mobili, argenti, ori, gioie, denaro, semoventi, ed altro, debiti e crediti, azioni e ragioni tutto compreso e niente eccettuato”,89 includendo pertanto anche la villa di Ramedello. Francesco morì l’anno seguente, il 21 agosto 1782. La contessa, tuttavia, il 30 aprile 1783 -in presenza dei fratelli del marito defunto, Paolo Filippo ed Ignazio, firmava l’atto di rinuncia, cedendo pertanto tutti i beni ereditati ai due cognati. Si trattava di un contratto di “libera assoluta Cessione, e Rinoncia” deciso a causa dell’“inviluppo, che seco porta detta eredità, non meno per separare li Beni Liberi da quelli soggetti a Primogenitura, e Fideicommessi esistenti nella Nob. Famiglia Guastaverza, che per le emergenze di liti, che occorrer potrebbero a motivo di detta separazione.” 90 In cambio la Curtoni chiedeva il pagamento -da parte dei due fratelli Guastaverza- di millecinquecentoquarantacinque ducati annui divisi in tre rate uguali e si riservava la possibilità di disporre dei locali di servizio sia del palazzo in Bra, sia della villa di Ramedello: “quanto poi all’Alloggio in Villa di Ramedello continuerà detta Sig.ra Silvia nell’uso […] del suo consueto Appartamento con li corrispondenti Luoghi da Servizio, ed anche il Commodo occorrente per la Sua Servitù. Cedeva inoltre tutti gli immobili rurali e di campagna […], eccetto la Biancheria.”91 L’atto di rinuncia con le varie clausole soddisfaceva i due cognati (divenuti quindi i nuovi eredi della villa di Ramedello) e, inoltre, portava ad un generale clima di quiete e serenità familiare.
ASVr, Ufficio del Registro, atti del notaio Moretti Girolamo fu Giacinto, b. 7554, c. 114, 20/8/1782. Testamenti Dr. Girolamo Moretti Pubblico Nodaro di Città- Aperitio et publicatio cedulae testamentariae i.mi Nob. Domini Francisci Guastaverza. 89
ASVr, Ufficio del Registro, atti del notaio Bonenti Luigi Carlo, b. 2545, c. 573, 30/04/1783. Il documento è citato anche da F. UGLIETTI, 1983, p. 59-61, nota n°2. 90
91
Vedi nota precedente.
25
I Verza con la morte del nobile Orazio (figlio di Paolo Filippo e di Margherita Sparavieri), risultano estinti nella seconda metà dell'Ottocento.92 La villa nel XIX secolo passò ad una nuova famiglia: il 21 giugno 1849 Orazio, ultimo erede dei Verza, cedette la tenuta di campi 214 alla contessa Valeria Bonzi.93 Quest’ultima famiglia ha avuto tuttavia poca rilevanza per la storia della villa. Già dodici anni dopo, il 9 dicembre 1861, la residenza è documentata tra le proprietà dei Barbieri. 94 La famiglia Bottura ne è invece la più recente proprietaria, dal 1924. Grazie alla testimonianza di Anna Bottura e del nipote Francesco Cavallo, sappiamo che un antenato della famiglia, un certo Geremia Bottura, nel sesto decennio dell’Ottocento, era stato assunto come gastaldo. Aveva il compito, quindi, di dirigere e sovrintendere a tutti i lavori dell’azienda agricola, di occuparsi della gestione dei campi e del buon andamento dei raccolti; la sua posizione di responsabilità coinvolgeva la stessa famiglia. La villa con il brolo e i fondi terrieri formava una sorta di microcosmo sociale, un mondo chiuso in cui l'organizzazione dell'azienda esigeva delle precise gerarchie funzionali: al vertice c'era sicuramente il gastaldo, responsabile di tutto quanto avveniva nella tenuta. 95 Il ruolo di amministratore generale della villa passò poi, in seguito alla sua morte, al figlio Gaetano. Aldo Bottura -nato da quest'ultimo, nonché nonno degli attuali proprietari- ricordava in suo diario96 che lavorare alle dipendenze del "paron", secondo l'espressione dialettale corrente, era un compito arduo, carico di responsabilità e di gravami fisici; tuttavia era grato dei modi cordiali e comprensivi dei Barbieri, e riconosceva in tal senso –nell’occupazione di gastaldo del padre- un ruolo tutto sommato privilegiato, in grado di garantire alla famiglia una certa stabilità economica: A. CARTOLARI, 1854, p. 87: “Si estinse nel Nob. Orazio. Eredi i cugini Nob. Sparavieri e Bernini di Verona, e Vicamerati di Crema. Abitava il palazzo N. 2989 nella Piazza Bra. Ora del Nob. Antonio Sparavieri”. 92
ASVr, Catasto Austriaco, S. Zeno di Cerea, mappa n° 280, Registri n° 229-230, p.142: “Guastaverza nob. Orazio q. Paolo Filippo. Il 21 giugno 1849 la partita si trasferisce a Bonzi c.ssa Valeria q. Giuseppe. Il 9 dicembre 1861 la partita si trasferisce a Barbieri Domenico q. Giovanni.” 93
94
Si veda nota precedente.
95
Sul ruolo e le competenze del gastaldo nel territorio veronese V. FUMAGALLI, A. CASTAGNETTI, 1975, pp. 269-280.
Lo scritto intitolato “Un po’ di luce attraverso le inferiate di una vecchia dimora”, è conservato presso la villa stessa. 96
26
sentiva sÏ la soggezione del padronato, ma allo stesso tempo la consuetudine dei rapporti con i signori e le competenze di responsabilità nella conduzione dei fondi, lo ponevano su un gradino sociale superiore rispetto agli altri lavoratori della tenuta. 97 Nel suo memoriale Aldo Bottura raccontava dei progressivi miglioramenti in termini patrimoniali della famiglia: gli sforzi e il costante impegno avevano avuto i loro riconoscimenti. L’ultima erede del patrimonio della famiglia, Maria Barbieri, decise di nominare come esecutore testamentario della villa proprio Aldo Bottura.
97
Sulle gerarchie sociali nell'organizzazione delle grandi aziende delle basse, si veda E. TURRI, 1975, pp. 264-267.
27
28
CAPITOLO 4
Descrizione della villa 4.1. Vicende di trasformazione e aggiornamento della fabbrica nel Settecento
Il complesso Guastaverza comprende la residenza signorile con il fronte principale rivolto ad est, gli annessi rustici che si sviluppano nella parte retrostante, l’oratorio, il piccolo giardino nello spazio antistante.98 Nel 1820 Da Persico fa riferimento al “palagio” e alle “buone fabbriche rusticali dei nobili Guastaverza”. 99 Proprio la vicinanza ai fabbricati rustici conferma l’importanza primaria che pure i Guastaverza, al pari della nobiltà veneta in genere, attribuivano all’azienda agricola di cui controllavano costantemente l’andamento; si viene così a palesare uno stretto rapporto tra la classe nobiliare e i fondi agricoli, legame che nel Settecento si fa ancora più diretto.100 Occorre precisare che la pianura rispetto alla collina, geologicamente meno duttile, si prestava ad una maggiore trasformazione dei terreni, a miglioramenti dei suoli e a innovazioni dei metodi di produzione;101 a tutto questo si accompagnava, soprattutto
98
Si veda la planimetria del complesso in Appendice 4, nell'apposita sezione finale. Per quanto rigurada la villa alcune informazioni sono contenute nelle schede di G. VIVIANI, 1975, p. 697 cat. 258, A. SANDRINI, 1991, pp. 275-276; R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), pp. 253-254, E. AZZOLIN, 2003, pp. 111-112-cat. vr094. 99
G. DA PERSICO, 1974 (ed.anastatica), p. 253.
100
Per la relazione tra patriziato e le proprietà terriere in area veneta, argomento qui in precedenza a grandi linee toccato, ci siamo avvalsi in particolare dei contributi di G. M. VARANINI, 1982, pp. 182262, P. LANARO SARTORI, 1992, pp. 225-237. In generale sull’agricoltura in area veronese, si sono considerati gli studi di G. BORELLI, 1982, pp. 263-306, P. LANARO, 1982, pp. 307-344. 101
La gestione delle terre appare diversa a seconda della zona geografica: nella bassa pianura i patrizi, con un atteggiamento quasi imprenditoriale, mostravano uno sforzo innovatore, volto ad un processo di sfruttamento agricolo su vaste possessioni di terreno, nell'area collinare i proprietari fondiari svolgevano una politica più statica e rigida ostacolando in parte l'evoluzione di questa zona verso forme di sviluppo più moderne. Sul tema si veda P. LANARO, 1992, p. 238.
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nel trapasso dal XVII al XVIII secolo, l’erezione o la ristrutturazione di ville dislocate nella bassa veronese.102 Il progetto di aggiornamento della domus dominicalis di Ramedello avvenne per opera di Paolo Filippo Guastaverza, il quale intraprese, come si vedrà, un programma volto a “caricare” l’architettura di precise valenze sociali e culturali, con lo scopo, quindi, di sigillare nell’edificio-villa una precisa identità nobiliare. La volontà di autoaffermazione passava, anche per i Guastaverza, né poteva essere altrimenti, attraverso l’ars edificatoria, e trovava stabilità negli spazi di rappresentanza della residenza di Ramedello e nel vivificante salotto letterario tenuto nei mesi estivi. La dimora di campagna che nella polizza d’estimo del 1653, come già si è detto, era nominata “casa da patron”, nel Catasto Napoleonico e in quello Austriaco è invece indicata come “casa di villeggiatura”, a testimoniare il mutamento dell'atteggiamento culturale nei confronti della campagna, in cui la residenza agreste rappresentava, ormai, più il luogo dell'ozio che dell'impegno economico. In un ambiente di quiete -che soddisfava il buon ritiro, conciliando il silenzio della meditazione con il piacere della conversazione- le esigenze di un comodo soggiorno erano chiaramente soddisfatte. D’estate, quindi, le consuetudini salottiere e cittadine delle famiglie aristocratiche venivano trasferite nella dimora campestre. Già nel Settecento lo spirito della vita in villa si definiva all’interno di una dimensione mondana, di “villeggiatura”, pur rimanendo, tuttavia, strettamente legato all’attività agricola e agli interessi fondiari; (su questo punto ritorneremo nell’ultimo capitolo). Nell' Ottocento, invece, il processo di sfaldamento delle proprietà terriere e la loro perdita di redditività avevano già iniziato a smantellare il sistema della "civiltà di villa" nel Veneto. La corte di Ramedello a Cerea, nel XVIII secolo, tra le varie abitazioni che figurano denunciate dalla famiglia Guastaverza, costituiva certamente la residenza di Oltre alla ristrutturazione di Villa Guastaverza Bottura, da noi presa in considerazione, ricordiamo nella zona gli ampliamenti e aggiornamenti, avvenuti nel XVIII secolo, di villa Pellegrina ad Isola della Scala, villa Pindemonte al Vò, villa dei Grimani a Pontepossero di Sorgà. Su villa Pindemonte si veda Villa Pindemonte..., 1987, passim; alcuni riferimenti sulle ville della bassa veronese in G. BORELLI, 1975, p. 156-161. Per la zona di Cerea e San Pietro di Morubio ricordiamo gli acquisti di possessioni e le sistemazioni del territorio da parte dei conti Della Verità, dei Ridolfi, dei Dionisi. Le abitazioni di questi ultimi, insieme a quelle dei De Medici, degli Ormaneto, degli Sparavieri, assunsero nel Settecento l’aspetto di un vero e proprio palazzo residenziale dalle forme architettonicamente ricercate con largo impiego di motivi ornamentali e della decorazione ad affresco. A tal proposito si rinvia ai contributi di R. S. GAGLIARDI, 1991(a), pp. 253-267, Id, 1991(b), in particolare pp. 98-99; pp. 106-108; pp. 249-252. 102
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campagna prediletta da tale casata, la dimora più autorevole e fastosa, tanto da indurre gli stessi proprietari a ripetuti interventi di abbellimento e di aggiornamento. La villa dalla seconda metà del Seicento appare denunciata come proprietà della famiglia. Difficile risalire al momento preciso di inizio e conclusione dei lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’edificio, soprattutto a causa della difficoltà di reperire, tra le fonti archivistiche, notizie dirette relative al complesso stesso; confrontando una mappa del 1725 realizzata da Francesco Bresciani103 [Tavola III] con un altro disegno del 1778 redatto da Antonio Roveda 104 [Tavola IV] sono evidenti i lavori di trasformazione della fabbrica dominicale (pur tenendo conto della possibile approssimazione circa la restituzione tipologica e l’ubicazione dei vari corpi edilizi) [Tavola V]; in particolare nella prima mappa – con una rappresentazione assonometrica degli edifici- si può osservare che l’oratorio di famiglia indicato nel documento come “Chiesa di Ramedello del nob. Gerolamo e fratello Guastaverza” era separato dal complesso. Negli anni compresi fra il 1725 e il 1778 venne modificato il tracciato della strada cha porta a San Pietro di Morubio, con l’annessione quindi dell’oratorio alla villa. Nel disegno del 1725 (che ci permette di stabilire un termine ante-quem secondo il quale gli interventi di ristrutturazione non potevano ancora essere iniziati), sono raffigurati vari corpi, affiancati da una torre colombara, di cui non è rimasta traccia. ASVr, fondo VIII vari, Decima Grande di Cerea, dis. n°3. Si tratta di un disegno eseguito da Francesco Bresciani per identificare gli appezzamenti soggetti alla Decima Grande di Cerea. Per quello che riguarda più strettamente la nostra ricerca riportiamo parte della legenda; n°20: una pezza broliva a Ramedello, il palazzo del nob. Verza suddetti e ciascuno ha una barradora di pietra sopra la muraglia; n°93: una pezza con vigne e sopravi tre casotti e Chiesa di Ramedello del nob. Gerolamo e fratello Guastaverza; n°89: una pezza con vigne dei due nob. suddetti Verza, detta la Cavarzara; n°19: una pezza prativa nella contrà predetta dei nobili suddetti fratelli Verza; n°18: una pezza prativa a Ramedello con casa di uso dei lavorenti. Sulla decima scrive R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), pp. 53-57, che spiega come già a partire dall’Alto- Medioevo quasi tutto il territorio venne assoggettato ad una specie di tassa da pagarsi in natura (cereali, animali e vino); si trattava del versamento della decima parte dei frutti ricavati dalle terre. Prima del XII secolo i prodotti venivano devoluti tre quarti alla chiesa locale, un quarto al vescovo, secondo la regola introdotta dal vescovo Gelasio (precedentemente il versamento riguardava solo la pieve). Dopo il XII secolo, e in particolare durante l’epoca della dominazione veneziana, godevano del diritto di decima anche i signori locali; quest’ultimi, divenuti i maggiori fruitori aventi diritto della ripartizione dei prodotti, si riunirono in apposite organizzazioni, prendendo il nome di “Compratoni” o “Condomini”. La Decima Grande di Cerea comprendeva anche i territori di Malavicina e Aselogna. Le quote di decima in questo caso aspettavano una parte alla pieve, il resto era ripartito tra nobili famiglie. 103
ASVr, Fondo Campagna, dis. n° 306. Qui sono delineati i possedimenti dei fratelli Filippo e Ignazio Guastaverza posti nelle pertinenze di Cerea, Malavicina, San Pietro di Morubio e Roverchiara. Il brolo con le fabbriche dominicali, la corte, il giardino e l’orto a Ramedello si estendono per campi 8,3. 104
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Verosimilmente, nel Quattro-Cinquecento, molte corti con “casa da paron” e “casa da lavorente”, erano dotate di torre colombara, struttura muraria solitamente a base quadrangolare, con funzione abitativa e difensiva. Tuttavia nel corso del Settecento (e soprattutto nel secolo successivo) -in seguito ai cambiamenti della società e delle esigenze abitative- tale elemento architettonico perse la propria importanza, e venne sostituito da abitazioni più comode e funzionali.105 Conviene precisare che, nel secondo decennio del XVIII secolo, di torri colombare, nel territorio considerato, se ne contavano dodici (oggi invece ne rimangono cinque); la maggior parte di questi edifici erano inclusi nelle corti dominicali, solo tre si trovavano vicino alle “case da lavorente”. 106
Nella contrada di Ramedello di torri colombare se ne contavano due, di cui una
faceva parte, appunto, del complesso di villa Gustaverza; in questa zona oggi, invece, possiamo ammirare solamente quella di villa Aldighiri-Righetti. 107 I due disegni del 1725 e del 1778 affiancati alla mappa del Catasto Napoleonico (1813)108 e a quella del Catasto Austriaco (1845) 109 [Tavola VI] –assieme ad un ulteriore confronto con le visure dei fabbricati d’impianto risalenti al dopoguerra e quindi del Catasto attuale [Tavola VII] - ci offrono pertanto una visualizzazione immediata della pianta della villa e delle modifiche avvenute; dovendo fare i conti con una carenza di fonti scritte, l’apparato cartografico sopperisce a questa lacuna fornendoci una restituzione diacronica delle modifiche apportate al complesso nel corso degli anni e ci offre, inoltre, informazioni sulle trasformazioni che hanno coinvolto i tracciati delle strade e i corsi d’acqua.110 Nella mappa redatta da Roveda (1778) la facciata della villa 105
R. SCOLA GAGLIARDI, 1991(b), pp. 121-124.
106
Ivi, p. 123.
È detta anche “Castello di Ramedello”; nella mappa del Bresciani del 1725, è indicata come “palazzo Sagramoso” ed è raffigurata con imponente torre colombara, a base quadrata [Tavola III]. Sulla tale villa si veda la precedente nota n° 88, cap. 3. 107
108
ASVr, Catasto Napoleonico, Comune Censuario San Zeno di Cerea, mappa n. 485 (barcode 013753).
109
ASVr, Catasto Austriaco, Comune Censuario San Zeno di Cerea, mappa n. 280.
Sulla rappresentazione grafica del territorio della pianura veronese dal Tregnon all’Adige si veda R. SCOLA GAGLIARDI, 1999, in particolare pp. 1-24; Dello stesso autore è utile ai fini della nostra ricerca R. SCOLA GALIARDI, 1991(b), pp. 13-47, in particolare pp. 33-37. Sull'argomento si rinvia, inoltre, a V. GIORDANO, 1987, pp. 181-182. 110
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appare orientata ad est, con gli annessi rustici sviluppati nella parte retrostante, mentre il giardino è indicato nella zona antistante alla residenza, la chiesetta è posta in prossimità della strada comunale, l’orto è, invece segnalato sul versante settentrionale. Nonostante il mutare, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, delle esigenze estetiche e pratiche dei proprietari e del gusto degli architetti, il palazzo padronale conserva pressoché identica la forma settecentesca. Per gli edifici rustici -almeno per quanto concerne il loro disegno in pianta- non riscontriamo nel confronto tra la trama degli edifici della mappa del 1778, la planimetria del fabbricato del Catasto Napoleonico, quella del Catasto Austriaco e quella del Catasto attuale, rilevanti differenze.111 Tuttavia dall’osservazione diretta del complesso, si possono notare dei cambiamenti non rilevati nella mappa conservata presso l’ufficio catastale di Verona. Gli annessi rustici, infatti, hanno subito ampliamenti e modifiche, testimonianza di una necessità di adeguamento ai mutamenti relativi alle modalità di gestione agraria. Dall’analisi della attuale planimetria notiamo, in particolare, l’aggiunta di una torre in mattoni (sul versante sud), fatta costruire dalla famiglia Bottura e utilizzata come spazio abitativo nei mesi invernali.112 Negli ultimi anni del Novecento è stata aggiunta una piccola ala sporgente (sempre sul prospetto meridionale) nella quale ha ancora oggi sede un’azienda agricola; il corpo rustico retrostante alla villa, con la facciata orientata ad est, risale verosimilmente al Quattrocento e, probabilmente, era utilizzato come residenza; oggi è adibito a deposito di attrezzi agricoli 113 [Tavola VIII]. Non è più presente il corpo d’impianto rettangolare sul versante settentrionale, che costituiva, insieme agli altri edifici retrostanti, un ambiente indispensabile per il buon funzionamento dell'azienda agricola. 111
Confrontando i dati ricavati dal sommarione del Catasto Napoleonico (ASVr, Catasto Napoleonico, Sommarione n. 485, Comune Censuario S. Zeno di Cerea) con i registri di quello Austriaco (ASVr, Catasto Austriaco, reg. 229, Comune Censuario S. Zeno di Cerea), le dimensioni (in pertiche censuarie) del palazzo e dell'oratorio sono identiche. Un ampliamento hanno subito gli annessi rustici; nel Catasto Napoleonico sono indicati come "casa da gastaldo"(con una superficie di 2.69 pertiche censuarie) nel Catasto Austriaco come "fabbricato per azienda agricola rurale"(con una superficie di 3.26 pertiche censuarie). Per un confronto dei dati, si rimanda alle Appendici 2 e 3, nella sezione finale. 112
Si vedano in Appendice 4 i prospetti est e sud del palazzo in cui è visibile la torre fatta erigere dai Bottura. 113
Di tale edificio rustico, si rimanda alle piante, ai prospetti e alle sezioni in Appendice 4.
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4.2. Caratteri architettonici e tipologici
Bruno Bresciani definisce la villa “notevole per signorilità di linee architettoniche”114 e “di speciale distinzione e grandiosità”115: la facciata presenta forme simmetriche basate sulla ripetizione modulare dei suoi elementi strutturali; appare piuttosto regolare con l’unica scansione ritmica data dalle finestre e dalle quattro possenti paraste di ordine ionico che sorreggono l’architrave, suddividendo il settore centrale, appena aggettante. Questo si eleva fino a toccare la linea di gronda e sorregge un massiccio attico, anch’esso scandito da paraste poste in continuità con quelle inferiori su cui campeggia lo stemma della famiglia. La trabeazione e il lineare frontone, che funge da coronamento, sono decorati da acroteri e da statue raffiguranti Bacco e divinità agresti con fiori e cornucopia, ma su questo punto torneremo più avanti. 116 Come evidenzia Arturo Sandrini 117 e come emerge da un intervento di restauro risalente agli anni Novanta del Novecento, la facciata presentava un’illusionistica partitura architettonica, testimonianza di un retaggio legato ad un gusto ancora baroccheggiante. Le finestre semplici e rettangolari sono riquadrate da profili di pietra; quelle del piano nobile dovevano originariamente essere enfatizzate da imitazioni pittoriche di frontoncini spezzati, quelle del piano terra, invece, erano coronate da finti timpani curvi. Leggere tracce di colore testimoniano la scelta dell’ocra e del rosso, utilizzati anche per la decorazione delle fasce della trabeazione. I portali delimitati da lisce lesene con capitello dorico sono sormontati da un arco a tutto sesto con chiave di volta a voluta; quello del pian terreno é rialzato su gradini, quello del piano soprastante è 114
B. BRESCIANI, 1954, p. 59.
115
Id, 1957, p. 38.
116
Si veda par. 4.3.
117
A. SANDRINI, 1991, pp. 275-276.
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contraddistinto da una piccola balaustra ed arricchito da una decorazione lignea 118 [Tavola IX]. Le linee architettoniche che la facciata presenta, dunque, ci rimandano ad un gusto neoclassico, linguaggio che si diffuse all’incirca intorno alla metà del XVIII secolo. Il virage classicistico impresso in questi anni all’architettura, il richiamo all’ordine e alla compostezza formale connotavano soprattutto il pensiero e il gusto di intellettuali e artisti locali, tra i quali ricordiamo gli architetti e trattatisti Alessandro Pompei e Girolamo dal Pozzo, ed ovviamente l’illustre Scipione Maffei. 119 Il culto della cultura classica e la diffusione del linguaggio neoclassico intorno alla metà del Settecento, dovevano avere influenzato anche lo stesso Paolo Filippo Guastaverza come dimostra appunto la facciata tradizionalmente classicista. L' impianto tipologico ricalca lo schema tradizionale della villa veneta, con il salone passante centrale, affiancato dai vani laterali, sia per quanto riguarda il piano terra, sia per il piano nobile. Tali spazi si connotano per moduli larghi e luminosi; il salone centrale del pian terreno, con soffitto a travature lignee, è affiancato da quattro ampie stanze, poste simmetricamente, oggi utilizzate come due studioli, sala da pranzo e cucina. Sulla parete di fondo, da una delle due porte gemelle ad arco -aggiunte solo in un secondo momento- si diparte uno scalone che consente l’accesso al piano nobile. È ipotizzabile che in origine le rampe di scale fossero due e che si incontrassero nel mezzanino, rispondendo in tal modo ad un gusto più legato a criteri di simmetria. Lo schema del primo piano ricalca esattamente quello del piano terra, ma con un’altezza più imponente.120 Qui il salone circondato da due ampie stanze da letto, precedute da due anticamere, si presenta riccamente affrescato, quasi sicuramente –secondo il parere di alcuni studiosi dell’arte- per opera di Giorgio Anselmi, ma su questo punto torneremo in seguito.121 118
Per un riscontro visivo, si rinvia ad Appendice 4, nell'apposita sezione finale; in particolare si veda il prospetto est, corrispondente alla facciata del palazzo. 119
Sulla connotazione classicista che si vuole imprimere all’architettura nel Settecento e sui dibattiti teorici del secolo, basti qui rinviare a A. SANDRINI, 1988, pp. 261- 279. 120
Si vedano in Appendice 4 le piante dell'edificio padronale.
121
Si veda oltre cap. 5, par. 5.2.
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In corrispondenza del lato occidentale della villa, nel mezzanino, sono stati ricavati una serie di piccoli ambienti, destinati a funzione di cucina e salotto; sono tutt’oggi utilizzati dagli attuali proprietari, i Bottura, come residenza invernale; tuttavia non possediamo elementi certi, tali da asserire che questi spazi, all’epoca dei Guastaverza, rivestissero la medesima funzione. Prima degli anni venti del Novecento, secondo la testimonianza dell’attuale proprietaria, esisteva una scala esterna, posta sul versante meridionale, che conduceva direttamente ai piani superiori. Il sottotetto, un tempo utilizzato come granaio, oggi è invece adibito a soffitta. Il nome dell’architetto non ci è noto, ma sicuramente non introdusse particolari e originali novità di composizione, attenendosi piuttosto ad un modello di pianta consolidato. La tipologia architettonica di tale villa richiama -per assonanze strutturali- quella della vicina villa a Cà del Lago dei nobili Dionisi, 122 progettata e realizzata -come vedremo123- da Gabriele Dionisi124 negli anni compresi fra il 1740 al 1766.125 Si rilevano analogie sia per quanto riguarda la disposizione degli spazi interni, sia per le stringenti affinità di dettato architettonico. Tali vicinanze compositive si riscontrano non tanto con la facciata principale -che si caratterizza per la presenza del portico-loggia, connotandosi, pertanto, come struttura "aperta", quanto con il prospetto della villa rivolto verso la corte126 [Tavola X]. Quest'ultimo, più compatto, presenta, come la facciata di palazzo Guastaverza, due piani coronati nella parte centrale da un timpano rialzato, corrispondente alla loggia del prospetto principale; in entrambi i casi, al piano terra, si aprono sei finestre contornate da un'incorniciatura lapidea, al centro un portale ad arco su gradini. Nel prospetto qui considerato di villa Dionisi, tuttavia, la cornice di 122
Su villa Dionisi a Cà del Lago si veda precedentemente nota n°14, cap. 1 del presente lavoro.
123
Si rinvia a cap. 5, par. 5.1.
124
In particolare sul ruolo di Gabriele Dionisi come architetto e sulla progettazione della fabbrica, rinviamo a A. SANDRINI, 1986, pp. 35-64. 125
Ivi, p. 38.
126
Ibidem; Inoltre per la descrizione del prospetto, da noi considerato, si veda E. AZZOLIN, 2003, p. 109-cat. vr093.
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gronda si interrompe nella zona centrale per dare spazio al timpano rialzato, nel nostro, invece, crea un continuum di linee. Al centro della facciata, all'altezza del piano superiore, entrambe presentano il motivo del portale ad arco con il balconcino balaustrato, ma in villa Dionisi, esso si presenta a pianta curvilinea, nel palazzo di Ramedello, invece, è in linea con la parete muraria. La facciata, beninteso, nella dimora Guastaverza è contraddistinta, come si è detto, da alte paraste con capitello a volute, mancanti nel prospetto rivolto sulla corte di villa Dionisi. Esse, insieme alle tracce sulla parete muraria della decorazione architettonica, contribuiscono a rendere la struttura della domus a Ramedello più ricca e complessa rispetto a quella di Cà del Lago. Di quest'ultima, del resto, si prende qui in considerazione la facciata secondaria, la meno importante. Le scelte formali e spaziali dei due edifici, molto simili, ci portano ad ipotizzare che potesse esistere, fra le due nobili famiglie, un legame sociale, di scambio culturale, e perché no, anche di contaminazione di un certo gusto architettonico. Legame, verosimilmente, favorito sia dal ruolo prestigioso rivestito dalle due casate -che portava le famiglie appartenenti alla stessa classe nobiliare a tessere una rete di relazioni tra loro- sia dalla vicinanza delle rispettive dimore rurali, entrambe collocate nel territorio ceretano. Purtroppo le informazioni in nostro possesso, come già si è visto, non consentono di fornire risposte precise per quanto riguarda i lavori di ristrutturazione e aggiornamento della domus a Ramedello; come abbiamo dimostrato, dal confronto delle mappe, essi devono essere avvenuti tra il 1725 e il 1778. La realizzazione della villa a Cà del Lago risale, invece, sicuramente agli anni compresi tra il 1740 e il 1766. A questo punto è comunque possibile formulare delle ipotesi: potrebbe essere che il palazzo dei Guastaverza sia stato realizzato precedentemente a quello dei Dionisi. È verosimile, quindi, che il marchese-architetto, dopo aver visto la residenza dei Verza, nel momento della progettazione della facciata (quella rivolta sul prospetto retrostante), si sia fatto influenzare. Ad ogni modo la vicinanza fra i due palazzi rappresenta un
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indizio suggestivo di un possibile intreccio tra le due famiglie, di una relazione non scevra da influenze estetiche e di gusto. 127
4.3. Alcuni cenni sulle sculture che decorano l’esterno
Le sculture poste a coronamento del classicheggiante edificio di villa Guastaverza, contribuiscono a conferire un senso di elevazione all’insieme: le opere venate di arcadica raffinatezza, come già si è detto, raffigurano Bacco, il dio del vino posto al vertice del frontone e due divinità agresti (in parte oggi danneggiate e abrase), collocate alle estremità del compatto blocco di facciata. Più precisamente, quella sull'estremità sinistra tiene in mano dei fiori, l'altra, invece, sul bordo destro, regge una cornucopia, simbolo di prosperità e abbondanza. Le statue si connotano per una certa eleganza barocchetta, con panneggiamenti appiattiti ed avvolgenti. Sulla base di confronti stilistici, esse sono state attribuite alla prolifica bottega di Lorenzo Muttoni, 128 il quale nella seconda metà del Settecento, realizzò per villa Dionsi a Cà del Lago le quattro statue di figure femminili poste sul coronamento della facciata.129 Il dio Bacco, collocato al vertice del frontone, nonostante una certa rigidezza compositiva rivela i caratteri peculiari dell’opera dell’artista veronese: un’eleganza che rimanda a modi barocchi, il panneggio piatto che avvolge la figura, la cesellatura della chioma ricciuta, l’appoggio su una sola gamba, e infine, i volumi torniti delle gambe. Le analogie stilistiche e compositive che legano l’attività plastica della bottega del Muttoni alle sculture che decorano la villa di Ramedello sono evidenti se si prende 127
A rafforzare la nostra ipotesi di un possibile legame sociale e culturale fra le due famiglie, torna utile rilevare che in anni più tardi (anni Settanta del Settecento), la villa a Ramedello era frequentata dal canonico Giovanni Jacopo Dionisi (1724-1808), unico fratello di Gabriele (1719-1808), il costruttore della villa di Cà del Lago (B. CHIAPPA, 1986, p. 18). Egli era un erudito di altissimo valore e amico, come vedremo, di Silvia Curtoni, nobildonna legatasi, attraverso il matrimonio, alla famiglia Verza (F. UGLIETTI, 1983, p. 47). Opinione di A. SANDRINI, 1991, p. 276. Utili riferimenti sulle sculture di L. Muttoni (1720; 1778) in D. ZANNANDREIS, 1891, pp. 410-413, C. SEMENZATO, 1966, pp. 72;144, G. ERICANI, 1987, pp. 161- 164. 128
129
Si veda, a tale proposito, A. SANDRNI, 1986, p. 54, Id, 1991, p. 276.
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come riscontro visivo la serie di statue mitologiche di villa Pindemonte a Isola della Scala (poste sul coronamento della facciata), realizzate dallo stesso Muttoni, secondo quanto attesta lo Zannandreis, intorno al 1742. 130 Le sculture raffiguranti divinità femminili agresti collocate alle estremità del frontone appaiono, invece, più slanciate; si avvicinano pertanto a quel repertorio muttoniano di figure femminili che si connotano per forme più allungate e per una maggiore grazia: vicinanze stilistiche sono riscontrabili confrontando le nostre con le quattro statue di figure femminili che decorano il fastigio della facciata di villa Dionisi, scolpite dal Muttoni intorno al 1765 [Tavola XI].
4.4. Comunione tra architettura e natura
Tre cancelli in ferro battuto immettono alla villa: quello centrale, di maggiori dimensioni è collocato in linea con la facciata principale del palazzo, gli altri due sono posti rispettivamente a destra, nell'area attigua al parco, e a sinistra, sul versante sud [Tavola XII]; un sentiero che si diparte dall’ingresso del lato orientale conduce al palazzo e incontra, circa a metà, un altro vialetto perpendicolare alla cui estremità -rispettivamente in prossimità dell’oratorio e nella zona adiacente al parco- sono posti simmetricamente due cancelletti affiancati da muretti con putti. Gli spazi interclusi dagli assi fra loro ortogonali sono pause di verde [Tavola XII]. Il giardino è delimitato -nel passaggio dal lato orientale della facciata, a quello sud adiacente (e simmetricamente anche sul versante opposto)- da ulteriori bassi muretti collocati a semicerchio che suggeriscono un senso di avvolgimento, assecondano una chiusura di forme, ricreando nel nostro immaginario la tipologia del giardino come locus amoenus, come spazio privato; un luogo ideale per il ritiro patrizio che si integra felicemente con il complesso architettonico. Esso crea un unicum con la villa secondo una tipologia che vede nel giardino un elemento complementare dell’architettura. D. ZANNANDREIS, 1891, p. 411. Sull'attività del Muttoni a villa Pindemonte si rinvia a L. PUPPI, 1975, p. 139, G. ERICANI, 1987, in particolare pp. 161-164; per il confronto visivo con le statue, si vedano le immagini nello stesso saggio, figg. p. 162.
130
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Sicuramente contribuiva a rafforzare –in base a quella che doveva essere la volontà dei Guastaverza- la funzione rappresentativa dell’edificio, diventando nei mesi estivi il luogo prediletto per le disquisizioni letterarie e filosofiche. Veniva così a concretizzarsi, nell’elemento giardino, l’esigenza di uno spazio tranquillo, in un vivificante contatto con la natura. Nell’equilibrato rapporto fra otium e negotium, al giardino doveva aggiungersi anche l’orto, posto sul versante settentrionale, come dimostra il disegno del 1778 eseguito da Roveda su commissione dei richiedenti Filippo e Ignazio Guastaverza 131
e come si può notare osservando la mappa del Catasto Napoleonico 132; difficile è
risalire alla loro articolazione originaria proprio a causa della mutevolezza insita agli spazi verdi che attorniano la villa. 133 Oggi il parco ben curato presenta piante secolari, pioppi, magnolie, alberi da frutto e si connota come spazio ampio, aprendosi verso la campagna circostante e realizzando quell’integrazione con il paesaggio più volte vista nell’opera palladiana 134 [Tavola XIII]. Annotiamo due alberi di tasso, uno dei quali ritenuto l’esemplare più grande della provincia di Verona. Nella villa Guastaverza, come nelle altre della bassa veronese, si viene a rafforzare il legame tra architettura e campi coltivati proprio perché la topografia rende impossibile l’innalzamento del sito [Tavola XIII]; l’edificio sembra spaziare senza limiti –sul versante occidentale- nella campagna circostante, in una serena sintonia con l’ambiente. Il paesaggio campestre attraverso l’agricoltura viene modificato, intaccato dall’uomo che lo migliora in vista di un maggiore rendimento dei suoi frutti; allo stesso tempo lo stretto legame tra architettura e campagna finisce per infondere –in chi partecipa di questa relazione- un sentimento di attrazione verso la natura. Natura vissuta in modo contemplativo, mediante una ricerca costante di una dialettica tra elemento 131
ASVr, Fondo Campagna, dis. n° 306 [Tavola IV].
132
ASVr, Catasto Napoleonico, Comune Censuario di San Zeno di Cerea, mappa n. 485 [Tavola VI].
Per un approfondimento sul tema del giardino in villa si rimanda a A. CONFORTI CALCAGNI, 1988, pp. 347-413; Ead, 2003, passim, Ead, 2007, passim. 133
Sul paesaggio descritto, in particolare quello creatosi tra XVI e XVIII secolo, numerosi sarebbero i rimandi bibliografici; qui è sufficiente rinviare a D. COSGROVE, 2000, in particolare pp. 151-180; Andrea Palladio e la villa veneta..., 2005, passim. 134
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naturale e elemento culturale, tra dimensione solitaria e dimensione mondana. Questa compenetrazione di aspetti sarà ripresa nell’ultimo capitolo dedicato a Silvia Curtoni Verza (di cui abbiamo già accennato), nobildonna che andò in sposa ad un membro della famiglia Guastaverza.
4.5. L’oratorio privato
Le maggiori residenze di campagna, secondo una tradizione ormai consolidata nel XVIII secolo, si caratterizzavano per la presenza di un piccolo oratorio. 135 Si trattava quasi sempre di un edificio appositamente realizzato –oltre che per scopo devozionaleper confermare, ancora una volta, il prestigio della famiglia. L’ampliamento e la valorizzazione della corte attraverso l’erezione di un piccolo luogo di culto corrispondeva ad una precisa volontà di autoesaltazione, di esibizione di censo, quale attestato della posizione raggiunta. A Cerea tra la fine del Seicento e nel corso del Settecento –a testimonianza di un momento di particolare fioritura dei luoghi di cultofurono edificati, oltre a quello oggetto della nostra ricerca, anche gli oratori di villa Dionisi a Cà del Lago,136 di villa Franco al Piatton,137 della famiglia Medici,138 altri
Sulla massiccia diffusione degli oratori accanto alle ville si rinvia a G. COZZI, 1984, p. 537; P. MOMETTO, 1985, pp. 611-612; L’oratorio può trovarsi spesso a terminare un’ala delle barchesse, oppure si tratta di un edificio indipendente dal complesso, talvolta preesistente alla villa stessa, altre volte è una cappella ricavata in una delle stanze del palazzo dominicale (G. F. VIVIANI, 1983, pp. 48-50). 135
136
Sul tempietto di villa Dionisi, sintetiche informazioni in A SANDRINI, 1986, pp. 43. Per quanto riguarda gli interni alcune notizie in E. M. GUZZO, 1991, p. 292. 137
Sintetiche informazioni sull'oratorio annesso a villa Franco al Piatton, in E. AZZOLIN, p. 106-107cat.091. Sugli arredi decorativi si veda E. M. GUZZO, 1991, pp. 292-293. 138
Brevi riferimenti sulla chiesetta addossata al palazzo De Medici in E. AZZOLIN, p. 107-cat. vr092.
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ancora in contrada Faval,139 Isolella140 e Paganina.141 Il fenomeno dell’aumento dell’edificazione di queste piccole cappelle dipese in parte dall’incremento demografico che si verificò in seguito alla peste del 1630; 142 in misura minore fu determinato dal consolidamento dell’importanza acquisita dalle contrade. Dobbiamo inoltre tenere conto di un altro fattore: la chiesa posta nelle vicinanze della residenza di campagna consentiva al nobile di adempiere agli obblighi religiosi senza spostarsi. Infatti nella maggior parte delle suppliche alle autorità civili e religiose -per ottenere l’edificazione di un edificio sacro- i nobili segnalavano soprattutto le difficoltà negli spostamenti per raggiungere la chiesa parrocchiale, specie per l'impraticabilità delle strade nei mesi invernali; facevano dunque pressione, in tal senso, affinché venisse concesso loro il permesso.143 Talvolta questi luoghi di culto, edificati per volere delle famiglie patrizie, erano aperti anche alla popolazione delle vicine contrade. La diffusione degli oratori se da una parte favoriva la devozione delle popolazioni rurali, dall'altra costituiva motivo di preoccupazione da parte dei parroci delle parrocchie perché sottraeva a quest'ultime parte dei fedeli durante la messa domenicale, riducendo, peraltro, le entrate delle elemosine.144 Villa Guastaverza presenta l’oratorio nella parte antistante; si tratta di un edificio del tutto autonomo e a se stante, in linea con la strada comunale che da San Pietro di Morubio conduce verso Cerea: un corpo rettangolare di modesta estensione, preesistente 139
Si veda infra nota n° 157.
140
Si rinvia infra a nota n° 155.
141
Sulla cappella privata alla Paganina, annessa alla corte Parma-Lavezzola-Girardi, sintetiche notizie si trovano in E. AZZOLIN, 2003, pp. 714-715-cat. vr574. In generale, per brevi notizie sugli oratori in ambito ceretano, si veda B. CHIAPPA, 1991(b), p. 239-240. Dal marzo 1630 a Cerea si cominciò a morir di peste; probabilmente l'epidemia entrò in paese con le soldatesche, che qui alloggiavano, e che erano venute da Verona. Precisare l’epoca del suo principio, come è stato spesso sottolineato, è difficile; ma sarà stato all'incirca alla fine di marzo, non prima, perché in città il primo caso si sviluppò nel 20 del detto mese. Sul tema si rinvia, per quel che qui ci interessa, a N. GRIGOLLI, 2003, p. 155: l’autore fa riferimento all’atto di morte di un certo Verza, figlio di Filippo vicario di Cerea, decesso per peste ( Ivi, p. 154). Si veda anche la scheda di B. CHIAPPA, 2000, pp. 13536. 142
143
In merito si veda P. ROSSIGNOLI, 2004, p. 165.
144
Sull'argomento tratta brevemente B. CHIAPPA, 1991(b), p. 240.
42
già prima dei lavori di ristrutturazione e ammodernamento della villa e che possiamo datare con sicurezza al 1698, data segnata sulla lapide della facciata. 145 È possibile inoltre accertare con sicurezza che l’edificio fu eretto per volere dei fratelli Bartolomeo e Paolo Filippo Guastaverza, come si può leggere sull’iscrizione:
TEMPLUM HOC DIVAE ANNAE DICATUM HIERON: BARTHOL: ET PAULUS PHIL VERZA DE GUASTAVERZIIS AERE PROPRIO EXCITANDUM CURAVERE NONO CALEND: IULII: MDCLXXXXVIII
Il piccolo oratorio è dedicato a Sant’Anna; la “Chiesa di Ramedello del nob. Gerolamo e fratello Guastaverza” nel Sommarione del Catasto Napoleonico appare nominato come : “oratorio sotto il titolo della Beata Vergine della Concezione”, nei registri del Catasto Austriaco è indicato semplicemente quale “oratorio privato”. Come già accennato, Paolo Filippo Guastaverza, alla metà del Settecento, deviò il tracciato della strada che da San Pietro di Morubio conduceva a Cerea: tale modifica determinò l’annessione del piccolo oratorio di famiglia al complesso. La facciata rivolta verso la strada è semplice: di gusto neoclassico essa presenta un impianto architettonico lineare e sobrio; è delimitata da due lisce paraste con capitello ionico, impostate su alti plinti. Il timpano triangolare con oculo al centro è coronato da tre acroteri con croci di ferro. L’ingresso principale, di forma rettangolare con i battenti in legno, è contornato da semplici profili di pietra, sormontato da un timpano centinato e spezzato in cui all'interno campeggia la lapide con l'iscrizione. La porta d’accesso sulla strada comunale consentiva l’accesso anche ai passanti e dimostra come la chiesetta di Ramedello avesse carattere “pubblico”, aperto alla popolazione delle vicine contrade. Sopra è collocata una finestrella ottagonale mistilinea con grata, Segnaliamo che in B. BRESCIANI, 1954, pp. 59-60, l’oratorio è erroneamente datato 1683. Lo stesso errore viene ripreso in G. F. VIVIANI, 1975, p. 697. La prima segnalazione della data corretta è contenuta in A. SANDRINI, 1991, p. 276. 145
43
che risalta sulla superficie liscia della facciata [Tavola XIV]. Il prospetto est e ovest della chiesetta sono connotate da una leggera rientranza della parete muraria, le finestre poste asimmetricamente sono quadrate e di piccole dimensioni. Un altro ingresso sulla parete occidentale consentiva l’accesso all’oratorio solamente ai membri della famiglia [Tavola XV]. L’interno con soffitto voltato a botte è semplice ed essenziale, adatto ad una chiesetta rurale; ai lati due piccole portine con profilo in marmo rosso; le sovrapporte presentano ornamenti plastici formati da foglie d’acanto, motivi a volute, e al centro la testa e le ali di un angioletto. Questi, a loro volta, sono sormontati da un capitello sovrastato da due putti perfettamente speculari. Ad evidenziare ulteriormente la scelta di precisi rapporti simmetrici fra le parti, in alto sono collocate due finestrelle sagomate -anche queste con grata- da cui le donne potevano assistere alla messa. Una scalinata, infatti, permette di accedere ad un piccolo vano, un ambiente un tempo riservato esclusivamente alla presenza femminile; qui è tutt’oggi visibile il funzionamento -a contrappesi di pietra- di un particolare orologio, il cui disegno con numeri romani è segnato sulla parete ovest della chiesetta. Al centro tra le due aperture è collocato il bell’altare in marmo bianco, rosa e rosso, sormontato da un timpano spezzato: quest’ultimo è arricchito da motivi in alto rilievo con fastosi riccioli e elementi vegetali. 146
Adagiati sulle due curve del timpano due putti alati, al centro lo stemma della
famiglia Guastaverza. Lastre marmoree intarsiate ne impreziosiscono la parte inferiore [Tavola XVI]. Secondo Enrico Maria Guzzo esso sarebbe stilisticamente avvicinabile ai modi di Francesco Marchesini,147 scultore veronese del Seicento. Lo studioso attribuisce al figlio Marco la realizzazione dei putti delle sovrapporte. 148 La pala dell’altare appare oggi in un pessimo stato di conservazione, tanto da renderne a malapena decifrabile il soggetto: una Madonna col bambino e i santi Anna, Giuseppe e Antonio da Padova [Tavola XVI]. L’opera verosimilmente fu realizzata da 146
Per quanto riguarda le tipologie degli altari barocchi veronesi si rinvia a L. ROGNINI, 1981. Per alcune informazioni sugli arredi delle chiese e degli oratori del territorio ceretano si veda E. M. GUZZO, 1991, pp. 284-295. Su Francesco Marchesini (1618; 1693) si rimanda, per quel che qui ci interessa, a M. GUZZO, 1991, p. 308, nota n°19, A. TOMEZZOLI, 2003, pp. 193-195. 147
148
M. GUZZO, 1991, p. 283.
44
Antonio Balestra,149 peraltro maestro di Giorgio Anselmi (presunto affreschista degli interni della domus, punto su cui ritorneremo nel paragrafo dedicato agli affreschi). Un passo del Lanceni, riportato dallo stesso Guzzo, 150 costituisce un importante documento che confermerebbe l’attribuzione dell’opera al Balestra: “Sotto Legnago, Chiesa di Casa Verza. Una pala con la Santissima Vergine, SS. Giuseppe, Anna ed Antonio da Padova, opera di Antonio Balestra”.151 I dubbi erano sorti a causa dell’imprecisione sulla località: la chiesa di villa Verza, infatti, non si trova sotto Legnago, bensì sotto il comune di Cerea. Per gli equivoci riguardo la collocazione geografica la pala fu data per dispersa. Il soggetto rappresentato e i proprietari dell’opera, i Verza, sono però due validissimi indizi che lasciano ben pochi dubbi sulla paternità del dipinto. Guzzo fa inoltre notare che il Balestra, in una lettera inviata nel 1703 a padre Orlandi,152 attestò di aver lavorato per la famiglia Guastaverza subito dopo l’Annunciazione della Chiesa degli Scalzi di Verona, datata 1697. Questo termine cronologico, dunque, trova, in tal senso, perfetta conferma (il nostro oratorio è infatti datato 1698). L’opera non permette, sempre a causa delle cattive condizioni in cui si trova, un giudizio critico e un’analisi obiettiva precisa. È necessario e auspicabile pertanto un urgente intervento di restauro. La tipologia della chiesetta a Ramedello -a pianta rettangolare, con la facciata semplice, le due lesene ai lati, il portale sormontato da un timpano (triangolare o centinato), talvolta la finestrella sagomata al centro- trova analogie d'impianto con altri edifici, situati nella campagna veronese e riconducibili al periodo tardo secentesco o primo settecentesco: ad esempio l'oratorio nogarese dedicato a San Giuseppe e alla
Su Antonio Balestra (1666; 1740) si veda D. ZANNANDREIS, 1891, pp. 310-315, F. D’ARCAIS, 1974, pp. 359-366, M. POLAZZO, 1978, S. MARINELLI, 2000, pp. 400-402. 149
150
E. M. GUZZO, 1991, p. 284.
151
G. B. LANCENI, 1720, p. 121.
152
E. M. GUZZO, 1991, p. 308, nota n° 20.
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Beata Vergine Maria,153 quello di Roverchiaretta fatto erigere dai Bonente nel 1741,154 e la cappella annessa alla villa degli Ormaneto;155 quest'ultima, di cui abbiamo già accennato, è situata anch'essa in ambito ceretano, precisamente in località Isolella. Molto simile al nostro, per struttura architettonica, è l'oratorio dedicato a Sant'Eurosia in Corte Vaccaldo a Vigasio,156 che faceva parte dell'antico corpo padronale della stessa famiglia Guastaverza. Entrambi risalgono al periodo compreso tra la fine del XVII secolo e l'inizio del XVIII, hanno sviluppo longitudinale con la facciata scandita da due lesene angolari con capitello a volute; al centro, al di sopra del portale, si apre una finestrella sagomata. L'edificio, in tutti e due i casi, è sormontato da un timpano triangolare concluso da tre pinnacoli, tuttavia nella chiesetta a Ramedello mancano le finestre ai lati della porta d'ingresso, mentre in quello di Sant'Eurosia non è presente l'oculo al centro del frontone [Tavola XVII]. Sempre nel comune di Cerea, precisamente in località Faval, i Verza, come già si è detto, avevano un'altra possessione con casa padronale affiancata da una cappella gentilizia, 157che richiama anch'essa -per analogie degli elementi sintattici- quella a Ramedello. L'autore, o meglio gli autori, di questi piccoli edifici sacri, sono da ricercare quasi certamente tra le maestranze locali, capaci di tradurre in modo consono ai gusti e alle esigenze della committenza le semplici strutture destinate alle funzioni religiose. I modelli architettonici sono infatti ripetuti in tutto il territorio, diversificati solo grazie a particolari decorativi.
153
Utili informazioni sulla chiesetta in F. STOCCHERO, 2008-2009, pp. 90-93, Ead, 2010, pp. 35-37.
154
Per notizie sull'edificio si veda R. SCOLA GAGLIARDI, 2006, pp. 329-332.
155
Brevi informazioni sull'oratorio privato in località Isolella sono contenute in G. VIVIANI, 1975, p. 702-cat. n°261, E. AZZOLIN, 2003, p. 115-cat. vr 098. 156
Per una sintetica descrizione dell'oratorio si rinvia a S. FAVARETTO, 2003, pp. 672-673-cat.vr530.
157
Tale cappella in località Faval di Cerea è solo accennata in E. AZZOLIN, 2003, p. 715, cat. vr575.
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CAPITOLO 5
Gli interni: affreschi, stucchi e decorazioni 5.1. Lo spazio privato: prevalenza del linguaggio barocco Anche la decorazione degli spazi interni rispondeva ad una ricerca di formule che fossero in grado di confermare lo status nobiliare dei padroni, all’interno di un contesto -quello aristocratico- che mirava alla visibilità e al riconoscimento del proprio potere. Essi del resto rivestivano una funzione rappresentativa ed erano certamente anche i luoghi deputati a ricevere ospiti importanti, dove si affrontavano disquisizioni letterarie e dove si discuteva di affari; attraverso l’apparato decorativo si andavano a rafforzare i motivi di orgoglio della famiglia proprietaria, esaltandone il loro prestigio e la loro magnificentia. Decoro, dunque, e anche ostentazione pubblica dello spazio privato, domestico. Gli esuberanti ornati a stucco, le pitture del soffitto del piano nobile, le decorazioni delle quattro alcove, costituiscono validi elementi di conferma della posizione raggiunta dai Guastaverza e rientrano, pertanto, nel progetto di renovatio voluto dalla famiglia. Gli interni appaiano in contrasto con la linearità della facciata e aderiscono ad un linguaggio ancora rococò: gli stucchi, i motivi ornamentali delle quattro alcove, gli affreschi del soffitto e delle pareti del salone nobile rivelano un’inversione di gusto e di tendenza rispetto all’esterno. Quest’ultimo, come già visto, si caratterizza per una indiscussa connotazione classicista, nonostante le fogge delle volute reggimensole e dei frontoncini “spezzati” delle finestre che rispondono ad un linguaggio ancora baroccheggiante. Tale contraddizione fra interni ed esterni (da una parte la ricerca di un’esuberanza decorativa, dall’altra la volontà di adeguarsi alle nuove istanze architettoniche del secolo dei lumi), trova riscontro anche in altre realtà di villa esistenti in zona; ad esempio era presente anche nel pensiero di Gabriele Dionisi: il marchese, 47
proprietario e autore del progetto della villa a Cà del Lago, di cui abbiamo già accennato. Nei suoi progetti per la facciata, adottò schemi palladiani, quasi a voler testimoniare una penetrazione profonda delle teorie architettoniche e figurative che in quegli stessi anni si andavano diffondendo a Verona. Il programma di rinnovamento urbano promosso dal Maffei, la polemica contro “l’eccesso” e lo sfarzo della cultura barocca e rococò, erano presenti nel progetto iniziale del "marchese-architetto", anche se i suoi risultati finirono per disattendere in parte quei principi di ordine e rigore; 158 i disegni progettuali di Gabriele Dionisi, come fa notare Arturo Sandrini, raffigurano la facciata della villa a Cà del Lago caratterizzata al centro da un pronao rientrante terminante con un classico frontone triangolare, di gusto palladiano; tale scelta palesava, quindi, un allineamento all' ormai imperante linguaggio neoclassico. Alla fine, tuttavia, il marchese verosimilmente influenzato da Giuseppe Montanari159 -pittore-architetto di origine bolognese del Settecento- apporterà al progetto iniziale un repertorio formale più vivace e ricco,160 vicino peraltro a quel linguaggio rococò che si riscontra negli interni della stessa villa Dionisi. Questo esempio, quindi, è un'ulteriore conferma di come nel Settecento convivessero due opposte tendenze: il neoclassicismo da una parte, dall’altra lo stile tardobarocco. Infatti, ribadiamo, se nell’architettura della facciata della villa di Ramedello, ritroviamo un rigore classicista di chiara matrice illuminista, nella realizzazione dell’apparato decorativo degli interni si delinea invece un gusto più vivace, che ama l’orpello e lo enfatizza. Qui, nella scelta di soluzioni ornamentali di ascendenza barocca, è possibile rintracciare un legame fra la città di Verona e la città di Bologna: 161 nella 158
Su villa Dionisi rimanda alla nota n°14, cap. 1 del presente lavoro. In particolare per quanto riguarda i progetti della dimora padronale si veda A. SANDRINI, 1986, pp. 48-54. 159
Giuseppe Montanari (su cui torneremo nel par.5.2) aveva progettato per lo stesso Dionisi, accanto alla villa, il tempietto a schema ottagonale (A. SANDRINI, 1986, p. 43). 160
Come fa notare Arturo Sandrini, il bolognese Montanari finirà per sconvolgere l'idea originaria del marchese Dionisi, sostituendo al pronao rientrante l'idea di un portico-loggia dalla trama sintattica più fantasiosa. (A. SANDRINI, 1986, p. 52) 161
Il legame artistico e culturale tra Verona e Bologna è determinato dalla presenza di maestranze emiliane, attive nell’ambiente veronese del Settecento, primo fra tutti Francesco Bibiena. L’artista era stato chiamato dal marchese Maffei per la progettazione, per la decorazione e per gli allestimenti scenografici del teatro Filarmonico. La maggior parte degli artisti chiamati per la realizzazione di tali interni erano bolognesi; queste scenografie che si caratterizzavano per giochi prospettici e inganni ottici
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villa di Ramedello il linguaggio baroccheggiante -risolto in ricche cornici a volute, medaglioni e illusionistiche balaustre- è riscontrabile nelle decorazioni del bolognese Montanari, allievo di Francesco Bibiena e artista, appunto, attivo a villa Dionisi, di cui è nota la predilezione per lo stile rococò. Su questo punto tratteremo più avanti. 162 Chiaramente è molto difficile risalire con precisione all’aspetto originario che dovevano avere gli ambienti interni individuati, usando le parole di Andrea Bona, 163 come “insieme di spazio, luce, arredi e sensazioni”. Parte degli arredi e dei dipinti mobili, è andata dispersa: in particolare due tele del salone al pianoterra (secondo la testimonianza degli attuali proprietari Bottura) sarebbero state portate via dai Barbieri, precedenti possessori; nei granai della villa utilizzati oggi come soffitta, sono stati rinvenuti i telai originali. Le precedenti opere appaiono sostituite con due dipinti murali a tempera di Gaetano Miolato,164 pittore veronese del Novecento: uno raffigura un’arcadica rappresentazione di una natura bucolica con pecore al pascolo e montagne sullo sfondo, l’altro un paesaggio marino con due barche a vela. Le cornici in stucco sono quelle originali, polilobate, impreziosite da foglie d’acanto, rosette, giocosi riccioli [Tavola XVIII]. Il gioco ornamentale al piano terra appare più semplice e leggero rispetto agli ambienti del piano superiore, sia nei motivi decorativi delle sovrapporte, sia in quelli delle arcate delle alcove. (Su questo punto ritorneremo in seguito). Il camino, in una delle camere del pian terreno, presenta una raffinata incorniciatura, delimitata ai due lati da un gioco di deliziose volute terminanti con il profilo di due teste, il ritratto di Silvia Curtoni Verza; il suo busto troneggia frontalmente sulla sommità del camino. Tale ritratto costituirebbe, dunque, un valido indizio per una possibile datazione, verosimilmente compresa fra il 1771, anno in cui la nobildonna, come vedremo, andò in
finirono per influenzare le decorazioni dei saloni delle ville: spazi di ricevimenti mondani concepiti come una rappresentazione teatrale. Tra gli artisti bolognesi del Settecento, collegabili a interventi di decorazione in palazzi e ville, ricordiamo Filippo Maccari, Lorenzo Pavia, Giuseppe Orsoni e Giuseppe Montanari. Sui rapporti tra pittori emiliani e veronesi, in particolare si veda F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, p. 63, E. M. GUZZO, 1990, pp. 195-198, P. MARINI, 1999, pp. 165-174. 162
163
164
Si rinvia a par. 5.2. A. BONA, 2000, p. 170. Su Gaetano Miolato si veda C. AMALIA, 2001-2002.
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sposa a Francesco Guastaverza165 -con la possibilità, quindi di abitare gi spazi della villa- e il 1835, anno della sua morte. Beninteso, come già si è detto, in seguito alla morte del marito, la Curtoni, nel 1783, decise di rinunciare all'eredità del palazzo, pur continuando a disporre dei suoi ambienti. 166 Le decorazioni ora più in rilievo, ora appena aggettanti, i vasi dal corpo ovale, con collo e piede lungo, i motivi vegetali, le eleganti bordature, conferiscono all’insieme una scrittura plastica più lieve. È in tale ricerca di forme più leggere che si palesa l'adesione ad un linguaggio decorativo più asciutto, in linea con le forme del nuovo prontuario classicistico [Tavola XIX].167 Degna attenzione meritano i panconi di legno del salone al piano terra: entrando dall’ingresso principale, due sono collocati simmetricamente sui lati del versante sud e nord, un altro si trova tra i due portali a tutto sesto. Erano sicuramente elementi d’arredo in voga per adornare le sale di passaggio di ville e palazzi. Purtroppo gli attuali proprietari non sono in grado di fornirci molte informazioni a proposito: si tratterebbe di un’ esecuzione risalente agli anni venti del Novecento commissionata da Aldo Bottura ad artigiani locali: i falegnami e i decoratori dei panconi, verosimilmente, si sarebbero ispirati ad un repertorio di produzioni settecentesche appartenenti alla bottega di Marco Marcola,168 pittore veronese del XVIII secolo. Riscontriamo infatti alcune analogie stilistiche tra i nostri e gli esemplari di panconi attribuiti alla scuola marcoliana: presentano un alto schienale sagomato e sono decorati con grandi motivi a volute, foglie, fiori e vorticosi intrecci di arabeschi; terminano quasi sempre con un motivo ornamentale che simula una concavità, a ricordare l’interno di una conchiglia con bordatura frastagliata. Ne risulta un grazioso insieme d’impronta rococò. Al centro sia nei nostri, sia nei panconi usciti dalla bottega di Marcola è presente un medaglione ovale con sfondo e soggetto monocromo, delle 165
Si rinvia a cap. 6, in particolare par. 6.1.
166
Si veda precedentemente cap. 3 del presente lavoro
167
Per quanto riguarda gli esiti -negli ultimi decenni del Settecento- del linguaggio barroccheggiante in un decorativismo più leggero e lieve, si veda F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, in particolare pp. 85-91. Per approfondimenti su Marco Marcola (1740; 1793) si rinvia a L. OLIVATO, 1974, pp. 401-410, L. ROMIN MENEGHELLO, 1983. All’interno di quest'ultimo testo è presente una parte dedicata alla bottega e alle opere di carattere artigianale, pp. 75-79. 168
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lumeggiature qua e là conferiscono una certa raffinatezza e freschezza all’insieme [Tavola XX]. Abbiamo preso in considerazione per i confronti gli esemplari della collezione Benciolini di sicura attribuzione, 169 i panconi di villa Quaranta a Ospedaletto170 e i due conservati attualmente alla galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti [Tavola XX].171 Rispetto a tali esempi, i panconi di villa Guastaverza evidenziano una fattura semplificata per quanto concerne l’intaglio del legno e una commistione eclettica di elementi. Sulla base -all’interno di tondi impreziositi da un gioco di foglie d’acantocampeggiano svariati stemmi: sui panconi di sinistra troviamo quello del Comune di Cerea con la pianta di cerro al centro e quello dei Della Scala con la raffigurazione di una scala a cinque pioli [Tavola XX]; nel pancone collocato al centro è presente lo stemma di Casa Savoia. Infine sui panconi di destra campeggiano lo stemma di Venezia con il leone marciano e quello di Roma, con la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo.
5.2. Affreschi e quadrature del piano nobile
Il salone del piano nobile presenta un articolato apparato decorativo: 172 scorci scenografici creano suggestivi giochi illusionistici sul soffitto; sulle pareti corrono colonne binate in finto marmorino di colore rosso, alternate a riquadri affrescati. La decorazione del salone, beninteso, appare in un cattivo stato di conservazione e necessiterebbe di un intervento di restauro: infatti la primitiva chiarezza e luminosità cromatica si presenta oggi offuscata da polvere, fumo e da infiltrazioni di umidità (una patina scura vela le decorazioni). 169
Ivi, fig. 152.
Per il riscontro visivo dei panconi a villa Quaranta si rinvia a G. F. VIVANI, 1983, p. 166. Ringrazio la professoressa Daniele Zumiani per la segnalazione. 170
171
I due panconi prima erano collocati al Museo di Castelvecchio.
172
Sulla decorazione del soffitto e delle pareti del piano nobile di villa Guastaverza alcune informazioni in P. DE LANDRSET MARCHIORI, 1978, p. 224-cat. 155.
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Le colonne, impostate su plinti di finto marmo, poggiano su un basamento a specchiature marmoree, e sono intervallate da riquadri in cui sono inseriti gli affreschi. Probabilmente anche qui è stata adottata la modalità di una compresenza di maestranze specializzate, in grado di collaborare fra loro. L’affreschista si occupava dell’organizzazione del lavoro, della composizione delle scene e chiaramente era responsabile della realizzazione pittorica; solitamente si avvaleva della maestranza specializzata del quadraturista, esperto nell’incidere con l’ausilio di cartoni e di spolveri la superficie intonacata per l’affresco, il contorno delle scene e i motivi ornamentali. Era in grado di cimentarsi in vere e proprie acrobazie prospettiche. E questo avveniva in un momento storico in cui la cultura tardobarocca permeava con le sue istanze il gusto della committenza, dove lo spettacolare, l’inganno ottico, l’effetto, erano di gran lunga preferiti ad una composizione rigida, ordinata. Moduli ornamentali più lineari e geometrici si diffonderanno solo negli ultimi decenni del Settecento. 173 Sulla parete del fronte ovest -ai lati del portale con arco a tutto sesto e di colonne binate- campeggiano due grandi riquadri raffiguranti le statue monocrome di Nettuno e Cibele, divinità riferite rispettivamente all’acqua e alla terra; tale scelta conferma una consuetudine di rappresentazioni pittoriche frequenti nelle residenze agresti, legate agli elementi naturali.174 Più precisamente, queste allegorie rimandano alla dimensione campestre del vivere in villa, ad un carattere di rustica semplicità, in cui l’acqua e la terra costituiscono aspetti imprescindibili dell’ambiente rurale della bassa veronese. Le statue monocrome poggiano su finti piedistalli la cui base è decorata con elementi a volute [Tavola XXI]. Quattro putti inseriti in finte cornici policrome decorano le sovrapporte del salone, disposte simmetricamente alle estremità delle pareti est e nord; queste aperture consentono l’accesso alle quattro camere comunicanti.
173
Sugli affreschi e le decorazioni delle ville venete nel Settecento si veda F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, pp. 39-105. 174
Per un approfondimento generale sulle scelte iconografiche e stilistiche adottate nella decorazione di palazzi e ville in ambiente veneto, e non solo, si rinvia a F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, pp. 39-105, P. MARINI, 2005, passim. Sulla rappresentazione pittorica di scene rurali convenienti alla decorazione della villa utili riferimenti in D. COSGROVE, 2000, pp. 169-172; pp. 339- 341.
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Il soffitto e i riquadri principali delle pareti raffigurano scene del Mito di Fetonte,175 tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, una tematica mitologica che si riscontrava anche in numerose altre ville del tempo e che trovava -nelle aspirazioni ideologiche dei proprietari- una relazione con i fondi terrieri e con la vita campestre: visualizzazione del passaggio temporale scandito dal susseguirsi dei giorni e delle stagioni.176 Questo mito si svolge fra la dimensione della terra e quella del cielo, e contiene per se stesso l'esaltazione del sole e insieme un principio cosmologico. 177 Sulla parete del versante sud è raffigurato Giove nella fucina di Vulcano, popolata da ciclopi; il dio avvolto in un manto rosso, adirato, ordina di scagliare un fulmine per punire l’incauto e ardimentoso Fetonte [Tavola XXII]. Sulla parete opposta, del fronte settentrionale, è rappresentata la Caduta di Fetonte nel fiume Eridano: a sinistra, in primo piano, campeggia una figura, personificazione allegorica del fiume, l’attuale Po; a destra il gruppo delle sorelle piangenti, le Eliadi. Una è raffigurata in una posizione di raccolto dolore, inginocchiata con il volto reclinato verso il carro del sole, l’altra con le braccia aperte guarda verso l’alto, quasi implorante; Eliade con il vestito verde è colta nell’atto di asciugarsi le lacrime, le altre sorelle appaiono come intente in una comune preghiera [Tavola XXII]. Sul soffitto l’episodio è cronologicamente precedente alla rovinosa caduta e raffigura Fetonte che supplica Apollo di poter guidare il carro del Sole. La folle Secondo il mito, Fetonte, tormentato dal dubbio, insinuatogli da Epafo, di non essere figlio di Apollo, chiese al presunto padre una prova: lo supplicò di poter guidare il carro del sole. Ma quando si trovò alla guida del cocchio, a causa della sua inesperienza, perse il controllo; i quattro focosi cavalli lo trascinarono senza regola, con il rischio di provocare immani disastri. Giove fu costretto, per evitare che la situazione degenerasse, ad intervenire drasticamente, lanciando una folgore sull’incauto giovane, e facendolo precipitare alle foci del fiume Eridano. Le sorelle piansero copiose lacrime, finché gli dei, per placarne lo strazio, le trasformarono in pioppi biancheggianti. Il mito compare per la prima volta in Esiodo, viene poi ripreso da altri poeti tragici; in particolare si ricordi la versione di Ovidio nelle Metamorfosi (libro II, vv. 1-121). 175
176
In OVIDIO, Metamorfosi, vv. 23- 3, l'episodio è così desctitto: "Avvolto in un manto purpureo, Febo sedeva su un trono tutto sfolgorante di smeraldi luminosi, ai suoi lati stavano il Giorno, il Mese e l'Anno, i Secoli e le Ore disposte a uguale distanza fra loro; e stava la Primavera incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda, che portava ghirlande di spighe, stava l'Autunno imbrattato di mosto e l'Inverno gelido con i bianchi capelli increspati. Al centro, con quegli occhi che scorgono tutto, il Sole [...] ". (OVIDIO, Traduzione di M. RAMOUS, 2008). 177
Alcuni cenni sulla raffigurazione del mito di Fetonte nelle ville settecentesche in F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, p. 55: l'autrice prende come riferimenti villa Baglioni nel Comune di Massanzago (Padova), con gli affreschi di Gianbattista Pittoni, e palazzo Archinto a Milano, affrescato dal Tiepolo.
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richiesta è rappresentata sullo sfondo, con le due figure più tenui e rimpicciolite per l'effetto ottico della lontananza [Tavola XXIII]. Tale iconografia di Fetonte inginocchiato di fronte al padre, è riscontrabile -come fa notare Stefano Pierguidi- in un disegno preparatorio del pittore francese Louis Dorigny, attualmente conservato a Dresda e risalente al 1737.178 Non solo, i due protagonisti così raffigurati sono sovrapponibili anche a quelli di altre due opere: una decora, inserita entro una cornice elissoidale, il soffitto di uno dei saloni di Villa Verità, detta "Il Boschetto" a Lavagno, 179 l'altra costituisce la scena centrale di un piccolo ciclo dedicato ad Apollo, nella villa Pompei a Illasi, in cui è rappresentata solo l'audace richiesta di Fetonte al padre.180 Nella stessa rappresentazione, con Fetone che chiede ad Apollo di poter guidare il carro del sole, si cimentò, nel 1736, Giovan Battista Tiepolo. Si tratta di due dipinti, della redazione di Vienna (Gemäldegalerie der Akademie der Bildende Künste) e della redazione che si conserva a Barnard Castle nella contea di Durham (Bowes Museum), anch'essi in stretta correlazione con passaggi della narrazione di Ovidio. 181 Sia nella versione di Bernard Castle, sia nell'affresco di villa Guastaverza, ritroviamo la figura di Aurora "che all'erta dal lucore di levante [...] spalanca le sue porte purpuree e l'atrio colmo di rose"182. Un altro motivo ricorrente in entrambe le raffigurazioni -e che si riscontra anche nella redazione di Vienna- è la rappresentazione allegorica delle Ore con le ali da libellula (tradizionalmente a loro associate), impegnate a preparare la quadriga solare, coerentemente con il testo ovidiano. 183 Nell'affresco di villa Guastaverza, la scena è inserita all’interno di un cornicione ovale delimitato da una complessa quadratura che simula un illusionistico 178
A tale proposito si rimanda a S. PIERGUIDI, 2001, pp. 338.
179
Tale affresco è attribuito peraltro a Giorgio Anselmi, il quale, come vedremo, è probabilmente anche l'autore degli affreschi di villa Guastaverza. A tale proposito si veda P. DE LANDERSET MARCHIORI, 1978, p. 177-cat. 83, fig. 1090. 180
Sintetiche notizie relative a tale affresco (attribuito, verosimilmente, alla scuola di Antonio Balestra) sono contenute in F. ZAVA BOCCAZZI, G. PAVANELLO, 1978, p. 174 -cat78, figg. 567. 181
In particolare OVIDIO (Traduzione di M. RAMOUS), 2008, vv. 112-114. In merito alle due redazioni di Tiepolo si veda G. M. PILO, 1997, pp. 182-187. 182
OVIDIO, 2008, vv. 112-113.
183
Ivi, vv. 118.
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prolungamento del soffitto, come a voler creare un'apertura su libero cielo. La quadratura costituisce quindi un elemento portante e incorniciante della raffigurazione, ma è anche un espediente ottico per dilatare lo spazio reale, creando un suggestivo gioco di alterazioni e finzioni; si tratta in questo caso di un' architettura baroccheggiante, impreziosita da intrecci di motivi a spirale e da elementi vegetali, dorature, e rosette. Agli angoli contribuiscono a rafforzare l’inganno dello sfondamento quattro cupolette viste di scorcio, dal basso verso l’alto, e sorrette da colonnine. Come audaci sottoinsù di ascendenza tiepolesca. Al di sotto sono raffigurati clipei in cui all’interno troneggiano -in monocromo azzurro- le personificazioni delle stagioni; si tratta di un altro riferimento consueto delle decorazioni in villa: una scelta allegorica che troviamo frequente nelle rappresentazioni ad affresco delle residenze di campagna. Tali personificazioni erano legate alla ciclicità del lavoro nei campi secondo il susseguirsi delle stagioni. La prima fascia del soffitto presenta una zoccolatura perimetrale che sostiene una finta balconata con balaustre verdi,184 a sua volta essa si raccorda al cornicione di compiaciuto gusto rococò; il motivo del balconcino trovava largo utilizzo nelle ville perché si prestava, per i suoi connotati quasi scenografici, a rafforzare il carattere talora teatrale dei saloni, spazi di rappresentanza e ambienti mondani per eccellenza. Al centro su tutti i lati, all’altezza del finto balcone -impostati su mosse forme architettonichecampeggiano dei busti in monocromo rosa, circondati da armi e bandiere. Non ci è dato di sapere al momento a chi si riferiscono [Tavola XXIII]. Purtroppo la mancanza di documenti in grado di attestare nomi sicuri di artisti operanti in villa ci consente solo di avanzare ipotesi sulla base di confronti stilistici e compositivi. Ad oggi gli studiosi hanno indicato, unanimemente, Giorgio Anselmi,185
184
Il motivo del balconcino di derivazione emiliana trova fortuna nelle ville venete, secentesche e settecentesche, prestandosi ad un ricco repertorio decorativo e a scenografici effetti illusionistici. In merito basti qui rinviare a F. ZAVA BOCCAZZI, 1978, p. 44; 60. 185
Per approfondimenti su Giorgio Anselmi (1722-1792) si rinvia a G. ZANNANDREIS, 1891, pp. 442447, R. BRENZONI, 1972, pp. 15-17; F. DAL FORNO, 1990.
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quale autore degli affreschi al piano nobile e Giuseppe Montanari, 186 realizzatore delle illusionistiche quadature.187 Il dipinto del soffitto, come già accennato, a causa di incauti restauri e ridipinture, ai quali venne sottoposto nell’ultimo decennio del Novecento, si presenta, in parte alterato cromaticamente, e probabilmente anche graficamente.188 Difficile dunque avanzare un giudizio obiettivo, tuttavia, ci sembra ravvisabile la mano dell’Anselmi nel trattamento delle carni molli degli angioletti adagiati su nubi vaporose, nella muscolatura accentuata dei personaggi, nella scelta di gamme cromatiche delicate e gradevoli. Prevalgono le tinte chiare di rosa, i toni diafani dell’azzurro, i verdolini, i terra di Siena, i colori pastello di influenza veronesiana. L’inserimento simmetrico di figurazioni monocrome, nel caso dei clipei con le personificazioni delle stagioni, come anche per quanto riguarda le statue di Nettuno e Cibele, attesta una tipologia diffusa dell’Anselmi, che spesso nelle sue opere inseriva figure di un unico colore, in più punti nelle riquadrature delle pareti e dei soffitti, quasi sempre poste simmetricamente. Un elemento –oltre alle analogie stilistiche- che costituisce un ulteriore motivo di rafforzamento dell’attribuzione degli affreschi al pittore veronese, è il fatto che l’Anselmi fu allievo di Antonio Balestra (autore, come già detto, che verosimilmente, realizzò la pala dell’altare dell’oratorio della famiglia Verza). Un’altra conferma della sua presenza come artista operante in villa, potrebbe provenire da un’autobiografia spedita nel 1773 dal pittore veronese all’erudito bolognese Marcello Oretti;189 molto probabilmente quest'ultimo aveva richiesto notizie a 186
Qualche indicazione bibliografica utile per inquadrare l'artista bolognese Giuseppe Montanari (17021755) in P. MARINI, 1988, pp. 282-287, Ead, 1999, pp. 168-169. 187
Per quanto concerne le ipotesi attributive degli affreschi all'Anselmi e delle quadrature al Montanari si veda P. DE LANDERSET MARCHIORI, 1976, p. 200, tesi avvalorata anche da E. M. GUZZO, 1991, p. 295. I due artisti, nel 1771, lavorano sicuramente insieme alla realizzazione dell' affresco -con Aurora che sparge fiori, Zefiro e contadinelle, e della quadratura, oggi scomparsa, a Palazzo Erbisti, poi Rizzoni, Creazzo in via San Nazaro a Verona. (P. MARINI, 1988, p. 285, F. DAL FORNO, 1990, p. 13). 188
Ringrazio Caterina Gemma Brenzoni per il suggerimento.
189
Marcello Oretti (1714-1783), era sicuramente un personaggio singolare; si dilettava nel disegno, curioso viaggiatore e indagatore di archivi, raccoglieva informazioni e tradizioni locali. Sull' Oretti si veda in particolare G. BALDASSIN MOLLI, 1994, pp. 134-137; alcune informazioni in A. TOMEZZOLI, 1997, p. 127.
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Giorgio Anselmi,190 così come ad altri pittori, per documentarsi sugli artisti locali in preparazione del suo viaggio compiuto nel Veneto intorno al 1775. Il testo appartenuto all' Oretti -o meglio la copia manoscritta del conte padovano Giovanni da Lazara- forse costituì un valido punto di partenza per Zannandreis, che nel primo Ottocento, ne scrisse la vita:191 i Verza figurano come committenti, alludendo plausibilmente al ciclo degli affreschi della villa di Ramedello.192 Non è indicato qui nessun riferimento cronologico, ma sicuramente non possono essere stati realizzati dopo il 1773. Gli affreschi verosimilmente sono da collocare in una fase giovanile, in concomitanza con i lavori di aggiornamento della domus dominicalis. Riscontriamo, infatti, una immatura scioltezza grafica, una padronanza dello scorcio della figura ma non ancora del tutto consapevole; una pesantezza dei panneggi e una certa semplificazione nelle scelte compositive. Queste considerazioni costituiscono validi indizi stilistici che ci rimandano ad un periodo precoce dell’artista: plausibilmente all’inizio del quarto decennio del XVIII secolo, o poco precedentemente.193 Guzzo avvicina il ciclo degli affreschi intorno agli
190
L’autobiografia originale (datata 19 aprile 1773) si conserva nel fondo Oretti della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Il testo è contenuto nel faldone B. 95 che raccoglie una serie di autobiografie raccolte da Marcello Oretti nel volume Vite di Pittori scritte da loro medesimi. All’interno della silloge si leggono anche altre notizie riguardanti altri artisti veronesi, fra i quali Pietro Rotari, Francesco Lorenzi, Felice Boscarati, Domenico Pecchio, Adriano Cristofali. Come fa notare Giovanna Baldassin Molli, verosimilmente, De Lazara attinse direttamente ai manoscritti di Marcello Oretti (contenenti, appunto, le autobiografie degli artisti detti). Il conte padovano informa di averli copiati nel periodo compreso fra il 1804 e il 1805 da un volume appartenente al principe Filippo Hercolani di Bologna, il quale aveva acquistato i manoscritti degli eredi dell'Oretti. (G. BALDASSIN MOLLI, 1994, pp. 135-136). L'autografo dell'Anselmi si divide in due elenchi in cui sono indicate le commissioni e le opere eseguite entro e fuori Verona. L'autobiografia del pittore nella versione di De Lazara è contenuta, come ci segnala Giovanna Baldassin Molli, nel volume 3 delle Miscellanee (fondo De Lazara) della Biblioteca Civica di Padova (Ivi, p. 137). 191
Per quel che a noi interessa i Guastaverza figurano così indicati come committenti : “Oltre le suddette opere (soggiunge l’Anselmi) ve ne sarebbero molte altre, come quelle fatte a fresco in Verona, fra le quali alli Monsignori Negrelli, March. Maffei, March. Donisi, Co. Verza, Co. Cavazzocca, Sig. Betti, Locatelli, Bonetalli, tralasciandole per non maggiormente diffondermi [...]”. Si veda, a tale proposito, D. ZANNANDREIS, 1981, p. 445; M. GUZZO, 1991, p. 297, nota n°66, G. BALDASSIN MOLLI, 1994, p. 151 (L'autrice riporta interamente la copia di De Lazara: Ivi, pp. 149-152). 192
193
Giorgio Anselmi sicuramente si cimentò nella rappresentazione del mito di Fetonte in Palazzo Ducale a Mantova, nella sala dei Fiumi, nel 1775 (F. DAL FORNO, 1990, p. 123); il ciclo di affreschi di villa Guastaverza evidenzia rispetto a quest'ultimo un' insicurezza compositiva, un'impostazione d'insieme non ancora matura. I lavori nella residenza di Ramedello sarebbero, pertanto, collocabili ad una fase più precoce.
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anni in cui, come attesta lo Zannandreis, 194 era attivo a Palazzo Erbisti195 (1744), noi tuttavia pensiamo sia da riferire ad un lavoro precedente. Confrontando gli affreschi della volta del salone principale e dello scalone di quest’ultimo con quelli di villa Guastaverza, notiamo sì delle vicinanze stilistiche, tuttavia nel nostro ciclo riscontriamo difficoltà compositive e anatomiche più evidenti. Troviamo una simile intonazione cromatica, dalle tonalità chiare e delicate, drappeggi che avvolgono in spire le figure e conferiscono movimento alla scena, lo stesso moto rotatorio dei cieli e dei personaggi. Moto rotatorio che comunque, in palazzo Erbisti appare decisamente più complesso. Si conferma, inoltre, la propensione dell’Anselmi ad una certa forzatura della muscolatura: basti confrontare la raffigurazione del vecchio Cronos sul soffitto principale della nostra villa con i possenti nudi maschili del Trionfo di Atena a palazzo Erbisti [Tavola XXIV]; un’altra analogia appare evidente nella tensione muscolare conferita ai cavalli, impennati sulle zampe posteriori. Ma nel nostro, beninteso, è tutto più allentato, i corpi sono meno vibranti, una certa rigidezza grafica e una composizione meno audace ne fanno un dipinto di più modeste qualità. Un'evidente ingenuità e alcune scorrettezze disegnative, dunque, rivelerebbero un intervento più immaturo e, plausibilmente, precedente rispetto a quello di palazzo Erbisti. Tenendo conto dell’anno di nascita (1722) 196 non possiamo andare molto indietro in una possibile datazione. Riteniamo pertanto sia da datarsi a cavallo fra gli anni trenta e quaranta del Settecento: una primizia, dunque, che costituirebbe un notevole exploit del giovane Anselmi. Certamente ci sentiamo di escludere una datazione che si spinge agli ultimi decenni del Settecento anche perché, come si è già evidenziato, prevale nelle Scrive D. ZANNANDREIS, 1891, p. 442: “essendo d’anni 22, dipinse […] nel palazzo Salvi, ora Erbisti, il soffitto parimenti della Sale ed il volto dello Scalone.” 194
Per quanto concerne l’ipotesi cronologica di veda E. M. GUZZO, 1991, pp. 297. Sugli affreschi a palazzo Erbisti, sede dal 1946 dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, riferimenti in DAL FORNO, 1990, pp. 5; 11; 53. Per approfondimenti si rinvia a D. ZUMIANI, 1991, in particolare pp. 134-135, S. SCOLARI, 2003, pp. 19-28, D. ZUMIANI, 2007, pp. 105-108. Informazioni sulle vicende del palazzo si trovano in DAL FORNO, 1973, pp. 258-259, SANDRINI, 1988, p. 319, D. ZUMIANI, 1991, pp. 131-135 e pp. 176-177, Armonia tra arti figurative e musica...,2003, passim. 195
196
Zannandreis riteneva che Giorgio Anselmi fosse nato nel 1723, invece che nel 1722, come ha documentato R. BRENZONI, 1972, p. 17, e come fa notare D. ZUMIANI, 2007, p. 113, nota n°35.
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decorazioni delle quadrature un linguaggio che segue moduli ancora barocchi; inoltre la scelta tematica mitologica non risulta ancora intaccata dai concettualismi del secolo dei lumi. Le quadrature del presunto Montanari, come già si è detto, confermerebbero la tipologia delle finte architetture di impronta bibienesca,197 assimilabili più alla cultura emiliana che a quella veronese; esse sono caratterizzate da una irreale ricostruzione degli spazi, con sfondamenti prospettici, con logge aeree e colonnati visti di scorcio a suggerire profondità. Da notare, inoltre, gli ornamenti soprastanti i due riquadri affrescati delle pareti, e in particolare le bambolesche testine a monocromo, che ritornano con straordinaria somiglianza nella decorazione del soffitto della loggia superiore di villa Dionisi (rafforzando pertanto l’attribuzione delle quadrature al Montanari, il quale come già si è detto, lavorò per il marchese Gabriele Dionisi) [Tavola XXV].198
5.3. Le quattro alcove
Le quattro alcove, due al primo piano e due al secondo, sono collocate ai lati dello scalone e si trovano nella medesima posizione. Questi graziosi ambienti che aderiscono ad un gusto rococò, costituiscono –per il numero e per le dimensioni considerevoli- sicuramente un raro esempio nell’ambito delle ville venete. Le due stanze con alcova al piano terreno sono raggiungibili sia dallo scalone, sia dai due accessi posti lateralmente e misurano 6, 20 di lunghezza e 7, 70 di ampiezza. Le aperture si affacciano sui cortili rispettivamente meridionale e settentrionale del complesso. Inizialmente si trattava di semplici finestre, che solo in seguito agli interventi di Aldo Bottura, nonno degli attuali proprietari, sono state trasformate in 197
Le scenografiche architetture di Francesco Bibiena, in forme più o meno dirette, influenzeranno la decorazione delle ville del veronese nel Settecento come scrive E. M. GUZZO, 1990, in particolare pp. 94; 199. 198
Nel 1742 vengono annotati i primi pagamenti al Montanari per la realizzazione delle quadrature a villa Dionisi. Si trattava del soffitto del salone con l' Incoronazione di un personaggio della famiglia Dionisi; del 1767 sono gli ornati che circondano gli affreschi di Nicola e Marco Marcola nel salone al piano nobile e nella loggia superiore. A tale proposito si veda L. ROMIN MENEGHELLO, 1986, pp. 65-68, in particolare p. 65, P. MARINI, 1999, p. 170.
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porte-finestre al fine di garantire passaggi più agevoli e veloci agli annessi rustici. 199 Le nicchie, voltate a botte, sono state ricavate entro la parete ovest dei vani: sono circondate da un arco a tutto sesto impostato su due colonne con capitello tuscanico. Queste, a loro volta, poggiano su un basso gradino e sono affiancate da due paraste lisce; sono delimitate lateralmente da piccoli ambienti con soffitto a travi lignee, i quali probabilmente, avevano una funzione di camerini o di spogliatoi: come si può riscontrare in uno dei camerini del piano superiore, tali vani erano divisi in due piccole stanze. Oggi, in seguito alle mutate esigenze dei proprietari e alle nuove abitudini di vita, sono stati adibiti ad altri scopi. Le diverse funzioni che gli spazi abitativi assumono nel corso del tempo, ci riportano, come già accennato, a considerare i vari condizionamenti esterni e i cambiamenti dello stile di vita. Come si può constatare dall’osservazione della pianta del palazzo, dei due camerini dell’ambiente ad alcova del piano terra -posto sul lato sud dell’edificio- uno è stato murato, mentre in quello sinistro è stata ricavata una scala che permette di accedere al mezzanino. Invece, il camerino di destra della stanza ad alcova sul lato settentrionale è stato trasformato dagli attuali proprietari in un piccolo bagno di servizio. L’altro è una stanzetta senza una funzione precisa, un disimpegno con un’apertura che dà accesso all’esterno, e precisamente sullo spazio antistante il prospetto occidentale. Cambiamenti dell’assetto e della funzione hanno interessato anche i camerini del piano superiore: una porta è stata murata, due vani sono stati adibiti all’uso di ripostiglio, un altro ancora è collegato ad una camera adiacente. Gli interventi, come ci ha informato la proprietaria Anna Bottura, sono stati realizzati all’incirca negli anni venti del Novecento, ma le misure sono state mantenute pressoché uguali. Gli stucchi bianchi decorano le arcate delle alcove e le sovrapporte dei camerini laterali; una ghirlanda di frutti e foglie –che termina con motivi a volute- costituisce l’ornamento della cornice soprastante l’arcata dell’alcova sinistra del pian terreno. Sulla chiave di volta dell’arco è posto un piccolo cartiglio. Anche l’alcova sul versante settentrionale è impreziosita da elementi floreali secondo un disegno molto simile al precedente, tuttavia presenta una decorazione meno esuberante. Le stesse sovrapporte dei camerini sono arricchite da motivi in stucco formati da foglie e da volute; più 199
Si veda in Appendice 4 le piante relative al palazzo padronale.
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precisamente il vano sinistro e quello destro sono ornati rispettivamente da frutta e fiori. Nelle alcove del piano nobile, con un’altezza maggiore rispetto a quelle del piano terra, prevale, come già accennato, un gusto più rococò, una decorazione più enfatizzata e ricca. Una cornice corre lungo le quattro pareti della stanza, raccordandosi con un fastigio di motivi vegetali a volute e di estrosi riccioli, posta sopra le arcate. Sulla sommità, inoltre, è collocata una sorta di maschera raffigurante un volto femminile. Le porte dei camerini al piano nobile sono montate da una semplice incorniciatura di profilature in stucco [Tavola XXVI]. Nei soffitti a volta delle due nicchie al pian terreno, sono realizzati ad affresco dei putti alati attorniati da un drappo, raffigurati nell’atto di tenere fra le mani dei mazzetti di fiori; le vaporose figurette sono collocate all’interno di cornici tonde e polilobate arricchite da fastosi riccioli, sempre realizzate con la stessa tecnica [Tavola XXVII]. Al piano nobile, due piccoli ovali policromi impreziosiscono le volte a botte ribassata dei due vani. Al loro interno due piccole figure allegoriche, rappresentanti il Sonno e la Notte alludono alla destinazione di questi spazi “privati”. La doppia cornice ovale con motivi vegetali riprende la scelta ornamentale soprastante le arcate. Il Sonno, che decora l’alcova posta sul versante sud, è raffigurato come un giovane alato nell’atto di dormire adagiato mollemente sopra una nube. Le sovrapporte di questo ambiente, invece, non presentano decorazioni, forse a causa di un’interruzione dei lavori mai più ripresa in fasi successive. La Notte, nella camera posta simmetricamente, è rappresentata come una figura femminile coperta da un manto blu stellato, la mano alzata quasi a propiziare il sospirato riposo 200 [Tavola XXVII]. Le arcate delle due alcove superiori presentano internamente degli ancoraggi, segno tangibile che un tempo ci fossero dei tendaggi, a voler costituire un ulteriore elemento di separazione tra il piccolo spazio della nicchia e la camera antistante. Risulta chiaro che questi originali vani fossero utilizzati come spazi "intimi", quelli al piano terreno, probabilmente, erano adibiti a ricevere ospiti, forse piccoli ambienti utilizzati come luoghi per la lettura e per il riposo. 200
Qualche breve riferimento sulle volte delle due alcove del piano nobile in E. M. GUZZO, 1991, p. 296.
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Non possiamo stabilire con certezza chi fu responsabile dell’apparato ornamentale delle due alcove. Non è escluso che Giuseppe Montanari ne sia l'ideatore considerata l'assonanza stilistica tra queste decorazioni e quelle, sempre dello stesso Montanari, dei vari ambienti di villa Dionisi. Se così fosse, potrebbe essere lecito supporre un contemporaneo intervento dell’artista nella residenza a Cà del Lago e nella vicina villa di Ramedello; ipotesi rafforzata, peraltro, da un certo gusto scenografico, da un linguaggio vivace che rivela un estro fantasioso appartenente sicuramente all’artista bolognese. Si tratta di una scrittura plastica movimentata, non ancora raggelata dal rigore classicista; sarà, infatti, soprattutto a partire dal settimo decennio del XVIII secolo, come già si è accennato, che la decorazione degli interni si presenterà più equilibrata, obbedendo ad un gioco di cornici e bordature più regolari, meno soggette all’esuberanza barocca. Confrontando gli ornati a stucco del Montanari presenti in villa Dionisi a Cà del Lago con quelli delle alcove di Villa Guastaverza, notiamo che motivi ornamentali come profili arabescati, foglie d’acanto, ghirlande di fiori e frutta, sono stilisticamente molto simili. Per la parte affrescata delle alcove, invece, una certa analogia stilistica con altre opere dell’Anselmi rafforzerebbe la nostra convinzione di un suo intervento in villa come affreschista, all'inizio della sua carriera. Gli angioletti dalle forme plastiche, con le membra grassocce, i volti paffuti, sono figure assimilabili alle soluzioni adottate dal pittore veronese.
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CAPITOLO 6
Silvia Curtoni Verza e “la sua parte del Mondo in sulla scena” 6.1. Silvia Curtoni Verza e il “gabinetto d’Armida”
A questo punto è interessante ricostruire la figura di Silvia Curtoni, dama culturalmente raffinata che, come già si è detto, andò in sposa ad uno dei fratelli Verza ed ebbe un ruolo cardine nel rafforzamento del prestigio di tale famiglia; tuttavia in questo lavoro ci limiteremo a definirne solo i tratti biografici principali, 201 con l’obiettivo di soffermarci maggiormente sul ruolo che rivestì nei salotti intellettuali, tenuto conto che essi ebbero, quale principale scenario di concretizzazione, proprio la villa di Ramedello e il palazzo cittadino in Bra. Silvia nacque il 24 novembre 1751 da Antonio Curtoni ed Elisabetta Maffei nello storico palazzo in contrada San Pietro Incarnario, già dimora dei Dal Verme, del Gattamelata, dei Da Monte, fino a passare, appunto ai Maffei. 202 Il nome Silvia le venne dalla madre del suo prozio Scipione Maffei, che morì quando la piccola aveva appena quattro anni. L’ambiente in cui si formò la Curtoni risentiva del fervido clima sociale e culturale tardo seicentesco e settecentesco, animato dalla figura dello zio Scipione, la cui fama di letterato ed erudito ebbe sicuramente un certo peso sull’educazione della Curtoni. La sua formazione avvenne presso l’educandato delle Benedettine di Santa Maria degli Angeli, in cui rimase sei anni, dal 1763 al 1769, un ambiente che dovette favorire la sua decisione ad abbracciare la vita monastica; scelta, quest'ultima, tuttavia, non concretizzatasi, anche a causa della contrarietà della famiglia, tanto che Silvia nelle “Terze Rime” in una poesia intitolata “Conforto”, scrisse: Per approfondimenti biografici su Silvia Curtoni Verza valga qui B. MONTANARI, 1851 e F. UGLIETTI, 1983. 201
202
Su tale palazzo basti qui rinviare a F. DAL FORNO, 1973, pp. 190-191.
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Inesperta pur io, giovane, e ignara Di sì fatta tra voi misera sorte, Mi dannai quasi ad esta vita amara; Ma il mio buon genitore, in suo amor forte, Dal periglio mi trasse il dì ch’io avea Già le caste ghirlande al crine attorte.203 Si appassionò poi allo studio dei classici completando così la sua formazione. “Frivola, bella, istruita, intelligente; e donna che ha vissuto la vita in pieno, con arditezza e senza confondersi nella miseria di vani riti stereotipati dalla consuetudine della mondanità”: così la definisce Giovanni Quintarelli.204 Bella era bella, e sicuramente si attorniava di molti corteggiatori come ci testimonia anche il carteggio raccolto da Giuseppe Biadego: di alta statura con la carnagione scura e dai “possenti occhi neri” secondo le appassionate parole del Betteloni,205 “piena di ottime qualità e adorna di tanti pregi” la descrive Baldassare Odescalchi, il romano duca di Ceri 206, in una lettera del 1787 rivolta proprio alla nobildonna.207 Giuseppe Parini l’aveva conosciuta a Milano dopo il 1780 e ne era rimasto sedotto, tanto che le dedicò alcuni versi,208 le scrisse inoltre una serie di lettere in cui trapelava il suo senile innamoramento. Silvia, dal canto suo, trasferì l’impressione di quell’incontro in una
203
S. CURTONI VERZA, 1822, pp. XXII-XXVI.
204
G. QUINTARELLI, 1936, pp. 4-5.
205
F. UGLIETTI, 1983, pp. 23; 72.
206
Baldassare Odescalchi, duca di Ceri (Pelide, Lidio), era un poeta dilettante e mecenate dell' Accademia d'Arcadia, di cui, come vedremo, farà parte anche Silvia Curtoni. In merito si veda M. T. ACQUARO GRAZIOSI, 1991, p. 354. 207
G. BIADEGO, 1884, p. 2, G.QUINTARELLI, 1936, p. 6.
208
G. QUINTARELLI, 1936, p. 7.
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lettera inviata ad un facoltoso cittadino in cui ne evidenziò “i due grandi occhi poetici”. 209
Andò in sposa molto giovane a Francesco Guastaverza, il figlio primogenito del conte Orazio e della contessa Lucrezia Da Lisca, unione, quest’ultima, che sanciva per i Verza un’alleanza matrimoniale con un’altra importante famiglia del panorama veronese: i Da Lisca appunto. Francesco doveva, dunque, mantenere alto il prestigio delle due casate, e confortare le ambizioni del padre che desiderava per il figlio un matrimonio degno della posizione raggiunta. Egli però si era innamorato follemente di una popolana, “ingattito d’una giovane onesta, ma d’umile condizione”- come riporta Benassù Montanari- e “intendeva congiungersi a lei col vincolo matrimoniale”. 210 Si trattava certamente di uno scandalo che rischiava di sporcare i nomi delle due famiglie; bisognava dunque ricorrere tempestivamente ai ripari attraverso un immediato matrimonio. E fra le nobili donzelle del panorama veronese, la Curtoni era perfetta sotto ogni punto di vista: figliola “ragionevole ed obbediente” come la definisce l’Uglietti,211 “benemerita del patriziato”, appena dissuasa dall’idea di consacrarsi alla vita monastica, rappresentava certamente un’ottima scelta per il nostro Francesco. L’unione tra Silvia Curtoni e il primogenito dei Guastaverza assicurava da una parte di evitare il dramma che sarebbe sorto se davvero il giovane avesse sposato quella popolana, dall’altra contribuiva a rafforzare il prestigio della famiglia soprattutto –come vedremo- dal punto di vista culturale, inserendola in un contesto animato da vivaci frequentazioni con i più illustri letterati del tempo.
209
B. MONTANARI, 1851, p. 10.
210
B. MONTANARI, 1851, p. 11.
211
F. UGLIETTI, 1983, p. 20.
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Così l’8 aprile del 1771212 si celebravano nella Parrocchia di San Marco Evangelista, alla presenza dei testimoni Giuseppe Carminati e del marchese Teobaldo Pellegrini, le tanto sospirate nozze di Silvia e Francesco. 213 Da quel giorno la fanciulla occupava le grandi sale del palazzo in Bra, ed era stata accolta con entusiasmo e fin da subito accettata dalla suocera Lucrezia e dai fratelli del marito rimasti nel palazzo sanmicheliano, ossia Paolo Filippo ed Ignazio; Gerolamo, secondogenito era entrato nella Compagnia di Gesù, diventando gesuita,214 mentre le sue sorelle si erano consacrate alla vita monastica. Con il marito nacque un rapporto di reciproca stima e affetto, egli le permetteva di coltivare la sua intelligenza e assecondava le sue passioni. Presto però morì lasciandola vedova e senza figli. 215 Sicuramente
la
giovane
sposa,
colta,
educata
e
letterata,
godeva
dell’ammirazione di molti personaggi illustri: Alessandro Carli, Giovanni e Ippolito Pindemonte, Girolamo Pompei, l’abate Bartolomeo Lorenzi, Ugo Foscolo, Giuseppe Parini fino a conquistare anche la stima di Sua Maestà Maria Ludovica Imperatrice d’Austria. Desiderosa di relazioni, si lasciò coinvolgere nel gioco seducente dei corteggiamenti, muovendosi con destrezza in quella sapiente rete di relazioni che lei stessa era stata in grado di tessere. Dopo il matrimonio aveva colto tutte le opportunità per consolidare le sue conoscenze culturali, per creare uno spazio sociale di incontri, attraverso la consuetudine del ritrovo settimanale; a Silvia sicuramente andò il merito di aver costituito sia nel palazzo urbano, sia nella dimora di Ramedello, un ambiente socialmente eletto che trovava espressione nel salotto, come spazio domestico, ma anche come luogo della mondanità.216 Il ruolo della salonnière era quello di accogliere, 212
Segnaliamo la stesura del contratto dotale (ASVr, Ufficio Registri, atti notarili, notaio Moretti Gerolamo del fu Giacinto, b. 7554, c. 959 del 3/3/1771). La famiglia di Silvia Curtoni Verza prometteva a Francesco Guastaverza "diecimila ducati [...] in danari contanti, et mille de mobili. Al suocero Orazio aspettavano "ducati quattromila e cinquecento" da suddividersi in otto rate; altri "ducati mille de mobili" andavano ai fratelli di Francesco, Paolo Filippo e Ignazio Guastaverza. 213
F. UGLIETTI, 1983, p. 21, nota n°4.
214
E. MORANDO DI CUSTOZA, 1980, p. 322.
215
F. UGLIETTI, 1983, p. 54, nota n° 10.
Per un approfondimento sul tema del salotto letterario e del ruolo che la donna esercitò al suo interno si rimanda a Salotti e ruolo femminile in Italia..., 2004. A proposito dei salotti intellettuali di Silvia Curtoni Verza alcuni cenni in P. AZZOLINI, 2009. 216
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di aprire uno spazio attivo di socializzazione, favorendo le relazioni e promuovendo aspiranti letterati. Ed è nel salotto che avveniva la ricerca di affermazione di una precisa identità, di un riconoscimento del proprio ruolo, in un momento storico, quale è il Settecento, in cui si avvertiva la crisi del patriziato che in qualche modo si dibatteva per rimanere a galla. Nel XVIII secolo il ceto nobiliare, sotto la spinta di Scipione Maffei, tentò di mantenere integro il proprio ruolo, ma il disfacimento dell’aristocrazia era ormai vicino.217 Con l’arrivo dell’esercito francese capeggiato da Napoleone, nel 1796, tutto il territorio veronese fu scosso da una serie di cruciali mutamenti che finirono per intaccare l’aspetto politico-sociale-culturale della città, determinando una fase di profonda insicurezza. Insicurezza e instabilità alimentate dal fatto che una stessa zona si trovava sotto il dominio degli austriaci e, nello stesso tempo, era anche soggetta all’occupazione francese. Sotto la pressione degli eventi bellici, il crollo della Serenissima –che manteneva la sua neutralità- era ormai inevitabile. 218 Tuttavia il salotto, inserito nel quadro più ampio del tumultuoso contesto politico, rappresentava un luogo immune e protetto, nonostante un aggiornamento costante da parte dei propri ospiti sugli avvenimenti storici. Ambiente chiuso dalle mura del palazzo o del giardino, nella figura del “cerchio” trovava la sua emblematica raffigurazione; queste riunioni da una parte producevano al loro interno cultura, idee politiche, usanze, costumi, che venivano proiettati all’esterno, recepiti e assimilati; dall’altra parte, però, si trattava pur sempre di uno spazio privato e rassicurante. Salotto, dunque, come luogo domestico del vicendevole scambio di opinioni che infonde tranquillità. Quasi da intendersi a posteriori come ultima, simbolica roccaforte dell’aristocrazia, un territorio dalle aspirazioni monadiche, per quanto vivacemente permeabile –nelle due direzioni, in entrata e in uscita- agli accadimenti dell’epoca: all’interno di questo perimetro la scansione del tempo e il ritmo delle esistenze dei nobili in declino procedevano come slegati dal reale scorrere degli eventi esterni. Si trattava, a ben vedere, quasi di un Sulla situazione politica allo scadere del Settecento a Verona nel Maggior Consiglio, si confrontavano i partigiani di due partiti, i simpatizzanti della Francia e quelli dell’Austria: per approfondimenti sul tema, si veda F. VECCHIATO, 1996, pp. 119-14, F. GIACOBAZZI FULCINI, 2001, pp. 227-254. 217
A tale proposito: E. LUCIANI, 2006, p. 213. Si veda, inoltre, quanto scrive G. QUINTARELLI, 1936, p. 9: “La fine dell’aristocrazia veneziana, di quel governo della Serenissima che si lasciava strangolare da Bonaparte quasi senza resistere, ha i caratteri di una grande tragedia della viltà”. 218
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microcosmo atemporale, entro cui gli aristocratici intellettuali mettevano in scena l’ultima rappresentazione del loro antico potere e prestigio, evidentemente percepito come prossimo alla fine. Il pubblico maschile era chiaramente privilegiato all’interno di questi salotti di conservazione, quantitativamente e qualitativamente; talvolta però si caratterizzava per la partecipazione anche di figure femminili, legate magari alla padrona attraverso relazioni amicali o famigliari. Silvia riceveva ospiti del gentil sesso come Chiarastella de Medici, Caterina Miniscalchi Bon, Camilla Strozzi, Isabella Teotochi Albrizzi, Elisabetta Contarini Mosconi, Paolina Grismondi, amiche e rivali, anch’esse a loro volta animatrici di stimolanti salotti. 219 Viene da chiedersi se Silvia fosse semplicemente una “pupattola da sala”, come ebbe a scrivere Giosuè Carducci 220, oppure se fosse protagonista di una vera e propria attività di promozione intellettuale. Certo, il livello culturale dei suoi incontri -documentati nei vari carteggi e dallo stesso ritratto biografico che ne fa l' amico Benassù Montanari- ci conforta sul fatto che la nobildonna non si limitava solo a pose vezzose, aveva sì una componente erotica e seduttiva, ma il suo ruolo non era legato solo al puro intrattenimento di un’élite di amici e corteggiatori; il contatto con quell’ambiente colto doveva averne affinato la sensibilità fino a rinforzarne i tratti di donna attenta alla poesia, al teatro e alle arti, smaniosa di apprendere e capace di animare le conversazioni “con un brio e un’arte del parlare e una potenza di suggestione che spiega benissimo il fascino esercitato un po’ su tutti.” 221 Ippolito Pindemonte
–peraltro ospite fisso nella villa a Nòvare della Mosconi e
frequentatore della Teotochi Albrizzi- provava per lei molta ammirazione e ogni venerdì partecipava al suo salotto, come si legge nei suoi “Elogi Letterari”, e in particolare nell’ “Elogio a Girolamo Pompei”.Qui l’autore in una sorta di dialogo con l’amico, ne tesse le lodi:
Il salotto di villa Albrizzi a San Trovaso di Preganziol, tenuto da Isabella Teotochi era frequentato da personaggi come Lord Byron, Vincenzo Monti, l’abate Cesarotti, Ippolito Pindemonte, Ugo Foscolo. Su tale ambiente valga qui la scheda di F. MONICELLI, 2007, pp. 181-182, Elisabetta Contarini Mosconi accoglieva nella sua villa di Nòvare, presso Arbizzano, in Valpolicella il cavalier Pindemonte, Alberto Fortis e l’abate Aurelio Bertola, come scrive G. MARCHI, 1983, pp. 26-27. 219
220
G. CARDUCCI, 1884, pp. 199-200.
221
G. QUINTARELLI, 1936, p. 6.
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(Girolamo Pompei) “tu il sai. [parla ad Ippolito Pindemonte] Sai che non però in alcun luogo la sera io dimorava con più diletto, che nella stanza di Silvia Verza ogni venerdì, allorché Lorgna, Lorenzi, Nogarola, Guasco, Cossali alle volte, e te sempre, in un cerchio, parte si leggeva del tempo, e parte si ragionava […]”.222 Dunque, sia il nobile letterato Gerolamo Pompei,223 sia il cavalier Pindemonte avevano la consuetudine di partecipare a quelle adunanze settimanali tenute il venerdì in casa Verza, occupando quel cerchio ristretto di nobili e colti protagonisti dell’aristocrazia veronese, e non solo. Circolo chiuso in cui letture, recitazioni di testi, vivaci dibattiti, giochi di linguaggio, animavano l’ambiente. Ma com’era dunque il salotto di Silvia? Per farci un'idea di come fosse concepito tale luogo di socialità e di scambio di idee nella villa a Ramedello, affascinanti suggestioni emergono dalla descrizione che ne fa Benassù Montanari, a proposito del palazzo in Bra. “Riceveva Madama in una grande stanza teatralmente in due scompartita, metà a stucchi, e, come cantò il Voltaire degli appartamenti della Fama, a specchi l’altra metà; cortinaggi di seta cilestra, raccolti o spiegati, or una la rendevano, or due secondo tornava; nella parte a stucchi, quadrettini rappresentanti i più amorosi tratti degli idilli di Teocrito del Gesner del Pompei cò motti corrispondenti; e lettucci pur cilestri in amendue gli scompartimenti agiata la rendevano e quasi dissi voluttuosa. Il Vanetti chiamolla gabinetto d’Armida, grotta magica il Bettinelli, togliendo tal denominazione da una grotta del Giardin di Colorno cantata dal Frugoni”.224
222
I. PINDEMONTE, 1826, pp. 214-215.
Girolamo Pompei, affidatogli dal padre, rappresentava per la Curtoni un maestro, la educava nelle letture, le dava consigli su come riconoscere la bellezza, e una volta riconosciute le sue potenzialità di letterata, la spronò a scrivere versi. Per approfondimenti si rinvia a G. UGLIETTI, 1983. 223
224
B. MONTANARI, 1851, p. 75.
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Così l'amico della Curtoni ricordava gli interni di quel “palagio suo stupendo per facciata del Sanmicheli”225 in cui la Verza, il venerdì appunto, riceveva i suoi ospiti: l’ambiente descritto con cortine, tendaggi, specchi e dorature ci rimanda all’immagine di un palcoscenico, di una sorta di scenografia teatrale in cui la Verza, recitava il suo ruolo nella scena mondana. Dame e cavalieri allestivano nei loro conciliaboli quasi delle vere e proprie “rappresentazioni teatrali” di un tempo passato: erano consapevoli del loro indebolimento, come già accennato, e attraverso il rito mondano del salotto assumevano una maschera precisa, giocavano a sostenere la loro parte nel mondo, simulando, forse, una finta solidità. Ma Silvia era davvero un’attrice, e questo confermerebbe come sia ingiusto relegare la sua personalità nelle vesti di una deliziosa “pupattola da sala”: cominciò ben presto a recitare nelle radunanze di attori dilettanti e aristocratici.226 Ad istruirla come attrice ci pensò il conte Alessandro Carli, uomo erudito, amante dell’arte e che oltretutto si dilettava –con spirito estremamente professionale- a mettere in scena drammi teatrali.227 La contessa Verza interpretò vari ruoli, ma quello che ne evidenziò maggiormente le qualità attoriali fu la Berenice del drammaturgo francese Racine, tragedia tradotta per lei dal Pindemonte. Il personaggio greco egizio la rese talmente popolare da diventare per il vasto pubblico veronese, la Regina.228 Silvia inoltre, entrò a far parte, nel 1773, con il nome di Flaminda Caritea, di una Accademia Arcadica fondata agli inizi del secolo dal prozio Scipione. 229 L’Arcadia230 del 225
Ivi, p. 74.
Cfr. G. QUINTARELLI, 1936, p. 10: “e due specialmente erano i ritrovi teatrali, frutto della passione di una delle più distinte famiglie veronesi, quella dei conti Marioni. I conti Marioni avevano organizzato due teatri, uno per la commedia e uno per la tragedia. Il primo nel loro palazzo sul Corso di Porta Nuova, quel palazzo che ora è Noris: e serviva per la commedia. L’altro in quella villa del Chievo che fu poi proprietà del conte Leopoldo Pullè”. 226
227
Sulla figura di Alessandro Carli (1740-1814) si veda C. BISMARA, 2009, pp. 169-181.
Sulle qualità attoriali di Silvia Curtoni si trovano riferimenti in B. MONTANARI, 1851, in particolare pp. 27;39, G. QUINTARELLI, 1936, p. 11, F. UGLIETTI, 1983, p. 33-36. Alcuni elogi sulla bravura della contessa come attrice in I. PINDEMONTE, 1826, pp. 214-215. 228
229
F. UGLIETTI, 1983, p. 32.
L'Arcadia fu fondata a Roma nel 1690 e trovò successivo sviluppo in altre regioni d'Italia; si trattava di un' Accademia letteraria che contrubuiva alla circolazione delle idee e alla promozione della cultura. Gli accademici facenti parte erano chiamati Pastori Arcadi. In generale sulla storia d'Arcadia si veda M. T. 230
70
XVIII secolo ebbe sicuramente con i salotti letterari del tempo, un rapporto di viva connessione, di condivisione, tanto che non è possibile considerare le due come entità separate fra loro, bensì come aspetti indissolubili di una stessa realtà. L’Arcadia fu un’istituzione in dinamica evoluzione, in grado di adattarsi al contesto sociale, pur rimanendo ancorata alla memoria del suo passato; capace di percepire i segni dei mutamenti del tempo e quindi aperta ad accogliere la partecipazione femminile alla dimensione sociale.231 Riconosciamo nella stessa Silvia e nelle sue frequentazioni il riflesso di un’osmosi forte tra teatro, salotti e accademie, un legame di rimandi incrociati e di compenetrazioni tra mondi simili.
6.2. Vita campestre e vita mondana a Ramedello
Viene da chiedersi se il “gabinetto d' Armida” del palazzo sanmicheliano avesse una qualche similitudine con il salotto della villa di Ramedello di cui purtroppo, anche attraverso una attenta analisi dei carteggi della Verza, non ci sono pervenute molte notizie. La contessa e i famigliari Guastaverza erano soliti trascorrere parte dell’anno in villa: la stagione preferita per il soggiorno era certamente l’estate, 232 in cui la residenza diventava “riparo ozioso e studioso dalla città […], entro la pace ritemprante e le bellezze consolanti della natura”.233 Silvia Curtoni Verza si rifugiava solitamente nei mesi caldi entro lo spazio protetto della villa, universo rustico, in cui il giardino soddisfaceva bene quell’esigenza d’evasione dal negotium della città. Qui nell’amenità ACQUARO GRAZIOSI, 1991, passim. Sull’Arcadia e la presenza femminile all’interno di queste istituzioni, si veda E. GRAZIOSI, 2004, pp. 67-97. La stessa autrice aveva, inoltre, proposto un quadro della questione e numerose integrazioni di nomi di donne in un precedente articolo: Ead, 1992, pp. 321358. 231
L'Arcadia mirava ad un élite femminile aristocratica alle cui dame si richiedeva che si dedicassero alla poesia. Si veda, a tale proposito, E. GRAZIOSI, 2004, p. 324. Sulla consuetudine della permanenza estiva in villa da parte dei nobili cives, riferimenti in G. BORELLI, 1987, p. 23. 232
233
L. PUPPI, 2005, p. 30.
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del verde con le suggestioni sprigionate dalla campagna circostante, la Curtoni teneva il suo salotto estivo, attorniandosi degli stessi personaggi che in inverno frequentavano la residenza urbana. Tra questi ricordiamo l’abate Bartolomeo Lorenzi amante peraltro della vita rustica e prototipo del sacerdote agricoltore. 234 Proprio a quest’ultimo la contessa dedicò la sua raccolta di poesie, contenuta nelle Terze Rime. È quindi la campagna che costituiva lo scenario di sfondo dei salotti tenuti nella dimora a Ramedello. Nel paesaggio campestre, dunque, Silvia ricercava un'atmosfera idilliaca a contatto con la natura, come cornice essenziale delle conversazioni letterarie e delle esercitazioni poetiche. La collina, fa notare il Turri, 235 sicuramente costituisce un paesaggio più godibile, più appagante in senso estetico. Agronomi e trattatisti architettonici del Cinquecento, del resto, raccomandavano di costruire le ville in posizioni elevate, su morbide alture. Se è vero che le ville di delizia si concentravano maggiormente nelle aree collinari e le ville fattoria nella pianura, occorre però considerare che una distinzione netta tra le due tipologie non trova nessun riscontro veritiero con una realtà in cui si verificava sempre una compresenza di questi aspetti. Anche nella villa Guastaverza, inserita nel contesto della bassa veronese, vita e letteratura, mondo reale e mondo immaginato si amalgamavano nell’armonia di un ambiente che offriva salubrità e rilassamento. La dimensione del diletto che costituiva un chiaro connotato di villa Guastaverza era strettamente legata alla sua realtà di azienda agricola inserita nello spazio aperto della pianura; la campagna entrava in una relazione dialettica con l’universo urbano in un intreccio di rapporti complementari, di combinazione e scambio di personaggi. L’aspetto culturale, incentivato dalla stessa Silvia attraverso il salotto - che arricchiva e nobilitava, ad un livello intellettuale, la residenza dominicale di Ramedello- ingaggiava una relazione di vivo e paritario scambio con una dimensione autenticamente bucolica. Ad attestare la presenza di Silvia nella domus di campagna, tra i suoi carteggi, abbiamo trovato, in Biblioteca Civica, una lettera che riporta come dati del mittente “Ramedel, 11 agosto 1819”, inviata all’amico Benassù Montanari. 236 Riportiamo di 234
Sulla figura dell’abate Bartolomeo Lorenzi brevi riferimenti in G. MARCHI, 1983, p. 22.
235
E. TURRI, 1975, p. 35.
236
Carteggio S. CURTONI VERZA, in BCVr, b. 262.
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seguito lo scritto precisando che non sono presenti riferimenti alla villa: “Eccovi le ottave degne del nostro Lorenzi [si riferisce all’abate B. Lorenzi], malgrado qualche oscurità mi piace il sonetto di Villardi perché leggiadro e gentile, ma nel sonetto non mi piace il prete, oh che scrupoli. La vostra lettera carissimo Benassù è sparsa di spiritosa insolenza e perché spiritosa, vi perdono. Stringete affettuosamente per me la mano del nostro amabilissimo Ippolito”. Nei perimetri della villa la Verza si era inoltre ritirata sicuramente in seguito alla morte della madre Elisabetta avvenuta nell’estate del 1778. In quell’occasione, come fa notare l’Uglietti, le fecero rare visite Alessandro Carli, Giovanni Pindemonte, il canonico Dionisi, peraltro proprietari di residenze estive, vicine a quella di Silvia. 237 La nobildonna del resto amava trascorrere del tempo in villa lontano dal trambusto della città; doveva sentirsi a suo agio a contatto con la vita rustica, con quella dimensione in cui la “Natura in sue vaghe bellezze, fa di se altera, e variata mostra” e dove sparge l’aura alme dolcezze”. Il suo salotto doveva trovare posto in un territorio agreste, in un “loco tranquillo, u’ tutto intorno tace”. Un giardino quello di Silvia che forse come quello di villa Nogarola a Castel d’Azzano, infondeva un senso di tranquillità e conciliava all’ozio. Fantasia poi dispiega ardito volo; Con le Muse, e Sofia lieta m’assido, Dè tranquilli ozj miei conforto solo;238 Emerge in questa poesia un piccolo indizio della sua attitudine alla vita campestre: un piacere del vivere rustico che a Ramedello trova la più compiuta realizzazione; l’aspirazione di una nobildonna che cerca gratificanti riscontri nelle forme dell’abitare in villa, attraverso la ricerca di quella sobrietà di vita di eredità
237
F. UGLIETTI, 1983, p. 47.
238
I versi in corsivo sono di Silvia Curtoni Verza, all’interno della poesia Passeggio in S. CURTONI VERZA 1822, pp. XLI-XLIV. La poesia è riferita proprio a villa Nogarola a Castel d’Azzano.
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petrarchesca.239 Un’altra piccola conferma dell’amore di Silvia per la campagna, ma svincolato da uno atteggiamento esclusivamente estetico, fu un componimento240 rivolto al prediletto nipote Orazio241 nel 1809, in occasione del suo diciassettesimo compleanno: in questo scritto si preoccupava di fornirgli alcuni consigli sulla cura dei poderi e in particolare, basando le sue riflessioni sugli scritti di Columella, evidenziava la necessità di rivolgere un’attenzione costante ai terreni mediante visite stagionali e il diretto controllo della tenuta. Raccomandava anche il rispetto di quel mondo di contadini, braccianti, lavorenti, che contribuivano, in primis, alla funzionalità dell’azienda agricola. Una simile sensibilità le fu forse ispirata dall’abate Lorenzi, autore Della coltivazione dei monti che si dilettava come componitore di poesie didascaliche, mirate a fornire le sue aggiornate conoscenze in materia d’agricoltura. La villa di Ramedello si caratterizzava per una pluralità di aspetti: "buen retiro" 242
di aristocratici e intellettuali, via d’uscita, e rifugio dolce che abbracciava la
dimensione meditativa e allietava l’animo. O del lungo sentiero all’ombra cheta Oda la melodia dell’usignolo, Che assorta in ascoltar l’anima acqueta.243 Petrarca, come è noto, opponeva alla città, come luogo del negotium e dell’ira, il mondo della campagna come luogo dell’otium e del riposo: le virtù e i piaceri della dimensione campestre sono posti in antitesi rispetto ai vizi e agli eccessi del mondo urbano. 239
F. UGLIETTI, 1983, p. 126-127. Il titolo del componimento in versi, stampato dalla Tipografia Gamberetti e C. di Verona, è Consigli di Flaminda Caritea al suo nipote Orazio Verza. 240
Orazio era figlio di Filippo Guastaverza (cognato di Silvia) e di Margherita Sparavieri, nato il 6 Novembre 1792. (F. UGLIETTI, 1983 p. 90, nota n°1). 241
242
Buen Retiro qui è considerato nella sua accezione italiana di luogo di incontro e di svago di nobili e intellettuali. Il nome deriva, verosimilmente, da un parco di Madrid (in spagnolo Jardines del Buen Retiro, o più semplicemente El Retiro). I giardini insieme al Palazzo Reale del Buen Retiro furono progettati e costruiti nel XVII secolo per il re Filippo IV, affinché fosse creato uno spazio per i suoi ozi. Tale agglomerato era concepito, dunque, come una sorta di residenza estiva, frequentato da uomini colti e da aristocratici, ambiente ideale per lo svago e per il divertimento, dove venivano inscenate rappresentazioni teatrali. Nel 1808, durante l'invasione napoleonica, gli edifici e lo stesso parco subirono vari danneggiamenti, con la conseguente distruzione del palazzo reale. Dopo il 1868 i giardini furono aperti al pubblico. (http://it.wikipedia.org/wiki/Parco_del_Retiro) 243
I versi riportati si trovano all’interno della poesia Passeggio in S. CURTONI VERZA 1822, pp. XLIXLIV.
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L’idea aulica della campagna, tuttavia, come alternativa alla vita urbana, fatta di piaceri e sollazzi, conviveva con un atteggiamento volto alla cura e al controllo delle possessioni terriere, ed è qui –in questo binomio: villa-delizia, villa-azienda agricolache ritroviamo quel concetto di “santa agricoltura” di Alvise Cornaro; 244 l’immagine di una natura che attraverso l’intervento antropico cerca la sua perfezione, ma non la sua sottomissione. La natura deve mantenere pur sempre una sua forza, un potere di suggestione; natura idilliaca che si lascia contemplare. Silvia quindi da una parte esaltava il paesaggio campestre e la dimensione dell’ozio come nei versi riportati sopra: la semplicità rurale che ispira calma e pace, stimolando la fantasia; dall’altra -come emerge dal componimento rivolto al nipotecredeva fermamente nella vigile attenzione per gli aspetti del vivere in campagna; consapevole che la residenza agreste costituisse, in primis, un complesso produttivo (portando avanti così, proprio come era nelle ambizioni del suocero Orazio, l’idea di investire energie nel brolo, di mettere a profitto tutti i mezzi di produzione possibile). E infine villa come richiamo di nobili signori, dove il muro delimitava un mondo inclusivo, uno spazio altro e privilegiato e dove il salotto ne diventava emblematica rappresentazione e fulcro. Lo scavalcamento dei nuovi ricchi era ormai vicino, e in quest’epoca storica di sconvolgimenti, il salotto costituiva, in fondo, l’emblema di qualcosa di superato, ma desideroso di rimanere ancorato fino all’ultimo al suo passato glorioso.
L’agricoltura secondo Alvise Cornaro è moralmente superiore al commercio e all’industria, è un' occupazione onorevole in cui si compenetrano finalità pratiche legate alla produzione e atteggiamenti contemplativi. Di interesse è, ai fini della nostra indagine, la riflessione sul rapporto cultura-paesaggio di D. COSGROVE, 2004, in particolare pp. 173-178. La predilizione di Cornaro per i paesaggi coltivati era coerente con la convinzione che la natura necessitasse dell'intervento perfezionante dell'uomo, come scrive J. S. ACKERMAM, 1992, p. 128. 244
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APPENDICE
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1. ALBERO GENEALOGICO
Per quel che riguarda il nostro studio, abbiamo ricostruito in particolare i nomi delle ultime generazioni di tale albero genealogico, nel periodo compreso tra XVII e XIX secolo, partendo dalle fonti archivistiche indagate (atti notarili, estimi, disegni realizzati per la Magistratura dei Beni Inculti, Catasto Napoleonico, Catasto Austriaco). La genealogia, laddove non ho potuto per ora verificare, riprende lo stemma cosĂŹ come disegnato dal Carinelli nella sua opera sulla nobiltĂ veronese (C. CARINELLI, La veritĂ nel suo centro riconosciuta nelle famiglie nobili e cittadine di Verona, in BCVr, vol. VIII, trascrizione del manoscritto originale del XVIII secolo).
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Legenda d. e i. m. n. s. d. t.
= disegno = estimi = iscrizione lapidea sulla facciata dell'oratorio privato di Sant'Anna = morte = nascita = stesura dotale = testamento
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2. CATASTO NAPOLEONICO (ASVr, Catasto Napoleonico, mappa n. 485, Sommarione n. 485, Comune Censuario S. Zeno di Cerea). Si riportano i numeri di mappa con la relativa descrizione ricavati dalla consultazione dei registri di Cerea (Comune Censuario: San Zeno di Cerea). Si rimanda per il riscontro visivo a Tavola VI, che mostra l'area di Ramedello con il complesso Guastaverza. Il catasto è ordinato per numero di mappa e quindi le possessioni pertinenti allo stesso proprietario sono sparse all'interno del registro. Qui si riportano le proprietà dei Guastaverza in contrada Ramedello, in cui appunto è collocato il complesso, oggetto della nostra ricerca. Per completezza si riportano anche le possessioni nelle vicine località della Crosara, di Giazzola, della Cavarzara.
Verza Ignazio del fu Orazio ( Sommarione n° 485, pp. 14-15) N° MAPPA
LOCALITÀ DESCRIZIONE
SUPERFICIE (in pertiche censuarie) P. C. Cent. Arativo vitato con morari 150 03 Prato 11 02 Aratorio 69 Casa da Massaro 1 56 Casa da Massaro 2 24 Aratorio 1 45 Orto ---17 Prato 3 49 Orto ---51 19 67 Brolo Casa da gastaldo 2 69 Casa da Villeggiatura 1 13 Prato ---80 Orto 1 92 ---78 Giardino Prato ---57 Oratorio sotto il titolo ---11 della BeataVergine Maria Aratorio vitato 1 64 Strada privata 3 83 Casa da massaro ---89 Orto ---34 Orto ---10 Aratorio vitato 6 60 Arativo vitato con morari 41 10
190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200 201 202 203 204 205 206
Crosara " " " Ramedello " " " " " " " " " " " "
207 208 209 210 211 212 213
Giazzola Crosara Giazzola " " " Cavarzara
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3. CATASTO AUSTRIACO (ASVr, Catasto Austriaco, mappa n. 280 - reg. 229, Comune Censuario San Zeno di Cerea). Si riportano i numeri di mappa con la relativa descrizione ricavati dalla consultazione dei registri di Cerea (Comune Censuario: San Zeno di Cerea). Si rimanda per il riscontro visivo a Tavola VI, che mostra l'area di Ramedello con il complesso Guastaverza. Il catasto è ordinato per proprietario, vengono indicate le possessioni con il totale della rendita complessiva. Si trascrivono i dati relativi a Orazio Guastaverza, figlio di Paolo Filippo e ultimo esponente della famiglia a possedere il palazzo, e a Valeria Bonzi (la partita si trasferisce il 21 giugno 1849); poi, il 9 dicembre 1861 risulta di proprietà di Domenico Barbieri.
Guastaverza Nobile Orazio del fu Paolo Filippo (reg. 229, p. 142) N° MAPPA
DESCRIZIONE
23
Aratorio
24 25
Casa colonica Aratorio
SUPERFICIE RENDITA (in pertiche censuarie)
P. C.
CENT. 26
L. AUST. 1
CENT. 34
2 2
58 57
66 9
24 17
26
Aratorio
17
10
61
05
32 51 53 54 55 57 72 79 97 185 190 191 192 193 194 195 196 197 198 199 200
Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio Aratorio Aratorio arborato vitato Aratorio arborato vitato Aratorio Aratorio Casa colonica Casa colonica Aratorio Orto Aratorio Orto Prato Fabbricato per azienda agricola rurale Casa di Villeggiatura Prato Prato
37 16 29 22 22 9 70 22 8 14 102 11 ---1 2 1 ---3 ---19 3
10 94 40 45 29 33 54 18 56 59 10 02 69 56 24 45 17 49 57 67 26
120 53 94 72 72 29 228 21 31 46 480 40 2 33 57 5 ---12 2 99 46
90 42 22 07 77 80 99 10 16 27 71 74 46 12 96 18 81 46 43 33 80
1 ---1
13 80 92
144 4 9
00 24 70
201 202 203
83
204 Orto 205 Aratorio arborato vitato 206 Oratorio Privato 207 Aratorio arborato vitato 208 Pascolo 209 Casa colonica 210 Orto 212 Aratorio arborato vitato SOMMA DELL'INTERA PARTITA
---55 ---1 3 ------6 642
84
76 45 11 64 83 89 34 70 92
3 186 7 7 1 46 1 31 2547
72 66 92 45 92 92 62 75 80
4. PIANTE, PROSPETTI E SEZIONI
PLANIMETRIA DEL COMPLESSO
Planimetria con il palazzo e gli edifici retrostanti. Qui non sono indicati l'oratorio, collocato nella zona antistante al corpo padronale, e i fabbricati rustici posti sul versante meridionale. Si rinvia, per un riscontro visivo, alle Tavole VI e VII, relative, rispettivamente alle mappe del Catasto Napoleonico, del Catasto Austriaco e alla visura catastale attuale.
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PIANTE DELLA VILLA
PIANTA PRIMO PIANO LEGENDA Area evidenziata in rosso = alcove Area evidenziata in giallo = salone
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PIANTA SECONDO PIANO LEGENDA Area evidenziata in rosso = alcove Area evidenziata in verde = salone affrescato
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PIANTA MEZZANINO Da sinistra verso destra le stanze sono oggi adibite a sala da pranzo, cucina e salotto.
PIANTA SOTTOTETTO
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PROSPETTI DELLA VILLA
PROSPETTO EST
PROSPETTO OVEST
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PROSPETTO SUD Si noti la torre in mattoni fatta costruire da Aldo Bottura negli anni venti del Novecento.
PROSPETTO NORD
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SEZIONI DELLA VILLA
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PIANTE DEL PALAZZO RUSTICO RETROSTANTE ALLA VILLA
Piante del piano terra, del primo e del secondo piano dell'edificio retrostante al palazzo, adibito a magazzino di attrezzi agricoli.
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PROSPETTI E SEZIONE DEL PALAZZO RUSTICO RETROSTANTE ALLA VILLA
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TAVOLE E ILLUSTRAZIONI
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TAVOLA I
ASVr, Fondo Prefettura, dis. n°284. Data: 1778 Autore: Antonio Roveda, (copia eseguita da Antonio Serena) Descrizione: disegno che dimostra beni e case dei fratelli Filippo e Ignazio Guastaverza poste nelle pertinenze di Pazzon (Caprino). In verde sono raffigurati i terreni prativi, in rossetto gli arativi, campi veronesi 29, vanezze 13, tavole 17, rilevati da Roveda in occasione delle divisioni fra i fratelli Guastaverza; è indicata una fontana per l'irrigazione dei loro prati detti Feniletti.
TAVOLA II
ASVr, Fondo Dionisi Pio Marta, dis. n°23. Data: 23 maggio 1785 Autore: Antonio Mattei ("Copia disegno tratto da altro simile esistente nel Magistrato dei Beni Inculti"). Supplicanti: Filippo e Ignazio Guastaverza Descrizione: i Guastaverza chiedono di poter erogare un corpo d'acqua dal condotto Ronco Tomba mediante due bocche: una per irrigare quattro appezzamenti per complessivi campi 52, dei quali però solo 25 all'anno potevano essere coltivati a risaia con scolo in Nichesola; l'altra per irrigare un appezzamento di 24 campi con scolo in Frasinello (nelle pertinenze di Roverchiara "di sotto", Roverchiara di Caselle e Angiari). Il disegno mostra solo il sistema idrografico con l'intervento d'irrigazione.
TAVOLA III
ASVr, Fondo VIII Vari, Decima grande di Cerea, dis. n°3. Data: 22 novembre 1725 Autore: Francesco Bresciani Descrizione: disegno eseguito per identificare gli appezzamenti soggetti alla Decima Grande di Cerea compresi nella Contrà di Mezzo. Sono formati da due elenchi, uno per gli appezzamenti prativi e uno per quelli arativi. Per quel che qui interessa ai fini della nostra ricerca, si considera n°20 (cerchiato in rosso): una pezza broliva a Ramedello, il palazzo del nob. Verza suddetti e ciascuno ha una barradora di pietra sopra la muragli; n°93 (cerchiato in verde): una pezza con vigne e sopravi tre casotti e Chiesa di Ramedello del nob. Gerolamo e fratello Guastaverza; (il palazzo, gli annessi rustici e la chiesetta sono
evidenziati di giallo; n°89 (cerchiato in azzurro): una pezza con vigne dei due nob. suddetti Verza, detta la Cavarzara; n°19 (cerchiato in arancione): una pezza prativa nella contrà predetta dei nobili suddetti fratelli Verza; n°18 (cerchiato in viola): una pezza prativa a Ramedello con casa di uso dei lavorenti.
Descrizione Dettaglio del disegno di Francesco Bresciani (1725) con palazzo padronale, annessi rustici, torre colombara e chiesetta. L'oratorio, prima della deviazione del tracciato della strada comunale che porta a San Pietro di Morubio, era separato dal complesso.
TAVOLA IV
ASVr, Fondo Campagna, dis. n° 306. Data: 3 ottobre 1778 Autore: Antonio Roveda (copia eseguita da Antonio Serena) Descrizione: sono delineati i possedimenti, arativi e prativi dei fratelli Paolo Filippo e Ignazio Guastaverza, posti nelle pertinenze di Cerea, Malavicina, San Pietro di Morubio e Roverchiara. Il brolo con le fabbriche dominicali, la corte, il giardino e l'orto a Ramedello si estendono per campi 8, 3. L'insieme dei possedimenti terrieri ammonta a campi 310, vanezze 3, tavole 29. 1. Brolo con fabbriche dominicali, corte, giardino e orto di c. 8. v. 2. t. 3. 2. Arativa con vigne e morari detta la Vignola in pertinenza di Roverchiara, paga Decima del 15 di c. 2 v. 12 t. 22. 3. Arativa con vigne e morari detta la Valle di Sotto in pertinenza di Roverchiara paga Decima del 15 di c. 10 v. 7 t. 19. 4. Arativa con vigne e morari detta la Valle di Sopra in pertinenza di Roverchiara paga Decima del 15 di c. 4 v. 3 t. 23. 5. Arativa con pochi morari detta la Pezzola della Valle in pertinenza di Roverchiara paga la Decima del 15 di c. 4 v. 3 t. 18. 6. Arativa con vigne e morari detta la Viazzola in pertinenza di Cerea paga la Decima di c. 5 v. 13 t. 23. 7. Stradon di c. 1 v. 9 t. 6. 8. Arativa con case e orto detta il Campeto del Casoto esente di Decima di c. 1 v. 10 t. 21. 9. Arativa con vigne e morari detta la Cavarzara paga Decima del 13 di c. 16 v. 9 t. 23. 10. Arativa con vigne e morari detta la Croceta paga Decima di c. 5 v. 8 t. 10. 11. Arativa detto il Prà Roto esente di Decima di c. 6 v. 23 t. 11.
12. Arativa con vigne e morari detta terza Scavezza della Crosara paga Decima del 12 di c. 23 v. 8 t. 15. 13. Arativa con vigne e morari detta seconda Scavezza della Crosara paga Decima del 12 di c. 12 v. 22 t. 29. 14. Prato esente di c. 5 v. 1 t. 5. 15. Arativa con vigne e morari detta prima Scavezza della Crosara paga Decima del 12 di c. 11 v. 8 t. 16. 16. Corte, orto, e Fabbriche Rusticali di c. 1 v. 9 t. 15 17. Prà della Boaria di c. 8 v. 6 t. 5. 18. Arativa con vigne e morari detta l' Argnan in pertinenza di San Pietro di Morubio paga la Decima del 15 di c. 14 v. 2. t. 27. 19. Prà detto le Basse Rusticali di c. 5 v. 23 t. 11. 20. Prà detto le Basse Dominicale esente di Decima di c. 5 v. 16 t. 10. 21. Prà detto il Palaustrel di c. 2 v. 13 t. 6. 22. Arativa con vigne e morari detta le Binelle in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 18 v. 13 t. 14. 23. Arativa con pochi morari detta la Pezza del Barato in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 42 v. 22 t. 26. 24. Arativa in cinque pezze detta la Colombare in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 33 v. 2 t. 10. 25. Arativa in parte vegra con salgari e onni detta Belochio di c. 9 v. 23 t. 17. 26. Arativa con morari e onni detta la Stagnà in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 23 v. 7 t. 20. 27. Arativa detta li Moraroli con morari in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 12 v. 12 t. 23. 28. Arativa con morari detta la Nogarola in pertinenza di Malavicina paga la Decima di c. 13 v. 8 t. 24. Legenda
Area cerchiata di giallo: n°1, include il brolo, le fabbriche dominicali, il giardino, l'orto dei nobili Guastaverza. Area cerchiata di azzurro: n° 16 Corte, orto, e Fabbriche Rusticali dei nobili Guastaverza. Area evidenziata in rosso: da n°2 a n°5, include terreni nelle pertinenze di Roverchiara.
Area evidenziata in arancione: da n° 6 a n° 17, include terreni nelle pertinenze di Cerea. Area evidenziata in viola: da n°18 a n°21, include terreni nelle pertinenze di San Pietro di Morubio. Area evidenziata in verde: da n°21 a n°28, include terreni nelle pertinenze di Malavicina (oggi Bonavicina).
TAVOLA V
Descrizione Dettagli delle due mappe redatte da Francesco Bresciani, del 1725 (sopra) e da Antonio Roveda del 1778 (sotto). Sono evidenziati i fabbricati del complesso Guastaverza. Dal confronto sono evidenti gli interventi di trasformazione avvenuti, quindi, tra il 1725 e il 1778.
TAVOLA VI
Descrizione Sopra: dettaglio con il complesso Guastaverza in una elaborazione grafica da me riprodotta della mappa del Catasto Napoleonico (ASVr, Comune censuario San Zeno di Cerea, mappa 485). Sotto: particolare dell'area di Ramedello con il complesso Guastaverza della mappa del Catasto Austriaco, (ASVr, Comune censuario San Zeno di Cerea, mappa 280, f. 10). Le due mappe risultano dal confronto pressochĂŠ identiche. Per i riferimenti ai numeri riportati sulle mappe si rinvia alle rispettivamente Appendici 2 e 3 del presente lavoro.
TAVOLA VII
Descrizione Ricalco della mappa originale della visura catastale risalente al dopoguerra (San Zeno di Cerea, c/XIII). L'altro è il disegno aggiornato del Catasto Attuale (San Zeno di Cerea, f. 10). L'area evidenziata corrisponde ai fabbricati del complesso Guastaverza, oggi appartenente ai Bottura. La pianta degli edifici è pressoché identica a quella del Catasto Napoleonico e del Catasto Austriaco.
TAVOLA VIII
Descrizione Edificio retrostante al palazzo, verosimilmente risalente al Quattrocento, oggi adibito a deposito di attrezzi agricoli.
TAVOLA IX
Descrizione Veduta della facciata principale di villa Guastaverza.
TAVOLA X
Descrizione Facciata di villa Guastaverza e facciata secondaria di villa Dionisi rivolta sulla corte. Dall'osservazione dei due prospetti si riscontrano analogie sintattiche e compositive.
TAVOLA XI
Descrizione Sopra: statue raffiguranti Bacco e una divinitĂ agreste con cornucopia, poste a coronamento della facciata di villa Guastaverza. Sotto: due delle sei sculture di Lorenzo Muttoni di villa Pindemonte a Isola della Scala, una delle quattro statue femminili di Lorenzo Muttoni collocate sul fastigio di palazzo Dionisi, a CĂ del Lago. Gli studiosi, sulla base di confronti stilistici, attribuiscono la realizzazione scultorea dell'edificio, oggetto della nostra ricerca, allo stesso Lorenzo Muttoni.
TAVOLA XII
Descrizione Sopra: veduta dall'alto del giardino antistante la villa; veduta del giardino, con bassi muretti collocati a semicerchio, sullo sfondo si intravede il cancelletto collocato sul prospetto sud, affiancato da due sculture con putti. Sotto: immagine del complesso Guastaverza ( fonte google maps satellite, http://maps.google.it), in giallo sono evidenziati i tre cancelli in ferro battuto che immettono alla villa.
TAVOLA XIII
Descrizione Sopra: parco della villa sul versante settentrionale. Sotto: veduta del complesso Guastaverza con la campagna circostante.
TAVOLA XIV
Descrizione Sopra: l'oratorio di Sant'Anna annesso al complesso Guastaverza, adiacente alla strada comunale che conduce a San Pietro di Morubio. Sotto: dettaglio dell'iscrizione a caratteri latini posta sulla facciata, all'interno di un timpano centinato, spezzato.
TAVOLA XV
Descrizione Il prospetto est ed ovest della chiesetta, rispettivamente rivolti verso la strada e verso la corte.
TAVOLA XVI
Descrizione Sopra: particolare dell'interno dell'oratorio di Sant'Anna. Sotto: la pala attribuita dagli storici dell'arte ad Antonio Balestra, raffigurante Una Madonna col bambino e i santi Anna, Giuseppe e Antonio da Padova; si presenta allo stato attuale molto deteriorata.
TAVOLA XVII
Descrizione Esempi di oratori privati settecenteschi dislocati in varie zone del territorio veronese; in ordine dall'alto a sinistra: l'oratorio nogarese dei Rizzoni dedicato a San Giuseppe e alla Beata Vergine Maria; la cappella a Roverchiaretta fatto erigere dai Bonente nel 1741; l'oratorio dedicato a Sant'Eurosia in Corte Vaccaldo a Vigasio, facente parte dell'antico corpo padronale appartenente ai Guastaverza.
TAVOLA XVIII
Descrizione Due dipinti murali di Gaetano Miolato, presenti nel salone del piano terra; sopra: rappresentazione di un paesaggio bucolico; sotto: raffigurazione di un paesaggio marino al tramonto.
TAVOLA XIX
Descrizione Il camino in una delle camere del pian terreno decorato con stucchi; sulla sommitĂ campeggia il ritratto di Silvia Curtoni Verza.
TAVOLA XX
Descrizione In ordine dall'alto a sinistra: veduta del salone al piano terra, con panconi risalenti agli anni 20 del Novecento; pancone collocato sulla parete ovest; uno dei due panconi conservati attualmente alla galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti, uscito dalla bottega di Marco Marcola; dettaglio di uno dei panconi presenti nel salone di villa Guastaverza, raffigurante lo stemma del Comune di Cerea con la pianta di cerro al centro.
TAVOLA XXI
Descrizione Parete nord del piano nobile. Fiancheggiano il portale con arco a tutto sesto, una coppia di colonne binate, in finto marmorino rosso e due grandi riquadri raffiguranti le statue monocrome di Nettuno e Cibele.
TAVOLA XXII
Descrizione Riquadri con affreschi attribuiti a Giorgio Anselmi. Il primo, sulla parete del versante sud, raffigura, avvolto in un manto rosso, Giove nella fucina di Vulcano. Il secondo, sulla parete opposta, rappresenta la Caduta di Fetonte nel fiume Eridano, con le sorelle piangenti. Le opere sono in cattivo stato di conservazione con alcune parti molto scurite e coperte da una patina rossiccia, che ha tolto intensitĂ cromatica all'affresco originale.
TAVOLA XXIII
Descrizione Soffitto affrescato nel salone del piano nobile, Fetonte chiede ad Apollo di poter guidare il carro del sole. L'opera è stata attribuita dagli storici dell'arte a Giorgio Anselmi, le quadrature a Giuseppe Montanari. Ha subito un intervento di ridipintura negli anni Novanta del Novecento.
TAVOLA XXIV
Descrizione In ordine dall'alto a sinistra: affresco con il Trionfo di Atena a palazzo Erbisti realizzato da Giorgio Anselmi; dettaglio dello stesso soffitto con personaggio che presenta analogie per quanto concerne il trattatamento muscolare con Cronos, dipinto a destra sul soffitto del salone del piano nobile di palazzo Guastaverza; un putto affrescato dall'Anselmi a palazzo Erbisti trova notevoli somiglianze stilistiche con il putto raffigurato sulla volta dell'alcova sinistra al piano terra di villa Guastaverza.
TAVOLA XXV
Descrizione In ordine dall'alto in basso: dettagli dell'apparato decorativo del soffitto del salone al piano nobile di villa Guastaverza; nello stesso ambiente, particolare con la testina in monocromo sopra i riquadri affrescati delle pareti; porzione della quadratura di uno dei saloni di villa Dionisi, realizzata da Giuseppe Montanari.
TAVOLA XXVI
Descrizione Decorazioni in stucco delle sovrapporte dei camerini e delle arcate delle alcove. In ordine dall'alto a sinistra: sovrapporta di uno dei camerini al piano terra, decorazione con frutti e foglie dell'arcata dell'alcova sinistra al pian terreno; le due fotografie sotto mostrano la decorazione delle arcate delle due alcove al piano superiore. Queste ultime presentano, rispetto a quelle del piano terra, una scrittura plastica pi첫 ricca e vivace.
TAVOLA XXVII
Descrizione Affreschi raffigurati sulle volte delle quattro alcove. I due putti in alto, all'interno di cornici polilobate, decorano le alcove del piano terra. Sotto, l'allegoria del sonno e della notte, rappresentate sulle volte delle alcove del piano superiore, rispettivamente a sinistra e a destra.
ABBREVIAZIONI E FONTI ARCHIVISTICHE ARCHIVIO DI STATO, VENEZIA (=ASVe) CATASTO NAPOLEONICO, Mappa n. 485, Sommarione n. 485. ARCHIVIO DI STATO, VERONA (=ASVr) Disegni Fondo VIII vari, Decima grande di Cerea, dis. n° 3 Fondo Campagna, dis. n° 306 Fondo Dionisi Pio Marta, dis. n° 8, n° 23 Fondo Prefettura, dis. n° 284 ANTICHI ESTIMI PROVVISORI (= AEP), reg. 30, 85, 120. CATASTO AUSTRIACO, Mappa n. 280 - reg. 229-230. Campion delle strade, reg. 313. Ufficio Registri, atti notarili Notaio Bonenti Luigi Carlo b. 2545. Notaio Moretti Girolamo fu Giacinto, b. 7554. UFFICIO CATASTALE DI VERONA VISURA CATASTALE (mappa originale degli anni Quaranta del Novecento), c/XIII CATASTO ATTUALE, f. 10 ABBREVIAZIONI USATE E MISURE UTILIZZATE IN EPOCA VENETA c. = campi v. = vanezze t. = tavole campo= 3002 mq = 24 vanezze vanezza= 125 mq = 30 tavole P. C. = pertiche censuarie. 1 pertica censuaria= c. 0, 33309
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