UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in Linguistica italiana e civiltà letterarie
FOTOGRAFARE E NARRARE IN GIANNI CELATI E LUIGI GHIRRI
Tesi di laurea in Poetica e retorica
Relatore
Presentata da
Prof. Ermanno Cavazzoni
Francesca Castegnaro
Correlatore Prof. Ferdinando Amigoni
Sessione terza Anno accademico 2008 - 2009 1
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Ad Andrea, a mamma, e papà, nonna, Doni e Lui, Ale e Samu, a Ceci, Cesco e Fra, alle coinquiline, a LaBìle Teatri e al Giardino del Mago, agli amici lontani ma sempre vicini, a Verona, a Bologna, alle lezioni di Ermanno Cavazzoni, alla storia infinita e the big bang theory, alla camera oscura di Fontanellato, ai tanti film nelle sere d’inverno, al mare d’autunno e d’inverno, alla neve di marzo, alle fotografie, ai racconti, a
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INDICE
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Introduzione
p. 1
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Premessa
p. 3
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Finzioni
p. 3
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Fantasia come fantasticazione
p. 8
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Letteratura come fantasticazione
p. 11
Dal “primo” al “secondo” Celati, una discontinuità continua
p. 19
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Sette anni d’attivo silenzio e l’incontro con Luigi Ghirri
p. 19
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Le radici della svolta
p. 24
Gianni Celati e Luigi Ghirri: l’incontro tra fotografia e scrittura p. 33 o
La fotografia per Luigi Ghirri
p. 37
o
Stratificazioni di realtà tra fotografia e letteratura
p. 42
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Teatralmente
p. 57
Convergenze
p. 73
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In equilibrio tra dentro e fuori
p. 74
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Inquadrature di racconti
p. 80
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Una sospensione nel tempo che passa
p. 90
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Sassuolo, la capitale delle piastrelle
p. 103
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Conclusione
p. 119
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Bibliografia
p. 121
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Filmografia
p. 124
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Appendice
p. 125
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INTRODUZIONE Sono nata nel 1984. La prima casa in cui ho vissuto era la mansarda di un palazzo a due piani, con delle stanze che mi sembravano enormi. Le finestre della sala si affacciavano su una strada perpendicolare alla strada provinciale che attraversava il paese, giusto di fronte alla chiesa. Dalla cucina invece si apriva una porta finestra tramite cui si accedeva a un piccolo balcone, credo fosse circa due metri per uno se tento di rapportare il ricordo della percezione di allora a quelle che potrebbero essere le dimensioni reali. Quel balcone era tutto il mio mondo di gioco perché dirimpetto, esattamente al di là dello stretto vicolo che ci divideva, c’erano i balconi degli altri palazzi, uno alla mia altezza e uno spostato lateralmente un poco più in basso, dove abitavano due bambine, una di un anno più grande e l’altra di un anno più piccola. Appena possibile ci chiamavamo fuori e giocavamo insieme così, ciascuna dal proprio balcone. Di fatto ognuna giocava da sola ma il dialogo ci univa. Non desideravo qualcosa di diverso, come un giardino, mi bastava quel mio piccolo mondo. Solo adesso che mi sono trasferita in un condominio fatto “a ferro di cavallo” con giardino e cancello protettivo dove i bambini possono giocare liberi, senza troppe preoccupazioni da parte dei genitori, rimpiango di non aver passato qui la mia infanzia. Nello stesso anno della mia nascita, alcuni tra i più importanti fotografi italiani e alcuni fotografi stranieri compivano un viaggio attraverso l’Italia, cercando di rileggere il paesaggio, ossia di guardare le cose con i loro occhi, liberandosi dalle immagini stereotipate che avevano fatto dell’Italia un paese da cartolina. Ne nacque un libro, Viaggio in Italia, che l’ideatore, Luigi Ghirri, volle fosse accompagnato dal testo di uno scrittore, Gianni Celati. L’anno dopo, nel 1985, veniva pubblicato Narratori delle pianure, il libro che secondo la critica ruppe il silenzio settennale dello scrittore e inaugurò il suo nuovo stile, quello che sarebbe scaturito dopo l’incontro decisivo con il fotografo Luigi Ghirri. Ma è stato davvero l’incontro con la fotografia quello che ha dato vita ai romanzi del cosiddetto secondo Celati o è stata solamente l’espressione di un percorso già latente nella produzione del primo periodo? Questa è una delle domande a cui cercherò di rispondere con questa tesi, aprendo forse solo altri interrogativi dato che “ogni interpretazione è sospesa per aria, e niente potrà mai ricondurla a terra.”1 Cercherò di analizzare il rapporto che Celati ha con la fotografia nelle diverse accezioni che questa assume nei suoi racconti e mi focalizzerò 1
Gianni Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in Marco Sironi, Geografie del narrare, Diabasis, Reggio Emilia, 2004, p. 189.
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soprattutto su degli argomenti che hanno interessato, in modo affine o diverso, sia lo scrittore che il fotografo, o meglio su dei punti di convergenza tra il fare dello scrittore e del fotografo. Più che di argomenti tuttavia mi piacerebbe parlare di aperture di senso: temi che vengono affrontati non per essere esauriti nella loro essenza, per ottenere una chiara e completa leggibilità ma che vengono toccati, nel significato corporeo di questo verbo, perché sia puntata su di loro l’attenzione. Come quando in teatro un attore rimane solo sulla scena a recitare il suo monologo, sotto l’unico faro che punta su di lui e cattura tutta l’attenzione per il tempo necessario. Il pubblico non capirebbe il suo monologo fino in fondo se questo non fosse inserito all’interno di un’opera calata in un determinato spazio e tempo dove interagiscono diversi personaggi, in un contesto pieno e complesso capace di illustrare una tranche de vie. E’ questo che secondo me accade in forma compressa nei racconti di Celati: c’è una storia che si svolge, una storia con una sua ben precisa intonazione (fondamentale anche il rapporto con la musica, decodificata e non), in cui compaiono dei dettagli, delle parole pronunciate che spiccano sulle altre ma senza che si capisca subito perché. Se fosse lecito applicare a un’arte una definizione nata appositamente per un’altra arte, direi che in questi racconti si coglie appieno il significato di ciò che Roland Barthes intendeva per il punctum di una fotografia, quel qualcosa che mi colpisce ma rimane inspiegabile (“Ciò che io posso definire non può realmente pungermi. La impossibilità di definire è un buon sintomo di turbamento.” 2) Non so se sia possibile o meno rintracciare qualcosa di simile anche nelle foto di Ghirri, molto più probabilmente in queste ciò che più immediatamente colpisce non è un dettaglio ma la modalità dello sguardo, la stessa che con diverse accezioni si è voluta vedere nei libri di Celati da Narratori delle pianure in poi. Ed è proprio questo che colpisce, anzi, senza voler per forza generalizzare, che ha colpito me, nata nel 1984: leggendo i racconti di Celati quello che ho adottato è uno sguardo nuovo sul paesaggio che mi circonda. Gli enormi palazzoni squadrati, le strade asfaltate, i parcheggi, i supermercati, tutto ciò che riguarda il nuovo paesaggio non è più scontato, diventa il segno tangibile di un mondo urbano che ha inesorabilmente invaso quelle che prima erano le campagne, ma che si intrufola anche negli antichi centri storici delle città, con cartelli stradali e insegne al neon. E in gioco non è solo la categoria del bello estetico ma un modo di vivere, una conformazione mentale modificata e adattata alle nuove condizioni. Che sia migliore o peggiore si può solo intuire, ma il punto fondamentale è che non ci è dato giudicare.
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Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980, 2003, p. 52.
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PREMESSA
“«Sentii parlare di realismo. Che cos’è questo?» «Dovrebbe essere» rispose il conte un po’ impacciato «un’arte di illuminare il reale. Purtroppo, non si tiene conto che il reale è a più strati, e l’intero Creato, quando si è giunti ad analizzarne fin l’ultimo strato, non risulta affatto reale, ma pura e profonda immaginazione». Anna Maria Ortese, L’iguana
FINZIONI “Comiche”, uscito nel 1971, è il libro che inaugura la carriera di Gianni Celati, anche se in un dialogo con Massimo Rizzante tenutosi nel maggio 2005 all’università di Trento egli stesso nega vi sia mai stata per lui una vera e propria carriera letteraria: “Perché io non mi sono mai sentito uno “scrittore”, e non credo di aver mai fatto carriera” 3. Quest’affermazione nasce all’interno del dialogo in opposizione all’esperienza di Calvino, conosciuto da Celati come vera e propria incarnazione dello Scrittore in ogni momento della sua vita pubblica e privata, perfettamente e onestamente integrato in un’esistenza assorbita unicamente dalla letteratura. Per Celati invece non è così: per lui il mondo non è riconducibile a nessuna univoca schematizzazione di ruolo ma mantiene la sua propria identità altra, molteplice, sconosciuta e da esplorare attraverso i mezzi che la stessa realtà mette a disposizione, la letteratura essendo uno tra tanti. Ciò che lui vive, osserva, ascolta si fa materia di scrittura e la scrittura una lente attraverso cui guardare ciò che si vive, una sorta di bussola per cercare di orientarsi nel labirinto della modernità. Il rapporto che lega i due scrittori così vicini e così profondamente diversi è molto forte: è a Calvino che si deve la scoperta del giovane Celati e la forte spinta per il completamento e la pubblicazione di Comiche, che Calvino visionò ancora nella sua fase iniziale e che grazie al suo sostegno venne pubblicato dopo undici revisioni e sette anni di elaborazione. Più volte Celati ricorda le visite all’amico nell’abitazione parigina, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70: “Ogni volta che sbarcavo a dormire nella sua casa di Square de Chatillon, ero carico di idee come un piazzista che va a vendere la sua merce, e gliele esponevo come novità del giorno. Solo in seguito ho capito che, se avevo quel formicolio intellettuale nel cervello, era perché ogni volta lui mi stava ad ascoltare con
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Gianni Celati, Dialogo sulla fantasia con Massimo Rizzante, a cura di M. Rizzante, «Griselda on line», n. VII, 2007-2008, <http://www.griseldaonline.it/percorsi/7celati_print.htm>.
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molta attenzione, assentendo col capo dondolante, e l’aria del gran Kahn che ascolta Marco Polo narrare di città immaginarie.”4
E’ in quegli anni che i due, insieme a Carlo Ginzburg e Guido Neri, progettano una rivista che non vide mai la luce ma che rimase come terreno fecondo per l’elaborazione di idee. Ed è in seguito a quel periodo di fervido scambio intellettuale che nacque Finzioni occidentali, raccolta di saggi che Celati pubblicò nel 1975 e rivide nel 1986 e nel 2001, frutto oltre che delle conversazioni con Calvino e dei preziosi insegnamenti del filosofo Enzo Melandri, paternità da lui stesso dichiarata nella premessa alla terza edizione, anche di due lunghi anni a Londra, di intense giornate di studio trascorse nella biblioteca del British Museum. Quello che elabora è un testo che, proprio mentre critica la critica, si rivela un prezioso strumento atto a fornire un’interessantissima panoramica sulla nascita e l’evoluzione del concetto di romanzo insieme ai costumi dell’Europa dal ‘700 fin quasi a oggi, espone nuovi punti di vista sul concetto di comico e parodia a partire dalle teorie di Bachtin, tenendo come costante punto di riferimento il Don Chisciotte, ma viene soprattutto ad essere un’utile mappa per meglio analizzare il vasto campo della produzione di Celati stesso. Nel primo capitolo, intitolato proprio Finzioni occidentali, Celati identifica con l’apparire del novel, la nuova forma di intrattenimento letterario che soppianta i vecchi romances e che trova il suo capostipite nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe, la nascita della moderna concezione occidentale di finzione. La comparsa del novel sarebbe intimamente connessa con la caduta del cerimoniale su cui precedentemente si basava la vita sociale in Europa, una vita pubblica strutturata su precise regole comportamentali che plasmavano le azioni dei singoli individui fino a relegarne l’interiorità a un elemento di seconda o nulla importanza. E’ Juri Lotman che “definisce il mutamento della prospettiva simbolica tra Seicento e Settecento come una caduta dell’alto grado di ritualismo segnico della cultura precedente.”5 L’imponente apparato di norme che prima regolava la vita pubblica viene ora considerato solo come esibizione di vuota esteriorità: con la rivoluzione industriale nuove classi sociali raggiungono le vette più alte dell’ambizione pubblica e i vecchi codici vengono a cadere. Ciò che prima era eleganza e nobiltà ora è finzione, nell’accezione più negativa del termine. L’attenzione diviene tutta rivolta alla scoperta di ciò che sta oltre le apparenze del cerimoniale, di ciò che sta oltre la finzione, ossia
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G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comcità e scrittura, Einaudi, Torino, (1975¹), 2001, p. X. Ivi, p. 23.
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all’interiorità degli individui non più come collettività, come classe sociale, ma come singoli. “In questo contesto il novel punta su una reazione assicurata, una reazione legata ad uno stimolo appena scoperto si direbbe: il desiderio di penetrazione al di là dei cerimoniali sociali, nella zona privata e profonda, per trovarvi un nucleo di fatti a tutti intellegibili perché sintomi collettivi.” 6
Sintomi collettivi di una storia privata che fino ad allora giaceva nascosta negli angoli delle mura domestiche, nell’inaccessibile sfera dell’interiorità, di quella che oggi si direbbe probabilmente “privacy”. “E ha ragione R. M. Albérès (l’unico a notare questo aspetto) quando dice che la caratteristica principale del romanzo moderno è l’indiscrezione, o la vertigine dell’indiscrezione, e perciò il genere si arricchisce di «verità», rinuncia ad essere fiction per farsi osservazione, confessione e documento.” 7 Indiscrezione che si pone quindi l’obiettivo di indagare la verità, la realtà della vita oltre l’esteriorità delle apparenze. Ed è proprio in difesa della nuova non-fiction che nasce la moderna critica letteraria, a sostegno della cosiddetta “teoria della normalità, come condizione dell’uomo adulto educato”8, di contro perciò alle fantasie e alle pericolose immaginazioni dei vecchi romances, relegati all’intrattenimento delle fasce sociali ai margini: i bambini delle classi alte, le donne, gli adulti delle classi popolari, i matti. “Si può anche dire che nel suo sviluppo il novel abbia dato voce alla credenza dell’uomo occidentale di aver superato tutte le concezioni erronee della realtà, e di essere giunto a vedere cos’è la realtà in sé, senza veli, grazie alle armi del discorso critico.”9 Quella che ne deriva è un’opposizione pressoché netta tra il romance, ossia la fiction, invischiata con le immature fantasticherie di una coscienza infantile e il novel, ossia la non-fiction, lo svelamento della realtà per ciò che veramente è, l’incontro con le cose oltre i fantasiosi giri delle parole. Ma abbiamo anche detto che il campo d’indagine del novel è l’interiorità del singolo, quindi l’opposizione sarà tra la descrizione di un «dentro» contro quella di un «fuori»; tuttavia è proprio l’uscita nel fuori che permette all’interiorità di manifestarsi come non avrebbe potuto fare se fosse rimasta al sicuro nelle coperte avvolgenti della società: indicativa è la storia di Robinson Crusoe che inizia proprio con un viaggio, in obbedienza a uno spirito d’avventura che lo porterà lontano dalla famiglia, dalla convivenza civile come da lui intesa, e con un naufragio, la perdita di ogni appiglio che lo lascerà nudo e solo su un’isola sconosciuta. 6
Ivi, p. Ivi, p. 28. 8 Ivi, p. 20. 9 Ivi, p. 5. 7
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“Se è il precetto paterno che definisce la soglia da non oltrepassare, il limite dello spazio estraneo in cui Robinson vuole spingersi per «vedere il mondo», questo semplicemente vuol dire che il «dentro» è la famiglia e il «fuori» è la realtà pericolosa fuori dalla famiglia, dove l’uomo si ritrova nudo, esposto alla violenza, in balia delle intensità libere del suo corpo singolo.”10
Il novel nasce da un’infrazione, dall’attraversamento della soglia rituale che stabilisce i confini del mondo conosciuto: andando al di là si scopre il regno dell’avventura, dell’ignoto, si scopre il corpo disarmato con le sue pulsioni inespresse. Per questo il romanzo moderno rompe i legami con le narrazioni precedenti: la letteratura non dà più voce a un sostrato mitico di una collettività in cui ogni individuo può riconoscersi ma esalta le imprese di una singolarità individuale nell’incontro con l’io: “si spalancano i segreti della presenza mondana dell’uomo, la “vera vita” come si dice nei romanzi, ma anche la massima turbolenza delle intensità libere del corpo, la più grande fascinazione del «fuori» come avventura in dimensioni inscrutabili, ma anche l’estremo pericolo per la salute mentale dell’individuo.” 11
E’ da questo pericolo che nasce l’esigenza di un pensiero critico che mantenga le distanze da ciò che si narra, che ponga un filtro, un pensiero normalizzante che confini l’avventura entro i limiti di ciò che è reale e razionale ma relegato nelle pagine di un libro. Le tipiche prefazioni ai primi romanzi, scritte in un voluto linguaggio medio che evidenzia il divario con la lingua specifica del personaggio narrante, avvertono coscienziosamente il lettore di una Moll Flanders, giusto per fare un esempio, che le azioni dell’eroe, in questo caso l’eroina, sono da considerarsi come exemplum negativo, dito puntato su un vizio che dovrebbe per contrasto spingere alla virtù. Da qui nasce l’impossibile universalità del romanzo e la voluta presa di distanza dal lettore nelle prefazioni, dato che le avventure di cui ci racconta devono considerarsi impensabili per chi “resta dentro le soglie rituali della famiglia e dell’educazione. Quindi con l’introduzione di una distanza critica: critica nel doppio senso di distanza del discernimento, segno di una condizione mentale adulta o di consapevolezza adulta, e poi distanza di crisi, dove cioè riemergono al ricordo tutti i timori e le tentazioni da cui la consapevolezza è sempre ossessionata.”12
Si direbbe che il romanzo sia il luogo di espressione di quei fantasmi moderni che solo l’oggettivazione della critica si impegna a tenere alla voluta distanza.
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Ivi, p. 30. Ivi, p. 32. 12 Ivi, p. 39. 11
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“Il romanzesco si crea su questo ricordo di una incoscienza e d’una marginalità, trasformato in documento. […] E questo è il ruolo della marginalità della nuova cultura occidentale: quello di confermare l’ordine attraverso il vuoto d’ordine, la ragione attraverso la pazzia, la legge attraverso l’irregolarità…” 13
E’ un documento quello che viene prodotto in quanto utilizza una lingua precisa, un linguaggio specifico che cerca di narrare nel modo più fedele e oggettivo possibile imprese compiute nella realtà di ciò che è direttamente osservabile, abolendo ogni irrealistico slancio della fantasia, ogni supposta finzione. E’ “il passaggio dalla favola alla fabulazione”, la fine delle narrazioni orali come trasmissione di tradizione in forma di esperienza e la nascita del romanzo moderno come informazioni su un singolo individuo slegato dalla tradizione, come diceva Walter Benjamin. “Sdoppiamento tipicamente moderno questo tra l’esperienza come memoria persa nel fondo dell’origine, e l’informazione come registrazione burocratica d’una memoria altrimenti destinata a perdersi.”14 Il passaggio fondamentale che qui avviene è il passaggio dall’oralità del racconto alla scrittura, una scrittura che ricalca i modi della burocrazia in quanto si fa accumulo di notizie che valgono solo in quanto tali, senza rimandi ad ulteriori vissuti o esperienze fuori dal comune, senza appunto finzioni. “Il ruolo della scrittura è quello di registrare le “cose stesse”, lasciando fuori i sovrasensi retorici e metaforici, che hanno lo stesso valore dei cerimoniali.” 15 Quello che si perde è l’apertura della parola, la possibilità di immaginare oltre quello che il racconto dice, di inventare nuove sfaccettature che diano un senso soggettivo al reale e ci permettano di pensare nuovi modi di esistenza. Quello che si perde è il pensare per immagini e il risultato che ne abbiamo oggi sono scrittori “ospedalizzati” nella realtà, come Celati li definisce nella sua prefazione a La miseria in bocca di Flann O’ Brien e di cui si parla nel già citato dialogo con Rizzante: “Sembrerebbe che i narratori moderni non capiscano più cosa significhi raccontare l’altro mondo, quasi che fossero permanentemente ospedalizzati in questo mondo e nella cosiddetta ‘realtà’, di cui il loro linguaggio deve essere al servizio.”16 Oggi è ormai assodata una netta distinzione tra ciò che è razionalmente dominabile e scientificamente comprensibile e dimostrabile e ciò che non lo è e viene relegato alle fantasie dell’infanzia, della follia, all’oscurità dell’inconscio che sta in agguato in ognuno di noi. Le opere di cosiddetta “fantasia” oggi appartengono alla sfera dell’oscuro, dell’incomprensibile, del mostruoso. “Il pragmatico mondo anglosassone vede la fantasia come una zona torbida della psiche umana, da 13
Ivi, p. 44. Ivi, p. 40. 15 Ivi, p. 41. 16 G. Celati, Dialogo sulla fantasia con Massimo Rizzante. 14
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dominare con la razionalità.”17 Ed è proprio all’inizio di questa nuovo modo d’intendere le finzioni e con esse la realtà che si situa l’opera che mentre per prima dichiara la morte dell’antico cerimoniale di comportamento è allo stesso tempo uno degli ultimi illuminanti esempi letterari della forza e del valore positivo dell’immaginazione: il Don Chisciotte, che viene dichiarato da Celati come suo “eroe guida e guida nei pensieri” al tempo della stesura di Finzioni occidentali. Eroe di una fede incrollabile nei rituali che non esistono più, eroe di un viaggio portato avanti con la fede nelle immagini di una fantasia che scavalca qualsiasi pretesa di banale realtà e che ai suoi occhi si rivela infondata: “qui si affaccia per la prima volta la questione della “realtà”, posta in contrasto con l’immaginazione e le tendenze fantasticanti […] dove Don Chisciotte ha sempre torto in quanto invasato da fantasie passate di moda, poi succede che sono proprio le sue tendenze fantasticanti ad arricchire di senso il mondo.” 18 Credo sia importante a questo punto definire meglio cos’è la fantasia per Gianni Celati.
FANTASIA COME FANTASTICAZIONE Nell’elaborazione della sua personale concezione di fantasia credo siano stati fondamentali per Celati gli anni di studio di testi capitali dell’antropologia e della filosofia. Da quello che emerge nelle sue interviste lo scrittore, e mi si passi l’uso di questo appellativo per lui così equivoco e fuorviante, lega il procedimento immaginativo fantastico alla nostra percezione della realtà. In una delle sue conversazioni con Rebecca West Celati parla di un saggio di LéviStrauss, L’efficacité symbolique, incluso in Anthropologie structurale del 1958, in cui si racconta di un testo in forma rituale in uso presso gli sciamani dei Cuna, una popolazione di Panama, per facilitare alle donne il momento del parto. In questo testo si narra della “lotta degli spiriti dello sciamano contro uno spirito responsabile del blocco dell’utero.” 19 Ossia si personifica il dolore della donna in un mostro che lo sciamano combatte: “Lèvi-Strauss diceva che lo sciamano forniva alla partoriente un linguaggio per seguire le fasi della sua esperienza. Il fatto fisiologico diventava fatto intellegibile attraverso proiezioni fantastiche, dunque affettive – cioè un campo di emozioni che aiutavano la partoriente a superare un blocco organico.” 20 17
Ibidem. Ibidem. 19 G. Celati, Memoria su certe letture. Conversazione con Rebecca West, a cura di R. West, in «Riga», a cura di Marco Belpoliti e Marco Sironi, Marcos y Marcos, Milano, n. 28, 2008, p. 39. 20 Ibidem. 18
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Celati utilizza questo esempio per porre l’accento sul valore affettivo delle parole e, grazie al successivo passaggio di Lévi-Strauss che fu quello di paragonare questo tipo di effetto di sblocco emozionale con effetti sul corpo da parte delle parole a quello operato dalla poesia, per definire così quello che può diventare “il senso proprio del lavoro letterario: un uso delle parole per produrre effetti curativi che sbloccano qualcosa, nel corpo e nella mente.”21 Sempre a proposito degli effetti curativi delle parole un altro grande testo dell’antropologia che viene messo in gioco è Il mondo magico di Ernesto De Martino. L’esempio che trae da questo libro è quello di culture animiste, come quella dei Dogon del Mali, in cui le parole vengono usate per compiere viaggi dell’anima fuori di sé, fatto ritenuto assolutamente impossibile dalla cultura occidentale, almeno dall’età moderna in poi ed esclusa la pazzia. “Per l’uomo occidentale dei nostri tempi l’anima è qualcosa che sta in permanenza chiusa dentro il corpo, oppure dentro la sua testa (Cartesio), e mi sembra una pura metafora della moderna privatizzazione dell’esperienza.”22: quello che si può definire un assioma della cultura occidentale moderna e contemporanea, la presenza, o meglio la chiusura dell’anima nel corpo, non è altro che uno dei possibili modi di intendere il rapporto tra corpo e anima, uno tra molti. E per Celati questo è qualcosa di più: è il sintomo di una delle tipiche condizioni attuali, quella dell’esperienza ormai relegata in un’esclusiva dimensione privata dell’uomo sciolto dall’appartenenza alla comunità. Ciò si può palesemente ricollegare alla perdita delle forme di trasmissione orale del racconto, della sua dimensione di comunicazione collettiva dell’esperienza sotto forma di tradizione del gruppo. Aggiungendo dei riferimenti filosofici alla questione: “tutto quello che raccontiamo appartiene a un campo di argomenti che sono già stati messi in discorso, ossia hanno già una consistenza come temi riconoscibili, e in questo senso danno luogo a rituali di racconto o racconti rituali. E’ la grande intuizione di Michel Foucault, che va estesa all’arte narrativa in generale.” 23
Tutto quello che diciamo sarebbe già inscritto all’interno di un comune codice di riferimento condiviso dai parlanti, sia a livello della lingua che sul campo immaginativo affettivo. “Per questo il narrare non è mai una faccenda individuale: è sempre una evocazione di modi collettivi di immaginare.”24 E’ attraverso l’immaginazione che l’essere
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Ibidem. Ivi, p. 42. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 22
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umano si rapporta al mondo, attraverso le sue idee sulla vita, la sua memoria del passato e le sue fantasie sul futuro egli sceglie come vivere. “Il fatto è che noi ci serviamo della fantasia tutti i momenti per interpretare le cose, cercando di capire quello che è fuori dalla nostra portata; e tutto il nostro sistema emotivo dipende da come immaginiamo ciò che non è sotto i nostri occhi. Quando abbiamo paura, quando siamo a disagio, quando siamo gelosi, quando facciamo progetti, entra in gioco l’atto di fantasticare.”25
Il concetto di fantasia a cui fa qui riferimento Celati deriva direttamente da Aristotele, come lui stesso spiega nel corso del suo dialogo con Rizzante. Nel De anima il grande filosofo ateniese identifica le immagini che si formano nella nostra mente come appartenenti a due categorie: “phantasma e phantasia, entrambi dal verbo phaino, “mostrare”. […] Queste immagini nella mente, dice Aristotele, sono una combinazione di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi e ciò che opiniamo con l’intelletto.” 26 Alla sfera dell’immaginazione apparterrebbe anche la memoria, in quanto i ricordi non sono altro che immagini da noi create di cose passate. Allo stesso modo per i greci il processo di formazione delle idee e così del pensiero sarebbe “un modo di percezione”: il nostro intelletto accoglie le idee (in greco “idea” significa appunto “apparenza”) come immagini da lui “patite”: “Non è nella forma bruta dello scambio di informazioni che capiamo qualcosa del mondo esterno, ma nel processo con cui ci proiettiamo verso ciò che si configura come un’esperienza e una passione.”27 L’elaborazione del pensiero si rivela imprescindibile da una precedente acquisizione d’informazioni attraverso i sensi. Per questo la scelta cruciale operata dalla cultura occidentale dal ‘700 in poi di confinare tutto ciò che è finzione, tutto ciò che appartiene più prettamente alla sfera della fantasia, ai margini del colto sapere ufficiale, nel regno di ciò che è infantile, demente, oscuro e torbido, causando una grave lacerazione nel nostro immaginario collettivo ha limitato fortemente le possibilità percettive e cognitive. Mantenendo una netta separazione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra l’oggettivo e dimostrato mondo del sapere di tipo scientifico e l’indistinto ed emotivo mondo soggettivo delle percezioni, si crea una conoscenza sterile che tende solo all’accumulo di informazioni nozionistiche e la letteratura diventa letteratura industriale di consumo. “Il libro industriale è il libro “per tutti”: il che presuppone la cancellazione di qualsiasi differenza emotiva o empatica tra gli
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G. Celati, Dialogo sulla fantasia con Massimo Rizzante. Ibidem. 27 Ibidem. 26
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uomini.”28 Il rischio è quello dell’indifferenziato appiattimento, della creazione di un immaginario standardizzato e perciò privo di vera possibilità fantasticante a cui Celati reagisce con l’elaborazione del concetto di “letteratura come fantasticazione”. “Bisogna ripartire di qui, mettendo in dubbio che esista questa separazione netta tra il mondo immaginario o fantasticato e quello che viene ufficialmente dato come mondo reale quotidiano.”29 Con il termine “fantasticazione” Celati unisce la “fantasia” con l’ “azione”, ad indicare che l’atto del fantasticare non è solo un banale passatempo confinato a vuoti momenti di sonno e veglia, ma costituisce l’essenza stessa di quelle che sono le nostre azioni. Come dice Massimo Rizzante: “possiamo ridare valore alla nozione di fantasia se ridiamo alla fantasia la sua funzione perduta di regolatrice della conoscenza umana, di scrigno di forme ricevute attraverso i cinque sensi, di mediatrice fra corporeo e incorporeo.”30
LETTERATURA COME FANTASTICAZIONE Nonostante il concetto di “letteratura come fantasticazione” sia stato elaborato da Celati in tempi recenti, credo che la sua applicazione abbia origini lontane. Nei suoi primi romanzi, penso soprattutto a Comiche e a Le avventure di Guizzardi, Celati si distingue all’interno del coevo panorama letterario italiano per la creazione di un nuovo modo di raccontare, grazie a un io narrante che utilizza un linguaggio inedito e spiazzante per il lettore: una lingua in cui le regole grammaticali vengono meno per dar vita a una vorticante follia visionaria, una lingua popolata di voci di cui è impossibile identificare l’esatta provenienza, un delirio che sta al di là di qualsiasi coerente interpretazione psicologica. “C’era un ignoto nella notte dal giardino il quale senza tregua mi rivolgeva verbigerazione molesta e irritante: Schioppate il professore. E: Schioppàtelo schioppàtelo. Otero Otero Aloysio Aloysio. Come a colpire con voce da spavento mettermi in grave stato di agitazione e non si capisce il motivo.”31
E’ questa la presentazione che fa di sé il protagonista di Comiche nell’incipit della versione riscritta nel 1972-73 e rimasta inedita fino alla pubblicazione in «Riga», un inizio che 28
G. Celati, Memoria su certe letture. Conversazione con Rebecca West, p. 43. G. Celati, Dialogo sulla fantasia con Massimo Rizzante. 30 Ibidem. 31 G. Celati, Comiche, in «Riga», p. 67. 29
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subito colpisce per la sovversione delle più comuni norme della lingua, la cancellazione dei segni di punteggiatura intermedi quali virgole e punti e virgole, l’eliminazione di buona parte degli articoli, la scompagine degli elementi della frase. Ciò che crea è appunto una “verbigerazione”, un flusso che colpisce il lettore, una voce dotata di una sua specifica tonalità e che riacquista piena valorizzazione con la lettura ad alta voce. “Celati la definisce «una lingua di pure carenze»”32, dove ciò sta a significare la volontà di allontanamento dall’esatta e
precisa grammatica dell’italiano standard per tentare di
avvicinarsi alla lingua parlata nelle campagne, quella dei bambini a cui Celati stesso per un periodo della sua vita insegnò, alle parole colte nel momento in cui il colorito dialetto familiare incontra l’estraneo e normativo linguaggio ufficiale, quello che rifugge da errori e passioni. In questi testi egli tenta il più possibile di ricreare un parlato, quello “che non si parla con nessuno tranne quando si va in vacca o si impazzisce. Allora e solo allora lingua parlata vuol dire lingua che si sente nell’orecchio come la voce d’un fantasma dell’aldilà, come una voce di qualcosa (un «mondo») che non c’è; solo i morti parlano una lingua parlata”.33 Apparente contraddizione che si applica perfettamente alla concezione celatiana di un mondo che rimane sempre sconosciuto e indecifrabile, di una convivenza tra noi e l’al-di-là, tra ciò che vediamo e ciò che solo sentiamo, come lui stesso dice: “la sensazione, che ho sempre di più, che il regno delle ombre viva con noi e in noi; che gli spettri esistano sul serio; che i morti non siano mai silenziosi.” 34 Sensazione che non abbandonerà mai lo scrittore, neanche nei testi di molto successivi. (Vedi ad esempio in Narratori delle pianure il racconto Come un fotografo è sbarcato nel Nuovo Mondo, in cui un fotografo, mandato a catturare scene di vita comune in un paesino sulle rive del Po, incappa nella storia di donne che al cimitero parlano con i morti.) Inoltre che cos’è un libro se non la vita che incontra la morte, nel senso di una viva voce fissata nella scrittura, fissazione che diventa sinonimo di morte in quanto fine del flusso che costantemente modula la vita? “Un libro è un libro quando è di carta, e perciò è qualcosa di stabile; diciamo che un libro è un piccolo monumento, anzi direi che è una pietra tombale, qualcosa che si erge contro il tempo e dice: qui giace sepolto l’encefalogramma del tal dei tali (sempre che sia un libro nato dall’anima e non da un corso di scrittura creativa).”35
32
Italo Calvino, Nota a «Comiche», in «Riga», p.168. Ibidem. 34 Ivi, pp. 168-169. 35 Ermanno Cavazzoni, L’impero telematico, in «Riga 28», p. 12. 33
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Sono così i libri di Celati: un monumento nel senso etimologico del termine, un ricordo che dà voce alle memorie sepolte nel fondo del corpo, ai sogni, un’oralità viva che discende dalle storie quando ancora fungevano da legame tra i parlanti, da vincolo delle comunità. Per questo le sue opere sono sottoposte a continue revisioni, per evitare la fossilizzazione e rimanere mutevoli nel corso del tempo, come lo è il loro autore. (Significativo esempio il fatto che Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri e Lunario del paradiso confluiranno poi rivisti in un’unica raccolta dal titolo Parlamenti buffi pubblicata nel 1989). Ma tornando al caso specifico di Comiche, abbiamo detto che qui Celati crea una “verbigerazione” e, riscrivendo ciò che lui stesso dice, un parlato “che non si parla con nessuno tranne quando si va in vacca o si impazzisce.” Nel ricordare la genesi di questo suo primo libro, quello che lo scrittore racconta è la lettura “dei fogli scritti dai matti” 36 ricevuti da un amico che lavorava presso un ospedale psichiatrico: brani di diario, deliri, un giornale del manicomio e perfino sonetti. Quelle letture sono per Celati un’importante scoperta e un forte stimolo: “Mi sembrava che le sue parole avessero una verità introvabile nei libri correnti: erano aspetti affettivi che spuntavano dalle sue frasi, dai verbi, dagli aggettivi, dalle costruzioni strambe.”37 Diversi da tutto quello che aveva letto fino ad allora, questi scritti forniscono a Celati il primo vero esempio di scrittura in cui pensiero ed emozione, pensiero ed immagine trovano veramente unione nella parola. Questo risultava possibile solo attraverso l’oblio della lingua standard e l’utilizzo di un linguaggio nato dal profondo di un animo privo di sovrastrutture. “I fogli di quel vecchio ricoverato davano aria ai pensieri, e mi colpivano le tonalità delle sue parole: i sintomi di persecuzione in certi aggettivi, e in certi giri di frase scombinati.” 38 Sarà proprio in un periodo di malattia, durante quaranta giorni di reclusione casalinga, che Celati si troverà, quasi inconsciamente, a scrivere secondo la tonalità di quei testi e quelle che comporrà saranno le pagine che, pubblicate per volere di un amico su una rivista, cattureranno l’attenzione di Calvino e costituiranno il primo nucleo di Comiche. Il suo secondo romanzo, Le avventure di Guizzardi, la cui prima edizione risale al 1972, nasce forse in diretta discendenza dal primo ma stavolta come esperimento di autoterapia: il volume viene a comporsi dalle annotazioni regolari che Celati fa dei suoi sogni, come catarsi per i suoi stati malinconici. L’idea viene dalla lettura di Freud e il risultato 36
G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, a cura di M. Belpoliti e A. Cortellessa, in «Riga», p. 25. 37 Ivi, pp. 25-26. 38 G. Celati, Memoria su certe letture. Conversazione con Rebecca West, in «Riga», p. 40.
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sono delle avventure narrate in una lingua musicale che deriva direttamente dalla voce della madre. “Ci sono ancora tracce di quel ricoverato che aveva ispirato Comiche, ma la struttura sintattica delle frasi è quella di mia madre, del suo adattamento all’italiano: un adattamento melodico perché il dialetto di mia madre era una nenia con sottili modulazioni melodiche. Ecco perché non c’è neanche una virgola nelle frasi, perché vanno lette come una nenia continuamente modulata.”39
Con lievi modifiche questo specifico parlato, segnato dalla volontà di mantenere stretto il legame con le origini, accompagnerà anche i due libri successivi, incarnando pienamente quel valore di lingua dagli effetti corporali di cui ci parlava in Finzioni occidentali, una lingua che grazie alle sue modulazioni e aperture trasmette al lettore il respiro di un pensiero. Ma la si potrebbe anche definire la lingua del «fuori», di ciò che pienamente dà espressione a quella marginalità che, sempre in Finzioni occidentali, si vorrebbe relegata, a partire dalla comparsa del novel, nell’ambito del non detto. “A proposito del linguaggio dei pazzi, viene in mente naturalmente Foucault: il suo discorso sul pensiero del fuori, come qualcosa che sta fuori dal linguaggio come lo usiamo normalmente e che relativizza il nostro essere ci fa capire che siamo diversi da come crediamo.” 40 I personaggi dei primi romanzi di Celati sono esclusi e perseguitati, dagli altri e dalle loro voci, sono eroi moderni, ossia sono ciò che rimane dell’eroe dopo la caduta negli abissi dell’irrazionalità, dopo l’uscita nel «fuori», fuori dalla famiglia, fuori dalla comunità. Non è un caso se in questi romanzi la contrapposizione fondamentale è proprio quella tra «dentro» e «fuori»: il protagonista di Comiche, la cui identità rimane incerta, vive in una “casa di cartone” che funge da oppressivo «dentro» interpretato di volta in volta come “pensione per villeggianti balneari, ma forse anche collegio oppure ospedale psichiatrico: comunque, istituzione repressiva”41 e ciò che è «fuori» rimane una nebbia indistinta, un fondo oscuro da cui prendono vita visioni e personaggi. Il successivo Guizzardi è ancor più significativamente indicativo dal momento che inizia le sue avventure proprio con la cacciata dalla sua folle famiglia. Infine ne La banda dei sospiri (1976) l’io narrante Garibaldi, che racconta e fantastica all’interno della famiglia (la “banda dei sospiri” che dà il titolo al libro), è il portavoce più puro del desiderio di evasione, evasione che troverà attuazione solo nella pagina finale del libro e sarà poi pienamente vissuta da Giovanni nel Lunario dal paradiso 39
G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, in «Riga», p. 27. 40 Ivi, p.26. 41 Italo Calvino Nota a «Comiche», «Riga», p.168.
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(1978), protagonista che forse più di tutti incarna il «fuori»: “Giovanni è ciò che sta «fuori»: fuori dalla lingua tedesca che non conosce; fuori dalle visioni luminose del nazista Schumacher, padre di Antje; fuori dalle fantasie irridenti delle due bambine che pure lo aiutano; fuori dai maneggi di Tino il magliaro.”42 Inoltre un’altra è la caratteristica che, mentre contribuisce fortemente a modulare il modo e il ritmo del linguaggio, insieme ad esso connota i primi romanzi di Celati contrassegnandone in maniera peculiare lo stile: la comicità. Una comicità che mostra di avere una ben precisa paternità: quella della Commedia dell’Arte e del cinema comico, specialmente ai tempi del muto. I Fratelli Marx, Laurel & Hardy, Tati e Buster Keaton sono i punti di riferimento dichiarati, anzi il filosofo Keaton, come lui ama chiamarlo, associato allo scultore Giacometti, è una delle figure-guida per lo scrittore. Ciò su cui più bisogna porre l’accento tuttavia è il fatto che questa comicità da burlesque non viene mimata solamente tramite la descrizione di gesti e situazioni ai limiti del paradosso, ma si attua compiutamente proprio all’interno della lingua stessa: “E’ il linguaggio che contiene gesti, gags, fughe e ritorni, sberleffi e schiaffi, che non hanno la menoma facoltà di esistere fuori dalla scrittura che li crea, li inscena e immediatamente li distrugge.” 43 Con la sua essenza prettamente comica questo linguaggio viene ad esprimere nel modo più nuovo e compiuto il suo essere “corpo”. Le numerose “gags grammaticali” inscenano una comicità agita nelle immagini ma soprattutto nel tessuto stesso della parola. Si può dire che Celati abbia trovato l’unico modo di tradurre la comicità cinematografica in letteratura: se il cinema si affida alle immagini, lui si affida alle parole. Come abbiamo già detto Le avventure di Guizzardi, ma potrei aggiungere anche il successivo La banda dei sospiri nascono con l’intento dichiarato di fungere da “cura comica”, da antidoto contro la malinconia, per il suo autore certo, ma oserei dire anche per il lettore. E’ Rabelais ad ispirare a Celati il principio della “cura comica” ed è in Finzioni occidentali che questo modo d’intendere la comicità in letteratura viene più distesamente illustrato. La base di partenza è prettamente medica e la medicina a cui si fa riferimento è quella del Corpus hippocraticum: secondo la teoria umorale di quest’antica dottrina la salute corrisponderebbe al perfetto equilibrio o mescolanza degli umori nel corpo detta “eucrasia”, mentre la malattia sarebbe diretta conseguenza dell’eccesso di uno di essi. “Ciò spiega il criterio di cura dell’eccesso con l’eccesso: per esempio l’eccesso di calore della febbre come catarsi perché espulsione di un eccesso interno.” 44 Il simile cura il simile: 42
Giuliano Gramigna, Serio, serissimo del tutto comico, in «Riga», p. 173. G. Gramigna, Motoretta in cielo, in «Riga», p. 170. 44 G. Celati, Finzioni occidentali, p. 63. 43
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l’eccesso della malattia viene eliminato con l’eccesso, con l’espulsione del male tramite la sua esteriorizzazione. Gli umori corporali, secondo la dottrina ippocratica, sarebbero inoltre collegati agli elementi naturali, così ad esempio il calore che rappresenta la vita e accomuna tutti gli esseri viventi è logicamente associato all’elemento fuoco, inoltre “[…] aria e fuoco sono strettamente collegati perché il soffio è l’alimento del fuoco e il fuoco privato del soffio non potrebbe vivere.”45 Da tutto ciò deriva direttamente la dottrina rabelaisiana del riso, riso che diventa la medicina per eccellenza in quanto connesso sia al vento che al fuoco: “il riso come metafora del flusso vitale che è soffio ed espurgazione […] è purgativo sia perché espulsione di aria accumulata corrotta, sia perché soffio che alimenta il calore.”46 Indissolubilmente unita agli umori del mondo nel gradino più basso della scala sociale la terapia del riso, tipica della comicità triviale il cui luogo d’espressione è lo spazio aperto, o meglio il «fuori» della piazza, è destinata a soccombere nell’agone della storia in quanto soppiantata prima dalla commedia degli humours, che s’inscena più peculiarmente nel «dentro» di un teatro. Qui il corpo è ancora in balìa degli umori che ora però assumono il nome di passioni, il cui squilibrio è stavolta deputato alla regolazione dal cervello, dalla forza di volontà incaricata di contenerle. Da qui, dalla concezione secondo cui più un animo è in grado di tenere a bada le passioni più è grande, si arriva presto al trionfo del malinconico romantico di Hegel e all’umor nero di Breton. La concomitante creazione della figura dell’artista saltimbanco diverrà il simbolo del malinconico per eccellenza: perduta la sua sacralità l’arte cede all’ironia e alla parodia di se stessa. Il mimo che fa del suo corpo strumento di comicità è solo un lontano ricordo. “La comicità corporea si spiritualizza, avrebbe detto Leopardi, cioè diventa astratta, ideale, schizoide: è per questo che lo humour non fa più ridere, fa solo fantasticare.” 47 Di nuovo vediamo una parte importante della cultura relegata ai margini del sapere ufficiale, senza che tuttavia svanisca, anzi, finge di sparire rimanendo invece come uno scheletro nell’armadio della cultura occidentale, pronto a spuntar fuori in forma di pazzia: dopo aver dedicato interessanti pagine al ragionamento in forma di paradosso e contraddizione come strumento per una più vasta conoscenza e comprensione del mondo nell’opera di Rabelais, alle fine del capitolo intitolato Dai giganti buffoni alla commedia infelice Celati nota come sia proprio nei deliri visionari dei cosiddetti psicotici che tornino richiami ad antiche cosmologie e a flussi di entrata ed uscita dal corpo, proprio quegli stessi sfoghi di bisogni vitali e primari che rendevano i giganti della tradizione così comici per il volgo. Nell’epoca 45
Ivi, p. 64. Ibidem. 47 Ivi, p. 93. 46
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in cui si è persa la connessione di quel tessuto sociale che permetteva di condividere narrazioni e saperi, di rielaborare in forma di storia gli istinti più bassi dell’animalità umana, Celati individua la perdita, la nuova condizione dell’individuo scisso da se stesso. Proprio da qui emerge l’esigenza di uno stile nuovo, di uno stile che recuperi al contempo l’importante funzione catartica del riso e quindi la comicità nella sua veste più pura e primitiva, quella legata alla volgarità triviale e alle funzioni del corpo, e la tattilità di un corpo che non si è mai scisso dalla mente, nonostante l’impero di un pensiero astratto e astrattivizzante abbiano tentato di farlo credere, corpo che in letteratura non può che farsi vera presenza se non attraverso il linguaggio. E’ per questo che il comico di Celati è un comico “che si lascia fruire non in un rapporto di intesa intellettuale ma di partecipazione fisica.”48 L’aggressione immaginifica che compie attraverso la “violenza” verbale è tesa ad avere un effetto fisico sul lettore, una reazione che aspira al riso convulso per la sua stessa essenza benefico e liberatorio, una spinta che dal dentro porta al fuori. “Del resto, dato che la poetica di Celati si basa sulla «reattività fisiologica, la risposta che egli chiede al lettore non si articola in un discorso ma nei più istintivi riflessi della risata convulsa, della smorfia spasmodica, dello scatto vendicativo cui egli vuole costringerci con le sue reiterate aggressioni.»49 Ciò che viene da pensare è che questa altro non sia che l’espressione contemporanea e occidentale di quelle pratiche sciamaniche che tanto lo hanno interessato, il recupero di una parola dagli effetti curativi perché portatrice di immagini, quelle immagini che fungono da radice prima del pensiero. Da ciò possiamo dedurre che anche se il concetto di “letteratura come fantasticazione” è stato elaborato da Celati solo in tempi recenti, esso si può benissimo applicare anche alle opere risalenti agli inizi della sua produzione letteraria, dato che la comicità che le pervade si rivela di natura fantasticante. Infatti, mentre funge da stimolo di purificazione del corpo attraverso il riso, allo stesso tempo essa apre il pensiero a un immaginario più vasto grazie allo svolgimento dell’azione attraverso un linguaggio che parla per immagini, immagini che diventano tattili proprio grazie alla lingua espressionista che le veicola, immagini che mettono in moto il pensiero fornendo quel tipo di esperienza immaginifico passiva che, stando a quanto diceva Aristotele e non solo lui, è la sola base per la formazione di un processo cognitivo di tipo attivo.
48 49
G. Gramigna, Fra Beckett e Pinocchio, in «Riga», p. 171. Italo Calvino, Nota a «Comiche», in «Riga», p. 168.
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DAL “PRIMO” AL “SECONDO” CELATI, UNA DISCONTINUITA’ CONTINUA
SETTE ANNI D’ATTIVO SILENZIO E L’INCONTRO CON LUIGI GHIRRI Sette anni è il periodo di tempo che si usa comunemente indicare come il “silenzio” di Gianni Celati, il suo silenzio come narratore, anche se sarebbe bello immaginarlo romanticamente precorrere la scelta che compirà Baratto in Narratori delle pianure o ricalcare le orme dell’attrice Elisabeth Vogler nel film Persona di Bergman e vederlo staccarsi dalla comune brulicante comunicazione fatta troppo spesso di parole vuote e inani per rinchiudersi in un avvolgente guscio fatto solo di suoni inarticolati. Questa non è certo la scelta compiuta dallo scrittore che pur condivide il fascino per queste figure di dissidenza che con il silenzio destano intorno a loro grida di scalpore, lo scalpore per chi rinuncia all’espressione facendola apparire una rinuncia alla vita con gli altri, lo scalpore per quello che appare come la presenza di un segreto incomunicabile, il segreto di chi ha visto l’inconsistenza e la vacuità del tentativo di far corrispondere l’essere all’apparire. Celati non arriva a compiere questa scelta radicale ma darà un chiaro segno del fascino che prova verso queste enigmatiche figure di silenzio con la traduzione del famoso racconto di Melville, Bartleby lo scrivano, nel 1991. Ma gli anni che intercorrono tra la pubblicazione di Lunario del paradiso nel 1978 e la nuova pubblicazione di Narratori delle pianure sono veramente anni di silenzio? Non lo sono per la persona Celati e non lo sono nemmeno per il Celati scrittore. Certo, sono sette gli anni che intercorrono tra la pubblicazione di due suoi volumi di carattere narrativo ma in questo lasso di tempo Celati non smette di scrivere, e nemmeno di pubblicare. Feconda è la sua attività di traduttore: nel 1979 esce la sua brillante traduzione de Le avventure di Tom Sawyer, che recupera nei dialoghi, come forse solo Celati era in grado di fare, lo stile del parlato mirabilmente ed espressivamente scorretto, capace di ridonare ai suoi personaggi la vivacità e l’immediatezza dei loro caratteri. Il testo è preceduto inoltre da un’interessante introduzione dove il traduttore contestualizza e giustifica la scelta di questa lingua fuori dai ranghi del corretto parlare ripercorrendo i modi di nascita del romanzo: quand’era ancora incerta la tipologia di “romanzo per ragazzi” Mark Twain scrive in bilico tra il necessario adeguamento alle vigenti norme scolastiche di linguaggio che garantiscano all’opera piena dignità letteraria e la naturale espressività di una lingua ancorata alla realtà e quindi alle sue dimensioni più comicamente e scorrettamente 19
quotidiane. Si trovano così a convivere molteplici registri che vanno dalle più ritrite e topiche formule letterarie agli stilemi infantilmente scurrili dei dialoghi tra ragazzi: è la voglia di successo per ottenere un gradino più alto e decoroso nella scala sociale che convive con il disamore per i libri, che da novello Cervantes l’autore inglese considera portatori di astratte e assurde fantasie, troppo slegate dalla cruda realtà dei fatti. 50 E’ anche con la traduzione che Celati rimane fedele ad alcuni dei suoi temi ricorrenti e soprattutto alla sua predominante ricerca linguistica. Un anno dopo l’uscita del celebre libro di Mark Twain è la volta di Barthes di Roland Barthes e della traduzione in collaborazione con Lino Gabellone di Colloqui con il professor Y di Céline. Ancora di Céline nel 1982 Guignols band e Il ponte di Londra, quest’ultimo di nuovo in collaborazione con Lino Gabellone. In questo periodo compaiono inoltre suoi articoli in riviste di arte e musica: anche nei cosiddetti anni di inattività, la produzione dello scrittore, critico e traduttore, è sempre rimasta attiva. Anzi, se davvero vogliamo individuare un anno chiave che funga simbolicamente da boa all’interno del continuum della scrittura celatiana, possiamo situare proprio nel 1984 il vero anno di svolta della sua produzione. E’ infatti il 1984 l’anno di pubblicazione di Verso la foce. (Reportage per un amico fotografo), primo nucleo del testo che verrà pubblicato solamente cinque anni dopo col titolo ridotto di Verso la foce. Questa prima versione del testo che segna l’inizio di un nuovo divenire per Celati nasce per accompagnare Viaggio in Italia, catalogo di una mostra itinerante di fotografia fortemente voluto da Luigi Ghirri in collaborazione con altri diciannove fotografi, italiani e stranieri. Attraverso il rinnovo del rapporto col paesaggio e della sua percezione questo progetto segna la storia della fotografia in Italia: quando la stereotipata immagine del bel paese sembrava ormai fissata in un repertorio di cartoline da collezione, con l’immancabile connubio tra monumenti d’arte e paesaggi naturali, questi fotografi innovarono lo sguardo con il loro personale punto di vista sui luoghi, non più immagini patinate ma paesaggi colti nella realtà dello loro essenza in continuo divenire. E’ così che Ghirri definisce il progetto: “Noi fotografi ci siamo messi in rapporto con il “luogo” in cui vivono gli italiani né in maniera apologetica né in maniera critica. Abbiamo cercato piuttosto dei nodi dialettici, diverse strade e stratificazioni, per avviare un processo di conoscenza, non abbiamo dato nulla per scontato e non abbiamo dato identità precostituite e totalizzanti.” 51 50
Cfr. Gianni Celati, Introduzione, in Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, Rizzoli, Milano, 1979, pp. 5-19. 51 Luigi Ghirri, da un’intervista di Mario Belpoliti, «Il Manifesto», 16 Marzo 1984, in Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte, Società Editrice Internazionale, Torino, 1997, p. 286.
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Altro aspetto innovativo dell’operazione fu inoltre proprio l’affidamento del consueto apparato di parole che circonda un libro di fotografia non a un critico bensì ad uno scrittore, segno di una possibile e felice collaborazione tra le arti. Difficilmente categorizzabile, il “reportage” che alla maniera dei fotografi elabora Celati non è né una narrazione, in quanto privo di trama, né pura descrizione, in quanto al suo interno scorrono sì paesaggi ma anche incontri come piccoli eventi, semplici frasi che si aprono a un sapere sapienzial-filosofico esposto con la naturalezza di un’osservazione sul tempo. E’ un reportage questo nato per accompagnare paesaggi divenuti fotografie su un catalogo, sono parole che sembrano sgorgare dalle immagini stesse ma la cui origine non coincide con esse, bensì proviene dai luoghi che sul negativo fotografico hanno lasciato la loro impronta. E’ semplicemente un “racconto d’osservazione”, come il suo autore definì, nella Notizia introduttiva, i quattro piccoli diari di viaggio che confluirono poi in Verso la foce. Ma ciò che occorre soprattutto render degno di nota è che per prestare la sua vena scrittoria a questa nuova sfida espressiva Celati decise prima di tutto di calpestare davvero i luoghi di cui doveva parlare, affidandosi ad un puro, semplice e diretto contatto sensoriale con il paesaggio prima di esperirlo attraverso la mediazione della fotografia. Ed è proprio dalla fotografia che egli mutua questa pratica del contatto con la materia del narrare: come i fotografi sono imprescindibilmente legati ai loro soggetti, alla realtà senza la quale la loro arte non esisterebbe, così è dall’esperienza del vagabondare attraverso le pianure delle campagne intorno al Po fino alla sua larga foce, dal camminare immerso nell’aria tra cielo e terra, esposto al nulla e al tutto dell’essente, di ciò che è così com’è, che nasce questa nuova scrittura, questo nuovo stile apparentemente dimesso ma così profondo e prismatico e che sarà il nuovo carattere distintivo dei libri di Celati. Solo un anno dopo si avrà l’uscita di Narratori delle pianure. Con questa raccolta di racconti (già la scelta della forma breve del racconto, che prende per modello le forme della letteratura italiana arcaica e in particolare del Novellino come lui stesso ha dichiarato in un’intervista pubblicata su «Tuttolibri»52, è un chiaro indice di svolta delle sue modalità di scrittura) la lente dell’autore sembra passare dal fuoco su un’interiorità fonte di visioni, sogni, ricordi puntualmente trascritti da una penna fedele alla musicalità della lingua nella sua immediatezza e spontaneità da oralità sgrammaticata, a una visione sulle cose dall’esterno resa con la limpidezza di frasi grammaticalmente corrette, in un tono che diventa sensibilmente più dimesso. Quelle che si svolgono sulla pagina sono storie di personaggi accomunati tra loro unicamente dal legame con uno dei paesi di volta in volta 52
Cfr. Alfredo Giuliani, Il Trentanovelle, in «Riga», p. 177.
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attraversati dal nostro anonimo narratore, in un viaggio che parte da Gallarate, provincia di Varese, e arriva fino alla foce del Po. Di questo viaggio non si fa menzione nelle pagine del libro, non esiste una cornice che sul modello del Decameron colleghi i racconti come parte di un unico evento comprensivo. Questo ipotetico narratore si presenta a noi solo dalla foto sulla copertina, colto di spalle, fermo, mentre scrive in mezzo a una strada vuota in una pianura quasi completamente innevata, volto al bianco dell’indistinto orizzonte anche se chino su un ipotizzato taccuino: è una foto scattata a Celati proprio da Luigi Ghirri. [fig. 1]53 Come già detto il suo itinerario non è descritto ma soltanto alluso, lasciato alla fantasia del lettore e suggerito grazie a una cartina geografica posta all’inizio del libro, una cartina piuttosto approssimativa su cui una spessa e nera traiettoria congiunge i paesi intorno Milano fino al mare attraverso tutta la Pianura Padana, passando per le principali provincie che costeggiano l’alveo del Po, nominando città e paesi, in un percorso che non è lineare ma si biforca in deviazioni, tragitti duplici per un itinerario non unico ma molteplice, l’itinerario scandito dai luoghi che determinano con la loro realtà i personaggi dei racconti e fungono da sfondo alle loro vicende. I luoghi di cui si narra non sono tutti segnati, alcuni fuoriescono dai confini della carta e lasciano lo sguardo volare verso territori oltreoceano, ad esempio in Africa come per La città di Medina Sabah o negli Stati Uniti come per la Los Angeles di Storia di un apprendistato, ma è come se queste città fossero segnate anch’esse, presenza assenza su una carta che spicca all’inizio del libro come le mappe per la ricerca del tesoro all’inizio dei romanzi di avventura. E, come in questi, i racconti che compongono la raccolta sembra vogliano guidare in un viaggio verso una meta che resta continuamente allusa e imprendibile, verso una verità che filtra dalle parole senza lasciarsi prendere, per sfumare nell’indistinto orizzonte di un mare che sembra non avere fine. Anche i lettori come i protagonisti del racconto che chiude questo viaggio verso la foce del Po si ritrovano alla fine naufraghi alla deriva nel mare della vita, a esperire così l’unica condizione permessa dalla contemporaneità, lo “spaesamento” in cui solo si ritrova un nuovo sguardo sulle cose: “E’ proprio nel momento di massima disambientazione, o straniamento, che ti accorgi di tutto questo pullulare di apparenze, di fenomeni, che popolano l’esteriorità.”54 Ed è in questo reincontro con le cose che nasce il sentimento di una direzione che non può essere razionalmente conosciuta ma solo sentita: “avevano l’idea che, continuando a remare, sarebbero arrivati da qualche parte.” 55 Su questa frase si chiude Narratori delle pianure ed è proprio qui che secondo Luigi Ghirri si 53
D’ora in poi i rif. iconografici ove presenti recheranno il rimando al n. di figura in Appendice. Gianni Celati, Qualche idea sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, a cura di Marco Sironi, in Marco Sironi, Geografie del narrare, p. 228. 55 Gianni Celati, Giovani umani in fuga, in Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano, (1985¹), 2008, p. 146. 54
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racchiude tutto il senso del libro, libro che lui racconta aver visto nascere in un periodo di progetti condivisi tra letteratura e fotografia, in un tempo che lui stesso rivela essere stato per Celati non certo un intervallo di silenzio ma un tempo “pieno di voci da ascoltare e mondi da guardare”56. Si direbbe quasi che come uno dei personaggi dei suoi primi libri Celati sia finalmente scappato di casa, che armato solo dei suoi sensi e di una penna e un quaderno si sia messo in viaggio, lasciando dietro di sé tutto l’incessante brulichio interiore abbia incontrato il mondo e restandone affascinato si sia messo a descriverlo. Tradizionalmente, se di tradizione si può parlare a questo proposito, si fa coincidere la svolta stilistica e di contenuto nella scrittura di Celati con l’incontro con Luigi Ghirri, assegnando ad esso il ruolo decisivo di novello Virgilio nell’accompagnare il nostro Dante negli inferi e nei paradisi del mondo che si apre al di là del vetro attraverso cui tutti sembriamo guardare, come i turisti di Avventure in Africa “spettatori civilizzati al riparo dietro un vetro”57. E’ Celati stesso che in un’intervista alla domanda: “Ma perché c’è stato questo cambiamento stilistico?” lo conferma con la sua risposta: “Nell’81 il nostro compianto amico e fotografo Luigi Ghirri è venuto a chiedermi di partecipare a un progetto di descrizione del nuovo paesaggio italiano, progetto da lui già avviato assieme a una ventina d’altri fotografi. A parte le foto di Ghirri, che conoscevo, sono stato sorpreso e conquistato dal modo di osservare il mondo degli altri fotografi: Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Guido Guidi, Mario Cresci; Gabriele Basilico e altri. Era una foto liberata dalle vedute sensazionali, dagli effetti realistici, dal vizio del bottino estetico. Era un tipo di foto dove riconoscevo un pensiero, veramente un pensare per immagini, come voleva Ghirri. Mi chiedevano di scrivere qualcosa sul nuovo paesaggio italiano, che si diceva post-industriale; e ho cominciato a girare per le campagne con Ghirri, per vedere come lavorava.”58
In queste righe riconosciamo così alcuni motivi fondamentali del pensiero del nostro autore, mutuati proprio dall’incontro con l’amico fotografo: il pensare per immagini come fonte di un’attività intellettiva allo stesso tempo attiva e passiva perché movimento generato dalla percezione attraverso i sensi; l’uscita nel paesaggio per una scrittura che si produce, come avviene per il pensiero, solo dall’incontro con i luoghi; l’attenzione per le campagne che, se nei suoi primi libri fungono da sfondo per le avventure dei suoi personaggi, in questa nuova produzione diventano i soggetti principali. Quello che si impone d’ora in poi è uno sguardo focalizzato su ciò che meno desta attenzione agli occhi di oggi, una cura particolare che restituisce l’interesse per le cose colte nella loro ovvia 56
Luigi Ghirri, Una carezza al mondo, in «Riga», p. 176. G. Celati, Avventure in Africa, Feltrinelli, Milano, (1998¹), 2008, p. 14. 58 G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, in «Riga», p. 32. 57
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quotidianità, per gli stessi oggetti e i frammenti incorniciati di mondo che spiccano come soggetti preferiti nelle foto di Ghirri. Ma l’attivazione e l’espressione di questo particolare interesse nell’opera dello scrittore si è avuta solo grazie alla conoscenza e alla passione per i lavori dell’amico fotografo o era una corrente già sottesa al suo immaginario letterario?
LE RADICI DELLA SVOLTA Il saggio che chiude la già più volte citata raccolta critica di Celati Finzioni occidentali, illustra bene come l’attenzione per gli oggetti ai margini, per gli oggetti svuotati di storia e di senso a causa della loro perdita di un luogo d’origine significante sia stata presente fin dai primi anni di studio dello scrittore. In questo saggio egli parla della contrapposizione tra Storia ed archeologia e come a questi due antitetici e complementari modi di affrontare lo scorrere del tempo e le sue stratificazioni, ossia due diversi modi di intendere la storia, vada ricondotta una diversa modalità di sguardo sulle cose. E’ con la modernità che nasce l’interesse per gli oggetti privi di distinzioni di categoria e di privilegi d’uso: la brusca avanzata del progresso produce continuamente nuove invenzioni che soppiantano le precedenti, degli oggetti si perde la funzione e con questa il valore, la conoscenza della loro finalità e con essa della loro origine. Gli oggetti scartati vengono dimenticati e ammassati, diventano anch’essi il sogno lontano della coscienza che, ormai sveglia, dopo la scoperta dell’inconscio ha perso con esso la capacità di sognare: “L’accelerazione moderna della storia, o quello sviluppo sui binari della storia che si chiama progresso, ha tra le vittime più illustri l’illusione di poter protrarre il sogno fino al momento di piena veglia, e poi magari poetarci su a tavolino; la quale illusione rovinosamente sfasciandosi insieme all’idea di letteratura, lascia il posto al persistente pensiero che il sogno è solo una cosa perduta, e che tutto quanto è perduto partecipa della natura del sogno, e quindi è questo che bisogna ricercare.”59
Parte avvio da qui l’amore per gli oggetti di scarto che così fortemente contrassegnerà gli artisti da Rimbaud ad Eluard a Breton. E’ la nascita dell’interesse per il bazar fatto di molteplici oggetti e frammenti in accumulo disordinato senza apparente senso e finalità: “oggetti segnati da un taglio storico che li rende spaesati o spaesanti, e in cui è proprio la perdita dell’origine a creare il loro interesse di oggetti di riflusso, finora dimenticati.” 60 Il bazar cattura l’interesse degli artisti a partire dai surrealisti ed emerge all’attenzione al 59 60
G. Celati, Finzioni occidentali, p. 198. Ibidem.
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posto del museo, il cui rigido sistema classificatorio di oggetti valenti in sé per l’unanime riconoscimento di valore simbolico assegnatoli è ormai caduto di fronte a una storia che smette di avere assoluto valore universale come autoritaria e lineare scansione di eventi. E’ la caduta dell’epica, che presuppone l’identificazione di un popolo con il suo racconto della storia, la fine della narrazione come garante della legittimità del reale, la sua perdita di auctoritas: quello che si cerca ora è l’essenza della realtà nella cruda esposizione dei fatti, in documenti tangibili derivati da manifestazioni visibili e plausibili. Ma essendo la realtà un agglomerato di accadimenti di somma importanza e miserevole insignificanza, quella che trionfa ora è una concezione della storia fatta di eventi minimi, di dettagli marginali. Ciò che prima veniva escluso dall’alveo dei grandi episodi atti a ricordare la scansione del tempo passato negli archivi deputati alla memoria ora, sulla scia della consapevolezza che sono gli attimi apparentemente meno significanti a collaborare maggiormente all’inesorabile scorrere temporale, viene recuperato. Sulle tracce di Benjamin nel suo saggio su Eduard Fuchs si delinea la figura del collezionista in antitesi a quella dello storico, ossia si crea un’idea di archeologia contrapposta alla storia: “Fuchs è un pioniere perché con le sue ricerche marginali fa saltare un’idea di continuità della storia, perché propone una scienza del passato non più basata sulla rappresentazione e l’apprezzamento, ma sull’inventario di segni minimi, di dati laterali, i quali poi accostati rimettono in questione la coscienza che il presente ha del passato.”61
Cade l’immagine unitaria e progressiva del passato e si affermano invece una pluralità di passati laterali, un’idea della storia frammentata in molteplici storie. E’ la presa di possesso della marginalità come concomitante ai grandi eventi nella costruzione del presente. E il presente viene ad essere costituito così da frammenti, che l’occhio dello studioso tende a raccogliere per studiarli e tramite essi ricostruire una sia pur minima idea dell’origine irrimediabilmente perduta, non più storico ma collezionista. “In altri termini lo sguardo moderno è uno sguardo archeologico, che coglie l’essere non come unità originaria che si ripresentifica negli aspetti mondani, ma come frammentarietà di rovine, continuo esserestato.”62 Se cade la Storia e si affermano le storie, l’essere in divenire perde la sua unità e si rompe in frammenti: è la fine della possibilità di esistenza di un unico grande sistema onnicomprensivo che dia ragione e precisa localizzazione, di senso ed essere, alle cose. “Nei termini di Bachtin, questo è il tramonto del potere delle voci monologiche, intente a ridare fuori tutte le spiegazioni come derivati di un unico io parlante trascendentale, 61 62
Ivi, p. 200. Ivi, p. 201.
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l’uomo, l’uomo bianco, lo spirito, il pensiero, la coscienza.” 63 E’ il momento per le voci che prima solo bisbigliavano nel sottofondo della grande coscienza, che prima stavano appunto ai margini, di prendere parola: l’universalità di pensiero è impossibile se non tiene conto anche della devianza rispetto alla norma, dell’errore rispetto alla canonica correttezza del sapere. “E’ esattamente la rottura dell’unità del pensiero che oscuramente, avventurosamente, la modernità fa emergere gli scarti. Di qui la tendenza a rifarsi direttamente alle voci di margine, a mettersi a trascriverle, pubblicarle, diari di devianti o autobiografie di emarginati, protocolli di pazzi, raccolte di sogni. Il recupero di questi documenti procede nella stessa linea del collezionismo di oggetti di scarto, ha le stesse motivazioni.”64
Con l’avallo di una discussione teorica sul pensiero che ha animato critici e artisti fin dalla fine dell’800 Celati non fa che dare qui sostegno teorico alle sue prime scritture “da pazzi”. Il discorso de Il bazar archeologico procede ponendo ora attenzione all’essere della Storia come divenire teso a una finalità, come svolgimento sempre teleologico che rintraccia il suo fine ogni volta nel significato intrinseco e nella conseguente precisa direzionalità degli oggetti. Ma Celati nota che il senso da dare esige l’impegno dell’interpretazione e “per interpretare bisogna comparare motivazioni che io conosco con intenzioni che mi sono oscure, ossia far parlare le intenzioni altrui con il linguaggio delle mie motivazioni, riproiettandole come intenzioni dell’altro.” 65 Ogni interpretazione è inscindibile dai caratteri di soggettività di chi la compie, ogni tentativo di dare un senso ad altro che è fuori da noi è un tradimento del silenzio, l’unica condizione possibile di fronte a ciò che ci è estraneo. Sia la Storia che la Letteratura si basano su un patto di credibilità tra autore e lettore, essendo entrambe basate su un racconto, che sia interpretazione di fatti sulla base di documenti d’archivio o invenzione che rispetta i criteri di realismo di un certo tipo di romanzo, essendo la letteratura a cui qui si fa riferimento una forma di narrazione tesa a fornire dei criteri valutativi del mondo, a rispecchiare nel modo più verosimile possibile azioni di personaggi plausibilmente esistenti, rifuggendo ogni estrosa e incredibile fantasia troppo lontana da una mente razionale per rimanere nel campo del comprensibile e naturalmente interpretabile. “E’ invece il principio della differenza dell’altro rispetto all’io, della differenza dell’altrove rispetto al qui, e quindi dell’impossibile identificazione di questi poli, che viene introdotto dall’archeologia.” 66 63
Ivi, p. 204. Ivi, p. 206. 65 Ivi, p. 208. 66 Ibidem. 64
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Questa, a differenza della storia che prevede un principio di identificazione con il suo fruitore, suscita un effetto di straniamento, porta a incontrare ciò che è veramente diverso da sé e con cui non ci si può identificare. E qui entra di nuovo in gioco il problema dell’interpretazione, della trascrizione, ossia della volontà di dar voce ad oggetti dimenticati
che
tuttavia
non
potremo
mai
afferrare,
poiché
sfuggevoli
nell’indeterminatezza di quell’altro che non ci appartiene e che non possiamo nominare. “L’archeologia è sempre archeologia di un silenzio (secondo una nozione già divulgata, che si trova in apertura della Histoire de la folie di Michel Foucault), d’una emergenza che essendo muta obbliga chi la deve classificare e spiegare ad un farneticante vaneggiamento; così come fanno i vivi sui morti che non possono rispondere.”67 Ma questo stato di muto vaniloquio è possibile perché esiste la parola della Storia: i documenti a margine posti in evidenza dall’archeologia, le memorie dei pazzi, i racconti dei sogni hanno valore in quanto testimonianza della marginalità stessa, della rimozione forzata dal corso principale della Storia e non avrebbero esistenza se non come documenti del rimosso, come contrapposizione alla Storia che con la sua esclusione dà loro ragion d’essere. Con la forza di una grande lucidità Celati riconosce il paradosso insito nell’archeologia, riconosce che un nuovo discorso è possibile solo come negativo di un già presente discorso positivo, perché non si dà recto senza verso: “perché se è vero che abbiamo bisogno di grammatiche per comprendere il reale, è anche vero che abbiamo bisogno di saper riconoscere il diverso per intravvederne le alternative. E in fondo ciò di cui abbiamo più bisogno sono le alternative, non le grammatiche.”68 L’archeologia è uno sguardo sulla soglia di un diverso mondo possibile, è una visione sull’ordine esistente e la dichiarazione della possibilità di un dis-ordine, un ordine diverso ed estraneo sulla soglia del quale deve appunto arrestarsi per non incorrere nel pericolo di voler definire con parole non adeguate, di voler classificare il mondo in un ennesimo nuovo schema il cui ordine tradirebbe il reale ivi contenuto. In questa impossibilità di definire e raggiungere l’oggetto primo, l’archeologia è “una conferma o una scoperta che nessuna identità va bene, nessuna interiorità o origine ci appartiene (semmai: noi apparteniamo all’indifferenziato terreno d’ogni origine, come le cose e le piante).” 69 Persa l’origine e perso l’orizzonte sulla meta finale, ciò che conta come unico dato esperibile e narrabile è il percorso, l’itinerario del tragitto fuori dal finestrino, non la stazione di destinazione. E’ questo il fascino dell’archeologia: il vagabondaggio nelle città, l’assunto 67
Ivi, p. 211. Ivi, p. 214. 69 Ivi, p. 219. 68
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della flânerie come stile di vita ed è in questa figura che sta l’incontro tra Gianni Celati e Luigi Ghirri. Inoltre l’archeologia “significa la fine della poetica dell’occasione, del caso privilegiato, della scena significante, della veduta speciale, perché non v’è luogo o oggetto che non sia occasione: ognuno è simile e discontinuo, egualmente importante ma diverso rispetto all’altro.”70 Si perde la specificità dell’oggetto e così, nell’assenza programmatica di valore, tutto ha potenzialmente un senso. E’ su quest’orizzonte che si innesta l’arte a inizio ‘900, è con l’assegnazione di significato a ogni oggetto minimo anche d’uso quotidiano che si sviluppa la poetica dell’objet trouvè: l’oggetto trovato e apparentemente insignificante al di fuori della sua specifica modalità d’uso, l’oggetto che, se decontestualizzato e ricollocato in un nuovo ambiente che gli assegni una speciale significazione solo per il semplice fatto di esservi posto, come ad esempio un museo, assume statuto d’arte: è l’orinatoio di Duchamp, l’arte del ready made. E’ proprio a questa corrente che un filone della critica contemporanea si rifà per legittimare lo statuto d’arte della fotografia, nella secolare disputa sull’appartenenza o meno di questa neonata disciplina (neonata nel confronto con le altre plurisecolari arti, anche se la sua invenzione risale all’ormai molto lontano 1839) al Pantheon delle arti consacrate da secoli di storia. Fin dalla sua nascita infatti la fotografia è stata ostracizzata nell’ingresso al regno delle arti, a partire dalla famosa accusa di Baudelaire del 1859 che in contrapposizione alla pittura l’accusava di essere copia esatta del reale, oggetto privo di qualsiasi ars e techne in quanto prodotto derivato da una semplice riproduzione meccanica per ottenere il quale risulta innecessaria qualsiasi abilità da parte del suo autore. Nonostante oggi l’artisticità intrinseca della fotografia e la sua soggettività lontana da qualsiasi fedele riproduzione oggettiva della realtà sia stata pienamente dimostrata, è alla poetica del ready made che Claudio Marra si rivolge per svincolare definitivamente questa pratica dalla marginalità a cui l’aveva costretta anche la semiologia relegandola ad essere “messaggio senza codice”, arte di natura prettamente indicale e quindi non arte, dal momento che l’indice è la categoria semiotica creata per definire una traccia generata direttamente dal suo oggetto, un segno creato dal suo stesso referente: se gli oggetti di Duchamp hanno ricevuto statuto d’arte per il loro semplice essere ricontestualizzati e risemantizzati dall’artista che li investe della sua emozionalità creativa, così la fotografia, mezzo attraverso cui il reale si imprime su una lastra fotosensibile grazie ai raggi della luce, oggetto realizzato tramite l’armonioso combinarsi di selezioni e parametri di un congegno meccanico la cui 70
Ivi, p. 220.
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funzionalità dipende dal completo arbitrio di colui che la manipola, assumerà di diritto piena valenza artistica.71 Tornando ai nostri autori, quello che qui più ci interessa è vedere come l’attenzione per le cose così come si presentano a noi nei loro aspetti più naturali e quotidiani sia stata caratteristica di Ghirri innanzitutto per il suo utilizzo del mezzo fotografico e in seconda analisi per i temi specifici della sua produzione che analizzeremo in seguito (interessante notare come l’esistenza di un approccio di tipo archeologico alle cose, e in particolare alle cose in fotografia, fosse presente a Ghirri che con queste parole efficacemente descrive il lavoro di un altro fotografo, Toni Contiero: “Affiorano così da un buio silenzioso i frammenti del mondo, quasi fossero reperti di una archeologia del presente per riconsegnarli al nostro sguardo.”72), e che in esso abbia trovato particolare consonanza la predisposizione di Celati per ciò che meno desta l’interesse della maggioranza. E’ in questo senso e non solo che il cambiamento stilistico intercorso tra Lunario del paradiso e Narratori delle pianure viene ad essere l’espressione di un percorso già insito nell’immaginario mentale dello scrittore e l’incontro con il fare fotografico la scoperta di una possibilità nuova di approccio al reale, in consonanza con la sua poetica di fondo. E’ stato Manganelli inoltre ad aver acutamente notato già nel 1988 in una recensione a Quattro novelle sulle apparenze come il cambiamento intercorso nel suo stile di scrittura sia stato solo il sintomo di un lieve cambiamento del “personaggio mentale che parla dalle sue pagine”73, dal momento che le tracce del suo tipico linguaggio sgangheratamente espressionista rimangono a connotare il lessico anche in questa prosa che sembra scorrere con così lenta lievità. L’esempio che lui usa per avvalorare questa tesi è tratto dal racconto Condizioni di luce sulla via Emilia e si riferisce nello specifico al termine “disfazione” che viene qui ad indicare la particolare condizione dell’aria sulla via Emilia: “Qui lo so che c’è un movimento che non può fermarsi mai quando il sole è alto, per causa degli affari, e niente può essere immobile perché la fluttuazione dell’aria è una grande disfazione continua che si può anche vedere con gli occhi, vedendo come la luce confonde le cose più che illuminarle. E quanto più l’aria è densa di gas di disfazione, tanto meno lascia tranquille le cose. Assieme alla luce che le dilata, assieme alla forza di gravità che le stanca tirandole dal basso, le mette in disfazione continua senza pace.” 74
71
Cfr. Claudio Marra, L’immagine infedele, Bruno Mondadori, Milano, 2006. Luigi Ghirri, Il fare le cose, in Niente di antico sotto il sole, p. 158. 73 Giorgio Manganelli, Frammenti del mondo fra incubi e ilarità, in «Riga», p. 188. 74 Gianni Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, Milano, (1987¹), 2002, pp. 53-54. 72
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Il termine, che ricorre tre volte solo in questo paragrafo, secondo Manganelli ha chiare ascendenze guizzardiane, anche se di “un Guizzardi fattosi cupo, ostinatamente malinconioso, la cui fantasia si sia irreparabilmente intinta di sogni meditanti; forse, è diventato un filosofo pazzo, figura socialmente garantita, protagonista naturale dell’esperienza quotidiana, della quotidiana inettitudine ad esistere.” 75 Tuttavia per quella che si può definire una sorta di correttezza critico-filologica, bisogna ricordare anche come all’interno del saggio Beckett/Celati. Il palcoscenico della povertà Giancarlo Alfano riconosca proprio nel termine “disfazione” una derivazione beckettiana, visto che la parola spicca nell’originale italiano tra l’inglese dello scrittore sia nel saggio degli anni ’30 su Proust e che dallo stesso trae il suo titolo, sia quindici anni dopo nella pubblicazione delle conversazioni con l’amico Georges Dulthuit. Il termine parrebbe derivato a Beckett dal Trattato della pittura e dal Codice Atlantico di Leonardo da Vinci dove ricorre in simili contesti.76 La derivazione è quindi plausibile visto che l’influenza della produzione di Beckett su Celati è ben più che provata, basti ricordare sia i riferimenti espliciti come il saggio Su Beckett, l’interpolazione e il gag contenuto in Finzioni occidentali, sia le traduzioni di cui la pubblicazione nel maggio 1997 di Da un lavoro abbandonato su Il Semplice. Almanacco delle prose, della cui redazione fece parte per i suoi due anni di vita, dal 1995 al 1997 insieme ad Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Jean Talon, Marianne Schneider e Michelina Borsari. Si può quindi infine dire che i primi libri di Celati nascono per reazione, reazione alla Storia contrapposta a un’archeologia fatta del collezionismo di piccoli oggetti quotidiani ormai perduti, dell’espressione di voci fuori dai canali di legittimità condivisa. Nascono come reazione alla Letteratura, una letteratura che vuol essere priva di errori, nata sul calcolo di un preciso progetto ordinativo dell’autore e per questo completamente slegata dalla vita che è refrattaria a qualsiasi calcolo preventivo e che al contrario delle belle lettere è il luogo per eccellenza dell’errore. Quella che Celati insegue è la genuinità del racconto che “nasce dalla casualità e dalla ripetitività quotidiana” 77, il suo progetto è dar voce alla marginalità ed è solo una questione di stile e di diversa modalità se nei suoi primi libri la voce che parla dà fiato all’espressione di un monologo interiore fatto di vortici, balzi e rincorse mentre nei libri seguenti adotta il linguaggio piano di una parola che sembra scaturire dall’anonimato del racconto popolare: la linea di fondo rimane costante e non cambia, è il racconto che parla e protagonista della narrazione diventa ciò 75
G. Manganelli, Frammenti del mondo fra incubi e ilarità, in «Riga», p. 188. Cfr. Giancarlo Alfano, Beckett/Celati. Il palcoscenico della povertà, in «Riga», pp. 234-242. 77 Domenico Starnone, L’arte del fiato e del tempo perso, in «Riga», p. 195. 76
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che è rimosso o giace davanti a noi, nell’ovvietà divenuta invisibile per uno sguardo reso onnivoro solo di novità dai colori sgargianti. Sembra proprio che Celati applichi alla scrittura uno degli insegnamenti di Ghirri a proposito della fotografia: l’ “utilizzo di una luce diversa nelle diverse ore del giorno”78, che diventa la modulazione della tonalità della scrittura in base alle diverse storie da raccontare, alle storie incontrate nel naturale cammino di una vita. Mi sembra tuttavia opportuno concludere riportando le parole di Raffaele Manica che meglio di altri ha saputo esprimere la vana inconsistenza di divisioni che, se accrescono i discorsi critici intorno all’opera, di certo non ne aumentano il suo valore intrinseco: “occorre andare avanti e farla finita con questa seccante distinzione: uno scrittore è quello che le sue stagioni gli consentono di essere, è uno che decide di far libro con il proprio sentire – esperienza, percorso, taccuino che sia – ed ha tutte le libertà che consente a se stesso: Celati di queste libertà, ha un senso altissimo: mettiamola così, la questione del «primo» e del «secondo», magari anche della frutta: mettiamola così. Uno scrittore che cambia è uno che sa far valere la proprio libertà, che si consente e concede un’altra esperienza del mondo. Celati lo ha fatto. Il resto sono solo sintagmi narrativi del lettore che qui scrive e che deve pur far vedere che delle libertà di Celati si è accorto ed è partecipe.” 79
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Rif. al libro ancora in fase di pubblicazione che raccoglie le lezioni che Luigi Ghirri tenne a Reggio Emilia nel 1989. D’ora in poi si utilizzerà una dicitura che fa rif. alle pp. delle bozze provvisorie: Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 13. 79 Raffaele Manica, Trilogia di un scrittore che muta e non sa dove sbuca, in «Riga», p. 198.
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GIANNI CELATI E LUIGI GHIRRI: L’INCONTRO TRA FOTOGRAFIA E SCRITTURA Noi non abbiamo mai, dinnanzi a noi, neppure per un giorno lo spazio puro…Sempre c’è mondo e mai quel nessundove senza negazioni. Rainer Maria Rilke, VIII Elegia duinese
“Il mio reclutamento è avvenuto nel 1981, con una telefonata di Ghirri e l’apertura d’un dialogo così denso da cambiare molte mie idee.” 80 Sono le parole di Celati contenute nello scritto edito per la mostra rievocativa in onore del ventennale dal Viaggio in Italia. Argomento ormai assodato all’interno del campo della critica celatiana, il sodalizio con Luigi Ghirri resta un evento fondamentale per la vita di Celati, con organici risvolti nella matura evoluzione delle sue opere. Come già evidenziato, penso che quello che più influenzò il nostro scrittore fu soprattutto la modalità di approccio al mondo tipica del fare fotografico, l’assorbire come proprio l’atteggiamento primo senza il quale non ci può essere fotografia, o meglio un certo tipo di fotografia, quella particolare modalità dello sguardo che così definì Ghirri nelle sue lezioni a Reggio Emilia: “semplicemente si tratta di attivare un processo mentale, di attivare lo sguardo e cominciare a scoprire nella realtà le cose che prima non si vedevano, anche dando alle cose, agli elementi della realtà un altro significato. Attivare un campo di attenzione diverso.”81 Si tende normalmente ad accomunare i libri venuti dopo l’incontro con Ghirri in un’unica consimile produzione che risente appunto di questa influenza fotografica nella scrittura e ad apparentare tra loro in particolar modo Narratori delle pianure (1985), Quattro novelle sulle apparenze (1987) e Verso la foce (1989) come la produzione ghirriana di Celati. Tuttavia ritengo che sia doveroso un distinguo per il quale bisogna innanzitutto tenere ben presente la diversità implicita di linguaggio tra fotografia e scrittura. Da dove parte un’analisi? Quando si tratta di arte, che sia fotografia o scrittura, qualsiasi critica che voglia esser minimamente attendibile parte dalla lettura dell’opera e uso appositamente il termine lettura ritenendo che si possa applicare indiscriminatamente a un testo e a una fotografia. Quando leggo un libro la mia fruizione si svolge nel tempo durante l’atto stesso della lettura che a un primo elementare livello mi può assorbire trascinandomi dentro una trama di ambienti ed eventi che io, lettore ingenuo, seguo 80 81
Gianni Celati, Viaggio in Italia con 20 fotografi, 20 anni dopo, in «Riga», p. 134. Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 70.
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immaginando, ossia ricreando come serie di immagini nella mia mente. Ad un secondo livello di fruizione, ciò che utilizzo durante la lettura saranno una serie di cognizioni apprese e categorie critiche derivate che riconosco all’interno dell’opera e applico per riconoscere la presenza o assenza di un’intrinseca qualità. Quelle che si formano nel mio pensiero stavolta non sono immagini bensì parole, è un discorso mentale che elaboro e che applico al testo, parole che si aggiungono a parole. Per quanto riguarda la fotografia invece, il mio approccio dapprima sarà di tipo visivo, ma questo vale anche per la letteratura. Quanto a quello che abbiamo definito il primo livello di fruizione da parte di un lettore ingenuo ciò che scatta è l’approccio emozionale: ‘mi piace’ o ‘non mi piace’, in un impatto sensoriale emotivo che si può avere in egual misura con un libro ma che, a differenza di questo, si vive nell’istante: come l’immagine è il congelamento di un frammento del tempo, così il suo primo effetto sullo spettatore (si può parlare di spettatore a proposito di una fotografia ma difficilmente si userà il termine a proposito di un testo) vive nell’immediatezza, a cui si potrà anche aggiungere un ulteriore percorso mentale di elaborazione immaginifica tramite il ricordo di altre immagini per associazione, cosa che se avviene immette il fruitore nello stretto rapporto che l’immagine ha con la memoria (altro non è che il “pensare per immagini” soggetto verbale iconografico di una famosa foto di Ghirri [fig. 2]: in un articolo di giornale ritrovato sull’asfalto campeggia il titolo della recensione a una mostra di Nadar “Come pensare per immagini”, già citazione di Giordano Bruno). Ad un secondo livello l’analisi si approfondisce e giunge a studiare i parametri tecnici che si combinano per dare vita a quella particolare fotografia: a differenza della scrittura però in gioco ci sono sia le caratteristiche tecniche intrinseche all’apparecchio fotografico usato e strettamente dipendenti da esso (tipo di obiettivo, formato…), sia le impostazioni ancora relative al mezzo ma regolate dall’autore (tempo di esposizione, apertura del diaframma,…), sia le variabili dipendenti totalmente dall’arbitrio del fotografo (scelta dell’ora del giorno, inquadratura,…) per la cui esplicazione si utilizzerà anche in fotografia un mezzo di espressione di tipo linguistico corredato da informazioni a carattere numerico. Al di là di una mia prima fruizione personale critico emotiva delle fotografie di Ghirri, quello ho dovuto fare per ottenere uno sguardo più profondo sulle sue opere fotografiche è stato leggere dei saggi critici, saggi scritti. Quindi per quanto riguarda la fotografia l’ulteriore lettura che se ne può avere non si ottiene tramite altre fotografie, (anche se la comparazione tra immagini è un importante banco di apprendimento e analisi, ma questo riguarda la comparazione all’interno di qualsiasi arte) bensì attraverso le parole. Ed è per 34
questo che, se posso rintracciare nei racconti di Celati una componente visuale immaginifica che mi ricorda le foto di Ghirri, un’amorosa attenzione descrittiva delle parole per le cose, una comunanza di ambientazione: le pianure, la nebbia, il fiume, sono solo alcuni degli elementi ricorrenti nei suoi racconti degli anni ottanta e di Cinema naturale e che ritroviamo in molte delle più emblematiche foto di Ghirri, è tuttavia nella grande raccolta di testi di Ghirri, fotografo che forse più di ogni altro in Italia ha corredato la sua opera di una costante riflessione sulla stessa e sul suo approccio al mondo, che trovo più forte la consonanza di temi, una vicinanza filosofica di sguardo alle teorie proprie anche dell’amico scrittore. E’ a sua volta nelle riflessioni di Celati sull’opera di Ghirri che più forte risulta l’interconnessione tra le due poetiche, tanto che la predominante visiva, se così la vogliamo chiamare, del nuovo stile dello scrittore non rimane rilegata alle opere degli anni ottanta ma prosegue oltre Verso le foce. Il nuovo assunto di una letteratura che si fa nel corso di un tempo aperto ai luoghi stessi che la generano non rimane contingente agli anni di collaborazione con l’amico fotografo ma diventa una caratteristica naturale del suo fare letteratura, in stretta convivenza con le acquisizioni più tipiche dei suoi primi approcci alla scrittura che, lungi dall’esser soppiantate, non si esauriscono ma si rinnovano. E’ come se l’intera sua produzione fosse l’espressione di diverse correnti carsiche che si agitano nell’immaginario dello scrittore, emergendo di volta in volta in testi dai tratti sempre innovativi e peculiari ma dal sapore affine. Tre sono le linee di modalità consimile che a mio parere possiamo rintracciare nelle sue opere: -
una linea narrativa comica, che parte da Comiche e dalla trilogia confluita poi in Parlamenti buffi, passa per Fata Morgana (libro che forse meriterebbe un discorso a parte per le sue caratteristiche specifiche) e arriva fino a Costumi degli italiani.
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una linea narrativa novellistica, intendendo con quest’aggettivo il recupero di un narrare di benjaminiana memoria, lo sviluppo di raccolte di più o meno brevi racconti in cui la voce del narratore si sottrae il più possibile alla sua soggettività intrinseca per dare voce a storie che nascono dall’anonimato popolare, anonimato che assume di volta in volta nomi e fisiognomie ben precise. Storie in cui il tempo riveste un ruolo fondamentale in connessione con l’ambiente e che ritroviamo in Narratori delle pianure, Quattro novelle sulle apparenze e Cinema naturale.
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una linea di “racconti d’osservazione”, dove chi scrive è dichiaratamente Celati nella persona di Celati, personaggio narratore il cui viaggio il lettore si ritrova a seguire attraverso le pianure del Po prima e sul continente africano poi, in una successione di cose e persone, spunti narrativi e riflessioni para-gnomiche. Sono i 35
diari di viaggio Verso la foce e Avventure in Africa, quasi il dietro le quinte, o meglio la scenografia su cui si sviluppano le vicende rispettivamente di Narratori delle pianure e Fata Morgana. In un’altra linea che manterrei fuori da questa arbitraria classificazione (le opere veramente degne di queste nome sono sempre irriducibili alle schematizzazioni) ci sono poi i libri in cui lo specifico mezzo dello scrivere e del fotografare hanno trovato organica complementarietà: il già citato volume collettivo Viaggio in Italia e Il profilo delle nuvole, squisito frutto della stretta collaborazione tra i due artisti. E’ soprattutto in questo che parole e fotografie raggiungono una mirabile integrazione: l’opera si apre con i Commenti su un teatro naturale delle immagini di Celati che in questo testo sviluppa un approfondimento della poetica di Ghirri dando alla riflessione la naturalezza dello sguardo ingenuo, capace di abbandonarsi alle osservazioni più naturalmente profonde proprio perché slegate da una copertura teorico tecnica precisa che ne appesantirebbe irrimediabilmente il punto di vista. “Guardando alcune sue foto, osservo che a volte i primi piani sono lievemente sfocati, perché prendono dentro molte apparenze diffuse nel paesaggio. Ghirri dice che di solito non vediamo quello che è diffuso ai lati dello sguardo, non spiamo le cose da un angolo ridotto. Siamo sempre dentro a qualcosa che è come un abbraccio avvolgente, e dobbiamo usare la visione periferica. Per questo lui usa il grandangolo, che più si avvicina a questo tipo di visione comune.”82
L’altro pregio di queste riflessioni è l’essere espresse nella forma diaristica già propria dei racconti di Verso la foce: la scrittura esplicita concretamente il suo svolgersi nel tempo, il pensiero assume l’intimità della personale registrazione di un dialogo tra amici: “Ghirri ha spesso parlato” “Ghirri spiega” “Ghirri dice” “Ghirri è molto soddisfatto di sentir parlare di questo”. Trascorsi i commenti dal 10 maggio al 6 ottobre inizia l’apparato delle immagini, non con una fotografia ma con un dipinto: è di Walter Iotti, zio di Luigi Ghirri, come precisa Celati nella nota del 4 settembre, a rimarcare la dimensione di familiarità implicita all’opera e l’ascendenza, in un certo qual modo genetica, della fotografia dalla pittura e della formidabile attenzione visiva del fotografo da un’artisticità connaturata alla famiglia. Sotto il dipinto una citazione dagli scritti di Ghirri, fondamentale introduzione alla concezione di quello che è il suo caratteristico sguardo fotografico e poi l’inizio della successione di fotografie. Sotto ogni immagine l’indicazione didascalica del luogo in cui è stata scattata la foto, con il riferimento immediato al paese, poiché si tratta per la maggior 82
G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole, Feltrinelli, Milano, 1989, (pagine non numerate).
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parte di fotografie scattate in zone sparse nella pianura padana, ma si incontrano anche grandi città quali Bologna, Ferrara, Parma, e subito sotto, dopo una sottile linea nera di separazione, l’indicazione specifica del soggetto: si va dall’interno di una camera da letto della prima immagine, “Albergo “Il Bersagliere”, camera n. 8”, a cancelli che si aprono su viali immersi nella nebbia come in “Ingresso casa colonica”, ad angoli di piazze, chiese, ancora interni, teatri e campi da calcio, immagini in cui la presenza umana è ridotta alla quasi completa assenza. Ogni tanto tra una fotografia e la sua precisa indicazione topografica si ripropongono nel nuovo contesto stralci della precedente riflessione fotografica di Celati, che riprendono il loro naturale avvio dai tre punti di sospensione o si stagliano al centro della pagina, inchiostro nero sull’immacolato bianco, sentenza che interrompe il consequenziale scorrere delle immagini e si impone come una voce, una presenza intellettiva nella sospensione del tempo: “Soprattutto perché in queste fotografie si direbbe che gli uomini se ne siano andati, per lasciare il campo alle cose.” “…nostalgia per un film che non potrò mai vedere e non esiste, richiamandomi a momenti d’incanto che forse ho soltanto sognato.”83 Sono parole che si ripetono per trovare piena integrazione con le immagini, per fornire al lettore una delle possibili chiavi di lettura, suggerendo un’atmosfera, uno stato d’animo che non si impone poiché mantiene la sua precisa identità estranea a noi ma in grado di arricchire con la sua percezione i nostri sentimenti nella visione. Ma prima di analizzare in profondità i temi predominanti di quest’opera, temi che vanno a costituire le radici del frondoso albero nato dal sodalizio tra i due artisti, vediamo di capire bene cos’è la fotografia per Luigi Ghirri. LA FOTOGRAFIA PER LUIGI GHIRRI “Penso di essere un fotografo solo come seconda parte, per la prima parte sono una persona. Come tale penso e il pensiero è elemento fondamentale di quello che faccio, anche dal punto di vista fotografico.”84 Così Luigi Ghirri, in un’intervista posta alla fine della maggiore raccolta dei suoi numerosi articoli, Niente di antico sotto il sole, dichiara di essersi definito per anni a chiarimento dell’etichetta di artista concettuale che fin dagli inizi della sua carriera la critica ha cercato di applicargli, con vena sottilmente e neanche troppo implicitamente polemica. Ghirri, nonostante rifugga qualsiasi definizione che in maniera troppo semplicisticamente chiarificatrice incaselli una realtà che invece si manifesta come 83
Ivi. Luigi Ghirri, Ritratto. Intervista di Sergio Alebardi, a cura di S. Alebardi, in Niente di antico sotto il sole, p. 276. 84
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profondamente complessa, non si scaglia aprioristicamente contro la categoria ma la precisa contestualizzandola: il suo non è un atteggiamento che vuole inscriversi nel riferimento ad una stretta elite di addetti ai lavori, al contrario, il suo utilizzo del mezzo fotografico non prescinde dalla volontà di comunicazione ma si pone come strumento di ricerca, come possibilità ulteriore di conoscenza e per questo di pratica connaturata imprescindibilmente al pensiero, che è ciò che più caratterizza l’essere umano e che costituisce inoltre l’essenza dell’immagine in quello che fu il suo primitivo significato teso a un fine rappresentativo e al contempo narrativo, prima dell’indiscriminata proliferazione seriale delle immagini del mondo moderno, quando erano ancora ad esempio i dipinti ad educare una popolazione per la maggior parte analfabeta. A partire dalla sua formazione di geometra, lavoro che lo impegnò prima della decisione di dedicarsi completamente alla fotografia, ossia fino al 1970, Luigi Ghirri sviluppò una particolare attenzione nei confronti dello spazio, del paesaggio come risultato dell’incontro tra l’ambiente e la progettazione dell’uomo, e comprese da subito come nel nuovo mondo della comunicazione per immagini fosse necessaria la creazione di un nuovo tipo di fotografia in grado di ripulire lo sguardo, di identificare nella realtà le coordinate di un preciso progetto che attraverso un pensiero complesso fosse in grado di restituire significazione al mondo. E’ così che partendo da una formazione autodidattica, lontano dagli allora canonici approcci al mondo della fotografia sia del chiuso di uno studio che dello spazio aperto dei fotoreporter, all’inizio degli anni settanta la sua esperienza prese avvio immettendosi nei circuiti della foto d’arte d’ambito concettuale, dove più forte era la possibilità di sperimentazione e di ricerca. Restio ad incanalarsi in una qualsiasi delle forme professionali allora già codificate e stereotipate di fotografo monopolizzato dalla rappresentazione di un unico aspetto del reale, come accadeva ad esempio ai fotografi di moda o di nature morte in studio, ai fotoreporter, o anche agli stessi ‘fotografi d’autore’ tesi a riprodurre delle cose il loro pregiudiziale sentimento estetico, Ghirri comprese che anche “da parte della committenza cominciava ad esserci l’esigenza di trovare all’interno della fotografia persone capaci di relazionarsi col mondo nella sua complessità, con un ambiente nel suo insieme.”85 Da qui parte la sua ricerca come volontà di trovare una nuova ed aperta relazione col mondo in mutazione, in un rapporto che “deve orientarsi, attraverso un lavoro sottile, quasi alchemico, all’individuazione di un punto di equilibrio tra quello che è la nostra interiorità, tra quello che è il mio interno di fotografo-persona, e quello
85
Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 6.
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che sta all’esterno, che vive al di fuori di noi, che continua ad esistere anche senza di noi e continuerà ad esistere anche quando noi avremo finito di fare fotografia.” 86
Molteplici sono le analisi che nel corso degli anni si sono applicate alla fotografia e hanno cercato di definirla, solo per ricordare alcuni dei più insigni studiosi che ad essa si dedicarono: Benjamin che trovò nella fotografia della pescivendola di New Haven “qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche nell’effigie è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte”87; Barthes, che dopo averla definita un “messaggio senza codice”, ne La camera chiara in un certo qual modo la riabilita identificando in essa la duplice azione dello studium, ossia di tutto ciò che va a costituire la dimensione tecnica e appunto studiata del fare una foto, e del punctum, quell’indefinibile particolare che di una fotografia mi punge e a cui non posso applicare nessuna codificata categoria interpretativa; e infine Susan Sontag che nel suo volume Sulla fotografia. Realtà e immagini nella nostra società traccia una delle più brillanti analisi finora compiute sulle modificazioni attuate dalla fotografia nei nostri rapporti col reale. Questi sono ovviamente solo alcuni esempi per dimostrare come questa disciplina sia da sempre stata oggetto di approfondite ricerche che hanno tentato di afferrarne un’essenza che sembra rimanere tuttora imprendibile. E’ forse per questo, per allontanarsi da qualsiasi traditrice definizione e serbare intatto il suo cuore di stupefazione, che per Luigi Ghirri la fotografia non necessita di definizione. Rivivendo lo stupore e l’incantata fascinazione che l’invenzione di Daguerre suscitò e continua a suscitare tuttora nei confronti del mondo, il fotografo nota che “una specie di indicibilità delle parole e una forma di afasia del pensiero sembrano catalogare la fotografia come una immagine impossibile, misteriosamente, enigmaticamente ambigua.”88 E ancora: “Giordano Bruno dice che le immagini ‘sono enigmi che si risolvono col cuore’. A chi mi chiede a volte che cosa sia la fotografia rispondo con questa frase perché, tra le possibili risposte anche pertinenti, ma comunque sempre un po’ parziali e restrittive, questa mi pare che sia, nella sostanza, la più vicina a quello che penso.”89
E’ nelle sue lezioni inedite sulla fotografia che trova ulteriori parole adatte ad essa, confrontandola, in relazione al tempo di fruizione, con pittura e cinema, le arti ad essa più vicine e affini: 86
Ivi, p. 7. Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, (1966¹), 2000, p. 62. 88 Luigi Ghirri, L’enigma fotografia, in Niente di antico sotto il sole, p. 121. 89 L. Ghirri, Il paesaggio impossibile, in Niente di antico sotto il sole, p. 155. 87
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“L’ho sempre vista come una strana sintesi tra la staticità della pittura e la velocità, che è qualcosa di interno alla fotografia, al suo processo di costruzione, cosa che l’avvicina al cinema. Perché io la fotografia la guardo, la osservo dal punto di vista dell’immagine. […] Credo che proprio in questo senso la fotografia sia un’immagine impossibile: risponde al desiderio di rapportarsi con un’immagine che da una parte ha la staticità della pittura, dall’altra il dinamismo del cinema.” 90
La fotografia si pone quindi per Ghirri tra il tempo della pittura e quello del cinema: a questo l’accomuna l’utilizzo di un simile alfabeto visivo, essendo il cinema figlio della fotografia in quanto sequenza di fotogrammi montati con una velocità tale da restituire l’idea di movimento, alla pittura la possibilità di fermare l’immagine per aspirare ad essere ancora una volta mezzo di conoscenza, stasi veicolatrice di una precisa filosofia del mondo. Interessante notare come i rapporti che instaura la fotografia siano principalmente rapporti di tipo dialettico basati su una costante duplicità, connaturata ad essa fin nell’origine della sua doppia essenza, così come per una strana e significativa coincidenza due furono contemporaneamente i suoi inventori, Daguerre e Talbot. L’immagine fotografica infatti, contestualmente riferendosi alla fotografia prima dell’avvento del digitale, è lo sviluppo di un positivo da un negativo, è una porzione di mondo che filtra nel foro di una camera oscura e si imprime nel buio attraverso la luce, la fissazione su carta fotosensibile di un’immagine che aspira alla perfezione del risultato grazie a un costante e necessario equilibrio tra luce e buio. Dialettica evidente inoltre tra ciò che scelgo di contenere nell’inquadratura e ciò che invece rimane fuori, presenza assenza in cui ciò che si vede vive anche grazie a ciò che sta ai margini e ad esso inevitabilmente rimanda. E’ una magia impressiva che può accadere solo in presenza della parte di mondo che voglio ritrarre, è la realtà che pone il suo marchio dando così al risultato un criterio di oggettività che nei fatti oggettiva non è: “noi guardiamo una fotografia, è vero, guardiamo un’immagine, però nella nostra mente, consciamente o inconsciamente, proiettiamo un mondo reale che questa immagine rappresenta. […] C’è un rapporto di singolare analogia con la realtà e, nello stesso tempo, un’evidente differenza dalla realtà.” 91 Ciò che noi vediamo non è la realtà in sé bensì la nostra immagine della realtà, ciò che noi della realtà abbiamo già precedentemente percepito. Come nota la Sontag: “il realismo fotografico può essere definito – e lo è sempre di più – non come ciò che «realmente» c’è, ma come ciò che io «realmente» percepisco.”92 Sta in questo il suo essere così indefinibile, nel suo ambiguo rapporto col mondo che, pur perdendo la sua tridimensionalità per appiattirsi su un foglio 90
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 9. Ibidem. 92 Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, (1977¹), 2004, p. 104. 91
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bidimensionale, sembra conservare i suoi minimi ed essenziali elementi di veridicità quando invece quello che vediamo è il frutto di una nostra proiezione mentale, mia e del fotografo, di ciò che ri-conosciamo come reale. “Una delle grandi convinzioni, delle grandi teorie, soprattutto uno dei grandi miti a proposito della fotografia è l’idea che sia testimonianza di qualcosa che è successo. Testimonianza di quello che ho visto. E’ testimonianza di quello che ho visto ma è anche reinvenzione di quello che ho visto. Sostanzialmente la fotografia non fa altro che rappresentare le percezioni che una persona ha del mondo. In questo punto sono contenuti tutti i rapporti enigmatici, gli elementi misteriosi che sussistono nell’immagine fotografica.” 93
Da ciò consegue facilmente come la fotografia possa aprire nuove possibilità nel vedere, giocando sulle connesse percezioni di chi scatta la foto e di chi la foto la guarda, in una serie aperta di possibilità combinatorie che lasciano spazio ad aperture di senso modellate dalle infinite varianti che il processo mentale può assumere e seguire. Viene in questo modo a cadere l’angustiosa diatriba tra la pittura e la fotografia che avrebbe prevaricato la prima nei filoni del realismo, tanto che alcuni dei primi fotografi videro grazie all’avvento della loro arte la possibilità per la pittura di slegarsi definitivamente dal minuzioso e difficile compito di rappresentazione del reale per dedicarsi totalmente al campo dell’astrazione. A questo proposito nel libro della Sontag troviamo una nota molto interessante ai fini del nostro argomento: in questa si ricorda come a inizio novecento Valéry applicasse questo stesso concetto nel confronto con la scrittura, ritenendo che la fotografia smascherasse “la «illusoria» pretesa del linguaggio di «trasmettere l’idea di un oggetto visivo con un minimo di precisione».” 94 Grazie alla fotografia anche la scrittura secondo Valéry verrebbe finalmente a confronto con i suoi limiti intrinseci e, conscia di ciò, dovrebbe imparare a sfruttare quelle che sono le applicazioni più confacenti alle sue più peculiari caratteristiche: “«Una letteratura si depurerebbe se lasciasse ad altri modi d’espressione i compiti che essi possono svolgere con assai maggiore efficacia e si dedicasse a fini che essa soltanto può perseguire…uno dei quali è il perfezionamento del linguaggio per costruire o esporre pensieri astratti, l’altro l’esplorazione di tutta la varietà dei modelli o delle risonanze poetiche».”95
Esattamente la linea opposta a quella che intraprese Celati dopo il suo incontro con la fotografia, ma questo perché l’arte della riproduzione di immagini nel corso degli anni ha approfondito e moltiplicato le sue modalità di espressione mutando completamente il 93
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 10. S. Sontag, Sulla fotografia, p. 126. 95 Ibidem. 94
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nostro rapporto con la realtà in quanto tale, tanto che ai tempi dei lavori di Ghirri e Celati la necessità fu proprio quella opposta, ossia quella di recuperare contatto con un ambiente che sembra porsi a noi solo dietro l’opaco velo della sua immagine, non più statica ma accelerata secondo modi di fruizione sempre più invasivi e frenetici. E’ la possibilità di fermarsi quella che interessa alle due poetiche qui in gioco, di sostare per un attimo al centro del vorticoso svolgersi degli eventi per guardare da un punto di vista non mediato, che recuperi proprio attraverso l’osservazione una percezione più profonda delle cose stesse. Ghirri crede nella possibilità che la fotografia “possa metterci in relazione con il mondo in una maniera profondamente diversa” 96, non nel senso di un’arrogante pretesa di consegnare una definitiva verità rivelatrice ma come vero e proprio linguaggio argomentativo di ricerca, che assumendo pari dignità nel confronto con i linguaggi più datati e per questo più carichi di legittimità e storia, come ad esempio la narrativa a cui spesso Ghirri ama accostarsi, offra la possibilità di seguire un itinerario nel quale non si trovino affermazioni di universale validità ma le necessarie domande che sono le uniche in grado di porci in un atteggiamento non più passivo bensì di critica dialettica nei confronti del mondo. “Ed io, con la mia storia, ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, con la convinzione di non trovare mai una soluzione alle domande, ma con l’intenzione di continuare a porne. Perché questa mi sembra una forma di risposta.”97
STRATIFICAZIONI DI REALTA’ TRA FOTOGRAFIA E LETTERATURA Più volte nelle sue riflessioni Ghirri lamenta come il mondo di oggi sia coperto da una massiccia stratificazione di immagini che satura la capacità di percezione dell’uomo arrivando a un sovraccarico in cui diventa impossibile riuscire a discernere e a vedere chiaramente. Non credo serva ormai riferirsi alla televisione, agli schermi televisivi che oggi invadono le strade e i luoghi pubblici, le sale d’attesa e i luoghi di ristoro, su cui le immagini scorrono con una velocità di montaggio sempre più accelerata, alla pubblicità che, divenuta oggi invasore mutevole, non conosce più limitazioni di confine ed è in grado d’infilarsi sottovoce tra gli articoli di giornale o di ricoprire urlando enormi palazzi, per capire a cosa Ghirri si stia riferendo quando parla del mondo dell’immagine dove non è più possibile vedere nulla perché tutto è già stato visto: 96 97
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 10. Ibidem.
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“siamo già entrati in una era dello sguardo pornografo, divoratore insaziabile, dove non esiste più nessuna narrazione possibile, proprio perché tutte le narrazioni sono possibili: nemmeno nel mondo dei mondi del filosofo Blumenberg, ma nello spazio in cui non sembra più possibile riattivare il nostro desiderio di cercare una immagine possibile, una immagine che possa produrre su di noi ancora meraviglia e stupore.”98
E’ l’immagine possibile a cui si riferisce Ghirri nel titolo del testo da cui è stato tratto questo stralcio, Pensando a un’immagine necessaria, quella che lui persegue nel suo lavoro: un’immagine chiara e pulita, dai colori tenui, vivi e diretti, priva di eccessi, che con la sua semplice essenza e immediatezza recuperi il senso delle cose, risvegliando l’incanto che sta nelle cose stesse senza bisogno di imposizioni esterne di significato. “Il mio tentativo di vedere ogni cosa che è già stata vista, e di osservarla come se la guardassi per la prima volta, può apparire pretestuoso e utopistico. Ma attualmente è questo che mi interessa maggiormente.”99 Ritrovare la purezza dello sguardo diretto in un mondo in cui la fotografia ha assunto un ruolo così fondamentale che ormai è normale sentir dire di un luogo, che sia un paesaggio, un monumento o una situazione creata da una felice congiuntura di elementi umani e non, nel tempo e nello spazio: “Sembra proprio una fotografia”, in una totale confusione di piani tra il reale e la sua riproduzione. Oggi la realtà viene ad assumere valore proprio perché “E’ da fotografare”. Come nota ancora una volta con la sua semplice e profonda chiarezza espositiva la Sontag: “E’ abituale che coloro che hanno visto qualcosa di bello si dicano dispiaciuti di non aver potuto fotografarlo. E il successo della macchina fotografica nell’abbellire il mondo è stato tale che ora sono le fotografie, e non il mondo, il modello della bellezza.” 100 Ad uno sguardo reso onnivoro di immagini i canoni della bellezza sono mutati per creare una prospettiva che guarda il mondo in base all’opportunità di racchiuderlo o meno nel formato della pellicola. Se questo ha portato e porta tuttora, specie dopo l’avvento del digitale che ha costituito una nuova ondata di voracità visiva, una nuova attenzione nei confronti di tutto ciò che sta fuori di noi, una voglia di imprimere per fissare attimi ma soprattutto sguardi che senza la prova tangibile della loro esistenza, del loro essere stato (come abbiamo già osservato la grande differenza e novità della fotografia sta proprio nella possibilità di dire del suo soggetto che «è stato», fungendo così da testimonianza di verità) sembra quasi che vengano a mancare della loro ragion d’essere. Ma questo comporta anche un contro98
L. Ghirri, Pensando a una immagine necessaria, in Niente di antico sotto il sole, p. 117-118. L. Ghirri, Still-life. Topografia-Iconografia, in Niente di antico sotto il sole, p. 47. 100 S. Sontag, Sulla fotografia, p. 74. 99
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effetto, ossia una svalutazione intrinseca della realtà in quanto già corrosa nella sua intatta bellezza da troppi sguardi: “Le fotografie creano il bello e – dopo alcune generazioni di fotografi – lo consumano. Certe meraviglie della natura, per esempio, sono state praticamente abbandonate dalle infaticabili attenzioni dei fanatici della macchina fotografica. Sazi di immagini, rischiano di trovare stucchevoli i tramonti: disgraziatamente assomigliano ormai troppo a fotografie.” 101
E’ per questo che la visione di Ghirri si attesta sui toni di un reale privo di sgargianti cromatismi e vedute sensazionali, per questo che Ghirri non cerca di rendere bello ciò che fotografa, anche se la sua pulizia nell’inquadratura e la sua apparente semplicità formale lo rendono inevitabilmente bello, per questo che si dichiara lontano da qualsiasi pretesa di volontà estetica. Ghirri fotografa a colori perché la realtà è a colori. In uno dei suoi scritti (ma è una figura che incontriamo anche altrove nei suoi testi) il fotografo, che ama ricorrere a citazioni provenienti dal campo della letteratura, a un diverso tipo di immagini rispetto a quelle che lo contraddistinguono ma che al pari di queste aiutano il pensiero ad aprirsi alla sua ricchezza, ricorda la leggenda di Re Mida, il mitologico re condannato a trasformare in oro tutto ciò che tocca per aver rifiutato l’amore di una fata. La punizione solo apparentemente vantaggiosa condanna il re a una disperata solitudine, nell’impossibilità anche solo di sfiorare la donna amata, e il suo lamento si esplica in queste parole riportate da Ghirri e seguite dalla sua personale riflessione: “«La mia vita possiede soltanto istanti e questi istanti rappresentano qualcosa soltanto perché io aspetto che da essi prenda forma la vita. Ma il giorno della mia vita non giunge mai. Per me le cose e gli uomini sono soltanto belli; alla mia vita fu concessa soltanto la vista, niente può avere parte in niente. La mia vita è come una statua d’oro, è separata da tutto, non ha passato e non ha futuro…» 102 […] Il campionario per una archeologia del futuro, della nostra epoca, è diventato uno strato opaco e denso di immagini, che si sovrappongono alla realtà, e a se stesse, in maniera tale da rendere difficile leggere qualcosa. Come a Mida non era possibile avvicinare la realtà perché tutto si trasformava, così oggi la realtà si è già tutta trasformata.”103
L’invenzione di Daguerre ha donato all’uomo la possibilità di aggiungere al suo sguardo la mediazione di un altro sguardo così che la percezione del mondo è divenuta quella che viene definita da Ghirri del “doppio sguardo”: lo sguardo sull’immagine del mondo è lo 101
Ibidem. G. Cavaglia, La vita e le forme, in «Rivista di estetica», n.5, 1980, Rosenberg e Sellier Editori, Torino, in L. Ghirri, Re Mida nel vicolo cieco, in Niente di antico sotto il sole, p. 44. 103 L. Ghirri, Re Mida nel vicolo cieco, in Niente di antico sotto il sole, p. 44. 102
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sguardo su un precedente sguardo, che invece di scartare il velo di Maya posto sulla realtà rischia di renderla sempre più imprendibile e opaca. Giunti all’apice di un progresso tecnico che sembra illimitato poiché la sua vetta si allontana sempre più divenendo sottilmente imprendibile, a proposito dell’invadente e ossessionante mania per la precisione e la perfezione, che in ambito fotografico allora contraddistingueva soprattutto la fotografia americana, Ghirri cita spesso le secolari parole dal Cimbelino di Shakespeare per definire il rischio in cui incorre l’uomo d’oggi: “«Che ironia della sorte, avere una vista così buona e gettarsi in un vicolo cieco».” 104 Per non rischiare di finire in questo vicolo cieco e perdere contatto con la realtà e i suoi colori, per evitare di diventare come il personaggio di Pessoa, le cui parole Ghirri parimenti usa riportare: “Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che sfioriscano. Sì, una volta io appartenevo a questo luogo; oggi, ad ogni paesaggio per me nuovo ritorno straniero, ospite e pellegrino della sua presentazione, forestiero di ciò che vedo e sento, vecchio di me. Ho già visto tutto, perfino ciò che non ho mai visto e ciò che non vedrò mai. Nel mio sangue scorre perfino il più infimo dei paesaggi futuri e l’angoscia di ciò che dovrò vedere di nuovo è per me una monotonia anticipata.”105
Come antidoto a questo pericolo Ghirri propone una poetica della semplice meraviglia e ciò che stupisce è che la strada per questo recupero di un rapporto vero con la realtà sia da lui percorsa proprio con il mezzo che dalla realtà oggi sembra inesorabilmente allontanarci: la fotografia. Nella prima metà degli anni settanta, ossia all’inizio della sua professionale ricerca tramite il mezzo fotografico, Ghirri decide di esplorare il mondo della contemporaneità proprio attraverso le immagini che i luoghi pubblici espongono allo sguardo: manifesti e cartelli pubblicitari, vetrine, ritagli di giornale e le stesse fotografie. E’ una ricerca che dura anni e che diverrà prima una mostra dal titolo Paesaggi di cartone, la quale nell’antologia dedicata a Luigi Ghirri e che da lui trae il suo nome viene definita come “la prima ricerca organica sul tema delle immagini come sostituto della realtà”, e che poi, con l’unica aggiunta di una foto più tarda, del 1978, la stessa che abbiamo già ricordato ritrarre proprio il Pensare per immagini come titolo stagliato su un articolo di giornale, verrà ridenominata da Ghirri stesso Kodachrome, dal nome di un famoso tipo di pellicola. Tassello fondamentale per il suo profondo sguardo indagatore dei nuovi rapporti che l’uomo intesse con il reale, Ghirri parla così di questa ricerca, ricerca che ha continuato ad impegnarlo per 104 105
L. Ghirri, Mondi senza fine. Su William Eggleston, in Niente di antico sotto il sole, p. 49. In L. Ghirri, Pensando a una immagine necessaria, in Niente di antico sotto il sole, p. 120.
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anni nel tipico approfondimento che sempre caratterizza il suo modo di rapportarsi al fare fotografia, in una continua evoluzione tecnica e semantica sempre priva di risoluzione definitiva: “si trattava, soprattutto, di un’analisi delle immagini di fruizione pubblica, visibili lungo la strada, dentro i negozi, sui cartelloni pubblicitari. Negli anni, le avevo come scomposte […] sicuramente alludendo al meccanismo del fotomontaggio, ma con una precisa attenzione nei confronti di un problema particolare, di una relazione specifica: quella dell’immagine che diventa realtà, della realtà che diventa immagine, per cui l’immagine all’interno della realtà diventava fotomontaggio della realtà. Era un gioco di specchi e di parole.”106
Quella che si offre al nostro sguardo non è più la realtà in quanto tale bensì il nostro pensiero su una realtà mediata da un’incredibile sovrapposizione di immagini: un tramonto su un mare straniero o il profilo di alte catene montuose, solo per fare due banali esempi, possono stupire con la loro bellezza maestosa ma rimandano inevitabilmente a delle foto già viste. Oggi siamo già stati ovunque grazie ai cataloghi delle agenzie di viaggio. Ghirri ce lo mostra perché oggetto delle sue fotografie non è la realtà stessa ma il nostro sguardo sulla realtà, le cose non come sono ma così come noi le guardiamo. Oggetto delle sue fotografie è la fotografia stessa. “La fotografia della fotografia diventa momento di coincidenza speculare, e le due immagini si eliminano a vicenda, richiamando così la fisicità del mondo di partenza.”107 Le porzioni di mondo ritratte su un poster appeso a un muro danno un effetto di realtà che solo l’increspatura sulla carta permette di riconoscere come immagine, causando così un corto circuito tra finzione e realtà che ci permette di riconoscere i confini tra le due e la loro attuale commistione. L’interazione tra gli oggetti veri e le immagini dà l’effetto di un montaggio, non creato ma trovato: “le prime volte che esponevo queste fotografie, tutti mi chiedevano se erano dei fotomontaggi. Invece erano dei fotomontaggi già esistenti nella realtà. L’osservazione era giusta, perché la pratica di fotomontare la realtà mi appartiene, ma nel senso che cerco il fotomontaggio nella realtà. La realtà è diventata un colossale fotomontaggio. Oggetti diversi si sovrappongono in relazioni complesse, che richiamano la tecnica e la pratica del fotomontaggio classico, riproponendone il tipico meccanismo di spiazzamento rispetto alle attese.”108
Quello che sembra un pezzo di mare azzurro reca in sé i segni del timbro delle affissioni [fig. 3], una donna nell’androne di un palazzo a ben guardare è un cartone bidimensionale 106
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 27. L. Ghirri, Kodachrome (1970-1978), in Niente di antico sotto il sole, p. 21. 108 L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 28. 107
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a dimensioni naturali e tiene in mano proprio una macchina fotografica [fig. 4], un uomo in costume su una strada di città è l’immagine di una vetrina su cui si riflette la strada che sta dietro di noi rispetto al nostro punto di vista. L’effetto per chi guarda è proprio quello dello straniamento, ottenuto con la volontà di restituire la realtà a 360 gradi in cui siamo comunemente immersi, in una visione che comprende ciò che abbiamo davanti ma anche ciò che sta alle nostre spalle, la resa di un sentimento di tridimensionalità attraverso la bidimensionalità di una fotografia: “Se vi fermate davanti a una vetrina, vedete gli oggetti attraverso il vetro ma vedete anche il riflesso di voi stessi e di quello che avete alle spalle. Allora questo rapporto così strano, così inquietante e per certi versi fuorviante che si instaura tra me, l’oggetto che guardavo e la realtà che avevo alle spalle, cioè con le superfici specchianti o pseudo trasparenti, è diventato per un certo periodo la mia cifra espressiva, o quantomeno una cosa che ero molto spinto ad indagare.”109
Nel lavoro successivo, Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-1979), titolo che fa riferimento alle tipiche impostazioni della macchina fotografica nell’uso amatoriale, Ghirri pone l’accento proprio sull’atto stesso del guardare, fotografando persone di spalle volte ad osservare dipinti in un museo o manifesti [fig. 5], oppure uomini e donne mentre camminano o aspettano, colti di fronte o di lato o ancora di spalle ma sempre davanti all’immagine di un grande manifesto che spesso ritrae altri volti: persone in carne ed ossa sono poste di fronte a persone di carta e i loro occhi ci scrutano molto più di quanto non facciano gli uomini reali. “Ho fotografato molte persone di spalle, mentre osservano immagini, piante di città, carte con itinerari; in questo come in molte altre ho voluto dare della persona un infinito numero di possibili identità, dalla mia mentre fotografo, a quella ultima: quella dell’osservatore.”110 Lungi dal voler spiare o catturare Ghirri si pone sullo stesso piano dei soggetti che fotografa, quello dell’osservatore, in una totale commistione di ruoli dove il fine è quello di comporre un’immagine leggibile, in cui sia finalmente possibile per l’uomo riconoscere se stesso e se stesso in rapporto al suo ambiente. Come dice a proposito del suo lavoro In scala (1977-1978), interessante viaggio attraverso il parco dell’Italia in miniatura di Rimini, dove i monumenti e i paesaggi ricostruiti in miniatura confondono completamente i piani della realtà e della sua riproduzione, dove i rimandi ai luoghi reali sono così verosimili che solo i cespugli di fiori o le indicazioni della costruzione riprodotta segnalate dai cartelli o le persone che compaiono in alcune delle immagini sono in grado di riportare le miniature alla loro reale dimensione: 109 110
Ivi, p. 27. L. Ghirri, Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-1979), in Niente di antico sotto il sole, p. 29.
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“E’ forse in questo spazio di totale finzione che si cela il vero; è qui e solo qui che vedendo San Pietro non sommiamo le immagini mentali, ma riandiamo alla percezione avvenuta nella realtà. […] In questa colossale olografia dell’oleografia, possiamo misurare lo spessore dei nostri miraggi, e se le ombre si proiettano sul Palazzo Vecchio, così il reale si proietta sul suo doppio smascherandolo. La maschera è troppo dichiarata per non potere essere tolta e impedire di vedere il volto.”111
E’ ricostruendo l’immagine delle immagini che Ghirri svela l’opacità della finzione che si è posata sul reale e in questo modo ce lo restituisce, continuando tuttavia a credere con ferma consapevolezza che la realtà sia “complessa e articolata e non riducibile”. 112 Quello che lui ci offre è solo uno dei possibili sguardi: “L’immagine che si completa alla fine, non diventa soluzione dell’enigma, perché lo stesso puzzle ricomposto viene rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da collocare.” 113 Ghirri cerca di ricomporre un’immagine districandola dal groviglio di immagini sovrapposte alla realtà ma il suo non è un intervento che va ad incidere in maniera forzatamente costrittiva nel reale: le sue fotografie non sono costruite tramite limpide e geometriche composizioni che risulterebbero una sovrastruttura inevitabilmente artificiale, ma sono ritrovate nel reale stesso. Quella che lui sviluppa è una vera e propria narrazione, una ricerca che si snoda per tutto l’arco della sua carriera tesa a raccontare una delle tante possibili storie che con la loro trama intessono il mondo. Tutti i suoi lavori si compongono per sequenze di fotografie che hanno sì valore in sé ma acquistano la loro vera pienezza quando sono inserite all’interno di una sequenza che configura la narrazione elaborata per tutta la ricerca in sé contingente. “Io ho cercato di progettare interi lavori, e costruire lavori interi, o progetti, significava pensare ad una forma di narrazioni per immagini anziché alla costruzione di singole immagini.”114 Slegato da logiche di mercato che vorrebbero comprendere tra gli obiettivi principali della creazione la possibilità della vendita dell’opera d’arte come unità singola, Ghirri concepisce la sua opera come un tutto, tanto che afferma: “Quando fotografo non penso alla fotografia come oggetto a sé stante, come fotografia nel senso concreto del termine, cerco di vederla inserita in un contesto. Per me è il libro l’esito finale della comunicazione.”115 Nelle sue raccolte inoltre spesso ritroviamo fotografie che appartenevano a precedenti ricerche: vengono ricollocate perchè funzionali alla creazione
111
L. Ghirri, In scala, in Niente di antico sotto il sole, p. 37. L. Ghirri, Vedute (1970-1979), in Niente di antico sotto il sole, p.34. 113 Ibidem. 114 L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 11. 115 L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 30. 112
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del nuovo racconto, perché un diverso contesto offre loro la possibilità di una risemantizzazione e di una nuova interpretazione. Per Ghirri la narrazione resta fondamentale sia nel momento dell’ideazione che in quello della fruizione, tanto che anche nei lavori dove questo sentimento sembrerebbe non essere l’aspetto preponderante del progetto, come in Vedute (1970-1979), dove i campi d’attenzione sono molteplici, lui stesso tiene a sottolineare la sua presenza come forza sottesa all’opera: “In questo mio lavoro non vi è una narrazione evidente come per altre serie, ma ritengo che la narrazione esista comunque. A questo proposito credo sia impossibile sfuggire alla narrazione, anche quando questa sembra essere totalmente negata e l’oggetto si identifica o crede con se stesso. Nel momento in cui fotografo sono inevitabilmente dentro alla narrazione in quanto individuo che è dentro la storia, storicità che nel momento in cui vivo non posso negare.”116
E’ per rimanere fedele a queste imprescindibili premesse del suo sentire, a una percezione della vita come storia giocata nel teatro del reale, dove il palcoscenico su cui recitiamo si è ormai confuso con la platea da cui guardiamo, che lui non fa che rintracciare i modi di visione già insiti nello spazio. La sua fotografia ci mostra i luoghi dove viviamo e il modo in cui li guardiamo e, per render chiaro il suo compito di visione mediata, di immagine che sovrapponendosi all’immagine svela la parete di fondo e quelle ai lati, le corde, le scale e tutti gli attrezzi e i meccanismi che sostengono questa fantomatica rappresentazione della vita, scruta attraverso le prospettive che si aprono naturalmente al di là di un cancello aperto nel mezzo di una pianura [fig. 6], attraverso le inquadrature naturali che immettono la visione nell’oltre come le finestre, le quinte naturali come quelle create dalle due grandi palme che incorniciano la panchina sulla spiaggia in riva al mare o le simmetriche tende di due identiche saracinesche. “Ritengo fondamentale la semplicità nel rapportarsi con il soggetto, quindi anche nella costruzione della rappresentazione. Uso abbastanza spesso degli schemi, o perlomeno degli escamotage come questo dell’inserimento di quinte, cercando nella realtà quadri che appaiono come scenografie già costruite, che esprimono la sintesi, il processo di inclusione e di scarto.”117
Dovendo per necessità inquadrare il reale operando un taglio selettivo, Ghirri lo fa nel massimo rispetto delle cose armonizzandosi alle prospettive offerte da loro stesse, cercando così una semplicità di visione e una limpida purezza di risultato. Ne Il profilo 116 117
Ivi, p. 34. Ivi, p. 24.
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delle nuvole Celati parla di questa peculiarità della visione di Ghirri che in quest’opera trova particolare compimento, solo per fare alcuni esempi, nelle due testate del letto che inaugura la serie delle immagini, nei piloni che si aprono sulla campagna, nelle pareti dei palazzi che chiudono e al contempo aprono la prospettiva su una piazza, nelle colonne che incorniciano i tavolini di un bar, nelle porte che schiudono altre porte in lontananza, nelle strade che tagliano in due i campi in una linea che si perde nel centro infinito dell’orizzonte: “Questo dunque non è un documentario fotografico sulla situazione storica d’un paesaggio italiano, ma piuttosto sui modi di guardare già previsti in un paesaggio e sulle loro risonanze affettive. E’ un album delle cose che si possono vedere, indicate nel modo in cui chiedono d’esser viste.” 118
Questo modo fa appello alle nostre comuni forme di visione che rimandano al tessuto di stimoli, di informazioni, di abitudini nel quale viviamo immersi. E’ la storicità intrinseca da cui non si può sfuggire a cui faceva prima riferimento Ghirri, un sentire che si manifesta come un inconscio collettivo che senza manifestazione palese funge da guida per le nostre percezioni. A differenza di quanto accadeva nel passato, quando la fruizione delle immagini era molto più limitata e specifica, oggi siamo sottoposti a un’enorme quantità di stimolazioni visive che, se anche non si imprimono in noi con la forza di un ricordo cosciente, rimangono tuttavia nel terreno che genera i nostri pensieri e le nostre modalità di approccio all’esterno. “Anche quando si parla di cinema, di fotografia, di pittura, capita di parlare della sensazione di dejà vu, cioè di già visto, che di per sé non è da considerare dispregiativo ma piuttosto richiama un contatto con l’inconscio collettivo, con l’immaginario di altri che sembra inevitabilmente affacciarsi alla nostra quotidianità, nelle immagini che vediamo, nel cinema che vediamo, e che rimane dentro di noi. Questo è un po’ il carattere di dejà vu che circola attualmente in tutti i linguaggi artistici.”119
Anche se il riferimento specifico è ai linguaggi che utilizzano l’immagine come veicolo espressivo, per Ghirri questa è una cifra che caratterizza tutte le arti e che secondo me trova particolare consonanza nel “sentito dire” da cui nascono le storie per Celati e negli studi che lo scrittore si trovava ad affrontare proprio negli anni precedenti a quello in cui conobbe l’amico fotografo. Per approfondire meglio l’aspetto di questa comune consonanza vediamo quindi come Celati illustra la genesi di Narratori delle pianure, uno dei libri che più si vorrebbero scritti sotto l’influsso della pratica fotografica. 118 119
G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 182. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 23.
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Nella già citata conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa lo scrittore racconta di aver passato nel 1979 un periodo a Los Angeles durante il quale si appassionò agli allora in voga studi di sociologi quali quelli di Harvey Sacks e Livia Polany, che si era ispirata a sua volta alle ricerche di Goffman e von Uexküll. Sia Sacks che Polany si occupavano “delle regole implicite nelle conversazioni e nei racconti quotidiani”120, identificando i presupposti parametri inconsci che guidano il parlare. Altro importante studio quello di William Labov che si concentrò sul caso specifico delle dinamiche di linguaggio inerenti il ghetto nero di Chicago. “Di Labov in particolare mi colpiva uno studio linguistico sul modo di raccontare le storie nel ghetto, e su come i ragazzi del ghetto che vanno a studiare al college, dopo non sanno più raccontare nel modo agile e disinvolto della tradizione; perché cominciano a voler spiegare tutto e disprezzano la superficialità dei racconti.”121
Questi studi coinvolsero Celati tanto che una volta tornato in Italia pensò di poter abbandonare la letteratura per dedicarsi completamente a queste ricerche. E’ a questo punto che si inserisce l’incontro con Ghirri e l’inizio dell’esplorazione delle campagne intorno al Po, durante le quali lo scrittore inizia, secondo la lezione, appresa ad annotare i racconti e le chiacchiere sentiti nei bar. E’ dagli appunti raccolti durante le girovagazioni con il gruppo di fotografi di Viaggio in Italia che Celati elabora un modo nuovo di fare letteratura, coniugando l’osservazione dell’esterno con l’ascolto e i suoi recenti studi sociologi. “Narratori era un esperimento di questo tipo: prendere alcuni fatti del sentito dire e usarli come materiale immaginativo, restando al livello minimo dello scambio verbale nei racconti quotidiani.”122 Narratori delle pianure nasce come un esperimento: un limite di mezzora di tempo per scrivere ogni storia, partendo dalla base degli appunti scritti. E’ così che il racconto nasce in maniera naturale, recando in sé le tracce della terra che l’ha generato. Un tipo di racconto in cui le spiegazioni rimangono fuori dal gioco perché non sono quelle in gioco: ciò che conta è l’arte affabulatoria in sé, vera protagonista di queste storie è l’arte del narrare. “Ho sentito raccontare…” “Racconterò la storia…” “Salivano in treno…” “Questa è la storia…” “Quando era a Los Angeles, il narratore di questa storia…” sono questi gli incipit dei primi cinque racconti: la cosa che più preme al narratore è di far sapere al suo lettore che si tratta di una storia, di una storia raccontata, e nell’unico inizio tra questi riportati in cui non compaiono termini che fanno riferimento 120
G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa, in «Riga», p. 33. Ibidem. 122 Ibidem. 121
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all’area semantica del “racconto” il primo vocabolo, che è un verbo all’imperfetto, porta il lettore immediatamente dentro un contesto da fiaba, con il richiamo a un’abitudine dei due protagonisti che diventa subito partecipata. Questo modo di procedere non rimane confinato all’esperienza dei Narratori ma sarà una modalità caratteristica del discorso anche nei libri seguenti. In Quattro novelle sulle apparenze la terza persona del racconto si interseca con la prima persona dell’io narrante: “Racconterò la storia di come Baratto…” è l’inizio della storia di Baratto, in consonanza con i racconti della precedente raccolta; in Condizioni di luce sulla via Emilia chi parla racconta in prima persona del suo incontro con il dipintore di insegne Emanuele Menini: “Io e Luciano Capelli abbiamo incontrato molte volte il dipintore d’insegne Emanuele Menini, e molte volte abbiamo ascoltato i suoi pensieri sulla condizione delle cose lungo la strada dove abitava, la via Emilia.” 123 Nello svolgersi della narrazione si rivela che Luciano è un fotografo e l’io narrante uno scrittore e che questo scritto è in realtà la risposta ad una richiesta del dipintore stesso: “«Allora tu sei uno che scrive. Bravo! Io sarò contento se scriverai quello che dico, così il mio fiato va meno sprecato.»”124 Si noti come Menini non usi il termine scrittore, ma si riferisca all’amico con il sintagma “uno che scrive”: la scrittura a cui qui si fa appello non è la pomposa e magniloquente produttrice di imperitura Letteratura destinata ad importanti vendite ma un fare che si presta ad esser portavoce dei minimi effetti quotidiani che agiscono nello scorrere del tempo. “Sono uno che scrive” 125 è inoltre proprio la decisa definizione che Celati darà di sé in Verso la foce in risposta alla ragazza che, vedendolo prendere appunti, gli aveva chiesto se fosse uno scrittore. I lettori di libri sono sempre più falsi mantiene per tutta la sua durata l’uso della terza persona in un racconto in cui protagonista è “Uno studente di letteratura venuto a Milano per seguire i corsi di letteratura all’università, ha cercato a lungo di comprendere cosa vogliano dire i libri, e cosa vogliano dire i professori che parlano di libri e di letteratura.” 126 Mirabolante riflessione sul significato del fare letteratura in rapporto al vuoto accademismo delle aule universitarie, all’inconsistente vacuità dei venditori di libri porta a porta, alle vorticanti riflessioni di critici per cui la stroncatura diventa l’unico mezzo per catturare l’attenzione intorno a un corredo di parole insensate, questo racconto assume valore programmatico per quello che è il senso della scrittura stessa secondo Celati e che raggiunge la sua vetta nel finale in cui vengono riportate le vertiginose dichiarazioni di “un vecchio scrittore che scrive libri oscuri e di poco successo”: 123
G. Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 39. Ivi, p. 43. 125 G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano, (1989¹), 1992, p. 34. 126 Ivi, p. 63. 124
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“«Tutto ciò che si scrive è già polvere nel momento stesso in cui viene scritto, ed è giusto che vada a disperdersi con le altre polveri e ceneri del mondo. Scrivere è un modo di consumare il tempo, rendendogli l’omaggio che gli è dovuto: lui dà e toglie, e quello che dà è solo quello che toglie, così la sua somma è sempre lo zero, l’insostanziale. Noi chiediamo di poter celebrare questo insostanziale, e il vuoto, l’ombra, l’erba secca le pietre dei muri che crollano e la polvere che respiriamo.»”127
Dove il riferimento esplicito va a Rilke: “Noi siamo qui solo per dire roccia, luna, cielo, neve, vento, albero, al massimo acqua, terra o canyon.” 128, citazione estrapolata ancora una volta dagli scritti di Ghirri: è la poetica ormai comune a entrambi dell’attenzione agli elementi minimi, dove tutto ciò che è oggi trascurato dallo sguardo viene recuperato nella sua naturale purezza d’essere. Continuando poi con il racconto che chiude la raccolta, Scomparsa d’un uomo lodevole, vediamo che in esso ritorna l’io narrante ma ritorna anche la mediazione della scrittura: “Appena a casa ho cominciato a stendere questo memoriale”129, tranne per il fatto che nella parte finale il racconto è chiuso da un anonimo narratore che conduce il protagonista nel suo viaggio finale, quando, divenuto il personaggio di un’altra storia, si incamminerà tenendo nella mano la sua non più giovane segretaria verso delle montagne innevate, nell’esatta coincidenza con quella che è la foto di copertina, ancora una volta scattata da Luigi Ghirri [fig. 7]. Il narratore assume in perfetta sovrapposizione lo stesso ruolo di osservatore del fotografo. La centralità della narrazione continua ad avere un ruolo fondamentale anche nel successivo Cinema naturale, ma questa volta essa stessa diventa unificante elemento narrativo per i personaggi dei vari racconti, vediamo come. Nel primo di questi “Un personaggio di nome Giovanni, che conosco benissimo, qui racconta come è sbarcato in America la prima volta, ai tempi della sua giovinezza. […] impaziente di scrivere la lettera per raccontare le sue esperienze, anche se non sapeva a chi dovesse scriverla.” 130, la terza persona chiamata in causa tuttavia stride con la prima persona del titolo del racconto: Come sono sbarcato in America. Quello che si effettua è un corto circuito tra il personaggio che agisce e il narratore Celati che qui sembra sbeffeggiare il suo soggiorno in America e la febbrile voglia di scrivere che diventa appunto il tema centrale: ogni esperienza è vissuta non in maniera diretta bensì con lo sguardo esterno di chi aspira a riportare poi l’esperienza nella scrittura. Durante tutto lo scorrere della vicenda questo 127
Ivi, p. 95. Cit. da L. Ghirri, Mondo Adams, in Niente di antico sotto il sole, p. 112. 129 G. Celati, Scomparsa d’un uomo lodevole, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 100. 130 G. Celati, Cinema naturale, Feltrinelli, Milano, (2001¹), 2003, p. 7. 128
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desiderio verrà continuamente frustrato (“però le macchine da scrivere americane non hanno i tasti disposti come le nostre, e Giovanni si è subito confuso. Doveva cercare ogni lettera per un bel pezzo sulla tastiera, e lo innervosiva il fatto che per scrivere una frase sulle sue esperienze ci volesse mezzora.”131) e alla fine completamente vanificato dai molteplici racconti fatti in viva voce ai professori d’italiano incontrati, tanto che la lettera da spedire a casa si riduce ad un semplice telegramma: “Sono arrivato”. Ciò che emerge qui è l’importanza della lingua madre come parte fondamentale del proprio essere, tanto che senza la possibilità d’espressione Giovanni si sente incompleto e pone un filtro tra sé e la sua esperienza, il bisogno di fissare per trasferire e dare senso, dove non è la scrittura che conta ma la volontà di intessere e mantenere una relazione con l’esterno. Ne Il paralitico del deserto i quattro infermieri protagonisti di tante egocentriche bravate trovano un perfetto compimento del piacere nel momento del racconto delle loro imprese, che siano di vino, di cibo o di donne: ad esempio l’orgia settimanalmente organizzata con le mogli di importanti medici dell’ospedale in cui lavorano “diventava ancora più eccitante quando si trattava di raccontarla ad altri”132. E’ il riflesso di se stessi negli altri ciò che forma l’illusione di essere qualcuno, come si accorge l’infermiere Bugli che negli ultimi tempi “aveva letto troppi libri”: “«Va bene, io mi sento un maschio coi fiocchi perché la moglie del primario ci stava. Ma guarda laggiù nell’acqua, vedi il ponte riflesso? Mettiamo che domani è nuvolo e tu non vedi più il ponte riflesso. Quel ponte lì è una cosa diversa da quando non c’è nessun ponte riflesso nell’acqua?»”133 Il ponte rimane lo stesso anche senza il suo riflesso, ma il paragone delle imprese degli infermieri non va al ponte bensì al suo riflesso: sono i racconti a conferire un’apparenza di sostanza al niente che in realtà ci costituisce. Gli esempi continuano con Alida che Nella nebbia e nel sonno racconta la sua storia al paziente vicino, amico del narratore, in lunghe e soporifere chiacchierate domestiche che diventano ossessionanti cronache telefoniche una volta che i due si trasferiscono in città diverse. Il racconto qui assume ulteriori mediazioni: il narratore scrive ciò che un amico gli ha raccontato e ciò che ha ascoltato dalle registrazioni delle telefonate di Alida. Nel Poema pastorale il detenuto Da Ponte scrive il poema della sua infanzia che legge celatamente agli altri detenuti perché “scriverlo senza poterlo leggere a nessuno gli dava fastidio”134. E’ un diario invece quello che tiene Enrico il biondo nella Novella dei due studenti, un racconto donato agli amici quello della ragazza che compare come personaggio in Non c’è più paradiso. Ancora Notizie ai naviganti (titolo che per altro 131
Ivi, p. 13. Ivi, p. 24. 133 Ivi, p. 26. 134 Ivi, p. 64. 132
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assuona incredibilmente con Il bollettino ai naviganti di Ghirri) è la storia che parla di un dottore che ha udito delle voci e decide a un certo punto di “scrivere il racconto di quello che gli era successo nell’ultimo anno.”135 La Storia della modella è invece forse l’unico racconto dove preponderante è la prima persona del personaggio che racconta a un anonimo interlocutore, la cui esistenza si palesa attraverso le molteplici domande che scandiscono il procedere della narrazione (“Ma com’era?” “Ma investigare cosa?” “Di chi?” “I Fuzzi?” … ), la storia a cui ha assistito con il suo partecipe non coinvolgimento. La scrittura in quanto tale sembrerebbe assente non fosse per il particolare del verbale che l’assicuratore Baruch deve compilare al fine di verificare le reali cause della perdita di successo della modella che a un certo punto della sua vita è improvvisamente “scoppiata”: la vicenda si snoda tra continui andirivieni nel tempo in un presente scandito dalle interviste di Baruch finalizzate alla redazione del verbale deputato a decidere di un destino. La raccolta si chiude infine con le avventure in Africa di Cevenini e Ridolfi, scritte da Cevenini “per far sapere a quelli del loro bar come erano andate le cose. Dopo si vede che Cevenini non s’è l’è più sentita di raccontare altro, perché trovandosi senza il suo amico, non gli veniva più l’ispirazione.”136 Da questa lunga carrellata si nota come nei libri che più sembrerebbero risentire del contatto con i lavori di Ghirri, escluso Verso la foce che merita un discorso a parte, l’oggetto principale del discorso sia la narrazione, sotto forma di affabulazione implicita in Narratori delle pianure e mediata o finalizzata alla scrittura in buona parte dei racconti delle altre due raccolte. Si potrebbe anche aggiungere che in molti di questi racconti i personaggi trovano compimento come persone solo nella possibilità di raccontare o raccontarsi, un caso fra tutti quello di Baratto che suscita col suo silenzio i racconti di vita di vicini e conoscenti che, grazie a questo sovvertimento delle abitudini naturali, ritrovano una forma di socialità partecipe. Ed è a questa socialità partecipe che si fa riferimento col mettere in scena l’arte del racconto: la volontà di riaffondare nel tessuto comune di storie che ci costituisce ancora oggi senza che ce ne rendiamo nemmeno conto, perché se la vera arte del racconto è morta, come presuppone Benjamin, la volontà di raccontarsi e raccontare permane come scambio che intesse i rapporti sociali e va a costituire il “sentito dire” da cui Celati trae le sue storie, come moderno cantore del vuoto che ci circonda. Con il “Si racconta che…” lui pone una cornice ai suoi racconti, esattamente come Ghirri quando sceglie di inquadrare una porzione di mondo negli stretti confini della sua macchina 24 x 36 o nell’istantanea di una polaroid. E come Ghirri riprende immagini di 135 136
Ivi, p. 129. Ivi, p. 197.
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immagini ponendoci di fronte all’immaginario iconografico che modula la nostra percezione del mondo, così Celati fa racconti di racconti. Per entrambi la volontà è quella di svelare il meccanismo che regola la finzione per sondare il reale nella sua profonda essenza, senza tuttavia mai giungere a quel nucleo che rimane e deve rimanere insondabile. Non ci sono giudizi di valore, non ci sono finalità rivelatorie, non ci sono volontà estetiche ma solo le cose “così come sono”. Come racconta Celati nei suoi Commenti su un teatro naturale delle immagini, a chi osservava che le foto di Ghirri erano simili “a tante altre scattate per abitudine”, attraverso un’inquadratura che riprende l’ovvietà nel modo più ovvio, in una visione quasi sempre frontale che è quella che richiedono le cose stesse per esser meglio guardate, “Ghirri rispondeva che lui cerca di aderire al modo in cui le cose prevedono d’esser guardate, ma questo modo appartiene in qualche misura alle abitudini degli abitanti d’un luogo. Diceva che non gli interessava certo smascherare l’ovvietà, quanto piuttosto trovare comuni elementi affettivi. Del resto, aggiungo io, il mondo osservato non è quello che appare attraverso il punto di vista d’un individuo singolo. E’ quello che, prima di lui, è già comune alle varie osservazioni e rappresentazioni, perché appartiene ad una forma di vita.”137
L’esistenza di questo imprecisato fondo comune da cui traggono la loro origine sia le fotografie di Ghirri che i racconti di Celati, in una comunanza che mantiene forte la fedeltà a due pur così diverse pratiche espressive, viene esplicitata ancor più sempre da Celati stesso nella sua recensione inedita a Niente di antico sotto il sole, quando parlando delle fotografie dell’amico afferma che: “Sono esempi del già visto, del mondo già osservato, ma anche dell’uso di immagini che gli uomini fanno per organizzare i loro spazi, mettere in luce le loro affezioni, celebrare i loro riti, ricordare momenti della loro vita. E’ uno spostamento d’attenzione simile a quello che avviene in letteratura, quando si smette di pensare che tutto nasca dalla mente geniale d’un autore di cui si vorrebbe scoprire i segreti: allora si vede che c’è una lingua, c’è un uso della lingua, che non può mai essere privato, personale, ma non è neanche impersonale, è sempre fatto di desideri e affezione, con rituali espressivi che chiamiamo appunto letteratura.”138
In entrambi la funzione dell’autore si riduce a tramite per lo svelamento delle cose che meno guardiamo, per il fluire delle storie che forse non ascolteremmo, con immagini che sembrano già state scattate e racconti che si svolgono con la semplicità di un parlare quotidiano, dove la volontà di rimanere fedele a un linguaggio non artificiale ma che rechi 137 138
G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 186. G. Celati, Luigi Ghirri, Leggere e pensare per immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 207.
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sempre in sé i segni della sua natura parlante, di mezzo espressivo la cui funzione primaria è la comunicazione tra gli esseri umani, rimane preponderante. Ed è la stessa semplice freschezza elementare dell’espressione che ritroviamo in Ghirri, per il quale la fotografia non è qualcosa di artificialmente creato dall’uomo ma è lo sguardo naturale che nel mondo contadino si vedeva “nei fossi, nei pozzi, negli stagni, nelle ombre.”139 Era il mondo alla rovescia connaturato al comune modo di vedere, forse perché l’uomo non riesce a vedersi per via diretta, perché il suo sguardo non può sostenere la visione accecante della verità, come ci ricorda il mitico capostipite Edipo che schiacciato dalla vista della colpa svelata si autoinflisse la cecità. Persa questa visione riflessa nell’acqua e nelle ombre, perso il contatto con la sua terra, la civiltà urbana ha avuto bisogno di creare meccanicamente questo doppio del mondo, questo doppio sguardo sulle cose che a ben guardare continua tuttavia ancora oggi a manifestarsi in modo naturale, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, come le storie che tuttora ci rivestono come un lieve tessuto di parole dette da noi agli altri e dagli altri a noi, sempre dentro e intorno a noi: “Sei in una stanza, la luce attraverso le persiane proietta delle ombre sul soffitto. Per strada passa una macchina, e tu vedi la sua sagoma sul soffitto. Ecco la fotografia, il suo principio è qui. Poi vengono le pellicole e gli obiettivi, ma prima di tutto c’è questa esperienza delle immagini riflesse per effetto di un passaggio di luce.”140
TEATRALMENTE Roland Barthes ne La camera chiara rintraccia inoltre un’altra ascendenza per la fotografia: il teatro. “All’origine della foto vengono sempre posti Niepce e Daguerre (anche se il secondo ha un po’ usurpato il posto del primo); ora Daguerre, quando s’impadronì dell’invenzione di Niepce, gestiva a place du Château (alla République) un teatro di panorami animati da movimenti e giochi di luce. La camera obscura ha insomma fornito contemporaneamente il quadro prospettico, la Fotografia e il Diorama, le quali sono tutte e tre delle arti sceniche”141
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Ivi, p. 180. Ivi, p. 179. 141 R. Barthes, La camera chiara, p. 32. 140
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Barthes si richiama alla prima attività di Daguerre, un Daguerre che mi ricorda arbitrariamente e in maniera così vivida l’Emanuele Menini del racconto di Celati, la cui attività di dipintore d’insegne viene nel corso della narrazione meglio definita: “La sua specialità era dipingere pannelli per giostre, pianole, e anche palchi di teatro quando gli capitava.”142 Dipintore affascinato da cose e persone e avviluppato nel problema della luce, dei suoi riflessi intorno alle cose e della perdita di nitidezza di queste nel nuovo e continuo tremore opaco dell’aria. Figura il cui sguardo attento richiama chiaramente la sensibilità di un fotografo e di Luigi Ghirri in particolare, ma avremo modo più avanti di vedere meglio come. Tornando a Barthes, egli prosegue la sua indagine su questa presunta derivazione della fotografia dal teatro affermando che il collegamento si attua secondo lui attraverso la Morte. Il teatro infatti è originariamente legato al culto dei morti poiché in varie culture le prime rappresentazioni, che verranno poi riconosciute come terreno d’origine del teatro classicamente inteso, constavano di attori che con la faccia dipinta di bianco impersonificavano i defunti. La fotografia, che congela l’istante fermando il tempo passato in un attimo potenzialmente eterno, è secondo Barthes “la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti.” 143 Analogia che sembra trovare conferma proprio all’interno della nostra più antica tradizione: nell’interessante studio dell’antropologo Massimo Bettini sull’Anfitrione, uno dei primi testi teatrali in cui viene guarda caso inscenato proprio il problematico tema del doppio, nucleo tematico inerente l’uomo già da parecchi secoli, per correttamente contestualizzare le pavide esclamazioni dello schiavo Sosia che si ritrova di fronte ad uno schiavo perfettamente identico a lui, quello che da allora in poi si definirà come il “sosia”, ed esplicare il legame tra il «doppio» e la «morte» insito nelle sue parole, si ricorda come durante il funerale dei nobili romani fosse in uso la tradizione della processione delle imagines maiorum: attori che assomigliavano e replicavano nei movimenti e nel portamento gli antenati della famiglia gentilizia ricordata indossavano delle imagines funebri in cera che riproducevano esattamente i volti dei defunti. “Le imagines costituivano realmente il «doppio» dei defunti, non si trattava di semplici figure somiglianti ma di veri e propri sostituti dei defunti.”144 La rappresentazione, che vorrei qui indicare come preteatrale, attesta la personificazione del doppio come prefigurazione delle immagini su carta che oggi certificano il ricordo dei nostri defunti. La morte ritorna in vita tramite un’azione teatrale, come oggi i morti restano con noi grazie alle loro immagini. Ma la vita stessa fissata in un 142
G. Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 53. R. Barthes, La camera chiara, p. 33. 144 Maurizio Bettini, Sosia e il suo sosia: pensare il «doppio» a Roma, in T. M. Plauto, Anfitrione, Marsilio, Venezia, (1991¹), 2006, p. 41. 143
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istante dalla macchina fotografica, atto che presuppone un mettersi in posa da parte della persona inquadrata, mostra in modo più palese di quanto normalmente non accada come essa non sia altro che un grande teatro, anche questo topos ricorrente nella tradizione. Ed è proprio il sentimento di una teatralità come fondamento della vita ciò che ritroviamo sia nei testi di Celati che nelle foto di Ghirri, vediamo come. Già da Finzioni occidentali è presente in Celati la concezione della vita in società come scandita da più o meno rigide regole di comportamento che normano i rapporti degli uomini tra loro e degli uomini col mondo, rapporti considerati in ogni aspetto dell’agire e del sapere. Spogliandosi del suo corredo scientifico questo sentimento verrà poi incarnato dai personaggi dei suoi successivi racconti, per trovare così concreta tematizzazione. In maniera evidente sarà proprio in Storia d’un apprendistato, una delle due novelle autobiografiche di Narratori delle pianure, che il narratore, al termine del percorso di crescita e maturazione attraverso il continente americano del suo protagonista afferma infatti a suo proposito: “Era ormai un uomo maturo, che quel giorno s’era pettinato, rasato, s’era messo una bella cravatta rossa, e gli era anche venuto in mente di sapere cos’è la vita: una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente.”145 In molti dei suoi racconti i personaggi di Celati sono intrappolati dentro una trama di rapporti, di doveri, di cerimoniali a cui si sentono estranei e che li portano ad essere più personaggi agiti che persone. E’ come se ognuno di loro si fissasse in una posa che non gli appartiene, così come in una fotografia ci si sistema sempre come si cerca di voler essere e solo colti di sorpresa si viene invece fissati così come si è: “Fate finta di essere voi stessi” è l’emblematica frase che Ghirri pronuncia prima di scattare una foto di gruppo ai partecipanti del celatiano viaggio ripreso in Strada provinciale delle anime. L’esempio più illuminante a questo proposito è la Storia della modella. La storia è narrata come già detto in terza persona da un amico o meglio da un conoscente, vista l’impossibilità di una vera intimità confidente, della modella, che così viene da lui descritta: “Alta e snella, si capisce, una bella ragazzona con le gambe lunghe. Appena faceva una minima mossa, tu vedevi la sua arte di modella. Aveva studiato tanto per diventare così, non poteva più fare altro, neanche un gesto qualsiasi, neanche un muscolo della faccia tirato senza preavviso. Lei ormai era la modella d’alta moda e basta.”146
L’anonimo narratore e la modella trascorrono insieme ogni sabato nel giardino dei Fuzzi: 145 146
G. Celati, Storia d’un apprendistato, in Narratori delle pianure, p. 37. G. Celati, Storia della modella, in Cinema naturale, p. 144.
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“Del resto era normale da quelle parti. Che cosa? Che dovevi stare attento a come ti presentavi, attento a far sempre le facce giuste, a dare le risposte appropriate, altrimenti gli altri non ti guardavano più. Una parola fuori posto, una battuta un po’ troppo intelligente, magari tu credevi di fare il furbo, e quelli ti voltavano le spalle perché non eri considerato un tizio come si deve.”147
Ma a differenza degli altri “con i sorrisi, le risposte giuste, le facce in posa, dottori, avvocati, cantanti, attori, produttori, ruffiani, usurai, barattieri”148, la modella Armanda non ha connaturato in sé il suo atteggiamento plastico, tende spesso al mutismo, lo stesso che la contraddistingueva da bambina: per lei il linguaggio dapprima è solo un sistema di gesti appreso dalla zia e poi un faticoso lasciapassare per l’alta società. Ed è proprio nella lingua che si manifestano per primi i segni del suo irreversibile ritorno al mutismo, primi avvisi dello scoppio che la riporta definitivamente al suo stato naturale, definitivamente perduto il costrittivo essere modella e la relativa carriera: “Fin qui lei ci teneva all’accento perfetto, perfezionista che voleva fare tutto a puntino, ma un giorno le è uscito fuori un altro accento. Quale? L’accento di quando non parlava ancora bene l’inglese. […] Non se n’era accorta, le era crollato l’accento, come quando crolla l’intonaco da un muro.”149
Quasi alter ego del Baratto del racconto che inaugura le Quattro novelle sulle apparenze, a sua volta novello Bartleby, come tra gli altri Manganelli ha notato nella sua chiusa del già citato articolo Frammenti del mondo fra incubi e ilarità. Ma mentre la storia della modella è raccontata da un narratore esterno grazie al quale noi possiamo solo guardare allo svolgersi dei fatti, secondo la modalità di un cinema naturale che caratterizza lo svolgersi di tutti i racconti della raccolta, in Baratto, nonostante il racconto sia narrato in terza persona, il nostro narratore assume spesso un punto di vista interno al protagonista che ci permette di addentrarci nei suoi pensieri, o meglio nelle sue percezioni perché il mutismo che fa da molla alla sua storia è causato dal suo essere “rimasto senza pensieri” 150. Il primo segnale del suo imminente brusco interrompere il normale fluire della comunicazione e dello scorrere dei suoi stessi pensieri viene lanciato da Baratto durante una partita di rugby quando dice a un suo compagno di squadra che “gli sembra che la partita non lo riguardi”151. E’ una partita sofferta: le brillanti azioni di Baratto non sono prontamente
147
Ivi, p. 147. Ivi, p. 149. 149 Ivi, p. 152. 150 G. Celati, Baratto, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 9. 151 Ibidem. 148
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colte dai suoi compagni di squadra, nel campo volano da una parte all’altra le discussioni tra i giocatori, quelle con l’arbitro e le urla dell’allenatore dalla panchina. “Nel frattempo Baratto passeggia sulla linea di fondo guardando per terra. Ad un certo punto scuote la testa, poi comincia ad insultare i suoi compagni perché stanno troppo tempo a discutere con l’arbitro. Attraversando il campo grida più volte: “Non c’è niente da discutere!”, e insulta anche l’arbitro perché non fischia una punizione per tutti.”152
Giunto al culmine dell’esasperazione Baratto si ritira nello spogliatoio dove si spoglia nudo e nega ogni spiegazione e possibilità di dialogo all’allenatore giunto a richiamarlo in campo. E’ allora che “con gli occhi chiusi comincia a trattenere il fiato, e dopo qualche secondo gli sembra di poter restare in apnea finché vuole, senza aspettare più niente e senza neanche il pensiero d’esser lì. Più tardi perde l’equilibrio e cade dalla piccola panca, ritrovandosi per terra.”153 Baratto si spoglia della divisa della squadra e con essa delle convenzioni sociali, interrompe le comunicazioni con l’esterno fermando il respiro, che è ciò che mantiene ritmicamente e costantemente vivo il rapporto tra il dentro e il fuori di noi: così facendo perde l’equilibrio che aveva per ritrovarsi in un nuovo stato. E’ il caldo alla testa che subito si manifesta a segnalare il cambiamento imminente: Baratto torna a casa in moto ma non mette il casco per il calore. Durante il tragitto si ferma per osservare il paesaggio ma la frase che la vista di questo gli aveva procurato, “C’è del fumo in questo paesaggio”154, sembra improvvisamente svanire dalla sua mente. Una volta rientrato a casa compie meccanicamente i ripetitivi gesti che scandiscono la sua quotidiana solitudine: la moglie da un po’ di tempo torna tardi la sera. E’ in camera da letto, quando si ritrova di nuovo nudo davanti allo specchio, che “si prende in mano il pene e pensa: «Sono rimasto senza pensieri.» Quasi subito dopo si addormenta a faccia in giù e braccia aperte sul letto. Dopo di che non ha più parlato per mesi, e a poco a poco è cominciata la sua guarigione.”155 Baratto recide gli obblighi sociali e si chiude in un silenzio che tuttavia non comporta una chiusura, come si riflette nelle porte che d’ora in poi lascia sempre aperte (“Il portone del suo palazzo è sempre aperto a causa d’un guasto alla serratura, ed anche la porta del suo appartamento resta quasi sempre aperta, perché da quando è muto si direbbe che a Baratto le porte chiuse diano fastidio” 156), ma un cambiamento nelle relazioni che si intessono intorno a lui, svuotate dagli inutili borbottii e rinnovate nell’essenza. Rimasto 152
Ibidem. Ivi, p. 10. 154 Ivi, p. 11. 155 Ivi, p. 12. 156 Ivi, p. 16. 153
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senza pensieri, Baratto con il più completo silenzio recupera un vero e proprio stato di naturalità, fuori dagli obblighi sociali: lascia la squadra di rugby e perde anche il lavoro di insegnante di ginnastica, dopo che le lezioni erano diventate per lui ore in cui ascoltare “i rumori della palla sul linoleum, il rimbombo dei passi, l’eco delle grida dei ragazzi” oppure osservare “le ombre che si allungano sul pavimento della palestra e cambiano direzione a poco a poco nel corso della mattina”157 e dopo aver preso l’abitudine di addormentarsi nella sala di ricevimento o in palestra. Ma non è un caso secondo me che il licenziamento sembri venir deciso il giorno in cui Baratto viene trovato addormentato nel ripostiglio della scuola ben oltre l’orario di chiusura: “Lo sgabuzzino dove vengono tenuti gli attrezzi per la pulizia della scuola è lungo e stretto, con muri rivestiti di bianche piastrelle. Su un ripiano al muro c’è un vecchio apparecchio radio in disuso, e sotto il ripiano Baratto dorme nell’ombra, in una brandina capitata lì chissà come.”158 Questo sgabuzzino, luogo del vuoto dello spazio e del tempo, mi richiama fortemente alla memoria lo sgabuzzino del famoso Processo kafkiano: Baratto si addormenta lì oltre l’orario di chiusura, fuori dal normale svolgersi delle attività nella scuola, e cancella ogni qualsiasi obbligo al fare col suo sonno, ancora non a caso “nudo”, o come rettifica la segretaria con solo i calzoni. Sarà proprio il preside della scuola a cogliere più di ogni altro il nuovo stato d’essere di Baratto: “E’ uno che non si dà pensieri, né pensiero per i pensieri degli altri su di lui. Vuoi vedere che quell’individuo l’ha toccato la grazia?”159 E’ in questa frase che la sovrapposizione Baratto - Bartleby si fa più evidente ed è interessante a questo punto riportare le parole di Celati nella sua introduzione a Bartleby lo scrivano nella versione da lui tradotta: il silenzioso Bartleby, che prima di cadere in uno stato di enigmatico e calamitante mutismo si esprime quasi solo con la formula “Avrei preferenza di no”, è una figura forte proprio di questo suo semimutismo, di questa sua attività inerziale che da scrivano di avvocato lo porta allo stato vegetativo di chi vive in completa inattività, ma è proprio in questo poco e questo niente che sta tutta la sua forza. “E a un tratto è come se il poco da dire, il niente su cui informare il lettore, si rivelasse una potenza impensata. Questa estrema riduzione del superfluo che di solito avvolge gli strati di presenza – lo stordimento delle interpretazioni che bisogna offrire, l’ingombro delle immagini che ognuno ha di sé, le bramosie d’espansione che non permettono alcuna quiete – è una cosa rarissima e piena di grazia, l’apice di tutta la ricerca di Melville.”160 157
Ivi, p. 21. Ivi, p. 22. 159 Ivi, p. 23. 160 G. Celati, Introduzione a Bartleby lo scrivano, in Herman Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli, Milano, 1991, p. XXII. 158
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E’ proprio questa riduzione all’essenziale ciò che caratterizza allo stesso tempo la scrittura di Celati, il mutismo di Baratto e aggiungerei anche le foto di Ghirri. Interrotto il flusso di inutili parole che lo collegavano agli altri uomini, Baratto recupera più forte il legame con ciò che sta fuori di lui, con le apparenze in quanto tali: “Però vagando in tranquillo silenzio per le strade del centro cittadino, spesso gli accade di perdersi in giro ad osservare tutto quello che viene ai suoi occhi. Si ferma ad osservare la gente, le case, gli spigoli, il cielo e le grondaie. Il che ritarda notevolmente la sua marcia di ritorno verso casa, e a volte quando torna indietro il supermercato vicino a casa sua è già chiuso.”161
Baratto, eliminati i pensieri superflui, si pone al livello delle cose e scruta quella che è, ancora una volta richiamandoci a Melville, la “verità visibile”: “«l’apprendimento della condizione assoluta delle cose presenti, così come colpiscono l’occhio di chi non teme di guardarle»”.162 Baratto, che durante la sua vacanza in motocicletta con l’amico inizia a seguire una comitiva di turisti giapponesi-americani, diventa come loro turista della vita. Interessante è inoltre notare che il silenzio di Baratto provoca sugli altri un singolare effetto: tutte le persone che vedono entrare nella loro orbita questa stra-ordinaria presenza iniziano a raccontargli la loro vita, così come nel già citato film di Bergman Persona, l’infermiera Alma racconta alla muta Elisabeth, attrice lo ricordo, i suoi segreti più intimi. Baratto infatti in questo tempo non interrompe i gesti che coordinano un buon vivere civile e continua ad avere una sua coerente vita interiore: “Durante i mesi di silenzio non si creda che Baratto abbia smesso di pensare. Questo a momenti gli succede, ad esempio quando va in apnea, ma in generale ha smesso soltanto di avere dei pensieri che gli gravano nella testa. E se incontra qualcuno, lui sa che deve dargli la mano o fare un cenno di saluto, e sa che deve scuotere la testa o sorridere quando l’altro parla. Però cose del genere non richiedono pensieri che siano proprio suoi, e se la cava pensando i pensieri degli altri.”163
Baratto entra in una sorta di empatia non verbale con coloro che gli stanno intorno e attraverso i racconti che suscita aiuta i suoi interlocutori a liberarsi della patina di sovrappiù che appesantisce la vita: “I due anziani inquilini presso i quali Baratto abita, fino a poco tempo fa avevano l’abitudine di guardare la televisione dalla mattina alla sera. Nei momenti in cui la televisione non trasmetteva programmi 161
G. Celati, Baratto, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 19. G. Celati, Introduzione a Bartleby lo scrivano, in Bartleby lo scrivano, p. XIV. 163 G. Celati, Baratto, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 29. 162
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interessanti, i due hanno cominciato a raccontare a Baratto la loro vita. Ma a poco a poco si sono accorti che ci sono pochi programmi interessanti alla televisione, e che comunque provano più gusto a raccontare la loro vita all’ospite.”164
Baratto riporta la vicina coppia di anziani dall’assuefazione al vuoto, inutile e finto borbottìo dell’apparecchio televisivo ad una più reale trasmissione di vissuto. E ciò ci riconduce al nostro argomento principale: il sentimento di una perdita di contatto col reale, la sensazione di una finzione insita nella vita stessa. “«Ma io dico: che non sia tutta una messinscena? Ad esempio, questa città una messinscena, le donne che ci fanno soffrire una messinscena, il lavoro una messinscena, il nostro aspetto da deficienti un’altra messinscena. Che non sia tutta una grande montatura, un sogno da cui non riusciamo a svegliarci? Ma le dico di più: che non sia anche la luce una messinscena? E i suoni che sentiamo, le cose che tocchiamo, e il buio e la notte, non potrebbe essere tutta una grandissima messinscena? Tutta una commedia delle apparenze, che ci fanno credere chissà cosa e invece non è vero niente?»”165
Queste parole sono pronunciate a Baratto da un altro dei suoi vicini, il dottore attanagliato dal problema della patina grigia che ricopre tutte le cose, e incarnano il pensiero comune che la realtà non sia come appare, che sia una finzione, finzione dietro a cui si nasconde una verità che ci è celata ma che se scoprissimo ci riporterebbe in uno stato di grazia e di pace. “Ciò significa che l’idea d’un segreto da scoprire – con il consenso sociale che produce – viene continuamente a sostituire la percezione del mondo così com’è, con i fantasmi di ciò che dovrebbe essere eliminando le sue anomalie.”166 Appena il dottore termina di pronunciare la sua sequela di disperate domande, “in quel preciso momento entrambi [il dottore e Baratto] si accorgono che è già l’alba, e allora salgono sul terrazzo della casa per vedere il sole che spunta.” 167 Segue una descrizione degli spontanei movimenti di un mondo che si sveglia, una pura attenzione per le cose semplici che si muovono o stanno ferme, nell’orizzonte al di là di un terrazzo: una finestra che si illumina, il cielo che diventa chiaro, le rondini che volano intorno agli alberi, la campane che suonano in lontananza (“Chi suona le campane? Chi solleva la saracinesca?”), un silenzioso quartiere di nuovi palazzi, una cabina telefonica all’angolo, una macchina messa in moto che parte.
164
Ivi, p. 23. Ivi, p. 31. 166 G. Celati, Introduzione a Bartleby lo scrivano, in Bartleby lo scrivano, p. XIV-XV. 167 G. Celati, Baratto, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 31. 165
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“Entrambi pensano che la commedia delle apparenze continua sempre là fuori, non si ferma mai. A questo punto però il dottore si accorge di pensare i pensieri di Baratto, anche se in effetti Baratto non ha veri e propri pensieri che siano suoi. Sono piuttosto i pensieri degli altri che gli vengono in mente, quelli d’uno che passa per strada, d’uno che solleva una saracinesca, d’uno che mette in moto una macchina in distanza. Grazie a tanta gente che pensa le stesse cose, la frase “E’ l’alba” vuol proprio dire che è l’alba con tutte le sue apparenze. E grazie a Baratto che guarendo comincia ad avere solo pensieri di altri, adesso anche al dottore appare tutta vera questa messinscena dell’alba.”168
Sono i nostri pensieri, le nostre percezioni che certificano il reale, e le sue apparenze sono forse davvero le uniche cose a cui oggi valga la pena di tornare a credere, le apparenze in quanto tali, senza oscuri fondi da scoprire. I racconti di Celati ci mettono di fronte al nostro costante sentimento di illusione e ci ricordano in contrappunto la nudità delle apparenze di fronte a noi, ci ricordano che per la maggior parte del tempo siamo fissati dentro una posa slegata dalla naturalità delle apparenze stesse. Sono racconti che inscenano racconti per riprodurre quel senso di illusione che spesso ci invade ma che è anche ciò che ci caratterizza, è il sentimento della vita di chi si sente vivere e per questo smette di saper vivere, così come “«Se il millepiedi dovesse pensare a come si muovono i suoi piedi cascherebbe subito per terra»”.169 E’ l’illusione di non vivere la propria vita ma quella di un altro, di comportarsi come personaggi su un palcoscenico, già dentro una storia che l’altro che siamo noi osserva, quando il vero svolgimento non è quello intrapreso lì, sul palco, ma fuori, nella platea dove il buio impedisce di vedere. E’ ciò che prova lo studente del racconto I lettori di libri sono sempre più falsi: “«Sono proprio io che faccio questa vita? A me sembra di no, perché è troppo stupida. Cioè, mi sembra che non sono io ma un altro che io guardo da fuori, e so tutto di lui, e mi vergogno per lui. Ma se quest’altro lo vedo da fuori, dove sono io? Sono qualcosa o non sono niente?»” 170 Non c’è soluzione a questo problema, perché lo studente darà una svolta alla sua vita stupida ma la sensazione non lo abbandonerà. L’unico atteggiamento possibile è allora quello della donna di Meteorite dal cosmo, che insofferente per la mancanza di generosità della gente aveva completamente interrotto la sua vita sociale, chiudendosi in casa. Saranno un meteorite e uno psichiatra che era “almeno un po’ generoso” a trasformarla in un’altra donna, identica a lei ma compromessa e bene integrata nei rituali sociali, “una specie di automa” che ha imparato a vivere al posto suo. Al termine del racconto la vera lei, la donna estranea alle regole del
168
Ivi, p. 32. Gianni Celati, L’assoluto della prosa. Conversazione con Gianni Celati, a cura di Andrea Cortellessa, in «Riga», n. 28, 2008, <http://www.rigabooks.it/extra>. 170 G. Celati, I lettori di libri sono sempre più falsi, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 74. 169
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vivere “civile” che continua a vivere in lei, ha raggiunto una speciale forma di saggezza di cui il narratore ci fa dono: “Dice che, diventando vecchi, si impara a non badare più molto a quella specie di automa che fa tutto per noi, che parla quando deve parlare, saluta quando lo salutano, ride quando bisogna ridere. Siccome l’anima è sempre più attirata da qualcosa fuori di noi, allora (se non si è stupidi e incattiviti) si impara anche a non credere più alle parole e ai pensieri dell’altro che tratta con la gente al posto nostro. Si impara a trovar ridicoli i suoi giudizi su tutto, e a prenderli in giro parlando tra sé. E così, parlando molto tra sé, si può anche diventare più generosi.”171
L’unico atteggiamento possibile è quindi credere alle finzioni che informano, nel significato primo di dare forma, alla nostra vita, lo stesso programma che percorre la letteratura di Celati e la fotografia di Ghirri. “Noi crediamo che sia possibile ricucire le apparenze disperse negli spazi vuoti, attraverso un racconto che organizzi l’esperienza, e che perciò dia sollievo, come quello di Ghirri. Non esiste nessun racconto che valga la pena d’esser fatto, se non dà sollievo (anche la tragedia dà sollievo, i brillanti smascheramenti d’ogni finzione invece no). Crediamo che tutto ciò che fa la gente dalla mattina alla sera sia uno sforzo per trovare un possibile racconto dell’esterno, che sia almeno un po’ vivibile. Pensiamo che anche questa sia una finzione, ma una finzione a cui è necessario credere.” 172
Questa finzione, questo illusionismo prospettico, questa teatralità dello sguardo e il suo svelamento è ciò che ritroviamo infatti anche in Ghirri, a partire dal già ricordato uso d’inquadrare il mondo sfruttando le quinte naturali che esso stesso offre allo sguardo. Come osserva Celati nei Commenti su un teatro naturale delle immagini, titolo già di per sé emblematico per quelle che sono le riflessioni contenute ne Il profilo delle nuvole: “Insomma, studiando i modi in cui tende dovunque a guidare il nostro sguardo, questo paesaggio può rivelarsi ossessivo, perché è prigioniero del proprio illusionismo, così come lo è la cultura italiana. C’è un illusionismo prospettico e architettonico che ha buon gioco sugli orizzonti bassi, e c’è un illusionismo melodrammatico che porta a pensare tutti i paesaggi come fondali più o meno avvincenti. Ed è come se per noi la percezione dell’aperto potesse essere solo questa: uno spiraglio tra due monumenti.”173
E’ una “tonalità teatrale” quella che caratterizza le immagini di Ghirri e che si palesa esplicitamente nelle sue fotografie in cui il soggetto è il teatro stesso, come in quella del 1985 del Teatro Verdi a Busseto, in provincia di Parma, dove lo sguardo si ferma fuori dal 171
G. Celati, Meteorite dal cosmo, in Narratori delle pianure, p. 76. G. Celati, Finzioni a cui credere, in «Alfabeta», dicembre 1984, in Geografie del narrare, p. 177. 173 G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 184. 172
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teatro e trova come quinte naturali le pareti e gli ultimi scalini delle simmetriche scale che forse conducono ai posti della galleria, di fronte una doppia porta aperta che conduce alla platea incorniciata da due rosse tende legate, in modo da lasciar vedere il corridoio che divide le due file di poltrone rosse e il palcoscenico chiuso da un rosso sipario. [fig. 8] Oppure l’ “allestimento scenico di Aldo Rossi, straordinario architetto italiano, dove non si vede bene la differenza tra la messa in scena per l’opera lirica che si recita e le forme architettoniche che l’avvolgono”174, dove gli attori sul palco assumono la consistenza lieve di figure evanescenti, davanti a loro l’orchestra fatta di molteplici elementi anch’essi colti nella loro aerea sfuggevolezza che assume la tonalità di una melodia inespressa ma sentita, e nell’ombra del margine inferiore della foto il pubblico come indistinta presenza solo intuita. In questa immagine ancora una volta è l’atto dell’osservazione ciò su cui si punta l’attenzione, in special modo proprio in queste fotografie di teatral soggetto: quando il palco non è vuoto di presenza e forte della sua implicita simbolica pregnanza ma in esso si esibiscono attori o musicisti, ciò che non manca mai nelle composizioni ghirriane è la viva presenza degli spettatori, la cui identità non specifica ma generale assume una funzione significativa al pari dello spettacolo fruito. E’ l’umanità in generale a comparire nelle foto di Luigi Ghirri perché le persone dotate di specifica identità sono quasi sempre assenti: quando invece ci sono spesso sono sfuocate, mosse, prive di un’identità propria. “Non solo tra queste immagini ma in tutto il mio lavoro ci sono pochissimi ritratti. La figura umana non compare quasi mai. Certo, questo è un lavoro incentrato sul paesaggio, ma un dato di fatto è che oggi la maggior parte delle immagini che vediamo è costituito da facce. Il nostro panorama visivo è pieno di facce. Guardiamo cento canali televisivi, li cambiamo uno dietro l’altro e ci sono sempre delle facce. Il rapporto tra la faccia e il luogo dove vive, abita, mangia, sogna, si muove, non viene più considerato.” 175
Se si identifica quest’aspetto delle immagini di Ghirri come caratteristica che marca una differenza sostanziale rispetto agli scritti di Celati, che sono invece popolati dai più disparati individui, ciò è dovuto al fatto che i racconti celatiani, oltre a rispondere a necessari e contingenti bisogni narrativi, inscenando l’uomo lo mettono di fronte a se stesso, in un rinnovamento percettivo di abitudini, comportamenti e schemi mentali, attraverso una scrittura semplice e diretta. Oserei direi che quasi allo stesso modo le foto di Luigi Ghirri inscenano le stesse ovvietà ma liberate dall’effettiva presenza dell’uomo: l’attenzione è tutta puntata all’ambiente, dove la presenza umana rimane comunque 174 175
Ivi, p. 182. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 25.
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evidente e onnipresente sotto forma dei segni che contraddistinguono il paesaggio, ma il fine è quello di ottenere una necessaria pulizia dello sguardo. Entrambi mettono in primo piano il mondo contemporaneo nei suoi aspetti più quotidiani e ovvi, ci pongono di fronte al già noto a cui proprio per la sua essenza di apparentemente trita banalità meno si presta attenzione. Se le figure umane non sono quindi visibilmente presenti nelle foto di Ghirri, tuttavia non si può nemmeno dire che esse siano assenti: è un’azione umana quella che si riscontra in ognuno dei paesaggi osservati, delle città, degli interni ed è uno sguardo umano quello che si posa sulle cose ad orientare la direzione dello sguardo. Possiamo perciò dire che in quanto presente assenza l’uomo è il protagonista di tutte queste fotografie perché il soggetto è il mondo come l’uomo se lo rappresenta, come l’uomo lo osserva. “C’è qui un punto che riguarda la fotografia e l’osservazione su cui ho riflettuto insieme ad altri. Prima di tutto, come diceva l’altro giorno Ermanno Cavazzoni, queste foto sono teatrini che danno il senso di un mondo osservato. E’ come, diceva, nel teatro barocco, dove un attore sedeva in scena con le spalle rivolte al pubblico, guardando il dramma che si svolgeva, e mostrando che ciò che si svolge è solo mondo osservato.”176
E’ il mondo osservato che scorre davanti ai nostri occhi nelle fotografie di Ghirri e ciò che suscita più profondamente l’attenzione è proprio il nostro sguardo sulle cose, l’aver reso la realtà una cosa ovvia. “Ghirri ha continuamente sfiorato la banalità, ha applicato la sezione aurea nelle sue fotografie, ha sempre rischiato che le sue foto fossero scambiate per una cartolina, e invece ha fatto questo proprio per mostrarci quello che c’è dietro la cartolina e che la cartolina non ci mostra più.”177 Perché non è uno sguardo straniato quello con cui noi affrontiamo la realtà della nostra quotidianità, ma uno sguardo assuefatto che, proprio per il suo stesso essere parte del mondo, troppo spesso non riesce più a stupirsi e dimentica il legame d’affezione grazie al quale le cose tornano ad avere il loro rilievo e significato. Se tramite le immagini torniamo ad osservare il mondo è perché un occhio carico di affezione ha voluto guardarlo. Quello che fanno le foto di Ghirri è ricordarci l’atto stesso del nostro vedere, per restituirci le cose, restituzione che può avvenire solo grazie all’inquadratura che mentre ritaglia una porzione di mondo non lo riduce ma limita lo sguardo. Dalla spaziatura sull’indefinito a rischio dispersione l’immagine diventa così un rettangolo di spazio leggibile e in questo modo di nuovo possibile, come lo svolgimento di un’azione inscenata tra le pareti di un teatro diventa un pezzo di vita osservabile e a volte un po’ più comprensibile. 176
G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 186. Carlo Bordini, La semplicità, in L. Ghirri, Vista con camera. 200 Fotografie in Emilia Romagna, Federico Motta Editore, Milano, 1992, p. 185. 177
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“La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato, ed
è
grazie
a
questa
cancellazione
che
l’immagine
assume
senso
diventando
misurabile.
Contemporaneamente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato.”178
E ancora Ghirri stesso osserva: “Tutto quello che vedi vive solo nell’inquadratura. Anche il mare, come posso fotografarlo se non mettendolo in cornice come un quadro? Se vuoi, è come una finestra da cui guardi i fenomeni, e tu sei come un bambino che deve fare un tema scrivendo quello che ha visto. Tu guardi dalla finestra, ma chi è che guarda? Mi ricordo quel racconto di Calvino che dice: è il mondo che guarda il mondo.”179
Il racconto di Calvino a cui fa riferimento Ghirri è il romanzo Palomar e la citazione risulta oltremodo appropriata poiché ad esso è rivolta una recensione di Celati molto interessante ai fini del nostro discorso. Palomar è la figura del pensatore astratto che attraverso le sue stesse elucubrazioni recupera contatto con la realtà nella sua concretezza tangibile, direttamente osservabile e non categorizzabile, dato che l’approdo finale delle sue approfondite cogitazioni sarà la scoperta della vacuità di ogni pensiero dovuta all’imprendibilità del reale. Tutto il libro è orientato a “costruire un racconto sulla fragilità d’ogni spiegazione del mondo esterno di cui disponiamo.” 180 Ma ciò che più a noi preme è notare che, per avvalorare le sue osservazioni e offrire un interessante confronto con altri campi dell’arte contemporanea, Celati faccia riferimento proprio a una fotografia di Ghirri. E’ un’immagine di Capri del 1980, anche se una foto molto simile è stata scattata da Ghirri un anno prima a Sirmione, “dove un cannocchiale su un piedistallo sta di fronte alle nuvole e al mare, e il tutto è inquadrato nella limpida simmetria prospettica d’un loggiato neoclassico.”181 [fig. 9] Palomar, come spiega Calvino nella sua presentazione al libro, trae il suo nome da “Mount Palomar, il famoso osservatorio astronomico californiano.” 182 Il legante tra la foto di Ghirri e il racconto di Calvino sarebbe quindi il cannocchiale, l’antico strumento inventato da Galileo per scrutare le profondità del cielo, strumento d’osservazione per eccellenza, teso a simboleggiare che
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L. Ghirri, Kodachrome. Prefazione, in Niente di antico sotto il sole, p. 18-19. L. Ghirri, in G. Celati, Commento su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 189. 180 G. Celati, Palomar, la prosa del mondo, in «Alfabeta» n. 59, aprile 1984, p. 7. 181 Ivi, p. 8. 182 I. Calvino, Presentazione, in Palomar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002, p. V. 179
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“l’esterno osservato sia solo una rappresentazione secondo le leggi dello strumento in cui si guarda. Forse è ormai una nozione diffusa che l’esterno sia un costrutto dei nostri mezzi d’osservazione e delle nostre abitudini interpretative; ma raramente accade di vedere profilarsi così chiaramente, come nelle prose di Calvino e nelle foto di Ghirri, l’opacità senza rimedio e un po’ comica dei mezzi usati per catturare l’esterno, occhi, immagini, parole, categorie. Finalmente cominciamo a vedere poco sul serio, e piuttosto a sentire la grana del tessuto di parole o di linee che vela il nostro sguardo. Caro Palomar, non pensare ai rimedi. Continua a morderti la lingua e a fissare gli occhi dove si vede poco.”183
Insieme a Palomar, le immagini di Ghirri e le stesse prose di Celati ci conducono là dove l’artificio dello sguardo si svela, dove si svela il nostro distacco e attaccamento, il nostro essere altro rispetto al mondo e allo stesso tempo la nostra immersione in esso. E’ nelle loro opere che noi ritroviamo quell’immagine riflessa, quel mondo alla rovescia la cui artificialità è tutto ciò che ci è dato osservare. Nei suoi Commenti su un teatro naturale Celati tra gli altri ricorda l’amato scrittore Robert Walser e riporta un aneddoto da lui raccontato a proposito di “una accanita lettrice delle novelle di Gottfried Keller, che un giorno s’è messa a piangere dicendo: «Il mondo non è così».”184 Il commento di Celati a quest’aneddoto secondo me ben si adatta alla sua stessa opera e a fungere da momentanea conclusione al nostro parziale discorso: “In Walser, come nelle foto di Ghirri, sembrerebbe che solo un laborioso esercizio per usare bene l’inautenticità, l’artificialità di tutte le parole e le immagini, possa riscattare ogni momento del mondo. Che possa trasformarli tutti in fenomeni del grande teatro naturale, chiuso soltanto dall’orizzonte e dalla tenda del cielo. Che, finalmente, tutta l’artificialità dell’arte e della vita, non siano più colpe da cui dovremmo riscattarci, ma siano prima di tutto segni di buona volontà. Il pianto della donna di cui parla Walser non è che il fondo affettivo di tutto questo, la pietà per il mondo.”185
183
G. Celati, Palomar, la prosa del mondo, p. 8. G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 187. 185 Ibidem. 184
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CONVERGENZE Abbiamo visto come, pur nelle diverse modalità di espressione che afferiscono entrambe al mondo dell’arte ma utilizzano due linguaggi molto diversi tra loro, l’uno che vive nella durata e l’altro nell’istante, Gianni Celati e Luigi Ghirri abbiano consolidato con il loro incontro e sodalizio artistico un’affinità di temi e di pensiero. Forse non poteva essere diversamente se è vero che Ghirri è stato il fotografo italiano per cui ha avuto maggiore importanza la narrazione sia come modalità fondativa della sua intera opera, sia come fonte di stimoli per la creazione della sua complessa filosofia delle immagini, sia come prezioso complemento ai suoi lavori negli scritti in cui il suo pensiero trova una diversa forma di espressione: “Caso raro nel panorama italiano, e anche in quello internazionale, data la quantità, la continuità e la rilevanza degli scritti prodotti”.186 E’ una 186
Paolo Costantini, Premessa, in Niente di antico sotto il sole, p. 12.
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vera e propria felicità narrativa quella che ritroviamo nei suoi testi, tanto che in alcuni passaggi è immediato ricordare le altrettanto impressive descrizioni dell’amico scrittore: “I fili sembravano righe di un pentagramma senza le note. Si intrecciavano e sparivano all’orizzonte, sfiorando case disperse. Fermandosi, nel silenzio della pianura, si sente un lieve rumore continuo, dicono che sia il suono dell’energia elettrica che passa. Ogni tanto, da qualche argine, sbucano le ciminiere a righe bianche e rosse, che sembrano gli unici elementi colorati di questo paesaggio.” 187
Si direbbe che l’influenza tra i due artisti non abbia seguito una direzione univoca da Ghirri a Celati ma abbia percorso anche il cammino contrario, da Celati a Ghirri. Per continuare sulla linea delle affinità implicite bisogna inoltre ricordare che Celati dal canto suo fu definito dallo stesso Ghirri “l’unico esempio italiano di un’attenzione non epidermica e frammentaria alle immagini del mondo esterno, come la fotografia o il cinema”.188 Pare che per questi due artisti si sia replicata la stessa felice intesa della collaborazione tra Strand e Zavattini, che a sua volta diede vita all’ormai storico libro Un paese: quando Ghirri parla della riscoperta di Luzzara nella provincia di Reggio Emilia, del nuovo sguardo che fotografo e scrittore seppero posare sul paese e i suoi abitanti per un’inedita valorizzazione di una realtà così semplice eppure articolata, sembra proprio che stia parlando del connubio tra il suo sguardo e quello dell’amico scrittore, in un articolo datato 1989, lo stesso anno di uscita del loro Profilo delle nuvole. E’ comprendendo la volontà di cercare un’altra verità dietro quella più ovvia e scontata che ottenebra la sguardo che “si potrà capire la felice sintesi tra testo letterario e fotografico, come ugualmente i due linguaggi vivano autonomamente, uniti e liberati, l’uno all’altro e l’uno dall’altro, secondo le intenzioni e i desideri del lettore e come la ricerca di una lingua affine diventi una modalità per raccontare.”189 Sono queste le parole che Ghirri dedica a Un paese e che possiamo perfettamente riattribuire anche a Il profilo delle nuvole. Nel suo articolo il fotografo continua inoltre cercando la chiave di questa perfetta sintesi tra arti ed artisti: “Per entrambi deve avere giocato una parte importante l’amore per il narrato: letterario, fotografico, cinematografico non importa quale, e l’amore per il racconto sembra essere il segreto, la chiave per accedere a una possibile narrazione e rappresentazione del luogo.” 190 Per un fotografo narratore e un narratore attento alle immagini l’intesa fu quasi una tappa obbligata nel percorso creativo, il naturale sorgere di un’affinità fatta oltre che di pensieri 187
L. Ghirri, Da Contarina a Prince, in Niente di antico sotto il sole, p. 142. L. Ghirri, Una carezza al mondo, in «Riga», p. 176. 189 L. Ghirri, Come un canto della terra, in Niente di antico sotto il sole, p. 148. 190 Ibidem. 188
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anche di gesti, tanto che è nella loro modalità di approccio al fare artistico che possiamo rintracciare nuovi punti di contatto, nuove convergenze tra Gianni Celati e Luigi Ghirri.
IN EQUILIBRIO TRA DENTRO E FUORI Guardando al processo creativo che sta alla base delle opere sia di Celati che di Ghirri troviamo in entrambi quella che possiamo chiamare una comune dimenticanza, una totale immersione nella materia da raccontare o da ritrarre, un affondo nel sentire che permette di dimenticare le istanze analitiche della ragione per riuscire a trasferire fuori di sé, nell’oggettività di un foglio, le verità dell’io più profondo in fusione con le verità della realtà posta di fronte all’io. Con ciò non voglio certo affermare che le opere dei due artisti nascano nella più completa spontaneità e dimenticanza di qualsiasi parametro intellettivo, anzi le loro opere sono chiaramente il frutto di attente e ragionate riflessioni che convivono tuttavia con un momento creativo situato in un attimo di sospensione. Ma cerchiamo di capire meglio dalle loro parole come avviene tutto questo. Per Celati questo stato di cosiddetta dimenticanza caratterizza la sua scrittura fin dagli esordi: la genesi di Comiche risale a un periodo di solitudine e isolamento per un’epatite virale durante il quale cominciò a scrivere come il matto di cui leggeva i diari: “Era come mettermi nei panni di un altro, con uno stato di abbandono che era il contrario di ciò che chiamiamo «psicologia». Si trattava di cadere in una specie di sonno a occhi aperti, dimenticandomi del mio stato di esistenza, come succede quando ci si addormenta.”191 Qualche anno dopo, quando la malattia è solo un ricordo, durante l’elaborazione di Lunario del paradiso Celati cercherà per via induttiva questo stato di semicoscienza: “Quando l’ho scritto abitavo da solo in una casa che mi era stata prestata (a Bologna) e andavo a camminare tutto il giorno per stancarmi il più possibile. Perché quando si è stanchi si è come un po’ ubriachi e le fantasie vengono fuori più facilmente. Così di sera mi davo un’ora per scrivere, solo un’ora, e tutto veniva fuori senza sforzo.”192
Più tardi, dopo l’incontro con i fotografi, Celati ritroverà questo stesso stato di abbandono nella scrittura all’aria aperta, in totale consonanza con quel fuori che si presenta allo sguardo, in uno svolgersi descrittivo delle parole per aderire alle cose senza mediazioni 191 192
G. Celati, Memorie su certe letture. Conversazione con Rebecca West, in «Riga», p. 40. G. Celati, Riscrive, riraccontare, tradurre. Conversazione con Marianne Schneider, in «Riga», p. 46.
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intellettive, senza pregiudizi che interferiscano con forme precostituite di lettura sovrapponendosi a una modalità libera di vagabondaggio della vista, dell’udito e di tutti i sensi implicati in un contatto tangibile e partecipato con l’esterno. “Quando viaggiavo a piedi per scrivere i diari di Verso la foce, mi sono accorto che c’è una differenza tra prendere appunti sul momento e sul posto in cui sei, e scriverne a distanza. Quando scrivi a distanza sei già nelle generalità dei discorsi, e tutto prende un aspetto di completezza nel pensiero. Perché a distanza si fa avanti una teoria sulle cose che hai visto, e una teoria tende a colmare i buchi, a sostituire le interrogazioni con delle risposte. Invece se scrivi per dar conto di quello che vedi e senti sul momento, non capisci molto, ma le scene hanno ancora il senso d’un limite nella tua osservazione.”193
Lontanissima da un’idea di realismo letterario che svisceri i significati più riposti del reale, la scrittura di Celati, come prima nasceva da uno stato di semi obnubilata dimenticanza, ora nei racconti aderisce completamente a una sintetica registrazione del “sentito dire” e si fa dimessa descrizione di paesaggi e persone in Verso la foce, come più tardi in Avventure in Africa, dove l’aggettivo dimessa non sta a significare una mancanza di stile ma un’adesione alle cose stesse, colte nella loro ovvia esistenza. Verso la foce si chiude con una totale presa di consapevolezza dell’incancellabile naturalità dell’essere umano, dell’animalità che nessun progresso potrà forse mai eliminare: “Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo.” 194 Indipendentemente dall’uomo, ogni fenomeno è in sé sereno e irriducibile. Le cose rimangono irrimediabilmente altro da noi e a noi non resta che chiamarle, non resta che usare la parola per nominarle, consapevoli che questa è solo un filo leggero che ci lega ad esse. Le parole di Celati si fanno dimesse e sottili, diventano pura descrizione di ciò che lo sguardo vede e sente in uno stato di dimenticanza e abbandono perché solo in questo si è parte, delle cose, del mondo, della realtà qualsiasi appellativo prenda, ed è in questo stato che si può quindi cercare di nominare per raggiungere un’origine, un fondo comune che rimane tuttavia imprendibile. “Tutto si riduce al fatto che là, appunto, c’è pioggia, oppure delle case che crollano, o certe facce d’uomini. Tu guardi e sai che tutto questo è inenarrabile, non puoi pensare di svelare il segreto dei fenomeni, puoi solo accennare al fatto che esistono, fanno parte della nostra immanenza. E’ come nelle foto di Ghirri, che non 193
G. Celati, Qualche idea sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 221. 194 G. Celati, Verso la foce, p. 140.
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documentano mai niente di preciso, soltanto ti «fanno vedere». Ma in questo «farti vedere», danno alle cose viste la dignità dell’essere.”195
La definizione coniata da Celati per le fotografie di Walker Evans, “una carezza fatta al mondo”, è la perfetta definizione oltreché per i racconti dello stesso Celati, come già disse Ghirri nella sua recensione a Narratori delle pianure intitolata appunto Una carezza al mondo, anche per le foto di Ghirri. E forse è proprio questa consapevolezza della dignità di ogni minima cosa, della sua irriducibilità a ogni qualsivoglia realistica descrizione e rappresentazione che la priverebbe di un’essenza restia a ogni cattura, che rende le foto di Ghirri così dolcemente aderenti alle cose, le quali vengono a noi attraverso il suo sguardo attento e non invasivo con la loro lieve e mai sgargiante presenza, nello stesso modo in cui esse chiedono di essere viste. “Sembra che questi luoghi abbiano coniugato tutto questo in una sorta di miracoloso equilibrio, così sottile e magico tanto da riuscire ancora a nascondersi, a non pretendere una identità precisa, restando in equilibrio tra passato e presente, ancora invisibile e inconoscibile, e ciò che ci è dato sapere, raccontare, rappresentare, non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose e del paesaggio.” 196
Nel Discorso di Fontanellato, testo scritto da Celati per Il mondo di Luigi Ghirri, documentario da lui realizzato per ricordare e rivivere i luoghi e i pensieri legati all’amico improvvisamente scomparso, grazie alle notizie fornite dalla moglie Paola si racconta come anche per Ghirri la genesi delle fotografie avvenisse in un luogo indistinto, potremmo dire nello stesso stato di dimenticanza: “Quando lui tornava dai suoi giri in macchina, dopo aver trovato un luogo che gli piaceva, cominciava a dire: «Ho fatto delle foto bellissime!» - «Di cosa?» - «Mah, non mi ricordo, devo vederle»… Era trasognato da quello che lo aveva sorpreso…e il resto, i gesti per inquadrare, per mettere a fuoco le cose viste, facevano parte dello stesso trasognamento.”197
Ed è ancora in Verso la foce, attraverso la mediazione della scrittura di Celati, che scopriamo qualcosa di più di questo trasognato fare creativo nelle parole di Luciano, il fotografo che accompagna il nostro scrittore nelle sue peregrinazioni intorno al fiume: “«In certi momenti ho voglia di fotografare tutto, tutto quello che vedo mi sembra interessante. Poi però guardo nell’obbiettivo, e tutto mi sembra ovvio. Ma mi sembra ovvio per gli stessi motivi per cui prima 195
G. Celati, Qualche idea sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 227. 196 L. Ghirri, Un cancello sul fiume, in Niente di antico sotto il sole, p. 102. 197 G. Celati, Discorso di Fontanellato, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 198.
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volevo fotografarlo. Se mi distraggo dall’idea di dover fotografare, invece, a momenti succede il contrario: una cosa mi colpisce isolatamente, senza pensarci troppo la inquadro e vedo che riesco a farla giocare bene nell’inquadratura. E’ soprattutto un problema di inquadratura. E’ anche una questione di stati d’animo.»” 198
Ritagliare il mondo in un’immagine, coniugare uno stato d’animo interno con l’esterno là fuori, in un incontro che quasi paradossalmente può avvenire solo dimenticandosi di sé, nella modalità che Ghirri indica ai suoi allievi: “Credo che, con una serie di aggiustamenti successivi, arriveremo a porci di fronte ad un determinato paesaggio-ambiente e mettere qualcosa in più di quello che è il nostro vissuto, la nostra cultura, il nostro modo di vedere il mondo, arriveremo a dimenticarci un po’ di noi stessi. Dimenticarsi di se stessi non significa affatto porsi come semplici riproduttori, ma relazionarsi col mondo in una maniera più elastica, non schematica, partendo senza regole fisse, piattaforme precise e preordinate.” 199
Dimenticarsi di se stessi significa eliminare i pregiudizi, le istanze analitiche della ragione che portano a leggere l’ambiente come un insieme già dato, conosciuto e privo di quel mistero che lo rende nuovo ai nostri occhi. Dimenticarsi di sé significa lasciare libero spazio al nostro sentire in connessione con ciò che ci circonda, porre sulle cose uno sguardo nuovo che rimane comunque indissolubilmente legato alla nostra più profonda interiorità che nell’espressione trova voce. In un’intervista contenuta in Niente di antico sotto il sole alla domanda sulla definizione che Ghirri darebbe di sé in un’eventuale “storia della fotografia” lui risponde dicendo: “«Di me sarebbe bello che venisse fuori il tentativo di avere uno sguardo libero da preconcetti, uno sguardo allargato invece che fisso, maniacale […] mi piacerebbe che si raccontasse che ho cercato di circoscrivere il mio mondo interiore in rapporto al mondo esterno. E, se ci fosse un’altra riga, che ci sono riuscito.»”200
Quando vediamo una delle sue fotografie viene spontaneo pensare a lui e non ad altri, il suo sguardo è un’impronta indelebile sulle sue fotografie che rendono il mondo più vivibile, più guardabile. Come e perché questo accade l’ha perfettamente descritto Celati nell’articolo Finzioni a cui credere e più precisamente nel riferimento a una fotografia notturna di Ghirri: dei ragazzi sono a un bar su una spiaggia e l’illuminazione è garantita solo da un’insegna sopra i tavoli esterni.
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G. Celati, Verso la foce, p. 63. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 7. 200 L. Ghirri, Ritratto. Intervista di Sergio Alebardi, in Niente di antico sotto il sole, p. 282. 199
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“C’è qui una minima risonanza che Ghirri riesce a ritagliare dal buio. Ma quella risonanza è già tutto un modo di pensare-immaginare l’esterno: è come la scoperta che noi riusciamo stranamente a capire quello che succede all’esterno, perché il nostro pensare è già all’esterno, già parte del mondo e dell’esistente. Qui non c’è più un’interiorità che immagina il mondo come una cosa tutta diversa da sé; attraverso questa foto, noi come quei ragazzi del bar, siamo già da sempre e per sempre nella rappresentazione.” 201
Quanto a una medesima modalità in Gianni Celati, aggiungendo altre righe a questo connubio tra dentro e fuori, tema che in lui è così connaturato e di cui si è già parlato anche a proposito della sua prima produzione, lo ritroviamo ancora una volta nella recensione dello stesso Ghirri: “[Celati] non imbocca il vicolo cieco della descrizione maniacale, cara a tanti autori della cosiddetta «letteratura dello sguardo», opera invece una singolare personalissima sintesi tra il vedere e il sentire, in una narrazione autonoma che non deve nulla ad altri linguaggi.”202 Mentre si dichiara l’affinità si ribadisce l’indipendenza e l’autonomia dei linguaggi: se è vero che in entrambi gioca un ruolo fondamentale l’interconnessione tra il soggettivo sentire e l’apparire dell’esterno come altro su cui si pone lo sguardo, è vero però che nei due questo avviene con manifestazioni diverse. Mentre le foto infatti, nonostante la loro essenza di artifici soggettivi rispondenti a criteri assai variabili sia ormai più che riconosciuta, recano sempre in sé un certo qual dato oggettivo, facendoci apparire il reale attraverso uno sguardo sì precisamente connotato ma che sembra riposare in sé, in uno stato di immobile quiete garantita da una perfetta fusione tra l’occhio, la mente e la rappresentazione inquadrata, nei racconti invece, e faccio qui riferimento ai racconti d’osservazione di Verso la foce per la più diretta possibilità di confronto, dato che il loro stesso autore dichiarava a loro proposito: “«Questo non è letteratura, non è letteratura, è un reportage sulla visione che abbiamo dei posti»” 203, la soggettività dell’autore emerge in maniera più preponderante nello svolgersi della scrittura nel tempo: ne seguiamo gli sbalzi d’umore, i picchi d’intensità, i giorni più bui in cui la razionalità torna preponderante a far vedere l’ovvietà del tutto e quelli di più felice armonia con cose e persone. “Abbandoniamo l’argine, con quel viavai meccanico domenicale dove non si riesce a districarsi e tutti bestemmiano. Crolla l’idea di poter guardare e ascoltare tutto: c’è un potenziale depressivo là fuori, che se ti investe passa subito la voglia di farsi delle idee da distaccati osservatori.” 204
201
G. Celati, Finzioni a cui credere, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 176. L. Ghirri, Una carezza al mondo, in «Riga», p. 176. 203 G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa. Conversazione con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, in «Riga», p. 32. 204 G. Celati, Verso la foce, pp. 74-75. 202
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“Ogni volta è una sorpresa, scopri di non saper niente di preciso sul mondo esterno. Allora viene la voglia di scusarsi con tutti: scusate la nostra presunzione, scusate i nostri discorsi, scusateci di aver creduto che voi siate un pugno di mosche su cui sputare le nostre sentenze. Scusate, scusate, noi siamo inetti e smemorati, e neanche tanto furbi da restare a casa, tacere e non muoverci, fare come gli alberi.”205
Forse un’esplicita soggettività è peculiarità delle parole: se le immagini sembrano catturare l’essenza delle cose, le parole, invece, mentre cercano di raggiungerla l’allontanano, girano intorno a un centro che continua ad essere intoccabile. E allora per non lasciare il vuoto, dentro si pone se stessi: “Pretese delle parole; pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di descriverlo e definirlo. Ma là fuori tutto si svolge non in questo o in quel modo, c’entra poco con ciò che dicono le parole. Il fiume qui sfocia in una distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere? Come quando vai a cercare un amico e lui non c’è, senti la vanità della visita. Ti accorgi d’esser lì, vorresti gettare dei ponti con le parole, ma impossibile. Smettiamola: il buco dove tutto scompare è qui dove sono, ingorgato dal sentimento di tutti quelli che se ne sono andati prima di me. Sono qui alle foci del Po e penso a loro.” 206
Quando le parole cercano di fare fotografie alle cose, come Celati afferma di fare in Avventure in Africa rispondendo ad una grande signora nera che gli chiedeva se non facesse anche lui fotografie come tutti: “le ho confessato che io faccio le foto scrivendo” 207, riescono solo parzialmente nell’intento: quello che ne risulta è un diario d’osservazione fatto di stati d’animo, di momenti estatici, di impressioni e racconti di voci. E’ una lotta contro il vuoto per placare l’animo che sente lo scorrere del tempo e disporlo ad ascoltare: “C’è sempre il vuoto centrale dell’anima da arginare, per quello si seguono immagini viste o sognate, per raccontarle ad altri e respirare un po’ meglio.” 208 E’ quando Celati si dimentica di sé e racconta, è nelle sue raccolte novellistiche che il rapporto tra dentro e fuori torna ad avere il suo esatto equilibrio, è lì che ogni racconto appare davvero come una fotografia del reale, un’immagine i cui protagonisti si animano e ci parlano della loro storia, senza giudizi, senza troppi pesanti pensieri, solo le cose così come sono. “Ad ogni modo io sono convinto che quando si è un po’ addormentati ci si capisca meglio: non c’è più la furia dell’intelligenza per mettersi al di sopra degli altri, e allora certe volte si riesce a incrociare i pensieri, senza essere più estranei come al solito.”209
205
Ivi, p. 104. Ivi, p. 134. 207 G. Celati, Avventure in Africa, p. 36. 208 G. Celati, Verso la foce, p. 115. 209 G. Celati, Cinema naturale, p. 59. 206
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INQUADRATURE DI RACCONTI E’ nei racconti di Celati che troviamo quindi la maggiore affinità con le fotografie, a partire dalla scelta della forma stessa: il racconto breve. Questo infatti, o meglio la novella, come Celati ama chiamare i suoi racconti a partire da Narratori delle pianure, definizione che si presta con maggior precisione alle sue storie se si pensa alla novella come trascrizione degli aneddoti che riempivano l’aria dei territori fin dai tempi più antichi: non racconti di approfondita indagine psicologica, di svolgimenti giudicanti fatti e pensieri, ma sintetici resoconti di fatti accaduti o che potrebbero ipoteticamente accadere, in cui il narratore non prende parti ma riporta semplicemente una storia, senza morale, senza perché, solamente com’è. Come il fotografo inquadra una porzione di mondo, così il narratore ritaglia uno spazio e un tempo dove i suoi personaggi agiscono, non con la durata propria del romanzo ma in un frammento dove gli anni si comprimono in poche righe e i secondi si possono dilatare in pensieri mai troppo lunghi: è la brevità che qui ha la meglio, la veloce impressione di una storia compressa che vive in poche pagine e lascia una scia di sensazioni dietro di sé, emulando in modo simile seppur così diverso l’impatto di una fotografia. E gli effetti sono più forti proprio perché vivono della brevità: mentre un racconto lungo e minuzioso in via ipotetica lascia difficilmente spazi in sé, una novella, condensando le sole informazioni essenziali al suo svolgimento in poche righe, si abbandona a formule che rendono la trama di necessità lacunosa (“Passa il tempo” 210 è una delle tipiche espressioni da fiaba, sintagma che lascia nel vuoto i momenti non direttamente funzionali alla storia, oppure “Questo è l’unico particolare di quel viaggio che mi è stato raccontato”211: mentre punta l’attenzione su un motivo della storia ne lascia presupporre altri, forse di pari importanza ma rilegati nell’oblio del non detto), tuttavia sono proprio questi vuoti, è questa lacunosità a tener vivo l’interesse e a mettere in moto l’immaginazione del lettore che è spinto così a vagare con la mente negli interstizi inesplorati della storia. “[…] per Celati, i vuoti del testo letterario creano lo spazio per i rapporti immaginativi del lettore con il testo che egli legge. In questa maniera, si attiva la fantasia del lettore, colmando così le lacune della scrittura.” 212 Si ritorna al celatiano concetto di letteratura come fantasticazione: il vuoto attiva il pensiero che è portato a 210
G. Celati, Narratori delle pianure, p. 38. Ivi, p. 90. 212 Sarah P. Hill, Finzioni da abitare: Il paesaggio fantasticato di Gianni Celati e Luigi Ghirri, in Letteratura come fantasticazione. In conversazione con Gianni Celati, a cura di Laura Rorato e Marina Spunta,The Edwin Mellen Press Lewiston-Queenston-Lampeter, 2009, p. 232. 211
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fantasticare per colmare le lacune. Come in una musica le pause sono necessarie a far respirare l’armonia, sono indispensabili affinché le note possano risuonare senza soffocanti sovrapposizioni, così avviene nei racconti di Celati. E’ lui stesso che a proposito della sua scrittura parla in un’intervista del concetto di ventosità, di una letteratura ariosa che eviti i concetti posti come definitivi imperativi sulla pagina, idee fissate che cancellano gli spazi e impediscono alle mente di seguire i suoi propri e sconosciuti percorsi: è il buco in cui cade Alice quello che le lacune dei suoi testi riproducono. “Ascolta. Se tu prendi una narrazione come un oggetto ben determinato, chiuso nei limiti della pagina scritta, sarai sempre ossessionato dall’incombenza del profitto, delle vendite, del pubblico. Se invece tu prendi una narrazione non come un oggetto determinato, ma come un evento – qualcosa che accade come una ventosità che passa da una testa all’altra […] una ventosità che ti investe, come un flusso immaginativo, che porta emozioni e pensieri, allora non c’è dubbio che corrisponda a un moto espansivo di contentezza.” 213
E’ questo flusso espansivo di contentezza che secondo lo scrittore mette in moto pensieri e fantasie, un vento arioso che soffia nuova linfa sul terreno della mente e la apre, perché come dice in Verso la foce riguardo i pensieri: “Bisogna portarli a spasso questi presuntuosi, che prendano aria.”214 Questo rapporto tra ciò che viene detto e ciò che non lo è vive anche nell’essenza stessa delle fotografie, come aveva perfettamente intuito Ghirri: secondo lui infatti ciò che in una foto non compare ha la stessa importanza di ciò che invece si vede, ciò che sta ai lati dell’immagine è quello a cui la parte inquadrata rimanda. La mente è portata a indagare oltre la rappresentazione, a scoprire ciò che manca per un implicito gioco di richiami, in un’attivazione del pensiero che tende per sua natura a colmare gli spazi bianchi, a cercare di vedere quello che non si vede. “Ghirri diceva che la cosa più importante in una fotografia è quello che resta fuori, e che quindi la fotografia non è precisamente una «rappresentazione del mondo», e tanto meno una copia del visibile. E’ un metro di misura per immaginare quello che è fuori, che resta fuori dalla sua cornice, e che è fuori di noi; ma soprattutto gli schemi percettivi che rimangono per lo più inconsci, inconsapevoli. […] Ghirri diceva che la foto serve come metro di misura in modo da stabilire dei rapporti, dei rapporti proporzionali oppure immaginativi, tra quello che si vede e quello che non si vede.” 215
213
G. Celati, Riscrivere, riraccontare, tradurre. Conversazione con Marianne Schneider, in «Riga», p. 47. G. Celati, Verso la foce, p. 61. 215 G. Celati, Qualche idea sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in «Riga», pp. 225-226. 214
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La mente insegue ciò che non vede, i particolari ai margini, in un percorso non artificiosamente rettilineo ma naturalmente zigzagante, così come lo ritroviamo esplicitato nel Celati narratore: in molti dei suoi racconti la storia devia da quella che appare essere la conduzione principale del filo per allargare lo sguardo sui dettagli ai lati, come ad esempio nella Storia d’un apprendistato. Il racconto del viaggio in America de “il narratore di questa storia” si intreccia infatti con le storie delle persone da lui incontrate: la coppia di sceneggiatori che lavoravano nella villa di un produttore cinematografico greco a Los Angeles e che cercavano di risolvere i problemi del loro rapporto seguendo da anni i consigli di un guaritore di anime; quella dei due anziani coniugi Bill e Edith del paesino di Alden nel Kansas che, dopo aver fatto un viaggio in Europa, occupavano le loro serate con la lettura pubblica del loro diario di viaggio. Sarà grazie a loro che il narratore della storia, evidente alter ego di Celati, imparerà ad adattarsi ai cerimoniali che regolano i rapporti sociali e incasellano la vita su un binario determinato ma che, una volta accettato, è in grado di renderla appena un po’ più percorribile. Inoltre la nota principale a questa modalità d’incastro delle storie è che in questi racconti niente assume un rilievo predominante sul resto: ogni storia ha la sua parte di attenzione, le sue peculiarità che la rendono di volta in volta unica e degna di interesse nel continuum narrativo. Ciò risulta evidente quando altrove sarà semplicemente il paesaggio con i suoi abitanti a sostenere l’impianto narrativo, come nel parimenti autobiografico Il ritorno del viaggiatore, in una scrittura che sembra anticipare i toni di Verso la foce: un viaggio attraverso piccoli centri intorno al Po, paesi ignorati dalle carte geografiche e che anche agli occhi dei loro abitanti assumono l’evanescente inconsistenza di paesi fantasma, come conferma la giovane commessa della cartoleria che alla richiesta di mappe stradali “ha detto: «Qui non c’è molto,» poi: «Adria è fuori mano,» poi «Come avrà visto e constatato».” 216 I luoghi sembrano inoltre plasmare con la loro rarefatta essenza le persone che in essi vivono o lavorano: “Dopo, a Polesella, scendendo dal treno, mi sono trovato in mezzo a gente con la stessa aria traballante; gente che s’era alzata come me nell’alba con l’impressione d’essere in un luogo sconosciuto, era uscita di casa semicosciente di gesti ripetuti e abitudini attaccate al corpo, e si ritrovava là fuori pronta ad andar dovunque.”217
216 217
G. Celati, Narratori delle pianure, p. 107. Ivi, p. 105.
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Le impressioni di viaggio assorbono in sé tutto il senso della ricerca del paese d’origine della madre, tanto che questo, una volta raggiunto, non viene attraversato ma visto solo da lontano: “Al di là del bivio non vedevo niente, solo campagne vuote e quel campanile molto basso; non riuscivo a immaginare niente d’altri tempi e d’altre situazioni. Da una casa sulla strada è uscita una ragazza che allungava il collo, per vedere cosa stavo facendo seduto sul pilastrino. Allora sono tornato indietro verso Ostellato.”218
Non si può toccare, non si può vedere ciò che appartiene solo alla memoria. Il tempo dà nuova forma alle cose e il viaggio di chi ritorna può solamente esplorare nuovi sconosciuti territori in cui perdersi, perché i punti di riferimento sono cambiati o svaniti: “sembrava fossero per sempre scomparsi dalla testa della gente e dalle cartine stradali.” 219 Un’ultima conferma di quest’attenzione per i particolari minimi, per le storie ai margini, ne La ragazza di Sermide: nonostante sia la ragazza a dare il titolo al racconto, il lettore segue vicendevolmente la sua storia intrecciata a quella di uno studente che, per un periodo lungo quanto il tempo necessario a dilapidarne l’intero patrimonio, sarà suo fidanzato. Il suo ruolo è evidente ai fini dell’intreccio narrativo, ma il narratore ci porta con lui anche dopo la fine del suo rapporto con la ragazza di Sermide, a vederlo sperperare ancora denaro altrui in un vortice di velleitari desideri imprenditoriali destinati tutti al fallimento. La ragazza ricomparirà un’ultima volta a chiudere il racconto nel finale, seduta a leggere e a mangiare pane e mele nella sua grande casa in rovina, in un futuro incerto come le nebbie che invadono le pianure, dopo essere stata almeno beneficata del ritorno del padre e del suo patetico perdono. Questo modo di procedere tocca due punti importanti ai fini del nostro discorso: la straordinaria attenzione conferita sia da Celati che da Ghirri agli aspetti minimi dell’esistenza, alle ovvietà che passano normalmente al di là dello sguardo senza essere viste, e un tipico modo di costruire le opere per continui aggiustamenti, deviazioni e riscritture. Del primo punto già si è detto, ma per porlo ancora una volta in evidenza riporto qui una significativa frase di Celati a proposito di Ghirri, che come abbiamo visto più volte accadere trova perfetta consonanza anche in riferimento a Celati stesso: “E’ riuscito a raccontare la fissità dello spazio vuoto, lo spazio che non si riesce a capire. Ha compiuto una radicale pulizia negli intenti o scopi dello sguardo. Finalmente ha fatto vedere uno sguardo che 218 219
Ivi, p. 111. Ivi, p. 107.
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non spia un bottino da catturare, che non va in giro per approvare o condannare ciò che vede, ma scopre che tutto può avere interesse perché fa parte dell’esistente.”220
Per quanto riguarda invece la costruzione delle loro opere, è forse proprio il divagare implicito sui temi meno appariscenti che conduce i due artisti a una continua rilettura e riedizione delle loro personali rappresentazioni dell’esistente: nella convinzione che il mondo non sia riconducibile a una singola interpretazione, a un’unica lettura, entrambi rivedono continuamente le loro creazioni per rinnovarne lo sguardo, per cercare oltre. Entrambi accumulano frammenti di mondo, di scritti sparsi o di fotografie, che vengono di volta in volta rimaneggiati o riassemblate. “Io non ho mai scritto un libro dall’inizio alla fine, con un piano di lavoro e una trama in mente. Ho sempre scritto pezzetti sparsi, senza nessuna trama di riferimento, cioè scrivendo quello che mi veniva in mente giorno per giorno, secondo gli stati d’umore, le voglie o le depressioni.”221
Nella Notizia introduttiva ai racconti di Cinema naturale Celati dichiara come loro fondamento costitutivo una scrittura che l’ha impegnato nell’arco di vent’anni: certo, non tutti i suoi libri possono vantare un’elaborazione così duratura, ma tutti recano in sé le tracce di una profondità poco appariscente. E’ a una lettura attenta infatti che i suoi racconti svelano, dietro uno stile apparentemente semplice e piano, quella stratificazione di eventi, pensieri, paesaggi e situazioni che li rende così imprendibili in un significato difficilmente afferrabile. Come nella Parabola per disincantati: in appena due pagine si svolge la storia di uno studente parmigiano che scrive racconti di notte. Emigrato in Francia inizia a lavorare presso un’autofficina e, conosciuta una ragazza, va a vivere con lei. La sua scrittura notturna continua ma, dopo aver elaborato una cinquantina di racconti, il giovane giunge alla conclusione che “solo nel deserto, o molto vicini alla morte, valesse la pena di scrivere qualcosa.”222 Si allontana così dalla città e inizia a vivere da moderno eremita scrittore in una grotta sulle montagne. Tuttavia sono ormai finiti i tempi dei mitici santi del deserto: il suo fisico, abituato agli agi della vita di città, viene colpito prima da una lombaggine che ne impedisce i movimenti e poi da un raffreddore. Allora: “Ha mandato una lettera alla sua compagna per spiegarle come sia impossibile descrivere le apparenze; diceva che le apparenze sono fatte d’una pasta diversa, e ciò che ti dicono le apparenze non c’è modo di dirlo. Inoltre stando lassù qualsiasi storia gli sembrava falsa.” 223 220
G. Celati, Finzioni a cui credere, in M. Sironi, Geografie del narrare, pp. 175-176. G. Celati, Riscrivere, riraccontare, tradurre. Conversazione con Marianne Schneider, in «Riga», p. 47. 222 G. Celati, Parabola per disincantati, in Narratori delle pianure, p. 54. 223 Ivi, p. 55. 221
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Gettati tutti i racconti scritti fino a quel momento, il ragazzo prende un treno e torna a casa, ma una volta giunto scopre che la sua compagna se n’è andata lasciandogli in biglietto. Sono mesi di attesa e di cura, dalla lombaggine e dalla bronchite. Dopo un anno il giovane ha ripreso il lavoro e lo studio, ma un reumatismo cervicale lo blocca di nuovo a letto. Nemmeno le certezze dei gesti quotidiani sembrano ormai bastare a garantire un livello minimo di salute, ma almeno la ragazza nel frattempo è tornata a vivere con lui. Dopo un altro anno i due hanno avuto un figlio, lui sta per finire l’università e lei lavora come bibliotecaria. Un giorno però la ragazza decide di lasciare tutto per attraversare a piedi la Francia. Incontrato un piccolo gruppo di ebrei allevatori di cavalli in transumanza attraverso il sud del paese, si aggrega a loro. Questo gruppo vive ai margini della società civile in attesa della fine del mondo (tema che peraltro ricorre in più d’un racconto della raccolta, vedi ad esempio Una sera prima della fine del mondo, narrazione forse pari a questa per lo spiazzamento nei confronti delle attese del lettore e la profondità delle tematiche trattate). Una mattina, mentre la ragazza è a fare la spesa in un paese vicino, il gruppo viene sterminato a colpi di mitra, probabilmente da un commando nazista che rivela così l’unico elemento in grado di fornire una generica datazione temporale all’interno del racconto. “Quando la ragazza è tornata a casa aveva una paresi facciale. Dopo questi fatti, l’uomo che voleva scrivere racconti non è mai più riuscito a scrivere niente.”224 Il narratore non aveva informato il lettore su una ripresa della scrittura da parte del ragazzo, ripresa che rimane tuttavia implicita a partire dal dato del ritorno agli studi e di quest’ultima affermazione. Questo racconto si pone come una moderna parabola che Celati indirizza ai disincantati. In questa scrittura breve, sintetica e diretta non ci sono indugi, le parole si susseguono rapide a descrivere fatti, azioni e pochi pensieri che da soli gettano una nuova luce su quanto accade, luce che tuttavia non rende la verità lì nascosta chiaramente esplicita ma la mantiene sempre sottesa. Sta davanti a noi con tutta la sua evidenza ma non si lascia dire. Per questo non aggiungerò altre parole a questo racconto, perché questo, come gli altri, si inserisce tra quelle forme di letteratura che non necessitano una sovrastruttura che li metta a nudo, sono racconti che, svolgendosi nel tempo, mantengono intatta la loro grazia semplicemente con la lettura che se ne fa, in fedeltà alla vera narrazione che non ha bisogno di essere spiegata in quanto
224
G. Celati, Narratori delle pianure, p. 55.
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“il fatto narrativo in sé non è spiegabile e non è insegnabile. E’ qualcosa che si prende su, come si prende un mestiere, o una lingua; e ha a che fare con l’orecchio, col senso della misura, con la capacità figurale, ma certamente non con le spiegazioni universitarie, e ancora meno con quelle narratologiche.” 225
Smentendomi, aggiungo che forse è proprio questo il senso del racconto: la non riducibilità della vita, la sua imprevedibilità e sfuggevolezza a qualsiasi tipo di spiegazione da parte di ogni credenza, intellettuale o religiosa, anche se continua una sorta di imprevedibile corrispondenza tra le fedi e gli accadimenti, visto che il gruppo di ebrei incontra proprio la fine del mondo che stava aspettando, certo non la fine universale ma la fine del loro piccolo mondo, in consonanza con ciò che essi credevano. Ed è questa fine che mette in atto un totale annullamento di quelle che sono le aspettative del lettore, in una completa predisposizione a seguire l’imprevedibile sviluppo insito nelle cose stesse. E’ uno stato di apertura quello che si evince dai racconti di Gianni Celati e quello che ha guidato anche il procedere dei lavori di Luigi Ghirri. Indicative sono le parole del fotografo riguardo lo sviluppo del progetto Kodachrome: “All’interno di questo percorso scoprivo man mano altre direzioni, altre aree di lavoro, altri orizzonti. Cioè, non era mai un lavoro lineare. Voglio spiegare quest’idea, che sembra un po’ difficile. Non è come imboccare l’autostrada: comincio da Modena, devo uscire a Roma e non mi interessa quello che succede ai lati, non prendo nessuna uscita secondaria. No. Il problema è che durante questo percorso c’è un progetto ben definito, c’è un itinerario tracciato, però è un itinerario che si muove, è il lavoro stesso con le fotografie che ti può provocare nuovi stimoli, suggerire ulteriori intuizioni. Ci sono cose che arrivano e che non ti aspetti. E’ una progettualità preordinata, ma che non scarta nulla a priori, e contempla anche la casualità. […] Diventa una mappa, uno parte con una linea dritta e si ritrova una mappa, costruita da miliardi di piccolissimi segni che si collegano fra di loro e costruiscono un orizzonte possibile.”226
Scrivere e scattare, restare aperti a ciò che offre l’esterno, ordinare pezzi sparsi di scrittura e sistemare le fotografie in una sequenza che abbia un valore in sé narrativo, riraccontare e riordinare vecchie fotografie in nuovi progetti: tutto continua ad avere un nuovo senso, ciò che è già stato visto e ciò che ancora non lo è perché “non c’è niente di antico sotto il sole”,227 come dice significativamente Ghirri citando Borges che a sua volta modifica un verso dell’Ecclesiaste, con una formula che verrà emblematicamente scelta come titolo per la raccolta postuma dei suoi numerosi scritti, lettura fondamentale per acuire la visione dei suoi lavori con la consapevolezza della forza e della profondità del pensiero che soggiace alla limpida elaborazione delle sue immagini. Sono soprattutto le sue parole che hanno 225
G. Celati, Il narrare come attività pratica, in «Riga», pp. 104-105. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, pp. 11-12. 227 L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole, in Niente di antico sotto il sole, p. 138. 226
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fornito alla critica l’apparato necessario per scavare nel significato più profondo del suo lavoro, fin dal modo stesso di costruire le sue sequenze fotografiche, così assonante con la continua rielaborazione e riscrittura, termine quest’ultimo che abbiamo già utilizzato a proposito di Celati ma che si adatta perfettamente anche ai libri fotografici di Ghirri: “Lo spostamento di una fotografia da un titolo a un altro, secondo le esigenze narrative del momento, è sin dall’inizio sistematico in Ghirri per la particolare concezione del proprio lavoro come opera aperta.”228 Un’opera aperta non nel senso di incompiuta ma in sintonia con la volontà di lasciare aperta la dialettica che le sue rappresentazioni intessono con il reale, in un dialogo continuo tra l’ambiente e la sua percezione, nella possibilità infinita di costruire nuove storie semplicemente con il già dato dell’esistente, con i materiali già plasmati, per arrivare a sfogliare alla fine quello che Ghirri ama chiamare il suo “Atlante Personale”.229 Abbiamo già detto come il fotografo abbia sempre teso per ogni suo lavoro alla costruzione del libro: più che alla mostra, dove la fruizione rimane libera e allo stesso tempo vincolata ad uno spazio specifico e variabile, Ghirri aspira al libro come forma congeniale per i suoi lavori poiché in esso le fotografie vengono assemblate in una precisa consequenzialità. Le foto vengono disposte una dopo l’altra suggerendo un prima e un dopo, così come accade nella narrazione: si realizza la possibilità di dare di un luogo, di un tema specifico, tante diverse e affini visioni e prospettive costruendo una trama sottile che viene intessuta da un’idea per trasmettere una precisa atmosfera, un preciso pensiero che segue un suo particolare percorso. E’ ancora una volta raccontando una storia, e di nuovo appellandosi a Borges, che Ghirri illustra quest’aspetto specifico del suo pensiero fotografico: “Borges racconta di un pittore che volendo dipingere il mondo, comincia a fare quadri con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti. Alla fine della vita, mettendo insieme tutti questi quadri e disegni si accorge che questo immenso mosaico costituiva il suo volto. L’idea di partenza del mio progetto-opera fotografica può paragonarsi a questo racconto. L’intenzione cioè di trovare una cifra, una struttura per ogni singola immagine, ma che nell’insieme ne determini un’altra. Un sottile filo che leghi autobiografia ed esterno. […] Questo modo di incastrare che posso definire montaggio, assomiglia al metodo costruttivo di un mosaico o di un puzzle. Tenendo ben evidente che se l’immagine si completa solo alla fine, anche ogni singola immagine deve avere una sua autonomia e validità.”230
Ogni fotografia ha valore in sé e allo stesso tempo vive del e nell’insieme: come una cartina geografica ha significato nella sua singolarità ma esiste solo perché inserita in un 228
P. Costantini, Premessa, in Niente di antico sotto il sole, p. 171. L. Ghirri, L’opera aperta, in Niente di antico sotto il sole, p. 79. 230 L. Ghirri, L’opera aperta, in Niente di antico sotto il sole, p. 77. 229
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contesto più ampio, come un territorio ha le sue caratteristiche in quanto tale e possibilità di esistenza perché appartenente al più vasto insieme del pianeta terra. Esprimendo la volontà di costruire quello che sarà il suo Atlante personale Ghirri non fa riferimento ad un libro qualsiasi ma alla raccolta delle cartine geografiche che, ordinate in un libro in una ben precisa sequenza, vanno a costituire la rappresentazione di un luogo. L’atlante è il libro che raccoglie le riproduzioni dei territori che insieme formano il mondo, gli spazi codificati nella particolare simbologia che l’essere umano ha adottato per descriverli e renderli rappresentabili, riducendoli agli stretti confini di una superficie bidimensionale. L’atlante è il libro che ha accompagnato bambini e ragazzi negli anni dell’apprendimento scolastico e dei viaggi con la fantasia prima dell’avvento di internet, è il libro che ha colorato l’infanzia di Ghirri nelle sue peregrinazioni immaginarie in giro per il mondo, fornendogli nello stesso tempo il senso della vastità ed eterogeneità dello spazio e della misura dell’uomo in questo spazio, poiché nelle fotografie inframmezzate alle carte geografiche si poteva sempre vedere un uomo inserito nel paesaggio. E’ questo il famoso “omino sul ciglio del burrone”231 che compare più volte negli scritti di Ghirri come il ricordo significativo di un’affettuosa immagine: immagine dell’uomo privo di identità specifica, l’omino gli suggeriva “uno stato di continua contemplazione del mondo, e la sua presenza nelle immagini conferiva a queste un fascino particolare. Non solo era il metro di misurazione delle meraviglie rappresentate, ma grazie a questa unità di misura umana mi restituiva l’idea dello spazio; io lo vedevo in questo modo e credevo attraverso questo omino di comprendere il mondo e lo spazio.”232
E’ il primo incontro con una visione del mondo, la carezzevole idea che il fotografo non fosse mai solo nei suoi peregrinaggi in paesi lontani, il senso di una familiarità abitabile che Ghirri, una volta divenuto fotografo adulto, non ritrovò più. Tuttavia, come lui dichiara, “il problema non è quello di far riapparire l’omino, non è cioè la scelta semplicistica di riscoprire forzatamente un centro della rappresentazione […] il problema è che la fotografia non perda definitivamente la capacità di poter rappresentare l’esterno, non deve cioè esaurire questo suo compito fondamentale accentuando il carattere di incomprensibilità, frammentarietà, insensatezza del mondo esterno.” 233
231
L. Ghirri, Fotografia e rappresentazione dell’esterno, in Niente di antico sotto il sole, p. 81. Ibidem. 233 Ivi, p. 82. 232
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Da qui l’esigenza di una visione organica, di un lavoro sulle immagini attraverso le immagini stesse, immagini che non siano slegate e frammentate in modo da accrescere la confusione e dispersione che sembrano comunque regnare sovrane, ma immagini inserite nel continuum di una narrazione. E’ infatti attraverso la consequenzialità che si crea una continuità nella visione, la possibilità di andare più a fondo e quindi di vedere meglio, atto che, seguendo la lezione degli antichi greci per i quali il presente del verbo sapere si esprimeva con quella che la grammatica scolastica chiama un’irregolarità, ossia con il passato del verbo vedere (“ho visto” quindi “so”), dovrebbe portare a un maggior grado di conoscenza. “Ricercare una fotografia che sia in grado di costruire immagini, figure, affinché fotografare il mondo sia anche un modo per comprenderlo”. 234 Costruire immagini, costruire storie, per organizzare l’esperienza, raccontare per aggiungere ai luoghi un nuovo strato di parole, nuovi punti di vista che ricreino quello stato di stupefazione capace di riportare all’uomo l’affezione per i luoghi in cui vive. Creare tanti piccoli punti di significanza che, come i puntini da unire che si trovano tra i giochi enigmistici, formino poi una figura, che c’era anche prima ma non si vedeva; tanti segni che come suggerisce Ghirri formino una mappa, una mappa per misurare i luoghi e trovare in essi l’orientamento perduto in questa deriva del senso. Un’Atlante delle derive, come Giulio Iacoli ha intitolato il suo testo di analisi sulle geografie dell’Emilia postmoderna rintracciate in Celati e Tondelli, è quello che scrittore e fotografo creano per dare una nuova misura alla nostra esperienza, per renderla leggibile e appena un po’ più comprensibile e vivibile. Celati e Ghirri creano entrambi, ognuno a modo loro, delle storie per dar voce ai luoghi, per ritrovarne il senso e renderli di nuovo abitabili, per tornare a vedere l’omino sul ciglio del burrone, perché “ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che cambiano ad ogni apertura d’occhi, disorientamenti infiniti che richiedono sempre nuovi racconti: richiedono soprattutto un pensare-immaginare che non si paralizzi nel disprezzo di ciò che sta attorno.”235
UNA SOSPENSIONE NEL TEMPO CHE PASSA Il tempo. Tempo che passa, tra tempo passato e tempo futuro, tempo fermato e tempo guardato: vediamo ora come questo tema si sviluppa nelle riflessioni e nello opere di Gianni Celati e Luigi Ghirri e per farlo partiamo dall’interessantissimo articolo di Celati, 234 235
Ivi, p. 83. G. Celati, Finzioni a cui credere, in M. Sironi, Geografie del narrare p. 177.
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La veduta frontale. Antonioni, l’avventura e l’attesa, in cui vengono toccati quelli che sono dei temi fondamentali ai fini del nostro discorso. Fin dalle prime righe emerge chiaramente l’amore che lo scrittore nutre per i film di questo grande regista italiano, film che costituiscono una tappa fondamentale all’interno della storia del cinema. Senza di lui e senza il suo sguardo diretto che segue il dispiegarsi di cose, eventi e persone con una limpida profondità fonte di estrema bellezza, secondo Celati, non sarebbero potuti esistere il cinema di Wim Wenders, di Jim Jarmush e di “molti altri film e racconti in cui i tempi descrittivi lenti, i tempi dell’indugio senza aspettative, hanno trovato ammissione.” 236 Nei suoi film si eliminano le aspettative del pubblico nei confronti di grandi eventi o semplicemente di eventi che costruiscano con il loro ritmo un preciso susseguirsi di avvenimenti sorprendenti all’interno della trama. Celati rintraccia questo tipico modo di procedere nello specifico del film L’avventura, in cui una lenta modalità dello sguardo si districa all’interno di un tempo piano, a dispetto del titolo: questo perché lo scorrere delle immagini è segnato all’inizio da un evento ben preciso, la scomparsa su un’isola della ragazza che lo spettatore aveva creduto fino a quel momento ricoprire il ruolo di protagonista. Gli eventi che seguono sono orientati da questo episodio alle naturali ricerche per il di lei ritrovamento ma, senza che vi sia un punto preciso in cui ciò accade, la sua figura lentamente scompare e rimane come un ossessionante sottofondo nelle vite di quelli che diventano i nuovi protagonisti del film, mentre la speranza della sua ricomparsa lentamente muore e il suo ritorno o ritrovamento smette di essere la realtà desiderata, cessa di costituire il canale privilegiato per lo sviluppo della storia. Ciò che viene in primo piano è l’attesa, che non costituisce un momento contingente ma viene ad essere uno stato, diventa parte integrante della vita dei personaggi dal momento che non si avranno più, almeno fino al momento in cui il film giunge alla fine, notizie della donna scomparsa. Quest’attesa si esprime fin da principio attraverso il paesaggio intorno ai personaggi, a partire dalle inquadrature che portano immediatamente in primo piano l’isola teatro della scomparsa: i personaggi che in essa si trovano sono solo suoi ospiti, creature in balia di un tempo che non sanno spiegare. “L’isola nuda, quei personaggi vaganti o immobili, il cielo basso, la visione grigia e siderale, aprono il regno dell’indeterminato (come ogni deserto), in cui le pretese della cultura cominciano a sfaldarsi. Le vedute dell’isola non sono mai descrizioni compiute, ma piuttosto soste nel paesaggio, indugi che producono dei tempi morti. I personaggi vanno avanti e indietro senza meta, semplicemente costretti all’attesa.”
236
G. Celati, La veduta frontale. Antonioni, l’avventura e l’attesa, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 210.
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L’attesa stessa diventa d’ora in poi la vera protagonista del film: l’impossibilità di ottenere delle informazioni precise, delle spiegazioni, porta a una caduta delle aspettative, a un annullamento di quelli che sono i valori ufficiali della cultura, dell’arte e della morale. Ma se la critica riporta tutto questo al cosiddetto “crollo dei valori”, ciò è dovuto alla sua volontà di attribuire una struttura a fatti che invece sfuggono ogni determinazione, al desiderio di ristabilire una sorta di ordine che porta a una lettura delle epoche come successione di momenti di ordine e disordine, dato che questo “crollo dei valori” presuppone un tempo precedente in cui i valori ebbero un fondamento. Celati si stacca da questa deterministica lettura e riconduce tutto il discorso alla caduta delle aspettative prodotte per ingannare il tempo, per ingannare l’attesa. “Il semplice svelarsi dei valori come un ordine vuoto, senza determinazioni fuori dal discorso che li giustifica e li impone, diventa una verità dell’esperienza che la cultura non può mai ammettere.” 237 I presunti valori che crollano non sarebbero che le aspettative artificialmente e intellettualisticamente create dall’uomo per coprire il vuoto del tempo che passa e ricondurlo a un fine che non ha. Con lo svelamento del centro vuoto che stava sotto la brillante patina di copertura dei modelli interpretativi del mondo, l’uomo cade nella vertigine di un tempo svelato, di un tempo sentito. E il pensiero di questo tempo vuoto porta all’immobilità, al disorientamento. Nella scrittura di Celati il vuoto è un tema ben presente, la percezione del vuoto nel tempo che passa, il vuoto dell’anima che le parole cercano di arginare, e il pregio del film di Antonioni è per lui proprio quello di metterci di fronte a questo tempo, un tempo liberato dagli inganni di false contingenze, di falsi valori, progetti, desideri, perché stare in questo tempo vuoto è forse l’unica possibilità che l’uomo ha per continuare a far scorrere la vita. Nell’analisi di Celati la modalità per cui avviene quest’incontro diretto con il tempo e il vuoto è la veduta frontale, l’inquadratura tipica di Antonioni, di Wenders, di Walker Evans, di Ghirri, uno sguardo che evita obliquità e sensazionalismi, una postura diretta di fronte alle cose, un modo di inquadrare semplice che mette ordine nello sguardo: “la veduta frontale è essenzialmente la scelta di una bassa soglia d’intensità, d’un modo di narrare che evita le eccitazioni, e riporta tutto ad un pacato uso della rappresentazione.” 238 Mettersi di fronte alle cose senza l’ansia di guardare, lasciarle essere seguendo il loro moto naturale, stare dentro il tempo. Per Celati la nostra è l’epoca che “sfugge a se stessa, epoca senza epoca, perché la sua attesa d’un altro tempo è tutta solcata da aspettative che ingannano il tempo, che rendono sempre più occulto il presente, nello stordimento del
237 238
Ibidem. Ivi, p. 211.
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sapere e della cultura.”239 Immagini su immagini, parole su parole ottundono il presente e lo coprono: ritrovare la purezza dell’immagine diretta, della lentezza, dei silenzi rotti solo da dialoghi essenziali ci riporta dentro lo scorrere del tempo, dentro il presente del tempo senza più il pensiero del prima e del poi, in uno stato appunto di attesa, l’attesa che secondo Celati aspetta lo svelarsi del tempo. Questo tema dell’attesa è giunto a Celati “guardando una foto di Luigi Ghirri”240: una veduta frontale su un campo da calcio in un prato verde, grandi alberi a chiudere la prospettiva sullo sfondo, in mezzo il rettangolo della porta vuota, il silenzio. “Non è la porta d’un campo di calcio la meta delle aspettative, qui misteriosamente sospese nel presente senza aspettative?”241 Ovviamente non è un caso che Celati faccia riferimento a una foto di Ghirri per ricordare la genesi di questo pensiero: come i film di Antonioni anche le foto di Ghirri ci mettono di fronte alla sospensione di un tempo senza aspettative ed è proprio in questo tempo che i pensieri sembrano nascere, nel vuoto del tempo e nell’attesa di una mente aperta e sgombra, tema che peraltro si ritrova anche in uno degli ultimi film di Antonioni in coregia con Wim Wenders, film in cui un John Malkovich regista-fotografo dichiara che nell’ideazione di un nuovo film, terminato il precedente: “La cosa più difficile è non interessarsi a niente, non leggere, non distrarsi, raggiungere il silenzio e il buio. E’ al buio che la realtà si illumina, nel silenzio che arrivano le voci da fuori.” 242 Il tutto detto tra le nuvole prima e nella nebbia poi, in quella che sembra essere un’ambientazione tipicamente ghirriana e che pervade tutto il primo episodio del film. Sono tessere di un unico puzzle quelle che stiamo raccogliendo, costellazioni di significanti che si compongono di menti affini tanto che la stessa sospensione delle aspettative, la stessa caduta dei desideri è ciò che ritroviamo anche in un altro film analizzato dalla penna di Celati, Nel corso del tempo, non fatalmente di un regista già nominato, Wim Wenders. Il titolo che qui si propone si rivela emblematico per quella che è una lucida e lenta immersione in un viaggio restituito attraverso uno sguardo registico ancora una volta mai teso e incalzante ma al contrario “raffreddato”: cose e persone sono collocate a una distanza tale da rendere difficile l’immedesimazione, campagne e paesi scorrono ai lati del camioncino su cui viaggiano i due protagonisti e si riflettono sui finestrini in inquadrature sempre frontali oppure laterali ad angolo retto, la musica accompagna le immagini più delle parole che emergono prive di scontatezza in dialoghi radi. Tutto scorre con un perfettamente lento ritmo interno che rispetta lo svolgersi delle 239
Ibidem. Ibidem. 241 Ibidem. 242 Michelangelo Antonioni, Wim Wenders, Al di là delle nuvole, 1995. 240
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situazioni nel corso del tempo. C’è spazio tra le immagini, c’è il senso del viaggio da un paese a un altro e del vuoto che intercorre in questo lasso del tempo. C’è la possibilità per il pensiero di dispiegarsi stimolato dallo scorrere figurale dei fotogrammi. E’ di nuovo in gioco quel pensare per immagini tanto caro a Celati e a Ghirri: il riferimento alla modalità figurale del pensiero, oltre a costituire l’essenza stessa del mezzo usato, il cinema che parla appunto per immagini, è anche parte integrante della narrazione interna al film che in più momenti mostra come, in particolare nell’infanzia, il pensiero si sviluppi per immagini, implicitamente attraverso la scena in cui il protagonista ritrova nella sua casa di bambino un albo di fumetti, esplicitamente nella parte in cui i due protagonisti improvvisano uno spettacolo comico di ombre dietro uno schermo cinematografico, mentre dei bambini attendono divertiti di veder proiettato il film scelto dal loro maestro. Ancora più esplicitamente si richiama questo tema con il riferimento al fatto che “prima di imparare a scrivere i bambini vedono nelle lettere dell’alfabeto delle figure fantastiche, ma in seguito quelle fantasie sono dimenticate, oppure diventano disturbi nello scrivere.” 243 Avviene così un collegamento tra il tema del pensare per immagini tipico dell’età infantile e la sua concreta realizzazione attraverso lo snodarsi del linguaggio filmico, in cui “l’attenzione, non più portata sulla nuda evidenza degli oggetti realistici, ma su figurazioni dove è implicito il lavoro immaginativo e affettivo delle nostre proiezioni, è il nuovo modo di concepire le immagini cinematografiche che Gilles Deleuze ha chiamato «l’immaginetempo».”244 Al contrario di quanto avviene nel cinema di consumo qui, infatti, le immagini non si impongono alla vista con un montaggio veloce teso a dare il senso di vite prive di tempi morti, di storie in cui ciò che conta è solo lo sviluppo dell’azione funzionale alla trama che punta a mantenere sempre desta l’attenzione dello spettatore, eliminando le pause, i silenzi, e creando un’idea artificiale dello scorrere del tempo. Non è un ritmo incalzante che non lascia spazi, che investe lo sguardo costringendolo a un’iperattività che lo rende passivo nei confronti di ciò che gli scorre di fronte. In questo film, come in altri film di Wenders o di Antonioni e altri, si vedono scorrere scene in cui non succede niente, lo schermo è occupato da quelli che vengono chiamati “tempi morti”: “momenti che non rimandano a nessuna azione né ad alcuna attesa, e ci invitano soltanto al guardare per un certo tempo le immagini del film, senza altre promesse. Ciò implica che in quei momenti il nostro punto di riferimento non è più quello fictional dell’azione o della trama, bensì quello non-fictional del tempo che passa durante il nostro guardare, o come dice il titolo di Wenders, Im Lauf der Zeit, Nel corso del tempo. Il che vuol anche dire che il dispiegarsi figurale e il pensare per immagini sono la stessa cosa. Le immagini o 243 244
G. Celati, Quando ho visto «Nel corso del tempo», in «Riga», p. 122. Ivi, p. 124.
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le figurazioni immaginarie non sono qualcosa di alternativo al pensiero, come una cultura scolastica ha a lungo creduto: al contrario, sono funzionamenti per mettere in moto il pensiero, per sostenere la sua tensione, e infine per agganciarlo al suo terreno di formazione, che è il tempo che passa, come origine di tutti i pensieri e di tutte le proiezioni emotive possibili.”245
C’è una scena significativa verso la fine del film: uno dei due protagonisti si reca in una piccola stazione in attesa del treno. Ad aspettare con lui solo un bambino con una cartella, seduto a scrivere su un quaderno: “Cosa stai scrivendo?” chiede l’uomo. “Descrivo ciò che vedo in una stazione.” “E cosa vedi?’ “I binari, la massicciata, l’orario ferroviario, il cielo, le nuvole.” A questo punto il bambino guarda l’uomo e inizia a dire ciò che vede di lui e ciò che lui fa mentre lo descrive: “Un uomo con la valigia. Una valigia vuota. Un sorriso. Un occhio nero. Un pugno. Una mano che lancia una pietra.” “Tutto qui?” “Sì.” L’uomo si mette un paio di occhiali da sole. “Se mi dai il quaderno, io ti do gli occhiali e la valigia.” Il bambino annuisce acconsentendo. “Mi piace questo scambio” dice infine. Per un adulto il tempo d’attesa nella stazione sarebbe stato un “tempo morto”, ma agli occhi di un bambino la desolazione di una piccola stazione in mezzo al nulla diventa fonte di innumerevoli tesori: non siamo mai in mezzo al nulla, tenendo gli occhi e la mente bene aperti ciò che si dispiega di fronte a noi è un’enorme quantità che, anche quando minima e infinitesimale, rimane sempre tutto ciò che abbiamo. In mancanza d’altri svaghi il bambino cattura ciò che vede con le parole e così tutto diventa suo. L’adulto sa la ricchezza di quelle parole, la ricchezza di quel quaderno compilato da uno sguardo semplice e diretto, tanto che decide di scambiare quasi tutti i suoi averi per ottenerlo. Il bambino giustamente acconsente: non ci sono filosofie in atto per lui, solo la passione per le cose, e in questo gesto la scrittura diventa una cosa tra le cose, una merce di scambio. In quanto scrittura che descrive il mondo, che descrive l’aspetto dei fenomeni del mondo, essa stessa diventa fenomeno. E di una scrittura fenomenica ci parla Celati a proposito di Georges Perec nella sua postfazione a L’uomo che dorme, di una scrittura tesa totalmente a raccontare l’esteriorità intorno all’uomo per parlarci di esso attraverso gli oggetti che lo circondano, nella convinzione che “per vedere qualcosa bisogna descrivere.”246 Per questo lo scrittore si sofferma a nominare gli oggetti più scontati e banali, a descrivere i gesti quotidiani di una vita ordinaria:
245
Ibidem. G. Celati, Georges Perec e l’uomo che dorme, in Un uomo che dorme, Quodlibet Compagnia Extra, Macerata, (1967¹), 2009, p. 154. 246
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“Si tratta d’un decondizionamento: non tentare di cogliere ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma cogliere ciò che è al di sotto, l’infra-ordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità. (Conversazione con J. M. Le Sidaner, «L’Arc», n. 76, 1979)”247
Appunto attraverso gli istanti si sviluppa questa scrittura, attraverso una frammentarietà che diviene anch’essa istante tra gli istanti: “E’ un’accumulazione di fatti casuali, routine quotidiane, sfoghi d’umori momentanei, dove le parole sembrano far parte d’un fenomeno generale – come parte del tempo che passa, indici del passare del tempo, senza ideali, senza attese.”248 Le parole, scritte nel tempo, diventano come i fenomeni parte integrante di esso. Celati in alcune occasioni afferma di scrivere per far passare il tempo, ma come passa il tempo nella sua scrittura? In un saggio di Anna Langhorn, la cui validità d’analisi è stata riconosciuta da Celati stesso249, si identifica nel “tempo sospeso” la modalità principale del tempo in Celati, in particolare in quella che viene chiamata la trilogia padana: Narratori delle pianure, Verso la foce, Il profilo delle nuvole. Per Langhorn questa sospensione “deriva da un’esperienza del tempo come fenomeno che si posiziona sulla paradossale doppiezza di quiete e movimento”250, enunciazione che ci riporta peraltro alla definizione che Ghirri aveva dato della fotografia: un paradossale connubio della stasi della pittura e della velocità del cinema. Ma vediamo meglio come si arriva a questo sentimento del tempo in rapporto alla scrittura di Celati. I riferimenti che entrano in gioco sono il concetto di cronotopo elaborato da Michail Bachtin: “un cosiddetto «tempo-spazio», vale a dire un’inseparabile interconnessione di rapporti temporali e spaziali riprodotta artisticamente nella letteratura” 251, un luogo della storia legato indissolubilmente al tempo tanto che questo diventa concretamente visibile e percepibile perché facente parte dello sviluppo stesso della narrazione; il secondo riferimento va invece all’analisi fenomenologica del tempo in Husserl, che analizza l’esperienza della coscienza interiore del tempo tramite l’elaborazione del concetto di «stehendes Strömen» o flusso costante: “secondo Husserl la coscienza interiore del tempo è in se stessa un processo temporale.”252 Il presente, che rimane distinto da passato e futuro, 247
Ivi, p. 160. Ivi, p. 163. 249 Cfr. Michele Barbolini, Intervista a Gianni Celati pubblicata su Pulp libri n. 76, dicembre 2008, in <www.rigabooks.it/extra>. 250 Anna Langhorn, Il tempo sospeso. L’esperienza del tempo nella trilogia padana di Gianni Celati., in «Riga», p. 286. 251 Ibidem. 252 Ibidem. 248
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non è frammentato in una successione di attimi istantanei e fuggevoli ma si dilata nella comprensione di un tempo contingente costruito dagli atti temporali passati e da quelli futuri, essendo le fasi temporali passate chiamate ritenzioni e quelle future protenzioni. “Il presente […] non è caratterizzato da alcuna atomicità, né da una struttura puntuale o istantanea: esso è invece un microcosmo composto dalla sintesi di protezioni, ritenzioni e dal limite che le congiunge, l’ora. La ritenzione e la protenzione sono quegli atti che ci rendono consapevoli, nell’«adesso» del presente, delle fasi temporali immediatamente passate oppure anticipate. La sfera del presente «si allarga» dunque, e rivela la sua natura paradossale di quiete e movimento.”253
E’ questo un tempo dilatato, un tempo sospeso, non sottoposto al classico lineare scorrere cronologico fatto di successioni di attimi slegati tra loro ma a una fluida continuità in cui “l’accadimento cambia senza «muoversi»”.254 E’ a quest’esperienza del tempo che Celati fa riferimento: estraneo alle artificiali categorie del vivere imposte dalla scienza, lo scrittore trova maggiore risonanza in una concezione del tempo che si adatti concretamente al tipo di esperienza vissuta. Deriva quindi da qui la sua definizione di tempo sospeso come “un tempo non lineare, senza nessuna meta e senza coordinate chiare. E’ l’esperienza di trovarsi sulla soglia di due sensazione opposte dove le dimensioni temporali del futuro e del passato si mescolano con quelle del presente dando al tempo un carattere fluttuante.”255 Il saggio di Anna Langhorn continua rintracciando all’interno della scrittura di Celati la messa in pratica di questa particolare percezione: l’attenzione si concentra su Verso la foce e su due racconti di Narratori delle pianure, Tempo che passa e Dagli aeroporti. In Tempo che passa è il tempo stesso a fungere da protagonista, all’interno di un paesaggio attraversato in auto ogni giorno da una donna per andare al lavoro: durante il tragitto il lettore si mette con lei ad ascoltare il tempo che passa, nelle campagne che si aprono ad est di Cremona, su strade che costeggiano un grande centro commerciale e dei supermercati, che attraversano paesi piatti il cui suolo “si dilata sempre uguale fino all’orizzonte basso sul fondo”256 e che vengono intercalate dai pali della luce. Il silenzio in questi luoghi è “strano” fino a che non diventa “residenziale”: le campagne si sono trasformate in giardini per villette a schiera dentro cui gli abitanti vivono nascosti e da cui escono solo per andare al lavoro o a fare la spesa. “Nessuno ricorda più cosa potrebbe esserci là fuori, a parte le ore del giorno, il tempo che passa. Allora nello spazio riempito da quel silenzio residenziale c’è solo tempo che passa, percepibile perché il silenzio lo rende così lento che 253
Ibidem. Ivi, p. 287. 255 Ibidem. 256 G. Celati, Tempo che passa, in Narratori delle pianure, p. 46. 254
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sembra non passi mai.”257 E’ il pensiero fisso sul tempo che dilata la sua percezione, allungandolo in un istante che sembra non finire mai, scandito solo dall’attesa di una ritualità fatta dell’ora del pranzo, della cena, della televisione. L’orologio dà un ritmo al tempo, un ritmo scandito dalle sue inesorabili lancette, in un tempo non più vissuto ma misurato: Heidegger ne Il concetto di tempo afferma che è proprio misurandolo che l’individuo perde il tempo, nell’artificiale percezione di un insieme di attimi frazionati che scorrono infinitamente uno dopo l’altro che si ha come effetto la sensazione di una linearità cronologica infinita, di una dilatazione in un vuoto incolmabile, così che “gli abitanti si ritrovano là dentro spesso spaventati da un minuto che non passa mai.”258 Le villette geometrili tutte uguali, le decorazioni alle finestre e nei giardini fatte di piante e fiori o sculture in gesso dei nani di Walt Disney o di finti pozzi o finte rocce, piscine in miniatura: è una precisa trama di variopinti dettagli quella che intrica il vuoto delle vite e in questa il tempo “è solo tempo e basta, tempo senza più tempo perché non va da nessuna parte; e gli abitanti, poveretti, presi in quella trappola, sono diventati così confusi che viene loro un rigor mortis da attesa al minimo contrattempo.”259 Nel panorama aperto su questa desolazione immobile si apre tuttavia uno spiraglio di senso: Celati sceglie di proiettare l’attesa su un ipotetico “contrattempo”, parola questa che, come annota minuziosamente Anna Langhorn, può avere nella pratica un risvolto negativo ma anche uno positivo, in una doppiezza che rimane indeterminata e che verrebbe quindi così a costituire l’essenza stessa del racconto. “Quando il tentativo di misurare il tempo fallisce, la gente è paralizzata e interpreta questo fallimento come un ostacolo che impedisce il normale svolgimento della loro vita, invece di considerare l’impossibilità di fare del tempo una cronologia come un qualcosa di positivo.”260 Ancora una volta è dalla possibilità di stare nella dilatazione del tempo che nasce un seme di positività, nella possibilità di situare l’esperienza dentro il tempo senza opporre resistenza e adeguandosi al suo fluire, nell’apertura al fuori così come viene offerto, nell’atteggiamento che adotta anche la donna di cui seguiamo i pensieri nel finale del racconto che riporto per intero: “Certe sere nei suoi vagabondaggi si ferma in un bar sulla piazzetta di San Daniele. C’è sempre una fila di ragazzi seduti all’esterno del bar, che ascoltano il juke-box stravaccati sulle sedie con aria sognante. E guardando quei ragazzi, non sa perché, le vengono a noia tutte le sue opinioni e giudizi su ciò che vede, sulle
257
Ivi, p. 47. Ibidem. 259 Ivi, p. 48. 260 Anna Langhorn, Il tempo sospeso. L’esperienza del tempo nella trilogia padana di Gianni Celati., in «Riga», p. 289. 258
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villette residenziali e i loro abitanti. Più nessuna voglia di giudicare niente, che passi tutto, che vada dove deve andare, in fondo, dice, è solo tempo che passa.”261
Se lo sguardo sul fuori connesso con l’elaborazione dei suoi pensieri prima aveva creato un’atmosfera di angosciosa estraneità e voglia di evasione irrealizzata e forse irrealizzabile, ora è ancora lo sguardo che punta all’esterno ma questa volta focalizzandosi su una situazione vitale: dei ragazzi seduti fuori da un bar in quella che sembra essere un’inquadratura da una delle immagini di Ghirri (“Dei ragazzi nel bar su una spiaggia, d’intorno è tutto così buio che sembrerebbe quei ragazzi fossero su un palcoscenico a recitare un episodio di esistenza” 262, è la descrizione di Celati di una foto di Luigi Ghirri [fig. 10]: l’ambientazione su una spiaggia è certo diversa, ma l’atmosfera così affine). Su di loro i pensieri si annullano, le resistenze sul fuori si sciolgono e resta solo l’adesione al tutto di cui si fa inevitabilmente parte, al fluire del tempo nel suo inconcepibile scorrere. Mentre il tempo continua a passare la visione si ferma e annega in sé i pensieri: è un momento di sospensione, il dilatarsi nell’attimo che coniuga in sé la quiete e il movimento. E’ un vero e proprio affidarsi al tempo, attraverso il suo incontro nello spazio fuori di noi, come tematizza Celati nel saggio del 1996, Le posizioni narrative rispetto all’altro, a cui Anna Langhorn fa riferimento: “smetto di negare la contingenza dei momenti mutevoli e senza garanzia, e mi affido precisamente allo scorrere incomprensibile della vita così com’è.”263 E’ l’invito a riconoscere la presenza del finito nell’infinito del tempo, la morte dei momenti in quello che sembra essere un flusso incessante, la morte quindi non come obiettivo finale ma come evento connaturato alla vita, la coscienza del nostro essere «finitamente» di heideggeriana memoria. L’adesione a questo insensato scorrere come unico atteggiamento possibile si ritrova come pratica guadagnata nell’agire quotidiano dall’anziano scienziato protagonista del racconto Dagli aeroporti: dopo una vita dedicata a un lavoro costruito su concetti fatti di abili parole tecniche tese a sostenere con la loro ordinata chiarezza un fragile velo di comprensibilità davanti all’oscura imprendibilità delle apparenze, in una terra straniera la cui lingua non sarà per lui mai completamente comprensibile e accessibile, giunto ormai alla vecchiaia l’esperto si ritira in solitudine in una vecchia cascina. Da anni è l’uscire ad osservare “il cielo e le stelle dell’alba sopra i campi” 264 che regola il suo respiro e gli permette di non sentire troppo inutili i suoi studi, anche se ora questi non possono evitare 261
G. Celati, Tempo che passa, in Narratori delle pianure, p. 49. G. Celati, Finzioni a cui credere, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 176. 263 G. Celati, Le posizioni narrative rispetto all’altro, in «Nuova corrente», n. 43, Tilgher, Genova, 1996, pp. 17-18. 264 G. Celati, Dagli aeroporti, in Narratori delle pianure, p. 66. 262
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di apparire definitivi e scontati, come gli oggetti di casa, colpevoli di restituire un’illusoria sensazione di appartenenza “e l’apparenza di una vita durevole”265. Per sfuggire a questi ambigui e ingannevoli sentimenti il nostro protagonista fugge all’aperto, attraverso i campi coltivati e non, perché anche le erbe infestanti sono utili a ricordare l’esistenza di un mondo che rimane altro da sé, per ritrovare la solitudine di un pensiero restituito alla trama di storie intessuta nel vuoto del pianeta. E’ inoltre grazie alla perdita dell’olfatto e di parte dell’udito che lui ora si sente più razionale, più consapevole: “Diceva che non era mai stato capace di vedere niente dentro di sé come fuori di sé; troppo nervoso per tutta la sua gioventù e l’età matura, voglia continua di passare ad altro senza riconoscere i suoi limiti. Adesso vedeva che i suoi limiti erano diventati la sua strada, tracciata soltanto dalle sue infinite incapacità di fare altre cose.”266
Il senso del limite diventa più forte nella consapevolezza di ciò che si è perduto, i nomi imposti dagli uomini alle cose appaiono ormai farneticazioni astratte: nella sua nuova percezione priva di precisione cambiano i criteri di valore e sono altre le cose che diventano importanti: “invece gli accenti e le intonazioni nel parlare, che sentiva nei bar o nei negozi dove andava a far la spesa, adesso nella sua sordità erano per lui un richiamo: un canto delle situazioni, mutevole secondo le ore e i luoghi e le persone, che spesso lo faceva indugiare, contento d’esser con altri ad aspettare che passi il tempo.”267
La sua è un’attesa senza attese nel tempo che passa, è una solitudine intercalata dalla vicinanza con gli altri perché “è il legame con gli altri che dà colori alle cose, le quali altrimenti appaiono smorte.”268 E’ inoltre un “canto delle situazioni” quello in cui l’anziano scienziato ci porta, come se ogni circostanza inserita in un luogo avesse una sua precisa musica, come se il tempo si rendesse percepibile all’udito o nella modalità ritmica del ticchettio dell’orologio o in un’armonia udibile solo quando il ticchettio smette di essere percepito, in quella specie di tempo sospeso dove i sensi si fanno attenti ad altri modi possibili di essere. In questi racconti ci sono alcuni personaggi “che riescono, a volte, a trovare una presenza intelligente in questo tipo di sospensione, presenza particolare che si rivela come una profonda sensazione d’indugio nella quale i personaggi dislocano lo sguardo e vedono le cose, il
265
Ivi, p. 67. Ivi, p. 68. 267 Ivi, p. 69. 268 G. Celati, Verso la foce, p. 115. 266
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paesaggio o l’esistenza, fuori dalla durata, fuori dai ricordi e dalle nostalgie, così come ci si presentano nell’attimo e nella loro contingenza.”269
In fondo la stessa sospensione che abbiamo rintracciato come modalità creativa per il fare fotografia di Ghirri e la scrittura di Celati, una sospensione allo stesso tempo fuori e dentro il tempo, una sospensione che dà vita ad opere dislocate nello spazio e portatrici di un preciso ritmo. Sono i racconti con la loro forma breve a mantenere infatti un ritmo ben scandito all’interno delle raccolte, ritmo che cadenza la lettura e che si attua anche all’interno dei racconti stessi, non a livello del tempo narrativo, dato che le sue coordinate rimangono quasi sempre nel regno dell’indeterminato: poiché le storie si situano nel tempo semplicemente tramite la contestualizzazione delle loro ambientazioni la precisazione dell’epoca del loro svolgimento sarebbe un carattere ridondante e non necessario; è invece la scrittura stessa ad essere ritmo, il susseguirsi delle frasi che tende a mantenere l’andamento di un racconto orale, un procedere breve e cadenzato. In modo consimile ciò accade per le fotografie di Ghirri, più che al loro interno, dove invece si può parlare di statica armonia dato che la loro composizione si rifà al principio classico della sezione aurea, come ha notato Carlo Bordini: “conoscendo un po’ meglio la sua fotografia mi ha impressionato e mi impressiona l’equilibrio che esiste nelle sue foto, questa idea del mondo che si fa senza sforzo, questo numero tre che è sempre presente nelle sue foto, il numero perfetto, il numero della sezione aurea, tutte le sue foto si possono dividere in tre parti, o in due parti, e hanno sempre un centro, e quindi ci sono questi numeri magici: uno, due, e tre; e sono apparentemente statiche e immobili e composte come lo sono le statue di Fidia e di Prassitele e le madonne di Botticelli e come lo è tutta l’arte classica.” 270
Più che al loro interno quindi è alla disposizione in coerenti sequenze narrative che rimanda al ritmo, la possibilità di fruirle attraverso uno sguardo che si muove dall’una all’altra in successione. E’ questo ritmo implicito che permette inoltre la sua interruzione, la sospensione del tempo nel prolungamento della visione di un’immagine che ci ha catturato; anzi, è il ritmo stesso che invita e induce alla sospensione. E’ una pausa nello scorrere del tempo connaturato ai movimenti compiuti per sfogliare le pagine di un catalogo, per muovere i passi nello spazio di una mostra: è un viaggio quello a cui siamo invitati, un viaggio che si verifica nel tempo della nostra ricezione, nello spazio fisico in
269
Anna Langhorn, Il tempo sospeso. L’esperienza del tempo nella trilogia padana di Gianni Celati., in «Riga», p. 291. 270 Carlo Bordini, La semplicità, in L. Ghirri, Vista con camera. 200 Fotografie in Emilia Romagna, p. 185.
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cui siamo e in quello a cui le immagini ci richiamano, un movimento del corpo e del pensiero in un presente che è quindi stasi e movimento. Questo perfetto connubio tra tempo, spazio e movimento lo troviamo meglio rappresentato dal Celati di Verso la foce e di Avventure in Africa. E’ un viaggio infatti quello che compie lo scrittore durante la stesura di questi due libri, volumi che nascono nel mentre del cammino stesso per rimanere dentro le sue coordinate, per non sovrapporre un pensiero astratto a ciò che vive d’immediata concretezza, per mantenere all’interno della scrittura il senso del limite che ci caratterizza: “Quando viaggiavo a piedi per scrivere i diari di Verso la foce, mi sono accorto che c’è una differenza tra prendere appunti sul momento e sul posto in cui sei, e scriverne a distanza. Quando scrivi a distanza sei già nelle generalità dei discorsi, e tutto prende un aspetto di completezza del pensiero. […] Invece se scrivi per dar conto di quello che vedi e senti sul momento, non capisci molto, ma le scene hanno ancora il senso d’un limite nella tua osservazione […] che è anche il senso delle visioni e delle apparizioni.”271
In Verso la foce e Avventure in Africa l’osservazione sul fuori, su ciò che compare ai sensi e al sentire, è condotta come l’annotazione di un diario. La scrittura scandisce i movimenti del viaggio ma l’annotare delle parole con una penna su un quaderno porta inevitabilmente a un’interruzione del cammino: per scrivere Celati si deve momentaneamente fermare, e in questa sosta finalizzata alla scrittura si verifica per lui lo stesso momento di sospensione che abbiamo già visto connotare alcuni dei suoi personaggi. Per lo scrittore è la scrittura in quanto tale che fornisce il pretesto per osservare il mondo da un’altra angolazione, per interrompere lo scorrere dei momenti e fermarsi semplicemente a guardare, a guardare per fissare le cose viste: “Allora scrivi la strada su cui vai, e quel che vedi nelle cunette o ai lati della strada, e le case di abitazione che vedi intorno, e il tipo di traffico che vedi, e il tipo di persone. Ti guardi attorno, vedi cosa c’è per terra, se asfalto o spazzatura o altro, poi guardi l’orizzonte e vedi che rapporto c’è tra l’orizzonte e quel pezzo di terra dove stai mettendo i piedi. Lì spunta il senso del limite, che è anche il senso delle visioni e delle apparizioni.”272
Il tempo sospeso è quello in cui la vista si fa chiara, è il momento in cui lo sguardo si sposta dalle multiformi presenze del mondo al bianco della pagina.
271
G. Celati, Qualche idea sul luogo e i lavori con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 221. 272 Ibidem.
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In Avventure in Africa Celati scrive: “Io vorrei seguire ogni momento prendendo appunti, annotare tutto quello che posso, ma il ritmo vale più dei concetti per acchiappare il mondo”273: in Africa gli abitanti sembrano seguire il particolare ritmo del loro mondo e vivere in connessione con esso. Nei territori visitati dallo scrittore accompagnato dall’amico Jean Talon non c’è fretta, non c’è ansia, non ci sono rotture o forzature nei confronti del tempo ma la quieta accettazione del suo scorrere. La perfetta esemplificazione di questo diverso stile di vita si incontra a un certo punto nelle annotazioni di Celati tramite la storia di Boubacar, guida impareggiabile per gli spostamenti tra gli altopiani africani: “Boubacar calcola precisamente quanto ci si mette da un punto all’altro, anche se non ha l’orologio. Il suo orologio è il passo regolare, quel suo passo come un metronomo, mai un’accelerazione o un movimento brusco, uno spettacolo che mi prende ancora più del paesaggio.”274 Passi regolari e dal ritmo costante, passi in equilibrio con il tempo e lo spazio, lo stesso equilibrio che Celati insegue con le parole che tuttavia, a differenza dei passi di Boubacar, non riescono a sostenere il ritmo: i sensi sono più veloci delle parole che rincorrono il pensiero il quale si deve adattare al loro adagiarsi sulla superficie del testo; esse sono in un certo modo una frattura nel corso del tempo, vivono in una durata che coniuga la quiete della stasi e il movimento del pensiero. C’è un’inevitabile componente di manualità nella scrittura di Celati che lega le parole al tempo, c’è la stessa manualità che Celati invidiava a Ghirri riguardo alla fotografia, dove più evidente risulta la componente fisica del lavoro: il fotografo sta lì, davanti al mondo ma dietro la sua macchina fotografica, guarda attraverso l’obiettivo, imposta i parametri e scatta. In quello scatto sta il suo ritmo, nel tempo di esposizione la sospensione, nella sospensione l’annullamento di uno sguardo che diventa parte del suo soggetto. Come dichiara il famoso fotografo Gabriele Basilico in una lettera a Celati: “Acquisite le condizioni che permettono lo svolgimento di un lavoro, tecniche o progettuali che dir si voglia, per me il far fotografia è un comportamento quasi automatico, istintivo, guidato e scandito dal ritmo. C’è una sorta di ritualità nell’azione fotografica che si svolge nel tempo. Nelle pause tra un gesto e l’altro, negli interstizi dell’azione, in solitudine.”275
Lo scrittore invece guarda, pensa, scrive, e Celati decide di farlo lì, sui luoghi che calpesta, come un fotografo delle parole, senza la mediazione di un pensiero a posteriori, senza l’ausilio di un computer, con la penna che lascia inchiostro sulla carta. 273
G. Celati, Avventure in Africa, p. 33. Ivi, p. 79. 275 Gabriele Basilico, Lettera a Gianni Celati, in «Riga», n. 28, 2008, <http://www.rigabooks.it/extra>. 274
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“Io scrivo, perché volevo ricominciare a scrivere a mano, e il diario di viaggio mi serve a quello. Vorrei fare l’elogio dello scrivere a mano, anche soltanto per dire che la marea lentamente sta entrando nella piccola ansa di pietre vulcaniche, che il sole è circondato da cirri biancastri e tutto è opaco all’intorno. Anche soltanto per passare il tempo, senza aver fretta, lasciando che il tempo si intrecci con le frasi che vengono alla spicciolata, mentre il boy spazza il patio e guardo l’immobilità del cormorano.” 276
Una scrittura dentro al tempo, un tempo legato al mondo, parole che creano una sospensione nel tempo che passa.
SASSUOLO CAPITALE DELLE PIASTRELLE Marco Belpoliti intervista Luigi Ghirri nel periodo in cui questi era impegnato in un lavoro fotografico su Sassuolo, suo paese d’infanzia: “Sassuolo, la capitale della piastrella, uno dei luoghi a più alto reddito pro capite d’Italia e con il maggior inquinamento, luogo di immigrazione, paese “devastato” e reso irriconoscibile dallo sviluppo di decine e decine di piccole fabbriche, che luogo è? Mi interessa fare un viaggio di ritorno. Sassuolo è il luogo della mia infanzia, ma non è un viaggio nostalgico verso le radici. Certo il passato è importante, così il recupero di una memoria collettiva, ma attraverso il presente. Far storia significa procedere attraverso i mutamenti. Tuttavia non è questo il mio problema centrale. Fotografando Sassuolo procedo a spirale, attraverso il perimetro, i calanchi, le tangenziali, le fabbriche. E’ l’Italia quotidiana. Sassuolo è il luogo della produzione. Spariscono le montagne di terra per diventare montagne di piastrelle, diventano superficie, vanno, sotto forma di quadrati colorati, in giro per il mondo a ricoprirlo. E’ uno sterminato territorio dell’analogo. Formigine, il paese dove ora abito, è uguale per certi aspetti a Cefalù, ma al tempo stesso conserva la sua unicità.”277
Sassuolo come simbolo della modernità, Sassuolo come simbolo della memoria, collegamento con la storia personale del fotografo ma anche ritorno alle origini di un passato collettivo: il presente come stratificazione di mutamenti, come segno di un passato che permane sotto i devastanti cambiamenti che danno al paesaggio un aspetto radicalmente diverso da ciò che era ieri. Sassuolo che, in quanto “paese delle piastrelle” 278, ricorda da vicino il luogo in cui vive l’industriale delle scale a chiocciola, parente e amico 276
Ivi, p. 140. L. Ghirri, Nel regno dell’analogo. Intervista di Marco Belpoliti, a cura di M. Belpoliti, in Niente di antico sotto il sole, p. 286. 278 G. Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Quattro novelle sulle apparenze, p. 44. 277
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del dipintore d’insegne Emanuele Menini protagonista del racconto di Celati Condizioni di luce sulla via Emilia: “La grande piana del paese delle piastrelle comincia non lontano dal punto in cui c’eravamo fermati. Là, per chilometri e chilometri, hanno affettato tutte le colline per ricavarne argilla e farne piastrelle.” 279 Si scava nel cuore della terra lasciando enormi buchi al posto delle colline o nel cuore di esse, si scava non per costruire ma per ricoprire, per decorare. E’ da quelle parti che Menini andava da bambino con la nonna: “Raccoglievano spighe e chicchi di grano rimasti per terra dopo una mietitura, e con quelli riuscivano a fare il pane per qualche giorno. Ogni tanto durante queste spigolature sua nonna si fermava a pisciare in piedi a gambe larghe, sollevando appena un po’ l’ampia sottana che arrivava fino a terra. Invece in altri periodi lui e sua nonna andavano a scavare argilla con una paletta, poi con uno stampo facevano mattoni da vendere ai negozianti, poi hanno smesso perché i negozianti volevano solo mattoni industriali, dove gli spigoli sono perfetti.”280
Nel Discorso di Fontanellato Celati ripercorre alcuni episodi di vita raccontati dall’amico fotografo: “Ricordava una nonna dalle lunghe sottane, con cui andava a raccogliere argilla per fare mattoni con lo stampino.”281 Ghirri nacque a Fellegara, frazione di Scandiano, ma tre anni dopo la sua famiglia si trasferì a Braida di Sassuolo, cittadina famosa per la produzione di piastrelle. Forse sono solo coincidenze ma i punti di contatto tra la storia del dipintore d’insegne Emanuele Menini, la cui figura abbiamo già visto essere così prossima a una sensibilità fotografica, e quella del fotografo Luigi Ghirri ci portano inevitabilmente a pensare il personaggio letterario creato da Celati come una sorta di alter-ego dell’amico, ennesima conferma della profonda influenza che ebbe questo rapporto nella pratica artistica. Ma facciamo un passo indietro e rileggiamo la domanda successiva dell’intervista precedentemente citata: “ Ma non siamo troppo “vicini” ai luoghi per rappresentare la loro analogia? Forse. La fotografia è insieme il luogo dell’analogo e dell’unico. Quando Kierkegaard scriveva: «Ah! Che grande scoperta la fotografia, credendo di renderci diversi, ci rende tutti uguali», fa una affermazione giusta. Ma è anche vero che quando una persona guarda la propria fotografia cerca un unico, pur sapendo che i mezzi di costruzione dell’unico sono degli analoghi. La stessa cosa succede oggi per il territorio che abitiamo. La fotografia è l’immagine di un mondo possibile, scelto tra i
279
Ivi, p. 45. Ibidem. 281 G. Celati, Discorso di Fontanellato, in M. Sironi, Geografie del narrare, p. 195. 280
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tanti mondi possibili, per questo credo sia più vicina alla fantascienza che ad altri generi letterari o estetici.”282
Queste parole di Ghirri a proposito del suo fare fotografia aprono delle prospettive nuove: la pratica artistica da lui scelta è il regno dell’analogon, dell’analogia che si pone contemporaneamente come identico e come unico. Ghirri continua l’intervista affermando che la sua idea di fotografia concilia le opposte categorie della copia riproducibile all’infinito e della copia unica, perché inserendosi nella catena della riproducibilità la ferma, mostrandola. Ghirri per spiegarsi meglio ricorre a un esempio e ricorda il fotografo tedesco degli anni ’30, August Sander, che “interruppe la catena della produzione in serie dei ritratti, fotografando non un operaio ma l’operaio.”283 Allo stesso modo Ghirri si inserisce nella tradizione delle fotografie da cartolina in maniera ben diversa dai suoi predecessori e anche dei suoi contemporanei: Ghirri mostra la cartolina, fa “una foto ricordo di una foto ricordo” 284 e così svela il meccanismo della finzione, finzione che tuttavia nasce da una ben precisa realtà. I paesi della provincia di oggi, i paesi impressi nelle fotografie di Ghirri e nelle parole di Celati mostrano tra loro una forte somiglianza, una comunanza sia nei piccoli dettagli che nelle grandi inquadrature e questo li fa apparire stranianti. Sembrano luoghi costruiti dalla mano di un unico uomo ma allo stesso tempo non lo sono. In essi riconosciamo tutte le caratteristiche della modernità ma sappiamo anche che nella loro uguaglianza esistono profonde diversità, quelle date dagli uomini che li abitano. “Stranamente, ed è un fatto che mi ha sempre sorpreso, solo gli abitanti riconoscono a questi luoghi una loro particolarità e un carattere preciso, al quale non rinunciano, pur avendo la consapevolezza che il paese, o la borgata, o la città più vicina a est o ovest, non importa, somigliano moltissimo ai luoghi in cui essi vivono. E’ che forse li guardano come se leggessero il palmo della loro mano, sapendo che per scoprire qualcosa bisogna farlo con estrema attenzione, perché oltre alle linee principali che sono nette e chiare, ce ne sono tante altre, piccolissime che le intersecano e che nell’insieme ne determinano l’unicità.” 285
Sono queste linee quelle che cerca Ghirri, il suo è uno sguardo che indaga luoghi che sembrano conosciuti, che appaiono tutti già visti ma che conservano ciascuno la sua unicità: nel regno dell’analogon Ghirri cerca un punto di contatto con ciò che fotografa, cerca di ritrovare e far ritrovare dei punti d’affezione per un territorio che sembra diventato estraneo. “Per me come per tutti quelli della mia generazione, al di là dei piccoli e dei 282
L. Ghirri, Nel regno dell’analogo. Intervista di Marco Belpoliti, in Niente di antico sotto il sole, p. 286. Ibidem. 284 Ibidem. 285 L. Ghirri, Una luce sul muro, in Niente di antico sotto il sole, p. 166. 283
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grandi eventi che accompagnano la vita delle persone, dall’amore ai dolori più forti, ci son state attenzioni diverse e interessi diretti più all’esistente che non alla cultura già codificata. Nessuno partiva dalla storia, ma dalla vita.” 286 E’ per questo che le sue sono immagini lontane da critiche o apologie, perché il suo intento è unicamente quello di mostrare, non di costruire una critica. Marco Sironi nel suo approfondito studio su Celati e Ghirri analizza il rapporto dei due con lo spazio: entrambi cercano “una lingua per dire le cose” 287 nell’afasia e indicibilità che sembra aver attanagliato il reale (“E’ da questo affacciarsi su di uno spazio smisurato, estremamente complesso, sin da principio punto d’incontro delle rigide forme architettoniche e del fluttuante regno dell’esistente, che ha inizio questo sentimento di indicibilità che accompagnerà per sempre ogni visione”288), un diverso modo di parlare a partire però dall’unica lingua che ci è data, senza evasioni ma restando ben fermi sulla terra che ci appartiene e che appare oggi desolata. Questa desolazione è creata da un ordine preciso e artificiale che si impone sull’esistente, dove la complessa e articolata variabilità delle cose viene soppiantata da una mentale razionalizzazione e copertura degli spazi, la cui vista viene impedita da nuove costruzioni di grandi palazzi o parcheggi, in un territorio “così asfaltato come se gli uomini dovessero dimenticare per sempre com’è fatta la superficie della terra”.289 Tutto questo lo ritroviamo negli scritti di Celati in cui “le immagini della sterilità, della nudità della terra sconvolta e abbandonata […] restituiscono una minuziosa cartografia della desolazione”290, per cercare in quest’immersione nei deserti di solitudine della quotidianità d’oggi la possibilità di un racconto che racchiuda in sé un nuovo orientamento. Ma, sempre secondo Sironi, se gli scritti di Celati raccontano la desertica desolazione, le immagini di Ghirri invece “non raffigurano la catastrofe nel suo accadere, anche laddove rivelano, delle pianure, la piattezza o la nudità estrema. Nemmeno si lasciano pensare come visioni consolatorie, o momenti d’evasione dalla tragicità del presente: piuttosto, come briciole che, messe insieme, indicano la via del ritorno – come dichiarazioni di fedeltà alla terra che risvegliano all’illusione di mondi virtualmente fruibili, umili atti concreti d’una vocazione a salvarla, perché non diventi «territorio di nessuna storia e nessuna geografia».” 291
286
L. Ghirri, in Paola Ghirri, Ennery Taramelli, Premessa, in Vista con camera. 200 Fotografie in Emilia Romagna, p. 9. 287 Marco Sironi, Geografie del narrare, p. 98. 288 L. Ghirri, Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, in Niente di antico sotto il sole, p. 133. 289 G. Celati, Il ritorno del viaggiatore, in Narratori delle pianure, p. 106. 290 Marco Sironi, Geografie del narrare, p. 97. 291 Ivi, pp. 98-99.
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Ghirri sovrappone le sue immagini all’esistente come se costruisse un ricordo: nella sua ricerca di un’appartenenza al mondo, nel tentativo di leggere qualcosa in più del reale intrufolandosi nelle sue screpolature, cercando quel buco lasciato scoperto e nel quale la verità si fa leggere, tema tanto caro all’arte (basti ricordare uno tra tutti Montale: “Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità.”292), Ghirri cattura il tempo in un’inquadratura e crea un momento d’affezione: l’immagine si carica del pensiero che l’ha costruita e del moto sensibile che l’ha voluta fermare. Non è un caso se all’interno del catalogo di una mostra dedicata a Ghirri, Vista con camera. 200 Fotografie in Emilia Romagna, una delle sezioni è stata appunto intitolata Asa nisi masa: questa è la formula “magica” che Mastroianni nel film di Fellini 8 e ½ ricorda per mettere alla prova l’abilità di un prestigiatore e della sua assistente che si dimostrano capaci di leggere nel pensiero. Dal presente della festa il montaggio ci porta abilmente a rievocare un mondo perduto, perduto in quanto mondo dell’infanzia ma anche perduto perché il locale e antico modo di vivere è ormai sparito. E’ solo un ricordo delle generazioni più adulte il mondo in cui i bambini facevano il bagno nel mosto e la notte si risvegliavano i fantasmi del passato: nel flashback del film una bambina avverte infatti il piccolo protagonista che quella è la notte in cui i ritratti degli antenati si animano e lo sguardo di quella che forse era una nobildonna del passato indicherà l’angolo della casa in cui venne sepolto un tesoro. Per trovarlo bisogna recitare la formula: Asa Nisi Masa. Queste parole fatte solo di significante e prive di significato sono la chiave per accedere a un ricordo e ritrovare il perduto mondo dell’infanzia, sono la formula magica per riavere un tesoro fatto solo di immagini. Il film 8½ è ambientato in un soggiorno termale e appunto al lavoro fotografico di Ghirri sulle terme è dedicata la sezione Asa Nisi Masa del catalogo curato da Paola Ghirri e Ennery Taramelli, lavoro che aveva trovato precedentemente più ampio spazio nel libro fotografico Magie di acque e di luoghi nei paesaggi termali dell’Emilia Romagna. Nel saggio I luoghi del corpo, che funge da introduzione critica al lavoro, Arturo Carlo Quintavalle nota come le terme siano fin dall’antichità il luogo in cui prendersi cura del proprio corpo ritrovando contatto con esso grazie alla dedica di un’attenzione tutta particolare e assente negli altri spazi della vita pubblica e nelle normali abitudini del vivere quotidiano, in un luogo che sfrutta le potenzialità curative dell’acqua, e non solo, per 292
Eugenio Montale, I limoni, in Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1984, pp. 11-12.
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purificare il corpo ma anche lo spirito, poiché le terme sono il luogo in cui curare un’allergia tutta contemporanea, “quella ai ritmi che non permettono di trovare se stessi, quella ai ritmi di vita che impediscono di guardare e di guardarsi.” 293 Le terme sono un luogo in cui l’uomo torna a fondersi con gli elementi naturali e nel lavoro ad esse dedicato è l’ambiente ciò su cui Ghirri, come di consueto, punta l’attenzione: l’accento delle sue fotografie è posto sugli edifici termali, sulla natura che li circonda e sulla chiara pulizia di linee dei loro interni, sulle terme come spazio altro dal quotidiano, luogo di un tempo libero dal negotium in cui dedicarsi completamente a sé. Dei vari stabilimenti visitati l’inquadratura tendenzialmente prima si sofferma sul fuori, sull’esterno delle costruzioni architettoniche spesso integrate in una natura fatta di ordinati giardini o di liberi boschi, poi entra all’interno, dove la presenza umana è colta tra densi fumi e vapori, è assente o fermata in un movimento fantasmatico, mentre compie attività ricreative sociali o si astrae in una preziosa solitudine. Ghirri restituisce il tempo sospeso di questi luoghi in cui la frenesia quotidiana si annulla, cogliendo per ciascuno una sfumatura caratterizzante. Ghirri crea con ogni sua immagine un Asa Nisi Masa, un significante magico capace di riportarci indietro nel tempo, capace di riportare nel presente la memoria che avvolge i luoghi e cattura le persone: è un atteggiamento di profonda meditazione quello in cui sembra immerso l’uomo avvolto in una nebbia di densi vapori, in un bianco indistinto in cui velatamente si riconosce il suo maglione rosso, rosso come i fili della memoria. Intorno a lui sedie vuote a rappresentare forse un’umanità assente, perduta o scomparsa, in un annullamento nel corso del tempo. [fig. 11] Ma l’Asa Nisi Masa non è solo la chiave di un ricordo, è anche una formula magica per dominare il mistero che irrompe nella presunta normalità, ed è questa normalità straniata, dalle apparenze a volte indecifrabili, quella a cui ci riportano le foto di Ghirri. Vedi ad esempio una fotografia tratta sempre da questa serie [fig. 12]: siamo all’interno di quella che è una sala probabilmente adibita a palestra, sulla sinistra delle tende grigie formano un separé che indirizza lo sguardo verso la parte destra dell’immagine. In primo piano, poco più spostato verso il centro, uno sgabello metallico, dietro un pavimento vuoto, di fronte all’osservatore una parete occupata per tutta la sua lunghezza da una sbarra gialla e più in alto da ampie finestre da cui entra una forte luce e attraverso cui si intravedono degli alberi. Sulla destra ciò che cattura completamente l’attenzione: un grande specchio quadrettato che copre due finestre per metà; su di esso sono riflessi dei pesi e un uomo seduto che ne sta sollevando alcuni. La cosa più importante tuttavia è che a una prima 293
Arturo Carlo Quintavalle, I luoghi del corpo, in Magie di acque e di luoghi nei paesaggi termali dell’Emilia Romagna, Nuova Alfa Editoriale, 1987, p. 21.
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distratta visione noi vediamo solo un paio di gambe sospese da terra e prive di busto, in un’immagine davvero sorprendente. Quando lo sguardo si fa attento il gioco dello specchio risulta chiaro: l’uomo è dalla parte opposta della stanza, steso a sollevare dei pesi con le gambe piegate; il movimento delle braccia è solo leggermente percepibile come un velo leggero sfumato dalla lunga esposizione che fissa ciò che sta fermo e imprime invece il movimento in una sequenza che si intravede soltanto. L’azione ritratta è semplice e quotidiana ma l’effetto complessivo della foto crea una realtà bizzarra e straniante, tanto da ricondurci al concetto di fantastico cui Ghirri spesso ricorre, tramite la citazione di Roger Caillois, per definire la sua concezione di paesaggio oggi: “Roger Caillois dice che il fiabesco è un universo meraviglioso che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza. Il fantastico invece rivela uno scandalo, una lacerazione, una irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale. Ed ancora: l’apparizione è lo strumento essenziale del fantastico: ciò che non può accadere e che tuttavia si produce, in un punto e in un istante preciso, nel cuore di un universo perfettamente sondato e dal quale si credeva bandito per sempre il mistero. Tutto appare come ogni giorno: tranquillo, banale, senza nulla di insolito (R. Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza) L’idea del fantastico credo che ben si adatti alla mia idea di paesaggio, è proprio all’interno di questa mutazione, passaggio dal mondo del fiabesco a quello del fantastico, che si può spiegare l’aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono, sapendo alla fine che quello che ci è dato conoscere non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo.”294
In una realtà divenuta sconosciuta agli occhi di un uomo che non ricorda forse nemmeno più come fosse possibile un’armonica integrazione nella natura, un rapporto fiabesco in cui gli elementi estranei e inconoscibili non apparissero irreali ma essi stessi parte di un misterioso equilibrio, in quello che è oggi “un paesaggio che sembra aver dimenticato ogni riconoscibilità e possibilità di lettura, grazie a una sottile, malefica magia fantascientica” 295, Ghirri afferma che tra i vari generi possibili la fotografia è più vicina proprio alla fantascienza perché è in questo filone che più si mostra l’intervento dell’uomo sul paesaggio. E’ nei romanzi e nei film di fantascienza che nel momento in cui l’umano sta per soccombere all’artificiale da lui stesso creato è proprio quest’artificiale a ricondurlo al ritrovamento dei caratteri più forti della sua umanità e a un più sincero legame con la terra da cui trae la sua origine. La fotografia a sua volta non è altro che un mezzo artificiale dalla doppia valenza, allo stesso tempo strumento di straniamento dell’uomo dal mondo e
294 295
L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole, in Niente di antico sotto il sole, p. 138. L. Ghirri, Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, in Niente di antico sotto il sole, p. 136.
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strumento per il suo riavvicinamento e riconoscimento: sta nell’uso che se ne fa la scelta di una delle due opzioni. “Tra i fili aggrovigliati del sempre identico, della ripetizione indifferente nello spazio informe, regno dell’analogo e della quantità, la fotografia può attraverso frammenti e intuizioni, piccoli mutamenti della luce, l’evidenza di un colore, il particolare di una facciata, le linee di un volto, uno spazio inatteso, trasformare per noi tutto questo in piccole certezze. Un insieme di piccole costellazioni da unire fra loro, per tracciare un itinerario possibile, come fossero i sassi di Pollicino.” 296
Nella percezione straniata del reale Ghirri ci ricorda che quello che si offre al nostro sguardo è sempre mediato dalla percezione, ma ci ricorda anche che questo è tutto il reale che abbiamo, tutto ciò che del reale ci è dato conoscere. Con le sue immagini Ghirri cerca di lanciare dei nuovi e allo stesso tempo antichi sassi di Pollicino, per ritrovare una strada nel disorientamento di un mondo che sembra aver perso la sua memoria. Con il suo amore per le cose esprime il desiderio di non aumentare la distanza dal reale che quotidianamente ci circonda ma di iniziare un riavvicinamento ad esso, esprime la volontà di ritrovare ancora una volta lo stupore, la meraviglia per l’indecifrabilità di questo mondo, intesa non come estraneità ma come misteriosa insondabilità. Esiste un cortometraggio del 1962 intitolato La jetée e costruito non tramite le classiche riprese cinematografiche bensì totalmente, tranne per una scena di pochissimi secondi per cui venne usata una telecamera, con un montaggio di fotografie. Una voce fuori campo racconta una storia ambientata nella Parigi di un ipotetico futuro post terza guerra mondiale: il genere è palesemente quello della fantascienza e la storia prescelta si adatta mirabilmente alla costruzione di quello che è un vero e proprio fotoromanzo cinematografico di grande spessore, che rimane un esempio credo unico ma importante ai fini di un’ipotetica nobilitazione del genere fotoromanzo, quasi in antecedente rispondenza ad uno dei desideri di Ghirri: “Si era anche parlato, con Ermanno Cavazzoni, di realizzare un fotoromanzo. Trovo che sia un’idea molto bella e divertente quella di legare un’esperienza di tipo letterario, narrativo, al lavoro fotografico. In fondo il fotoromanzo è uno dei generi più collaudati e di maggior diffusione popolare, ma, a differenza del fumetto, non si è mai evoluto, non ha mai raggiunto livelli autoriali.”297
Ne La jetée gli uomini vivono sottoterra perché la superficie della terra è stata distrutta; indebiti vincitori detengono il potere per condurre invasivi esperimenti su prigionieri che si 296 297
Ibidem. L. Ghirri, Lezioni di fotografia, p. 33.
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distinguano tra gli altri per il possesso di una fervida immaginazione: solo una mente particolarmente predisposta all’immaginazione riuscirà a reggere l’impatto di una seconda nascita in un altro tempo. Attraverso sofisticati meccanismi si tenta infatti di creare un buco temporale attraverso cui mandare queste cavie dapprima nel passato, per testarne l’impatto, e poi nel futuro per ottenere i mezzi necessari al ripristino di una vita sulla superficie. Il controllo sulle menti è totale per riuscire ad individuare la persona adatta e il protagonista della storia viene scelto per gli esperimenti in virtù di un ricordo d’infanzia che lo ossessionava: sarà l’unico capace di sostenere l’impatto con il mondo del passato, con la nuova nascita in un mondo pre-devastazione. Una volta che è stato aperto lo sguardo sulla Parigi prebellica le fotografie scorrono mentre la voce narrante esprime tutto lo stupore e la gioia per il ritrovamento di un mondo in tempo di pace, il gusto per le piccole cose, la ricchezza che prima animava la vita. Attraverso un espediente narrativo si torna a scoprire l’attrazione per la più semplice quotidianità e s’inscena efficacemente la memoria come museo d’immagini. Attraverso la scelta di un tema fantascientifico si concretizza la fotografia come immagine necessaria: gli ambienti inquadrati sono semplici ed efficaci, non servì ricostruire artificialmente un mondo futuristico ma si adoperarono immagini dell’epoca completamente prive di effetti speciali. Le inquadrature che si riferiscono alla vita nel sottosuolo ci riportano in sotterranei familiari che perdono tuttavia ogni connotato di normale contemporaneità: la mente è naturalmente portata a immaginare ciò che non vede direttamente ma che è ugualmente compreso come sottotesto dell’immagine, quello che non si vede esplicitamente ma che viene alluso ai margini. Sono inoltre le parole del narratore esterno che contribuiscono maggiormente a ricreare questo mondo fantascientifico, a condurre la mente in un ambiente dall’aspetto così quotidianamente reale eppure completamente fantastico. Questo fotoromanzo cinematografico riesce mirabilmente a coniugare fotografia e memoria, memoria condivisa del passato e immaginazione di un futuro inesplorato, memoria comunque fatta di immagini. Ne La jetée si dà vita a un mondo freddo e inaccessibile in cui si ritrova l’amore per ciò che è perduto, si riscopre la bellezza del le piccole cose. Non certo la stessa ma una similare atmosfera di inquietante normalità straniata la ritroviamo anche in Condizioni di luce sulla via Emilia, racconto già citato di Celati, in cui viene descritto uno dei tanti anonimi paesi della via Emilia, un ambiente ovattato dove le persone vivono senza nemmeno rendersene conto in una nube costante di smog:
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“In certe giornate limpide, salendo sulla montagna e guardando verso la lunga strada, si vede una fascia bluastra o perlacea secondo le stagioni, sospesa sulle pianure quasi in permanenza. Quella è la nube entro cui si vive da queste parti, una nube dove ogni luminosità si disperde in miriadi di riflessi. Un traffico di automezzi in file continue scorre per molte ore al giorno sulla lunga strada, per gran parte del suo percorso. E per gran parte del suo percorso si viaggia tra due quinte formate da cartelloni pubblicitari, lunghi capannoni industriali, stazioni di servizio, empori di mobili e lampadari, depositi d’auto in esposizione, depositi di carcasse d’auto, bar, ristoranti, palazzine a colori vivaci, oppure quartieri d’alti palazzi sorti in mezzo alle campagne.”298
Sono “due quinte” quelle che formano i cartelloni pubblicitari, i capannoni, gli empori, i depositi e tutte le costruzioni che fiancheggiano i lati della strada: è un teatro fittizio di cose in vendita quello che l’uomo ha creato per sé e di cui Celati ci riporta la piana e semplice descrizione, quello che Celati nomina per ricondurlo a noi. Le parole che seguono continuano con la descrizione del pulviscolo che occupa permanentemente l’aria, assorbendo i raggi di luce che arrivano dall’alto e riducendo così i contrasti con le ombre diurne. L’atmosfera tuttavia cambia a seconda delle ore del giorno e delle stagioni perché il terreno argilloso non trattiene la pioggia e le nebbie sono fitte e frequenti. “Dunque la nube di riflessi sulla lunga strada appare spesso opaca o cinerea nelle stagioni umide, per le nebbie fitte di vapori che salgono dal suolo. Invece è quasi sempre iridescente nei mesi più caldi, e ad esempio in estate al mattino un campo di cavoli può presentarsi agli occhi con un verde fluorescente, una stazione di servizio e un capannone industriale possono apparire tremolanti come un miraggio, mentre il cielo sereno è tutto perlaceo fino allo zenit. Solo quando il sole è basso all’orizzonte diventa possibile scorgere bene le ombre sulla terra, i contorni delle cose, e guardare le cose senza averne lo sguardo offuscato dai barbagli nell’aria. E di notte sulla lunga strada non si vedono mai molte stelle, perfino ci si dimentica che in altre zone del pianeta i cieli fittamente popolati di luci sono uno spettacolo normale. Qui in alto le luci della Via Lattea e dell’Orsa e le Pleiadi, nelle notti d’estate sono quasi sempre perse, introvabili, la loro scintillazione confusa dalla bruma su quelle terre con pochissimi venti.”299
Non è un paesaggio futuristico o fantascientifico quello che descrive Celati ma la normale condizione dei paesi industriali lungo la via Emilia, e non solo. E’ tuttavia unicamente grazie all’occhio attento del dipintore d’insegne Emanuele Menini e della paziente penna dello scrittore che ascolta le sue riflessioni che tutto questo trova sguardo e voce: serve una vista più acuta del normale per scorgere il tremore della luce, quella “Luce scoppiata in
298 299
G. Celati, Condizioni di luce sulla via Emilia, in Quattro novelle sulle apparenze, pp. 39-40. Ivi, pp. 40-41.
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disfazione”300, perché chi vive dentro il pulviscolo non si accorge della sua presenza e vacilla insieme alle cose. “[Menini] Aveva pensato che per vedere la nube bisogna trovarsi in punti speciali, come ad esempio al di qua di quel cavalcavia. Ma anche nei punti speciali le cose erano due: o si sta dietro al tremore o si guarda. E in quelle periferie guardare e vedere qualcosa era quasi impossibile. «Perché?», si è chiesto. E ci ha spiegato il perché: perché uno guarda e pensa di aver visto qualcosa, ma il tremore nell’aria porta via subito il pensiero di quello che ha visto. Così c’è solo il pensiero di muoversi nella luce scoppiata, e bisogna muoversi e basta nell’affaccendamento di ogni giorno. […] «Dentro questa nube noi siamo tutti legati l’uno all’altro dalla respirazione. Nessuno può respirare diversamente dagli altri e avere altri pensieri. E così siamo tutti come ubriachi che non sanno quello che fanno, ma che si tengono per mano. Ve lo dico io che non sono nessuno ma che abito qui da vent’anni.»”301
Menini non è nessuno, ma la sua vista è più acuta di quella degli altri, come l’oculista gli confermerà: “lui ci vedeva meglio degli altri in distanza, perché ci vedeva male da vicino.”302 Menini riesce ad astrarsi dagli affaccendamenti e dall’ubriachezza che porta tutti ad aver costantemente fretta in quella totale obnubilazione dello spazio che causa gli scontri: gli incidenti sono dovuti a una mancanza di percezione di questo spazio, a una perdita di contatto degli uomini tra loro e con il loro ambiente (sarà un caso che lì dove vige una totale assenza di regole del codice automobilistico mezzi e uomini sembrano muoversi con un armonico e incomprensibile equilibrio caotico in cui gli scontri sono un evento raro?). “Appena fuori dal bar il dipintore d’insegne ci ha indicato un cane maciullato dal traffico sulla banchina laterale, e ha detto: «Guardate, ecco com’è la vita qui. Dunque quando voi sentite il tremore nell’aria dovete stare molto attenti. Qui noi viviamo come ubriachi e non si sa mai cosa può capitarvi. E non attraversate tanto la strada, mi raccomando. Perché da queste parti tutti rispettano solo le macchine, e hanno solo pensieri di macchine. E ritengono che, se qualcosa non è una macchina, quella sia una bassezza della vita.»”303
Quella che si presenta qui è una quotidianità non lontana dal mondo della fantascienza, da un clima fantascientifico che sembra prospettare nella realtà di oggi un futuro non più così lontano.
300
Ivi, p. 41. Ivi, p. 43. 302 Ivi, p. 47. 303 Ivi, p. 44. 301
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Procedendo nel racconto infatti il senso di straniamento aumenta: se nella gita domenicale di Menini, accompagnato dallo scrittore e narratore della storia e dall’amico fotografo Luciano, il paesaggio risulta pacificato dalla neve che ripristina i contrasti restituendo così nitidezza alle cose, è tuttavia la vista del paese delle piastrelle a riportarci in un clima di desolazione quasi surreale: “La grande piana del paese delle piastrelle comincia non lontano dal punto dove c’eravamo fermati. Là, per chilometri e chilometri, hanno affettato tutte le colline per ricavarne argilla e farne piastrelle. Quella mattina passando riuscivamo a vedere fette di colline che erano ancora in piedi, sul suolo piatto e bianco, speroni che sorgevano dalla terra piallata con le ruspe. In altri posti non vedevamo niente perché le colline erano state tutte asportate, e in altri posti ancora invece delle colline vedevamo enormi buchi scavati per ricavarne argilla, valloni rettangolari contornati da brughiere d’erbe ingiallite.” 304
In un paesaggio sconvolto non è solo la natura a venir defraudata di se stessa, anche i ricordi perdono il loro luogo: Menini a un certo punto chiede di fermare la macchina. “In mezzo alla strada puntava un dito e ci gridava: «Là c’era la mia scuola», ma noi vedevamo solo palazzoni a vetri pieni di insegne in stile americano, che erano sedi commerciali delle ditte di piastrelle in aperta campagna. Sull’altro lato della strada una discarica di rottami era coperta di neve e cinta da reticolati, più avanti un cartello avvertiva: SABBIE MOBILI.” 305
Non lontano dal paese delle piastrelle vive “l’industriale delle scale a chiocciola”, parente e ammiratore di Menini che durante la gita domenicale si reca a trovarlo con gli amici. La villa in cui in quel tempo viveva l’industriale era stata costruita da un architetto locale in stile californiano per conquistare l’amore della moglie di un miliardario delle piastrelle che ora, dopo aver abbandonato marito e figlio, abitava con lui. Ma la ricchezza sembra non bastare alla felicità: persa la causa per l’affidamento del figlio la donna entra in uno stato di profonda tristezza che solo i paesaggi dipinti da Menini sembrano rasserenare. Questi infatti non dipingeva solo insegne, pannelli per giostre, per palchi di teatro o grandi pupazzi: la sua vera specialità e passione erano i paesaggi “quando avevano montagne innevate sullo sfondo, ruscelli che vagano tra i prati, piccole figure pastorali e un lago con un torrione sulla riva.”306 Le richieste per questi soggetti si erano ormai esaurite e Menini continuava a dipingere questi paesaggi per sé, anche se trovare l’immobilità delle cose, la giusta condizione di limpidezza atta ad essere impressa nella pittura, era diventata un’impresa molto difficile. Per questo lui non era un grande pittore, come un giorno spiega 304
Ivi, p. 45. Ibidem. 306 Ivi, p. 53. 305
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all’amico scrittore: “«Ti dirò perché Menini non è un gran pittore. Perché se l’immobilità lui non la vede, non riesce neanche e dipingerla. Ma c’è un altro fatto che devi scrivere. Se Menini e nessuno riesce più a vederla, le cose sono disgraziate.»” 307 E lo sono perché il tremore nell’aria sfuma i loro contorni e fa perdere loro la nitidezza necessaria a ritrarle. In un mondo dove “la luce scoppiata” è diventata la condizione normale dell’atmosfera e tutto si muove di un movimento perenne e continuo, ciò che sta fermo appare l’eccezione rispetto alla norma: “se qualcosa si presenta con ombre un po’ ferme, così che la luce può far respirare l’ombra attraverso i colori, invece di soffocarla nei colori netti senza ombre, quella cosa appare molto disgraziata.”308 L’immobilità, che non soffoca come la velocità ma lascia libero spazio al respiro, rende le cose disgraziate perché propone una condizione contraria e opposta rispetto a quella del movimento frenetico e causa così una stonatura, suggerisce un atteggiamento che appare costrittivo e forzato agli occhi di chi quest’immobilità la guarda dalla sua mobile posizione. Ma non sono solo le cose immobili ad avere una condizione estranea rispetto alla norma, la condividono con loro anche le cose fuori posto: “Davanti alle palazzine c’erano sempre piccoli cipressi d’Arizona a decorazione dell’ingresso, e spesso piccoli lampioni nei giardini. Secondo Menini anche quei lampioni erano dei dispersi, perché secondo lui tutte le cose fuori luogo erano dei poveri dispersi. […] E ci è parso che tutte le apparenze fossero diventate oggetti di scambio con un preciso modello, comprese le ombre e le luci, il silenzio e i rumori: non dipendevano più dall’ora del giorno, dal caso o dal destino, ma solo dal modello in vendita.” 309
Una luce dispersa avvolge le cose che sembrano disposte solo in risposta alle esigenze del mercato: case dipinte con colori acrilici, nei giardini muretti in argilla e fiori dai colori troppo vivaci che cercano di contrastare l’opacità dell’aria, in piazza “alberi scapitozzati” e ragazzi in motorino che tendono a radunarsi davanti alla luce artificiale delle insegne, attratti dalla pubblicità. Il dipintore d’insegne cerca i dispersi nella modernità, studia la fluttuazione dell’aria, il rapporto tra l’ombra e la luce, comunica poi le sue idee agli amici, a volte compreso, altre no, ma soprattutto dipinge. E’ per cercare di ricreare l’effetto di pace dei dipinti di Menini e donare così un ambiente felice alla donna amata che l’industriale delle scale a chiocciola elabora l’ambizioso progetto di ricostruire artificialmente uno dei paesaggi dell’amico dipintore: comprato un terreno abbandonato pianifica la costruzione di una grande villa con un parco 307
Ivi, p. 48. Ivi, p. 50. 309 Ivi, p. 49. 308
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dove avrebbe installato delle turbine per la produzione di venti che avrebbero ripulito l’aria, restituendo nitidezza e immobilità alle cose. Aveva inoltre intenzione di collocare nel parco un bosco di castagni canadesi che avrebbe poi popolato di orsetti lavoratori, e di installare dei corsi d’acqua che avrebbero percorso tutta la tenuta e le cui acque sarebbero state increspate dalla brezza delle turbine. “Quando l’industriale aveva proposto il progetto a Menini, questi gli aveva fatto una sola obiezione: che se le turbine fossero state abbastanza potenti da spazzare l’aria come venti di libeccio, dando così l’impressione di vivere in un altro mondo, avrebbero però prodotto un tremore che non era da meno di quello della lunga strada."310
Non si può ricreare artificialmente ciò che si è naturalmente perso: il progetto dell’industriale è quello di un mondo di finzione, è la volontà di creare un analogo del mondo privo per contraccambio dei maggiori caratteri di autenticità dell’originale, è il tentativo di una ricostruzione che avrebbe installato nell’ambiente i tipici elementi stranianti di un paesaggio fantascientifico. “Alla fine il fantastico progetto dell’industriale delle scale a chiocciola era andato a monte. Un giorno inaspettatamente la sua compagna era tornata a vivere con il marito miliardario delle piastrelle, per nessun sensato motivo che lui riuscisse a comprendere. Negli ultimi tempi la donna era indifferente a tutto, e si capiva bene che non gliene importava niente del paradiso artificiale che lui andava progettando.” 311
E’ così che, al posto della grande villa con meraviglioso parco annesso, nel terreno vengono piantati due miliardi di pioppi, “alberi che crescono in fretta e permettono notevoli guadagni”312, due miliardi di nuovi alberi, due miliardi di nuovi dispersi. Quello che si prospetta in questo racconto è un paesaggio desolato in cui predominano i caratteri dell’artificiale, un paesaggio che sembra tanto corrispondere ai paesaggi che Ghirri vedeva sconvolti da una “sottile, malefica magia fantascientifica”, un paesaggio disperso che rivela un reale straniante e alterato, un reale che continua ad avere tuttavia chi lo nomina e gli dà voce, chi indugia su di esso il suo sguardo, per cercare una spiegazione, per trovare ciò che è ancora degno di rappresentazione. E’ in questo paesaggio ai limiti tra la realtà e la sua rappresentazione, tra una descrizione possibile e un’afasia innominabile, che un elemento misterioso irrompe a squarciare il ritmo della normale quotidianità, a riportare l’attenzione su ciò che meno la 310
Ivi, p. 58. Ivi, p. 59. 312 Ibidem. 311
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desta, a rendere un evento impossibile possibile. Menini da tempo era affetto da un male ai polmoni, chiaro simbolo di un rapporto compromesso tra il dentro e il fuori, di un’aria che ha perso le sue più pure qualità compromettendo la respirazione, ma nonostante questo lui continuava a dedicarsi a lunghe passeggiate per continuare le sue ricerche. Un giorno dopo una forte nevicata, in quello che era uno degli inverni più rigidi del secolo, Menini venne trovato morto in un fosso a lato della strada. Poco prima di morire era riuscito a chiamare da una cabina telefonica l’industriale delle scale a chiocciola per parlargli di una palazzina che aveva visto. Sarà l’industriale, preoccupato per la salute dell’amico in quel freddo così rigido, a trovarlo un paio d’ore dopo la telefonata, proprio lì da dove l’aveva chiamato. “Ma che abbia camminato nella neve alta fino al punto in cui è stato trovato morto, a sessanta chilometri da casa sua, sembra piuttosto strano. E’ anche poco chiaro cosa l’abbia interessato in quella palazzina nelle campagne, che al telefono lui diceva d’aver osservato bene.”313
La morte di Menini introduce un elemento “strano” nella narrazione e rimane avvolta nel mistero, a segnare con la sua indicibilità ciò che rimane inconoscibile. L’enigma della palazzina invece viene svelato alla fine del racconto, quando il narratore si reca a vederla insieme a Luciano, in una campagna vuota a una ventina di chilometri dal mare: “La palazzina ha un tetto formato da quattro spicchi triangolari, e facciata quadrata con quattro finestre chiuse da tapparelle di plastica grigia, che spiccano sul color indaco dei muri. Guardandola da un centinaio di metri appare molto tranquilla in mezzo ai campi, con la fioritura d’una antenna televisiva sul tetto. Vasi di fiori disposti accanto all’ingresso, un muretto di cinta da cui spunta una siepe di lauro ornamentale, due piccoli cipressi d’Arizona ai lati della porta, completano la sua bella presenza in quel luogo appartato. La palazzina era misteriosa; da sola componeva un mondo d’immagini tutto diverso da quello della via Emilia, che passa lì accanto. L’aria era pulita, l’ombra pomeridiana cadeva esattamente tra i due piccoli cipressi che inquadrano la porta, richiamando l’effetto d’un luogo perennemente indisturbato che danno i viali dei cimiteri.”314
La palazzina era misteriosa ma non aveva apparentemente nulla di diverso dalle palazzine precedentemente descritte: era l’aria intorno ad essere diversa. Lì Menini riesce finalmente a trovare la pace di un luogo indisturbato nella sua immobilità, lì Menini trova l’immobilità che coincide per lui con la morte. 313 314
Ivi, p. 57. Ivi, pp. 59-60.
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Sarebbe facile a questo punto vedere nel racconto una sorte di anticipazione dell’improvvisa morte che colse Luigi Ghirri all’età di quarantanove anni, cinque anni dopo la pubblicazione di Quattro novelle sulle apparenze, raccolta a cui questo racconto appartiene, ma sarebbe una forzatura. Ciò che conta qui è la presenza di una realtà in un universo che sembra aver assunto le caratteristiche di un racconto fantastico, la comparsa di un mistero irrisolvibile in un insieme di dati oggettivati, la presenza, nell’afasico regno del tutto analogo, di una rappresentazione e di una parola ancora possibili.
CONCLUSIONE Ti serve qualcosa che apra nuove porte per mostrarti qualcosa che hai già visto prima ma a cui cento e più volte non hai badato lì ti serve qualcosa che ti apra gli occhi. Bob Dylan
Bob Dylan fu una delle grandi passioni di Luigi Ghirri e Gianni Celati la condivise con lui scrivendo: “Se non avessimo mai ascoltato canzoni non possiamo dire cosa ora saremmo. Non ci hanno indicato la strada, che in fondo è solo là dove ti muovi, ma tu cammini e vai seguendo questo: l’ininterrotta nenia di parole con cui si parla in te il sentito dire, onde di voce che arrivano a guidarti, dovunque vai, verso qualcuno o qualcosa, spesso sorpreso che esistano anche luoghi di cui nessuno ti aveva mai parlato.”315
315
G. Celati, in L. Ghirri, Sulla strada, dylaniati, in Niente di antico sotto il sole, p. 114.
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La musica è profondamente connaturata all’opera sia di Ghirri che di Celati ed è solo un altro tassello dell’incontro tra arti capace di unire diversi pensieri e diverse modalità di approccio al reale per cercare quella piccola “smagliatura sulla superficie delle cose”. Nel trattare questi temi ho affrontato sensazioni contraddittorie: il senso del tradimento, nei confronti di qualcosa che è già compiuto in sé e non avrebbe affatto bisogno di ulteriori parole perché già vive della sua espressione, e la voglia invece di parlare, di raccontare ancora una volta l’intuizione di quello che Celati e Ghirri possono aver visto e di come l’hanno poi comunicato, di raccontare il modo in cui io li ho letti, di unire il mio dentro e il mio fuori con il loro. Tanti ancora sono i temi che avrei voluto affrontare, come ad esempio l’analisi dei documentari di Celati, che riassumono mirabilmente e sinteticamente tutta la sua poetica e sono vere e proprie poesie, di immagini e parole. Poesie che forse non sarebbero esistite senza quelle dell’amico, così come vengono definite le fotografie di Ghirri da Beppe Sebaste: “Io credo che le fotografie di Luigi Ghirri siano degli idilli, fusioni di mondo esterno ed interno, «mondo interno dell’esterno dell’interno», come ha scritto qualcuno. Nelle sue foto, pezzi di mondo vengono resi visibili, e come aureolati da una potenza di pacificazione coll’altro mondo, il nostro, quello che solitamente è là fuori ma molto spesso ci è estraneo, e che nelle sue ridescrizioni diventa abitabile e amabile. Le fotografie di Luigi Ghirri sono però anche dei canti, come se l’idillio vibrasse nella sua materia espressiva di una sua corda vocale, una tonalità che investe e trasforma il mondo esterno/interno come una litania le cui note si caricano della forza epica del referente – il racconto del nostro mondo – dove interno ed esterno si fondono in un’unica soglia sottile come membrana e resistente come pietra, come una poesia. Penso alla fine che le fotografie di Luigi Ghirri siano appunto questo: poesie.”316
Celati come molti rimase affascinato da quelle poesie. Quello che ne nacque fu un sodalizio umano e artistico, una reciproca e fondamentale influenza, una di quelle piccole storie che fanno la storia. Il risultato furono delle carezze al mondo, fu un nuovo linguaggio per narrare il mondo. “Di fronte allo sconfinato mondo della città, ci si pone alla ricerca di una nuova lingua comune, consapevoli che parole, suoni, figure, fotogrammi, immagini, fotografie sono diventati costellazioni di significati e rimandi, echi, miscugli di diverse forme. Si è creato così una sorta di esperanto, una lingua che non è formata da singoli vocaboli, ma da piccole costellazioni, che comprendono suoni, immagini, parole, percezioni. Una lingua solo intuita, mai detta o esplicata. Un nuovo misterioso silenzio che ci lega e
316
Beppe Sebaste, Storia con figure, in L. Ghirri, Vista con camnera, 200 Fotografie in Emilia Romagna, p. 205.
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accomuna. Un carico che portiamo con noi, che accompagna il nostro viaggio: ‘Siamo come un piroscafo che incrocia un altro piroscafo e c’è un’ignota nostalgia del passaggio’, dice Pessoa.” 317
Ho preferito lasciare prima a Celati e poi a Ghirri le parole per la conclusione di questa tesi perché non credo ce ne sarebbero di migliori per riuscire a esprimere la loro compiuta realizzazione, ciascuno nella sua specifica modalità, di un nuovo esperanto, una nuova modalità di percezione del mondo che ci circonda, una capacità di lettura che oggi ci appartiene, grazie alla generosità di molteplici sguardi, attraverso varie arti, sul e nel continuo cambiamento del paesaggio italiano.
317
L. Ghirri, Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, in Niente di antico sotto il sole, p. 136.
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APPENDICE
Fig. 1
Fig. 2
125
Fig. 3
Fig. 4
126
Fig. 5
Fig. 6
127
Fig. 7
Fig. 8
128
Fig. 9
Fig. 10 129
Fig. 11
Fig. 12
130