UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea Triennale in Filosofia
TESI DI LAUREA
UN ANDROGINO NELLA TORRE DI BABELE
Relatore: Ch.ma Prof.ssa LINDA NAPOLITANO
Correlatore: Ch. mo Prof. PIER ANGELO CAROZZI
Laureando: PAOLO VANINI Vr072862
ANNO ACCADEMICO 20082009
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A Luciana Cappi
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INDICE
Pag. – Introduzione 7
– Capitolo I: Divide et impera 13 Una torre di parole 15 Le labbra di un nomade 16
– Capitolo II: Nel nome della legge 19 Il monumento in un nome 23 Le regole d'Amore 26
– Capitolo III: Uno specchio pulito, illuminato bene 31 Se ti tagliassero a pezzetti 35 Allegorie della luna 41
– Conclusioni 47
– Bibliografia 55
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Introduzione Desiderare è ambire a qualcosa che non si ha. L'etimologia di questo verbo ci ricorda che quando guardiamo le stelle, per quanto in alto sappia volgersi il nostro sguardo, è sempre sulla nera terra che camminiamo. I nostri piedi desiderano strade diverse da quella su cui sono di passaggio, immaginando vie che non hanno ancora visto o ricordando sentieri meno tortuosi che una volta percorsero. Borges – che considerava il Tempo un problema essenziale, e forse la ragion d'essere della metafisica, in quanto “viviamo sempre quell'antica perplessità, quella che visse mortalmente Eraclito in quell'esempio cui ritorno sempre: nessuno scende due volte lungo lo stesso fiume” 1 – diceva che la memoria e l'oblio sono entrambi aspetti della nostra immaginazione 2; e forse possiamo dire che ci sono momenti in cui, per non dimenticarci del futuro, di questa possibilità del presente, dobbiamo essere capaci di immaginarci un passato che, come il futuro, non abbiamo potuto vedere. Può essere, e quando Lucrezio ci rivela di non rimpiangere l'infinito futuro che lasciamo alla nostra morte, perché non abbiamo rimpianto l'infinito passato che ci ha preceduto alla nascita, è verosimile non stesse dicendo qualcosa di molto diverso. Ma non è questo ciò di cui si parlerà. Qui si voleva solo dire che il nostro lavoro nasce quale suggestione relativa a due racconti che ci conducono a un tempo i cui eventi sono costitutivi della condizione umana: il tempo del mito. Parleremo degli androgini di Aristofane nel Simposio di Platone e della torre di Babele di cui è scritto nei primi nove versetti dell'undicesimo capitolo del Genesi. Questi due miti, tanto diversi tra loro quanto le culture a cui appartengono, nelle loro eterogeneità ci mostrano un'epoca primitiva in cui gli uomini vivevano in un'unità (ontologica nel primo caso, linguistica nel secondo) che è stata frammentata e quindi perduta. L'oggetto del nostro studio sarà come tale desiderio di ricomposizione, di recupero di ciò che si è perso, gioca e si sviluppa nelle similitudini e nelle divergenze delle due narrazioni, poiché, se dividere è pur sempre tagliare e se chi taglia è in entrambi i casi la divinità e per ragioni analoghe (per limitare la tracotanza e la superbia 1 J. L. Borges, Oral, tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 62. 2 Ivi, pp. 6070, e vedi anche pp. 1727.
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di un'azione umana che si pretende divina), diverso può essere ciò che si taglia e il come si taglia, e la cicatrice che ne rimane come memoria. Questo segno, nel racconto platonico, sarà l'ombelico che vedremo ogni qualvolta abbassiamo lo sguardo, mentre nel Genesi saranno le parole diverse che, nel momento in cui vorremo ascoltarle, stenteremo a capire. E come gli androgini, dopo aver alzato lo sguardo dal centro del loro ventre, cercheranno di riabbracciarsi alla loro perduta metà che potranno riconoscere proprio perché ora la possono guardare, faccia a faccia, negli occhi; gli uomini di Babele, dopo essere stati dispersi su tutta la terra, dovranno reimparare ad ascoltare l'altro, il quale, durante la costruzione della torre, era stato annullato e assorbito dall'uniformità del linguaggio. Guardare colui che ci starà di fronte e tendere le nostre orecchie a quello che tenterà di dirci saranno, allora, paradigmi di un'etica che non può prescindere dal principio per cui noi siamo, antropologicamente e per natura, aperti e bisognosi dell'altro, la cui alterità dobbiamo imparare ad accettare, come egli a sua volta dovrà imparare ad accettare la nostra. E se relazionarsi con l'altro comporterà, nello stesso tempo, guardare ed essere guardati, ascoltare ed essere ascoltati in una combinazione visiva e uditiva nella quale non mancheranno ombre e silenzi nel rapporto erotico presentato da Aristofane subentrerà una simmetria tra lo sguardo dell'amante e quello dell'amato nella quale il commediografo riporrà la nostra felicità. Premesso questo, pareva opportuno chiarire il metodo che seguiremo. Quando si cerca di confrontare due miti, quali i nostri, così distanti sia cronologicamente che topograficamente, il rischio che si corre è quello di registrare similitudini e differenze senza che tale comparazione ci riesca a dire qualcosa di più sulla nostra natura umana. Natura la cui condizione originaria è, non dobbiamo scordare, l'oggetto di ogni narrazione mitica. Ma leggere non è fare l'autopsia di segni sepolti su un foglio di carta. Tra una parola e l'altra esiste sempre qualcosa di non scritto, spazio di assenza che Foucault chiamava gli interstizi delle parole3. In questo confine di silenzio in cui la nostra voce deve trovare la propria direzione, nelle possibilità che le distanze tra le due narrazioni ci aprono, 3 M. Foucault, Utopie. Eterotopie, tr. it. Napoli, Cronopio Editore, 2006, p. 11.
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cercheremo di muoverci in questo spazio motivati “da uno sforzo di chiarire e approfondire problemi cruciali e vitali: sforzo che è presente ed attivo anche all'origine di quei [testi], come di ogni altra espressione del pensiero umano. Questo sforzo […] è animato esclusivamente dall'amore per la ricerca, il quale coglie alla base di tutti questi pensieri altrettante tracce lasciate da problemi decisivi e dai tentativi di dar loro risposte. Perciò la filosofia comparata intesa in questa prospettiva mostra la sua estrema fedeltà all'idea che ci ha donato Platone, quella di philosophia, per la quale ciò che più conta non è sophia, ossia il possesso della verità, bensì philein, ovvero il movimento di ricerca della verità”4. Ma questa comparazione, oltre che filosofica, dovrà essere anche storica, nella misura in cui un pensiero che si rende indipendente dai fatti, che non tiene conto delle condizioni storicoculturalisociali in cui i testi presi in considerazione vengono alla luce, cade facilmente in un'analisi pregiudiziale che si scopre falsata nelle sue stesse ipotesi. Questo pericolo lo abbiamo percepito nettamente nell'accostare un testo del Vecchio Testamento ad uno di Platone, perché se sia la Bibbia che i dialoghi socratici si ritrovano sul crocevia della tradizione occidentale, quando si vuole affrontare la prima volendo rendere conto della religiosità che è propria della sua grammatica, si ha spesso paura di barattare la filologia con la fede, a dispetto della scientificità della critica; imbarazzo questo che è più difficile incontrare nel trattare il corpus platonico senza trascurare i presupposti filosofici ad esso propri5. Così, seguendo il consiglio di Ricoeur di leggere qualsiasi opera come se fosse postuma, cioè senza sentire troppo il peso dell'autore, abbiamo tentato di leggere la Bibbia non come parola di Dio, che rischia di obbligare il fedele al dogma e il non fedele alla resistenza di ogni versetto, ma come ciò che storicamente è: narrazione mitica responsabile del racconto di quelle verità originarie fondamentali per la nostra condizione umana. In tal modo ogni “società dà un senso alle proprie condizioni e forme di esistenza: i miti fondano le cose che non solo sono come sono, ma devono 4 G. Pasqualotto, Filosofia greca e pensiero cinese: una comparazione filosofica, Arianna Editrice, 2005, in http:www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517. 5 Di Platone si ripete spesso la condanna ai poeti, in quanto imitatori di una imitazione, eppure si scorda facilmente che egli ha continuato e non ha rinnegato quella tradizione secolare che affidava all'arte poetica del “mito” le verità non esprimibili attraverso la logica dialettica. Perché ci sono condizioni originarie che l'uomo non poteva dedurre da alcuna ipotesi e, per far sì che fossero in un qualche modo manifestabili alla propria ragione, ha dovuto giocar d'anticipo su essa. Tali condizioni possono essere solo raccontate, attraverso narrazioni che vogliono più mostrare una verità (aletheia) che si presenta nella sua evidenza del non essere nascosta, piuttosto che dimostrarne una che debba giustificare la propria validità.
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essere come sono, perché così sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso”6. Nella cultura ebraica questa narrazione – che fonda il rapporto esclusivo di elezione tra Jahvè che sceglie Israele come suo popolo, facendo di Israele il popolo del suo Dio è percepita come parola che ci trascende e che ci convoca a una continua e inesauribile rilettura di quanto ci può rivelare. Secondo il commento di Rabbi Yishmael a Geremia 23: 29: “Come sotto l'effetto del martello la roccia vola in frantumi, così da un solo versetto si levano sensi diversi” (Sanhedrin 34a). Accostare il mito dell'androgino a quello della torre di Babele dovrà cercare allora di trovare alcuni sensi diversi che, se prese separatamente, le due narrazioni non potrebbero rivelarci. Con questo scopo, dopo aver ripercorso la trama dei due testi nel primo capitolo, nel secondo sarà necessaria un'analisi filologica su alcuni termini che ritornano in entrambi, quali la “legge”, la “parola”, il “comandamento” e il “nome”, i quali, se una volta tradotti, risultano equivalenti, negli originali ebraici e greci presentano accezioni e significati differenti che non abbiamo potuto trascurare. E il nostro commento, per quel che riguarda il Genesi, si affiderà soprattutto alla tradizione midrashica, capace per secoli di ridare voce a ciò che noi chiamiamo Scrittura, ma in ebraico si dice miqra, ovvero “lettura”, una lettura operatrice di senso che integra la scrittura “risvegliando una parola dal corpo di una lettera” 7, perché “rende alla Torah scritta la sua vera misura e anche l'indispensabile dismisura della ricerca, aprendosi per l'appunto a una lettura infinita della prospettiva inattesa”8. Nella prima parte del terzo capitolo, poi, per approfondire l'immagine dello sguardo “faccia a faccia” (horôn horônta) tra le due metà del primordiale essere a tutto tondo nel momento in cui si abbracciano, si è analizzata la figura della visione frontale e speculare nella tradizione greca, presente in diversi miti, quali Medusa mozzata da Perseo e Narciso affogato nel riflesso di se stesso. Da qui si è cercato di mostrare che, nel racconto degli androgini, sia il frontale sia lo 6 A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1966, p. 11. 7 D. Banon, La lecture infinie. Les voies de l'interprétation midrachique, tr. it. La lettura infinita. Il midrash e le vie dell'interpretazione nella tradizione ebraica a cura di G. Regalzi, Milano, Jaca Book, 2009, p. 39. 8 Ivi, p. 11.
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speculare si scoprono essere una non convenzionale metafora, con la quale Platone sembra indicarci che per vedere e conoscere noi stessi dobbiamo, e non possiamo non farlo, specchiarci nell'immagine riflessa dalla pupilla di colui che ci sta di fronte e che noi forse amiamo: “guardare in un'altra anima, e soprattutto nella parte di questa nella quale risiede la virtù dell'anima, la sapienza” (Alcibiade, I 133 b). Infine, visto che di amore e di Platone si sta parlando, ci siamo rifatti a Marsilio Ficino e al suo “amor Platonico”, una sintesi originale in cui convergono l'amicizia della tradizione classica, la carità paolina e l'estetica del dolce stil novo. Un amore che, platonicamente, si dimentica del corpo a favore dell'anima, e infatti il Ficino, commentando l'encomio di Aristofane nel De Amore, ha prima bisogno di dimostrare che quando si dice “uomo” in realtà si dice “anima”, per poter dunque allegorizzare la carnalità degli androgini in spiritualità delle anime. Ma l'amore ficiniano, così usurpato dalla banalità di una tradizione di luoghi comuni, fa dell'humanitas il suo fine e la sua ragion d'essere, perché la mistica del Ficino, non in Dio, ma nella dignità dell'uomo trova il suo fondamento, anche se poi questa dignità, che risiede soprattutto nell'amore verso il lume soprannaturale, inevitabilmente ci condurrà al celeste. Rimane una cosa da dire in questa che è solo un'introduzione, ed è una cosa che già ha detto Montaigne quando scriveva di non aver mai fatto nulla senza gioia. Nel corso del nostro lavoro, che essendo un lavoro di ermeneutica è prima di tutto un'opera di lettura, abbiamo sempre creduto, e crediamo, che la lettura dovrebbe essere un modo di essere felici, anche se soltanto per il tempo di un paragrafo. E non importa se le parole che leggiamo sono interrogativi socratici o sentenze divine la cui eco risuona nel deserto. Perché in entrambe le letture si può essere amici di Platone, ma ancor di più amici della verità.
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Divide et impera audax omnia perpeti gens umana ruit per vetitum nefas (Orazio, Carmina I, III, 2526) “audace a tutto sperimentare la stirpe dell'uomo precipita nel vietato ineffabile”
Sdraiati sui letti, da sinistra verso destra, in un' aria fragrante di incenso e con il capo cinto da corone fiorite, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone e Socrate stanno tessendo, ciascuno a suo modo, la propria lode a Eros. A parlare è Aristofane 9, il commediografo, che poco prima, colpito da singhiozzo, aveva lasciato la parola a Erissimaco e che, a seguito dello starnuto che gli ha “ristabilito il buon ordine del corpo” (189a), se la riprende e, dopo averne spese altre due per fare il verso ai consigli terapeutici dell'amico medico, inizia il suo discorso, con la “paura di dire non cose da ridere...bensì cose da deridere” (189b). Nei “suoi” ma è Platone che sta scrivendo usuali toni dell'affabulazione comica, Aristofane racconta un mythos che, per narrare delle origini di Eros, dovrà prima narrare quale era l'originale natura degli esseri umani. Un tempo il genere umano aveva tre sessi, il maschile, il femminile e l’androgino (sia maschile che femminile) e, fatto ancor più singolare, quegli esseri avevano forma circolare: dotati di quattro mani e altrettante gambe, di due volti uno opposto all’altro, di un collo unico così come il petto, di due organi genitali, potevano muoversi in qualsiasi direzione e in qualsiasi direzione guardare, “perché il maschio aveva a principio del suo nascimento il sole; la femmina la terra; e il terzo sesso che partecipava dei primi due, la luna... eran quindi fatti e si muovevano a cerchio, perché simili a quei loro genitori” (190b) 10. Erano straordinariamente forti e, di conseguenza, straordinariamente superbi, tanto che, come 9 Il discorso di Aristofane occupa i passi da 189a a 193e. L'edizione a cui ci rifacciamo nel nostro studio è: D. Susanetti, Platone. Il Simposio, Introduzione e Commento di Susanetti, tr. di C. Diano, Venezia, Letteratura universale Marsilio, 1992, pp. 99111. 10 La forma sferica per la tradizione greca è sinonimo di perfezione, completezza e razionalità; tanto che lo stesso kòsmos è un universo razionale, e non un ammasso di materia caotica, proprio in virtù della sua sfericità. Nell'essere simili “a quei loro genitori” (terra, sole e luna), gli originari esseri sferici mostrano la loro armonia e capacità di autosufficienza.
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a suo tempo i Giganti, “tentarono di scalare il cielo e dare addosso agli dèi” (190 b). Zeus, insieme agli altri dèi convinto che gli uomini se ne debbano stare con i piedi per terra e non sull'Olimpo, e però preoccupato di non perdere gli onori e i sacrifici che riceveva da loro, risolve non di ucciderli ma di tagliarli a metà: “Li spaccherò in due; e così non solo saran più deboli, ma, cresciuti di numero, ci saranno di maggiore vantaggio. Intanto cammineranno ritti su due gambe e se m'accorgo che continuano ad essere insolenti e non vogliono star tranquilli, li spaccherò ancora in due e li farò andare su una gamba sola, come quelli che ballano sull'otre” (190 d). L'operazione fu affidata alle mani chirurgiche di Apollo, che, dopo aver tagliato gli esseri in due dall'alto in basso, rigirò il viso e il collo di ciascuna metà dalla parte del ventre, cosicché ogni volta che ci guardiamo l'ombelico, nodo con il quale il dio sistemò i lembi della pelle, ci ricordiamo “dell'antica pena” (190 e). Il risultato dell'operazione fu però che “ciascuna metà desiderando l’altra, le andava incontro; e, gettandosi intorno le braccia e l’una all’altra allacciandosi, nella viva brama di rifondersi insieme, morivano di fame e d’inerzia, per non voler far nulla l’una staccata dall’altra” (191 ab). È nato, dunque, Eros – conseguenza non voluta né prevista dallo stesso Zeus. A questo punto il padre degli dèi, mosso a pietà, trasporta gli organi genitali sulla parte anteriore del corpo, così da permettere l’unione sessuale sconosciuta agli uomini primordiali, i quali generavano sulla terra “come le cicale” (191 c). Ora l’unione dei corpi non è più inazione preambolo di morte ma, al contrario, è il tramite della procreazione umana, è strumento di vita. Ma non solo. Prima di tutto l’amore è il desiderio irrefrenabile che ciascuna metà prova di riunirsi all’altra metà, quel sentimento che Simone Weil chiama “fame di plenitudine” 11. Fusione che sarà eterosessuale se le metà originariamente facevano parte di un essere androgino, omosessuale se appartenevano a un essere interamente maschile o interamente femminile. Poiché “ciascuno di noi è come una mezza tessera d'uomo, spaccato come le sogliole, e d'uno fatto due” (191 e), e nella nostra vita cerchiamo di restaurare quell'antico nostro essere che continuamente ci insinua il ricordo che “noi s'era tutti interi, per modo che ciò a cui diamo nome d'amore non è altro se non la brama e la ricerca di quell'intero” (192 e). Siamo stati “divisi e dispersi” (193 a)12 dalle divinità 11 S. Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it., Torino, Boria, 1967, p. 145. 12 Corsivo nostro.
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perché avevamo voluto equipararci a loro, e onde evitare di esser tagliati ancora, fino a sembrare i “bassorilievi delle stele” (193b), dobbiamo seguire la guida di Eros, che oltre a farci trovare l'amato che a noi corrisponde, non ci renderà inviso agli dèi. Perché “la specie nostra può essere felice solo a questo patto, se noi conduciamo a perfezione l'amore ed abbiamo la fortuna di incontrare ciascuno l'amante che ci è proprio, ritornando per tale modo alla natura antica” (193c).
Una torre di parole Come la passione, anche la sabbia sotto i piedi scalda. Muovendoci verso oriente, luogo di deserti, ma in un tempo ancora non lontano dal Diluvio, nel primo versetto dell'undicesimo capitolo del Genesi leggiamo di un tempo in cui “tutta la terra aveva la stessa lingua e le stesse parole” e, “proprio emigrando dall'oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di Shine'ar e vi si stabilirono” (Gn 11, 12). Una volta lì si rivolsero l'uno all'altro e dissero: “<<Venite, facciamoci dei mattoni e cuociamoli al fuoco!>>. Il mattone servì loro invece della pietra e il bitume servì loro invece della malta” (Gn 11, 3), perché, commenta Rashi di Troyes, “non vi sono pietre in Babele, che è una pianura [e perché] è così che si fanno i mattoni”13. E con le pietre e coi mattoni, si dissero gli uomini, “costruiamoci una città e una torre, la cui cima sia nei cieli, e facciamoci un nome, affinché non ci disperdiamo sulla superficie di tutta la terra!” (Gn 11, 4): al riparo delle mura essi sentono che saranno più forti e sicuri. Ma la torre deve arrivare al cielo, dominio di Dio, il nome per eccellenza, il quale, nella sua onnipotenza, nel dare i nomi crea gli esseri 14. “Ma il Signore scese a vedere la città e la torre, che stavano costruendo i figli dell'uomo” (Gn 11, 5). La costruzione della torre serve proprio per farsi un nome: dunque – in questo caso come in quello degli androgini platonici – per soddisfare il desiderio di essere pari a Dio. “E il Signore disse: << Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una sola lingua: questo è l'inizio del loro fare. Ora non sarà loro trattenuto nulla di quanto mediteranno di fare? Veniamo, scendiamo e confondiamo là la loro lingua, affinché non 13 Rabbi Shlomoh Itshaqi (10401105), tradizionalmente chiamato Rashi – pseudonimo formato dalle iniziali del suo nome – è vissuto a Troyes, in Francia, ed è stato il più celebre rappresentante dell'esegesi ebraica. Ci rifaremo a lui in alcune altre circostanze. Questo passo è tratto dal suo Commento alla Genesi, tr. it. Genova, ed. Marietti, 1985, p. 80. 14 Jahvé è colui che “chiama le stelle per nome” (Sal 147, 4).
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comprendano più l'uno la lingua dell'altro!>>” (Gn 11, 67). Dopo essere sceso a terra per verificare che gli uomini stessero effettivamente cercando di salire al cielo, Dio vanifica i loro piani disseminandone le parole e “uno chiede un mattone, e l'altro gli porta della calce: il primo sorge contro il secondo e gli rompe il cranio”15. “E il Signore li disperse di là sulla superficie di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città” (Gn 11, 8). Gli uomini ora non si capiscono più, non sanno più dove sono e se ne vanno senza meta. “Per questo la si chiamò [la torre] con il nome di Babele 16, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse sulla superficie di tutta la terra” (Gn 11, 9). Babele, luogo di confusione.
Le labbra di un nomade Jahvé frantuma le parole per confondere le lingue e disperdere le persone, Zeus raddoppia il numero dei corpi per dimezzarne la potenza. Entrambi gli dèi rispondono così all'affronto umano di voler ascendere al cielo e gli uomini si ritrovano disorientati, chi fuori dalle cinta della torre chi separato dalla propria metà originaria. E sia coloro i quali sono lasciati al di là della fortezza, sia coloro che si ritrovano sospesi su due piedi, riconducono il passato mitico delle due narrazioni al presente della condizione umana: come noi stessi, la nostra lingua è destinata alla polvere, e questa ambivalente contingenza grammaticale e ontologica significa che ci sono cose che le nostre parole non sono in grado di esprimere a noi stessi e di dirsi agli altri. Perché parlare è sempre parlare a qualcuno che è altro da noi, e il dialogo si dà solo a patto di accettare questa distanza che la parola non può, e non deve, colmare. Nel Vecchio Testamento è Dio, l'alterità assolutizzata a trascendenza, la condicio sine qua non del dialogo. Il Dio che parla al suo popolo Israele, Jahvé. Costruire la torre è voler colmare questa trascendenza: farsi un nome equivale ad abbandonare quello di Dio, sostituirsi ad esso. Così in Genesi 11, 1 incontriamo per la prima volta nella Bibbia la parola sapha: “Tutta la terra aveva la stessa lingua [o lo stesso linguaggio: sapha ehat] e le stesse
15 Rashi, Commento alla Genesi, cit., p. 81. 16 In ebraico Bābel significa “porta di Dio”, mentre il verbo bālal “confondere”. Se giochiamo con l'allitterazione tra le due parole, nel momento in cui l'uomo vuole fare della “porta di Dio” una porta degli uomini, Babele diventa luogo di confusione.
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parole [devarim17 ahadim]”. Sapha18 significa letteralmente le “labbra”, così come lachone designa la “lingua”19. Il riferimento a questi due organi anatomici può rivelarci prospettive interessanti su questo doppio modo di dire “linguaggio” in ebraico. Infatti il significato originale di sapha è “limite”, “bordo”. Ad esempio, nel descrivere l'efod del sacerdote, in Esodo 28, 3132 leggiamo: “Farai il manto dell'efod, tutto di porpora viola con in mezzo una scollatura per la testa, il bordo [sapha] intorno alla scollatura sarà un lavoro di tessitore...”. O ancora, parlando della dimora divina nel deserto, in Esodo 26, 4: “Farai cordoni di porpora viola sull'orlo [sapha] del primo telo all'estremità della sutura”. In maniera simile, anche il bordo di un fiume o del mare in ebraico si chiama sapha: “Ed ecco, dopo quelle, sette altre vacche salirono dal Nilo, brutte di aspetto e magre, e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva [sapha] del Nilo” (Gn 41, 3); e “renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido [sapha] del mare” (Gn 22, 17). Da qui il significato della parola si è esteso fino a indicare le “labbra”, che sono sia il limite fisiologico della bocca sia la soglia di proliferazione della parola. Le nostre labbra, che si chiudono al silenzio e che si aprono alla voce, sono una sorta di recinto per la lingua (lachone) che parla. Sapha, dunque, indica il linguaggio nei termini di un limite o, se preferite, nei termini di una separazione. Ed è una separazione ontologica, perché l'uomo parla solo in quanto è “altro” rispetto a colui al quale si rivolge. Sapha ci rivela il linguaggio come espressione di alterità, perché “la communication a toujours lieu entre des sujets qui constituent autant des nomades originairement séparés. […] Ce serait là la signification ultime de sapha, c'est à dire un moyen de communication qui souligne la limite infrachissable des interlocuteurs, en même temps que leur volonté d'échange pour réparer leur séparation”20. Questa separazione mostra a un tempo sia ciò che abbiamo perduto sia l'esigenza ineludibile di rimediare a questa perdita. Ma l'altro con cui parliamo è anche un altro di cui ci possiamo innamorare. E l'amore, come il comunicare, ha luogo solo tra due soggetti che sono come nomadi originariamente separati. Qui il mito dell'androgino si incontra con quello della torre di Babele: amiamo e parliamo per colmare il vuoto che 17 Devarim è il plurale di davar, “parola”. 18 Per l'analisi del termine sapha e per quanto segue: D. Banon, Babel ou l'idolâtrie embusquée, «Tel Quel», n. 88, 1981, p. 4950. 19 Genesi 10, 31: “Questi furono i figli di Sem, secondo le loro famiglie e le loro lingue [lachone], nei loro territori, secondo i loro popoli”. 20 Banon, Babel ou l'idolâtrie embusquée, cit., p. 50.
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sentiamo tra noi e colui, l'altro, diverso, separato, diviso da noi, al quale vogliamo esprimere il nostro amore. Si parla e si ama solo e soltanto nell'assenza, che è quel che i Greci chiamavano desiderio; o, con le parole di Socrate nel Simposio (200 e): E costui, quindi, e chiunque desidera, ciò che non ha a disposizione desidera, ciò che non gli è presente e che non ha e che egli stesso non è e di che è privo; e sono questi su per giù gli oggetti del desiderio e dell'amore21. Amiamo ciò che desideriamo e desideriamo ciò che non abbiamo e, per tornare al racconto aristofanesco, ciò che non abbiamo è quella metà dalla quale siamo stati separati. Eros è conseguenza di quella incisione simmetrica che Zeus affida ad Apollo e di cui l'ombelico è cicatrice indelebile. Nostalgia di un'interezza perduta. Nel mito dell'androgino “il dio ci ha divisi e dispersi” (193 a), mentre nel Genesi, dopo aver confuso le lingue, “il Signore li disperse [gli uomini] di là su tutta la terra” (11, 8). In questa nuova situazione di mancanza, e carnale e verbale, gli uomini aristofaneschi si scoprono però capaci e bisognosi d'amare, mentre quelli del Genesi pare debbano accontentarsi di abbandonare il loro progetto in nome di grammatiche e pianure non conosciute. Eppure, nel primo caso Eros, per quanto venga a nascere da un tragico taglio metodico che divide in due, si configura come unica possibilità della nostra
eudaemonia; nel secondo, le mélangement con cui Jahvé frammenta il linguaggio umano non sembra dar agio ad alcun lieto fine: perché se la matematica dimostra che ciò che è diviso può essere ricomposto, altrettanto non vale per i frammenti di un qualcosa andato in frantumi. Gli abitanti di Babele sfidano la parola (davar) di Dio oltraggiandone il nome (šēm) e volendosene fare uno proprio22. Davar in ebraico significa sia “parola” che “comandamento”, e non casualmente la parola di Jahvé è la legge di Israele. Ma in greco, diversamente, “legge” si dice nòmos (il lògos, la “parola”, solo successivamente diventa la “ragione” che regola il mondo), termine le cui origini si trovano nel religioso, ma che arriverà a connotarsi come mutevole disposizione umana e la cui radice ci rimanda a onoma, l'equivalente greco di šēm, il nome. Per sollecitare dovutamente i nostri due testi è dunque necessario approfondire il significato di questi termini nel contesto greco ed ebraico. 21 Platone, Il Simposio, tr. it. a p. 127 dell'edizione citata. 22 Genesi 11, 4: na'ăśehllānû šēm, “facciamoci un nome”.
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Nel nome della legge Nel suo saggio Babel ou l'idolâtrie embusquée, David Banon pone l'accento sul significato politico del mito della torre di Babele, in quanto l'“antiprojet”23 di cui si narra nell'undicesimo capitolo del Genesi non è tanto la costruzione di un edificio capace di giungere al cielo, quanto la costituzione di una cittàStato. In Genesi 10, 89 leggiamo che Babele fa parte del regno di Nimrod, il “valente cacciatore davanti al Signore”, ormai divenuto un “potente sulla terra”, e che alcuni testi midrashici definiscono anche come cacciatore di anime24. Nimrod, figura eroica di probabile origine mesopotamica che si caratterizza come antagonista di Jahvé, nel momento in cui vuole affermare il suo dominio terreno si oppone a quello divino. Ma ciò che più sembra contare è che, come nota BernardHenry Lévy, il semplice fatto di stabilirsi, ovvero radunarsi, nella pianura del paese di Sennaar comporta la necessità, l'inevitabilità della Signoria di qualcuno25. Questo racconto ci invita allora a una critica radicale della costituzione di una società e degli strumenti di potere che sorgono in essa. La “lingua” e la “parola”, per la prima volta nella Bibbia, si connettono strettamente alla “società” e allo “Stato”, quasi che il linguaggio si delineasse come la forma stessa del potere. Infatti, se torniamo a quanto detto sopra, ci accorgiamo che questa comunicazione tra “nomadi originariamente separati” è a un tempo perduta eppure rivendicata come indispensabile. E quel che fa Nimrod per colmare tale vuoto è uniformare il linguaggio. “Tutta la terra aveva la stessa lingua e le stesse parole”. Per diversi commentatori rabbinici l'incipit della narrazione babelica è segno di malaugurio: “la sciagura, è che l'umanità intera parlava la stessa lingua, aveva la stessa ideologia e viveva la medesima storia”26. 23 Banon, Babel ou l'idolâtrie embusquée, cit., p. 48 24 Rashi commenta così Genesi 10, 9: “ [Nimrod] cacciava i pensieri delle creature con la sua bocca e li spingeva a rivoltarsi contro Dio”. Dalla tradizione ci arriva un'immagine di Nimrod quale leader carismatico che, attraverso la sua capacità di affascinare con parole e promesse allettanti, conduceva alla ribellione. 25 “Il y a peutêtre, il y a sûrement dans le fait même des sociétés, quelque chose qui les voue à la servitude et au malheur. Il y a peut être, il y a sans doute, quelque chose dans le pur fait de se rassembler, qui rende le Maître nécessaire, que disje, inévitable. Et cette choselà, cette troublante et terrifiante énigme, qu'une philosophie pessimiste se doit aujourd'hui d'interroger”. (B. H. Lévy, La barbarie à visage humain, Paris, Grasset, 1977, p. 35). 26 Targum Yonatan su Genesi 11, 1, citato in Banon, Babel ou l'idolâtrie embusquée, cit., p. 51.
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Nel capitolo decimo del Genesi siamo già venuti a conoscenza dell'esistenza di più popoli con le proprie e relative lingue, e ciò significa che la “stessa lingua” di cui si narra nell'undicesimo capitolo è frutto di una unificazione, o meglio di una riduzione, operata da qualcuno per ottenere qualcosa di particolare. Come nota BernardHenry Lévy, regolare il linguaggio è la migliore delle propedeutiche per regolare le anime27, ovvero: per unificare il proprio regno, Nimrod deve prima ridurre le diverse parlate locali per farle convergere in una lingua unica che sia, da un lato, emblema del suo potere, dall'altro mezzo di comunicazione per realizzare quell'universale, quel progetto comune, indispensabile a ogni impero. Si tratta però di capire quale sia l'universalità che il racconto di Babele mette in discussione, perché c'è universalità e universalità: esiste quella logica, matematica e scientifica, che riduce le differenze – quantitative e accidentali – e pone come essenziale solo ciò che è simile; ed esiste quella esistenziale che, al contrario, della differenza fa attributo irriducibile di ogni realtà. E se per unificare un regno è più opportuno agire come lo scienziato che, prima di studiare diversi oggetti, li raccoglie sotto una stessa categoria, il rischio che si corre è fare della categoria una totalità. Ma quando l'universalità diventa totalità, si sono creati i presupposti per cui la totalità si perverta in totalitarismo... Percepiamo ora la ragione per cui “le stesse parole” (devarim ahadim) parlate da tutti gli uomini siano state viste come una sciagura, e non è un caso che la prima volta che il termine davar, la “parola”, appare nella Bibbia sia al plurale (devarim) e nel capitolo della torre di Babele, un capitolo in cui tutto avviene al plurale: capitarono, si stabilirono, si dissero, andiamo, costruiamoci, facciamoci... Quello della torre di Babele è il modello del discorso politico: bisogna costruire un'opera e, attraverso l'utilizzo del “noi”, una voce (quella di Nimrod, o meglio, dello stato nimrodiano) comanda a una massa anonima e indistinta ciò che c'è da fare e il come bisogna farlo: un “noi” ingannevole perché accomuna i costruttori della torre all'elaborazione del progetto stesso, come se fossero in gioco i loro stessi interessi. Ora, la parola è l'elaborazione di un enunciato in una lingua, e parlare è sempre comporre, optare, scegliere. Esiste un rapporto strano tra lingua e parola, ed è quello per cui l'unicità della prima permette e garantisce la diversità della seconda. Ma per la 27 B.H. Lévy, La barbarie à visage humain, cit., p. 49 e seguenti.
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generazione di Babele anche le parole erano diventate uniche, nel senso di identiche. In Genesi Rabbah 38, 6 non si legge devarim ahadim – le stesse parole – ma devarim ahoudim: le parole sigillate. Le parole non erano più energie libere, mezzo attraverso cui un “io” si rivolgeva a un “tu”, ma forze messe a tacere, chiuse e confuse nelle stesse cose di cui avrebbero dovuto parlare, confuse nella stessa espressione devarim, termine ambiguo che può designare sia la parola che la cosa. Lontana dall'essere ciò che fu, evento e apertura, la parola diventa concetto vuoto. “A quell'epoca le parole di un sapiente e quelle di uno sciocco erano identiche”28: dove tutto si equivale, ciò che rimane è povertà intellettuale e spirituale, tracce di un'umanità plagiata. Secondo Rabbi Yohanan devarim ahadim significa devarim hadim29: parole calunniose, perfide e taglienti come una spada affilata. Perché ci sono parole che feriscono, parole che uccidono. Parole che devono essere capaci di far tacere Dio. Dobbiamo ricordare che per il popolo ebraico Dio è la trascendenza assoluta che, però, continuamente interviene nella Storia, ed è proprio nel rapporto tra Jahvé e Israele, nel patto che il primo stipula e sviluppa con il secondo, che la Storia umana vive e trova la sua direzione, in quanto storia di questo patto. Nimrod, rivendicando una regalità terrena in cui il gioco umano si sostituisce a quello di Dio, deve relegare quest'ultimo a un cielo estraneo agli eventi umani e sostituirlo con una trascendenza sociale in cui lo Stato rimpiazza gradualmente il divino. Quella di Babele si configura allora come una seconda genesi annunciata dal réshit (inizio) con cui Nimrod fa l'eco al béreshit del debutto della creazione30: una sfida dell'uomo contro Jahvé. E per vincerla Nimrod si affida a ogni sotterfugio, parlando a un “noi” anonimo al quale promette la possibilità di farsi un nome e la sicurezza di non disperdersi. "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra" (Gn 11, 4). Un'affermazione che è un ordine, che non lascia spazio a una risposta e al quale l'individuo deve obbedire. Ciò che bisogna fare è già cominciato ancor prima di essere proposto come possibilità d'azione. La parola che comanda è una parola che si ascolta, perché colui che la deve ascoltare arriva solo in seconda battuta rispetto a essa. Una parola, questa, pronunciata per avere 28 Avraham Ibn Ezra su Genesi 11, 1, citato in Banon, Babel... cit., p. 52. 29 Genesi Rabbah 38, 6, citato in Banon, Babel... cit., p. 53. 30 Banon, Babel... cit., p. 54.
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e non per essere, per possedere e per diventare Signori, che si ripete e nel ripetersi conferma il suo impero, soppesando col suo rigore il vuoto lasciato da quella risposta sepolta nel silenzio. Dio interviene, facendo l'eco al comando nimrodiano: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro" (Gn 11, 7). Una replica energica, che nel suo ricalcare ironicamente l'utilizzo del “noi” sembra indicare che il linguaggio era stato distolto dalla sua finalità, che è quella di essere relazione che precede ed è estranea al potere. Le parole devono incontrare l'altro, non utilizzarlo, oggettivarlo e metterlo sotto categorie. La confusione delle lingue appare allora come l'unica soluzione in grado di far riscoprire all'umanità la vera essenza del linguaggio, che non è quella di farsi un nome proprio, ma è quella di essere responsabili verso l'altro31. Abbiamo detto: attraverso la sua parola, la quale contemporaneamente è comandamento (davar), Jahvé fonda la storia del suo popolo, Israele, che in una prospettiva teleologica diventerà anche la storia dell'umanità intera. Ma Dio, a questo punto, non è semplicemente colui che comanda: con la sua parola che interviene nell'esistenza di Israele, Dio è sia il garante della legge, del patto, sia il garante del dialogo. Perché se il dialogo è possibile solo assumendosi la responsabilità verso l'Altro (e solo e soltanto in questo caso la parola diventa evento e apertura, e non mero concetto), Jahvé, in quanto alterità assolutizzata a trascendenza, si pone come colui nei confronti del quale la nostra parola si rivela indispensabile per cercarLo, ma contemporaneamente insufficiente per trovarLo. Invocare Dio significa essere consapevoli che ciò che ci trascende non può essere avvolto dalle nostre parole, e il nostro chiamarlo è affidarsi alla sua risposta più che alla nostra richiesta. Questa non è un'osservazione di ordine teologico. L'elemento divino potenzia la trascendenza, rimarcando ancora di più l'impossibilità di rimanere chiusi, e di trovare rifugio, nella cupola delle nostre parole. Ma quel che conta è che, in ogni 31 Ci rifacciamo qui al “linguaggio etico”, così come viene concepito da Lévinas: “... Le langage instaure une relation irréductible à la relation sujetobjet: la révélation de l'Autre. C'est dans cette révélation que le langage, comme système de signes, peut seulement se constituer. L'autre interpellé, n'est pas un représenté, n'est pas un donné, n'est pas un particulier, par un côté déjà offert à la généralisation. Le langage, loin de supposer universalité et généralité, les rend seulement possible. Le langage suppose des interlocuteurs, une pluralité. Leur commerce, … est éthique”. (E. Lévinas, Totalité et Infini, La Haye, Martinus Nijhoff, 1971, p. 45).
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dialogo quanto diciamo trova valore solo se si affida alla risposta altrui 32. Ma affidarsi alla risposta dell'altro significa, nel medesimo istante, rendersi responsabile nei suoi confronti e quindi preoccuparsi di lui. Questo è il “linguaggio etico” che, nel mito di Babele, la dispersione delle lingue sembra cercare di salvare, linguaggio che la generazione della torre pare avere barattato con lo scopo di farsi, invece, un nome.
Il monumento in un nome. Nella tradizione ebraica, similmente a molte altre, “è diffusa la convinzione che il nome portato da una cosa, da una persona o da un essere superiore, sia più di una semplice etichetta imposta casualmente a qualcuno o a qualcosa, esso è piuttosto una componente essenziale della persona, tanto che si potrebbe dire che l'uomo è costituito di corpo, anima e nome”33. Ma per gli ebrei, il nome šēm – può assumere svariate accezioni: può indicare tanto la buona quanto la cattiva nomea di colui di cui si parla (Prov. 22,1; Deut. 22, 14) o, più in generale, la sua fama e reputazione (Deut. 26, 19); legato alla fama, anche al di là della morte, šēm significa memoria e ricordo; in Genesi 6, 4 gli 32 Nel suo saggio Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica (in Dal testo all'azione, tr. it. Milano, Jaca Book, 1989, pp. 115132), Paul Ricoeur, partendo dalla constatazione che l'ermeneutica biblica è un'applicazione regionale al campo generale dell'ermeneutica filosofica subordinando quindi la prima alla seconda, arriva però a capovolgere i rapporti tra le due per poter sostenere la specificità della prima, che si può porre come “l'organon” di ogni interpretazione di testi. Il problema, per quel che riguarda i testi biblici, è che risulta difficile non inficiare l'analisi delle strutture narrative dalla “confessione di fede”, che è definita come “il limite di ogni ermeneutica così come l'origine non ermeneutica di ogni interpretazione” (p. 126). Il rischio è di fuorviare il discorso ermeneutico applicato alla Bibbia attraverso il concetto di “rivelazione” come Parola di Dio e non come “cosa del testo”. “Mettere al di sopra di tutto la cosa del testo vuol dire smettere di porre il problema dell'ispirazione della Scrittura nei termini psicologizzanti di una insufflazione di senso a un autore che poi si proietta nel testo, con le sue rappresentazioni. Se la Bibbia può essere detta frutto di rivelazione, ciò dev'essere detto della ‹‹cosa›› che la Bibbia esprime, dell'essere nuovo che essa dispiega. Oserei dire allora che la Bibbia è rivelata nella misura in cui l'essere nuovo di cui tratta è a sua volta rivelante circa il mondo” (p. 122); “ma l'ermeneutica qualcosa pure esprime: la fede biblica non potrebbe prescindere dal movimento dell'interpretazione che la eleva a linguaggio” (p. 126). Senza la forza di una parola che interpreta, anche la Parola di Dio, ora Scrittura, resterebbe muta. In un continuo circolo che va dalla parola alla scrittura e dalla scrittura alla parola, attraverso il medium della tradizione, gli avvenimenti del Vecchio e del Nuovo Testamento “aprono e scoprono il possibile più prossimo alla mia personale libertà, diventando così per me Parola di Dio. Questa è la costituzione propriamente ermeneutica della stessa fede” (p. 126), che non è più vuota confidenza incondizionata, ma una delle possibilità che la cosa del testo apre alla mia immaginazione nel momento della comprensione. Le osservazioni di Ricoeur sulla “fede” all'interno di un'ermeneutica biblica possono aiutarci a capire meglio il riferimento che stiamo facendo riguardo al “dialogo” tra Jahvé ed Israele. 33 Grande Lessico del Nuovo Testamento, a cura di G. Kittel, tr. it. Brescia, Paideia, 196588, vol. VII, p. 683.
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uomini famosi vengono detti 'anšê haššēm, e in altri passi šēm può essere inteso come sinonimo di persona34. Nel Vecchio Testamento è ben presente il motivo per cui imporre il nome a qualcuno stabilisce un rapporto di dominio e di proprietà tra colui che denomina e chi è denominato, tanto che, solo per citare alcuni passi, la prima cosa che Adamo fa per attuare la propria signoria sul creato è dare ad ogni animale un nome (Gn. 2, 1920); Jahvé chiama tutte le stelle per nome in quanto ne è il creatore (Sal. 147, 4) e assicura Israele dicendogli: “Non aver timore, poiché io ti ho ricomprato. Ti ho chiamato per nome. Sei mio” (Is. 43, 1). In Esodo 32, 3233 leggiamo anche dell'idea, poi ripresa dal tardo giudaismo, che i nomi dei giusti siano registrati nel libro della vita, e che Dio cancellerà da questo coloro che hanno peccato contro di Lui.35 Ma Jahvé, prima ancora di essere il datorecreatore di nomi, è colui che, essendo colui che è36, stabilisce la supremazia del proprio nome e la sacralità del tetragramma (YHWH), nel quale Egli stesso si identifica e al quale va data esclusiva adorazione: poiché egli è un Dio geloso del suo nome che, come leggiamo nel decalogo (Es. 20, 7; Deut. 5, 11), maledice coloro che lo nominano invano. Invocare il nome di Jahvé – qārā' be šēm – onorarlo nel modo adeguato, ne assicura allora la presenza, l'attenzione e l'intervento. “Lo šēm di Jahvé è una forte torre, il credente corre ad essa e trova sicurezza”37. Ora, in Genesi 11, 4 gli uomini si dicono: na'ăśehllānû šēm, “facciamoci un nome”, che alcuni traducono “facciamoci un monumento, un segno”38. Come ogni segno, dunque, questo šēm sarà simbolo di qualcosa, di un'intenzione da realizzare, come la torre ancora da costruirsi. E la generazione di Babele intraprende quest'opera una volta che si è radunata nella pianura di Shine'ar, dopo essere emigrati dall'Oriente, in ebraico qédem. E lasciare l'Oriente è lasciare la luce. Ma qédem non solo significa l'est, ma anche qadoum, ciò che sta avanti, l'anteriorità, e soprattutto qidmono chel olam, colui che è all'origine del mondo39. È chiaro ciò che il testo vuole indicarci: abbandonare l'Oriente è emigrare da Jahvé, la fonte di ogni luce. Significa non voler più vivere alla Sua ombra 34 35 36 37 38 39
Ivi, p. 708. Ivi, pp. 710714. Esodo 3, 1314. Proverbi 18, 10. Grande Lessico del Nuovo Testamento, op. cit., vol. VII, p. 710. Vedi Genesi Rabbah 38, 7.
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perché si è trovata una luce propria. E voler farsi un nome è voler farsi Dio, sostituirsi alla fonte di ogni nominazione. Per questo “il Nome è, inevitabilmente, sinonimo d'idolatria”40: perché se il Nome di Dio è la trascendenza assoluta, a tal punto che possiamo solo invocarlo e nemmeno propriamente nominarlo (se è vero che nel nominare è implicito un certo potere su ciò che è denominato), il farsi un nome è negare la trascendenza divina per affermarla sul piano umano: la trascendenza della struttura sociale di Babele e, come già visto, dello stato nimrodiano. Per far questo bisogna alienare la religione al politico41, rendere il fedele un cittadino che si confonde nella moltitudine di una metropoli, nella trascendenza della forza collettiva e nell'adesione, forma laicizzata della fede, al regime che comanda. Ma questa alienazione è possibile solo come conseguenza del presupposto per cui le nostre parole, potendo avvolgere e sostituire Dio, sono in grado di colmare ogni trascendenza. E disperso Dio nel politico, l'individuo si confonde nella massa. Eppure, se la politica è un affare tra uomini, la rivendicazione di Nimrod non può non essere giustificata: siamo “noi” che viviamo su questa pianura, siamo “noi” che dobbiamo decidere come viverci. La perplessità aperta dal mito di Babele è allora questa: la costruzione della torre serve a innalzare l'uomo o ad abbattere Dio? Si afferma la dignità di un esistenza umana autonoma o si lotta per un potere che non debba rendere conto ad alcuna legge? Uno sguardo alla storia delle religioni ci mostra che quel sentimento che chiamiamo “religioso” ha in un qualche modo a che fare con le zone, con gli spazi e con i vuoti della vita umana – forse possiamo azzardare l'espressione: con gli interstizi esistenziali che vanno oltre la nostra capacità d'azione. È in virtù di questi luoghi di assenza, di buio, che il “nome” riveste tendenzialmente un ruolo fondamentale nelle più svariate forme religiose: perché solo ciò a cui possiamo dare un nome è un qualcosa con cui possiamo entrare in relazione. Senza un nome rimane un nulla anonimo, senza nome: questo, forse, è l'unica cosa che effettivamente resta, e chi non è religioso crede che vivere dovrebbe significare accettare questo vuoto. Ma una religiosità che non è credulità senza contenuto o dogmatismo che pretende di risolvere ogni aporia, nel divino nomina quell'essenza che, senza esaurire né la prima né l'ultima parola, si situa tra l'ultima e la prima, in quello spazio del foglio bianco in cui 40 Genesi Rabbah 38, 11. 41 Banon, Babel... cit., p. 57.
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non è possibile scrivere ma nel quale si ritiene ci debba essere qualcosa. E se, a livello metodologico, lo storico delle religioni è giustificato a sostenere la pari dignità di ogni manifestazione religiosa è anche per il fatto che i morti si piangono sia nelle foreste dell'Amazzonia che ai piedi di una cattedrale, e che la paura che incombe su una piccola tribù, a causa dell'oscurità notturna del bosco che sta fuori dal villaggio, non è così estranea alla malinconia che colpisce un passante in una grande città piena di luci, quando non si capisce il perché di tutti quegli incroci. Gli uomini di Babele, che, nella congruenza della loro grammatica, hanno annullato le distanze delle proprie individualità, hanno rivendicato una parola che poteva fare e dire tutto, tra cui dire e diventare Dio. Una parola che colmava tutti gli interstizi esistenziali, insabbiando i quali veniva sotterrata anche la possibilità di un “io” che parla a un “tu” che gli si pone come trascendente: ovvero come altro che, al contempo, lo precede e gli arriva dopo. Non casualmente il soggetto narrativo del testo è quel “noi” vago, impersonale e indifferenziato al quale è precluso il dialogo. Perché dialogare significa preoccuparsi di tutte quelle anteriorità e posteriorità che ci rendono capaci di riconoscere, nelle parole e nello sguardo altrui, quei nomadi originariamente separati che eravamo.
Le regole d'Amore Nella storia del pensiero greco l'onoma conduce al problema della validità e del significato del linguaggio umano: l'uomo riproduce fedelmente la realtà del mondo con gli onomata che dà alle cose? Ciò che collega il “nome” alla tradizione religiosa è l'etimologia: da Esiodo che, nella Teogonia, ci racconta il significato di “Afrodite”, l'appellativo di ogni divinità contiene un mito che mostra come “la stessa etimologia affondi le sue radici nella mitologia. […] Platone pone la cosa in questi termini (Cratilo, 400 d401 a): i 'veri' nomi divini sono quelli con cui gli dèi stessi si chiamano; ora, poiché noi uomini non possiamo conoscere tali nomi, dobbiamo accontentarci di quelli coi quali invochiamo gli dèi quando preghiamo”42. Questo passaggio indica nello stesso tempo che la speculazione filosofica, nonostante avesse rotto l'identità tra nome e 42 Grande Lessico del Nuovo Testamento, cit., vol. VII, p. 699.
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persona tipica della religione arcaica, tiene ancora in rilevante considerazione il valore degli appellativi divini. In linee generali, tra il VI e il V secolo, nella speculazione razionale intorno al linguaggio all'onoma viene affiancato, e contrapposto, il concetto di alètheia: al nome viene gradualmente conferito un valore convenzionale, che porta in sé il germe dell'apparenza e della falsa nominazione. I Sofisti lo esprimeranno chiaramente nell'antitesi onomaphysis, perché se la physis è la natura innata di un oggetto, un semplice nome non ha il potere di mutarla, cosicché l'onoma sarà legato all'oggetto di cui parla soltanto in quanto segno, in quanto dato nómoi (della legge, della convenzione) e non physei. Gli onomata apparterranno allora al campo del nòmos e le ideai a quello della physis, della natura. Nel Cratilo, Platone, criticando l'abitudine di giocare arbitrariamente con le etimologie, e trattando anche il problema del tempo in cui i nomi sono stati creati, attraverso poi la successiva analisi che offre nel Sofista, conclude che “le parole sono segni fonici che ricevono il loro significato dal pensiero, dalla convenzione e dall'usanza”43. Le parole ed i nomi, tolti al dominio dell'arbitrio individuale, sono inseriti in quelli della doxa comune; parallelamente, anche i nomi delle idee non sono che segni che necessitano di essere decifrati dalla dianoia, per una conoscenza che aspira al vero. Questa presa di posizione mediana è forse dovuta alla consapevolezza di Platone che, per quanto il linguaggio non sia sufficiente per raggiungere la alètheia, senza linguaggio, però, non ci sarebbe filosofia. Gli onomata, abbiamo detto, fanno parte della sfera del nòmos, e questo, semplificando molto il discorso, è anche dovuto al fatto che i nomi, così come le leggi, servono a ordinare il mondo, e che nel potere di nominare è implicito un determinato potere di dominio. Nòmos, collegato etimologicamente con nèmein, “assegnare”, significa in primo luogo “la parte propria assegnata a ciascuno”. Il concetto, prima di essere applicato con speciale riferimento al campo giuridico quale norma giudiziaria e legge, nasce nell'ambito religioso per cui ogni polis aveva proprie divinità protettrici e quindi, all'interno delle sue mura, bisognava seguire il culto in uso in quella città. 43 Ivi, vol. VII, p. 694.
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Questa condizione (che – quando l'origine divina del nòmos verrà messa in discussione– comporterà la crisi stessa della concezione deistica del mondo, e infatti al nomòs verrà contrapposta la physis) e la consapevolezza dell'eterogeneità dei nòmoi vengono problematizzati in un primo tempo dalla tragedia. Sofocle, nell'Antigone, mostra con chiarezza l'aporia e la rottura che si vengono a creare quando vi è contrasto tra un nòmos e l'altro. Se l'adempimento di una legge comporta la trasgressione di un'altra, l'uomo si deve riconoscere essenzialmente incapace di obbedire a essa. “Quella per cui Antigone perisce appare come una contraddizione eterna e tragica d'una legge proveniente da Dio e non più conciliabile con lui; e tale contraddizione viene trasferita in Dio stesso. Al problema dell'impossibilità di adempiere la legge i Greci, per il poco che se ne occuparono, diedero un risposta tragica, e non quella che si basa sulla condizione di peccatore che caratterizza l'uomo di fronte alla legge”44. A questo punto, se è vero che i nòmoi, come gli onomata, servono a ordinare il mondo, e se è vero che la polis si configurava come quel microcosmo in cui il cittadino trovava il suo orizzonte di vita, non stupisce che il nòmos greco avesse più accezioni e che andasse a toccare più aspetti della vita personale e comunitaria, quali potevano essere – oltre il culto religioso e la legislazione – il matrimonio, la sepoltura dei morti, le comunità conviviali, le scuole ginniche, l'uso delle armi, ecc ecc. Platone parlava anche di “melodia delle legge” (Leggi, 800 a), in quanto la tonalità, vista come taxis (ordine), lasciava agio a questo doppio senso politicomusicale. Nel Simposio, precedentemente a Erissimaco e a Aristofane, è Pausania a prendere parola (180 c185 c), il quale, partendo dalla distinzione tra l'Eros dell'Afrodite Celeste e l'Eros dell'Afrodite Volgare, osserva che l'azione d'amore, come qualsiasi altra, non è bella o brutta in sé e per sé, “ma tale risulta, quale vien fatta: perché se è fatta con bellezza e rettamente, è bella; non rettamente, è brutta” (181 b). Ci sono, allora, modi d'amare degni di lode e altri di biasimo. A volte, visto che non sempre è facile capire quale sia il modo giusto di farlo, sono le stessi leggi a occuparsene. Pausania parlerà di 44 Ivi, vol. V, p. 1249. A questo riguardo è interessante notare la divergenza rispetto alla cultura ebraica. Nel Vecchio Testamento Jahvé è colui che, come gratuitamente ha dato, gratuitamente può togliere, e le leggi non sono viste come un equilibrato sistema volto a bilanciare gli interessi umani, ma, più radicalmente, come esigenze del Dio a cui Israele appartiene. “Così il motivo per cui si osserva questa legge è semplicemente l'obbedienza” (Ivi, vol. V, p. 1275).
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una situazione problematica visto che il pudore ci rende difficile affrontarla apertamente; una situazione che in molte città viene risolta o approvandola o condannandola senza riserve e che, invece, il nòmos ateniese affronta in tutta la sua complessità. È il momento in cui l'amato (eromenos) si arrende e accorda i propri favori all'amante (erastes). A quest'ultimo, per conquistare il primo, è concesso fare ogni cosa: adulare, pregare, supplicare, giurare il falso, comportarsi da schiavo, farsi servo... Non solo tutto questo gli è concesso fare, ma per questo egli è anche lodato, sia dagli uomini che dagli dèi, perché se, normalmente, tutto questo sarebbe oggetto di condanna e vergogna, se chi lo fa, lo fa perché ama, “glie ne vengono grazie e la nostra norma lo difende da ogni infamia, lasciando intendere che ciò ch'egli fa, è cosa bella e perfetta” (183 b). E se all'amante viene detto di rincorrere sempre e comunque, al giovane amato viene detto di fuggire il più che può, senza lasciarsi prendere subito, senza concedersi per ragioni veniali o per fine che siano altri da quello del conseguimento della virtù. All'eccesso dell'amante corrisponde il contegno dell'amato, in una dissimmetria contemplata dal nòmos ateniese volta a garantire che “amante e amato si incontrino ciascuno con la sua norma: […] l'uno in grado di aiutar l'altro sulla via della saggezza e di ogni altra virtù, l'altro bisognoso di educarsi e progredire in generale sulla via della sapienza; allora sì, concorrendo le due norme a un sol fine, in quest'unico caso si dà che per un giovinetto sia bello conceder grazie a chi l'ama, in altro no” (184 e). L'encomio di Pausania delinea i tratti di una geometria erotica le cui linee sono da ritrovare nel nòmos sulle cose d'amore, un nòmos che, nel cercare di offrire a ciascuno la parte a lui propria, ci dice che il giusto amare è quello che sa far incontrare il desiderio dell'amante con l'onore dell'amato, in quel delicato equilibrio che ad Atene reggeva l'èros paidikos45. Proseguendo nella lettura del Simposio, dopo Pausania è il turno del medico Erissimaco (185 d188 e), che riconduce la distinzione morale tra Eros bello ed Eros brutto alla differenza naturale tra sano e malato, in un encomio in cui ad Eros, oltre alle canoniche accezioni sessuali, viene attribuito un significato cosmogonico, in quanto tutto ciò che esiste, dai corpi degli animali alle piante che nascono dalla terra, dal mondo umano a 45 Foucault la chiamava “antinomia del ragazzo”, ovvero quella dialettica tensione per cui, nonostante il ragazzo fosse riconosciuto come oggetto di piacere, egli”non dev'essere titolare diretto di piacere fisico” (L'uso dei piaceri, tr. it. Milano, Mondadori, 1984, p. 225). Si pone qui il problema della passività nel rapporto omosessuale maschile.
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quello divino, di tutto questo si può dare una definizione erotica. Ciò perché, se la medicina “non è se non la scienza dei moti amorosi che ha il corpo a riempirsi e a vuotarsi” (186 c), anche di tutte le altre cose si può dire che sono belle solo se Eros sa portare in esse quell'equilibrio tra le loro componenti che, inizialmente, si trovano in disaccordo. Così, ad esempio, la musica può essere definita, “quanto all'armonia ed al ritmo, scienza di moti d'amore” (187 c) capaci di indurre concordia tra il lento e il veloce, tra l'acuto e il grave. Erissimaco, ora, si congeda, e lascia la parola ad Aristofane, che, non essendo più vittima del singhiozzo, può dire quel che ha da dire. Lo dirà attraverso un mito. E se, nelle argomentazioni del medico, tanta importanza aveva l'armonia intesa come equilibrio capace di accordare elementi non concordi; tanta quanta, in Pausania, aveva avuto la dissimmetria tra amante e amato nel cercare del primo e nel nascondersi del secondo; nel racconto di Aristofane a giocare un ruolo fondamentale sarà una simmetria che, per quanto a livello fisiologico si perda nel tempo delle origini, si recupera nell'immagine dello sguardo tra i due amanti, uno sguardo che sarà sinonimo di due soggetti d'amore che, nel loro amarsi, non vogliono nascondersi quanto si amano. In un dialogo, al contempo, dai caratteri erotici ed etici, capace di farci tornare “alla natura antica”, quando si era uno e non due. Quando si era felici, come ancora lo possiamo essere.
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Uno specchio pulito, illuminato bene Nel 1984 Calvino fu invitato, dall'Università Harvard, a tenere le “Charles Eliot Norton Poetry Lectures” per l'Anno Accademico 198586. Nei mesi prima di morire, la notte tra il 18 e il 19 settembre dell'85, aveva scritto cinque delle sei conferenze previste per le Lectures. Il dattiloscritto lo aveva lasciato “sulla sua scrivania, in perfetto ordine, ogni singola conferenza in una cartella trasparente, l'insieme raccolto dentro una cartella rigida, pronto per essere messo nella valigia”46. Il tema di queste conferenze sono alcune qualità o specificità della letteratura che all'autore stavano particolarmente a cuore e che voleva situare nella prospettiva del nuovo millennio, quello in cui noi ora ci troviamo a scrivere. La prima di esse era dedicata alla “Leggerezza”, perché Calvino, dopo aver definito la sua opera “una sottrazione di peso... alla struttura del racconto e al linguaggio”, confessa che quando si comincia a scrivere è facile far attaccare alla propria scrittura “la pesantezza, l'inerzia e l'opacità del mondo”: “in certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra... Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile di Medusa”47. In quei momenti pensava a Perseo, all'unico eroe che, camminando su sandali alati e riflettendo lo sguardo della Gorgone sul suo scudo di bronzo, era riuscito a sconfiggerla. Sostenuto da ciò che c'è di più leggero, i venti e le nuvole, e intrappolando lo sguardo pietrificante nel labirinto di una visione indiretta l'immagine catturata dallo scudo, che è uno specchio Perseo taglia la testa alla Medusa senza lasciarsi pietrificare. Questa maschera mozzata che perde sangue, poi, Perseo la porta con sé, nascosta in un sacco, e ogni qualvolta un nemico starà per sopraffarlo, la utilizzerà come un'arma invincibile, mostrandola a coloro che meritano di “diventare le statue di se stessi […] È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello”48. 46 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Milano, Oscar Mondadori, 1993. Queste righe sono tratte dalla “Presentazione” scritta da Esther Calvino, p. VII. 47 Ivi, p. 8. 48 Ivi, p. 9.
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Arrivati a questo punto, Calvino cita alcuni versi delle Metamorfosi di Ovido (IV, 740752), per mostrare quanta delicatezza d'animo sia necessaria per essere un Perseo, il quale, dopo aver ucciso a colpi di spada un mostro marino per liberare Andromeda, prima di andare a lavarsi le mani ancora sporche di sangue, deve decidere dove appoggiare la testa mostruosa: Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne laedat harena), vi stende sopra dei ramoscelli nati sott'acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù. Perseo, consapevole sia dell'orrore sia, ormai, della deteriorabilità di quel capo che lui stesso aveva mozzato, si mostra gentile verso il “tremendo” che sempre si porta nel sacco e con cura lo posa sul terreno. Miracolosamente, i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, che le ninfe useranno per adornarsi... Se Calvino si richiama al rapporto tra Medusa e Perseo per suggerire che, nonostante ognuno abbia un fardello pesante da caricarsi sulle spalle, non tutti sono capaci di appoggiarlo a terra con leggerezza, e a volte per farlo bisogna essere eroi; noi, nello sguardo della Gorgone, troviamo un paradigma spesso analizzato nell'immaginario greco quello della visione frontale portatrice dei tratti negativi e distruttivi della relazionalità e della conoscenza al quale contrapporremo il guardarsi faccia a faccia degli esseri a tutto tondo aristofanei, quale esempio contrario, e assai meno studiato, di una frontalità positiva che, forse, si rivelerà come unica ed elettiva via per una corretta e piena consapevolezza di sé. Prima è però necessaria una precisazione, che è nello stesso tempo una presa di posizione ermeneutica sul corpus platonico. Platone, in tutti i suoi dialoghi, non fa mai parlare se stesso 49. Tutto ciò che dice lo dice attraverso la bocca di Socrate e di tutti coloro che di volta in volta diventano personaggi della discussione, siano essi Parmenide, Timeo, Protagora, Callicle, Crizia o Glaucone... Questa peculiarità pone la questione su chi effettivamente parli per bocca di Platone e chi no. Seguendo Vegetti, pensiamo che in alcuni tentativi di lettura, e nella 49 Platone si nomina solo due volte nei suoi dialoghi, nell'Apologia e nel Fedone. In quest'ultimo, per Borges “il testo più commovente di qualsiasi filosofia”, Socrate, nel suo ultimo pomeriggio, prima di bere la cicuta, riceve tutti i suoi amici, “sapendo che sta per essere giustiziato. Li riceve tutti meno uno. E qui troviamo la frase più commovente che Platone abbia mai scritto in vita sua... Il passo dice così: «Platone, credo, era ammalato»... Si è congetturato che Platone abbia messo questa frase per essere più libero... Credo che Platone abbia sentito l'insuperabile bellezza letteraria di dire: «Platone, credo, era ammalato» (Oral, cit., p. 28).
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fattispecie la nostra, sia più proficuo l'approccio dialogico in tutta la sua radicalità, poiché: se nessuna delle tesi esposte nei dialoghi “è immediatamente e direttamente ascrivibile a Platone [e se] Platone è l'autore di tutti i suoi personaggi”, è giustificabile ritenere che egli sia anche “l'autore di tutte le loro tesi” 50. E il caso di Aristofane è ancora più controverso, in quanto il suo mito sull'origine di Eros (con tutta questa sostanza di carne) è sicuramente il meno platonico del Simposio, ed anche tra i meno considerati da una prospettiva filosofica, essendo Aristofane un commediografo, le cui parole davvero sarebbero da deridere, piuttosto che da ridere. A noi pare più corretto concordare con quanto suggerisce la Napolitano e assumere “una significatività del mito a livello minimo, cioè non tanto rispetto al fatto (che certo ne sottolinea il carattere giocoso) della sua attribuzione al personaggio di Aristofane, quanto rispetto alla sua pura presenza nel dialogo. […] Il mito degli androgini sarebbe importante e andrebbe valutato […] rispetto al ruolo che avrebbe nel climax verso la teoria dell'èros costruita da Platone”51. Anche perché, ed è sempre Calvino a ricordarcelo, c'è qualcosa nel mito che “è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti”52. Quando, verso la conclusione del Simposio (215 a), Alcibiade si appresta a tessere la lode di Socrate, egli si introduce così: “Socrate, o Signori, io ho intenzione di lodarlo a questo modo: per immagini. Costui forse penserà ch'io lo faccia perché ci sia più da ridere; ma l'immagine sarà a scopo di verità, non di riso”. Se il riso di Alcibiade sembra simile a quello di Aristofane, considerato che l'uso di immagini è tipico della dizione comica, il fatto che il parlar per immagini del primo sia finalizzato, quale artificio retorico, per dirci il vero sul Sileno Socrate, dà agio a diversi commentatori di contrapporre il “comico senza verità” di Aristofane al “comico di verità” di Alcibiade53. Eppure, se tutto potesse ridursi a questo, il valore di verità dell'immagine (eikòn, èidolon) si limiterebbe alla finalità della sua comicità, ma “l'immagine non è mai per Platone qualcosa di poco conto conto o sostituibile […] Ogni immagine vera, per ridicola che a prima vista appaia, potrebbe forse per Platone far lo stesso, rivelare il vero”54. 50 M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2003, p. 79. 51 L. M. Napolitano, Platone e le «ragioni» dell'immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Milano, Vita e Pensiero, 2007, p. 105. 52 Calvino, Lezioni Americane, op. cit., p. 9. 53 D. Susanetti, Platone. Il Simposio, op. cit., p. 218, nota 175. 54 Napolitano, Platone e le «ragioni» dell'immagine, op. cit., p. XII.
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Lo stesso Platone, preoccupato di circoscrivere il campo di validità dell'immagine, la definisce nel Sofista (240 ab): ciò che, fatto a somiglianza di una cosa vera, è però distinto da essa e simile […] in quanto è realmente una copia. Dell'immagine, dunque, non si può parlare come se fosse qualcosa vero in sé, ma è vera solo e soltanto entro i limiti del suo essere immagine di qualcos'altro. L'immagine falsa, l'immagine che Platone critica, e che considera anche pericolosa sia dal punto di vista pedagogico che politico, è l'immagine che si pretende come originale, che nasconde il suo statuto di 'doppio'. L'immagine del sofista, che Platone accusa soprattutto di velare la sua natura di produttore di immagini55. Ora, il mito degli androgini è per noi una figura detta a scopo di verità e, nello specifico, un caso di immagine della visione frontale, una visione in qualche modo simile, se pur distante in alcune essenzialità, a quella speculare. “Speculare e frontale rappresentano secondo strette analogie quanto sta dinnanzi ai nostri occhi o sotto il nostro sguardo, ciò che, standoci appunto di fronte (e talora guardandoci a sua volta), rimanda, riflette, col nostro sguardo direttamente interagisce, o addirittura riproduce noi che guardiamo”56. Il frontale, poi, ribalta la simmetria, presentando quanto è a destra a sinistra, e viceversa; mentre lo speculare mantiene la collocazione originale dei lati. Ma quello che bisogna sottolineare è che, sia davanti allo specchio sia di fronte a qualcuno, queste due visioni presuppongono un guardarsi occhi negli occhi: siano essi i nostri riflessi dalla superficie lucida, liscia e densa dello specchio, siano quelli dell'altro che stiamo guardando. In greco si dice horôn horônta, letteralmente “guardando chi guarda”, ovvero “sguardo a sguardo”, “faccia a faccia”, espressione che “segnala in modo icastico il legame (spesso inquietante e distruttivo) fra visuale, speculare e frontale”57. Torniamo un attimo ad Ovidio, ancora alle Metamorfosi, quando ci racconta di Narciso, morto nella sua stessa immagine riflessa nell'acqua. Narciso, che rappresenta il 55 Vedi l'immagine del “sofista meraviglioso” che, con la semplice rotazione a 360 gradi di uno specchio crea, o meglio, riproduce il mondo, “tutto ciò che sta in cielo e tutte le cose che stanno nell'Ade” (Republica, X 596 be). 56 Napolitano, Platone e le «ragioni» dell'immagine, op. cit., p. 83. 57 Ivi, p. 84.
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rovesciamento del motto delfico, morirà proprio quando conoscerà se stesso, ovvero quando si vedrà riflesso nello specchio. Si innamorerà di se stesso che crede un altro e che in realtà non è nessuno, perché soltanto e illusoria immagine riflessa. Scrive Ovidio (Met. III 432433): O creatura vana, perché cerchi inutilmente di afferrare labili parvenze? Quanto brami non esiste in luogo alcuno; volgiti e non vedrai più ciò che ami (Credule, quid frustra simulacra fugacia captas? / Quod petis est nusquam; quod amas, avertere, perdes). A Narciso basterebbe girare le spalle allo specchio d'acqua, voltare lo sguardo verso qualcosa, o qualcun altro, e sarebbe salvo. Proprio come il prigioniero della caverna platonica, che deve ruotare il proprio capo e distogliere lo sguardo dal muro per scoprire che quanto credeva vero erano soltanto ombre, anche a Narciso sarebbe stato sufficiente non mirare se stesso, riflesso ed esistente soltanto nell'unda, e magari ricercare lo sguardo della ninfa Eco, che di lui si era innamorata ma che per lui era semplicemente una voce indistinta. Ma tra Eco e Narciso non ci sarà amore perché non c'è stata corrispondenza, che, nell'amore, è prima di tutto corrispondenza di sguardi: la ninfa e il giovane non si guarderanno mai occhi negli occhi ( horôn horônta). Lei, imago vocis, è simbolo di una pura alterità che negli inconsistenti riverberi dell'aria non potrà condividersi col suo amato; lui, emblema di un'identità intaccata, che al di fuori di sé non sa vedere altro che se stesso, nell'infatuazione di se stesso (che non può essere amore, perché si ama solo qualcuno che possiamo guardare nei suoi occhi, e dai suoi occhi farci guardare a sua volta) troverà la morte.
– Se ti tagliassero a pezzetti La prima quartina di Alma venturosa, uno dei sonetti di Las horas doradas di Leopoldo Lugones, recita così: Già inoltrata la sera di quel giorno, / quando l'usato addio stavo per darti, / fu un'indistinta angoscia / che mi fece sapere che t'amavo (Al promedar la tarda de aquel día, / cuando iba mi habitual adiós a darte, / fue una vaga congoja de dejarte / lo que me hizo saber que te quería)58. 58 L. Lugones, Las horas doradas, in «Biblioteca argentina de buenas ediciones literarias », Babel, 1922, p. 133.
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Quello di cui Lugones scrive non è un amore a prima vista. Probabilmente tutte le sere lui e questa donna erano soliti congedarsi come se fosse l'ultima volta, altrimenti lo adiós non sarebbe potuto essere habitual. Ma quella sera, quando già era buio, nel sentire un'angoscia che non sa definire, il poeta scopre una cosa che non sapeva di essere: di essere innamorato. Possiamo immaginare che i due amanti, forse per molto tempo, non si erano visti come tali, e che nell'incrociare i loro sguardi per darsi “l'usato addio” perché due persone vicine non si salutano mai di spalle – abbiano percepito una penombra diversa da quella di tutte le notti che erano già passate, custodite con malinconia nell'aggettivo habitual. Ma l'amore, tanto si può rivelare all'improvviso, quasi che non ne fossimo consapevoli, quanto può essere spezzato contro la nostra volontà. L'Aristofane di Platone, capovolgendo l'amarezza di questa constatazione, non ci racconta di un amore finto perché qualcosa si è rotto, ma ci dice che Eros è nato solo e soltanto perché Zeus ha spaccato a metà la nostra antica natura, che ci voleva esseri a tutto tondo bastevoli a se stessi. Questi esseri, ripetiamolo, erano sferici nei dorsi e nei fianchi, avevano gambe, mani, orecchie e genitali in numero doppio, e avevano anche due volti, i quali però, stando sull'unico e medesimo collo, ed essendo “l'uno opposto all'altro”, formavano un capo che, a differenza del resto del corpo, non era per nulla sferico od ovoidale. Fisiologicamente parlando, queste due teste, tenute insieme dal collo e collegate posteriormente l'una all'altra, presentano la peculiarità di avere due volti e due apparati visti divergenti i primi rispetto ai secondi. Tali particolari fisici, piuttosto che indicare una presunta mostruosità quale tratto essenziale di questi uomini che, nel loro essere doppi, non erano copie; insieme alla possibilità di andare “secondo che volessero, e, se si mettevano a correre, come i saltibanchi levan le gambe in aria e volteggiano su se stessi, così quelli andavano roteando” (Simposio, 190 a) – rendono necessario capire il legame che si instaura fra la loro capacità di vedere, di muoversi e di pensare. Gli esseri primordiali, le cui coppie di occhi guardavano in direzioni opposte, avevano un campo visivo di 360° e, grazie ai loro otto arti, una potenzialità locomotoria altrettanto eccezionale. Capaci di vedere tutto e di andare ovunque, essi avevano megàla 36
phronèmata, alla lettera “pensieri grandiosi”, ovvero quell' “animo superbo” che li porterà a progettare l'ascesa al cielo. “La stazione non più eretta, ma capovolta, a testa in giù, e questo rotolare sugli arti sono visti... come segno di eccesso, di disarmonia, di una mobilità sbilanciata e perversa, se non perfino come violazione dell'ordine dell'universo”59. Non a caso, nel Timeo, viene detto che gli dèi, successivamente all'atto con cui “crearono quel corpo sferico che è la testa dell'uomo”, simile alla forma rotonda del kòsmos, la dotarono di un corpo onde evitare “che essa dovesse procedere rotolando”60; e visto che ritennero anche che la parte anteriore del corpo “fosse più dignitosa e degna di comando di quella posteriore, ci diedero una locomozione per lo più orientata in questo senso […] e dopo aver collocato da quella parte il volto (pròsopon) […] stabilirono che partecipe del governo fosse questo, ciò che per natura sta davanti” (Timeo, 44 e 45 a). Così, dopo essere stati tagliati, gli uomini si ritrovano su due piedi e limitati, come nel Timeo è considerata, invece, condizione naturale, a spostarsi da dietro a davanti, con lo sguardo che, d'ora in poi, seguirà la stessa direzione dei nostri passi, riuscendo tutt'al più a scorgere qualcosa di lato. Camminare non sarà più, allora, andare ovunque vogliamo, ma seguire un percorso (pòros) che, appunto, viene definito dal fatto di avere una mèta che sta fuori e davanti a noi, che i nostri occhi mirano e che noi vogliamo raggiungere. E gli amanti saranno coloro che, nell'amato, troveranno la loro metà che è al contempo la mèta dei loro desideri, poiché ciascuna metà desiderando l'altra, le andava incontro; e, gettandosi intorno le braccia e l'una all'altra allacciandosi, nella viva brama di rifondersi insieme, morivano di fame e di inerzia, per non voler far nulla l'una staccata dall'altra (Simposio 191 ab). L'essere primordiale, che col suo doppio sguardo tiene tutto sott'occhio, in quel raggio 59 Napolitano, Platone e le ragioni dell'immagine, cit., p. 110. 60 L'antropogonia del Timeo, nota Vernant, ricorda quella di Aristofane, ma ne “rovescia sistematicamente il senso”. Infatti, la radice del nostro essere non è più posta nell'ombelico ma nella testa, e l'encefalo diventa allora l'ombelico tra noi e il mondo celeste attraverso l'anima (J. P. Vernant, Un, deux, trois: Eros (1986), in L'individu, la mort, l'amour. Soi même et l'autre en Grèce ancienne, Paris 1989, p. 162). In questa lettura, la relazione verticale tra uomo e divino è vista quale vera prospettiva platonica, la quale dovrebbe quindi considerarsi come l'alternativa corretta rispetto a quella che, vedremo tra poco, si delinea come relazione orizzontale all'altro in Aristofane, e che noi invece crediamo essere complementare alla prima.
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visivo di 360º l'unica cosa che non può è far vedere agli occhi del capo posteriore quelli, divergenti, del capo anteriore. Nell'onnidirezionalità del suo sguardo, ciò che gli è precluso è la visione horôn horônta di colui che gli è più vicino e che, tagliato da lui, diverrà la sua metà. Nella sua hybris, egli vede tutto, pensa tutto, si muove dappertutto: si trova in una situazione diametralmente opposta al prigioniero della caverna della Repubblica, che, a causa delle catene, non solo è impossibilitato a muovere il suo corpo, ma anche semplicemente a voltare la sua faccia quel tanto che basterebbe a vedere chi gli è a fianco. Entrambi, uno, l'androgino, perché vede troppo, l'altro, l'incatenato nella caverna, perché vede troppo poco, non vedono l'altro che gli sta accanto. E se il prigioniero faticherà ad accettare la luce diurna, gli uomini tagliati a metà rischieranno di morire perché il primo ed unico modo che trovano per restare ancora insieme e quello di allacciarsi l'un l'altro con le braccia, in un abbraccio che assomiglia più a un incatenamento di fame e di inerzia... Quello che a noi interessa, arrivati qui, è però un altro aspetto: la hybris, per limitare la quale Zeus deciderà di tagliare, risiede nel fatto che gli esseri a tutto tondo, potendo vedere tutto, pensano che ciò che sono capaci di avvolgere con lo sguardo saranno anche capaci di conquistare con il corpo, confondendo una vista onnidirezionale per un'azione onnipotente. Per questo tentano la scalata al cielo, proprio come gli uomini di Babele, le cui parole (devarim) si erano pretese capaci di dire tutto, avevano progettato la costruzione della torre. A un eccesso di diottrie da un lato, sembra corrispondere uno straripamento grammaticale dall'altro. Fuor di metafora, come abbiamo visto che nel dare i nomi vi è implicito un dominio su colui che è nominato, e per questo la generazione di Babele vuole farsi il proprio šēm, anche nell'essere in grado di vedere siamo di fronte a un gioco di potere. Perché, come esiste un potere del nome, esiste anche un potere dello sguardo. Pensiamo a Medusa. La Gorgone, guardando, pietrifica e, pietrificando, uccide. Anzi, uccide sia quando guarda sia quando è guardata, in quanto Medusa ci sta di fronte: “Comunque non ci si sottrarrà al potere di Medusa se essa paralizza guardando ed essendo guardata […] perché sta appunto di faccia al suo interlocutore ed opera basilarmente horôn horônta, guardante e guardata”61. La Gorgone ci fissa come ci fissa la morte, e come la morte 61 Napolitano, Platone e le ragioni dell'immagine, cit., p. 103.
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non si farà conoscere fino a quando noi non le daremo la nostra vita. Perseo, che pur sapendo di essere un eroe, era consapevole di non poter vedere tutto, di non poter affrontare lo sguardo di quel nemico, prima indossa l'elmo di Ade che rende invisibili, poi, affidandosi al suo scudo come se fosse uno specchio, evita di guardare direttamente gli occhi della Gorgone, e solo così la può uccidere. Perseo vince non perché può dominare lo sguardo di Medusa, ma perché sa che, in questa lotta degli sguardi, a vincere sarà colui che, nascondendosi all'altro, sarà capace di vedere più di quest'ultimo, e in virtù di ciò lo dominerà. Guardando Medusa senza guardarla negli occhi, il nostro eroe la sconfiggerà. E se lo scudo che riflette salverà Perseo, la superficie d'acqua in cui si specchia Narciso gli darà la morte. Sarà il faccia a faccia con se stesso ad ucciderlo, perché, credendo che l'altro sia fatto a sua immagine e somiglianza, egli ne annulla l'alterità: proprio come le “stesse parole” (devarim ahadim) di Babele avevano messo a tacere l' “io” e il “tu” nell'indifferenza del “noi”, lasciando gli uomini “dispersi sulla terra”, Narciso si trova prima stupito davanti a, poi affogato in, uno specchio d'acqua. Nell'illusione di se stesso che aveva creduto essere qualcuno, qualcun'altro. Perché non si parla, non si ama, non si vive, se si parla, si vive e si ama solo e con se stessi. La visione frontale di Medusa, come quella riflessa di Narciso, ripropongono il motivo, tipicamente greco, per cui il trovarsi faccia a faccia con qualcuno o con noi stessi è spesso tragico. Ma Platone lascia intravedere una possibilità positiva dell'immagine specularefrontale quando, nell'Alcibiade I (133 b), scrive: “anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare in un'altra anima, e soprattutto nella parte di questa nella quale risiede la virtù dell'anima, la sapienza”. Come possiamo vedere i nostri occhi solo e soltanto nello specchio di una superficie liscia o nello specchio di uno sguardo che ci sta di fronte, per conoscere la nostra anima – la nostra essenza più intima – dobbiamo guardarci ed essere guardati da uno sguardo che, nel riflettere le nostre pupille nelle sue, sappia riflettere la nostra anima. Due occhi che riflettano virtù. E visto che, almeno per Platone, non c'è virtù nel disonesto, uno sguardo del genere dev'essere sincero, autentico, che non vuole mistificare nulla di se stesso e che, nello sguardo di colui che gli è di fronte, percepisce la stessa volontà. Due
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volti che non vogliono nascondersi nulla perché in alcun modo vogliono dominarsi 62. Due riflessi simmetrici che, ciascuno sguardo desiderando l'altro, altro non vuole che andargli incontro, nella viva brama di fondersi insieme. Così, quando Aristofane narra che, nel vedere l'ombelico, cicatrice e memoria del taglio morfogenetico subìto, l'uomo avrebbe imparato ad esser più moderato, il punto non è che dobbiamo guardarci l'ombelico, ma che, nel guardarlo, pur se con amarezza, ci accorgiamo di essere una mezza tessera d'uomo: e l'unica cosa che dobbiamo fare è alzare lo sguardo e cercare l'altra metà. Il capovolgimento (metastrophè) voluto dopo il taglio da Zeus, non solo degli occhi, ma di tutto il volto (pròsopon), significa allora che le due metà della sfera originaria proprio perché hanno i visi, e con essi gli occhi, rivoltati verso l'interno, e adesso capaci di poter incrociare i loro sguardi possono cercarsi l'un l'altro per potersi abbracciare, per soddisfare questa nuova brama d'unione. Questo desiderio, che in greco si dice pòthos, “nostalgia”, prima di tutto si direziona verso colei o colui con cui prima eravamo un essere unico ma che in faccia non abbiamo visto mai. Prima di abbracciarsi, prima ancora di fare all'amore (perché Zeus, mosso a pietà, sposterà sul davanti gli organi genitali proprio a quel fine), la prima ricomposizione è un incontro visivo, un horôn horônta. Inoltre, che il rigiramento dei genitali, il solo a consentire l'unione carnale, sia successivo a quello degli occhi, potrebbe suggerire che quest'ultimo “non abbia senso solo su un piano dell'erotica tradizionale, ma nel senso ampio dell'erotica propriamente platonica”.63 Certo, sarà Diotima a definire con chiarezza l'amore come amore del Bello in sé, che è fondamento di ogni bello e di ogni amore possibile. Ma il particolare individuo sensibile, nel quale Aristofane ripone la nostra felicità, si pone comunque come quel primo oggetto d'amore che ci rivela la nostra congenita apertura a un altro, che, indubbiamente, sentiamo, vediamo, riconosciamo come bello. E nella misura in cui è per noi un bello, sarà per noi anche un bene. E in quanto bene, appunto, sarà per noi fonte di felicità. Una felicità che avrà la corporale caratteristica della contingenza, ma che sempre sarà un bene, se non sopravvalutata. 62 Nel passo del Simposio 192 b4 è utilizzato il termine philerastes, letteralmente “amante del suo amante”. Ne L'uso dei piaceri (cit., p. 232), Foucault osserva che, a differenza del discorso di Pausania e, tendenzialmente, di come era considerato il rapporto tra amante e amato, l'espressione “amante del suo amante” comporta una simmetria e una parità di status tra amanteamato in Grecia generalmente non riconosciuto. 63 Napolitano, Platone e le ragioni dell'immagine, cit., p. 132, nota 102.
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Noi pensiamo che il discorso di Diotima non escluda quello del commediografo. Sostiene la sacerdotessa, richiamandosi evidentemente anche ad Aristofane: Veramente... si sente fare un certo discorso, secondo il quale l'amore consisterebbe nel cercare la metà di se stesso; il discorso mio, al contrario, dice che né della metà è l'amore, né dell'intero, se questo, amico mio, non si trovi a essere comunque un bene (Simposio, 205 de). Se questo vero, ciò che Platone, attraverso Diotima, rimprovera ad Aristofane, non è il suo encomio all'amore della metà perduta, ma il rischio di fare dell'immagine del nostro amato l'originale e l'unico esemplare del Bello in sé. Anche perché, se non sappiamo amare colui che ci è a fianco, mai sapremo amare il Bello che è sopra di noi: Perché questo è il modo giusto onde si procede o si è guidati alle cose d'amore: cominciando dalle bellezze di qui, nella mira di quella ultima bellezza, ascendere sempre, come da un gradino all'altro, da uno a due, da due a tutti corpi belli, e dai corpi belli alle belle attività, e dalle attività alle belle scienze, fino a che dalle scienze si giunga a quella scienza che di null'altro è scienza se non di quella bellezza e d'essa sola; ed infine conoscere quello che codesta bellezza essa stessa è in sé (Simposio, 211 bc). L'amor platonico, allora, non è quello sterile e concettuale di cui tutti parlano e di cui tutti sentono, come sempre accade quando un qualcosa diventa un luogo comune. Come rileva Kristeller, il primo che nella storia della filosofia occidentale utilizza l'espressione “amor platonico” è Marsilio Ficino64, ma in un'accezione che non è né quella originaria di Platone, né quella degradata dalla banalità odierna.
Allegorie della luna Pubblicato la prima volta nel 1469, il De Amore è un commento scritto in forma dialogica al Simposio, sviluppato come una serie di sette orazioni nelle quali un gruppo di amici commentano i corrispettivi sette encomi di Eros del testo platonico. Ambientato nella villa di Lorenzo de' Medici il mecenate grazie al cui sostegno l'Accademia fiorentina, di cui Ficino era a capo, si era potuta porre come punto di 64 P. O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, tr. it. Firenze, Le Lettere, 1988, pp. 305310.
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riferimento filosofico del Rinascimento – il dialogo si presenta, nel Proemio del testo, quale commemorazione della morte e della nascita di Platone, immaginato essere nato e morto “il VII dì di Novembre”, nel giorno del suo ottantunesimo compleanno. Se la Theologia platonica è la summa del pensiero del Ficino, il De Amore, che l'autore tradusse in prosa toscana65 e di cui ci furono anche le traduzioni in francese e tedesco, si affermò nell'Europa rinascimentale come emblema filosofico dell' “amor platonico” che, tanto influente pure sull'estetica poetica, si rivelò uno dei concetti più popolari del periodo. Ficino, che, nella Theologia, aveva affermato la realtà ontologica del “bene”, dopo aver definito la volontà inclinatio mentis ad bonum, aveva potuto dire che essere un bene ed essere oggetto dell'appetito del nostro intelletto (contrapposto a quello “naturale” perché sceglie da sé il proprio oggetto) sono espressioni equivalenti. Tutto ciò che è può essere un bene, e l'intelletto è la facoltà che cerca il bene nelle cose. La volontà, dunque, che non produce da sé i suoi fini e oggetti ma che, nella scelta di essi, è limitata alla regione degli esseri in sé esistenti, potendo però abbracciarne la totalità, teoricamente all'infinito, “può chiamarsi appetito naturale rispetto al bene universale”66. In ultima istanza, questo bene universale è Dio, e fin quando a Lui non saremo uniti, la nostra volontà non sarà esaurita. Così, quello verso Dio è un cammino di ascesa interiore verso una conoscenza che coincide col godimento della bontà divina, che è il vero contenuto della vita e rispetto al quale ogni atto è visto come preparazione o aberrazione, come tappa o deviazione di percorso. Questo tragitto, nella Theologia, scritta successivamente al De Amore, è resa possibile dall'anima, che è copula mundi, quell'essere mediano che, vera essenza dell'uomo, nel suo aspirare al divino, congiunge le superiori ed eterne realtà di Dio e degli angeli a quelle, inferiori e temporali, del corpo e della qualità. Nel commento al Simposio, partendo dal presupposto per cui l'intelletto assimila a sé i propri oggetti, a differenza dell'amore che si assimila ad essi, e nell'impossibilità dell'intelletto di contenere in sé e comprendere Dio, è l'amore a poter condurre la nostra anima a Dio, ed è quindi l'amore a tenere unito l'universo. Un universo creato da un Dio che è amore, e le cui creature amano questo Amore perché da lui sono amate. 65 Noi seguiamo il testo in toscano del Quattrocento curato da Giuseppe Rensi: M. Ficino, Sopra lo Amore ovvero Convito di Platone, Milano, SE Editore, 2003. 66 Kristeller, Il pensiero filosofico..., cit., p. 279.
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Prima di essere un rapporto tra anima e Dio, l'amore è pero un rapporto concreto fra due persone. Ma se il fine di ogni nostro desiderio, e appetito, come abbiamo visto, è il godimento della bellezza e bontà divina, anche nell'amore fra persone, come per Platone, ciò che si desidera sarà la bellezza, perché tutto ciò che è bello tende a quel bello, che è anche bene, che è Dio. Nella prima orazione, in cui Giovanni Cavalcanti commenta il discorso di Fedro, Ficino scrive che la Bellezza è una certa grazia che nasce dalla corrispondenza di più cose, la quale è di tre gradi: la corrispondenza di virtù negli animi, di colori e linee nei corpi, e di voci e tonalità nei suoni. La prima sarà conosciuta dalla mente, la seconda dalla vista e la terza dall'udito. E “lo Appetito [degli altri sensi, quelli con cui gustiamo, odoriamo e tocchiamo il corpo] non amore, ma più tosto libidine o rabbia si chiama”67. Liberato, a torto o a ragione, l'elemento sensuale, il rapporto amoroso prescinde dalla differenza sessuale ed è possibile sia tra uomo e uomo sia tra donna e donna. E come la bellezza è corrispondenza di grazia, non esiste amore che non sia relazione reciproca tra soggetti, poiché il sentimento amoroso non può essere unilaterale e riguardare un'anima singola: “soltanto l'amore ricambiato e reciproco esce dall'ambito dell'anima singola e costituisce una comunità reale concreta fra più persone. […] La reciprocità è quindi senz'altro compresa nel concetto dell'amore concretamente inteso”68. Ficino propone un amore che è sintesi originale della carità di san Paolo, del dolce stil novo e dell'amicizia della tradizione classica. Amicizia ed amore non sono elementi separabili, perché entrambi comportano una comunanza fondata su ciò che più di essenziale vi è nell'uomo, che è l'originario amore verso Dio, il quale si riconduce al fenomeno fondamentale dell'ascesa interiore, che è il centro della filosofia ficiniana. Questo amore tra pari, che è amore dell'anima verso Dio, è poi la base per la comunità dei Platonici fiorentini, che, secondo il modello delle scuole filosofiche antiche, era vissuta come una convivenza tra amici. Nella nota lettera ad Alamanno Donati, Ficino definisce questo sentimento Platonico amore. Commentando questa epistola, Kristeller scrive un paragrafo intenso che vogliamo riportare: “Ogni termine, che diventa poi parola vuota per effetto della moda e della ripetizione stupida, nasce in qualche momento da un determinato concetto e può essere inteso nel suo significato soltanto da questo punto di partenza [… e] in funzione di un determinato bisogno intellettuale. Così 67 Ficino, Sopra lo Amore, cit., p. 25. 68 Kristeller, Il pensiero filosofico..., cit., p. 297.
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il termine amore Platonico ha nel Ficino un significato chiaro e preciso: è l'amore intellettuale fra amici, amore che unisce i membri dell'Accademia in una comunità, che si basa sull'amore del singolo verso Dio e si chiama, in connessione col Convivio di Platone, amore Platonico, cioè inteso nel senso di Platone”69. Se noi, ora, abbiamo chiarito cosa fosse in origine l'amor Platonico, quando Ficino dovette commentare l'encomio di Aristofane, si sarà chiaramente accorto che esso era il meno platonico, nel senso appena indicato, dei discorsi del Simposio. Come spesso in questi casi, per far della carne spirito è necessario allegorizzare. Così, Cristofano Landini alla cui voce è affidata la quarta orazione dopo aver brevemente riassunto il racconto di Aristofane, nel quale gli uomini originariamente erano di tre specie, Maschio e Femmina e composto (Landini non utilizza mai il termine “androgino”, forse perché “s'ha ad infamia”70), dice che “queste cose narra Aristofane e molte altre molto monstruose: sotto le quali, come velami, è da stimare divini misterii essere ascosi”71. Quest'opera di svelamento mostrerà che i tre generi di uomini di cui si parla, sono in realtà tre generi di anime, perché “l'Anima è l'uomo”72. Infatti, se il corpo è fatto di materia e la materia è quantità, considerato che la quantità è ciò che si divide e che la divisione è una passione, il corpo è ciò che patisce. Ma ciò che patisce, oltre a essere mutevole, dipende anche da altro che rispetto ad esso è indipendente. Dunque, quando diciamo che il corpo fa, in realtà sbagliamo, perché se il fare è un azione mentre il subire è una passività, noi abbiamo già mostrato che il corpo semplicemente patisce. Allora, quello che sembra il corpo fare, in realtà è fatto da qualcosa incorporale, che per Landini è appunto l'anima. Il corpo sarà allora strumento dell'anima, e quest'ultima indipendente dal primo. Ma se ciò che è indipendente è diverso, allora sarà opportuno avere anche nomi diversi. “Chi sarà dunque tanto stolto, che l'appellazione dell'uomo, la quale è in noi fermissima, attribuisca al corpo, che sempre corre, più tosto che all'anima, che sempre sta ferma?”73. Allora, quando Aristofane diceva che gli esseri primordiali, prima che fossero tagliati, erano maschi, femmine e composti, e i primi simili al Sole, le seconde alla Terra e i terzi alla Luna, noi dobbiamo leggere: le anime degli uomini anticamente erano intere, 69 70 71 72 73
Ivi, pp. 307308. Simposio 189 e. Ficino, Sopra lo Amore, cit., p. 57. Ivi, p. 59. Ivi, p. 60.
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perché in esse convivevano sia il lume naturale (rivolto alle cose eguali e inferiori) che quello soprannaturale (rivolto alle superiori); quando, poi, per volersi fare uguali a Dio, gli uomini si rivolsero al loro solo lume naturale, come se potesse bastare a se stesso, il lume soprannaturale da questo fu diviso; e quando Dio li minacciò di tagliarli nuovamente se ancora avessero peccato di superbia, significa che più ci allontaniamo dal lume soprannaturale, più quello naturale in noi si spegne. E quelle tre virtù che in Dio si chiamano Sole, Terra e Luna, negli uomini si chiamano “la Fortezza maschia, per cagione della forza e dell'audacia: la Temperanza femmina per la mansueta natura: la Giustizia composta dell'uno e dell'altro sesso” 74. Perché la forza del Sole è nell'illuminare il mondo con luce propria, la temperanza della Terra è nell'accogliere chiunque ne abbia bisogno, e la giustizia della Luna è di riflettere la luce per donarla agli altri elementi. Queste tre virtù, accompagnate dalla Prudenza, ci condurranno alla Beatitudine, “la quale nella possessione di Dio consiste”75. Se Dio è il culmine massimo al quale si possa ambire, capiamo allora che queste virtù non sono altro che vie attraverso le quali noi possiamo ricondurre la nostra luce naturale, la prima metà di noi, a quella divina, la seconda metà di noi. Similmente agli uomini di Babele, che credettero bastasse una torre per raggiungere il cielo, che fosse sufficiente farsi, artificialmente, un nome per diventare Dio, l'anima di cui parla Ficino sarà destinata a ricadere ripetutamente nel corpo se crede che il proprio lume naturale possa sostituirsi a quello divino. E a forza di cadute, il rischio che si corre è di cadere nel buio. Ma quando noi ci accorgiamo della nostra, congenita, incompletezza, desideriamo – ed è l'Amore a farcelo desiderare – ricongiungerci con la nostra parte perduta, la metà di noi stessi che, però, nella filosofia ficiniana sta al di sopra di noi, in quanto è posta nel divino. E in quel luogo di luce mistica ognuno ci arriverà per la sua strada e al ritmo del suo passo, sia esso un camminare coraggioso, un procedere retto o un avanzare cauto. Ad ogni modo, a condurci alla nostra mèta sarà “quello adunque che ci rimena in Cielo, [che] non è la Cognizione di Dio; ma è lo Amore” 76. E se l'amore, come mostrato, è relazione reciproca con l'altro, relazione che è alla base di ogni comunità e di ogni auspicabile accademia, mai potremmo amare Dio se ci dimenticheremo di amare gli altri. 74 Ivi, p. 61. 75 Ivi, p. 62. 76 Ivi, p. 65.
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Questo amore cosmico – che, per la nostra sensibilità, difetta di quell'aspetto intimamente fisico per noi implicito e necessario nel rapporto erotico – in Ficino riveste, comunque, un'importanza fondamentale per dare dignità e valore al termine humanitas. Questa parola, così importante per il Rinascimento, da un lato denota il genere umano come una specie della natura, dall'altro indica una qualità morale che si manifesta nei rapporti tra uomini. La stretta connessione che percepiamo tra queste due accezioni, ancor più forte la sentiva il Ficino, per il quale la virtù dell'umanità “non è altro che l'amore dell'uguale verso l'uguale, applicato specialmente al genere umano come a uno dei gradi naturali dell'ordine ontologico. Quanto più un uomo ama gli altri uomini come suoi uguali, tanto più si dimostra egli stesso membro di tutta la specie, tanto più esprime in sé l'essenza di essa, tanto più è umano. E nella stessa misura che un uomo è crudele e inumano, si discosta dall'essenza e comunità del suo genere ed è uomo soltanto di nome”77.
77 Kristeller, Il pensiero filosofico..., cit., p. 111.
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Conclusioni
Sia nell'undicesimo capitolo del Genesi, sia nel discorso di Aristofane, sia nell'interpretazione che ne dà Ficino, l'uomo sembra essere condannato, o sembra condannarsi egli stesso, nel momento in cui, giudicandosi autosufficiente e completo, pecca di quella che, di volta in volta, è chiamata idolatria, tracotanza e superbia. In tutti i testi che abbiamo letto, tale eccedenza viene descritta come un'eccessiva pretesa da parte dell'uomo, il quale si ritiene capace di sostituirsi al divino o, comunque, di fare a meno di esso. Ma in tutte tre le narrazioni, quando l'uomo vuole farsi Dio è il suo stesso essere umano a perdersi nell'empireo del nulla. Meglio: l'uomo che si voleva Dio, si ritrova essere nessuno. Per questo, nel nostro lavoro, ci siamo concentrati nel rapporto dell'uomo con l'altro e non del rapporto dell'uomo con Dio. Lo dichiara con passione la mistica del Ficino: se il lume soprannaturale ci fa sentire il bisogno di amare Dio e di essere, a propria volta, da lui amati, è perché questa luce ci rende consapevoli che non possiamo bastare a noi stessi. Ma questa nostra ontologica mancanza, prima ancora di condurci a Dio, ci conduce agli altri uomini, ai quali ci sentiamo vicini e i quali vediamo come nostri amici ed eguali. Se noi, poi, siamo meno cristiani e platonici del maestro dell'Accademia fiorentina, ci si perdoni. Ma quello che abbiamo cercato di dire in questo saggio sono essenzialmente due cose: la prima è che la nostra natura è quella di essere, per necessità e per virtù, aperti all'altro. E l'altro, prima di essere qualsiasi cosa possa o voglia, è colui che vediamo e col quale parliamo, in un dialogo che non è fatto solo di parole e di sguardi, e di silenzi e di ombre, ma anche di abbracci e di tremori, di incontri e di scontri, e di tutte quelle cose che implica lo stare vicino ed insieme a qualcuno. Ogni persona, ogni donna e ogni uomo con cui viviamo, non è un'idea che non si tocca, una parola che non ha voce, un pensiero che non cambia, un concetto che si può dimostrare e di cui si può stabilire la verità o falsità. Ma ciò che ci lega ad ogni persona, nei chiaro scuri che qualsiasi rapporto comporta, sono le convinzioni che ha cercato di trasmetterci, le cose che ci ha detto e quelle che ha taciuto, le contraddizioni in cui è 47
caduta, le dolcezze che ci ha riservato, le sciocchezze di cui abbiamo riso, le gioie ed i rimpianti per cui a volte ci ha ringraziato ed altre accusato, e poi tutte le altre cose che ancora ha fatto insieme a noi e che siamo soliti chiamare ricordi. E come nel ricordo c'è sempre una parte di oblio, tanto che ricordare è sempre dimenticare qualcosa, in maniera simile conoscere una persona significa, in parte, non potere, e non volere, conoscerla del tutto. Significa non avvolgerla, non ridurla a un semplice cumulo di parole con le quali crediamo di poterla capire e spiegare. Significa, per tornare al mito di Babele, non voler fare della persona un nome, perché non è tra due nomi che avviene un dialogo, ma tra due soggetti che una grammatica non può rinchiudere. Per questa ragione alle “stesse parole” (devarim ahadim) babeliche abbiamo contrapposto il “linguaggio etico” di cui parla Lévinas, perché il linguaggio è necessario al dialogo non in quanto instaura una relazione tra un soggetto e un oggetto, ma in quanto, essendo il dialogo una relazione tra soggetti che sono interlocutori, il linguaggio rende possibile la révélation de l'Autre, di un “tu” che si rivela a un “io”. E quando dell'altro siamo consapevoli, di questo altro che è, al contempo, diverso da noi ma a noi davanti, ci renderemo responsabili. Considerato, inoltre, che un dialogo tra due individui che si parlano uno di spalle all'altro è poco fattibile, e nemmeno auspicabile, ci siamo dedicati all'androgino aristofanesco: le cui due metà, conseguenza dell'incisione di cui l'intero originario è stato vittima, dopo che sono state tagliate, si rigirano l'una verso l'altra proprio come Zeus aveva rigirato le loro teste verso il davanti del corpo – perché, per potersi abbracciare con la parte dalla quale sono state separate a forza, devono prima incontrarne lo sguardo, vederne gli occhi, l'unica cosa di cui erano privati quando erano esseri a tutto tondo, e la cosa che ora, più di tutto, li caratterizza quali esseri umani. Ma quando l'altro con cui parliamo e che vediamo diventa un altro, quel particolare altro del quale ci siamo innamorati, il dialogo si sviluppa come una relazione tra due soggetti che sono anche amanti. Philerastès dice Aristofane, ovvero “amante del suo amante”. E infatti le due metà di cui parla il commediografo, ognuna delle quali tanto ama l'altra quanto l'altra l'ama a sua volta, sembrano mostrare che un amore capace di ricondurci alla natura antica e di renderci felici è possibile solo tra amanti che sanno 48
guardarsi faccia a faccia (horôn horônta) con occhi che sono sinceri. Sinceri perché non si nascondono nulla. Non velati perché velare qualcosa all'altro è un modo per dominarlo. Non desiderosi di dominarlo perché amare significa desiderare d'essere insieme e uniti all'altro, e non di guardarlo dall'alto in basso. Ma essere insieme all'altro non equivale essere un tutt'uno con l'altro. L'androgino camminava su quattro gambe, le sue due metà che chiamiamo esseri umani si ritrovano a procedere su un solo paio di piedi. E anche quando si ameranno e, nella passione, saranno capaci di rifondersi insieme, sempre su due gambe dovranno trovare la loro direzione. E anche nell'abbraccio più forte, quando saranno ventre contro ventre, sempre rimarrà l'ombelico, quale cicatrice della nostra incompletezza. Quale segno che noi amiamo non solo perché abbiamo bisogno dell'altro, ma che se vogliamo amare, bisogna accettare che tra noi e la nostra altra metà sempre ci saranno delle assenze e delle mancanze che non dobbiamo pretendere di colmare. Così, se dai miti della torre di Babele e dell'androgino si può levare un senso diverso, ed è la seconda cosa che abbiamo tentato di dire, è che noi non possiamo non amare, e allo stesso tempo, non possiamo amare pienamente. Di uno siamo stati fatti due, e qui non vale la proprietà commutativa. Siamo androgini simmetricamente incisi nel corpo e frammentati nella parola. Camminiamo su due piedi così come parliamo con una manciata di lettere, e ad ogni gradino della torre, per non inciampare, dobbiamo accettare la babelica realtà che le nostre parole non bastano a farci capire dall'altro; e se un altro ancora vogliamo amare, lo possiamo fare solo a patto di capire e di ascoltare la sua assenza e i suoi silenzi. A patto di essere responsabili nei confronti della sua alterità, che non è qualcosa che si può concettualizzare o mettere sotto categorie, ma è uno spazio nel quale bisogna imparare a muoversi. Altre cose potrebbero essere dette, ma che dobbiamo lasciare a un'analisi più ampia di quella presente. Qui ne accenniamo solo alcune, tra cui il rapporto tra l'udito e la vista, confrontando la tradizione veterotestamentaria per cui a Dio dobbiamo obbedire anche se non comprendiamo i suoi comandamenti (infatti colui che obbedisce è colui che ascolta) con quella razionalista greca, per cui, per capire, bisogna vedere e vedersi. E da qui, però, indagare le ragioni storiche e lo sviluppo del Midrash, nei cui commenti i Rabbi rivendicavano una libertà di spirito critico che è una rivendicazione intellettuale 49
sovente trascurata dalla tradizione occidentale e cristiana78. Potremmo chiederci, come fa Banon, se l'uomo di Babele sia più simile ad Adamo o a Prometeo, e approfondire le figure di questi due personaggi in cerca di capire se l'azione e il “genio” umano, la sua forza creatrice e dominatrice verso la natura e se stesso siano destinate a concludersi con l'indigestione di un frutto che sarebbe stato opportuno non avessimo mangiato, proprio come quella torre che era meglio, e abbiamo visto il perché, non avessimo costruito; o se sia possibile per l'uomo non cadere nell'aporia per cui, quando vogliamo farci una Legge nostra, finiamo col considerarci padroni di essa79. Da una prospettiva storicoreligiosa, ancora, si potrebbe considerare l'androgino quale esempio di coincidentia oppositorum e, quindi, confrontarlo con altre mitologie in cui è presente l'idea di un'armonia e simpatia tra contrari, in cui, come al maschile è necessario il femminile, e alla luce il buio, e al caldo il freddo, anche a Dio non fa male Mefistofele80. Un altro interrogativo è quello che si pone Borges nella Biblioteca di Babele81, un racconto in cui l'Universo è una biblioteca, o meglio la Biblioteca è l'universo, indefinita e forse infinita, composta da gallerie esagonali nelle quali, su tutti i lati tranne uno (il sesto rimane libero perché si apre su uno stretto corridoio alla fine del quale una scala a chiocciola fa comunicare i vari piani di questa torre di parole, “che si inabissa e si eleva verso lo spazio remoto”82) ci sono cinque scaffali, in ogni scaffale trentadue libri, in ogni libro quattrocentodieci pagine, in ogni pagina quaranta righe, in ogni riga ottanta parole di color nero. “L'uomo, imperfetto bibliotecario”83, la cui calligrafia è incoerente, opera del caso in un universo dai tomi enigmatici in cui tutto ciò che si può, si è potuto e si potrà scrivere si trova, necessariamente, nella Biblioteca, deve accettare la quasi insopportabile realtà per cui ci sono volumi preziosi custoditi in scaffali inaccessibili. Si credette – leggiamo dovesse esistere un libro che fosse il compendio perfetto di questo universo, e molte vite sono state dedicate alla ricerca dell'Uomo del Libro, il bibliotecario che un giorno scorse questa scrittura analoga a un dio. La visione di quel libro, anche se in un solo istante, anche se in un solo essere, sarebbe capace di 78 79 80 81 82 83
Vedi Banon, La lettura infinita... cit., pp. 67113. Banon, Babel... cit., pp. 5960. M. Eliade, Mefistofele e l'androgine, tr. it. Roma, Edizioni Mediterranee, 1971, pp. 71114. J. L. Borges, Finzioni, tr. it. Milano, Adelphi, 2003, pp. 6776. Ivi, p. 67. Ivi, p. 69.
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giustificare l'esistenza della Biblioteca, in cui “per una riga ragionevole o una notizia giusta ci sono leghe di insensate cacofonie, di farragine verbale e di incoerenze”84. Borges, verso la conclusione del suo racconto, scrive: “Nessuno può articolare una sillaba che non sia piene di tenerezze e di timori. […] La certezza che tutto sia scritto ci annulla o ci rende dei fantasmi. […] Credo di aver citato i suicidi, ogni anno più frequenti. Forse mi inganneranno la vecchiaia e la paura, ma sospetto che la specie umana – l'unica – stia per estinguersi e che la Biblioteca sia destinata a permanere: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”85. Noi, senza esserci addentrati nella Biblioteca, in questo lavoro ci siamo limitati a vedere che, sia nel dialogo che nell'amore, non possiamo pensare che l'Altro sia fatto a nostra immagine e somiglianza, perché supporre questo non solo fa sparire l'altro in noi stessi, ma fa credere a noi stessi di essere come Dio, per scoprire infine che da soli non siamo nessuno, e non nel senso di Ulisse, ma in quello di Narciso. E se nell'aprirci all'Altro ci scopriamo indifesi nei suoi confronti, spesso ci ritroviamo felici di esserlo. Spesso, non sempre. A volte qualcosa va storto, come a volte capita il mal di denti, che dopo quello d'amore è tra i mali maggiori. Ma fa parte del gioco, anche perché “in un mondo senza malinconia gli usignoli si metterebbero a ruttare”86.
84 Ibid. 85 Ivi, p. 75. 86 E. Cioran, Sillogismi dell'amarezza, tr. it. Milano, Ed. Adelphi, 2003, p. 46.
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Ringraziamenti Quando mi sono deciso a proporre come soggetto di tesi un androgino che se ne andava su per le scale della torre di Babele, avevo in me la stessa preoccupazione che ha sentito Aristofane all'inizio del suo encomio, cioè quella di dire cose da deridere più che da ridere. Un grazie alla prof. Linda Napolitano, che si è limitata a sorridere approvando l'idea, e un grazie al prof. Pier Angelo Carozzi, che ha curato le mie lacune storico filologiche nella lettura del Vecchio Testamento. Ringrazio il prof. Enrico Peruzzi per i suggerimenti sul Ficino e il prof. Federico Barbierato per aver assecondato i miei interessi storici sull'Ebraismo. Un grazie a Leonardo Zunica e a Giovanna Venturini, per la loro simpatia verso le dissonanze e per l'amicizia. E tra gli altri amici le cui parole si sono rivelate importanti per questo lavoro, alcuni mi piace ringraziarli solo per nome: un grazie ad Alessandro, che non ama per nulla i cognomi, e a un secondo Alessandro, compagno di letture nel periodo di studio olandese. Un grazie ad Enrico che è più linguista di me, ad Enrico che non condivide le mie opinioni sulla “mancanza”, e a un terzo Enrico che ha sempre trovato il tempo di leggere quel che scrivo. Un grazie anche a Gian Marco. Per quel che riguarda la faccenda dello “sguardo faccia a faccia”, un grazie a Lara, Valeria e Caterina. Un grazie a Sophie, che capisce il mio inglese, e a Sara, che sa intuire e tradurre. Un grazie a Shirin, che si occupa di ottica e non mi rimprovera mai. Infine, per il piacere di ciò che è inaspettato, altri due ringraziamenti. Il primo ai miei genitori, che a causa della mia eterodossia forse credevano di no. E per ultimo, visto che in queste pagine sarà nominato spesso, un grazie al Signore, se non altro per cortesia.
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BIBLIOGRAFIA Testi classici: La Bibbia, a cura di A. Shökel e L. Pacomio, tr. it. Genova, ed. Marietti, con testo ufficiale della CEI, 1980. M. Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a cura di G. Rensi, Milano, SE editore, 2003. Ovidio P. Nasone, Metamorfosi, a cura di N. Scivoletto, tr. it. Torino, UTET, 2005. Platone: La Repubblica, Introduzione di F. Adorno, tr. it. F. Gabrieli, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1996. Il Simposio, Introduzione e Commento di D. Susanetti, tr. it. di C. Diano, Venezia, Letteratura universale Marsilio, 1992. Timeo, a cura di G. Reale, tr. it. Milano, Bompiani, 2003. Rashi di Troyes, Commento alla Genesi, tr. it. Genova, ed. Marietti, 1985.
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