Bologna, 21 novembre 2011
Seminario di Filosofia morale
Mito e logica del progresso: gli antichi Greci e i loro interpreti
LEZIONE I
«I malvagi si muovono in cerchio»: istoría e teologia della storia. Pia Campeggiani campeggiani@ddp.unipi.it
Lovejoy-Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity (1935)
Ciò che si intende generalmente nell’uso contemporaneo con “idea di progresso” è la «credenza per cui valutando sia l’evoluzione storica in generale, sia la tendenza dominante che si manifesta in essa si sarebbe indotti a riconoscere una tendenza, inerente alla natura o all’uomo, ad attraversare una serie regolare di stadi di sviluppo (nel passato, nel presente e nel futuro), tali che gli ultimi debbano essere - sia pure con eventuali ritardi o regressi di scarso rilievo - superiori ai secondi».
Comte, Cours de philosophie positive
il progresso consiste nella possibilità di rappresentare «[…] il susseguirsi integrale delle trasformazioni precedenti dell’umanità come l’evoluzione necessaria e continua di uno sviluppo inevitabile e spontaneo, il cui indirizzo finale e cammino generale sono esattamente determinati da leggi assolutamente naturali».
De civitate Dei, XII.13 «I filosofi naturalisti ritennero di poter o dovere risolvere la suddetta controversia introducendo dei cicli di tempo. Affermarono che con essi tornavano a ripetersi in natura sempre i medesimi eventi e che allo stesso modo per il futuro si sarebbero avuti senza fine i ritorni degli avvenimenti che vengono e vanno, sia che i cicli si verifichino in un mondo senza tramonto, sia che il mondo sorgendo e tramontando a determinate distanze di tempo offrisse come nuovi sempre gli stessi avvenimenti sia passati che futuri. Così questi filosofi non riescono a considerare libera da questa beffa del destino l'anima immortale, anche se ha acquisito la sapienza, poiché va senza sosta verso una falsa felicità e senza sosta ritorna a una vera infelicità. Non può infatti essere vera felicità perché non si ha sicurezza della sua eternità e perché in quello stato l'anima o per radicale inesperienza non conosce nella realtà l'infelicità del mondo o la teme con angoscia pur essendo nella felicità. Ma se essa non dovrà più tornare all'infelicità terrena, passa da questa alla felicità. Avviene dunque nel tempo qualcosa che prima non era avvenuto e che non ha il limite del tempo. Questo si può dire dunque anche del mondo ed anche dell'uomo creato nel mondo. Quanto dire che con la sana dottrina attraverso una via dritta si devono evitare gli assurdi ritorni ciclici inventati da filosofi assurdi e impostori».
Ecclesiaste (I.9-10)
«Che cos’è ciò che è stato? Quello stesso che sarà. E che cos’è ciò che è avvenuto? Quello stesso che avverrà. Non v’è nulla di nuovo sotto il sole. Non si potrà dire: Guardate che questo evento è nuovo, perchè è avvenuto nei secoli che furono prima di noi».
«Cristo è morto una sola volta per i nostri peccati, ma risorgendo dai morti non muore più e la morte non l’assoggetterà più nell’avvenire» (De civitate Dei, XII.13) «Se siamo morti con Cristo crediamo anche che vivremo con lui, sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più, la morte non ha più potere su di lui» (Rm. 6, 10).
Eraclito (22 B 30) «Questo ordine, che è identico per tutte le cose non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma era sempre, è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne». (22 B 51) «Essi non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo : armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira». (22 B 88) «La stessa cosa è il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio, perché queste cose mutandosi sono quelle e quelle a loro volta mutandosi sono queste».
Aristotele, Problemata, XVII.3
Aristotele (Met. XII.8) «Spesse volte sia ogni arte che ogni filosofia sono state trovate e di nuovo si sono distrutte». (De caelo 270b 19) «Non una sola volta né due, ma ripetute volte si deve infatti ritenere che le medesime credenze giungano a noi». (Pol. 1329b 25) «Si può fondatamente ritenere che anche le altre istituzioni politiche siano state scoperte più volte nel lungo corso del tempo, anzi infinite volte».
Platone Lg. 676a – 677b: «Ateniese: da quando ci sono gli stati e gli uomini sono cittadini, puoi tu pensare quanto tempo è passato? Clinia: Non è facile dirlo. Ateniese: ma sarebbe un tempo invalicabile, incommensurabile? Clinia: questo sì, certamente. Ateniese: non furono mille sopra mille gli stati nati in tutto questo tempo, non furono altrettanti gli stati distrutti? Non si ebbero più volte in ogni luogo tutte le specie di costituzioni e da piccoli grandi e da grandi non divennero piccoli, cattivi da buoni, buoni da cattivi che erano?»
«Se la ragione non riesce a confutare queste elucubrazioni, con cui pensatori miscredenti tentano di stornare la nostra religiosità semplice dalla via dritta per farci girare con loro attorno ai cicli, la fede dovrebbe farsene beffe» (De civitate Dei, XII, 17). «Chi potrebbe ascoltare simili idee, chi crederle, chi sopportarle? Ed anche se queste palingenesi fossero vere, non solo sarebbe più prudente non parlarne, ma anche più filosofico ignorarle. Esprimo il mio pensiero come posso. Infatti se nell'aldilà non le conserveremo nella memoria e per questo saremo felici, perché qui dalla loro conoscenza viene resa più pesante la nostra infelicità? Se al contrario di là necessariamente le conosceremo, ignoriamole per lo meno di qua, in maniera che sia più felice di qua l'attesa del sommo bene che di là il suo conseguimento, dato che di qua si attende di conseguire la vita eterna, di là si sa che la vita felice ma non eterna a un certo momento si deve perdere» (De civitate Dei, XII. 2).
De civitate Dei, XI.IV «II mondo è il più grande degli esseri visibili, Dio il più grande degli esseri invisibili. Noi percepiamo l'esistenza del mondo, l'esistenza di Dio la crediamo. E crediamo che Dio abbia creato il mondo perché nessuno ne può dare la certezza che ne dà Dio stesso. Dove abbiamo udito la sua voce? In nessun luogo frattanto così bene come nelle Scritture sante, in cui ha detto un suo Profeta: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Questo Profeta non era presente quando Dio creò il cielo e la terra, ma v'era la sapienza di Dio, mediante la quale furono fatte tutte le cose. Essa si svela nelle anime sante, forma gli amici di Dio e i Profeti, fa conoscere nel silenzio le opere di lui. Parlano loro anche gli angeli di Dio che vedono sempre la faccia del Padre e annunziano il suo volere a chi è dovuto. Uno di essi era il Profeta che ha detto e scritto: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ed egli è teste tanto idoneo a farci credere in Dio appunto perché mediante l'ispirazione divina, con cui conobbe queste verità rivelategli, ha previsto anche tanto tempo prima che si sarebbe avuta la nostra fede».
«Questi filosofi non riescono a considerar libera da questa beffa del destino l'anima immortale, anche se ha acquisito la sapienza, poiché va senza sosta verso una falsa felicità e senza sosta ritorna a una vera infelicità. Non può infatti essere vera felicità perché non si ha sicurezza della sua eternità» (De Civitate Dei, XII.13).
Lettera a Tito: «Paolo, servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo per portare alla fede quelli che Dio ha scelto e per far conoscere la verità, che è conforme a un’autentica religiosità, nella speranza della vita eterna – promessa fin dai secoli eterni da Dio, il quale non mente, e manifestata al tempo stabilito nella sua parola mediante la predicazione, a me affidata per ordine di Dio, nostro salvatore – a Tito (c.vo mio)». (Tt. I. 2-3)
De civitate Dei, XII.10
ÂŤLi inducono in errore anche alcuni scritti menzogneri che, secondo la loro tradizione, riportano nella cronologia molte migliaia di anni, sebbene secondo le sacre Scritture dall'origine dell'uomo si calcolano seimila anni non ancora compiutiÂť.
«i malvagi si muovono in cerchio» Ps. 12.9 «la via del loro errore è un circolo vizioso, cioè una falsa dottrina» (De civitate Dei, XII.13)
Agostino, Discorso 105: «tuttavia necessario che tu abbia la carità, la fede e la speranza, affinché tu possa gustare la dolcezza del dono che ricevi. Anche queste virtù: la fede, la speranza e la carità sono tre, e nello stesso tempo sono un dono di Dio. La fede infatti l’abbiamo ricevuta da lui. Secondo la misura della fede - dice l'Apostolo - che Dio ha dato a ciascuno [Rm 12.3]. Anche la speranza l'abbiamo ricevuta da Colui al quale è detto: [Ricordati, Signore, della tua parola] con la quale mi hai dato la speranza [Ps. 118,49]. Anche la carità l'abbiamo ricevuta da Colui del quale è detto: La carità di Dio è stata versata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato . Queste medesime tre virtù sono però alquanto diverse tra loro, ma sono tutte dono di Dio».
«Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore» (Ps. 26, 14) «Guai a voi che avete perduto la pazienza» (Siracide, 2, 14) «Se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8) Alle parole dei miscredenti «i figli della morte eterna, vantando le loro gioie temporali, che per il momento dolcificano il loro palato e che in seguito troveranno certo più amare del fiele, non cessano d'insultare anche coloro che si comportano virilmente e, con il cuore rinfrancato, pazienti attendono Dio. Ci dicono infatti: Dov’è cil che vi è promesso dopo questa vita? Chi è tornato di là ed ha reso noto che sono vere le cose che credete? Ecco, noi ci rallegriamo dell'abbondanza dei nostri godimenti, perché speriamo ciò che vediamo; voi, invece, vi torturate nei travagli della continenza, credendo ciò che non vedete» (Discorso 157) bisogna rispondere con le parole dell’Apostolo: «nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8, 24-25).
«Giustificati
dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». (Rm 5, 1-5)
Dante, Inferno, IV, vv. 31-42 Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo' che sappi, innanzi che più andi, ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, ch’é porta de la fede che tu credi; e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio: e di questi cotai son io medesmo. Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio».
Lettera ai Romani, I. 18-22: «l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti».
Opere e giorni, vv. 94-105 Ma la donna, levando con la sua mano dall’orcio il grande coperchio, li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto. Solo speranza, come in una casa indistruttibile, dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell’orcio per volere di Zeus egioco che aduna le nubi. E infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n’è il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte da soli si aggirano, ai mortali mali portando, in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus. Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.
Summa Theologiae, II:40: «La specie di una passione viene determinata in base all’oggetto. Ora, per l’oggetto della speranza si richiedono quattro condizioni. Primo, che sia un bene: poiché, propriamente parlando, non si può sperare che il bene. E in ciò la speranza differisce dal timore, che ha per oggetto il male. - Secondo, che sia futuro: poiché la speranza non riguarda ciò che attualmente si possiede. E in ciò la speranza differisce dal godimento, che ha per oggetto il bene presente. - Terzo, si richiede che sia qualcosa di arduo, raggiungibile con obiezioni: infatti uno non può dire di sperare cose da poco, che subito può avere in suo potere. E in ciò la speranza si distingue dal desiderio o cupidigia, che riguarda il bene futuro in genere […]- Quarto, si richiede che tale cosa ardua sia raggiungibile: infatti uno non può sperare ciò che in nessun modo può raggiungere. E in questo la speranza si distingue dalla disperazione» (c.vo mio).
Semonide, fr. 1: «Speranza e fiducia nutrono tutti gli uomini, che vanamente di affannano» Pindaro (N.11): «sfrontata speranza aggioga le membra»
Esiodo (Erga): Prima una stirpe aurea di uomini mortali Fecero gli immortali che hanno le Olimpie dimore. […] Poi, come seconda, una stirpe peggiore assai, argentea […] […] Zeus padre una terza stirpe di gente mortale di bronzo fece, in nulla simile a quella d’argento […] […] E poi, dopo che anche questa stirpe la terra ebbe nascosto, di nuovo una quarta, sopra la terra feconda, fece Zeus Cronide, più giusta e migliore, di eroi stirpe divina, che sono detti semidei, anteriore alla nostra sulla terra infinita. Zeus, poi, pose un’altra stirpe di uomini mortali, quanti ora sono sulla terra nutrice di molti. Avessi potuto io non vivere con la quinta stirpe di uomini, ma fossi morto già prima oppure nato dopo, perché ora la stirpe è di ferro; né mai di giorno cesseranno da fatiche e affanni, né mai di notte, affranti: e aspre pene manderanno a loro gli dèi.
allora né il padre sarà concorde coi figli né i figli col padre; né l’ospite all’ospite, né l’amico all’amico e nemmeno il fratello caro sarà come prima; […] il diritto sarà nella forza: l’uno all’altro saccheggerà la città.
«tetelestai» (Gv. 19,30)
Kant, Idea per una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784) Nona Tesi
Erodoto, Storie: «questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso»
Aristotele, Poetica, 1451a 37 – 1451b 12: «compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. È universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verisimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo poi i nomi. Il particolare invece è che cosa fece o subì Alcibiade».