L'etica al vaglio della tradizione analitica (G. Scardovi)

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Paradigmi per l’etica L’etica al vaglio della tradizione analitica Gabriele Scardovi Novembre-Dicembre 2012


Henry Sidgwick (1838-1900)


Henry Sidgwick In The Methods of Ethics (1874), Sidgwick fa il punto sulla situazione in cui, nella seconda metà del XIX secolo, si trova la riflessione teorica britannica intorno alla moralità e all’etica, chiedendosi se sia possibile trovare un metodo valido per risolvere le questioni etiche…


‌e arrivando a conclusioni che egli stesso giudica, nel complesso, deludenti.


H. Sidgwick: i tre metodi dell’etica Da tre princÏpi, derivano tre metodi: 1) intuizionismo, 2) edonismo egoistico, 3) edonismo universale (utilitarismo).


Henry Sidgwick è già un realista? […] la nozione che questi termini [«si deve» o «giusto»] hanno in comune è troppo elementare per ammettere una qualche definizione formale. H. Sidgwick, The Methods of Ethics, 1874, trad. it. di Maurizio Mori, I metodi dell’etica, Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 70-71.


Con qualche esagerazione, si potrebbe dire che giĂ in Sidgwick si delinea la contrapposizione fra cognitivismo e noncognitivismo morali, che caratterizza buona parte della recente filosofia morale angloamericana.


La mancata conciliazione fra i tre metodi •  Intuizionismo e utilitarismo sono inconciliabili solo in apparenza. •  Resta, però, che l’egoismo non può accordarsi con gli altri due metodi. •  Senza un appello a Dio, l’etica resta perciò priva di un metodo sicuro per la soluzione dei problemi.


•  Ma un puro e semplice appello a Dio, perché sia Lui a portare l’armonia fra i metodi, è più tipico dei credenti e non è un mezzo cui un filosofo morale possa ricorrere senza uscire dai confini della filosofia.


La (desolata) conclusione di Sidgwick

La scienza etica non poggia su basi sicure e pare addirittura intimamente contraddittoria! Questa constatazione non può che portarci verso un universale scetticismo.


E dopo il “fallimento” di Sidgwick? La risposta più ambiziosa e più ricca di conseguenze offerta dalla filosofia britannica è quella tentata da George Edward Moore.


G.E. Moore (1873-1958)


George Edward Moore Nei suoi Principia Ethica (1903), G.E. Moore fa uso di molti argomenti di Sidgwick per andare verso un ben piĂš deciso razionalismo e stabilire cosĂŹ alcuni punti fermi contro lo scetticismo morale.


Forse senza volerlo, Moore inaugura la lunga stagione della metaetica novecentesca, che sopravvive ancora oggi.


Le due domande fondamentali Secondo Moore la filosofia morale può raggiungere risultati soddisfacenti e sicuri solo se distingue due domande fondamentali da cui far partire le sue indagini: 1)  Quali specie di cose devono esistere come fine a sé? 2)  Quale specie di azioni dobbiamo compiere?


Il valore intrinseco - Tutto e solo ciò che risponde alla prima domanda possiede un valore intrinseco; - ricava da se stesso la sua verità , senza che per questa si possano portare prove di alcun tipo; - è a fondamento di ogni discorso etico.


Con i Principia, Moore intende arrivare a costruire le premesse teoriche necessarie a un’etica autenticamente scientifica. Il tempo di Moore è il tempo della ricerca dei fondamenti del sapere, e non solo in campo morale.


Le maggiori acquisizioni teoriche di Moore •  La ricerca generale sul «buono» ci porta a togliere legittimità teorica alla filosofia pratica. La condotta umana può essere ormai considerata l’oggetto di uno studio secondario. •  Il «buono» è il solo oggetto peculiare che si trovi alla base della ricerca etica, il suo unico oggetto semplice di pensiero.


•  Il «buono» è solamente il «buono», dunque è un oggetto di pensiero semplice, indefinibile, inanalizzabile. •  Le proposizioni concernenti il bene sono tutte sintetiche e mai analitiche. •  Affermare, per esempio, che «piacere» significa «buono» e «buono» significa «piacere» porta a cadere in una fallacia naturalistica.


Che filosofia è quella di Moore? Quella di G.E. Moore è una filosofia •  realistica •  platonica •  intuizionistica (anche se caratterizzata da un intuizionismo fallibilistico) •  antisoggettivistica •  antipsicologistica


La stagione dell’emotivismo Il primo atto del non-cognitivismo etico contemporaneo: •  Alfred J. Ayer, Language, Truth, and Logic, 1935. •  Charles L. Stevenson, Ethical Language, 1944.


A.J. Ayer (1910-1989)


C.L. Stevenson (1908-1979)


Alfred J. Ayer Per il suo «fenomenismo radicale», Ayer si sente debitore verso Russell e Wittgenstein, oltre che verso Berkeley e Hume. Per lui, tutte le proposizioni autentiche sono da riportare a due sole classi: quella delle “relazioni d’idee” e quella dei “dati di fatto”.


La prima classe di Ayer comprende le proposizioni a priori della logica e della matematica pura, che sarebbero necessarie e certe solo perchĂŠ analitiche. Invece le proposizioni relative a dati di fatto empirici sono viste come ipotesi, che possono essere probabili, ma mai certe.


Metafisica e mancanza di senso Ayer non pensa che un’ipotesi empirica debba essere verificabile in modo conclusivo, perché giudica che qualche possibile esperienza possa risultare di specifico rilievo per stabilirne la verità o la falsità.


Ma se la (presunta) proposizione che si ha di fronte manca di soddisfare questo principio – e non è una tautologia – allora, per Ayer, essa è metafisica, e dunque non è né vera né falsa, ma letteralmente priva di senso.


«[…] la sterilità del tentativo di trascendere i limiti dell’esperienza possibile qui non verrà dedotta da un’ipotesi psicologica intorno alla effettiva costituzione della mente umana, ma dalla regola determinante la significanza del linguaggio.


Quando assumerne [di una proposizione] la verità o falsità semplicemente non è incompatibile con una qualunque assunzione intorno alla natura della propria esperienza futura, allora la presunta proposizione sarà, se non una tautologia, una pura e semplice pseudoproposizione. L’enunciato che la esprime può avere per [l’individuo] significato emotivo, ma non un significato letterale». Alfred J. Ayer, Language, Truth and Logic, 1935, trad. it., Linguaggio, verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 12.


La metafisica come (cattiva) poesia Lo scopo di Ayer è mostrare che, se la filosofia intende essere un ramo autentico del sapere, allora deve essere distinta dalla metafisica. E poco importa che alcuni metafisici sappiano produrre opere che sono il frutto di un autentico sentimento mistico.


La riabilitazione del senso comune I filosofi non devono perciò disprezzare le credenze del senso comune, perchĂŠ dimostrerebbero semplicemente di ignorare il vero scopo delle loro ricerche. Dal fatto che l’analisi della proposizione condotta sulla base del senso comune sia errata, non segue infatti che la proposizione sia falsa.


Il compito del filosofo, secondo Ayer Ciò che il filosofo dovrà saper fare sarà mostrarsi capace di rivelare al proprio lettore che le proposizioni alle quali crediamo nella nostra esistenza ordinaria sono molto più complesse di quanto supponiamo.


I filosofi come redattori di dizionari? La risposta è «no», perché ci possono essere due tipi di definizioni: •  definizioni esplicite; •  definizioni d’uso. Solo le seconde interessano alla filosofia.


Sulla riducibilità terminologica dell’etica «Ora non ci interessa di scoprire quale termine, entro la sfera dei termini etici, sia da prendere come fondamentale; se, per esempio, “buono” si possa definire in termini di “giusto”, o “giusto” in termini di “buono”, o l’uno e l’altro in termini di “valore”.


Quello che ci interessa è la possibilità di ridurre l’intera sfera dei termini etici a termini non-etici. Vogliamo vedere se le affermazioni di valore etico si possono tradurre in affermazioni di fatto empirico». Ivi, pp. 130-131.


Quale assolutezza per l’etica? Per Ayer, si può parlare di una assolutezza dei giudizi etici solo nel senso che la loro validità non è determinabile più di quanto lo sia la natura dei sentimenti morali. Da questo deriva anche l’impossibilità di fare calcoli empirici sulla moralità.


L’indefinibilità dei termini etici Quelli che sono indefinibili in termini fattuali sono solo i simboli etici normativi. I simboli etici puramente descrittivi sono invece definibili come qualsiasi altro termine empirico.


«Se […] dico: “Rubar denaro è male”, produco un enunciato che non ha nessun contenuto fattuale – cioè non esprime nessuna proposizione che possa essere vera o falsa. È come se avessi scritto: “Rubar denaro!!!” – dove i caratteri grafici dei punti esclamativi, per convenzione, mostrano che il sentimento espresso è una speciale sorta di disapprovazione morale. È chiaro che qui non si dice nulla che possa essere vero o falso». Ivi, pp. 135-136.


Il soggettivismo radicale di Ayer Il soggettivista ortodosso non nega, come invece fa Ayer, che gli enunciati del “moralistaâ€? esprimano proposizioni autentiche. Nella sua prospettiva quegli enunciati esprimono proposizioni intorno ai sentimenti di chi parla. Se cosĂŹ fosse, i giudizi etici sarebbero evidentemente suscettibili di suonare veri o falsi.


Ayer non è un soggettivista ortodosso, perchÊ pensa che le proposizioni etiche normative siano pseudo-proposizioni, fondate solamente su pseudo-concetti.


La metafisica è…un disagio psichico «Di conseguenza, quei filosofi che riempiono i loro libri di asserzioni relative alla loro “conoscenza” intuitiva di questa o quella “verità” morale o religiosa, stanno solo fornendo materiale per lo psicoanalista». Ivi, p. 158.


Il metodo di Charles L. Stevenson Come Ayer, anche Stevenson pensa che per comprendere – e, in un certo senso, risolvere – i problemi etici occorra dedicarsi a uno studio analitico del linguaggio e del significato. In particolare, Stevenson ha voluto dare attenzione ai metodi, sia razionali sia irrazionali, usati nelle discussioni etiche.


Il non-cognitivismo di Stevenson Anche per Stevenson l’etica normativa è più di una scienza, incontra difficoltà sue proprie e ha sue proprie funzioni. E, come già per Ayer, non c’è alcuna necessità di richiamarsi, in etica, a una forma di conoscenza superiore, magari intuitiva.


Occorre ammettere, però, che i problemi etici implicano decisioni personali e sociali intorno a ciò che dev’essere approvato, e che queste decisioni, benché siano in dipendenza dalla conoscenza, non costituiscono esse stesse conoscenza.


Raccomandazione e persuasione «I giudizi morali si assumono il compito di raccomandare qualcosa all’approvazione o alla disapprovazione; e ciò comporta qualcosa di più che una descrizione o discussione in atteggiamento freddo e disinteressato, per decidere se la cosa sia già stata approvata o dovrà esserlo spontaneamente nel futuro.


Non per caso il moralista è cosĂŹ spesso un riformatore. I suoi giudizi sostengono e consigliano certe cose, e danno adito a opinioni contrarie. In tal modo i giudizi morali escono dall’ambito della conoscenza, rivolgendosi alla natura impulsiva e affettiva dell’uomo.


Quando i giudizi morali vengono accettati in comune, indicano la presenza di forme convergenti di influenza, che devono esistere in ogni societĂ in cui si sono stabilite norme generaliÂť. Charles L. Stevenson, Ethics and Language, 1944, trad. it., Etica e linguaggio, Milano, Longanesi, 1962, p. 30.


L’etica e gli imperativi In seguito all’analisi, i giudizi etici possono rivelare a questo punto, nel loro incorporare accordi o disaccordi di atteggiamento, la loro natura di quasi-imperativi. La loro funzione è simile, infatti, a quella degli imperativi puri.


Stevenson: i modelli di lavoro in etica •  1) «Questo è scorretto» significa: Io disapprovo questo; fa’ altrettanto. •  2) «Egli dovrebbe far ciò» significa: Io disapprovo che egli trascuri di far ciò; fa’ altrettanto. •  3) «Questo è bene» significa: Io approvo questo; fa’ altrettanto.


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