Contributi FLAICA CUB TORINO su pandemia, governo e salute.
FLAICA CUB TORINO CORSO MARCONI 34, TORINO FLAICACUBTORINO@GMAIL.COM 351 829 2281
GENNAIO 2022
evitando nel modo più radicale di rivederne il finanziamento, continuando nella politica di privatizzazione e rifiutando di aumentare organici, posti letto e sanità territoriale. In pratica, l’insistenza sulla vaccinazione generalizzata (in poco tempo diventata obbligatoria in una forma o nell’altra) ha permesso ai governi europei – e in particolare a quello italiano- di evitare di rifinanziare la sanità pubblica già privata di circa 54 miliardi di euro in questo decennio e di continuare in quello che viene chiamato il “modello lombardo”, ossia con la privatizzazione totale delle strutture sanitarie; privatizzazione peraltro finanziata con denaro pubblico direttamente dirottato nelle tasche degli “imprenditori sanitari” che non devono nemmeno rischiare un euro dei propri capitali. Questo nonostante l’esplosione pandemica del 2020 abbia dimostrato a chiunque lo stato comatoso e assolutamente insufficiente della nostra sanità
1. COSA C’ENTRA IL GREEN PASS CON LE POLITICHE ECONOMICHE DEL GOVERNO Il processo in corso a partire dalla sostituzione del Governo Conte II con il Governo Draghi è un vero e proprio processo di restaurazione. Restaurazione delle politiche economiche precedenti la pandemia, restaurazione della trasformazione della cosa pubblica in funzione del mercato e degli interessi delle classi dominanti, restaurazione dello smantellamento delle garanzie, del reddito e delle libertà delle classi lavoratrici. Dentro questo processo il piano vaccinale costruito frettolosamente e con criteri di credibilità affidati più alla confezione che al contenuto (un militare, efficiente per definizione) ha rivestito un ruolo di primaria importanza per ottenere l’obiettivo del ritorno al passato.
Significativo in questo quadro è la condizione, imposta dalla Commissione Europea ma accettata senza battere ciglio dal governo Draghi, per la quale le assunzioni molto limitate effettuate in Sanità nel corso del 2021 sono tutte a tempo determinato, in modo da fare fronte all’emergenza ma non di rendere più efficiente la Sanità e più stabile l’impiego del personale.
L’enfasi posta sulla vaccinazione come unico scudo contro il dilagare ripetuto della pandemia nel paese e nel mondo ha ottenuto tre obiettivi esplicitamente ricercati dalle classi dominanti: 1) l’individuazione di una soluzione presentata come definitiva e capace di eliminare in un colpo solo le problematiche sanitarie associate alla diffusione del virus ha permesso di chiudere la discussione sul modello di sanità da offrire alle cittadini e ai cittadini (che la pagano con le proprie tasse),
2) la costruzione di un clima ideologico per il quale gli strumenti effettivi di contenimento della pandemia, dalle protezioni individuali alle limitazioni nel 1
riempire locali e mezzi pubblici, fino alla necessità di adottare forme effettive di screening della situazione epidemica, sono stati tutti accantonati a favore del massiccio ritorno alla produzione. Il clima generalizzato di apertura indiscriminata senza meccanismi di salvaguardia per le lavoratrici e per i lavoratori è stato favorito dalla narrazione dominante che assicurava la fine della pandemia tramite vaccinazione. La stessa opposizione no vax è stata utilizzata al fine di individuare un facile capro espiatorio all’evidente fallacia delle promesse vaccinali.
e continuare con le politiche di esproprio della ricchezza sociale a favore delle classi dominanti. 3) l’approntamento di una schedatura di massa mai vista della popolazione con l’utilizzo di una tecnologia blockchain che permettono la costruzione di banche dati senza limiti e la normalizzazione di uno strumento che, di fatto, ricopre lo stesso ruolo che ebbero negli stati autoritari del Novecento i passaporti interni. Abituare la popolazione a mostrare un documento direttamente legato alle proprie scelte in fatto di salute per poter lavorare e compiere le azioni quotidiane legate alla propria esistenza, equivale a rendere normale il controllo dell’apparato repressivo sulle singole esistenze e predisporre uno strumento utilizzabile a piacere per discriminare all’interno della classe lavoratrice tra buoni e cattivi, in modo da tracciare una linea rossa che separi i secondi dalla vita civile ed associata.
Di fronte alla ripresa della pandemia nonostante un primato vaccinale più unico che raro il governo ha varato una serie di provvedimenti finalizzati alla criminalizzazione di coloro che per qualsivoglia ragione avevano rifiutato di farsi vaccinare. In questo modo è stato indicato un capro espiatorio contro cui dirigere la frustrazione popolare derivante dal fallimento dei ritrovati vaccinali. Questi ultimi con ogni evidenza hanno avuto delle limitate capacità di contrasto delle forme più violente della malattia ma non hanno minimamente garantito quanto promesso dalla narrazione dominante: la fine di contagi. A fronte di questo e allo scopo di non mettere in discussione la ripartenza della macchina produttiva, la campagna culminata con l’obbligo vaccinale in scuola e Sanità e l’introduzione del cd. Green Pass, sono serviti a deviare la rabbia diffusa nella società, individuare un capro espiatorio
Da questo punto di vista il Green Pass non è uno strumento sanitario e non ha nulla a che fare con la questione vaccinale. E’ uno strumento che non lascia scelta alla classe lavoratrice operando una discriminazione su un bisogno fondamentale, quello del lavoro; è allo stesso tempo una tecnologia e una pratica di potere La tecnologia sulla quale si basa il Green Pass è quella che gli esperti chiamano blockchain a crittografia asimmetrica, cioè a doppia chiave, pubblica e privata. Quindi una 2
tecnologia che permette di collegare delle determinate condizioni a un individuo. Quest’ultimo scaricando il GP apre la propria identità su di una piattaforma. Oggi le condizioni sono relative allo stato sanitario, domani chissà...La base per collegare ognuno alla propria condizione di contribuente, al proprio status rispetto a residenza, occupazione, dichiarazione dei redditi, pagamento di rate, prestiti, multe, ecc… è stata gettata
autorità politiche ed economiche di normalizzazione dei corpi al fine di renderli produttivi e non disturbanti per la classe dominante. Da questo punto di vista l’utilizzo del Green Pass è evidentemente finalizzato a una disciplina che nel mondo occidentale emerso dalla fine della guerra Fredda mancava. L’adesione a un regime sulla base della capacità di quest’ultimo di distribuire a gran parte delle abitanti di un determinato paese una quota di ricchezza compatibile con una vita dignitosa è evidentemente andato in crisi radicale con la crisi subprime del 2008/09 e con quella dei debiti sovrani del 2011/12; la condizione proletaria è tornata ad essere precaria e povera in senso stretto, con un aumento esponenziale delle famiglie che risultano sotto il livello di povertà. La condizione di estrema povertà ha tornato ad affacciarsi in Europa e più in generale in occidente.
Si deve anche aggiungere che la struttura a blockchain permette una raccolta individualizzata dei dati, schedando di fatto l’intera popolazione per gli usi più diversi che ne possono essere fatti: dall’introduzione dell’euro digitale alla schedatura politica degli abitanti del continente. Infatti l’introduzione del Green Pass è stata accompagnata da una significativa modificazione della legge sulla privacy il cui succo è quello di consentire il trattamento dei dati da parte dell’amministrazione pubblica o di una società privata a controllo statale senza limitazioni di tempo. In questo modo si permette quello che è sempre stata l’aspirazione dell’amministrazione pubblica: l’incrocio dei dati riguardanti le persone, costruendo un unico data base che raccolga i dati riguardanti ognuno di noi, permettendo di volta in volta l’emissione di Pass condizionati da parte dei diversi livelli di potere statale, da quello finanziario a quello repressivo.
La risposta della classe dominante consiste in un innalzamento delle pratiche di controllo e di normalizzazione della classe lavoratrice, sia tramite le narrazioni che spingono le persone ad affidarsi al sovrano in situazioni di rischio drammatico, sia attraverso il rafforzamento delle strutture di controllo, in primo luogo digitali, che permettono di stroncare sul nascere ogni forma di possibile opposizione La voluta confusione che è stata fatta da tutti media mainstream tra no vax e no pass è sintomatica della posta in gioco:
A questo tipo di potere sulle nostre vite si accompagna l’antica necessità delle 3
l’introduzione di pratiche di controllo delle individue e degli individui in primo luogo se potenzialmente pericolosi in quanto appartenenti alla classe lavoratrice. La pandemia è stata solo l’occasione per l’implementazione di una tecnologia di controllo già costruita nel corso degli ultimi anni.
2. COME E PERCHE’ IL GOVERNO NON TUTELA REALMENTE REDDITO E SALUTE Mentre gli stessi dati ISTAT certificano che la povertà sta dilagando nel nostro paese e che la quota di lavoratrici e lavoratori poveri (coloro che hanno uno stipendio che non consente nemmeno l’acquisto di tutti i generi di prima necessità) ha raggiunto il 25%, i giornali e le televisioni affermano ogni giorno che il Governo sta rilanciando il paese spendendo quello che non è stato speso negli ultimi venti anni. Il sostegno del Governo Draghi alle imprese e ai redditi più alti è effettivamente una realtà, quello ai redditi più bassi e ai servizi che sono necessari a noi che ci troviamo nella parte bassa della piramide sociale è praticamente inesistente. Proviamo comunque a vedere nello specifico le vere e proprie menzogne che ci vengono raccontate ogni giorno 1) Il governo italiano sta facendo politiche fortemente espansive e sta immettendo valanghe di miliardi nell’economia del paese. La fonte utilizzata è il documento di previsione di spesa e deficit dei vari paesi europei, realizzato a maggio 2021 dalla commissione europea. Da questo documento appare che l’Italia è lo stato che a fine 2021 ha speso di più per il sostegno all’economia con un livello deficit/PIL dell’11,7% che, tradotto vuole dire che la spesa non coperta dalle nostre tasse vale più dell’11 per cento della ricchezza prodotta in Italia in un anno. In realtà, quando si calcola la spesa pubblica in deficit, bisogna tenere conto di quello che gli economisti chiamano il 4
saldo primario, ossia la spesa fatta da uno stato non tenendo conto del pagamento degli interessi sul debito. La spesa per interessi ha ovviamente un effetto nullo sull’economia e sui servizi perché si tratta semplicemente di un flusso di denaro che finisce nelle tasche delle banche e di altre grandi istituzioni finanziarie. Una mera rendita ottenuta da chi ha grandi disponibilità di denaro da prestare e che fa profitti sulla necessità degli stati di ottenere liquidità per finanziare le proprie attività. Se togliamo questa parte della spesa pubblica, già si scende a un rapporto deficit/PIL dell’8.4% per cento per il 2021 e del 2.8% previsto per il 2022. Quindi il 3.3% di quanto speso in deficit dall’Italia nel 2021 è semplicemente finito nelle tasche dei banchieri e degli speculatori che comprano miliardi di titoli del debito pubblico per mere ragioni di guadagno. Fatta questa prima operazione, se ne deve fare una seconda mettendo a confronto il deficit primario (quello senza spese per interessi, per intenderci) con il ciclo economico. In altre parole non possiamo confrontare un anno in cui la disoccupazione è stata bassa e le entrate fiscali sono state alte con un anno in cui la spesa per la cassa integrazione e i sussidi è stata alta e le entrate fiscali sono diminuite perché le attività economiche hanno funzionato poco e male. Gli anni 2020 e 2021 sono esattamente un caso di questo genere. Da un lato abbiamo spese che non possono che aumentare perché nessuno stato in una condizione di crisi come quella della pandemia si potrebbe permettere di bloccare i sussidi che invece crescono a dismisura (basti pensare alla CIG per COVID continuamente rinnovata tra il 2020 e la fine del 2021 e che ha ancora una coda
non si sa quanto lunga in pieno 2022), mentre la chiusura parziale o comunque il minor funzionamento di molte attività ha anche ridotto la quota parte di tassazione che lo stato ottiene da queste attività. Ora, se noi correggiamo i dati della commissione europea con questo criterio, il risultato di spesa straordinaria del governo italiano si riduce ulteriormente fino ad un misero 5.8% di deficit rispetto al PIL italiano, con la previsione per il 2022 di non più del 2.0%. Non differente da quello di paesi come la Germania e la Francia e del tutto in linea con le richieste di continuazione dell’austerity che continuano a provenire dalla borghesia europea 2) Il governo sta lavorando alla ripresa dell’occupazione. Il dato proviene dalla certificazione ISTAT che certifica un aumento nel terzo trimestre del 2021 di 338 mila occupate e occupati rispetto al trimestre precedente (+1.5%); peccato che la stessa ISTAT specifichi che 226mila di questi sono dipendenti a tempo determinato e altri 33mila siano indipendenti, ossia false partite IVA e altre situazioni lavorative di questo tipo. Con un po’ di matematica elementare si scopre che l’aumento delle e degli occupate veri (ossia i tempi indeterminati) è di appena 80mila unità. Questo avviene non solo perché il mercato del lavoro resta asfittico, ma a seguito di precise determinazioni di politica economica decise sia in sede europea che italiana. Gli interventi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il famoso PNRR) e finanziati dal Next Generation EU, il fondo anticrisi europeo) sono infatti accompagnati da una strategia di revisione del funzionamento economico dei varie 5
paesi dell’Unione Europeo e da un fitto elenco di clausole che condizionano l’erogazione di quel denaro. Stiamo parlando di 528 condizioni il cui fine è quello di rimuovere in via definitiva quanto resta dello stato sociale presente in Europa, paese per paese, trasformando il continente in un’economia di mercato senza limiti e favorire ulteriormente i privilegi dei pochi a scapito dei diritti e del reddito dei molti. Le prime tre controriforme approvate dal governo sono significative a questo proposito: a) semplificazione delle procedure amministrative in materia di appalto; questo vuole dire cancellare le tutele ambientali e quelle a difesa della trasparenza e della legalità delle procedure di appalto b) riforma del processo civile; norma finalizzata soprattutto a facilitare le procedure di sfratto per insolvenza che colpiscono la parte più povera del paese A queste già approvate si aggiungono quelle in fase di approvazione: a) riforma delle pensioni con aumento prevista dell’età pensionabile b) introduzione del federalismo fiscale con tassazione variabile tra regioni diverse e senza alcun fondo di solidarietà interno o fissazione dei livilli minimi di assistenza; questo vuole dire che chi abita nelle regioni più povere del paese avrà un’assistenza sanitaria inferiore a quella di chi abita in regioni più ricchezza) riforma del mercato del lavoro orientata alle politiche attive del lavoro; fuori dal linguaggio burocratico questo vuole dire che le disoccupate/i o le occupate/i in settori a rischio taglio del personale dovranno farsi carico di formarsi continuamente anche a proprie spese nella speranza di ricollocarsi da un lato e, dall’altro, vuole dire che lo
stato si impegna sempre di più a fornire alle imprese manodopera qualificata pronta alla bisogna L’idea di fondo che muove questa impostazione di politica economica è duplice: - da un lato si assume che il compito dell’amministrazione pubblica (che, ricordiamolo, svolge la sua azione con il denaro delle tasse, cioè il nostro) diventa esclusivamente quello di favorire le imprese drenando denaro dalle tasche della classe lavoratrice per finanziare il settore privato e quindi i profitti dei pochi -dall’altro si rilancia l’idea che la disoccupazione dipenda dalla scarsa formazione delle lavoratrici e dei lavoratori e che l’occupazione possa essere accresciuta solamente aumentando le abilità delle lavoratrici e dei lavoratori Quest’ultima idea è ampiamente smentita dalla realtà dei fatti; trent’anni di politiche attive del lavoro non hanno minimamente scalfito il tasso di disoccupazione, sia dalla ricerca empirica fatta dagli istituti di statistica sia da quelle e quei pochi economisti che non sono a libro paga delle associazioni padronali. La realtà, quella vera, è che solo politiche fiscali espansive che sostengano i consumi delle classi lavoratrici e che investano sulla creazione di lavoro sicuro e pagato dignitosamente possono sconfiggere la disoccupazione e la precarietà Politiche che, ovviamente, non sono gratuite ma che presuppongono un cambiamento radicale nelle politiche fiscali con un aggravio della tassazione sulle classi più ricche e sulla rendita. Politiche fiscali bel lontane dall’essere adottate in Italia, paese dove la rendita finanziaria e quella immobiliare è 6
radicalmente detassata e dove la tassazione sulle classi di reddito più alte è stata ulteriormente ridotta proprio da questo governo
3. PANDEMIA, CRISI E GENERE: UNA BATTAGLIA TUTTA DA FARE
SOLO LA CONOSCENZA REALE DELLE POLITICHE ATTUATE DAL GOVERNO PUO’ PERMETTERCI DI OPPORCI A CHI OGNI GIORNO TAGLIA IL NOSTRO REDDITO E LA NOSTRA LIBERTA’
La narrazione ufficiale sulla pandemia da Covid 19 sostiene che quest’ultimo sia stato una sciagura che avrebbe colpito tutte e tutti nella stessa maniera, senza distinzioni di classe o genere. A leggere la provenienza sociale dei morti o meno drammaticamente a leggere le percentuali di genere o la tipologia di lavori svolti dai più colpiti dal virus, dovrebbe essere chiaro che invece non è così. Se c’è un dato assodato, a due anni dall’inizio dell’epidemia, è che il Covid ha avuto ed ha tuttora conseguenze peggiori per le fasce meno abbienti della popolazione e che la maggioranza delle colpite tra le lavoratrici sono donne. Questi due dati non sono casuali: tra la classe lavoratrice ed i poveri troviamo la maggioranza delle persone maggiormente affette da patologie pregresse e malcurate proprio a causa delle difficoltà economiche in cui si trovano; allo stesso modo troviamo tra le donne la maggioranza delle working poors, ossia di quelle lavoratrici e lavoratori che pur lavorando non possono uscire dalla situazione di povertà a causa dei salri troppo bassi e della scomparsa di quello che un tempo si chiamava stato sociale. Se guardiamo poi alle dimensioni sociali ed economiche della crisi prodotta dall’esplosione della pandemia, 7
troviamo dati sconfortanti che ci dicono come le aziende più ricche e i paperoni d’Italia e del mondo intero hanno trovato nell’emergenza sanitaria la possibilità di accrescere ancora (e a volte in modo vertiginoso) il proprio giro d’affari e i già cospicui patrimoni: nella fase più acuta del morbo, mentre in ospedale mancavano respiratori e posti letto e le mascherine venivano vendute a peso d’oro, questi soggetti si sono arricchiti sensibilmente e stanno continuando a farlo con la complicità dei governi.
Se prendiamo il 2021, anno che la narrazione dominante ha trasformato nell’anno del riscatto e della ripresa, troviamo dati non migliori. Il rapporto INAP (Gender Policies Report) uscito a dicembre e dedicato al 2021, cancella ogni speranza di riequilibrio occupazionale tra donne e uomini. Leggiamo nel report che nel primo semestre del 2021 sono stati attivati tre milioni e trecentomila nuovi contratti. Di questi solo il 39.6% ha riguardato lavoratrici. Scopriamo, quindi, che le donne sono state le più penalizzate durante la grande crisi del 2020 e sono di nuovo le più penalizzate nell’anno della timida ripresa del 2021. A questo dobbiamo aggiungere che, sebbene la maggioranza dei nuovi contratti siano a termine o in somministrazione (e quindi non siano contratti “veri”, in grado di portare un minimo di serenità a lavoratrici e lavoratori), l’incidenza del precariato è molto più elevata per le lavoratrici.
Gli effetti sociali della pandemia sono quindi stati totalmente asimmetrici; lo sono ancora adesso se guardiamo i dati della situazione occupazionale del nostro paese. In particolare colpisce la disparità di genere in questo campo. La crisi si è portata dietro un crollo dell’occupazione che ha colpito maggiormente le donne e non a caso.
Tra le donne, infatti, ben prima del marzo 2020 era già diffuso ampiamente il lavoro precario, discontinuo e sottopagato. Nel dicembre 2020, quando si sono tirati i primi conti degli effetti della crisi sull’occupazione, è venuto fuori che, trle/i 444mila occupate/i in meno, 312mila erano donne e 132mila uomini. In altre parole le donne erano il 70% delle persone mandate a casa dalla pandemia; quasi sempre contratti a termine che non sono stati rinnovati.
Il testo del report è chiarissimo: “ La crescita è chiaramente trainata dai contratti a termine e discontinui sia per uomini che per donne, ma con una differenza. I contratti delle donne, numericamente inferiori a quelli maschili, presentano al loro interno un’incidenza comparativamente maggiore della precarietà contrattuale”. Questo conferma che la tendenza innescata dalla crisi pandemica è quella di aumentare le diseguaglianze di genere anche all’interno del mondo del 8
lavoro, si pensi che il tasso di occupazione (il numero di occupati all’interno delle classi d’età che potrebbero lavorare) è del 68% tra gli uomini e del 50% tra le donne
associazioni padronali e Cgil-Cisl e Uil hanno portato avanti in questi anni. La disuguaglianza di genere è destinata a crescere in questo momento sulla base degli interventi classisti che il governo Draghi sta portando avanti: lo sblocco dei licenziamenti, la controriforma delle pensioni, il taglio del reddito di cittadinanza, le privatizzazioni previste dal DdL concorrenza, le limitazioni dei congedi parentali e la riforma del fisco costruita in modo da avvantaggiare i redditi medio-alti, sono tutte misure destinate a colpire le condizioni di vita ed il reddito della classe lavoratrice ma, al suo interno sono destinate a colpire maggiormente le donne sulle quali continua a pesare la parte maggioritaria del lavoro di cura svolto in questo paese, senza alcuna compartecipazione e senza alcun riconoscimento reddituale. Lo smantellamento di quel che resta dello stato sociale, a partire dalle misure di conciliazione tra vita e lavoro è destinato a colpire innanzitutto le lavoratrici che subiscono maggiormente i compiti di cura familiare e che quindi vengono emarginate all’interno del mondo del lavoro.
Abbiamo quindi un mercato del lavoro senato da una profonda diseguaglianza di genere per di più in crescita all’interno di un contesto di crescente precarietà. Allo stesso tempo è evidente il mutamento nella struttura dell’occupazione femminile. Un mutamento che si sostanzia in una diminuzione delle donne impiegate in settori con paghe più elevate e maggiori possibilità di carriera e il loro spostamento verso settori con salari più bassi e qualifiche inferiori. Non si tratta di un fenomeno che riguarda solo i livelli di istruzione e formazione più alti, tra l’altro teoricamente incomprensibile in un paese dove le donne hanno mediamente istruzione e preparazione maggiori degli uomini; si tratta di un movimento discendente e generalizzato per cui le donne guadagnano meno degli uomini a qualsiasi livello e hanno difficoltà maggiori nella progressione di carriera. Si tratta di un supplemento di sfruttamento cui le donne sono sottoposte unicamente per il fatto di essere donne e la cui conseguenza puntuale è quella di rendere le lavoratrici più ricattabili sul terreno del lavoro e del salario.
La nostra battaglia per un lavoro e un reddito dignitosi per tutte e per tutti non può che partire da qui, dalla lotta per la fine delle discriminazioni di genere all’interno delle aziende e della società; non come supplememto ad una lotta più generale, ma come condizione perché si svolga questa lotta. Non è possibile pensare di ribaltare la tendenza attuale
Chiaramente questa situazione non è casuale ma è figlia delle politiche che i governi, in piena sintonia con le 9
allo schiacciamento del reddito e delle libertà delle lavoratrici e dei lavoratori finché accetteremo che tutta la parte femminile della nostra classe subisca condizioni di vita e di lavoro ancora peggiori.
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