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Con la pandemia la cartellina “auto nuova” è finita sotto le altre
CON LA PANDEMIA LA CARTELLINA “AUTO NUOVA” È FINITA SOTTO LE ALTRE
I FATTI
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C’è un segnale positivo che arriva dal mondo dell’auto: è il solo mezzo di mobilità a uscire rafforzato dalla pandemia. Tutte le indagini, che si aggiungono alla percezione diretta, confermano come le persone tendano a usare l’auto propria più di prima, laddove altri servizi, dal car sharing ai mezzi pubblici, vengono evitati quando e per quanto possibile. Alla base c’è ovviamente un bisogno di sicurezza sanitaria. Tornare a muoversi va bene, se proprio si deve, ma usando tutte le precauzioni possibili. Entrare in un autobus anche non affollato, incrociando decine di persone, magari senza mascherina, qualche ansia la dà, inutile negarlo. Dunque, auto personale a-go-go. Purtroppo, è l’unico segnale positivo. Tanto per cominciare, questo accresciuto utilizzo dell’auto propria non si accompagna con una maggiore domanda di acquisto, che anzi viaggia a ritmi piuttosto bassi. Le previsioni del Centro Studi Fleet&Mobility, basate su un’indagine AgitaLab presso 250 operatori del settore, proiettano un mercato 2020 intorno a 1,1 milioni di immatricolazioni, che non arriva al 60% di quanto fatto nel 2019. Le vendite di maggio e di giugno sono anche sopra tali previsioni, scontando però un effetto rimbalzo di consegne ritardate. Come mai questo strabismo, tra il mezzo che incontra il favore crescente dei cittadini e la scarsa domanda per averlo? Nessuno strabismo, gli italiani la macchina ce l’hanno già. Sì, molte saranno anche ultradecennali e come tali meno sicure e meno eco-compatibili, ma quanto valgono simili argomenti per spingere uno a firmare un contratto? Uno dei popoli meno assicurati
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dell’occidente è di fondo fatalista: se sto attento, ed io sto molto attento, gli incidenti capitano agli altri. L’ambiente poi, è da decenni un ottimo argomento di facciata, che serve a dare un vestito razionale a una scelta che resta in molti casi di pancia: voglio una macchina nuova perché questa che ho è vecchia e superata, non piace più e non ha tutte quelle cosine cool che oggi sono irrinunciabili. Il bluetooth vende più della CO2, piaccia o non piaccia. Ma la pancia, prima di essere soddisfatta con una nuova auto deve essere riempita. Oggi che il reddito è scomparso o diminuito, e se non è successo c’è il rischio concreto che accada nei prossimi mesi, la cartellina “macchina nuova” finisce sotto a tutte le altre, come emerge chiaramente da un’indagine Ipsos condotta a livello europeo. La ricerca conferma pure la natura emotiva dell’acquisto. Coloro che dichiarano di aver mantenuto/incrementato la propensione a compiere il passo verso una nuova macchina adducono, come principale motivazione, proprio quella sicurezza che solo il veicolo privato può dare. Ora, considerando che costoro avrebbero acquistato anche senza la pandemia, pare lecito concludere che stanno sostituendo qualche altra motivazione con quella ben più attuale della sicurezza. Non prendiamoci dunque in giro: chi compra la macchina nel 2020, come nel 2010, lo fa perché è un oggetto di consumo bello e seducente. Purtroppo, ha bisogno di giustificazioni razionali, perché le viene associato un peccato imperdonabile: icona di uno stile non pauperistico, mostra troppo evidentemente le differenze socioeconomiche. Chi guida un’auto da ricco e chi un’anonima utilitaria, chi un ultimo modello e chi una vecchia, fino alla madre di tutte le differenze: chi è ancora seduto dietro a un volante e chi invece è talmente ricco che riesce a farne a meno, tanto ha tutto a portata di piede o al massimo di pedale. Questo è il problema, a cui presto o tardi i costruttori dovranno mettere mano: l’automobile, sempre desiderata e posseduta eppure mai accettata.
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LE POLITICHE Per tutto quanto sopra, la vendita di automobili è un indicatore diffuso di come stia andando l’economia. Forse per la memoria di quel “ciò che va bene per la Fiat, va bene per l’Italia”, quando la gente sente al TG che le vendite di macchine vanno alla grande capisce che il denaro gira e, prima o poi, anch’egli ne beneficerà. Così, può decidersi a acquistare quel telefonino nuovo o fare quella vacanza che progettava da tempo. Questa è ciò che si chiama visione sistemica di un’industria, incastrata nello scenario complessivo dell’economia. Sfortunatamente, non se ne vede traccia nei due protagonisti cui spetta di intervenire: il Governo e gli operatori, rappresentati dalle rispettive associazioni. Il primo è chiaramente allo sbando. Questa crisi ha mostrato tutta l’infondatezza dell’idea che il primo che passava per strada potesse egregiamente guidare un ministero o addirittura il Paese. Qui non è questione di brave persone ma di competenze accumulate in decenni di mestiere. Chi non ha mai prodotto un valore aggiunto ha oggettive difficoltà a inquadrare i problemi, figuriamoci a individuare le soluzioni. Come qualsiasi naufrago, si aggrappa a ciò che trova. Oggi la merce che circola nel mare della nostra società è il sogno ideologico di un mondo più giusto, equo e sostenibile, dove appunto i meno competenti potrebbero, nella loro illusione, avere un maggiore confort. È quello che esce dal Palazzo, in forma di monopattini e biciclette ma pure, su altri tavoli, di scolari mandati in gita nei musei invece che nei banchi a rompersi la testa sulla matematica. Anche gli operatori fanno fatica. Sanno benissimo quale sia il problema e hanno competenze da vendere, ma si sono legati un braccio dietro la schiena, tutti. I più colpevoli sono indubbiamente i concessionari, che non trovano il modo di fare squadra e dunque non riescono a far sentire la loro voce, visto che solo chi esiste parla. I costruttori avrebbero pure voce, ma dicono troppe cose e finiscono col non farsi capire. Si sono fatti mettere all’angolo dalla
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UE, che li multerà pesantemente, pure dopo questo anno di crisi, per non aver venduto quelle macchine che solo nell’immaginario ideologico della politica, scollegata dalla realtà, i clienti avrebbero chiesto. Non hanno voluto denunciare che far muovere le auto con le pile non era né fattibile né, soprattutto, risolutivo per l’ambiente; nemmeno che truccare una centralina era sì peccato, ma non poteva essere punito con la distruzione di una tecnologia ottima e competitiva a livello mondiale. Invece, si sono avventurati in investimenti miliardari che difficilmente vedranno un ritorno. Adesso, si muovono in ordine sparso per favorire qualche vendita di nicchia, piuttosto che mettere sul tavolo delle trattative un sostegno unico, per la sola cosa che avrebbe un mercato: quello che c’è in salone e che il cliente è disposto a comprare. Sarà pure basic marketing, ma il Mondo, diceva un saggio, l’hanno fatto una volta sola. E in alternativa? No, spiacenti, l’alternativa l’abbiamo finita il mese scorso. O ci date questo o vanificheremo con le nostre politiche commerciali qualsiasi altra misura che vorrete adottare. Come si dice? Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.
Articolo pubblicato su Muoversi, trimestrale di Unione Petrolifera, a luglio 2020
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