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La crisi sanitaria crea nuove forme di mobilità

LA CRISI SANITARIA CREA NUOVE FORME DI MOBILITÀ

Stili di vita. Molte imprese hanno già dichiarato che una certa quantità di lavoro sarà da remoto.

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Il ritorno all’uso dell’auto propria indotto dalla paura del contagio sta terremotando i sistemi di mobilità urbana. Ma forse proprio il Covid offre la soluzione, con il ricorso allo smart working. Molte imprese hanno già dichiarato che una certa quantità di lavoro sarà svolta da remoto, con turnazioni varie e assetti ancora non ben definiti, che forse non lo saranno mai del tutto, è questa la novità. Fatto sta che alcuni desideri inconfessabili oggi sembrano a portata di mano. Da un lato, i pendolari che ogni giorno erano imprigionati nel traffico o stipati nei mezzi pubblici hanno scoperto che lavorare potrebbe non significare “andare a lavorare”, non tutti i giorni almeno. Secondo uno studio di Ernst&Young, una società di consulenza, le persone che lavorano esclusivamente da casa sono aumentate di nove volte, dal 4 al 35%, mentre si sono dimezzati quelli che per recarsi al lavoro impiegano oltre 5 ore a settimana, dal 60 al 29%. Dal nuovo modo di lavorare uscirà una nuova mobilità. I flussi in entrata-uscita dalle metropoli saranno trasformati, nelle quantità e negli orari. Le città delle fabbriche e dei centri direzionali somiglieranno a quelle che già vivono di lavori terziari non concentrati negli uffici. Dall’altro, i veri abitanti delle città, i privilegiati che vivono e lavorano in centro, vedono concretizzarsi la possibilità di riappropriarsi dei “loro” quartieri. Le mura cittadine rese anacronistiche dalla rivoluzione industriale, con i suoi operai che arrivavano da fuori, adesso possono ritornare, non in forma di mattoni ma come riserva di spazi. Il sogno di tanti è che chi abita altrove non invaderà con la macchina le strade del quartiere, che potranno essere riservate alla

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mobilità dei residenti, fatta al massimo di un paio di chilometri. È proprio su questa micro-mobilità che la novità dello smart working si lega all’altra, quella della mobilità individuale. Per paura del contagio i cittadini hanno abbandonato i mezzi pubblici e i taxi, riscoprendo l’auto privata. Questo non era previsto e per molte città non sarebbe neanche sopportabile, data la cronica mancanza di parcheggi e il conseguente utilizzo delle strade per la sosta. I parcheggi di scambio, costruiti alla fine del secolo, servivano proprio a lasciar entrare solo le persone, senza la macchina. Ma se i lavoratori dovessero insistere a voler usare l’auto propria, non resterebbe che pregarli di restare nelle loro periferie, diminuendo invece di aumentarla l’offerta di viabilità e di parcheggi, destinando porzioni crescenti di asfalto a bici e monopattini. Dando così anche il segnale tangibile che il quartiere è riservato ai residenti. Non è un messaggio piacevole e dunque, nella civiltà della democrazia e della comunicazione, le cose vanno incipriate e raccontate, affinché ciò che ha un gusto amaro possa diventare accettabile. Ecco allora questo fiorire di sondaggi e ricerche, per far dire direttamente alle persone quanto serva progettare una nuova mobilità. Quanto si voglia e si debba recuperare la dimensione umana delle città, come se i pendolari fossero alieni. Intendiamoci, non è mai sbagliato dar voce ai cittadini, con qualche avvertenza etica. Quando si chiede se sia opportuno potenziare le piste ciclabili, occorre costruire il campione in maniera che sia rappresentativo di tutti i cittadini interessati, non solo di chi può usare la bici perché in pensione o perché abita a mezzo chilometro dal lavoro e non ha bambini da accompagnare. Questo distingue la ricerca sociale scientifica e seria dalla propaganda a gettone.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 15 dicembre 2020

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