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INTERVISTE
Roberto Curto feltre Dal via libera al Piano triennale da 2,5 milioni di euro di investimenti al corposo piano di interventi per la sede di Villa Binotto finanziati dal Ministero con 300 mila euro, fino alla chiusa del bando per la nomina a direttore che ha registrato 65 manifestazioni di interesse. È stato un direttivo del Parco ricco e corposo malgrado qualche problema di collegamento tra il presidente Ennio Vigne e gli altri membri: il vice presidente Alessandro Maguolo e i consiglieri Camillo De Pellegrin, Stefano Deon, Giampietro Frescura, Ennio De Simoi e Augusto De Nato.Una seduta che è servita per riprendere in mano parecchi aspetti gestionali dell'area naturale e spingere sull'acceleratore su quegli aspetti dove il Parco deve confrontarsi con gli altri enti, soprattutto il Ministero. Il tutto, compatibilmente con l'emergenza sanitaria in corso che ha bloccato i cantieri già aperti, come quello, ad esempio miglioramento del ristorante Antica Torre di Col dei Mich a Sovramonte, oppure in Pian Falcina.MANCA UN REVISORE DEI CONTIIl Parco aspetta la nomina dell'ultimo componente del Collegio dei Revisori dei conti che è di scelta ministeriale: «Attendiamo con impazienza», afferma il presidente Vigne, «perché noi siamo pronti ad approvare il conto consuntivo 2019 che ci dirà qual è l'avanzo di gestione e dunque permetterci di utilizzare i fondi a disposizione. Però serve che il Collegio dei Revisori dei conti sia al completo».DIRETTORE, 65 CANDIDATIÈ un ruolo certamente ambito a livello professionale e strategico per portare a pieno regime la macchina gestionale del Parco: «La risposta è stata notevole», dice ancora Vigne, «ora con il direttivo dovremo decidere come attuare una prima scrematura delle candidature in base ai curriculum che sono pervenuti nelle due finestre valide di presentazione. Una volta arrivati a una rosa più ristretta di candidati si passerà a dei colloqui fatti di persona».300 MILA EURO PER LA SEDEI fondi del Ministero sono già a disposizione e riguardano i danni causati a Villa Binotto dalla tempesta Vaia. «È arrivato il momento di passare ai fatti. Il progetto di fattibilità c'è, ora spingerò affinché l'iter proceda spedito perché vorrei affidare i lavori subito dopo l'estate».L'intervento prevede la sistemazione del tetto, la realizzazione di un montacarichi per consentire l'accesso ai disabili, un accordo con l'Istituto agrario di Vellai per la riorganizzazione del giardino esterno con la messa a dimora di alberi da frutto e piante caratteristici dell'area del Parco, la realizzazione di un nuovo fabbricato da adibire ad autorimessa e deposito. «Su quest'ultimo aspetto», afferma Ennio Vigne, «vogliamo farci trovare pronti visto che nei prossimi cinque anni è in programma il completo rinnovo del parco automezzi puntando su veicoli ibridi o elettrici e mi rifiuto di lasciare veicoli nuovi alle intemperie come avvenuto finora. E poi ci manca un deposito per materiale e attrezzi che attualmente sono sparsi qua e là in altri edifici di proprietà del Parco».CANTIERI E INCARICHIIl Parco, compatibilmente con le disposizioni della Regione e della Presidenza del consiglio conta di riaprire i cantieri nell'area pic-nic di Candaten e ai Cadini del Brenton dove le opere possono essere assimilabili alla manutenzione del verde. Inoltre si punta a nominare i professionisti che dovranno redigere i progetti per la riqualificazione energetica del Museo Rossi a Belluno, della ristrutturazione del rustico di Pian Falcina e del Centro visitatori della Valle Imperina. --© RIPRODUZIONE RISERVATA
Corriere del Trentino | 3 Aprile 2020
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«Crisi molto seria, il consumo conduce all’autodistruzione. È ora di rinunciare» Reinhold Messner vive le restrizioni a Monaco
Con l’arrivo del Covid-19 alpinismo e turismo d’alta quota si sono fermati su scala planetaria: quest’anno non sono stati concessi i permessi per le salite all’Everest, ma anche in Trentino-Alto Adige la montagna ha sospeso il vincolo che la lega all’uomo. La natura vive i propri spazi alleggerita della presenza antropica, e sono le persone a sentirne la mancanza. Dal canto suo Reinhold Messner sta trascorrendo il proprio periodo di quarantena a Monaco di Baviera e lo affronta attingendo al proprio bagaglio d’esperienza: «Sopravvivo bene. Nella mia storia di alpinista mi sono formato: ho imparato a vivere negli spazi ristretti di un bivacco, o a passare lunghe settimane al campo base in attesa di una scalata. Il base camp è una specie di carcere di ghiaccio e neve, ti devi impegnare per affrontare la quotidianità». Come vive questo periodo di quarantena? «Ho una mia struttura che mi permette di affrontare la situazione. Ogni giorno passeggio un’oretta sull’Isar, secondo quanto è concesso fare, poi mi dedico alla scrittura. Seguo anche molto le notizie, sicuramente più di prima. Non mi annoio, sono allenato: nella vita non mi sono mai circondato di cose o persone con l’idea di distrarmi». Da cosa è dipesa la scelta di Monaco? «Recentemente sono stato in Etiopia, dove ho portato avanti degli studi sui popoli di montagna e ho fatto alpinismo. Al rientro avevo delle conferenze in Baviera che poi sono state annullate, essendo eventi con più di mille persone. Ma ormai ero a Monaco e c’erano già problemi a tornare in Sudtirolo. In più la mia signora è del Lussemburgo e così siamo rimasti qua, per la reciproca compagnia». Nella vita di montagna in Etiopia ha riscontrato più differenze o similitudini con il nostro territorio? «Quando ero là il coronavirus non era ancora arrivato, ora purtroppo sì. Ma nel mio viaggio ho potuto muovermi liberamente e se la montagna è molto diversa la cultura ha tratti comuni. Le loro montagne sono vulcaniche, sono nate dal fuoco e non dall’acqua come le nostre Dolomiti, ma nel modo di vivere si riscontra questa tendenza al valore dell’autosufficienza. Non è certo una vita ricca come la nostra, ma ho avuto un’impressione positiva dei loro equilibri. È stato un viaggio importante per il nostro museo della montagna».
Quanto pesa questa quarantena sul Messner Mountain Museum? «Il museo ora è gestito da mia figlia, ma al momento anche noi siamo fermi come tutti, lavoriamo per il futuro. Per tutti i musei questo è un periodo difficile e nel nostro caso non riceviamo aiuti come le strutture pubbliche. Dobbiamo trovare soluzioni». Come le sembra che l’Italia stia affrontando l’emergenza, anche in confronto alla Germania? «In Italia ci si è mossi tardi, ma si sta facendo un lavoro molto severo, il che è positivo. Qua in Germania si cerca di convivere con la malattia. Io non sono un esperto di virus, da persona comune mi sembra che la sanità in Italia, almeno al nord, sia equipaggiata per affrontare l’emergenza. Non riesco però a capire come sia possibile questa grande differenza nel numero di morti». Il sistema organizzato in Land è funzionale? «È sempre stato così, anche se forse ora servirebbe un po’ più di potere a Berlino, per garantire misure uniformi. Ma comunque le singole decisioni convergono abbastanza. Credo però che l’unico modo per risolvere davvero il problema sia smetterla con i giochetti che le varie nazioni stanno continuando a fare, bisogna rinunciare a interessi troppo particolari. Serve una vera collaborazione a livello mondiale». Cosa sta scrivendo? «Ho ripreso un libro iniziato circa dieci anni fa, tratta il tema dell’alpinismo tradizionale. È un’attività che finisce nel momento in cui l’uomo non prende la responsabilità delle proprie azioni su di sé e demanda la propria sicurezza alla tecnologia». Addomesticare la montagna è diseducativo per l’uomo? «È turismo, è un’altra cosa. Arco è un ottimo esempio e non è una scelta sbagliata: la gente può andare in mtb, camminare, fare arrampicata sportiva, godere della natura. Ma anche sull’Everest negli ultimi anni si fa turismo, perché salire su un Ottomila con l’ossigeno e gli sherpa non è alpinismo. Ci sono scelte che preparano la montagna al consumo, in maniera più o meno accettabile». Cinquant’anni fa lei scriveva «Ritorno ai monti», auspicando un rapporto diverso tra uomo e natura. Finita la quarantena pensa che l’umanità proverà a percorrere la strada del cambiamento? «Credo che siamo di fronte a una crisi molto seria e forse capiremo che con 8 miliardi di persone sul pianeta la nostra sopravvivenza è legata anche a forme di rinuncia, che l’obiettivo unico del consumo porta all’autodistruzione. Mi viene da ridere quando vedo film nei quali ci sono le guerre nello spazio contro gli alieni. Basta un piccolo virus che viene dal nostro mondo per metterci in ginocchio. Con la medicina supereremo l’emergenza, ma se non cambieremo il problema tornerà in futuro. Per quanto mi riguarda, finita la quarantena tornerò sicuramente ai monti. Manca anche a me una bella passeggiata!».
Alto Adige | 24 Aprile 2020
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«Alla montagna serve un turismo più intelligente» L'INTERVISTA a Luca Mercalli
sara martinello gardena/badia Il blocco degli spostamenti in tempi di coronavirus come chiave di accelerazione per un ripensamento globale del turismo, verso una ripopolazione della montagna ponderata che faccia leva sulla riqualificazione edilizia e su internet come fattore abilitante.Dopo la diatriba sulle seconde case accesa dalla "calda raccomandazione" del presidente della Provincia Arno Kompatscher, il climatologo Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, propone un nuovo scenario per la montagna, uno scenario in cui la sostenibilità alleggerisca la pressione sull'ambiente e sulla società.I meno informati parlano di una pandemia «del tutto inaspettata», ma nella bella videointervista rilasciata ad Andrea Membretti, ricercatore dell'Istituto per lo sviluppo regionale di Eurac Research, Lei ci rivela ben altro.La pandemia era assolutamente prevedibile: già nel 2013 David Quammen in "Spillover" ci aveva detto perfino dove si sarebbe sviluppata. D'altra parte non è una novità che i wet market siano i posti dove lo spillover, il salto di un patogeno da una specie all'altra, è più probabile.Una sorta di deresponsabilizzazione da parte della politica dei tagli alla sanità?I tagli alla sanità sono stati fatti come sono stati operati in molti altri settori. Quel che importa, in questo contesto, è che si è scoperta l'importanza della sperimentazione del telelavoro. Quella del virus è una lezione di metodo. Ridurre la mobilità quotidiana verso i luoghi del lavoro è possibile, così come è possibile eliminare ciò che è futile come un volo panoramico in elicottero sulle Dolomiti e tenere soltanto ciò che è utile, o inutile ma altamente qualificante in termini culturali, per esempio leggere un libro.E in tema di turismo come si fa questa distinzione? È vero che sarebbe ecologico solo quello "d'élite", quello negli alberghi CasaClima?Dipende solo da quante risorse materiali ed energetiche si usano per la vacanza. Posso andare in un hotel CasaClima con l'aereo o con un grosso Suv da 500 cavalli e fare motocross nel bosco. Oppure posso arrivare in montagna con una piccola utilitaria elettrica facendo un viaggio di poche centinaia di chilometri e passare dieci giorni a fare escursioni a piedi sui sentieri e a leggere libri contemplando la natura intorno a me. Più cose immateriali faccio, più sono sostenibile, e viceversa. Con "immateriali" intendo attività contemplative, culturali, emotive.Come è frequentata, oggi, la montagna?Male. Gli arrivi si concentrano in pochissimi periodi dell'anno, a Natale e a Ferragosto, ma il virus nei prossimi mesi ci metterà di fronte all'esigenza di scaglionare il turismo così come si sta pensando alla flessibilità nel lavoro. Uno dei primi criteri potrebbe essere quello economico, agendo ancora di più sulla leva dei prezzi a seconda della domanda, in maniera da agevolare la scelta di date molto diverse da parte dei visitatori. Una desincronizzazione. Ma io sono un climatologo, di una riflessione in questo senso si dovrebbero occupare tante persone diverse, dagli amministratori agli abitanti, dai rappresentanti del turismo alla stampa. Mi viene in mente la prima settimana dell'emergenza: la neve c'era ancora, e i grandi comprensori sciistici, spaventati, si sono affrettati a invitare tutti a sciare.Poi c'è stata la chiusura delle zone montane ai possessori di seconde case.Già. Perché non lasciare la libertà di scegliere dove passare la quarantena? L'abitante di una seconda casa, proprietà
sulla quale paga le tasse, non può essere una risorsa solo quando apre il portafogli e un peso quando è visto come un appestato che corromperebbe la purezza delle alte quote. Si deve fare i conti con la svendita dei terreni fatta cinquant'anni fa per un'urbanizzazione selvaggia.A Membretti Lei parla di una ri-abitazione della montagna, e l'altro giorno Stefano Boeri su Repubblica parlava di 2300 centri sotto i 5 mila abitanti in stato di abbandono.Io vivo in val di Susa: ci sono le piste di Sestriere della Vialattea, poi ci si sposta di pochi chilometri e si trovano borgate che crollano, case che cadono a pezzi. L'overtourism e la montagna sofferente, due eccessi e un gran stridore. In futuro le ondate di calore aumenteranno, quindi perché non scegliere di vivere stabilmente in quella che siamo abituati a pensare come una seconda casa? Per farlo però serve un progetto politico di recupero del patrimonio edilizio. Spesso sono edifici degli anni '60 o '70 da sottoporre a riqualificazione energetica o proprio da abbattere e ricostruire. E c'è anche tutto un patrimonio di malghe e baite ormai in decadenza (per un esempio nel dettaglio, all'indirizzo www.lucamercalli.it lo scienziato spiega il recupero di una grangia del 1732 in borgata Vazon, in provincia di Torino, ndr). Ma dev'essere un ritorno intelligente, "a numero chiuso".Che cosa vuol dire?Significa che non si deve costruire un centimetro cubo di più. Non si deve costruire niente di nuovo, la cubatura deve restare la stessa.Ma per eleggere i centri fantasma delle Alpi o degli Appennini a residenze vere e proprie ci vogliono i servizi.Sì, acqua, luce, parcheggi, strade, tutto un processo che deve essere governato dalla politica. Spero davvero che la montagna diventi luogo di vita e di lavoro, e in questo il fattore abilitante è l'accesso all'internet.E se un novello montanaro avesse voglia di un aperitivo?Be', non posso pensare di trasferire Milano in val Badia, non ci starebbero proprio le persone. Però magari a 10 mila milanesi dell'aperitivo non importa niente, per fortuna siamo tutti diversi. E se proprio venisse voglia di un aperitivo o di una mostra si scenderebbe in città. Come un visitatore.
L'Adige | 25 Aprile 2020
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«Mi aspetto un'estate di altri tempi» Cognetti Lo scrittore prende posizione: «Assurdo il lockdown sui monti: lassù c'è senso di responsabilità»
«Mi aspetto un'estate d'altri tempi, ci sembrerà di essere tornati indietro di qualche anno. Con meno stranieri, e tante famiglie, tanti bambini. E un maggiore utilizzo delle case. Sarà una montagna diversa, una montagna che verrà abitata, più che visitata. Questo, pur in una situazione di grandissima difficoltà, può essere una cosa bella. Questa, almeno, è la mia speranza». Paolo Cognetti, scrittore, cittadino e montanaro (più montanaro che cittadino, ormai), Premio Strega 2017 con il romanzo "Le otto montagne", sta vivendo l'isolamento da coronavirus nel cuore dell'emergenza pandemia, a Milano, dove vivono i suoi genitori. Non si è rifugiato in montagna, a Brusson, in Valle d'Aosta, dove pure trascorre buona parte dell'anno. Ma la montagna, anche nella sua casa di Milano, è sempre lì, sempre presente. Non è un caso se è stato fra i primi firmatari di una petizione per chiedere, in Valle d'Aosta, il ritorno all'aria aperta, adeguando le norme a un contesto che non può essere paragonato a quello dei centri urbani. Paolo Cognetti, perché ha firmato quella petizione? In Valle d'Aosta sento dei racconti terribili: non si può più fare niente, non si può fare l'orto, non si può fare legna, non si può raccogliere nulla. C'è una sorta di svolta autoritaria molto pesante: è assurdo che uno non possa andare a fare il suo orto, o a camminare in un bosco. A Milano, paradossalmente, questo peso non lo sento. Esco con il cane, un paio di volte al giorno, vicino a casa, ma la vita in città non mi sembra poi molto diversa. In città si lavora al chiuso, che sia a casa o in ufficio, il rapporto con il fuori è molto diverso. A Milano uscire di casa vuol dire, anche in tempi normali, prendere l'ora d'aria. In montagna è tutto diverso. Le misure restrittive siano calibrate per forza di cose sulle grandi città o comunque sui centri ad alta densità. Ma ha un senso il lockdown in montagna? Chiudere i sentieri? No, non ha nessun senso. Io abito in una delle valli più popolose della Valle d'Aosta, che sarebbe tranquillamente controllabile. Queste valli, spesso, hanno un'unica strada di accesso, sono facilmente presidiabili; la popolazione potrebbe essere tenuta sotto controllo in modo molto meno autoritario. In queste comunità di montagna si può contare su un forte senso di responsabilità condiviso. Sarebbe anche una prova di fiducia verso i cittadini, verso noi stessi. Sono proprio questi i momenti in cui fare leva su quel senso di responsabilità, e fare affidamento su di esso. In questo la montagna è molto diversa dalla città. Che montagna ritroveremo alla riapertura? Il grande problema sarà quello delle strutture ricettive. La nostra montagna vive di turismo, spesso con piccole strutture a conduzione famigliare. Saranno queste ultime a patire le maggiori difficoltà. Anche le norme e le regole di cui sentiamo parlare per una prossima riapertura sembrano misurate più sulle grandi realtà, sui grandi alberghi, e rischiano di essere devastanti sulle piccole strutture di montagna. Bisognerà riorganizzare una stagione turistica perché non sia un disastro completo. Come? Beh, la montagna si può impegnare, può ideare qualcosa di nuovo. Per esempio usare le tende all'esterno delle strutture. Il vicepresidente del Cai, Antonio Montani, ha detto che per tornare in montagna dovremo riabituarci alle tende e ai sacchi a pelo. Ecco, perché non raccogliere questa suggestione? Abbiamo tanto spazio aperto, proviamo ad usarlo. Le nostro norme sui campeggi sono molto restrittive: perché non aprire a questa possibilità? Si discute molto anche sulla riapertura dei rifugi. Se chiudono, sarebbe la prima volta dai tempi della guerra. Non so che cosa succederà a quelli di alta quota, ma quelli a mezza quota, che lavorano tanto con la cucina, devono riaprire e vanno aiutati a farlo. In Trentino c'è chi ha prefigurato lo scenario di un turismo più elitario, con numeri più contenuti ma qualità dei servizi più alta. E prezzi più alti, di conseguenza. Sarà, quello della montagna, un turismo per soli ricchi? È uno scenario inedito. Da noi, anche per la vicinanza con le grandi città come Milano e Torino, c'è sempre stato un turismo più
popolare. Certo entrambe le vie sono percorribili, ma sarebbe bello conservare un modo più frugale di vivere la montagna. Per questo mi aspetto un'estate un po' più da vecchi tempi, in cui ci sembrerà di essere tornati indietro di qualche anno. Mi aspetto di vedere meno stranieri e più famiglie, più bambini. Con un maggiore utilizzo delle case, rispetto alle altre strutture. In una situazione di grande sofferenza per il settore turistico, la montagna sarà forse abitata un po' di più, più che visitata dai turisti. Sarebbe molto belle vedere un maggior numero di persone che "abitano" questi luoghi. Un ritorno a quella che chiamavamo la villeggiatura? C'è un paesaggio, fatto di seconde case che restano chiuse e vuote gran parte dell'anno, vengono vissute giusto quelle due settimane in agosto. Invece adesso mi piacerebbe, e ci spero davvero, che grazie ad esempio allo smart working queste case diventassero un po' più vere, un po' più "case", tornando a una frequentazione più lunga della montagna. Un po' come succede nel suo romanzo, «Le otto montagne». Periodi così lunghi, intere estati, sarà difficile. Ma ci siamo fatti due mesi chiusi in casa, tanti hanno lavorato e lavorano da casa. Portando i servizi in montagna, potrebbe essere una buona idea. Ci sono moltissimi paesi pieni di case vuote: è una suggestione non so quanto realistica, ma sicuramente interessante. La frequentazione della montagna pone anche un'altra questione, quella della sicurezza. Lo scoppio della pandemia ci fa riflettere anche sulle priorità dell'assistenza sanitaria e del soccorso. Dobbiamo aspettarci che cambi qualcosa, su questo fronte? Quello che ormai viene considerato un diritto vero e proprio, il diritto di essere recuperati e soccorsi ovunque e in qualsiasi momento, in realtà è una cosa relativamente recente. Non è sempre stato così, prima c'era l'abitudine a cavarsela, a fare conto sulle proprie forze e sulle proprie risorse. Questa potrebbe essere l'occasione per recuperare un maggiore senso di responsabilità nell'andare in montagna. L'assistenza immediata non deve essere così scontata: è un lusso, ma sta anche diventando un grosso problema. A proposito del restare in casa, come è andata, e come sta andando, la sua "reclusione"? Personalmente ho sperimentato un bel po' di cose positive. Devo dire che le belle scoperte sono più delle rinunce. È stata ed è l'occasione per ragionare su cosa sia davvero importante per te. Non sto parlando di grandi temi, intendiamoci: sto parlando di come passi le tue giornate, di come arrivi a sera. Uscire mille volte al giorno, sempre pieni di impegni, sempre di corsa a riempire un vuoto che ci spaventa... forse abbiamo capito che così non va bene. Ho ragionato molto su questa frenesia. Ho pensato che è ora di stare attenti, di avere cura di se stessi, di non ammalarsi, di vivere con uno stile più sobrio e sano. Devi farlo, ho pensato, adesso che puoi permettertelo. All'inizio della pandemia, lei aveva detto di essere rimasto colpito dalla fragilità di persone che non sembrano in grado di affrontare la necessità di fermarsi, e rimanere, in un luogo, anche se quel luogo è la propria casa. È vero, ma quella sulla fragilità è una riflessione di qualche tempo fa. All'inizio tutti erano più paurosi di adesso. Dopo due mesi, mi pare che tutti abbiamo rivisto la propria scala di valori. È come se adesso non si avvertisse più quell'urgenza di superare l'impedimento che ci siamo trovati davanti. Questo, almeno, è quello che percepisco nella mia cerchia di amici e conoscenti. Avverte una differenza, tra città e campagna, nell'affrontare le restrizioni imposte dalla pandemia? Ho un amico montanaro che gestisce un B&B, e che ogni tanto mi dice: andrà a finire che lascio il B&B alle banche e torno a coltivare patate. Ecco, il montanaro sente che, in un modo o nell'altro, se la caverà. Sente di avere le risorse per farlo. Forse in città questa cosa manca. O forse, chissà, esiste un equivalente urbano. Lei da anni si divide tra città e montagna. Come è cambiato il suo rapporto con quest'ultima? Il mio modo di stare in montagna è cambiato, sta cambiando. Sta assumendo un significato più profondo. Brusson non è più solo un "buen retiro". Lo è stato per anni, ma adesso non è più così. Adesso è il luogo dove vedo il mio futuro, anche professionale: sto aprendo un posto, un ostello della gioventù, che sarà anche un luogo di produzione culturale, sulla scia del Festival ("Il richiamo della foresta", ndr). Direi che ho scelto il momento giusto...