BALENE NELLE LANGHE! Un tuffo nel preistorico mare piemontese BUFFALO BILL Quando indiani e cowboys conquistarono Torino BRUNO GAMBAROTTA Lo scrittore astigiano racconta la sua vita dall’infanzia agli uffici RAI FRED BUSCAGLIONE La vita in musica di un “gangster” piemontese MICHELE CORINO Il musicista delle Langhe che fece ballare l’America LUDWIG VAN BEETHOVEN Il genio di Bonn snobbato dai piemontesi
Carolina Invernizio Emilia Mariani Luisa Viriglio Elena König Scavini Lydia e Letizia Quaranta Paola Levi-Montalcini Bianca Guidetti Serra Lia Varesio
FUMNE! Otto storie di grandi donne piemontesi
La strage impunita Torino 1864 Torino, settembre 1864. A fronte di una manifestazione di piazza conseguente all’annunciato trasferimento, da Torino a Firenze, della capitale del Regno d’Italia, la polizia spara sui dimostranti. Il bilancio è tragico: 55 morti e almeno 133 feriti. Valerio Monti nel suo saggio “La strage impunita. Torino 1864”, ripercorre i tragici avvenimenti che insanguinarono la città ponendo a confronto l’inchiesta municipale, quella parlamentare e l’opinione espressa dai giornali dell’epoca. Un episodio drammatico della storia del Piemonte raccontato da un punto di vista quanto mai attuale, il ruolo dell’informazione in tempo di crisi.
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Sommario 2 Editoriale Fumne!
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Il mondo oscuro di Carolina Invernizio La regina del romanzo d’appendice // Felice Pozzo
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La suffragetta Emilia Mariani
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Le signore delle stelle
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Elena König Scavini, nei panni di una bambola
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Le sorelle Quaranta
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BALENE NELLE LANGHE! Un tuffo nel preistorico mare piemontese BUFFALO BILL Quando indiani e cowboys conquistarono Torino BRUNO GAMBAROTTA Lo scrittore astigiano racconta la sua vita dall’infanzia agli uffici RAI FRED BUSCAGLIONE La vita in musica di un “gangster” piemontese MICHELE CORINO Il musicista delle Langhe che fece ballare l’America LUDWIG VAN BEETHOVEN Il genio di Bonn snobbato dai piemontesi
Carolina Invernizio Emilia Mariani Luisa Viriglio Elena König Scavini Lydia e Letizia Quaranta Paola Levi-Montalcini Bianca Guidetti Serra Lia Varesio
FUMNE! Otto storie di grandi donne piemontesi
Una vita al servizio di un’idea // Manuela Vetrano
Le prime astronome dell’Osservatorio di Torino // Gabriella Bernardi
Così nacque la leggendaria Lenci di Torino // Manuela Vetrano
Protagoniste silenziose del cinema italiano // Manuela Vetrano
L’universo inquieto di Paola Levi-Montalcini Negli infiniti spazi della fantasia di un’artista // Manuela Vetrano
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Bianca Guidetti Serra, penalista e partigiana
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Dalla parte degli ultimi
Dall'amicizia con Primo Levi alla lotta per i diritti delle donne // Fulvio Gatti
Lia Varesio // Lidia Brero Eandi
52 Dissiunari
Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato
Altre storie
DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi ILLUSTRAZIONI Ginger Berry Design PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN) EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it
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Avvistate le balene al largo delle Langhe!
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Quando Torino impazzì per Buffalo Bill
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Bruno Gambarotta si racconta Dall’infanzia ad Asti agli uffici RAI // Andrea Raimondi
Disponibile anche online al seguente indirizzo: www.rivistasavej.it
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Nella Torino swing di Fred Buscaglione
Seguici su:
Un tuffo nel preistorico mare piemontese // Valentina Cabiale
ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it
Indiani e cowboys alla conquista della Crocetta // Felice Pozzo
La vita veloce di un “gangster” piemontese // Fabio Dalmasso
FondazioneEnricoEandi
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Michele Corino, una fisarmonica impazzita
fEnricoEandi
Il musicista delle Langhe che fece ballare l’America // Beppe Turletti
fondazioneenricoeandi
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Come il Piemonte scoprì Beethoven
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Un giro in libreria // Roberto Coaloa
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Le nostre firme
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Fondazione Enrico Eandi
La “Nona” venne suonata a Torino solo a fine Ottocento // Roberto Coaloa
ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2020 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati. 1
Questa volta parliamo di donne È vero, non si fa altro che parlare di donne. Ne parliamo però non a proposito di amori, matrimoni, divorzi e pettegolezzi vari di cui abbondano alcune pubblicazioni, ma per capire quanta strada rimanga da percorrere e quanta ne sia già stata percorsa nell’Ottocento e soprattutto nel Novecento verso la loro autonomia ed emancipazione. Tutto questo attraverso una serie di lotte tenaci per contrastare pregiudizi, prevaricazioni e violenze del maschilismo imperante. Che ancora non è stato vinto. Certo, sia pure in modo limitato si sono aperte alle donne spazi, carriere e ruoli. Ma la loro inclusione nella vita sociale comporta un’enorme responsabilità: quella di renderla migliore. Le nostre “otto storie di grandi donne piemontesi” mettono in luce i primi importanti passi che sono stati mossi in questa direzione. Ecco Bianca Guidetti Serra, avvocato in un’epoca in cui fino a pochi anni prima era preclusa alle donne tale carriera, che dedica con passione le sue competenze giuridiche proprio alla lotta per i loro diritti. Idealmente ha raccolto il testimone dalla suffragetta torinese Emilia Mariani, insegnante, giornalista e coetanea di Emily Pankhurst. Come Emily anche lei sostiene nelle sue accese conferenze che il diritto al voto è il primo obiettivo da perseguire se le donne vogliono ottenere credibilità e autonomia. Una donna che ha sicuramente reso migliore il suo angolo di mondo è Lia Varesio. Con una fede incrollabile in Dio e nell'uomo e con una forza progettuale di riscatto che non ha mai conosciuto soste, è riuscita a dare visibilità e dignità ad una fascia sociale ignorata dalle istituzioni: quella dei barboni, degli homeless, senza casa, senza voce, gli ultimi degli ultimi. Le donne non hanno paura di agire e di darsi da fare. Soprattutto per gli altri. Oltre le responsabilità familiari hanno anche quelle del loro lavoro, ma il lavoro non le spaventa se in questo riescono a trasfondere intelligenza e talento. Non si tratta di mettersi in competizione con gli uomini, ma di riconoscere alle donne doti e prerogative. Perché le donne possono effettivamente rendere migliore la società. Buona lettura. L.B.E.
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FUMNE DONNE CONTROCORRENTE DEL PIEMONTE DI IERI E DI OGGI
LUISA VIRIGLIO e le altre Le prime astronome dell’Osservatorio di Torino
BIANCA GUIDETTI SERRA Partigiana e avvocato dei diritti
EMILIA MARIANI Una vita per l’emancipazione delle donne
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PAOLA LEVI-MONTALCINI Artista degli spazi infiniti
LIA VARESIO CAROLINA INVERNIZIO
Voce degli ultimi
LE SORELLE QUARANTA
La regina del romanzo d’appendice
Dive del cinema muto italiano
ELENA KÖNIG SCAVINI Creatrice delle leggendarie bambole Lenci
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FUMNE!
LA SUFFRAGETTA EMILIA MARIANI Una vita al servizio di un’idea di Manuela Vetrano
Green, white, violet. Verde, bianco, viola. Erano questi i colori delle coccarde e delle fasce indossate sui cappellini e sui soprabiti dalle donne inglesi che a inizio Novecento manifestavano per ottenere il diritto di voto. Qualcuno le aveva soprannominate “suffragette” (da suffragio, voto), non senza una punta di ironia. La loro leader era l’irriducibile Emmeline Pankhurst, fondatrice della Women’s Social and Political Union. Dal 1903 l’organizzazione si batté per il raggiungimento del suffragio universale, con metodi più o meno ortodossi, tali da sfociare talvolta in veri e propri attentati. Si dice che il tricolore sbandierato dalle militanti, e da coloro che appoggiavano il movimento suffragista, costituisse una sorta di messaggio in codice. Al di là dei significati simbolici legati ai colori, le iniziali delle parole Green White Violet dovevano rimandare a quelle di un motto della WSPU: Give Women Vote. Date il voto alle donne. Le suffragette inglesi raggiunsero il loro scopo nel 1918, anche se fu effettivamente nel 1928 che tutte le donne del Regno Unito, senza distinzione alcuna, poterono recarsi alle urne.
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La questione femminile nel Bel Paese In Italia le donne poterono votare per la prima volta solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1946. Scrisse in merito il giornalista lombardo Mario Borsa: A differenza della lotta memorabile delle suffragette inglesi, le donne italiane il voto se lo sono visto offrire senza aver fatto nulla o ben poco per ottenerlo. Tutto ciò che è dato e non è chiesto, non voluto energicamente e imposto dopo una lunga lotta, non ha valore. È vero che le donne italiane non bruciarono case per ottenere il diritto al voto, ma davvero restarono con le mani in mano? Negli anni Quaranta del secolo scorso parte dell’opinione pubblica, quella che si ritrovava in ciò che Borsa affermava, aveva forse dimenticato che era dalla seconda metà del XIX secolo che Una donna vota nel 1946 (© Archivio Corriere della Sera). le donne italiane si prodigavano per il suffragio universale. Senza dubbio la torinese Emilia Mariani avrebbe avuto qualIl matrimonio non doveva essere il rifugio della donna senza alcosa da dire al riguardo. Lei dedicò la vita a propugnare gli ideali di ternative, bensì una scelta voluta. Soltanto in questo modo non saemancipazione femminile, dispiegando tutte le sue forze in questa rebbe diventato una trappola. missione e sfruttando con abilità il suo ruolo di educatrice e autrice. Emilia Mariani è stata se non la più rumorosa certo la più sincera e fervida tra le suffragiste italiane e lo è stata fin dal tempo in cui parlare di suffragio femminile in Italia era qualcosa come dissertare sulla costituzione politica da elargire agli abitanti di Marte. (Steno F., “Emilia Mariani”, in “Il Secolo XIX “, 1 marzo 1917)
Spirito libero Pressoché coetanea della Pankhurst, che aveva quattro anni in meno, Emilia Mariani nacque a Torino il 23 marzo 1854 in una famiglia della piccola borghesia. I genitori Gerardo e Rosa Marchisio sognavano per lei un avvenire come concertista e maestra di pianoforte ma, come spesso accade, le loro aspirazioni non combaciavano con quelle della figlia. Emilia era uno spirito libero, credeva fermamente nel libero arbitrio e voleva costruire da sola il suo futuro. Di nascosto dai genitori, conseguì il diploma magistrale. La carriera di maestra, iniziata nel 1879 e proseguita fino alla morte nonostante i mille impegni, le permise di raggiungere gli obiettivi che si era prefissata. Per lei era fondamentale l’indipendenza economica data dal lavoro, che evitava alla donna di essere “passiva, incompleta, bisognosa di protezione, niente capace per sé e da sé” e che le permetteva di essere veramente autonoma sia a livello materiale che psicologico. Non di secondaria importanza era il raggiungimento di un buon livello culturale, che la Mariani considerava uno strumento indispensabile per contribuire fattivamente alla costruzione di una coscienza femminile, nonché al miglioramento della nuova società che si era creata in seguito all’Unità d’Italia. Alle nozze non pensava neanche lontanamente, anzi era una grande sostenitrice del divorzio. Riporta la storica Silvia Inaudi: Riteneva l’istituzione matrimoniale, in quanto indissolubile, il legame del padrone con lo schiavo e non l’unione libera di due affinità.
Raccontare per riflettere Subito dopo aver cominciato con il lavoro di maestra, nei primi anni Ottanta dell’Ottocento Emilia Mariani avviò la sua carriera di scrittrice e giornalista. Un’attività letteraria che non è esagerato definire forsennata. I portici di Torino, il primo racconto seguito da altri dedicati anche all’infanzia, fu pubblicato sulla Gazzetta Letteraria. Fu traduttrice di svariati articoli e manifesti del femminismo estero, soprattutto francese e inglese. Nel 1884 iniziò a collaborare in qualità di corrispondente da Torino con La Donna, la prima rivista femminista italiana, inviando articoli riguardanti le iniziative delle associazioni femminili cittadine, ma soprattutto scrivendo dei problemi relativi all’istruzione e al lavoro delle donne e dei bambini. Scrisse per numerose testate: Cordelia, Mamma, Per la donna, Missione delle donne, Italia femminile, Vita femminile. Di queste ultime due fu anche direttrice. Inoltre, dal 1891 al 1894 diresse Flora letteraria, periodico rivolto alle insegnanti, e nel 1905 fondò per le operaie il quindicinale Cronache femminili, che ebbe però vita brevissima, dieci numeri soltanto. Nel 1896 entrò a far parte della redazione di Per l’idea. Periodico di letteratura socialista, dove conobbe importanti firme come Edmondo De Amicis, con cui intessé un buon rapporto di amicizia. La Mariani prediligeva per i suoi scritti soprattutto la forma letteraria del racconto, che riteneva più adatta a trasmettere gli ideali della causa femminista. I suoi articoli non avevano finalità sovversive, piuttosto erano finalizzati a scuotere i lettori inducendoli alla riflessione. Tuttavia, uno di questi racconti, Come finiscono, le costò la sospensione dall’insegnamento, in quanto le autorità ritennero che il modo in cui era stato descritto il datore di lavoro “istigasse all’odio tra le classi sociali”.
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FUMNE!
LE SIGNORE DELLE STELLE Le prime astronome dell’Osservatorio di Torino di Gabriella Bernardi
La Facoltà di matematica di Torino è frequentata da non poche signorine, alcune delle quali hanno veramente attitudine per quegli studi severi. Se poi il posto di assistente alle cattedre del primo biennio si desse per concorso, facilmente questo sarebbe vinto da una delle Dottoresse ora dette. Ora, sarebbe prudente mettere come assistente di cattedra, per esempio di Geometria descrittiva e corrispondente disegno, una giovinetta in mezzo a 180 studenti?
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Queste parole di perplessità giungono da padre Giovanni Boccardi, un lontano direttore dell’Osservatorio Astronomico di Torino o, come si chiamava allora, del Regio Osservatorio. Ne Il nuovo Regolamento pel personale degli Osservatori Astronomici Boccardi analizzava l’ipotesi, non troppo remota, di una giovane assistente impegnata in una lezione presso l’Università e, ironia della sorte, sarà proprio lui il direttore che consentirà l’ingresso ufficiale delle prime astronome a Torino. Per comprendere meglio la loro partecipazione nel mondo scientifico non si deve ignorare il particolare contesto storico nel quale è avvenuto il loro ingresso e nemmeno scordare la nascita e i vari spostamenti dell’Istituto di ricerca scientifica in questione, ormai posizionato sulla collina di Torino da più di un secolo.
Padre Giovanni Boccardi in posa tra la strumentazione osservativa e di misura del tempo nell’Osservatorio Astronomico di Torino (© Gabriella Bernardi).
Dai tetti di via Po La storia dell’Osservatorio Astronomico torinese inizia almeno un secolo prima, nel 1759 sui tetti di via Po al numero 1, ad opera di un altro padre, Giovanni Battista Beccaria. Dall’abitazione dell’eclettico abate, o meglio dalla torretta originaria ormai non più visibile, si susseguirono diversi cambi di sede e di denominazione che portarono l’originario Osservatorio prima al Collegio dei Nobili, nel 1790 sede della Regia Accademia delle Scienze e oggi del Museo Egizio, per finire nel 1822 sui tetti di Palazzo Madama sotto il controllo dell’Università sabauda. Tutti questi trasferimenti non erano solo dovuti ai cambi istituzionali, dalla Regia Accademia delle Scienze al Regio Osservatorio dell’Università di Torino, ma anche a questioni tecniche; l’aumento graduale dell’illuminazione cittadina, infatti, disturbava sempre di più le osservazioni notturne. Nonostante la scelta di una delle quattro torri di Palazzo Madama, come si può ancora vedere dalle stampe o foto dell’epoca, ci vollero quattro
anni di ricerca per individuare una sede alternativa, non troppo distante dalla città, ma al riparo dal crescente inquinamento luminoso, realizzando da zero nuove costruzioni. Una volta individuato il sito (per farlo occorse utilizzare lo spazio fornito dal giardino dell’Hotel Grande Albergo di Superga, utile per posizionare la strumentazione e testare il cielo notturno della collina) nel 1913 avvenne il trasferimento a Pino Torinese, dopo che in località “Bric Torre Rotonda” si era completata la costruzione di due palazzine per i laboratori meccanici, la biblioteca, gli uffici e l’alloggiamento del personale residente. Ma già dal 1904 erano iniziati i primi impieghi di astronome.
Giovani “calcolatrici” Grazie all’analisi degli Annuari dell’Osservatorio e dell’Università di Torino, ma anche dei libri paga, si è potuto ricostruire l’identità e le carriere, seppur molto brevi, di queste prime scienziate del secolo scorso. Se si vuole applicare il principio di serendipità, ovvero quello di cer17
FUMNE!
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LE SORELLE QUARANTA
Protagoniste silenziose del cinema italiano di Manuela Vetrano Erano le 20.30 del 7 novembre 1896, quando un gruppo di persone selezionate si riunì sotto i portici di via Po 33 per entrare nell’antica chiesa dell’ex Ospizio di Carità. Erano state invitate ad assistere alla conferenza scientifico-didattica sulla cronografia fotografica, tenuta dal professore Louvet-Gay. È probabile che la curiosità dei partecipanti non fosse tanto rivolta alla conferenza, che si prospettava assai prolissa, bensì alle proiezioni sperimentali di fotografia animata che l’avrebbero seguita. La sala in cui gli astanti presero posto era buia, ma fu rischiarata da una dozzina di lampade elettriche. Nella parete di fondo, decorata da vasi di sempreverdi, campeggiava in alto un’alta cornice che racchiudeva un trasparente: il quadro delle proiezioni verso cui tendevano gli occhi i numerosi invitati, fra cui il sindaco Felice Rignon e vari consiglieri comunali. (“Gazzetta Piemontese”, 8 novembre 1896) Dopo le spiegazioni del professore, il rappresentante per l’Italia della Société Anonyme des Plaques et Papiers Photographiques A. Lumière et Ses Fils, Vittorio Calcina, attivò un macchinario chiamato cinematografo. Sullo schermo apparvero una ventina di quadri animati, tra cui spiccava L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Lo spettacolo terminò alle 22, tra gli applausi scroscianti del pubblico entusiasta. Quella sera d’autunno il cinema era arrivato a Torino e per la città una nuova e fantastica epoca era alle porte.
Cinematografo del 1896.
La bellezza come passepartout Qualche anno prima della serata all’ex Ospizio di Carità, mentre in Francia i fratelli Auguste e Louis Lumière stavano mettendo a punto il loro magico apparecchio di ripresa e riproduzione della realtà in movimento, a Torino, nella benestante famiglia Quaranta, venivano alla luce tre bambine. Le sorelle Quaranta si sarebbero presto distinte nell’industria cinematografica degli albori. La maggiore, Lydia (o Lidia), nacque il 6 marzo 1891. Il 30 dicembre 1892 fu la volta delle gemelle Letizia (o Laetitia) e Isabella. Insieme ad altri fratelli, erano figlie di Giuseppe Quaranta e Beatrice Rissoglio. Purtroppo, nulla si conosce della formazione delle fanciulle, ma si sa che mossero i primi passi nel mondo dello spettacolo sin da giovanissime, come attrici teatrali nella compagnia del capocomico Dante Testa. Si esibivano con buon successo di pubblico e critica al Teatro Rossini di via Po 24, oggi non più esistente perché distrutto dai bombardamenti nell’agosto 1943. Era l’epoca in cui chi lavorava in teatro spesso e volen-
tieri veniva precettato anche per il cinema che, essendo nato da poco, era carente di figure professionali proprie. Non aveva importanza se gli attori possedevano la voce da cornacchia: il primo film sonoro italiano, La canzone d’amore, sarebbe arrivato nelle sale soltanto nel 1930. Ben più rilevante era la fotogenia e quella non mancava di certo alle sorelle Quaranta. Dal palco del Rossini la “venustà di linee e di forme” di Lydia non passò inosservata e la ragazza fu scritturata dall’Aquila Films (fondata nel 1912) e poi dall’Itala Film, tra le prime case cinematografiche sorte in quell’epoca a Torino. Le sue prime apparizioni sullo schermo risalgono al 1910, nei film L’ignota, I cavalieri della morte, Il barone di Lagarde, Dopo la battaglia, Imperia. La grande cortigiana del secolo XVII.
Tre sorelle sotto i riflettori Presto Lydia fece entrare in questa macchina dei sogni anche Letizia e Isabella, che furono arruolate dall’Itala Film tra il 1912 e il 1913. 29
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L’UNIVERSO INQUIETO DI PAOLA LEVI-MONTALCINI Negli infiniti spazi della fantasia di un’artista di Manuela Vetrano Narra un mito greco che nella città di Sparta vivevano Castore e Polluce, gemelli dai divini natali chiamati Dioscuri. Necessari l’uno all’altro, condividevano qualsiasi impresa. Erano inseparabili nonostante la loro diversità. Polluce possedeva il dono della vita eterna, di cui il gemello era privo. Un giorno Castore morì. Per riavere il fratello, Polluce chiese l’intercessione di Zeus offrendo in pegno la sua immortalità, ormai un peso senza il suo doppio con cui spartirla. Commosso da questa dedizione, il padre degli dei riportò in vita Castore e permise ai gemelli di continuare a vivere insieme per l’eternità.
Due gemelle immortali Da sempre, nell’immaginario collettivo, le coppie di gemelli sono avvolte da un’aura affascinante. Dopo aver condiviso lo spazio del grembo materno, i gemelli vengono alla luce insieme, mentre la maggior parte degli individui è catapultata da sola nel mondo. Non importa se le fattezze e i caratteri sono identici o meno, il legame che unisce questi fratelli è indissolubile e va oltre le contingenze terrene, suscitando un pizzico di invidia in coloro che ne sono esclusi e che non potranno mai comprenderlo del tutto. Un rapporto esclusivo era quello che legava due illustri gemelle di Torino, Rita e Paola Levi-Montalcini. Entrambe rese immortali non da Zeus, bensì dai loro fecondi percorsi lavorativi e personali. Scrisse Rita: Il patto di alleanza concordato sin dai primi anni dell’infanzia e allo stesso tempo il senso d’indipendenza, ci permetteva di essere così unite, ma capaci di attuare la nostra vita secondo le differenti vocazioni.
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Avvistate le BALENE al largo delle LANGHE! Un tuffo nel preistorico mare piemontese di Valentina Cabiale
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arzo del 1959, sulla sommità di una collina prossima alla piazza di Valmontasca (frazione di Vigliano d’Asti). Durante le operazioni di scavo per la posa di una conduttura dell’acquedotto, alcuni operai rinvengono a 70 cm di profondità dei frammenti ossei di grandi dimensioni. Il sindaco, Giovanni Battista Conti, avvisa la Soprintendenza alle Antichità. Il professor Carlo Carducci, allora Soprintendente, insieme ad alcuni esperti dell’Istituto di Paleontologia dell’Università di Torino, effettua i primi sopralluoghi e certifica l’importanza scientifica del ritrovamento: uno scheletro quasi completo di balenottera fossile, lungo circa 8 metri. Le operazioni di recupero durano 26 giorni e lo scheletro viene trasportato al Museo Regionale di Storia Naturale di Torino. Diversi anni dopo furono ritrovate altre parti della stessa balena: gli arti inferiori nel 1961 e 1970, una vertebra nel 2008. Il cetaceo, risalente al Pliocene (5,4—1,8 milioni di anni fa) è morfologicamente analogo all’attuale Balenoptera acutorostrata Lacepede; è conosciuto come Viglianottera, il nome che gli è stato dato attraverso un concorso popolare.
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In Piemonte c’è (c’era) il mare La presenza dei resti sepolti di cetacei (delfini, capodogli, balenottere, balene) risalenti al Pliocene è nota da tempo a chi abita le colline astigiane, ed è memoria di una geografia e di un paesaggio marino perduti, per visualizzare i quali è necessario riassumere la storia del Mediterraneo: in origine era solo una parte del grande oceano della Tetide, esteso tra il continente africano e quello euroasiatico, ma con l’avvicinarsi della masse continentali la comunicazione tra Mediterraneo e Atlantico si è ridotta allo stretto di Gibilterra e il Mediterraneo ha assunto, tra i 6 e i 7 milioni di anni fa, la forma attuale, quasi chiusa. Nel Pliocene il Mediterraneo era già molto simile a oggi. Nel nord della penisola italiana l’unione tra le Alpi e gli Appennini aveva determinato la formazione di un rilievo arcuato che divenne la delimitazione di una grande insenatura del mare, proprio nel luogo dell’attuale Pianura Padana. Il territorio astigiano era allora costituito da una conca di mare poco profondo limitata a meridione dalle colline delle Langhe, a ovest da una fascia poco profonda lungo il golfo cuneese, a nord da un’isola stretta e lunga in corrispondenza del Monferrato settentrionale, a est invece comunicava con il mare padano e con il resto del Mediterraneo. È proprio in questa conca astigiana che, insieme a numerosissimi resti fossili soprattutto di molluschi, si conservano scheletri di balenottere e di delfini. Forse in queste acque basse i mammiferi marini venivano portati già morti dalle correnti, oppure vi si radunavano in occasione delle fasi della riproduzione e alcuni rimanevano intrappolati nelle secche. L’accumulo graduale dei sedimenti ha determinato col tempo il sollevamento dei fondali marini e il ritiro del mare; la definitiva emersione di tutta l’area, con la formazione di un ambiente continentale, è avvenuta tra i 2 e i 3 milioni di anni fa.
Riquadro in prima pagina su “La Stampa”, 19 luglio 1954.
balene vivono solo fuori dagli acquari e anche se oggi sappiamo esattamente come sono fatte — a differenza dei secoli passati quando venivano rappresentate nei modi più fantasiosi — vederne una dal vivo non è un’esperienza che capita a tutti. Nel luglio del 1954, pochi anni prima del ritrovamento della Viglianottera, una balena norvegese rimase esposta in piazza Arbarello a Torino, sotto un tendone da circo, per sei giorni. Si chiamava Goliath e si poteva visitare dentro e fuori. L’aveva acquistata in Norvegia l’impresario teatrale Giuseppe Erba, allora direttore del Teatro Alfieri, fiutando l’affare. La balena, lunga 22 metri e del peso di 68 tonnellate, era stata uccisa al largo di Trondheim, svuotata dai balenieri per ricavarne olio, carne, grasso e riempita di 7.000 litri di formalina per fermarne la decomposizione. Erba la fece trasportare su ferrovia fino al confine italiano e poi a Torino su un autotreno costruito appositamente. Nei giorni dell’esposizione ogni mattina, racconta il critico teatrale Alfonso Cipolla, Erba faceva il giro della balena per raccogliere i vermi fuoriusciti dalla carcassa, e poi li rivendeva ai pescatori come esche. Sotto il sole di luglio la balena iniziò presto a emettere un odore acre, nonostante la formalina e i vasi di gerani che ne arredavano l’interno, e dopo sei giorni l’esposizione fu chiusa.
Goliath è a Torino
L’esposizione al Parco del Valentino
Il Piemonte è senza mare, quindi, da almeno due milioni di anni. Eppure potrebbe essere non del tutto errato sostenere che di quel paesaggio e fauna perduti restano ancora nella memoria inconscia delle tracce, delle possibilità di visione e di empatia, alimentate dalle scoperte paleontologiche dei resti fossili marini, iniziate nel XIX secolo. O forse no, è una favola, non c’è nessun fil rouge che ci lega a quelle balene del passato, nulla che possa far pensare che le balene, in qualche modo, siano un elemento della cultura piemontese, cioè di chi abita e vive le colline che ne conservano e nascondono i resti antichi.
Ma la seconda vita di Goliath, come balena da esposizione, non finisce qui. Viene acquistata da due imprenditori svizzeri che sul finire degli anni Cinquanta le organizzano un tour europeo, affiancandole altre due balene morte e imbalsamate. Nel 1969, al termine di una
La balena è uno degli animali che da sempre più impressionano, spaventano e affascinano gli uomini, e le molte testimonianze nella letteratura (dalla Bibbia a Pinocchio a Moby Dick) ne trasmettono la potenza visiva e la forza simbolica. Le
Pubblicità su “La Stampa”, 23 giugno 1972.
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BRUNO GAMBAROTTA SI RACCONTA di Andrea Raimondi Curiosità, inteso nelle sue due principali accezioni, è forse il termine che meglio sintetizza la personalità e descrive la carriera di Bruno Gambarotta. Basta scorrere le attività svolte — cameraman, attore, conduttore televisivo e radiofonico, romanziere e pure doppiatore — per capire quanto Gambarotta sia “desideroso di conoscere, di sapere, di vedere, di sentire, per istruzione e amore della verità”.
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DALL’INFANZIA AD ASTI AGLI UFFICI DI VIALE MAZZINI Understatement sabaudo Gambarotta è anche un individuo “singolare e fuori dall’ordinario” (e siamo alla seconda accezione): quanti, infatti, possono vantare un’attività lunga e articolata come la sua, e interessi così disparati? Ciononostante, Bruno Gambarotta è solito prendersi gioco della propria mancanza di qualifiche specifiche, divertendosi a cercare il titolo più adatto a sé: da “anziano Rai” a “scrittore artigiano”, fino all’azzeccatissimo, a suo dire, “specialista della piccola borghesia”. Spesso minimizza i successi giocando la carta, tipicamente piemontese, dell’understatement. Ritiene, invece, che soprattutto il caso gli abbia dato una grossa mano, e va bin parej pare essere il motto che lo ha accompagnato tutta la vita. Tuttavia, dietro l’apparente natura remissiva, si nasconde un individuo appassionato, meticoloso in qualunque cosa faccia e attento agli altri. Provate, se ci riuscite, a fargli leggere un vostro scritto, e vedrete con quale cura esprimerà il suo giudizio! Oltre a essere presidente dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza (www.ancr.to.it), Gambarotta è da qualche anno direttore del festival Sentieri e Pensieri di Santa Maria Maggiore (Verbania). Questa lunga intervista — conversazione è nata lo scorso agosto durante una pausa della rassegna vigezzina.
Una famiglia semplice La risposta alla prima domanda (“com’erano i tuoi genitori?”) rivela già molto dell’individuo: “erano persone semplici e le ho amate moltissimo”. Il padre, Mansueto, nacque ad Asti nel 1911. Ultimo di molti fratelli, dopo la quarta elementare riuscì a trovare lavoro presso un tipografo compositore in cambio di una paga modesta. La mamma, Nerina, era invece originaria di Costigliole d’Asti. Anche lei, dopo la quarta, fu mandata a lavorare. Faceva la domestica presso una pettinatrice di Sanremo. Una volta terminati i lavori di casa, le era permesso di scendere in negozio per imparare un nuovo mestiere. Come tutti gli apprendisti, Nerina iniziò a lavare i capelli, poi qualche cliente cominciò a preferirla, fino a quando ebbe la possibilità di aprire un negozio tutto suo ad Asti. Qui si fece aiutare dalla sorella e fu pentenoira per tutta la vita.
Per noi ragazzi, nati diversi anni dopo, vivere in un ambiente simile era puro divertimento: passammo la nostra infanzia lì sotto, a nasconderci e a rincorrerci. Senza sapere che quel quartiere era stata una specie di prigione. Il papà di Bruno trascorse parecchi anni sotto le armi. In questi periodi di assenza, il piccolo Gambarotta passava molto tempo nel negozio della madre. Le donne arrivavano dai paesi vicini per farsi pettinare. La pagavano con conigli, uova, verdure. Trascorrevo tutto il giorno con loro ascoltando i loro racconti: i doppi e tripli tradimenti, le cattiverie e i pettegolezzi. Che meraviglia! Da lì è nata la mia passione per le storie. Alla stessa epoca risale uno dei più vivi ricordi d’infanzia. Un lunedì, Bruno accompagnò la mamma all’ultimo piano del Seminario vescovile di Asti. Qui erano radunati gli ebrei destinati, presumibilmente a loro insaputa, ai campi di prigionia. Ricordo un grande ambiente con un soffitto spiovente. Al centro si trovava una stufa. Dal tubo di questa partivano dei fili alle pareti. Sui fili erano stese lenzuola e coperte che servivano a dare a ciascuna famiglia un minimo di intimità. Sopra la stufa c’era un pentolino contenente acqua messa a bollire. Mia mamma vi era seduta accanto e, a turno, lavava e acconciava i capelli di donne e ragazze. Né mia mamma né tantomeno io sapevamo che quelle persone sarebbero state deportate e con ogni probabilità uccise.
Parlé nen an piemunteis! Nel 1943 i genitori iscrissero il figlio alla Scuola Elementare “Umberto Cagni”. Mi piaceva moltissimo andare a scuola. Mi dava molte gratificazioni e sono sempre andato bene. All’epoca praticamente tutti parlavamo in dialetto, che, come si sa, era vietato dalle autorità fasciste. Allora la maestra ci scoraggiava, esprimendosi, però, in dialetto: “Parlé nen an piemunteis!”
L’infanzia nel quartiere ebraico Bruno è venuto al mondo il 26 maggio 1937, ad Asti, in via Ottolenghi. Allora nessuno ci disse che quello era il ghetto ebraico. Lo seppi anni dopo leggendo un romanzo ambientato nel ghetto astigiano dell’Ottocento.
Cattedrale di Santa Maria Assunta e San Gottardo ad Asti.
Il vantaggio delle case del quartiere ebraico era che erano collegate tra loro da corridoi sotterranei perché gli ebrei, al tempo, non solo dovevano rinchiudersi nel ghetto, ma non potevano uscire di casa dopo una certa ora. Per aggirare il divieto, furono quindi scavati questi tunnel. 69
MICHELE CORINO
UNA FISARMONICA IMPAZZITA Il musicista delle Langhe che fece ballare l’America di Beppe Turletti
Pija ra fisa, Càstu! Così gli dicevano quando ancora ragazzino girava i paesi della Langa; e lui la “fisa” la prendeva e cominciava a correre su e giù per la tastiera e le sue dita sembravano impazzite.
Michele Corino si esibisce con la sua orchestra all’Hotel Fairmont di San Francisco.
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Terra de “La malora” Castu è il nome langhigiano di Castino dove Michele Corino nasce il 27 aprile del 1918, in piena Grande Guerra; un paese dell’Alta Langa, quella dra nissòra, sulle creste collinari che separano la valle Belbo dalla valle Bormida, dove non sono i filari di vigneti nobili a colpire lo sguardo, ma boschi e barranchi in cui regnano il cinghiale e la volpe. Una terra che sente più il vento del marin che quello delle montagne, nota ai lettori di Beppe Fenoglio che nella cascina del Pavaglione in borgata San Bovo, ha ambientato La malora.
Un giovane Michele Corino posa con la falce per tagliare il fieno.
La casa in cui nasce Michele si trova nella borgata San Salvario; una cascina un po’ fuori dal centro, ai piedi di un bricco su cui il ragazzino Michele saliva per guardare i paesi attorno: Bosia, Perletto, Cortemilia, Lequio Berria, Borgomale e il Monviso sullo sfondo.
La musica nel destino Quando nasce Michele il padre Giuseppe, contadino con baffi alla Vittorio Emanuele II, e mamma Vincenza, i lineamenti del viso dolci e i folti capelli, hanno già avuto sei figli: quattro maschi e due femmine. Tra il primogenito Mario — nato nel 1894 e morto in guerra il 3 novembre 1915 — e Michele ci sono 24 anni di differenza, una cosa normale per il mondo contadino di allora. Vincenza alleva i figli ma appena può va nel sud della Francia a fare da balia a quelli dei ricchi, tra cui quelli della Contessa di Beaumont a Nizza. Per Michele sogna il vestito da prete, ma non è quello il suo destino. Come tutti i ragazzi lascia presto la scuola e i giochi e inizia a lavorare a dieci anni andando ad aiutare il cognato Tunin calzolaio a Vesime. Lo stesso anno la sorella Maria, partita assieme ai tanti cuneesi per cercare fortuna negli Stati Uniti, fa ritorno a Castino e gli porta una piccola fisarmonica di due ottave al canto e 12 bassi; con quella comincia a esercitarsi abbandonando in un angolo del prato la falce da fieno e le capre legate a qualche albero. Un piccolo segnale di ribellione al destino che lo vorrebbe legato ad una vita già segnata.
Michele Corino
A lezione! All’inizio del 2012, dopo due colloqui telefonici con Corino, che ho conosciuto tramite una sua amica di Castino, ricevo un plico con fotografie e ritagli di giornali che parlano di lui. Tra le varie immagini ce ne sono due che segnano quel cambiamento: una lo ritrae nel campo dietro casa con la falce per tagliare il fieno, l’altra con la fisarmonica regalatagli dalla sorella. Se nella prima il volto è imbronciato e tiene la falce quasi con rabbia, nella seconda si vedono già gli effetti che i suoni, fino a quel momento imparati, gli hanno trasmesso: un sorriso di soddisfazione e la posa con cui tiene lo strumento tra le mani ne sono la prova. Suonare a orecchio non gli basta e allora inizia a prendere lezioni dal maestro Felice Piano a Santo Stefano Belbo; una bicicletta presa in prestito e giù di corsa in mezzo ai noccioli sulla strada polverosa che scende lungo i luoghi di molte am-
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