Sommario 2
Editoriale
4
Andar per erbe
8
Francesco Peyrolery, un grande maestro di iconografia botanica
14
Cronache del ghiaccio e del mare
20
Melazzo, Cereseto, Castagnole e gli altri
26
L'agronomo Giovanni Vincenzo Virginio
30
Carlo Bertero, il botanico inghiottito dalle onde
34
Quando la botanica diventa arte
38
Salviamo le piante piemontesi!
44
C'era una volta il bosco...
50
L'Orto Botanico, il cuore verde di Torino
57
Le piante di Sandokan
62
Imitassiun
66
La natura con gli occhi di un artista
70
Il museo delle mele eterne
76
Torino Liberty: quando i palazzi fioriscono
Dal sangu ‘d babi alla cua ‘d rat, tra le piante della tradizione contadina // Giacomo Giamello
L'incanto dei suoi disegni, tra realismo e colore // Lidia Brero Eandi
Piante rare ed endemismi alpini, per quanto sopravviveranno ancora? // Giulia Liliana Ferrando
Come la flora ha plasmato alcuni nomi di località piemontesi // Alberto Ghia
Il cuneese che promosse il consumo della patata donandola ai più poveri // Davide Mana
Dal Roero al Pacifico, una vita da Robinson Crusoe // Davide Mana
Luigi e Tecofila Colla, padre e figlia uniti dall'amore per le piante // Manuela Vetrano
Così la Banca del Germoplasma di Chiusa Pesio preserva le specie a rischio // Gabriella Bernardi
Viaggio nella natura selvaggia piemontese (vera e immaginata) // Umberto Ledda
Il luogo che ospita passato, presente e futuro delle piante del mondo // Paolo Patrito
Alla scoperta della flora salgariana, tra vegetali giganti e fiori tossici // Felice Pozzo
Da "La pioggia nel pineto" a "La pieuva ans l'ort" // Lidia Brero Eandi
Lorenzo Dotti: quando il paesaggio prende vita sulla carta // Lorenzo Dotti
Perchè amiamo la collezione di frutti "Francesco Garnier Valletti" di Torino // Gabriella Bernardi
Un itinerario nell'Art Nouveau del capoluogo piemontese // Manuela Vetrano
82
Il paesaggio dipinto, da sfondo a protagonista
88
Dissiunari
92
Un giro in libreria // Roberto Coaloa
94
Le nostre firme e i nostri illustratori
96
Fondazione Enrico Eandi
La natura nelle tele dei pittori piemontesi tra Ottocento e Novecento // Manuela Alotto
Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato
DIRETTORE RESPONSABILE Lidia Brero Eandi REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE Fondazione Enrico Eandi ILLUSTRAZIONI Lorenzo Dotti Alessandra (Cerotto) Parigi PROGETTO GRAFICO Fondazione Enrico Eandi STAMPA L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN) EDITORE Fondazione Enrico Eandi Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it ABBONAMENTI Informazioni e modalità di abbonamento sul sito www.edizionisavej.it Disponibile anche online su: www.rivistasavej.it Seguici su: FondazioneEnricoEandi fEnricoEandi fondazioneenricoeandi ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2021 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati. 1
ANDAR PER ERBE Dal sangu ‘d babi alla cua ‘d rat, una passeggiata tra le piante della tradizione contadina di Giacomo Giamello Una delle ragioni che spinse Carlo Linneo, padre del moderno sistema classificativo degli esseri viventi, a proporre una denominazione scientifica delle varie specie animali e vegetali, fu l’evidenza che addirittura tra i componenti di una stessa famiglia non si trovasse un accordo sul nome di una determinata pianta. A tutt’oggi possiamo notare come anche a livello regionale, un determinato vegetale possa presentare molteplici nomi, infatti questa ricchezza e varietà non è altro che lo specchio della sapienza, della fantasia, delle credenze e delle speranze, in una parola dell’anima stessa, delle nostre comunità. Paesaggio raffigurante tre piante tipiche delle campagne piemontesi: la cresta di gallo, il leucantemo e l'adonide estiva, illustrati da Lorenzo Dotti.
4
Un nome, un insegnamento
Nel calderone delle masche
Oggigiorno la cultura botanica delle persone è per lo più scarsa e considerata di limitata utilità, tuttavia non molti anni fa era indispensabile che già i bambini conoscessero, con nomi semplici e facilmente memorizzabili, i molteplici vegetali con cui giornalmente venivano a contatto. I genitori dovevano insegnare quali erbe fossero pericolose per sé e per i propri animali, quali invece utili per l’alimentazione o il lavoro.
Sin dalla nostra infanzia la letteratura e la cinematografia ci hanno presentato streghe e stregoni con le loro inseparabili pozioni, ricche di curiosi ingredienti e volendo, grazie alla botanica popolare, li possiamo facilmente decifrare. Ecco alcuni esempi:
Un esempio è il colchico autunnale (Colchicum autumnale), pianta velenosissima, molto simile allo zafferano, che in piemontese si nomina freidulin-a o sfërgiurin-a, fiore dei primi freddi dal quale tutti i bambini venivano messi in guardia. In genere però, le piante velenose erano associate ad entità o esseri ritenuti in qualche modo pericolosi o temibili, ne sono esempio lo stramonio (Datura stramonium), potente allucinogeno, denominato erba dër magu (erba del mago) o l’aconito (Aconitum napellus), il veleno per eccellenza, descritto come l’erba du luv (erba del lupo). Troviamo anche documentato il termine di strossa luv, poiché pare venisse usato per avvelenare lupi e volpi. I Celti gli attribuivano la facoltà di rendere invisibili. Meno noto, ma altrettanto velenoso, è il gigaro chiaro (Arum italicum), conosciuto popolarmente come il pan dër bisse (pane delle bisce): si pensava addirittura che fornisse il veleno ai serpenti che se ne nutrivano.
[…] quando nello stesso territorio ci sono tanti e diversi nomi per le stesse piante, accade che nello stesso villaggio o nella stessa famiglia, gli abitanti siano spesso in contrasto tra loro circa i nomi delle stesse piante. è [quindi] chiaro a tutti quanto sia difficile raccogliere i nomi popolari delle piante Carlo Linneo
• il lacc o lat ëd sërpent (latte di serpente) non è altro che l’euforbia cipressina (Euphorbia cyparissias), che altri consideravano addirittura l’erba dër diau (erba del diavolo); • il sangu ‘d babi (sangue di rospo) è il corniolo sanguinello (Cornus sanguinea), i cui frutti sono ricchi di vitamina C; • l’urija ‘d rat (orecchie di topo) è il cerastio dei prati (Cerastium), comune nei nostri prati; • la sarata ‘d soma (insalata di asina) è il grespino comune (Sonchus oleraceus), i cui fiori gialli sono molto apprezzati dalle api; • la chësta ed gal è la cresta di gallo comune (Rhinanthus alectorolophus), che per i greci era invece il “fiore con il naso”; • i cavej d’angel (capelli d’angelo) sono la cuscuta (Cuscuta campestris), pianta parassita per eccellenza; • i paj o pej ‘d luv (peli di lupo) sono la festuca (Festuca pratensis), usata come foraggio per gli animali; • i paj o pej ‘d babi (peli di rospo) sono il giunco annuale (Juncus bufonius), pianta comune in ambienti umidi; • la merda ‘d ran-e (merda di rane) è la lenticchia d’acqua (Lemna minor), piccola pianta galleggiante, presente in molti canali e fossati; • l’euv ëd beu (uovo di bue) è il leucantemo volgare (Leucanthemum vulgare), capace di curare le ferite e regolare il flusso mestruale; • l’euj dër diau (occhio del diavolo) è l’adonide estiva (Adonis aestivalis), pianta le cui radici tossiche possono causare sintomi cardiaci e gastro-intestinali; • la lengua ‘d gat (lingua di gatto) è lo sparviere pelosetto (Hieracium pilosella), con proprietà diuretiche e colagoghe; • il dent ëd leùn è il dente di leone comune (Leontodon hispidus), le cui radici torrefatte possono essere usate come succedaneo del caffè; • la cua ‘d rat è il licopodio (Lycopodium), le cui ramificazioni pelose del fusto ricordavano ai greci il piede di un lupo (lýcos, lupo e pódion, piedino), mentre ai piemontesi la coda di un topo o i pantaloni dell’orso (braje dl’urs). Le spore di questo vegetale venivano raccolte in grande quantità e costituivano la “polvere di licopodio”, sostanza altamente infiammabile e usata in passato per la realizzazione di contenute esplosioni e piccoli fuochi d’artificio gialli; • i pej ‘d galin-a sono i fiori della fumaria (Fumaria officinalis), pianta velenosa usata un tempo per applicazioni topiche in caso di psoriasi; • la lengua ‘d can è la cinoglossa (Cynoglossum officinale) o erba vellutina, pianta biennale dall’odore nauseabondo le cui foglie hanno appunto un aspetto vellutato. 5
FRANCESCO PEYROLERY UN GRANDE MAESTRO DI ICONOGRAFIA BOTANICA L'incanto dei suoi disegni, tra realismo e colore di Lidia Brero Eandi
Helleborus niger flore roseo, Francesco Peyrolery.
8
Un lascito medievale Gli Orti Botanici delle nostre città, dove qualche volta abbiamo passeggiato curiosando tra quelle strane scritte in latino, hanno un’origine lontana nel tempo. È vero che qualche notizia ci giunge anche dall’antichità classica e perfino orientale, ma di sicuro i nostri Orti Botanici rappresentano un’evoluzione delle coltivazioni di erbe aromatiche e medicinali tipiche degli Horti sanitatis dei monasteri medievali, dove i frati erboristi coltivavano e studiavano le proprietà delle diverse specie, creavano pozioni e ne sperimentavano nuove. Simili ai giardini monastici medievali sono gli Horti simplicium, Orti dei Semplici, dove nel tardo Rinascimento si coltivavano in spazi delimitati le specie utili a fini curativi. Si trattava di veri laboratori a cielo aperto per l’insegnamento delle scienze mediche: le piante erano studiate dal vivo da medici e speziali che imparavano a riconoscere ed utilizzare le erbe essenziali per la pratica terapeutica. È suggestiva e un po’ strana l’espressione "Orto dei Semplici". I Semplici sono i singoli componenti dei medicamenti, quelli ottenuti da una sola pianta; Compositi sono i medicamenti realizzati con la combinazione di più piante officinali. Nei tempi successivi e in particolare durante il Settecento il legame tra Orti Botanici e Orti dei Semplici è sempre molto saldo tanto che la Botanica diventa scienza autonoma negli Stati Sabaudi, come già lo stava diventando in tutta Europa.
L'eccellenza torinese Sono gli anni in cui il medico botanico e naturalista svedese Carlo Linneo, il padre della sistematica moderna, fissa anche le regole per la determinazione, la classificazione e la denominazione dei vegetali. E sono gli anni in cui, per volontà di Vittorio Amedeo II, viene fondato l’Orto Botanico di Torino come supporto alla nuova cattedra di Bottanica connessa con l’insegnamento della Materia Medica. Siamo nel 1729. Come titolari della cattedra di Botanica e direttori dell’Orto Botanico torinese si succedono importanti medici-scienziati come Bartolomeo Caccia, Vitaliano Donati, morto in mare durante una spedizione scientifica e Carlo Allioni, il più eminente studioso piemontese di scienze botaniche del Settecento. È in corrispondenza con numerosi scienziati italiani e stranieri, tra cui Carlo Linneo di cui adotta tra i primi la nomenclatura binomia, ancora considerata con sospetto da molti studiosi. La precedente nomenclatura polinomia dei testi scientifici identificava le singole piante con una frase latina più o meno lunga; quella binomia, sempre rigorosamente latina, è composta soltanto dal nome del genere e da quello della specie della pianta, quindi la dicitura risulta più semplice e chiara. Anche questa scelta, al di là dei meriti di Allioni, contribuì ad inserire l’Orto torinese tra le istituzioni scientifiche più all’avanguardia in Europa. Un aiuto fondamentale per il medico che ricopre la cattedra di Botanica ed è nel contempo anche sovraintendente dell’Orto Botanico deriva non solo dalla catalogazione delle varie specie coltivate ma anche dalla documentazione grafica delle medesime. Allioni ebbe la fortuna di
Malva rosea folio subrotundo flore simplici, Francesco Peyrolery.
avere come collaboratore il pittore botanico Francesco Peyrolery. La loro collaborazione scientifica fu molto proficua e giovò ad entrambi.
L'arte unita alla scienza Di Peyrolery per la verità sappiamo poco se non che aveva un indubbio talento. Originario di Viù, nella valle di Lanzo, la sua nascita viene collocata presumibilmente intorno al 1710. Verso i vent’anni trova impiego come garzone ovvero aiutante erborista presso l’Orto Botanico di Torino. Le sue mansioni sono quelle di affiancare il maestro erbolaio nei lavori, giungere a possedere una buona conoscenza dei Semplici e
9
MELAZZO, CERESETO, CASTAGNOLE E GLI ALTRI Come la flora ha plasmato alcuni nomi di località piemontesi donandoci un racconto dal passato di Alberto Ghia
La vegetazione offre plurimi spunti per la creazione di toponimi: essa infatti è un elemento piuttosto stabile del paesaggio e quindi si presta bene a suggerire quegli elementi caratterizzanti che si cercano nel momento in cui si dà per la prima volta il nome a un luogo. Ricordando poi che molte specie vegetali sono sfruttate per le loro proprietà — hanno principi attivi medicamentosi, producono frutti commestibili, trovano impiego nell’artigianato — ecco che un nome di luogo che richiama una pianta, oltre a descrivere il luogo nominato, svolge anche un’altra funzione: fornisce informazioni sulle risorse principali di un certo territorio. Non va dimenticato che il toponimo è una fotografia dello spazio denominato nel momento in cui il nome si è imposto — e non dell’ambiente attuale. Ciò consente, con la dovuta cautela, di usare i fitotoponimi (questo il nome tecnico dei nomi di luogo derivati da nomi di piante) anche per studiare come è cambiato il paesaggio vegetale del nostro territorio.
20
Un repertorio non così ampio Si potrebbe pensare a un repertorio di fitotoponimi molto vasto; tuttavia, Alda Rossebastiano, professoressa emerita dell’Università di Torino, qualche anno fa ha calcolato che solo il 7,05% dei toponimi comunali del Piemonte era collegato a nomi di piante, una percentuale piuttosto modesta, che cresce di poco se si aggiungono quei nomi che richiamano in modo meno preciso la vegetazione (bosco, prato, ecc.). Se però scendiamo di scala, e dai “macrotoponimi” passiamo ai “microtoponimi” (usiamo le virgolette perché si tratta di una ripartizione di comodo; un nome è sempre un nome, dal punto di vista linguistico, l’estensione dello spazio denominato non conta) ne troviamo un numero ben più cospicuo. È ora di vedere assieme alcuni nomi; ci concentreremo qui sui fitotoponimi connessi con i nomi di piante e a quelli che richiamano il concetto di bosco. Ovviamente non di soli alberi e boschi è ricca la toponomastica: anche altre formazioni vegetali, curate e non, come i prati, gli orti e i gerbidi fanno parte della categoria dei fitotoponimi. Allo stesso modo i nomi di luogo possono richiamare anche direttamente nomi di specie vegetali minori, come arbusti, erbe e fiori, per ragioni simili a quelle illustrate per i nomi di piante.
Piante da frutto La presenza di un impiantamento di una specie arborea lascia tracce significative nel paesaggio, spesso registrate a livello toponimico. Diversi toponimi conservano, al loro interno, la denominazione di una pianta che produce frutti eduli: eccone una breve rassegna. Rimandano al melo Melazzo (AL) e, attraverso la denominazione piemontese (e occitana), pum o pumé (che può indicare anche, più in generale, ‘frutteto’) Pomaretto (TO); Pomaro Monferrato (AL); Pomarolo, gruppo di case nel comune di Boccioleto (VC); Pometto, frazione di Guarene (CN) e Pian Pomè, borgata di Valgioie (TO). Rimandano al ciliegio (ciresa) Cereseto, comune della provincia di Alessandria e frazione di San Donato Vercellese (VC); Ceresetta, borgata del comune di Sparone (TO) e Ceresole, primo elemento di due toponimi comunali (in provincia di Torino e Cuneo) e una piccola borgata di Prelle (TO); l’elemento è presente anche in Trucca Ceresole, un rilievo (piemontese trüc ‘altura’) nel comune di Frabosa Sottana (CN) e Valle Ceresole, nel comune di Limone Piemonte (CN). Alla presenza di noci (nus) rimandano Nucetto (CN); Nocetto nome ( di località di Cassine (AL), Priero (CN) e San Salvatore Monferrato (AL); Nosè, borgata di Sparone (TO); Nosei, località lungo l’Erro, a Cartosio (AL) e la Val Nosserio a Costigliole d’Asti (AT). Rimandano alla nocciola (ninsulè; linsulè) Allansole e Lenzolè, due località di Locana (TO); dal nome latino della pianta, corylum, derivano invece Colleretto Giacosa (TO) e Colleretto Castel Nuovo (TO).
La civiltà del castagno Il castagno merita un capitolo a sé: per moltissimo tempo questa essenza è stata fondamentale per l’uomo, tanto che qualche studioso ha proposto la definizione di “civiltà del castagno”. I suoi frutti sono commestibili e potevano essere essiccati e conservati,
21
CARLO BERTERO IL BOTANICO INGHIOTTITO DALLE ONDE Dal Roero al Pacifico, una vita da Robinson Crusoe di Davide Mana
Molte persone leggono "botanica" e pensano "giardinaggio": aiuole fiorite, piante in vaso, un'attività che si svolge nel tempo libero, per rilassarsi dopo una giornata stressante. Ma la botanica è una scienza, e una scienza che si pratica sul campo. Richiede un certo spirito d'avventura, e può comportare dei rischi. È possibile quindi appassionarsi alla botanica e per questo vivere una vita avventurosa, talvolta breve, fino a un finale tragico. Proprio come accadde a Carlo Bertero.
30
L'amico Balbis Nato a Santa Vittoria d’Alba nell’ottobre del 1789, Carlo Luigi Giuseppe Bertero studia filosofia prima di iscriversi alla facoltà di Medicina di Torino. Si tratta quasi di una scelta obbligata: la facoltà di Medicina è, nel XVIII secolo, l’anticamera per qualunque serio studio delle scienze naturali. Bertero è appassionato di botanica fin dall’adolescenza e, durante gli anni dell’università, stringe amicizia con il medico e botanico Giovanni Battista Balbis. Fin dal 1808 Bertero si dedica a lunghe escursioni durante le quali raccoglie esemplari di erbe e fiori per la propria collezione. Grazie anche all’aiuto di Balbis, riesce così ad unire i suoi studi alla sua passione e, nel 1811, si laurea con una tesi sulle specie medicinali indigene del Piemonte dal titolo Specimen medicum, nonnullas indigenas stirpes continens exoticis succedaneas (all’epoca le tesi venivano presentate in latino).
se Luigi Colla, un avvocato con la passione della botanica. Nei primi anni dell’Ottocento, Colla ha acquistato una residenza a Rivoli, dove ha creato un vasto orto botanico che descriverà, lungo un arco di oltre vent’anni, nei fascicoli dell'Hortus Ripulensis. La scelta di ritirarsi a Rivoli è anche per Colla una decisione dettata dal mutare del clima politico — per via dei suoi studi legali e per le sue simpatie napoleoniche, Colla è stato infatti commissario nella Repubblica Subalpina, e con la Restaurazione la sua presenza a Torino si è fatta imbarazzante. La botanica, oltre che un'autentica passione, è per l’ex avvocato un interesse molto meno compromettente della politica. Sarà Colla (uno dei futuri fondatori della Reale Mutua) che successivamente darà visibilità all’opera di Bertero e alle sue scoperte.
Nei primi anni dell’Ottocento l’Università di Torino ha affidato a Balbis, nativo di Moretta (Cuneo) e già ufficiale medico in capo delle forze napoleoniche a Pavia, la cattedra di botanica e la direzione dell’Orto Botanico cittadino. Balbis è autore di studi e testi fondamentali per la conoscenza della flora piemontese, come il classico Elenco delle piante crescenti ne' contorni di Torino,, ed è quindi la persona giusta per quel lavoro. L’Orto Botanico versa in stato di grave abbandono ma Balbis, anche grazie ai suoi contatti con le autorità napoleoniche, riuscirà ad ottenere i fondi per restaurarlo, acquisendo centinaia di nuove specie.
Destini comuni L’avventura napoleonica segnerà in effetti sia il destino di Balbis che quello del suo allievo Bertero. Successivamente alla sua laurea in Medicina, Carlo Bertero ha infatti ricevuto l’incarico, dalle autorità napoleoniche piemontesi, di segretario del Jury de Médecine — una carica affine a quella di magistrato con giurisdizione sulle questioni di salute pubblica. Con la caduta di Napoleone e la Restaurazione, nel 1815, Bertero è obbligato a lasciare la propria carica. Invitato successivamente a entrare a far parte del collegio medico dell'Università di Torino, una posizione che gli garantirebbe un certo prestigio e ripristinerebbe il suo status sociale con il governo sabaudo, Carlo Bertero rifiuta, in un gesto di protesta per il destino del proprio mentore: per via dei suoi trascorsi militari e per il suo stretto rapporto con il regime napoleonico, infatti, Balbis è stato radiato dai pubblici uffici e dalle Accademie Scientifiche piemontesi, ritirandosi a vita privata. Nonostante tiepide aperture da parte di Casa Savoia e delle autorità piemontesi, Balbis si auto-esilia perciò a Lione, dove gli vengono affidate la cattedra di botanica e la conduzione delle locali collezioni botaniche.
L'Herbarium Pedemontanum Senza più una posizione ufficiale e deluso dalla fine dell’avventura napoleonica, Bertero si dedica a una serie di escursioni sulle Alpi, esplorando il Moncenisio e i suoi dintorni, e successivamente nel territorio di Alba e nelle Langhe, descrivendo le specie vegetali nell'Herbarium Pedemontanum la cui pubblicazione sarà curata dal torine-
Catopsis berteroniana, il cui epiteto fu assegnato in onore di Carlo Bertero. Sono oltre 300 le piante a lui dedicate, contrassegnate dagli specifici “berteroi” e “berteroanus”.
31
C'ERA UNA VOLTA IL BOSCO... Viaggio nella natura selvaggia piemontese (vera e immaginata) di Umberto Ledda Più di cinquant’anni fa, nei boschi di Garessio, nel cuneese, un giovane artista serrava un tronco altrettanto giovane nella stretta di una mano metallica: negli anni successivi, mentre l’artista diventava meno giovane e più famoso, l’albero ha proseguito la sua crescita senza morirne, ma deformandosi indissolubilmente intorno al metallo. Verosimilmente crescerà ancora (o cresceranno, perché a quel primo albero se ne sono aggiunti altri), inghiottendo la mano metallica, finché del passaggio dell’artista non sarà rimasto granché: una cicatrice, una deformità che lo renderà per sempre diverso dagli alberi che lo circondano. È una storia ambigua, crudele e simbolica: perché il rapporto che abbiamo con i boschi, e con la natura in generale, è più stretto di quanto crediamo. E, spesso, anche di quanto desideriamo.
44
troverai più nei boschi che nei libri. gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà bernardo di Chiaravalle
Una terra di boschi Il Piemonte è una striscia di pianura stretta tra colline e montagne: un anfiteatro di boschi che ha dato forma al carattere di chi vi abitava. E se da una parte, nel Piemonte montano e rurale, i castagneti hanno sfamato le valli per secoli, curati come membri della famiglia, dall’altra lo stesso capoluogo si è ritagliato, caso forse unico tra le grandi città europee, una via di fuga boschiva: la collina. Aperta su tre lati alla civiltà, Torino si appoggia a est sulle selve che cent’anni fa hanno ispirato a Salgari le giungle tropicali: sono boschi inestricabili, in cui agli alberi tipici delle foreste che un tempo ricoprivano l’intera Pianura Padana si affiancano le palme scappate dai giardini e subito rinselvatichite. Bastano pochi passi dalle piazze del centro, superando il cuscinetto verde delle ville, per abbandonare il mondo civile.
soprannaturali, dei lupi e delle masche e del diavolo, dei fantasmi. È in un bosco che il Dante della Commedia finisce quando perde la strada esistenziale, e sempre in un bosco andrà Thoreau per purificarsi da una modernità soffocante: primi segni di un cambiamento di rotta che dalla demonizzazione ha condotto alla moderna idealizzazione della natura.
Ci sono foreste sterminate e antiche come il Gran Bosco di Salbertrand, acquattato in una conca ombrosa della val Susa, al riparo dal caldo e dal vento che batte i versanti: sono i boschi freddi e austeri delle leggende e delle fiabe, ammantati di nebbie che li avvolgono risparmiando le zone circostanti. Ci sono boschi nuovi, nati pochi decenni fa dopo la grande fuga che ha spopolato le valli a favore del benessere delle pianure: sono ariosi e aperti, dominati dalla corteccia bianca delle betulle che per prime hanno ricolonizzato i vecchi pascoli. E ci sono boschi unici, nati dall’incontro del clima montano con quello marittimo: boschi mediterranei sotto le pareti delle alpi. È una ricchezza in termini di biodiversità, certo. Ed è una ricchezza turistica. Ma non solo. È un patrimonio dell’immaginario, perché i boschi sono al centro di una delle poche opposizioni simboliche che si sono mantenute intatte nella nostra mente dai tempi premoderni, e che la modernità non ha dissipato.
Cosa ci aspettiamo da un bosco Un bosco è natura. Che detto così sembra banale, ma lo è meno di quanto non sembri: perché natura è da sempre il contrario di civiltà, nel bene e nel male. Il bosco è per l’uomo europeo una sorta di magazzino simbolico dove si ammassa tutto ciò che non è civile. I latini temevano e diffidavano della natura, faticosamente messa in riga nella loro ordinata e razionale civilizzazione, al punto da sacralizzare le tre piante che trasformano le selve in campi e frutteti: la vite che dà il vino, l’ulivo che dà l’olio, il grano che dà il pane. Tre simboli che finirono in eredità al cattolicesimo e che ancora oggi sono un cardine dei sacramenti, a celebrare la vittoria della cultura sulla natura, dell’ordine civile sul caos selvatico. Nelle fiabe il bosco è il luogo degli incontri
Parco naturale del Gran Bosco di Salbertrand (CC BY-SA 4.0 Milesi Federico)
45
Illustrazione di Alessandra Parigi.
56
LE PIANTE DI SANDOKAN Alla scoperta della flora salgariana, tra vegetali giganti e fiori tossici di Felice Pozzo Le dettagliate descrizioni impiegate da Emilio Salgari nei suoi romanzi di avventura ci forniscono oggi una precisa rappresentazione della lussureggiante natura dei luoghi esotici dove venivano ambientate le sue storie. Ci viene ancor più difficile credere che, nella realtà, Salgari non vide mai quei luoghi. Per sopperire alla mancanza di conoscenze dirette, si concentrò sullo studio di testi scientifici e botanici ricreando ambientazioni uniche con la sola arma della fantasia.
Una macchia di foglie sanguigne Chi volesse, può trovare in rete una scheda, alla voce "mussenda", dove si assegna la data di prima attestazione del vocabolo a Giulio Ferrario, già direttore della Biblioteca di Brera. Il riferimento è alla sua monumentale opera in 21 volumi Il costume antico e moderno (1817—1834) e la data è il 1818. Segue, nel 1896, Emilio Salgari con l'opera I pirati della Malesia. Per la verità occorre precisare alcune cose. Vale a dire non solo il fatto che quel romanzo è stato pubblicato prima a puntate su La Gazzetta di Treviso con altro titolo tra il 1891 e il 1892, così da anticipare di un lustro la data assegnata a Salgari. Ma soprattutto il fatto che la mitica mussenda compare ancora prima in I misteri della Jungla Nera (in volume nel 1895), già apparso a puntate su Il Telefono di Livorno nel 1887: ed è questo l'anno giusto da citare a proposito di Salgari, il 1887, nove anni prima. Chiunque abbia letto all'età giusta I misteri della Jungla Nera, ha ancora impressa nella memoria la misteriosa e fugace apparizione nella giungla di una stupenda fanciulla che darà il via a uno degli indiscussi capolavori di Salgari. È Tremal-Naik, il protagonista, a raccontare turbato: [...] quando a venti passi da me, in mezzo ad una macchia di mussenda dalle foglie sanguigne, apparve una visione, una donna bella, raggiante, superba […] Ella mi guardò, emise un gemito lungo, straziante, poi scomparve al mio sguardo.
La mussenda Intere generazioni di giovani lettori hanno ignorato per il resto della loro vita cosa fosse la mussenda e perché le sue foglie fossero sanguigne, appagati dai vocaboli estrosi, appartenenti a mondi lontani, che
Illustrazione da "I misteri della Jungla Nera". Nessun illustratore di questo romanzo ha saputo evidenziare in modo corretto la macchia della misteriosa mussenda dove si nasconde "La vergine della Pagoda d'Oriente" che appare improvvisamente a Tremal-Naik.
57
LA NATURA CON GLI OCCHI DI UN ARTISTA Lorenzo Dotti: quando il paesaggio prende vita sulla carta di Lorenzo Dotti Il fascino esercitato dalle scienze naturali sull’uomo ha radici antichissime, ma quello della rappresentazione della natura è ancora più antico: è ben documentato e conservato nelle grotte del sud della Francia e della Spagna e rappresenta l’inizio della storia dell’arte. Sono cavalli, mammut, tori e bisonti dipinti con cura a testimoniare il primo catalogo della biodiversità naturale preistorica. Non c’è modo migliore di conoscere una specie naturale che raffigurarla: dovendo riprodurre tutti i dettagli, le posture tipiche, gli atteggiamenti caratteristici di animali e piante, come illustratore naturalista devo conoscere ogni più piccolo particolare per meglio ritrarre il mio soggetto e divulgarlo al grande pubblico con correttezza scientifica. Questa è la missione degli illustratori naturalisti, una missione dalle radici antichissime che prende il nome di iconografia naturalistica. Trifoglio fibrino (Menyanthes trifoliata). Lago di Fontana Fredda, Cesana Torinese. Illustrazione di Lorenzo Dotti.
66
Catalogare e collezionare natura Nel 1554 il farmacista e botanico veronese Francesco Calzolari allestì presso la sua dimora e farmacia, in Piazza delle Erbe a Verona, quello che è considerato il primo museo di storia naturale al mondo. Chiamati Wunderkammer in tedesco, "Camere delle Meraviglie" in italiano, questi luoghi, dove si custodivano collezioni frutto di scambi con altri scienziati e di spedizioni naturalistiche, avevano lo scopo di mostrare le meraviglie naturali e di suscitare lo stupore dei visitatori. Quando mi muovo in natura uso tutti i sensi per raccogliere informazioni e dati: ascolto per riconoscere e catalogare gli uccelli in canto, osservo per catalogare le piante in fiore o i lepidotteri, annuso per catalogare gli odori e i gli aromi naturali perdendomi tra i profumati Ornielli (Fraxinus ornus), tocco le piante per percepirne la superficie come ad esempio la pubescenza delle foglie della Roverella (Quercus pubescens), assaporo il gusto dolce dei frutti del corbezzolo (Arbutus unedo) o quello asprigno dei cinorrodi delle rose selvatiche. Non lo faccio solo per accrescere le mie conoscenze, ma anche per stupirmi ogni volta delle meraviglie naturali, perché la più ricca Wunderkammer è là fuori a portata di tutti e basta imparare a guardarsi intorno con occhi diversi. Con quello stesso spirito e passione che portò Calzolari a compiere vere e proprie spedizioni naturalistiche sul suo amato Monte Baldo per raccogliere e catalogare piante rocce e fossili, ancora oggi mi muovo in natura armato di pennelli e colori per riportare sulla carta con dovizia di particolari frammenti di natura. Gli strumenti che utilizzo per lavorare “en plein air” li ho scelti in modo da non appesantire troppo il carico, muovendomi sovente a piedi e percorrendo a volte lunghi tragitti: nello zaino non possono mancare acquerelli, matite, pennelli, un quaderno di robusta carta acquerellabile, una borraccia con acqua sia per bere che per i colori, un binocolo, una macchina fotografica. E l’avventura può cominciare.
Principi del disegno naturalistico Il fine dell’educazione è la formazione dell’uomo libero e indipendente, che sa guardare coi suoi propri occhi e giudicare col suo proprio cervello. Il disegno è il mezzo più efficace per avviare nel fanciullo la formazione del carattere. Mezzo di educazione morale e scientifica, il disegno deve essere copia dal vero. Un fanciullo che copia una cosa dal vero, non solo la vede, ma la considera, la scopre a sè medesimo, se ne impossessa al punto da saperla rendere. Ordine, chiarezza, precisione e cura dei particolari sono le leggi del disegno, che richiedono una costante disciplina. Queste parole, che sembrano il manifesto del disegno naturalistico, appartengono a Maria Maltoni maestra della scuola elementare di San Gersolè (Impruneta) dal 1920 al 1956. Analisi condivisibile da noi
Campanula toscana (Campanula medium), Casalborgone (TO). Illustrazione di Lorenzo Dotti.
naturartisti e base indispensabile per un corretto approccio tra arte/ natura e sua rappresentazione. Con questo spirito di rigore scientifico Leonhart Fuchs, botanico e medico tedesco, rivoluzionò l’iconografia botanica con la sua opera New Kreuterbuch pubblicata nel 1542. Le illustrazioni qui contenute sono tutte realizzate dal vero con l’apporto dei migliori artisti e incisori del suo tempo, ritratti anch’essi nell’opera a testimoniare l’importanza dell’apparato iconografico. Prima di lui, per secoli manoscritti e trattati di botanica contennero disegni copiati dai testi antichi senza quindi una conoscenza diretta del vegetale da raffigurare.
Opere di ispirazione Sandro Pignatti, eminente botanico italiano, nella prefazione alla prima edizione della sua Flora d’Italia dice: [...] non è esagerato affermare che lo studio della flora secondo un moderno metodo scientifico ha origine proprio in Italia, durante la splendida fioritura culturale dei secoli XV—XVI. Tra i nomi che affollano il lungo elenco di botanici citati da Pignatti (Savonarola, Anguillara, Ghini, Calzolari, Mattioli, Cesalpino, Imperato, Colonna) troviamo anche il bolognese Ulisse Aldrovandi creatore di uno dei primi musei di storia naturale e fondatore nel 1568 dell’Orto Botanico di Bologna, uno dei più antichi al mondo dopo quelli di Pisa fondato nel 1543, Padova e Firenze nel 1545. Le sue imponenti collezioni naturalistiche comprendono diciottomila “diversità di cose naturali”, settemila piante essiccate in 15 volumi e migliaia di illustrazioni a tempera di animali e piante raccolte in 18 volumi. Questi ultimi contengono tavole a colori di piante, fiori, frutta e animali, commissionate da Aldrovandi a partire dalla seconda metà del sedicesimo secolo e costituiscono forse la più ricca pinacoteca tardo-rinascimentale mai realizzata riferita al mondo naturale. La collezione composta da miglia-
67
IL MUSEO DELLE MELE ETERNE Perchè amiamo la collezione di frutti "Francesco Garnier Valletti" di Torino di Gabriella Bernardi
70
Trovai sempre in ogni tempo profusioni di encomi, con buone promesse che non uscirono però mai dalla cerchia di semplici parole e grado a grado si dimenticò il fidente artista. Trascorsero intanto gli anni, e con gli anni più giulivi della vita si consumarono pure le mie sostanze impiegate infruttuosamente nell’aumentare, perfezionare e conservare le collezioni. Righe scritte il primo maggio del 1876 e custodite nella busta numero 7 del Fondo Garnier dell’Accademia di Agricoltura di Torino, nata l’anno precedente a questo scritto con l’intento, come riporta lo statuto, di "promuovere a pubblico vantaggio la coltivazione dei terreni situati principalmente nei felici domini di S.M., secondo le regole opportune e convenevoli alla loro diversa natura". Dietro a queste parole si cela la storia complessa di un particolarissimo museo, quello pomologico, che merita di essere approfondita. L’autore è Francesco Garnier Valletti, un artista e uno scienziato allo stesso tempo. È stato un uomo eclettico, estroso e solitario quanto bastava per realizzare e concentrarsi sulle sue creazioni. Ma chi era veramente Garnier Valletti?
Il Madame Tussauds della frutta
Al servizio delle corti europee
Nato a Giaveno nel 1808 e morto a Torino nel 1889, era figlio del suo tempo, il positivismo, ma la tassonomia o forse sarebbe meglio dire la biodiversità l’hanno indirizzato in una precisa direzione: la ricerca applicata all’agricoltura. Doveva essere anche un po’ burlone se alle esposizioni internazionali si prendeva gioco dei visitatori mischiando il vero e l’artefatto. Di cosa stiamo parlando? Di Ananas Rouge, Algarkik, Annie Elisabeth, Api Étoilée, Apion de Sardaigne, Archiduc Raineri, Aromatic Russet, la Pomme de Baratte, la Bigia di Giaveno, la Contessa di Saluzzo, la Court Pendu Napoléon, o la Reinette Grand Ville. E si potrebbe andare avanti così leggendo le etichette originali, fino alla millesima mela di cera. Oggi il pezzo forte della sua collezione è visibile in un piccolo museo in mezzo alle Presidenze delle Facoltà scientifiche, in via Pietro Giuria 15 a Torino.
Come si diventava ceramisti? Ripercorrendo la sua vita è indubbio che ci volesse pratica e molto estro; Garnier Valletti frequenta il collegio di Giaveno, al termine del quale diventa un confettiere. Nel pieno periodo risorgimentale, si trasferisce a Torino dove sposa Giuseppa Grosso, dalla quale avrà quattro figli. Città nuova, vita nuova e anche attività nuova: dai confetti passa a modellare fiori ornamentali in cera. Otto anni prima delle famose Cinque giornate di Milano, si trasferisce proprio lì, nella capitale del Regno Lombardo-Veneto. Ormai la sua abilità di ceroplasta è così apprezzata da aprirgli le porte non solo dei regni ma di una corte imperiale, così per Vienna comincia a produrre anche frutti, ovviamente sempre in cera.
La targa adiacente al portone, con una semplice scritta, indica la presenza del “Museo della frutta Collezione di Francesco Garnier Valletti”, poche parole e un nome ai torinesi stessi poco conosciuto, il tutto non sufficiente per indicare una collezione unica al mondo. Il suo lavoro era quello di ceramista, professione non insolita alla sua epoca, ma era anche così minuzioso e geniale che, se invece di indirizzarlo ai vegetali, fosse stato applicato alle persone chissà, forse oggi lo conosceremmo come Monsieur Garnier e avrebbe fama internazionale come Madame Tussauds. Quel che è certo è che la sua eredità giace tra le teche delle sale del museo; dalle didascalie e dalle frasi autografe che accompagnano l’esposizione si comprende che la sua vita non è stata così luccicante come le bucce delle mele esposte nelle bacheche che ricordano un tempo andato.
Un’altra Corte si aggiunge tra i suoi estimatori. Sarà lo Zar di Russia ad accogliere lui e le sue produzioni, ma quando pare essere arrivato all’apice della sua carriera, nel 1848 deve lasciare San Pietroburgo, non tanto per i grandi cambiamenti politici che pervadono l’Europa intera,
In copertina e in questa pagina: foto © Museo della Frutta "Francesco Garnier Valletti", Città di Torino.
71
TORINO LIBERTY QUANDO I PALAZZI FIORISCONO Un itinerario nell'Art Nouveau del capoluogo piemontese di Manuela Vetrano
Casa Fenoglio-Lafleur.
76
Il 13 agosto del 1843 nacque in una casa di Chesham, cittadina del Sud dell’Inghilterra, un bambino che venne chiamato Arthur. Se questo nome può essere considerato piuttosto comune, la stessa cosa non vale per il cognome del neonato. Quello di Arthur divenne molto famoso nel mondo e, soprattutto, in Italia. Infatti, il suo cognome era Liberty.
Dalle stoffe al movimento artistico Sir Arthur Lasenby Liberty apparteneva ad una famiglia di commercianti di stoffe. A sedici anni iniziò a lavorare nel settore con uno zio. Probabilmente, il piccolo paese natio iniziò presto a stargli stretto, così il giovane Arthur decise di trasferirsi nella capitale per cercare fortuna. Fu facile trovare lavoro in una città in piena espansione come Londra. Dapprima apprendista in una bottega di tessuti in Baker Street, nel 1862 Arthur fu assunto nel Great Shawl & Cloak Emporium di Regent Street, i grandi magazzini di Farmer & Rogers noti per la vendita di scialli e mantelli provenienti dalle Indie e della Cina. In dieci anni di lavoro Arthur fece carriera e volle proporsi come socio alla ditta. Dopo aver ricevuto un rifiuto, scelse di mettersi in proprio. Nel 1875 Arthur Liberty aprì il suo emporio, sempre in Regent Street e non lontano da Farmer & Rogers. Il negozio Liberty & Co. si divideva in due settori: l’East India House, per vestiti, scialli e gioielli, e la Chesham House, per tappeti, tende e arredi. Oltre a importare oggetti dall’Estremo Oriente, l’azienda diventò anche rivenditrice di manufatti legati al movimento artistico Arts and Crafts, il cui scopo era la rivalutazione della produzione artigianale contrapposta a quella industriale e seriale. Il movimento Arts and Crafts considerava la natura come principale fonte d’ispirazione e i suoi tratti predominanti, quali le linee sinuose e continue, la ricorsività di motivi decorativi in cui domina la stilizzazione di foglie e fiori, la bidimensionalità delle figure, il calligrafismo [...]. vennero recepiti da quell’arte nuova e moderna che iniziò a diffondersi alla fine dell’Ottocento.
La natura come ispirazione Le stoffe fiorate dei grandi magazzini Liberty & Co. ebbero un enorme successo. Nel 1898 furono presenti all’Esposizione Generale Italiana e d’Arte Sacra di Torino. Il critico d’arte Enrico Thovez scrisse in merito: Quali sono le caratteristiche del nuovo stile? Esso è nella forma fedelmente naturalistico e nella sostanza nettamente decorativo. […] Ha ritrovato nella natura e massimamente nella natura vegetale un tesoro di forme ricche, fresche, agili, acconcissime alla stilizzazione decorativa. […] Nelle tappezzerie, nelle stoffe, nei vetri, nei cuoi, nei gioielli, nelle ceramiche, al vecchio armamentario neoclassico è succeduto un vivace intrico di steli e di foglie, una poetica efflorescenza di calici e di bocciuoli: il tulipano, il crisantemo, l’ireos, il ranuncolo, il rosolaccio, la ninfea, aprono la grazia delle loro forme ed il fascino delle loro tinte. […] È nelle
Particolari dei balconi di Casa Fenoglio-Lafleur.
77
IL PAESAGGIO DIPINTO
DA SFONDO A PROTAGONISTA La natura nelle tele dei pittori piemontesi tra Ottocento e Novecento di Manuela Alotto
Ricordati, o pittore, che tanto sono varie le oscurità delle ombre in una medesima specie di piante, quanto sono varie le rarità o densità delle loro ramificazioni Così Leonardo, in Degli alberi e delle verdure del Trattato della pittura, rivolgendosi al pittore, ne richiama l’attenzione sulla grande varietà che in natura assumono le foglie delle piante, a seconda della tipologia di ramificazione. A testimonianza di quanto la botanica, scienza della natura per eccellenza, abbia rivestito un ruolo molto importante tra i molteplici interessi del maestro di Vinci, dai codici manoscritti ai capolavori di pittura, a tal punto da meritarsi il titolo di “primo botanico moderno” e “primo ecologista” della storia. Nel Quattrocento e per molto tempo ancora piante e fiori assumevano una connotazione metaforica, appartenente a un complesso sistema di simbologia già radicato nei secoli passati e che all’epoca si nutriva della nuova cultura letterario-filosofica. Inoltre la concezione classica della pittura si basava sulla convinzione che il paesaggio e la natura potessero aspirare esclusivamente a un ruolo secondario, quale sfondo ad un soggetto principale. Dobbiamo giungere all’Ottocento per assistere ad una mutazione di pensiero che vide la natura e il paesaggio assurgere a genere pittorico. "Nel giardino del convento, 7.12.91", 1891, Lorenzo Delleani.
82
Rappresentare il paesaggio Jean-Baptiste Camille Corot, il maggior paesaggista dell’epoca e precursore della pittura en plein air e di quella realista, fu animato dal proposito di rinnovare il genere del paesaggio, in linea di pensiero con la scuola di Barbizon che, nel 1835, elaborò una nuova consapevolezza della solitudine dell’uomo di fronte alla natura. Ciò che per secoli era stato consolidato quale regola accademica, viene mutando: la pittura di paesaggio viene ora a costituirsi come copia “dal vero”, colta attraverso ciò che l’occhio umano è in grado di percepire, spunti che saranno alla base di correnti innovatrici quali il Realismo e l’Impressionismo. L’Ottocento romantico concepisce il rapporto uomo-natura come duplice faccia della stessa medaglia: amore e odio. Da una parte c'è una natura sconfinata, immensa, universale in cui l’uomo si perde, riconoscendo la propria piccolezza e impotenza: così è la natura matrigna. Dall’altra una natura confortante, benevola, amica nella quale l’uomo si sente accolto come un figlio piccolo accudito: ecco la natura Mater che abbraccia e consola. L’artista si fa interprete della dimensione tra finito e infinito e propone agli occhi dello spettatore ciò che l’uomo comune non sempre coglie: paesaggi pacati, silenziosi, descrizioni di squarci di natura intatta, veicoli di rasserenamento e positività, ma anche burrasche, temporali, cieli tempestosi, fonti di tensione e drammaticità.
I maestri piemontesi La pittura piemontese tra Ottocento e primo Novecento ci offre un ampio panorama in merito al tema del paesaggio naturale sebbene, per molto tempo, non abbia goduto del giusto merito in quanto subordinata rispetto alle più conosciute e valorizzate pitture toscana, lombarda o romana. Eraldo Bellini, autore del volume Pittori piemontesi dell’Ottocento e del primo Novecento (dalle Promotrici Torinesi), ci fa riscoprire nomi che per molto tempo furono dimenticati, ma ad un certo punto tornati giustamente ad essere oggetto di interesse. I tre grandi maestri che hanno segnato le fasi significative di una storia pittorica di alto fervore culturale che fece di Torino, fra il 1880 e il 1902, con le Quadriennali e le Triennali, il maggior e più vivo centro artistico italiano, furono Antonio Fontanesi, celebre per i suoi chiaro-scuri quasi monocromatici, Vittorio Avondo, il cui denso cromatismo influenzò tanta pittura paesista piemontese e Lorenzo Delleani, dalla pennellata rapida e vivace contrapposta a quella di Fontanesi.
La Scuola di Rivara
Alcuni esponenti della Scuola di Rivara posano in costume da alpinisti: Vittorio Avondo (il primo a sinistra), Federigo Pastoris (il secondo, in piedi al centro), Alfredo d'Andrade (a destra), Casimiro Teja (in basso seduto). Foto del 1865—1870 circa.
Battista Carpanetto, Adolfo Dalbesio e Francesco Romero. Principio della scuola era la sistematica ricerca del particolare realistico, la riscoperta del bello nel vero e lo studio costante della natura, soffusa di una nota malinconica, tratto caratteristico della pittura subalpina. E se per Fontanesi si parla di "poesia", per questo cenacolo di amici si può parlare di "prosa poetica". Gli artisti di Rivara s’erano messi a studiare la campagna con un amore, con uno slancio libero e schietto […] secondavano anch’essi la universale aspirazione verso la realtà. Sbozzavano i loro quadri dal vero e il più spesso li terminavano sul vero […] Quella piccola schiera novatrice, allorché scese nella lizza delle mostre artistiche, sollevò tremendi uragani. Il pubblico, educato da lungo tempo a scorgere nei quadri di paesaggio, non già il paesaggio, non già il vero […] recalcitrò, gridò all’assurdo. Giovanni Camerana
Per circa un ventennio (1860—1880), nel cuore del Canavese, un gruppo di artisti piemontesi si trovava a dipingere durante l’estate e sino all’autunno, dando vita ad un importante sodalizio artistico conosciuto come "la Scuola di Rivara". Fondatore del gruppo fu Carlo Pittara, attorniato, a partire dal 1862, da Ernesto Rayper, Alfredo D’Andrade e Tammar Luxoro, già avvezzi a dipingere en plen air nelle campagne savonesi e influenzati anch’essi dalla pittura verista-lirica dei Barbizonniers. Accanto a loro, i piemontesi Ernesto Bertea, Federico Pastoris e il già citato Vittorio Avondo, a cui si aggiungeranno più tardi Giovanni
Fino al 1870–72 il cenacolo visse il periodo della sua massima espressione, facendo risultare i suoi esponenti tra i più importanti rinnovatori del paesaggio piemontese. Se fino agli anni Cinquanta, il paesaggio dipendeva da ideali romantici, ora si fa manifesto di schiettezza e immediatezza tale da essere affiancato alla contemporanea innovazione macchiaiola. Tutti gli artisti della Scuola di Rivara, pur dipingendo immersi nella natura, procedettero comunque verso indipendenti e individuali evoluzioni espressive. 83