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la Repubblica
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25-08-2021 9 1
Laginecologa diHerat,arrivata aMilano conisuoi4figli,lavorava alla Fondazione Veronesi
"Noi obbligati a ricominciare,il rumcuore è lacerato" Ringrazio l'Italia per il calore che ci dà ma penso ai miei, alle donne che curavo diZita Dazzi MILANO — Si è lasciata tutto alle spalle.La casa,il lavoro,la madre,due sorelle,tre fratelli. E ora pensa al futuro che dovrà costruirsi in Italia, lontana dalla sua terra, da tutto quello che aveva e a cui teneva. F.R,40 anni, ginecologa afghana,lavorava ad Herat, in un centro della Fondazione Umberto Veronesi per la prevenzione dei tumori al seno.È arrivata a iVillano venerai scorso,uopo un volo da Kabul,assieme ad altre sette dottoresse della Fondazione, scappate come lei assieme a mariti e figli, per sfuggire alla cattura da parte dei talebani. F.R ha quattro bambini dai dieci anni ai dieci mesi,uno di loro è affetto da distrofia muscolare. «Siamo molto stanchi e preoccupati per i nostri cari rimasti in Afghanistan, ma siamo anche molto grati all'Italia che ci ha accolti,Dovrò rito-
minciare tutto da capo qui — racconta la dottoressa arrivata a Milano — Sono felice di essere stata accolta, del calore che sento attorno a me,ai miei quattro bambini e a mio marito. Ma penso al futuro e mi domando,come faremo?». Appena sbarcate a Milano,le otto dottoresse e i loro parenti sono stati accolti in un Covid Hotel gestito da Ats Milano.I servizi sociali del Comune,in collaborazione con la Caritas altri entri del terzo settore, si sono subito messi in moto per aiutare le famiglie.«Siamo partiti solo con i vestiti che avevamo addosso. Ho chiuso la porta di casa e siamo usciti senza nemmeno una valigia.Qui per fortuna c'è una solidarietà enorme nei nostri confronti.Ci stanno portando tutto quello di cui abbiamo bisogno, dai vestiti ai giochi per i bambini. Siamo seguiti in modo amorevole, tutto questo affetto ci conforta». Ovviamente con la testa,F.R.è ancora in patria, dove ha lasciato la sua bella casa e i suoi affetti più preziosi. «Sento tutti i giorni una delle mie sorelle che come me lavorava per un'organizzazione internazionale che ha dovuto chiudere tutto in fretta e furia. È nascosta in casa, ha dovuto smettere di lavorare,ha pau-
ra, vorrebbe fuggire, come ho fatto io. Ma non riesce. Non mi fa dormire la notte pensare a lei che è intrappolata, a mia madre che rivede quello che ha già vissuto vent'anni fa. E io non posso fare niente per aiutarli, non trovo le parole per spiegare il senso di impotenza, il dolore che si vive nella nostra condizione. Esuli da un giorno all'altro, spogliati di tutto, obbligati ripartire da zero, in un mondo nuovo,sapendo che niente sarà più come prima. Anche le donne che io seguivo sono rimaste senza cure, saranno anche loro barricate in casa. Il mio cuore è lacerato». A vigilare sulla ginecologa e sulle suo colleghe c'è la coordinatrice di Fondazione Veronesi, Monica Ramaioli,che è rimasta accanto a queste famiglie dal loro arrivo,occupandosi di tutte le pratiche burocratiche,delle necessità di ciascuno,persino dei bambini che soffrono a modo loro questa situazione. «I miei figli sono sconvolti — spiega F.R. — Quelli più grandi mi continuano a chiedere della nonna, degli zii, dei cugini,di quando torneremo a casa. Io cerco di rassicurarli,ma è difficile negare la verità, raccontare che torneremo a casa, prima o poi. Questo ormai,anche a me sembra molto difficile. Abbiamo dato l'addio al nostro passato». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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La dottoressa con il cuore La donna: mi occupavo di tumori al seno, il nastro lavoro era cruciale Mia madre e i miei Fratelli sono ancora lì, mi raccontano cose orribili CHIARA BALDI MILANO
ra il Centro per la diagnosi deltumore al seno di Herat, aperto nel 2013 dalla Fondazione Veronesi, è chiuso. Da giorni non è rimasto più nessuno del personale sanitario: le circa mille donne afghane che ogni anno vi accedevano gratuitamente,non hanno più dottoresse a cui rivolgersi. Le otto che vi lavoravano dalla notte di giovedì scorso sono state portate in Italia con un aereo militare insieme ai loro familiari: 34 persone in tutto,perlopiù rifugiati politici che, per questo, non possono parlare con nome e cognome. Tra loro c'è anche F.R.,40anni, dottoressa: a Milano è arrivata con il marito, i quattro figli e suo fratello. "Fino a un mese fa ero la responsabile del centro, mi occupavo delle mammografie e dei tumori al seno. Ora non c'è più nessuno che lo faccia. È uno strazio", racconta la dottoressa, che già dal
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a Herat
2012 collabora con la Fondazione Veronesi. La sua è stata una lunga gavetta: «Mi sono formata a Milano, poi in India.Il nostro lavoro a Herat era fondamentale». Lafuga di F.R. e della sua famiglia da Herat è iniziata il giorno che i talebani sono entrati in città e hanno preso il controllo. «In quel momento abbiamo capito che dovevamo scappare, perché la situazione stava diventando complicata.I talebani non ci avrebbero risparmiato, ci avrebbero odiati. Così siamo andati a Kabul.Lì,grazie allaFondazione Veronesi, siamo stati messi su un aereo militare e siamo arrivati in Italia». Ma in aeroporto la dottoressa ha trovato una situazione drammatica, come hanno mostrato le immagini di questi giorni. «C'era unafolla enorme, gente che urlava, che si spintonava. Avevamo tutti una grande paura di non riuscire a scappare. E in più - racconta F.R. da fuori l'aeroporto arrivavano degli spari: ci sparavano addosso. I talebani han-
no un checkpoint poco distante da lì e quando è arrivato il momento di passare il checkpoint perraggiungere l'aeroporto, non volevano farci passare. Sono stati attimi di terrore vero». Ma nella sua città di origine è rimasta una buona parte della sua famiglia, per questo la dottoressa è in pena. «A Herat ci sono ancora mia madre,tre dei miei fratelli e due mie sorelle.Miraccontano cose terribili, i talebani stanno facendo a brandelli quel poco che avevamo.Sono molto preoccupata e vorrei tanto che riuscissero a venire in Italia ma non è semplice». A preoccupare F.R. è soprattutto la situazione di una delle sorelle: «Lei lavorava per una organizzazione umanitaria internazionale e purtroppo ora da diverse settimane non può più farlo. E costretto astare in casa e basta».Eppure, ricorda, l'Afghanistan fino a un mese fa non era così. «Sì, certo,non era il Paradiso, qualche problema c'era.Scoppiavano bombe sen-
za motivo, c'erano molti rapimenti, tanti crimini, questo sì. Ma era un paese in cui si poteva avere una vita normale. Soprattutto noi donne potevamo lavorare, eravamo tutte istruite,le nostre figlie potevano andare a scuola... ora è tutto andato»".E non c'è alcunafiducia verso quello che i talebani stanno dicendo, ovvero che useranno tolleranza verso le donne:«Non cifidiamo diloro,sono gli stessi di vent'annifa,non sono cambiati». Nella testa di F.R.c'è però la voglia di ripartire, di ricominciare quanto prima con il suo lavoro: «Spero che la Fondazione Veronesi e gli italiani ci possano aiutare, vogliamo tornare alla nostra vita». Una vita che però, almeno per ora, è lontana dall'Afghanistan: «Non cisono le condizioni pertornare. Anche se mi manca il mio paese. Noi afghani siamo molto delusi dalla comunità internazionale: dopo vent'anni, sono bastati pochi giorni ai talebani per riprendere il potere».— © RIPRODUZIONE RISERVATA
LA EX RESPONSABILE DEL CENTRO ALATI-TUMORI DELLA FONDAZIONEVERONESI
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Noi donne potevamo lavorare, eravamo istruite, ora tutto è cambiato. Non ci fidiamo dei talebani
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Un uomo ferito viene soccorso in un ospedale di Herat
La dottoressa. con ilcuore
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a Herat
La dottoressa presa di spalle per motivi di sicurezza a Milano
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UN PICCOLO CONTINENTE DI DONNE AFGHANE E RIUSCITO ASALIRE SU UN AEREO PER L'ITALIA:SONO MEDICI,ATTIVISTE, STUDENTESSE CHE PER I LORO CONTATTI CON GLI OCCIDENTALI RISCHIAVANOtI ESSERE UCCISE.ASCOLTATELE di FEDERICA FURINO
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Immagini femminili vandalizzate sulle vetrine di un salone di bellezza di Kabul.
«Se fossi rimasta h, mi avrebbero uccisa: per quello che sono, per quello che dico e per quello che rappresento». Amino ha 26 anni,un inglese perfetto,unalaurea e la voce ferma.Parla altelefono senzacedimenti,da un numero che misonoimpegnata a cancellare appenafinita l'intervista. Non so dove si trovi. So solo che è atterrata a Roma da Kabul su un aereo militare, con le sue sorelle e altri afghani in fuga, e ora è in quarantena da qualche parte. Racconta la sua storia perché «il mondo deve sapere che cosa sta succedendo» e lo fa usando quasi sempre il passato perché la sua vita è divisa in due: quella della ragazza libera e istruita, attivista per l'empowerment femminile e coordinatrice dell'organizzazione non profit Nove Onlus a Kabul,e quella di adesso, di esule. «Lavoravo per un progetto chiamato Womenfo-r business hub: organizzavamo coniformazione dedicati alle donne,insegnavamo l'inglese,l'uso deicomputer,come comportarsi a un colloquio. A metà agosto, avevamo un corso in partenza: ci siamo dette "andiamo avanti". Poi il presidente si è dimesso e abbiamo capito che la situazione era senza ritorno: le lezioni non sono maiiniziate». Le attiviste peri diritti delle donne, dice, sono diventate un obiettivo e hanno cominciato a nascondersi. Chi ha potuto è scappata,attraversando la folla attorno dell'aeroporto di Kabul. «Un mare di persone disperate. La maggior parte non aveva documentiné visto. C'era una mamma con sei figli che si trascinava dietro un'infinità di valigie pesantissime. Ho chiesto dovefossero direttie miha risposto:"cerchiamo di salire su un aereo,uno qualsiasi,non importa dove andremo purché via di qui". Sono stata li in mezzo due giorni: sono svenuta e ho pensato che sarei morta. Finché, il terzo giorno, abbiamo messo dei nastri rossi sul braccio per farci riconoscere dai militariitalianiesiamo riusciti afarcistrada. C'era un fossato
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Le ragazze afghane del progetto Pink shuttle di Nove Onlus: dopo avere preso la patente, a Kabul guidavano minibus per trasportare donne che non avrebbero potuto spostarsi su veicoli frequentati da uomini. Da pochi giorni sono in salvo in Italia.
e, oltre, un muro. Ci hanno detto di saltare in acqua,andare verso la bandiera italiana e arrampicarci. Dopo infiniti tentativicel'abbiamo fatta». Dentro,ha aiutato i militari a identificare e far entrare le altre donne: le attiviste e le allieve dei suoi corsi. «Ne abbiamo salvate tantissime». Tante però stanno ancora tentando di scappare. «Se penso al mio Paese misento senza speranza.Italebani hanno già detto che le bambine potranno studiare fino agli undici anni, non oltre. Perché quando una donna studia e lavora, controllarla è più difficile. Ma sottomettere le ragazze cresciute libere sarà molto più difficile». Ragazze come le attiviste di Pangea, onlus che da 18 anni attiva progetti di microcredito per accompagnare le afghane nellastrada verso l'indipendenza.Ancheloro,come Amina,appena arrivate in Italia. «Sabato 14agosto italebanifuoriKabul hanno ucciso 15 attiviste per i diritti delle donne che avevano lavorato con un'ong occidentale»,dice Silvia Redigolo,portavoce diPangea. «È stato subito chiaro che l'unico modo di salvare le nostre operatrici sarebbe stato portarle via. Convincerle non è stato facile, ma alla fine hanno capito che per continuare ad aiutare le altre devono rimanere vive. Una ragazza l'altro giorno mi ha chiesto dicambiare la foto sul profilo WhatsApp.Miha detto:se prendono il telefono e vedono che sei occidentale, mi ammazzano». «Le donne con cui siamo in contatto ci descrivono una situazione durissima», dice Laura Quagliuolo, attivista milanese del Cisda— Coordinamento italiano in sostegno delle donne afghane. «I talebani bruciano rase, cercano dietro ogni porta documenti per scoprire chi ha collaborato con l'Occidente. Nel nord una donna è stata uccise a frustate perché non portava il burqa come si deve. E anche a Kabul, dove sono cominciati i rastrellamenti,far evacuarele persone èsempre più difficile. Chi riesce a partire è una goccia nell'oceano». F. R., ginecologa, responsabile del centro di prevenzione del tumore al seno aperto nel 2013 ad Herat dalla Fondazione Umberto Veronesi,ètra ifortunati che cel'hannofatta. «Quando italebanihanno preso Heratlasituazione è precipitata.Ledonne hanno ricominciato a vestire il burqa.E noi che lavoravamo per un'organizzazione occidentale abbiamo cominciato a sentirci in pericolo. Quando sono iniziate le rappresaglie,siamo scappati. La Fondazione Veronesi ciha aiutatiaimbarcarcisu un volo per l'Italia io, mio marito e i miei quattro bambini.Mia madre però
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è ancora là e anche le mie sorelle e i miei fratelli, e ora temo per loro. E temo peri malati, perché se tutti i medici come me se ne vanno via, chi resterà a curarli?». Quando ha lasciato il Paese, dice, ha perso tutto. «Miresta la speranza di iniziare una nuova vita in Italia. Qui potremo essere liberi. Anche mia figlia: libera di studiare e di essere quello che vuole». Appena arrivati lì, racconta Flavia Mariani di Nove Onlus, sentivano le donne definirsi "invisibili". «Ora invece le ragazze che frequentano i nostri corsi si definiscono imprenditrici: lavorano e mantengono lefamiglie».Un cambiamento enorme,dice, cancellato in una notte. «Francamente nessuno si aspettava che tutto succedesse così in fretta e senza alcun tipo di resistenza», osserva Christina Lamb,reporter del Sunday Tunes,tra le massime autorità mondialiin fatto di Afghanistan,autrice del bestseller internazionale Inostri colpi come campi di battaglia(Mondadori) e coautrice della biografia di Malala. «Quando i diritti sono in pericolo,a rischiare di più sono sempre le donne. Negli ultimi 20 anni,in Afghanistan,la loro vita è cambiata in meglio e ora temono ditornare indietro:non stupisce che siano le più spaventate e che tentino difuggire in ogni modo.Se tutte le persone istruite se ne vanno,però,per questo Paese non c'è né futuro né speranza». Uno spiraglio, dice, arriva dai giovani. «L'Afghanistan non è più il Paese isolato in cui i talebani presero il potere nel 1996. Oggi gran parte dei giovani è cresciuta con gli smartphone in mano,centinaia di migliaia di ragazzi hanno frequentato l'università e difficilmente rinunceranno ai loro diritti.In queste condizioni sarà più difficile per i talebani governare». Per una che riesce ad andarsene, aggiunge Laura Quagliuolo, Cisda,ce ne sono migliaia che restano.Per scelta,come le donne di Rawa,femministe e dandestine, o come le donne attive che stanno nel partito Hambastagi,laico e democratico. Oppure per mancanza di alternative. «L'87 per cento delle afghane sono povere e analfabete. Non avendo potuto collaborare con le organizzazioni occidentali, non hanno un lasciapassare e sono costrette a restare. Loro non hanno mai smesso di essere oppresse e ora probabilmente lo saranno ancora di più». Lontano da Kabul,nelle province più conservatrici,il ritorno dei talebani ha inciso poco sulla vita delle donne. Zone come Khowst, dove Medici Senza Frontiere ha aperto la maternità più grande del Paese.Lì,dice Francesca Migliotti,responsabile delle risorse umane della ong,la vita nelle ultime settimane è rimastala stessa disempre.«Qualche collega si è licenziata,per paura o per pressioni da parte della famiglia,e qualcuna ha chiesto un visto per andarsene.La maggior parte,però,continua ad andare allavoro come sempre».Quando il progetto è partito,racconta,sifaticava a trovare staffdel posto: ostetriche e ginecologhe non ce n'erano. Oggi per loro lavorano 280 donne. «La presenza del nostro ospedale ha convinto le famiglie a far studiare le ragazze che ora, spesso,sono le uniche a portare uno stipendio a casa. Anche se continuano aindossare il burqa,comprese le dottoresse:lo tolgono solo durante il servizio». La rabbia di Kabul,dice, lì non arriva.«Le colleghe midicono che peril momentole attività vanno avanti. Viviamo alla giornata,sperando che duri». J
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«NOI, DOTTORESSE IN FUGA DALL'AFGHANISTAN: LA NOSTRA VITA RICOMINCIA A MILANO». PODCAST- CORRIERE.IT «Noi, dottoresse in fuga dall'Afghanistan: la nostra vita ricomincia a Milano» di Tommaso Pellizzari l 17 set 2021 Sepideh, Mashtab e Sahar sono tre scienziate di Herat, che lavoravano in un centro aperto dalla Fondazione Veronesi. Fanno parte di un gruppo di 34 persone, divise in 8 famiglie, arrivate in Italia nei giorni immediatamente successivi alla riconquista del Paese da parte dei talebani dopo il ritiro delle truppe statunitensi. A «Corriere Daily» hanno raccontato le loro storie, che ripartono dalle strutture della Fondazione Progetto Arca che le ospita Sepideh, Mashtab e Sahar sono tre dottoresse di Herat, in Afghanistan . Fanno parte di un gruppo di 34 persone, divise in 8 famiglie, arrivate a Milano nei giorni immediatamente successivi alla riconquista del Paese da parte dei talebani dopo il ritiro delle truppe statunitensi. Fino alle metà di agosto, le tre donne lavoravano nel centro di prevenzione e diagnosi di tumore al seno aperto dalla Fondazione Umberto Veronesi e avviato dal grande oncologo 10 anni fa. Oggi, dalla sede milanese della medesima Fondazione, Sepideh, Mashtab e Sahar raccontano al podcast «Corriere Daily» la loro storia e i loro progetti per la nuova vita che sono state costrette a ricominciare. E che riparte dalle strutture della Fondazione Progetto Arca in cui sono ospitate. 17 settembre 2021 (modifica il 17 settembre 2021 l 00:06) © RIPRODUZIONE RISERVATA Ascolta le altre puntate di Corriere Daily 17 settembre 2021 EPISODIO 340
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[ «NOI, DOTTORESSE IN FUGA DALL'AFGHANISTAN: LA NOSTRA VITA RICOMINCIA A MILANO». PODCAST- CORRIERE.IT
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= AFGHANISTAN LAVORAVANO NEL CENTRO PER IL CANCRO AL SENO DELLA FONDAZIONE
~Mi IL RACCONTO DI DUE DOTTORESSE FUGGITE DA HERAT
«Qui al sicuro pensiamo
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«I TALEBANI CI STANNO CERCANDO E SI VENDICHERANNO CON LE NOSTRE FAMIGLIE», DICONO.
— Un soldato talebano controlla una afghana con il Purga sulla via che conduce all'aeroporto. La foto è del 27 agosto,4 giorni prima che l'ultimo soldato della forza Usa, il Maggiore generale Chris Donahue, lasciasse II Paese.
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VERONESI. HANNO DOVUTO SCEGLIERE TRA LA SALVEZZA E GLI AFFETTI
ai nostri cari in pericolo» E CHI HA UNA SORELLA TEENAGER TEME PER IL SUO FUTURO: «LA FARANNO SPOSARE A FORZA» È arrivata in Italia con la sua bambina
di Simone Fanti
a voce tremula diventa pesante e stanca. Si avverte tutto l'affanno della fuga, da Herat e dall'Afghanistan. Il peso dei ricordi di quelle notti di terrore vissute nelle strade di Kabul il 14 e 15 agosto, data della caduta della capitale in mano ai talebani. Per Mahtab, 25 anni, e Sepideh, 30, il ricordo è vivo e sanguina anche ora che sono in salvo in Italia. I nomi sono di fantasia, scelti da loro per proteggere i parenti ancora ìn territorio afghano da eventuali ritorsioni. Sono epiteti positivi e malinconici allo stesso tempo e significano rispettivamente "luna di sera" e "alba". Mahtab e Sepideh sono due dipendenti afghane del Centro per la diagnosi del tumore al seno di Herat attivato, nel 2011, della Fondazione Umberto Veronesi, fuggite ad agosto dal loro Paese con altre 32 persone tra dipendenti, genitori, mariti, fratelli, sorelle e dieci figli sotto i dieci anni. Vivevano a Herat, la zona che per anni è stata sotto il controllo dei militari italiani, e, dopo il diploma, erano state assunte dal Centro, dove grazie all'aiuto della Fondazione Umberto Veronesi si erano specializzate, in India, per diventare tecniche di laboratorio. Anni sereni e di ottimismo per la ricostruzione di un Paese. Poi l'incubo dei talebani che torna. La forza internazionale che lascia il Paese. La milizia regolare che crolla sotto gli attacchi dei talebani. Infine la mail agli italiani il 31 luglio: «Aiuto siamo in pericolo, portateci via». E dal centro dei progetti internazio-a
NASCONDONO IL VISO PER PAURA DI RAPPRESAGLIE In alto, Mahtab (nome di fantasia) con in braccio la figlia piccola. Sopra, le donne giunte nelle case di accoglienza del progetto Arca. A destra, una degente del Centro diagnostico per il cancro al seno della Fondazione Veronesi a Herat.
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IN FUGA DALL'AFGHANISTAN
-> nali della Fondazione parte la pratica per l'espatrio del personale afghano con il supporto del ministero della Difesa e di quello degli Esteri.
DA HERAT A MILANO A destra, le pazienti in fila fuori dal centro diagnostico per il tumore al seno in Afghanistan nel 2020. Nella pagina accanto i profughi afghani atterrati in Italia il 16 agosto e poi trasferiti in un Covid Hospital per la quarantena.
sembra trasmettere vibrazioni che il traduttore Ayoub Naseri,soppesando ogni parola per rendere le emozioni, riporta in italiano. «Eravamo state chiamate per uscire dal Paese dai militari italiani su indicazione della Fondazione, noi otto dipendenti e alcuni dei parenti più stretti», raccontano. «La via per l'aeroporto era stata presa d'assalto dai fuggitivi e giunte ai cancelli non ci fecero passare, do-
vemmo tornare in città e attendere la notte successiva. Così in una città allo sbando, passando per stradine buie per evitare le arterie che brulicavano di talebani, spogliandoci di ogni oggetto, vestite semplicemente per non dare nell'occhio, con la paura di cader vittima di predoni e criminali, riuscimmo a passare i gate e poi decollare lasciandoci alle spalle il passato e molti affetti».
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IL CAOS E LA PAURA La situazione degenera rapidamente. Cade Herat e loro scappano a Kabul. Crolla la capitale nel giorno della partenza. «L'orrore che abbiamo vissuto è indimenticabile», raccontano quasi in coro le due donne ricordando la notte passata fuori dall'aeroporto. «Una folla di gente pressava i cancelli, un'onda umana ci schiacciava e ci accerchiava nel vano tentativo di fuggire;le bande di criminali,coltelli alla mano, cercavano in ogni modo di derubare i fuggitivi; gli spari in lontananza della città che si piegava». Parlano in Farsi, una lingua dolce che spesso ha la musicalità del francese e che, talvolta, assume accenti duri,
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«CHI CURERÀ LE DONNE?» La mente corre alle afghane lasciate senza il loro centro per la lotta al tumore. Un polo «attivo fino all'ultimo minuto a cui giungevano le pazienti da tutto l'Afghanistan e dai Paesi vicini come l'Iran», spiega Sepideh. «Donne povere che,per anni, avevano convissuto e sofferto con il male tanto
letale dentro di loro e che al centro avevamo aiutato a curare. Donne che avevano solo i soldi per il viaggio e che riponevano in noi le speranze di sopravvivenza». Speranze persa nella guerra: le afghane devono dire addio anche agli ospedali. «I reparti di ginecologia e ostetricia infantile sono sempre stati l'obiettivo degli attacchi terroristici,lì lavoravano le donne,cosa inaccettabile dai talebani», prosegue. «Ora le dottoresse sono state lasciate a casa dando spazio agli uomini che però non possono toccare le donne, né visitarle. Chi si prenderà cura di loro?». Lo sfacelo di un Paese alla sbando è ormai alle spalle di questi profughi che sono ospitati nelle case del Progetto Arca, in attesa di rifarsi una vita dopo essere stati riconosciuti come richiedenti asilo. Simone Fanti RIPRODUZIONE RISERVATA
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«CALERÀ IL SILENZIO» Il pensiero va a chi, in Afghanistan, è rimasto. Al poco tempo che resta per potersi sentire: «Presto i talebani chiuderanno ogni comunicazione lasciando muta e sorda le gente», chiosa Mahtab. «Le nostre famiglie vivono l'orrore, stanno perdendo il lavoro, le scuole sono già state divise. Pagheranno il fio di aver permesso alle figlie di lavorare e di aiutare altre
donne a curarsi. Ci stanno cercando e quando sapranno che non ci siamo le nostre famiglie pagheranno un prezzo elevato». Fa eco la voce di Sepideh la cui famiglia era povera e viveva grazie al suo lavoro: «Chi li proteggerà dalla vendetta talebana? Mio zio ha lavorato per gli italiani nel sistema di sicurezza, era una persona in vista fino a quando non fu ucciso in un attentato». La voce si fa flebile mentre pensa alla sorella: «E solo una teenager, la sposeranno a forza a un talebano».
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VANITY Copertina
COME APPASSISCE
UN FIORE DI LOTO A Herat aveva tutto:l'impiego come ginecologa,una grande famiglia, l'indipendenza. Con l'arrivo dei Talebani, NILO FAR è stata costretta a scappare. Grazie alla fondazione per cui lavorava in Afghanistan,è arrivata a Milano,dove spera di cominciare una nuova vita. Lontana dalla paura
In queste notti continuo a sognare l'aeroporto di Kabul. È come se fossi ancora lì. Sono dentro « ma non riesco a partire. Hanno chiuso i gate. Sono schiacciata,con mia madre e mia sorella,in mezzo a una folla senza visto ma a caccia di speranza.Fatico a respirare. Non mangio e non dormo da giorni,sono stanca."Per di qua,per di qua": un gruppo di uomini ci spinge verso una sala buia. Si fingono amici,sono ladri che provano a infilarci le mani nelle borse.Sento gli spari vicini,sempre più vicini.I Talebani ci stanno accerchiando. Hanno preso la città, ormai sono a pochi metri da noi. Se mi beccano,per me è finita». Quello di Nilofar non è un incubo, è un ricordo che striscia sotto le sue lenzuola non appena spegne l'abat-jour del Covid Hotel di Milano dove sta smaltendo la quarantena. Un ricordo recente, anzi recentissimo. 16 agosto 2021: primo tentativo di fuga da un Afghanistan in fiamme. Qualcosa va storto e lei viene rispedita a casa. Supera i check-point dei Talebani indossando un Niqab (il velo che svela solo gli occhi) che di solito snobba, e fingendosi membro di un'altra famiglia composta anche di uomini. Lei da sola con madre e sorella non sarebbe potuta andare da nessuna parte: in regime talebano serve almeno una presenza maschile per permettere a una donna di uscire di casa,fosse anche quella di un bambino di due anni. Ci riprova tre giorni più tardi con l'aiuto della Fondazione Veronesi presso cui lavorava a Herat. II lasciapassare è un fiocco rosso annodato al braccio destro: segno di appartenenza a un'organizzazione internazionale. Le cose filano lisce e lei, insieme alle altre sette dottoresse della Fondazione e ai relativi familiari conviventi,riesce 44
foto ANDREA FRAZZETTA
a imbarcarsi sul volo della salvezza. Atterra a Fiumicino, senza un futuro e senza più un passato (a nessuno è concesso portare effetti personali che sottrarrebbero spazio a vite umane) e, per la prima volta in un mese, tira un sospiro di sollievo: se non altro, è viva. Il sollievo dura poco: l'attentato terroristico del 26 agosto spegne ogni fiammella di speranza per il fratello in lista d'attesa per un aereo verso la Germania.È con questo peso nel cuore che Nilofar compie l'ultimo tratto di viaggio,da Roma a Milano dove la incontriamo. Avvolta in un caftano grigio, con una sciarpa bianca, rosa e blu che le copre i capelli e le scopre le guance morbide e gli occhi tristi, come prima cosa ci racconta che Nilofar non è il suo vero nome.Si fa chiamare così,Fiore di Loto in italiano, per tutelare un'identità che potrebbe mettere in pericolo quella parte di famiglia che ancora non è riuscita a fuggire. E che dío solo sa se riuscirà mai. 34 anni,ginecologa con una specializzazione in Citologia (lo studio delle cellule), a Herat viveva una vita non dissimile da quella di una donna in carriera di Torino,Parigi o Amsterdam. «Avevo tutto», racconta con orgoglio. Cioè tanto lavoro (presso addirittura tre strutture:l'ospedale cittadino, l'università e il Centro di prevenzione e cura del tumore al seno fondato da Umberto Veronesi), poco tempo libero che amava dedicare ai nipotini e la grande soddisfazione di avercela fatta pur partendo da origini umili. «Mio papà era grossista in un supermercato, mia mamma casalinga. Hanno fatto sacrifici per permettere a tutti i cinque figli di studiare. Addirittura ci hanno concesso il lusso di poterci dedicare solo ai libri, senza dover cercare un lavoretto per pagare la retta universitaria.Io ho provato a ricompensare i loro sforzi con i voti:
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di NINA VERDELLI
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IN CARRIERA Nilofar, afghana, 34 anni, ginecologa. A Herat lavorava presso il Centro di prevenzione e cura del tumore al seno realizzato nel 2013 da Fondazione Umberto Veronesi.
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SANE E SALVE Grazie a Fondazione Veronesi, Nilofar (al centro) è riuscita a portare in Italia la madre(a sinistra) e la sorella (a destra). Ma il resto della famiglia è rimasto bloccato in Afghanistan.
ho sempre cercato di essere tra le più brave della classe». Sciita di etnia Hazara è quanto di più lontano dai Talebani,quasi esclusivamente sunniti di etnia Pashtun. Donna, single, economicamente indipendente e impegnata per una fondazione internazionale, Nilofar ha tutto quel che occorre per essere invisa a una setta reazionaria che copre il volto delle donne e le fa scomparire in casa,che nega loro l'istruzione sopra i 12 anni, che non disdegna la poligamia e forza le giovani delle terre conquistate ai matrimoni con i Mullah.Un po'come facevano gli Achei durante la guerra di Troia. 1200 anni prima di Cristo. «Era la mia paura più grande: che mi rapissero e mi maritassero a uno di loro. Se fossi rimasta a Herat non avrei avuto scampo. Mi avrebbero ammazzata. O,anche se avessero deciso di risparmiarmi — sa,di dottori c'è sempre bisogno —, avrebbero reso la mia vita un inferno. Già un mese fa, i Talebani hanno recapitato una cedolare presso l'ospedale in cui lavoravo, rendendo noto il codice di condotta che auspicavano: Niqab per le donne,restrizioni sul numero e tipo di pazienti da visitare, divieti di ogni genere. La mia libertà sarebbe stata cancellata.E io non potevo permetterlo: è un tipo di morte anche quella». Nilofar, il Fiore di Loto, ha barattato la libertà con il suo passato, acconsentendo a uno sradicamento radicale da una terra a cui, presumibilmente, non farà mai più ritorno. Che ne sarà delle sue assistite? Delle quasi 10 mila pazienti che hanno potuto accedere a cure gratuite grazie al centro messo in piedi da Umberto Veronesi nel 2013? «Con i Talebani al potere assoluto, le donne torneranno indietro di venticinque anni. Non potranno essere visitate da medici uomini e non potranno studiare Medicina. Circolo vizioso che abbasserà le aspettative di
vita. Vita... Se si può chiamare così quella che ti costringono a fare. Ora si dichiarano moderati agli occhi della comunità internazionale. Ma chi li ha conosciuti sa che è tutta una farsa». Venticinque anni fa, quando per la prima volta soffocarono il Paese con la forza, vietando la musica e incentivando le punizioni corporali in luogo pubblico, Nilofar era lontana. Intuendo la mal parata, i suoi genitori si erano rifugiati nel vicino Iran, dove lei è nata e ha completato il primo ciclo di studi. «E lì che ho cominciato a sognare di diventare dottoressa. In Iran i film non erano vietati: mi affascinavano le storie dei medici donne. Mi immaginavo,un giorno,con camice bianco e stetoscopio. Quel giorno è arrivato e, quando è stato il momento di scegliere la specializzazione, ho optato per Ginecologia per fornire un aiuto concreto alla parte più fragile del mio popolo:le donne,appunto». Una che ricorda in particolare? «Una signora che era venuta al centro per un controllo al seno. Le faccio una biopsia e le trovo un minuscolo principio di tumore. Con una diagnosi precoce, credo di averle salvato la vita». A salvare la sua è stata proprio la professione: una prima mail ricevuta il 31 luglio ha allenato lo staff di Fondazione Veronesi che,da allora,si è dato da fare per espatriare le otto dipendenti del centro di Herat con i relativi congiunti.Per accoglierle in Italia insieme a Caritas Ambrosiana,che ha fornito loro un cambio d'abiti e pasti caldi durante la quarantena.Per ricollocarle in alloggi temporanei messi a disposizione da Progetto Arca Onlus. Per aiutarle con la richiesta di asilo. Le tempistiche della burocrazia,così come il futuro di Nilofar e delle altre donne,per ora sono incerti. Lei non sa cosa farà né in quale Paese finirà. Spera in Germania, dove ha uno zio e dei cugini: «Almeno mia mamma non sarebbe sola», dice con un filo di voce rivolgendo uno sguardo a una signora minuta, un'anziana senza età interamente coperta di nero che, per tutto il tempo, non
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ha sollevato lo sguardo da terra. Soprattutto, si augura di poter continuare a svolgere la professione per cui ha tanto studiato. Ma, anche su questo, non si azzardano pronostici. Quello che è certo è che sarà libera:in Europa nessuno potrà mai impedirle di andare al cinema (a Herat non ce n'erano,neanche durante il governo illuminato filo-americano), di ascoltare la musica che le pare, di sposarsi. O di non sposarsi e vivere comunque felice e non giudicata. Di realizzare un piccolo sogno: guidare una motocicletta. «Sì sì, tutto vero», risponde il Fiore di Loto accennando un sorriso. Poi torna seria: «Per ora, però, non riesco a pensare a questo. Addosso ho ancora la paura».
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«Credo che i talebani mi avrebbero UCCISA. o costretta a sposarmi con uno di loro»
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«In aeroporto a Kabul ho pensato di morire» di Giovanna Maria Fagnani
Protetta La dottoressa teme ritorsioni a fuga dall'Afghanistan J della ginecologa responsabile della Fondazione Veronesi a Herat: «La mia famiglia e il mio staffdevono la vita all'Italia. Tra la folla in aeroporto pensavo di morire». a pagina 5
I talebani ora micercano Tra la folla in aeroporto ho pensalo che sarei morta» È la seconda volta nella sua vita che i talebani la costringono a lasciare tutto e a emigrare dalla sua patria, l'Afghanistan, per salvarsi. La prima fuga l'ha vissuta da bambina, quando i genitori l'hanno portata in salvo in Iraq,insieme ai suoi fratelli. Lì ha potuto studiare e laurearsi in medicina. Poi, la specializzazione in ginecologia e il ritorno a Herat,sua città natale, l'incontro con la Fondazione Veronesi e la promozione a responsabile del centro per la diagnosi e la prevenzione del cancro al seno. Oggi la vita di questa dottoressa, 4o anni(di cui non riveliamo il nome per motivi di sicurezza)riparte da Milano, dove è arrivata qualche giorno fa su un aereo militare, insieme al marito e ai Ritaglio
loro quattro figli, a un fratello e alla sua famiglia, dopo una fuga disperata. La dottoressa e i suoi famigliari sono riusciti a lasciare Herat fra il 9 e il 12 agosto, giorno in cui la città è caduta in mano ai talebani. Insieme a loro è stato portato in Italia anche il resto dello staff del centro della Fondazione Veronesi: otto donne, di cui due medici e quattro tecnici di laboratorio e di radiologia e due addette all'amministrazione. Il gruppo si trova in un Covid hotel per fare la quarantena. E ora il pensiero va a famigliari e pazienti rimasti in Afghanistan. «Qualche giorno fa i talebani hanno bussato alla porta dell'appartamento di mia madre e di mia sorella: cercavano me e adesso io temo che subiscano stampa
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ritorsioni» racconta. «E non faccio altro che pensare alle mie pazienti: il nostro centro offriva esami gratuiti, perché la maggior parte della nostra gente è povera e non esiste nessun altro centro del genere in Afghanistan. Venivano donne da tutta la regione e anche da Kabul. Per questo spero un giorno di poter tornare». Herat, con quasi 600 mila abitanti, è la terza città del paese per popolazione.Umberto Veronesi aveva fortemente voluto l'istituzione dell'ambulatorio, che ha sede accanto al Maternity Hospital, dove il personale femminile è già stato sostituito dai talebani con personale maschile. «Gli ultimi giorni in cui lavoravamo al centro sono stati un incubo. del
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L'avanzata dei talebani procedeva e continuavano ad arrivarci i racconti delle atrocità, da parte di chi aveva già vissuto sotto il loro regime 20 anni fa. La situazione peggiorava di giorno in giorno e quando abbiamo ricevuto minacce dirette abbiamo capito che dovevamo trovare un modo per lasciare l'Afghanistan». Così, comincia la fuga: prima all'aeroporto di Herat(costantemente bombardato) per raggiungere Kabul in aereo. Poi, nella capitale, il giorno di Ferragosto, il primo tentativo di espatrio che non va in porto. Lo scalo è invaso da decine di migliaia di disperati, qualcuno arriva ad aggrapparsi ai carrelli dei velivoli quando decollano. Mentre tutto questo accade, la dotto-
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La dottoressa in fuga da Herat:l'Italia ha salvato i miei figli
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MILANO ressa,suo marito e i figli,sono bloccati in mezzo alla folla davanti al gate chiuso. «Avevamo paura di essere uccisi. Non potevamo tornare indietro, perché c'era la polizia talebana coi suoi check point, ma lì era pericolosissimo, la folla si metteva a correre all'improvviso come una mandria impazzita e si sentivano colpi d'arma da fuoco.Inoltre,
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faceva molto caldo e non era possibile trovare acqua o cibo per i bambini che continuavano a piangere. Siamo rimasti in quella situazione dalle nove fino alle cinque del pomeriggio, poi siamo riusciti a tornare nell'hotel di Kabul dove avevamo trovato un alloggio e il giorno dopo, grazie ai militari italiani, siamo stati imbarcati. Siamo molto felici di
essere qui a Milano con le nostre famiglie». Ora la Fondazione Veronesi assisterà lo staff sanitario e le famiglie nelle pratiche per ottenere lo status di rifugiato politico. «Lasciando il mio paese ho perso tutto quello che avevo, ma spero di poter fare la mia parte e continuare a esercitare la mia professione in Italia». Il futuro è incerto,
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ma almeno queste famiglie vedono i loro figli in salvo.Qui potranno studiare. «Il regime talebano non incoraggia l'istruzione,le donne,poi non possono frequentare oltre le elementari. La situazione in Afghanistan è terribile. I sostenitori dei talebani e chi aderisce ai loro gruppi sono persone poco o per niente istruite. E sono inaffidabili nelle loro promesse». Giovanna Maria Fagnani © RIPRODUZIONE RISERVATA
Protetta
•La dottoressa della Fondazione Veronesi,40 anni, non rivela il suo nome e non si mostra in volto:come gli altri in fuga da Kabul, teme ritorsioni
34 Il numero di persone che compongono il primo gruppo di fuggitivi afghani ospitati a Milano. Fra loro le dottoresse
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•Era già fuggita da Herat da bambina, trovando riparo in Iraq con i genitori
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