Architettura Aprile 2011

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CARRIERE&PROFESSIONI

SOMMARIO

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EDITORIALE Marco Zanzi

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L’INTERVENTO Bruno Gabbiani Pier Paolo Maggiora

096 ARCHITETTURA SACRA Tadao Ando 102

GIOVANI ARCHITETTI Luigi Centola Alessandro Tessari, Matteo Bandiera Mario Cottone, Gregorio Indelicato Massimo Tepedino, Nacho Toribio, Carmelo Zappulla

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LAVORI PUBBLICI Francesco Karrer

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DIBATTITI Leopoldo Freyrie Paolo Buzzetti Giovanni Rolando

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SPAZI CLINICI Renzo Solmona e Marco Vitali

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EDIFICI PUBBLICI Bellino e Giuseppe Galante

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PROGETTAZIONE ALBERGHIERA Vittorio Pedrotti

140

PROGETTI INTERNAZIONALI Umberto Capelli, Marco Fossati e Raffaello Sandri

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INFRASTRUTTURE Angela Procopio

NAPOLI Silvio d’Ascia

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IMMAGINI FOTOREALISTICHE Federico Fazio

080 SALERNO Ricardo Bofill Manuel Ruisánchez

148

FOTOGRAFIA Walter Guadagnini Valeria Carullo

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SCATTI D’AUTORE Paolo Rosselli

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SALONE DEL MOBILE Giovanni De Ponti Guglielmo Miani Carlo Guglielmi

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LE ARTI PROSSIME Denis Santachiara

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MILANO City Life Zaha Hadid Daniel Libeskind

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TORINO Benedetto Camerana Porta Susa

040

TRENTO Vittorio Gregotti Mario Botta

046 VERONA Vito Giacino Antonio Citterio 054

GENOVA Jean Nouvel

056

PARMA Pietro Vignali Mario Cucinella

064 ROMA L’Eur cambia volto Massimiliano Fuksas Renzo Piano 076

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090 WORLD IN PROGRESS

C&P


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BIENNALE D’ARTE Paolo Baratta Bice Curiger

I PRINCIPIA DELLA MUSICA Ludovico Einaudi

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ARCHITETTURE URBANE Gaetano Mossa

LE FABBRICHE DEL DESIGN Alberto Alessi

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SVILUPPO URBANO Massimiliano e Matteo Monferini

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ARCHITETTURA E URBANISTICA Gustavo Procopio

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ECOLOGIA DEL PAESAGGIO Lucia Bergo

GEOMETRIE STILISTICHE Luisita Facchin

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IL PROGETTO KUBIK Maurizio Lo Presti

LINGUAGGI ARCHITETTONICI Giacomo Longoni e Fruzsina Kaiser

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PROGETTAZIONE Davide Macullo, Ivo Maria e Arianna Redaelli Renato Rizzi Alberto Bertolini e Alessandra Galli Marco Grasselli ed Espedito Ivan Carrozza Eleonora Morbelli

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I PRINCIPIA DELL’ARTE Luca Pozzi

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182

186

200

204

DESIGN Silvana Annichiarico Gaetano Pesce Alessandro Mendini Fabio Novembre

208 ARCHITETTURA E DESIGN Giorgio Comoglio 210

DESIGN D’INTERNI Alessandro Calligaris

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TOTAL DESIGN Pietro Gaeta

216

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INTERNI Edoardo Catto Edoardo Moscheni Studio DRMe Marco Macioce Effebi COMFORT E FUNZIONALITÀ Gianni Difilippo

228 ARTE TESSILE Daniele Rossi

CARRIERE&PROFESSIONI

SOMMARIO

266 SPERIMENTAZIONE PROGETTUALE Francesco Caragiulo 268 RICERCA ARCHITETTONICA Umberto A. Affatato 270

HOUSING SOCIALE Sergio e Fulvio Wirz

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RESIDENZIALE Stefano Rizzi Marino Milillo

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RESTAURO Roberto Cecchi Dario Molteni Ruggero Pianezzi

284 RIQUALIFICAZIONE Carlo e Gianfranco Vinardi 286 RISTRUTTURAZIONI Vincenzo Sciglitano

C&P

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EDITORIALE

Le città invisibili di Marco Zanzi

Un Grand tour nell’architettura contemporanea. Come avveniva nei secoli passati per i giovanotti dell’aristocrazia europea, Architettura, la rivista della Golfarelli Editore, ha organizzato un viaggio attraverso l’Italia. Un viaggio di scoperta come allora, ma in questo caso è più che altro virtuale in quanto da vedere c’è ancora ben poco. Ma pur sempre di un viaggio di scoperta si tratta in quanto in diverse città del Belpaese sono all’opera architetti di fama internazionale con progetti importanti che una volta realizzati andranno a incidere sull’aspetto delle città e sulla vita delle persone . E sono proprio gli architetti stessi che ci accompagnano illustrando le loro “creature”. Il nostro viaggio parte da Milano, dove ad accoglierci sono Daniel Libeskind e Zaha Hadid che ci parlano dei loro grattacieli del City Life. Prosegue poi verso Torino dove troviamo Silvio D’Ascia che ci descrive Porta Susa. A Genova Jean Nouvel illustra il Padiglione Blu della Fiera. A Parma Mario Cucinella racconta dell’Urban district. A Verona Antonio Citterio descrive il suo intervento nell’area sud. A Trento Vittorio Gregotti parla dell’area nord della città e Mario Botta della sua biblioteca. Scendendo arriviamo a Roma dove troviamo Renzo Piano e Massimiliano Fuksas . A Napoli ancora Silvio D’Ascia col progetto “Porta C&P

del parco” e infine a Salerno si conclude il nostro viaggio e ritroviamo Zaha Hadid con la stazione marittima, Riccardo Bofill e Manuel Ruisanchez con i loro progetti per la città. Insomma, un viaggio che si preannuncia interessante perché, come dicevamo, a parlarci dei loro progetti sono gli architetti stessi. E noi li ascoltiamo cercando di capire le loro ragioni per farci un’opinione. Con pazienza proviamo a distinguere quello che è importante da – se il caso – quello che non lo è... La stessa pazienza che Leonardo Benevolo in un recente libro-intervista indica come la virtù principale per l’architetto, quella che lo allontana dalle “tentazioni alla ripetizione e al manierismo individuale” e allo stesso tempo dalla ricerca di effetti spettacolari fini a se stessi. Ma se tutto questo non fosse ancora sufficiente possiamo mettere nella sacca, prima di iniziare il nostro viaggio, i “Memorabili” di Senofonte e quando ci troviamo in difficoltà andarci a rileggere quello che fa dire a Socrate nel III libro: “Una pattumiera è bella e uno scudo d’oro è brutto, se quella è fatta in maniera conveniente al proprio fine, questo in maniera sconveniente. Se dunque una cosa ben si adatta a un fine, rispetto a questo è bella e buona: brutta e cattiva in caso contrario”… Insomma, da utilizzare ma solo in caso di necessità. 13



L’INTERVENTO

Dalle città ideali al caos delle periferie di Bruno Gabbiani presidente di Ala - Assoarchitetti

Il nostro è il Paese che ha definitivamente consolidato la civiltà della città e ha poi costruito le più brutte periferie d’Europa, che produce ed esporta il più progredito sistema di componenti per l’architettura e l’arredo del mondo ed è afflitto da una produzione edilizia quotidiana assai squalificata, che ha laureato il più elevato numero di architetti pro capite del mondo e non ne utilizza le potenzialità qualitative. Sono queste alcune delle tante contraddizioni che rendono così difficile per gli stranieri comprendere il fenomeno Italia e che sono la fonte di malintesi e di giudizi a volte sommariamente negativi. Eppure molti architetti italiani, come appare anche dalle pagine di questa stessa rivista, mantengono la spiccata capacità creativa che ha contraddistinto i loro predecessori e riescono a produrre opere importanti, più spesso all'estero e anche in Paesi lontani e in ambiti culturali assai diversi dal nostro. Viene così spontaneo chiedersi quali siano i motivi che rendono difficile esprimere al meglio in modo diffuso, buone professionalità in Italia e la risposta non è differente da quella che spiega, almeno in parte, analoghe contraddizioni di altri settori. La capacità creativa e la tenacia dei singoli, raramente da noi si tramuta in una convinta attività di squadra, in organizzazione, nella condivisione di obiettivi di medio e lungo termine. Le poche eccezioni e C&P

l’eccellenza dei risultati da queste raggiunti, non sono che la conferma della regola. E l’insensibilità verso ciò che non è personale ed esclusivo, ci porta soprattutto a trascurare la pubblica amministrazione e a ignorare l’importanza fondamentale di un sistema di norme e di procedimenti che interpretano l’interesse generale. Così anche nel settore delle trasformazioni del territorio soffriamo di un malessere che deriva in gran parte dal cattivo funzionamento di troppa parte delle nostre istituzioni, che invece di essere al servizio del Paese rappresentano un corpo separato, che amministra soprattutto la propria ragione di esistere e ha finito per divenire un peso crescente per il mondo della produzione e della cultura viva. Un peso che assorbe una parte spropositata delle risorse senza dare servizi corrispondenti ed è divenuto pertanto gradualmente, ma ormai con tutta evidenza insostenibile. La crisi economica s’è innestata su questa situazione in modo disordinato, cristallizzando alcune situazioni e spazzandone via altre, senza una preventiva approfondita valutazione delle priorità e degli interessi generali. A noi sembra che non sia possibile rinviare ancora nel tempo la soluzione di problemi così fondamentali e che quindi s’imponga un dialogo aperto con le forze che possono imprimere una svolta riformatrice al settore della progettazione e delle costruzioni. Ci proveremo dalle pagine di questa rivista. 15



L’INTERVENTO

Il Dialogo Progettuale per il Mediterraneo di Pier Paolo Maggiora

Quello del Dialogo Progettuale è un metodo, già sperimentato con successo, che affronta in modo efficace i problemi della progettazione del territorio sullo scenario globale. Il Dialogo è estremamente necessario in momenti come questo, in cui si deve delineare un futuro che non può essere la proiezione lineare di tendenze passate, ma in cui va imposta una discontinuità significativa e rilevante, quasi un salto evolutivo. Solo la pluralità e il confronto delle voci consentono infatti di allargare l’unilateralità del “progettare solitario”, favorendo quella “creatività dei molti” che è la condizione metodologica necessaria per ideare e realizzare interventi complessi all’altezza del terzo millennio. La convergenza dei due livelli di dialogo (territoriale e architettonico) conduce a fare di ogni grande progetto un Progetto/Sistema/Sostenibile. Ciò significa superare la logica ristretta degli interventi frammentati ed episodici. Occorre delineare sin dall’inizio un quadro d’insieme di grande portata, in cui collocare tutti i singoli interventi ai massimi livelli della qualità. Il progetto architettonico e territoriale sarà chiamato a insediare nello spazio fisico un “valore territoriale aggiunto”. Ed è centrale, in tal senso, l’attuale sfida mediterranea. L’innovazione dovrà liberamente fluire nei rapporti reciproci tra le due sponde del mare, porsi in competizione con quanto avviene alle frontiere mondiali della

C&P

conoscenza e della tecnologia, innescare un ciclo virtuoso e benefico per i paesi che il Mediterraneo accoglie e per l’intero “Sistema Mondo”. Quanto alle partnership con l’Italia, che i Progetti/Sistema/Sostenibili sono chiamati a favorire, una base di interlocuzione effettiva rinvia alla condivisione del senso di un patrimonio che affonda le sue ragioni nella lunga durata storica. Rivolgersi alla storia non deve mai essere un’operazione di sterile consolazione verso un mondo che non c’è più, ma ha l’obbligo di determinarsi come operazione di investimento concettuale sul futuro. Lo straordinario patrimonio artistico, monumentale e ambientale della sponda sud del Mediterraneo, sarà quindi da intendere come “componente genetica di una forma mentale”, che potrà renderlo un “termine vivo di identificazione e desiderio”, per chi lo abita, lo visita, lo conosce. Le opere logistiche e infrastrutturali saranno mezzi e strumenti necessari per un obiettivo tanto ambizioso. Collocate in questo quadro di significato le attività di impresa che i Progetti/Sistema/Sostenibili consentiranno di generare – a partire dall’Italia – verranno a porsi con successo nel quadro dell’ineludibile competizione economica fra le grandi aree megalopolitane globali, oltre ad assumere il valore aggiunto di proposte culturali di identità e di reciproco arricchimento, che si presenteranno orgogliosamente al mondo. www.pierpaolomaggiora.com 17


La Milano di domani Un progetto anticiclico che riqualificherà lo storico quartiere della Fiera di Milano entro il 2015 e creerà migliaia di posti di lavoro. Questo è CityLife, un ambizioso intervento affidato a tre guru dell’architettura di Michela Evangelisti

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«Un appuntamento con il futuro». Così l’ha descritto il sindaco di Milano, Letizia Moratti. Si tratta del maggiore progetto in corso di riqualificazione urbana da parte di un operatore privato a livello europeo e prende il nome dalla società CityLife, partecipata da Generali Properties, Gruppo Allianz e Immobiliare Milano Assicurazioni. È stato affidato agli architetti di fama internazionale Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind e l’obiettivo da centrare è il recupero dell’area già occupata dal polo storico della Fiera di Milano. L’intervento, che si estende su un’area di oltre 360.000 m2, prevede un mix articolato e bilanciato di funzioni pubbliche e private, fra residenze, uffici, aree verdi, cultura, shopping e tempo libero. Il sistema di trasporti che serve il quartiere si arricchisce del passaggio della C&P


MILANO | City Life

nuova linea metropolitana 5 con fermata Tre Torri, «perché ogni nuovo insediamento urbano – spiega il sindaco – deve essere dotato di infrastrutture di trasporti e dei servizi». CityLife sarà la più grande area pedonale di Milano, grazie alla precisa scelta di spostare viabilità e parcheggi a livelli interrati. Sarà occupata da oltre 170.000 mq di verde, con un parco pubblico che diventerà per dimensioni il terzo del centro di Milano. Un altro fulcro di CityLife è rappresentato dalla piazza al centro dell’area, su cui si affacciano le tre torri concepite da Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind. Completano la fisionomia di CityLife le residenze Hadid e Libeskind, il nuovo Museo di Arte Contemporanea disegnato da Libeskind e il Palazzo delle Scintille, centro per le attività ricreative e di apprendimento dei più piccoli. C&P

Lo scavo relativo alla piazza e alle tre torri è terminato, sono in corso i lavori per accogliere la linea 5 della metropolitana e si è concluso il 27 ottobre scorso il concorso internazionale per la progettazione del parco pubblico, vinto dallo studio Gustafson Porter (UK), in gruppo con !Melk e One Works. «CityLife è la dimostrazione che la nostra città mantiene la propria tradizione ma innesta sempre elementi innovativi – ha concluso il primo cittadino –. Ringrazio tutti coloro che hanno pensato a questo grande progetto per Milano, in un quartiere che ha segnato la storia stessa della nostra città attraverso l’Esposizione universale del 1906, la Fiera campionaria e altre significative realizzazioni. Solo da un grande lavoro di squadra nascono progetti come questo». 19


MILANO | Zaha Hadid

Forme fluide del nostro tempo La rigida struttura della maggior parte delle città va stretta a una società contemporanea sempre più complessa e dinamica, flessibile e globalizzata. Un’architettura caratterizzata da fluidità e continuità è la proposta di Zaha Hadid di Michela Evangelisti

La fluidità è il leitmotiv di tutti i suoi progetti e la scioltezza del disegno a mano libera è una firma autografa che accompagna le sue creazioni fino a rivelarsi nelle linee dinamiche e continue degli edifici finiti. Zaha Hadid, fra gli interpreti più significativi del decostruttivismo in architettura, dopo l’infanzia irachena si è trasferita a Londra, dove ha ora sede il suo studio, fucina di forme e creatività. Vincitrice nel 2004 del premio Pritzker per l’architettura, ha sempre combattuto il pregiudizio con le unghie della professione e i suoi progetti hanno letteralmente cambiato il modo di percepire lo spazio urbano, in Italia e nel mondo. La sua proposta per il museo Maxxi di Roma ha convinto la giuria grazie alla capacità di integrarsi nel tessuto urbano e di superare l’idea dell’edificio-museo. La complessità dei volumi, le pareti curvilinee, il variare e l’intrecciarsi 20

delle quote determinano una trama spaziale e funzionale molto articolata che i visitatori possono attraversare seguendo percorsi sempre diversi e inaspettati. Anche per la torre progettata per CityLife la Hadid è rimasta fedele ai concetti di movimento e dinamismo. «La torre è una tipologia di costruzione spesso trattata come strategia statica e fissa; una “soluzione” tecnocratica di ingegneria, governata da fattori economici specifici – spiega –. Per CityLife, invece, abbiamo voluto considerare l’ubicazione urbana della torre come vero elemento generatore dell’identità del progetto. I flussi pedonali di passaggio nel sito danno idealmente origine a un vortice che risulta essere, appunto, il dinamismo progettualmente ricercato». Nell’ambito del progetto ha realizzato anche un blocco di C&P


In apertura, l’architetto Zaha Hadid. In questa pagina, render della Torre Hadid, nell’ambito del progetto CityLife a Milano


Foto Iwan Baan

residenze: quali sono le forme e i materiali che possono oggi assicurare l’equilibrio tra esigenze estetiche ed esigenze funzionali, qualità dell’abitare e vincoli economici? «I materiali e le forme utilizzati per le residenze CityLife sono in continuità con la ricerca architettonica e progettuale effettuata dal nostro studio nel corso degli anni, che coniuga un linguaggio architettonico e formale d’avanguardia con la cura dei materiali e della loro sostenibilità ambientale. Legno, vetro, pannelli di cemento fibrorinforzato sono usati per caratterizzare gli spazi e sottolineare in maniera inconfondibile gli ambienti e le architetture, all’interno e all’esterno degli edifici. In questo contesto è fondamentale anche l’uso e la progettazione dell’illuminazione, sia naturale che artificiale. La prima esaltata dall’uso di grandi vetrate, sia negli spazi pubblici che privati, la seconda disegnata con lunghe linee 22

di luce dalle forme dinamiche e di grande efficienza energetica». Il progetto CityLife dà grande importanza anche alle aree verdi e pedonali: in che modo le fa dialogare con i suoi edifici? «Nei nostri progetti è sempre stato fondamentale il rapporto con il paesaggio – il landscape – a tal punto che gli edifici stessi ne diventano concettualmente parte, fondendosi con esso grazie alle loro forme fluide e organiche. Le stesse strategie di ricerca e progettazione sono applicate sia agli edifici che alle aree verdi, che assumono pertanto la medesima importanza da un punto di vista compositivo. Il verde non è mai casuale o trattato come un riempitivo, ma studiato nelle sue forme, nei suoi percorsi e nei materiali. Dall’interno degli edifici e degli appartamenti, la vista del verde circostante è esaltata dalle ampie vetrate e dai C&P


MILANO | Zaha Hadid

L’interno del Maxxi di Roma

parapetti in cristallo delle terrazze. L’abbondanza di spazi di cerniera tra il lotto residenziale e il verde pubblico, quali il verde condominiale, i giardini privati, i percorsi di collegamento pedonali e ciclabili, sottolineano la simbiosi tra il complesso residenziale e il grande parco circostante». Qual è la sua concezione dello spazio urbano? «Credo che la complessità e il dinamismo della società contemporanea non possano più essere contenuti nella rigida struttura tipica della maggior parte delle città sviluppatesi durante l’era industriale; ora tutto è divenuto più flessibile e globalizzato, abbiamo a che fare con diagrammi sociali molto più complessi rispetto a quelli del ventesimo secolo. È quindi necessario rapportarsi alle mutate circostanze sociali attraverso un’architettura caratterizzata da fluidità e continuità. Il nostro studio esplora soluzioni di C&P

design organico, un linguaggio architettonico in continua evoluzione che enfatizza forme curvilinee, in grado di facilitare la transizione tra i diversi elementi. Ogni nostro progetto è il risultato di questo approccio che genera una sensualità scultorea caratterizzata da una logica formale coerente». Tra i diversi progetti che ha realizzato in Italia c’è anche la stazione marittima di Salerno. Cosa connota maggiormente questo progetto? «La stazione marittima di Salerno s’inserisce in un più ampio ridisegno del lungomare e del porto di Salerno ed è pertanto intesa come il catalizzatore di una serie di progetti volti a trasformare la città e sviluppare la sua dotazione di strutture turistiche. Per la conformazione orografica del territorio, l’edificio è il punto focale di molte prospettive e vedute urbane, divenendo così un simbolo, un 23


MILANO | Zaha Hadid

Dobbiamo arrivare a una stratificazione che permetta di integrare i luoghi dove abitiamo, lavoriamo e spendiamo il nostro tempo libero

metaforico faro della città, una traccia simbolica sul tracciato cittadino reso complesso dalle influenze normanno saracene. La stazione marittima funge, sia dal punto di vista percettivo che funzionale, da elemento di mediazione tra la solidità terrestre e la fluidità del mare. Il progetto forgerà un nuovo e più intimo rapporto tra la città e l’acqua. Alla pari di un’ostrica, il suo guscio duro agirà da protezione contro l’intenso sole mediterraneo e accoglierà al suo interno elementi fluidi». Dopo il Maxxi di Roma è stata da poco inaugurata l’Opera House di Guangzhou, in Cina. Qual è il futuro dell’architettura come creatrice di contenitori di arte e cultura? «L’architettura è una componente vitale e indispensabile della cultura così come lo sono la scienza, l’economia, la politica e l'arte. La cultura, a propria volta, rappresenta un aspetto fondamentale dello spazio urbano e della vita all’interno di esso. È 24

Sopra, render delle residenze disegnate da Zaha Hadid per CityLife

tuttavia necessario cambiare totalmente il modo in cui ci rapportiamo alla città, dobbiamo andare oltre la rigida separazione in zone e arrivare ad una stratificazione che permetta di integrare i luoghi dove abitiamo, lavoriamo e spendiamo il nostro tempo libero. I progetti del nostro studio sono molto vari da un punto di vista formale e siamo sempre interessati ad ampliare il nostro repertorio, cercando di mettere in relazione in modo assolutamente unico ogni nostro progetto con il contesto nel quale è inserito. Lungi dal voler creare dei semplici oggetti rispondenti solo a logiche estetiche o autoreferenziali, il nostro lavoro è teso alla ricerca di soluzioni che permettano non solo la fruizione di un determinato evento o attività culturale, bensì fungano da catalizzatori di scambio, aggregazione e interazione tra le persone. Credo di poter dire che il Maxxi e l’Opera House di Guangzhou rappresentino esempi quanto mai lampanti di questo nostro approccio». C&P



Foto Stack Studio


L’architetto Daniel Libeskind e un render del progetto per CityLife

Foto Michael Klinkhamer

MILANO | Daniel Libeskind

Ponti verso il futuro Ogni città rappresenta una sfida. Daniel Libeskind la affronta prendendo ispirazione dal passato e guardando avanti con entusiasmo. Nella convinzione che l’architettura oggi stia vivendo un nuovo rinascimento di Michela Evangelisti

A molti piace definirlo un prodigioso visionario, per la sua capacità di vedere quello che non c’è e quello che potrebbe esserci, di dare una forma allo spazio, di far parlare qualunque materiale scelga per raccontare la storia dello spirito umano attraverso gli edifici che costruisce. Daniel Libeskind, figura internazionale dell'architettura e dell’urban design, è l'uomo che ha progettato il Museo Ebraico di Berlino e che ridisegnerà Manhattan a partire dalle rovine del World Trade Center. Nato in Polonia da genitori sopravvissuti all’olocausto, lavora con l’ansia della memoria ma anche pieno di fiducia, «cercando di costruire ponti verso il futuro fissando il passato con occhi limpidi, ispirato dalla luce, dal suono, da spiriti invisibili, dalla netta coscienza del luogo e dal rispetto per la storia». Tra i suoi lavori 27


Un’immagine dell’interno del Museo ebraico di Berlino

attualmente in costruzione, il museo di Storia militare a Dresda, la “L Tower” a Toronto e gli edifici per il progetto CityLife, al quale rivolge parole di entusiasmo. «Ovunque le città sono in competizione per raggiungere il più alto livello nel modo di vivere, nella cultura e nella sostenibilità – spiega –. CityLife porta la già alta qualità di vita di Milano verso un futuro ancora più elevato e sostenibile. Con il museo dell’arte contemporanea combinato a un grande parco centrale, spazio residenziale, commerciale, culturale e pubblico sono cuciti insieme in questo unico importante progetto». Come ha concepito il progetto della torre per CityLife? Quali sono state le sue fonti d’ispirazione? «L’ispirazione per la torre centrale di CityLife è venuta da un disegno per una cupola di Leonardo Da Vinci che l’artista non ha mai potuto completare; ho pensato che questa torre speciale con i suoi due vicini potesse formare una cupola virtuale nel cielo e incorniciare un’ampia piazza pubblica aperta al parco centrale». Nel quartiere sorgerà anche il museo di arte contemporanea da lei progettato: quali forme e 28

materiali ha scelto? «Ancora una volta ho tratto ispirazione dal grande Leonardo Da Vinci, in particolare dal suo famoso uomo vitruviano. Ho pensato tra me e me a come Leonardo avrebbe reinterpretato questa figura nel cerchio e nel quadrato oggi. Così ho dato vita a un edificio che inizia come un quadrato e si trasforma in un cerchio procedendo verso la parte superiore. Questa forma dinamica crea un museo contemporaneo del tutto unico per la città di Milano, che offre spazi di esposizione estremamente flessibili. Mentre questa architettura è fortemente radicata nel linguaggio del suo contesto, il rivestimento in metallo per l’esterno dell’edificio è rispettoso del bisogno di utilizzare risorse rinnovabili, che sono sia convenienti sia facili da mantenere». Quali direzioni sta prendendo l’architettura contemporanea? «Penso che ci sia un “rinascimento” nell’architettura oggi. Un maggior numero di persone sono interessate al valore culturale di questa disciplina che, grazie in particolare al rispetto della sostenibilità e delle C&P


Foto Militrhistorisches Museum der Bundeswehr Meier

Foto SPINE 3D & SDL

MILANO | Daniel Libeskind

In alto da sinistra, in senso orario, il “Creative Media Center” di Hong Kong, il progetto originario per il World Trade Center e una foto di cantiere del “Military History Museum” di Dresda

questioni ecologiche, sta determinando uno standard sempre più alto per il settore. L’aumento del senso pubblico di consapevolezza e di coinvolgimento è un vantaggio per tutti noi». Come i nuovi edifici devono dialogare con l’esistente e con le tradizioni architettoniche e culturali del Paese nel quale sorgono? «La nuova architettura deve essere al tempo stesso radicata nella storia e guardare avanti. Nel caso ad esempio del progetto CityLife, il luogo è composto in modo da integrare le dimensioni del tessuto urbano esistente, collocando strutture residenziali più piccole lungo il perimetro, estendendo nel sito i corridoi vista e creando all’interno ambienti contemporanei». Tra i suoi progetti under construction il Creative Media Center di Hong Kong, il Military History Museum di Dresda e la L Tower a Toronto. Quali sono le principali difficoltà e differenze che incontra nel costruire in luoghi tanto diversi? «Ogni città ha le sue sfide, ma è questo che mi piace C&P

del lavorare in tutto il mondo. Si tratta di prendere parte a differenti culture e lavorare con diversi tipi di comunità pubbliche e private allo stesso modo. Ogni progetto ha un’unica missione, la qualità, e una storia che è la fonte del mio disegno architettonico: sono tutte esperienze diverse e ugualmente speciali per me». Le è stata affidata la ricostruzione del World Trade Center dopo gli attentati del settembre 2001: che cosa ha significato per lei questa investitura? «Come immigrato a New York questo progetto ha avuto un personale significato per me. Ho voluto dare riconoscimento alle terribili morti che sono avvenute in questo luogo, guardando al tempo stesso al futuro con speranza. L’architettura rappresenta l’intensità della vita, gli aspetti buoni dell’America, quell’energia e quella fiducia nel progresso e nella libertà che la caratterizzano. Sono davvero orgoglioso di vedere che i lavori hanno avuto inizio: è incredibile vedere la costruzione in corso e questo fantastico progetto che si sviluppa». 29




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C&P

Foto Peter Guenzel


Foto Francesco Jodice

TORINO | Benedetto Camerana

In apertura, Benedetto Camerana. Nelle altre immagini, l’area servizi e l’area residenziale del villaggio olimpico di Torino

La città che rinasce dall’arco Benedetto Camerana osserva i nuovi simboli architettonici di Torino, frutto di un passaggio che traina la città sabauda verso una nuova epoca post-industriale di Andrea Moscariello

Torino, città dai mille volti. Industriale, postbellico, sabaudo, militare, artistico. Un universo spazio-temporale che riflette nell’architettura il suo carattere sociale e la sua eredità storica. A metà degli anni duemila, l’ultima grande trasformazione. Con le Olimpiadi del 2006, infatti, il capoluogo piemontese ha arricchito la propria anima urbana acquisendo nuovi simboli e funzionalità strutturali. Fautore del villaggio olimpico è l’architetto Benedetto Camerana, il quale ha trovato in Torino un terreno fertile che ha ispirato il suo lavoro. «Torino è una città savoiarda, estremamente pianificata, costruita regolarmente nei secoli, ordinata – spiega l’architetto –. Qui le grandi strade hanno un carattere uniforme, come se i suoi palazzi fossero in divisa e C&P

posti in fila per una parata militare». Sì, ma Torino è anche molto altro, dopo l’epoca dei Savoia e il fascismo vi sono stati il boom industriale e la crescita delle sue periferie residenziali. Quale strada sta percorrendo oggi la città? «Si sta evolvendo in termini quantitativi importanti, attraverso grandi pianificazioni e aree da sviluppare e riqualificare. Certo, alcune parti sono meno riuscite di altre, ma credo di poter affermare che, mediamente, Torino stia crescendo bene. Il problema principale che si è posto a partire dagli anni duemila, però, è relativo al riutilizzo delle aree industriali dismesse». Perché le città come Torino faticano a trovare una nuova raison d’etre per queste aree? «Il motivo è semplice. A differenza di ciò che è 33


Foto Reinhard Görner

accaduto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando nelle periferie si sono voluti creare dei grandi quartieri residenziali, alcuni anche molto ben riusciti, pensiamo solo a Falchera, oggi l’architettura è posta dinanzi a una sfida molto più complessa. Ora si tratta di andare a ricostruire su un’area che non parte da zero. Intervenire su spazi già sfruttati, sui cosiddetti brown fields, non è semplice, è un campo su cui la disciplina architettonica e progettuale non ha uno storico di esperienze o una letteratura scientifica vasta». È quindi un ambito ancora sperimentale? «Per molti versi sì. Improvvisamente, con lo sviluppo dei nuovi piani regolatori, le città hanno posto sul mercato milioni di metri quadrati di spazi dismessi da riqualificare. E non sempre i risultati sono buoni». A proposito di sperimentazioni, il suo celebre environment park, creato alla fine degli anni 34

Novanta, ha aperto la strada a una nuova concezione di sviluppo urbano. «Con quel progetto si è segnato un tassello importante per ciò che concerne l’ecologia urbana. Oggi occorre sviluppare le politiche ambientali non soltanto verso l’esterno dei centri storici, ma anche all’interno delle ex aree industriali. La scelta di rilocalizzare il parco all’interno della spina 3 all’epoca fu rischiosa ma intelligente. Si comprese Il bisogno di ridurre il consumo del territorio, non ci si può espandere in eterno. Soprattutto, la città si è arricchita con un nuovo grande polo di ricerca tra industria e università. Il terzo punto, fondamentale, sta poi nella sperimentazione. Con l’environment park abbiamo sovrapposto un parco ad alcuni edifici molto bassi. Si è così creata anche una cerniera verde tra l’area industriale e il centro cittadino. Torino non va pensata a blocchi, a comparti isolati. L’architettura deve connettere le varie parti dell’urbe e anche le zone di collegamento devono avere una loro dignità strutturale, di significato, non puramente funzionale». C&P


TORINO | Benedetto Camerana

Foto Alberto Piovano

A lato, dall’alto, l’environment park e il progetto Porta Europa di Torino

Oggi occorre sviluppare le politiche ambientali non soltanto verso l’esterno dei centri storici, ma anche all’interno delle ex aree industriali

A questo proposito anche con le Olimpiadi si è creata una grande opera di “passaggio” tra due zone della città, la famosa passerella olimpica che collega la zona di piazza Galimberti al Lingotto. Lei come giudica questo progetto? «Grazie alla passerella si è infranta una cesura urbana, determinata dalla ferrovia, che staccava due quartieri con un confine lungo due chilometri e mezzo. Quest’opera ha in sé un connotato simbolico importantissimo, anche dal punto di vista visivo. L’arco inclinato che regge il tutto è divenuto in breve tempo la testimonianza di una Torino che cambia, che rinasce nella sua epoca post-industriale. L’arco, a differenza di molte altre strutture, non è pesante, rende l’idea della leggerezza, è minimale, è elegante». Una forma a cui lei è molto affezionato, e lo si evince dal suo villaggio olimpico. «Purtroppo, però, a differenza della passerella questo villaggio è rimasto un po’ indietro nel suo C&P

riutilizzo post-olimpico. A cosa si riferisce in particolare? «Alle arcate dei mercati generali. A distanza di cinque anni sono ancora lì, prive di un utilizzo. Ricordo che per realizzare il progetto si sono spesi circa 27 milioni di euro di soldi pubblici. Mi auguro che la nuova amministrazione riesca a utilizzarlo in maniera funzionale». Quali altri progetti torinesi la vedranno coinvolto in futuro? «In primis Porta Europa, una grande novità per Torino, essendo il suo primo vero grande edificio rivolto ai servizi, agli uffici. È una torre alta 100 metri posizionata in fondo a viale della Spina, uno dei punti più importanti in termini di assialità e prospettiva urbana. Edificio che prevediamo si alimenterà utilizzando fondi di energia rinnovabile autoprodotte, a cominciare dal geotermico. Poi mi concentrerò sulla chiesa dell’Arsenale della Pace, recentemente benedetta anche dal Papa, e sul nuovo museo della Juventus». 35


Faro di una nuova urbanità Porta Susa, work in progress. È in cantiere la stazione che si apre alla città. A illuminare la nuova scenografia urbana è la luce naturale, «che raggiungendo i binari sotterranei, dà al luogo una dignità pubblica, penetrabile» di Paola Maruzzi

Sopra, il cantiere di Porta Susa, febbraio 2011. A destra, lo schizzo del progetto vincitore del concorso

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I lavori sono «in fase avanzata, nonostante l’ecatombe delle imprese italiane in questi hard times dell’economia globale. Speriamo di inaugurare una prima parte entro l’estate prossima e la restante agli inizi del 2012». Ad affermarlo è Silvio d’Ascia, che firma l’ambiziosa rivisitazione nel cuore del capoluogo piemontese. Se il corpo di Porta Susa è in fieri, sulla carta è ben leggibile la sua matrice concettuale: più che un luogo di smistamento di cose e persone, la stazione torinese avrà una funzione di interscambio e socialità a tutto tondo. Infatti, sin dalla sua origine, nel 2001, il progetto è stato concepito «come un grande spazio pubblico longitudinale, aperto alla città e al quartiere, nel quale si andrà a prendere il treno ma anche solo un caffè». In sintesi, da non-luogo “indifferente” alla vita che gli scorre accanto, la stazione «diviene strada, passage, continuum spaziale, centro di una nuova urbanità». L’imperativo, e la sfida C&P


TORINO | Porta Susa

architettonica, diventa così quella di portare la città e la sua espressione più tangibile, la luce naturale del giorno, fin dentro gli ingranaggi prosaici dei binari, a dieci metri sotto la quota stradale. È, detta in termini più poetici, «l’idea della stazione come nuovo faro. La luce garantisce così lo statuto di luogo e di spazio pubblico». C’è, naturalmente, tutta una serie di trovate architettoniche che agevolano questa sempre più stretta connessione tra i due macro sistemi: le arterie strategiche funzionali al transito e le metaforiche “piazze” contenute nella polis. Tra gli accorgimenti, «il movimento sinuoso della galleria, che segue l’andamento dei flussi pedonali urbani provenienti dalla città. La galleria, orientata in direzione nord-sud, si piega con i suoi percorsi interni per portare la luce naturale e il cielo di Torino fino alla banchina dei treni, che sono a 10 metri sotto terra, e della metropolitana, a 20 metri. Poi c’è il ritmo serrato della struttura degli arconi, scandito dalla presenza delle numerose aperture lungo lo C&P

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TORINO | Porta Susa

Sezione della nuova stazione di Porta Susa a Torino

La galleria in acciaio e vetro si propone come esplicita rivisitazione delle grandi halles moderne, pensate come luoghi di incontro

sviluppo longitudinale della galleria, che è attraversata in linea trasversale da tre ampi passaggi interni e delimitata da altri due all’estremità nord e sud del lotto, che collegano la città da est a ovest, a quota stradale in continuità con gli assi preesistenti. La presenza di tali passaggi accentua così la ricucitura urbana realizzata grazie alla spina centrale, trasformando la stazione in un luogo cardine della città, in uno spazio pedonale permeabile. Insomma, struttura, programma, funzionamento, finiture, riferimenti, materiali concorrono tutt’insieme a creare questa reale continuità tra il dentro ed il fuori, tra passato e futuro». Con un occhio all’innovazione e l’altro al filone storico delle gallerie urbana in stile ottocentesco: guardate con la giusta distanza, le trasparenze di Porta Susa riprendono una serie di accorgimenti d’epoca. «La galleria in acciaio e vetro si propone come esplicita rivisitazione moderna delle grandi halles moderne, pensate come luoghi di incontro e di scambio. In questo modo si rafforza anche il

significato di stazione come edificio-simbolo del movimento e del viaggio, inteso nella sua dimensione mitica, come lo era un tempo appunto». Solo che questa volta il simulacro dell’oggetto treno scopare per essere ricollocato al di sotto, nella spina centrale». La continuità con il passato è doppia, si lega alle atmosfere dei Savoia e alla storia stessa delle ferrovie. «I materiali usati, infatti, erano tipici delle grandi stazioni italiane ed europee. Delle strutture storiche si è preso anche il principio della ventilazione naturale, attraverso la separazione tra i vari elementi delle scaglie di vetro per garantire la necessaria porosità all’aria della galleria interna». In fase di progettazione bisognava, infine, «conservare la presenza simbolica del treno sulla scena urbana e trovare una forma architettonica contemporanea. Una forma scolpita nella memoria collettiva e nell’immaginario di ciascuno che potesse subito far pensare subito alla ferrovia, ormai scomparsa dallo scenario urbano “a quota stradale”».

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Differenziazione e identità Dallo Zen di Palermo alla Bicocca di Milano per arrivare a Trento Nord: l’architetto Vittorio Gregotti ha realizzato vari progetti di riqualificazione delle periferie, il cui ruolo deve essere «quello di diventare città» di Riccardo Casini

Rendere le periferie parte integrante della città, donando loro al contempo una propria identità: è sicuramente questa una delle grandi sfide della pianificazione urbanistica contemporanea. In realtà, sempre più spesso oggi si assiste in queste zone alla nascita di vere e proprie cittadelle commerciali, alle quali viene delegato il compito di fungere da cuore pulsante e da centro aggregativo del quartiere. Ma la realizzazione di strutture di questo tipo aiuta le periferie a interagire con i centri storici o le allontana da loro? E in questo caso, quali tipi di servizi è necessario introdurre nei quartieri-satellite per evitare il loro isolamento? Interrogativi affascinanti, che costituiscono grandi stimoli per urbanisti e architetti. Tra questi, Vittorio Gregotti e il suo studio hanno incentrato buona parte della loro attività sulla riqualificazione delle periferie, con esiti a volte controversi e oggetto di discussione: dallo Zen di Palermo alla Bicocca di Milano, fino ad arrivare oggi alla creazione ex novo di vere e proprie new town, come a Shangai. Professor Gregotti, quale deve essere il ruolo delle 40

periferie nella città contemporanea? «Potrei rispondere: quello di diventare città, cioè di essere dotate di funzioni differenziate, abitate da una società pluriclasse, oltre a possedere servizi rari attrattivi per l’intera città e proporre un’identità di disegno urbano, capace di durare nel tempo». In che modo è cambiata la pianificazione urbanistica nelle città italiane con il passaggio dal vecchio Prg ai nuovi Piani strutturali (Psc)? Quali possibilità ha introdotto questo strumento? «Sembra cambiata solo nei suoi elementi burocratici, ovvero nella progressiva deregolazione che pensa che la libertà sia solo la mancanza di impedimenti, e non in termini di realizzazione di un progetto; rinunciando ancora una volta, a favore dei limiti politico-amministrativi di un territorio, a mettere in atto il principio di un comprensorio organico sul piano economico e strutturale da pianificare proposto dalla cultura urbanistica da più di quarant’anni». Lei ha scritto un libro intitolato Contro la fine C&P


Il progetto per l’area Consorzio bonifica e sviluppo Trento Nord; nel tondo, l’architetto Vittorio Gregotti

dell’architettura. In che modo è possibile evitare questo scenario e ribadire oggi il ruolo di questa disciplina? Come risponde a chi parla di uno scollamento tra i grandi architetti e le esigenze delle città contemporanee? «Quelli che lei chiama “i grandi architetti”, cioè quelli sostenuti dalle mode mediatiche, non hanno alcun interesse alla storia, al contesto, e quindi al disegno della città e ai suoi scopi civili, ma solo all’autonomia del proprio oggetto ingrandito. Lottare contro tutto questo è forse ciò che potrebbe evitare all’architettura come arte civile di scomparire». Quali sono le principali differenze nelle modalità di intervento, sia rispetto al paesaggio esistente che in termini di libertà di manovra, tra l’Italia e altri Paesi? «Nei nostri anni le difficoltà non sono costituite nei vari Paesi dalle differenze di civiltà, che sono anzi sempre colme di nuovi materiali e punti di vista con cui confrontarsi. Il problema è piuttosto la mania di autocolonizzazione di cui sono affetti molti Paesi e che imita – anche se non è chiaro perché – gli aspetti peggiori C&P

di quelli dominanti nei costumi, e che gli architetti alla moda cercano con le loro bizzarrie mercantili di rispecchiare senza alcuna distanza critica». A questo proposito, ha presentato un nuovo progetto per l’area di Trento Nord. In cosa differisce da quello originario del 2004? «Sono passati più di sette anni da quando abbiamo proposto quel progetto. Le sembra che al mondo e in Italia non sia cambiato nulla? Nonostante questo, abbiamo cercato di essere fedeli ai principi insediativi a cui abbiamo fatto riferimento fin dall’inizio, ma con le correzioni imposte dai nuovi limiti fissati dalle autorità». Quali ostacoli ha incontrato in questi anni? Quali sono presenti ancora oggi a causa della variante sulla zona e dei “paletti” che questa ha fissato? «Gli ostacoli sono sempre costituiti in Italia dalle difficoltà di decidere, cioè di scontentare alcuni. Ma la nostra fiducia, così come la pazienza dei nostri clienti, sinora ha resistito». 41


L’architetto Mario Botta; nella pagina a fianco, render della biblioteca universitaria di Trento

Dare corpo alla polis Riportare al centro della città di Trento la cultura e i suoi luoghi istituzionali. In cantiere, la nuova biblioteca universitaria ideata da Mario Botta. «Non sarà solo un contenitore di libri, ma una piattaforma di socialità» di Paola Maruzzi Dopo il Mart, Mario Botta torna a soppesare la fruibilità degli spazi pubblici firmando il progetto della nuova biblioteca universitaria di Trento. Sorgerà in via Verdi, lungo «quel tracciato ottocentesco voluto per collegare il duomo e il punto estremo della città, l’Adige». La collocazione non è casuale, anzi apre tutta una serie di questioni. Se lo sviluppo urbanistico delle città storiche europee è centripeto, allora i nuovi edifici istituzionali non possono sottrarsi al compito di catalizzare il passaggio di tutti gli attori sociali. L’obiettivo è far fronte al progressivo “svuotamento” di luoghi simbolo. Ecco quindi che «la biblioteca sarà aperta a tutta la città e diventerà un punto d’incontro per studenti e residenti». Lei ha definito la biblioteca di Trento una “cattedrale laica della cultura” «La metafora che ho usato è forse un po’ forzata, ma è utile per scoprire la simbologia della disposizione spaziale: la biblioteca sorgerà in via Verdi, dove ci sono già alcune strutture universitarie, per diventare quasi elemento di contrappunto al Duomo, collocato nel cuore del centro storico. La definizione di “nuova cattedrale” va quindi concepita in questa dimensione di dialogo tra un istituzione religiosa e una laica. Questa dualità dà un ulteriore peso al nuovo progetto. La cultura è di per sé un 42

patrimonio spirituale importante e, di rimando, la biblioteca diventa luogo della memoria, dei saperi stratificati». Che significato acquista “ingombrare” la città con un luogo di cultura in un’epoca in cui i saperi si fanno immateriali? «È una presa di possesso da parte dei saperi cartacei, che vanno riscoperti in chiave complementare ai nuovi linguaggi virtuali e istituzionalizzati attraverso la fisicità. L’architettura ha un po’ questo potere: rendere tangibile e fruibile ciò che altrimenti rimarrebbe inespresso. Nel caso di Trento, la fisicità della biblioteca rafforzerà l’identità universitaria che questa città si è data». Questo a Trento cosa produrrà? «Innanzitutto ci sarà un arricchimento reciproco tra università e tessuto urbano. La nascita di una biblioteca è un modo strategico per far risvegliare i centri mediopiccoli. Convogliare i luoghi della formazione nella dimensione pubblica è un’attitudine molto interessante, anche alla luce del fatto che i centri storici si stanno pian piano svuotando delle attività produttive. Insomma, non si può pensare di relegare i contenuti in aree commerciali periferiche. La biblioteca - che ha la stessa dignità delle C&P


chiese, dei teatri, dei mercati - ci ricorda la funzione delle città europee: quella di rafforzarsi grazie alla continua stratificazione. E Trento va in questa direzione». In molte città italiane, invece, si assiste al progressivo allontanamento dei campus universitari. «Non sono affatto d’accordo. I saperi non possono essere ghettizzati. L’Italia non può imitare il modello nato in America. Oggi lo sforzo che deve essere fatto è ben altro: compensare la perdita d’identità della città storica. L’università, con tutti i suoi contenuti, deve essere compatibile con la polis. Solo in questo modo si generano nuovi input, anche economici». Per far questo di quali accorgimenti architettonici si avvarrà la biblioteca di Trento? «Abbiamo insistito sulla distribuzione funzionale degli ingressi, disposi su tre angoli, facilitando l’accesso da più punti strategici. Ma, soprattutto, abbiamo ampliato il più possibile l’area di transizione tra la città e la biblioteca, l’atrio accoglierà infatti una serie di attività “extra”: una sala per gli incontri, spazi espositivi e polifunzionali, una caffetteria e una copisteria. In questo modo il transito continuo di gente verrà assicurato anche al di là degli orari di apertura della biblioteca». C&P

Intervenire su un tessuto urbano già “affollato” di edifici storici è un’operazione delicata. Tra continuità e rottura, quale vie intermedie cerca? «Credo che oggi una biblioteca debba essere testimone della contemporaneità. Questo non vuol dire entrare necessariamente in conflitto con gli edifici preesistenti. Per esempio, ho scelto di usare materiali minerari tipici del Trentino per dialogare, a distanza, con il Duomo. Ecco quindi che verrà fuori una struttura autonoma, ma intessuta di storia». La sua è un’architettura “di montagna”, continentale. Oltre a una certa propensione per la verticalità, in cos’altro il contesto influenza le scelte progettuali? «Sicuramente la fisionomia dell’ambiente si riflette nella scelta dei materiali. Prediligo quelli naturali e lapidei, la pietra prima di tutto. Credo che questa riesca a imprimere all’architettura una ricchezza che, al contrario, vetro e alluminio non sanno esprimere. Ma al tempo stesso mi piace definirmi come il più mediterraneo degli architetti svizzeri. Guardo quindi con attenzione alla luce, che è poi quella che segna il principale marcatore geografico. Al sud è più calda e non incontra la verticalità delle pareti, ma sente prima la pianura e poi il mare». 43




Aree verdi e grattacieli L’ambiziosa sfida di riqualificazione di Verona sud combina opere urbanistiche a quartieri concepiti nel verde. Vito Giacino illustra le trasformazioni in atto nei progetti firmati da celebri architetti di Elisa Fiocchi

Un milione e ottocentomila metri cubi di edificato nei quaranta progetti di riqualificazione di Verona Sud che coinvolgeranno quattro quartieri e porteranno con sè un flusso di circa 60 milioni di euro. Ecco in numeri ciò che viene annunciato come un cambiamento di enormi proporzioni nell’assetto e nella vita sociale ed economica della parte meridionale della città. «Una riqualificazione determinante, fatta di trasformazioni radicali» conferma il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Vito Giacino. «È dai primi anni Novanta che non vengono realizzate grandi opere infrastrutturali a Verona ed è ora necessario completare l’anello esterno della grande viabilità extraurbana che faccia sistema con la viabilità urbana e la rete autostradale». La premessa

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per creare un moderno sistema stradale di primo livello che renda possibili le grandi trasformazioni urbane future. «Si va verso il completamento e la razionalizzazione delle infrastrutturazioni dei settori urbani compresi tra i quartieri di S. Lucia e Borgo Roma – continua Giacino – con il completamento del sistema di teleriscaldamento, la razionalizzazione e l’estensione del sistema fognario, il potenziamento dell’approvvigionamento idrico e la razionalizzazione della rete elettrica e del gas». E per finire sarà rivoluzionato il sistema del trasporto pubblico con la previsione di una linea filobus lungo l’asse principale di viale del Lavoro sulla quale sarà incardinato a pettine il sistema del trasporto locale su gomma. «Questo nuovo impianto di opere infrastrut-

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VERONA | Vito Giacino

In apertura e a fianco, render del progetto di riqualificazione dell’area sud di Verona. Sopra, il sindaco Flavio Tosi e Vito Giacino, vicesindaco e assessore all’Urbanistica, alla presentazione del progetto

turali costituirà il supporto strutturale in grado di sostenere le grandi trasformazioni urbanistico-edilizie previste nel nuovo piano regolatore». I progetti in cantiere nelle aree dismesse vantano la firma di un gruppo di archistar del calibro di Antonio Citterio, Cino Zucchi, Mario Bellini e Richard Rogers. A quest’ultimo è stato affidato il recupero delle ex officine Adige, dove nel progetto sorgerà un grattacielo di oltre 150 metri d’altezza, simbolo della nuova Verona. Altre opere saranno convogliate negli ex magazzini generali e nell’ex mercato ortofrutticolo (polo culturale e polo finanziario), nell’ex Foro boario (centro direzionale, albergo e un “wine world trade center”) e nell’ex Centrale del latte che da destinazione industriale diverrà residenziale, commerciale e alber-

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ghiera. Tra i progetti in ingresso, anche la Milano-Verona ad alta velocità che si snoda per 131 chilometri che «avrà uno scarso impatto ambientale sul territorio di Verona perchè lontano dalle aree residenziali». La grande sfida dell’intero progetto di riqualificazione consisterà dunque nel coniugare gli obiettivi di rilancio e prestigio economico della parte meridionale alle esigenze di maggiore vivibilità nei quartieri. «Una parte consistente delle risorse saranno investite per la realizzazione di aree verdi, parcheggi e servizi pubblici attualmente carenti – conclude l’assessore – e verrà riqualificata la viabilità interna all’area differenziando, e progettando di conseguenza, le diverse strade in relazione alla tipologia di traffico prevista».

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VERONA | Antonio Citterio

Un nuovo ingresso alla città Il progetto per l’area dell’ex Manifattura Tabacchi consegnerà un «complesso architettonico in grado di creare una nuova soglia tra esterno e interno». L’opera porta la firma dell’architetto Antonio Citterio di Elisa Fiocchi In apertura, uno scorcio di Piazza Ovest; sopra, l’architetto Antonio Citterio

Nella lista dei celebri nomi a cui è stato affidato il progetto di riqualificazione di Verona sud, compare quello dell’architetto Antonio Citterio, progettista di grandi opere in Italia e nel mondo. Attraverso il lavoro dello studio Antonio Citterio and Partners, fondato nel 1999 assieme a Patricia Viel, con sede a Milano e ad Amburgo, verrà trasformata un’area, quella dell’ex Manifattura Tabacchi, che si estende per 3,2 ettari e su cui si prevede un potenziale edificatorio di 43mila metri quadrati. «Il progetto è carico di responsabilità sociale perchè riconosce la monumentalità nuova della città, fatta anche di manufatti ex industriali ma di pregio, e propone spazi pubblici generosi nell’ambito di un contesto periferico» spiega Citterio, che a Verona ha già realizzato gli uffici e l’asilo C&P

aziendale per la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline. Un viaggio nell’architettura del progettista milanese attraverso le opere, in cantiere e non, tra l’Italia e l’estero. Qual è l’ispirazione e il messaggio che il suo progetto consegna a Verona sud? «Si tratta di un complesso architettonico in grado di creare una nuova soglia tra esterno e interno della città grazie ai nuovi tessuti insediativi e alla contemporaneità dell’architettura alla quale dovrà associarsi, con un’intenzione di contaminazione, il recupero di edifici esistenti di carattere particolarmente significativo. Il principio di soglia, di nuova porta urbana e il principio di contaminazione 49


hanno guidato la stesura di un progetto preliminare che non vive isolato nella sua autonomia, ma cerca un dialogo con il contesto circostante grazie alla permeabilità del tessuto edilizio proposto e alla precisa collocazione funzionale: si tratta di un progetto che interagisce con il territorio e in grado di giocare un ruolo di nodale importanza per il futuro sviluppo di Verona Sud». Come si articola tecnicamente l’intera progettazione e quali saranno gli elementi più innovativi? «A soli due chilometri da piazza Bra, su un asse di penetrazione che si innesta direttamente dall’uscita autostradale di Verona sud, l’area di trasformazione si configura come un nuovo ingresso alla città, marcatamente orientato verso un terziario evoluto con attività ricettive ed espositive. Il carattere prevalentemente pubblico-commerciale composto da un centro terziario polifunzionale e da un’area 50

Sopra, Cascina Merlata; nella pagina successiva, giardino a Bergamo

La scelta fondamentale è stata quella di aprire l’area alla città al posto di generare una enclave isolata. Il progetto è carico di responsabilità sociale C&P


VERONA | Antonio Citterio

commerciale rappresenta di fatto un’occasione di trasformazione per quest’area industriale, consentendone comunque il mantenimento della traccia. La vocazione industriale di queste aree, per altro caratterizzate da edilizia di pregio, deve in qualche modo essere ricordata nei principi trasformativi che di fatto ne aggiornano, ma non ne tradiscono completamente la tradizione funzionale. Edilizia che viene recuperata e integrata non solo nelle nuove volumetrie, ma anche nei nuovi spazi: manufatti come la ciminiera o l’edificio vincolato esistente diventano elementi di supporto e definizione del nuovo spazio pubblico nella zona centrale dell’area». Che impatto estetico vuole ottenere su coloro che avranno accesso alle strutture e, in tema di sostenibilità, quali accorgimenti saranno attuati per rendere il progetto a basso impatto ambientale sul territorio? C&P

«La scelta fondamentale è stata quella di aprire l’area alla città al posto di generare una enclave isolata. Il progetto è carico di responsabilità sociale perchè riconosce la monumentalità nuova della città, fatta anche di manufatti ex industriali ma di pregio, e propone spazi pubblici generosi nell’ambito di un contesto periferico. Le scelte tecnologiche costruttive discendono da un approccio climaticamente responsabile e sono orientate a principi di ecosostenibilità ed ecocompatibilità. In particolare nella progettazione di tutti gli edifici verrà perseguito l’obiettivo di una significativa riduzione dei consumi energetici sia attraverso la scelta di volumi estremamente compatti, sia attraverso interventi sull’involucro e sulle tecnologie impiantistiche». Quali tecniche saranno adottate e quali materiali utilizzati? «Per quanto riguarda l’involucro le saranno rivolte a ridurre i fattori di termo-disperdimento e a migliorare 51


Nella progettazione di tutti gli edifici verrà perseguito l’obiettivo di una significativa riduzione dei consumi energetici

le condizioni di comfort interno; in particolar modo per le parti trasparenti è previsto l’impiego di sistemi di serramenti ad alta efficienza energetica e l’integrazione di sistemi di schermatura ed ombreggiamento esterni per le superfici più esposte all’irraggiamento. Temi come l’ottimizzazione degli apporti di luce naturale, l’utilizzo di contributi energetici solari mediante sistemi fotovoltaici, l’utilizzo della ventilazione naturale e la scelta delle tecnologie impiantistiche di sicura importanza nel perseguimento dell’ecosostenibilità saranno oggetto di particolare studio e attenzioni durante lo sviluppo della progettazione. Infine la scelta dei materiali verrà effettuata avendo cura di valutare attentamente il peso energetico di ciascun componente e la sua suscettibilità al reimpiego. Così come per le strutture la scelta sui materiali sarà quindi dettata dai risultati dell’analisi della maglia strutturale e dalle soluzioni costruttive che meglio raggiungono gli obiettivi prefissati». Quali altri progetti sono in fase di realizzazione nel 2011 e quali invece porteranno la sua firma nei prossimi anni? «Sono attualmente in avanzata fase di realizzazione gli edifici residenziali in via Salaino e via Lomazzo a 52

Milano; il Technogym Village a Cesena; un residence a Bormio; il W Hotel a San Pietroburgo e il Bulgari Hotel a Londra; una villa a Karuizawa, in Giappone. I progetti, invece, destinati a entrare a breve nella fase di cantiere sono il masterplan per l’area Cascina Merlata Nord a Milano, che prevede hotel, uffici e centro commerciale; il masterplan per l’area ex Martinelli a Morbegno e la riqualificazione dell’area ex Enel a Bergamo, con residenze e uffici». Tra le opere finora realizzate, quale la rappresenta di più? «Il Bulgari Hotel a Milano, la nuova sede del gruppo Ermenegildo Zegna a Milano, il Technogym Village a Cesena e l’edificio residenziale in via Salaino a Milano». Esiste un filo conduttore che collega tutte le sue opere? «L’integrazione tra product design, architettura, interni; l’investimento nella qualità intrinseca delle architetture; sensibilità, attenzione e cultura del contemporaneo, intese come sequenza degli eventi trasformativi che hanno condotto al presente; infine, la sensibilità verso il paesaggio inteso come rapporto fra progetto e contesto». C&P



Foto Philippe Ruault

Acrobazie in blu Captare il doppio movimento, del cielo e del mare. Il padiglione fieristico firmato da Jean Nouvel riflette un’architettura fatta di atmosfere tipicamente genovesi di Paola Maruzzi

«È prima di tutto un piano, un piano blu, troppo blu. Il blu cielo delle fotografie sottoesposte o degli esordi del cinematografo. Questo piano è evidentemente un tetto, si leggerà dalla città, dalla strada sopraelevata che lo costeggia, come un’astrazione». A due anni dall’inaugurazione, il padiglione centrale della Fiera di Genova continua a evocare le parole del suo ideatore. Così, assieme a Jean Nouvel, si parte dalla cima, cioè dalla singolare copertura: semplice, geometrica, atmosferica e cangiante. «Si sposerà con il cielo, con il mare e con la vita fieristica, attraverso riflessi, bagliori e giochi caleidoscopici. Quest’architettura dell’immaterialità e della luce è il mio contributo all’identità della città» aveva appunto dichiarato Nouvel introducendo il progetto, scelto nel 2005 tra una rosa di sfidanti di fama internazionale. Ora quell’ambizione si concretizza e il disegno del rettangolo “riflettente” diventa stilema, logo della città. In definitiva, anche per il Padiglione Blu torna in gioco il leitmotiv caro al maestro francese: la nozione di architettura intesa come scienza costruttiva viene quasi demolita e, al suo posto, si delinea una progettualità in movimento, che si colloca nel reale 54

quanto nel virtuale, che catalizza l’attenzione e lascia sempre un luogo di fuga, stabile materialmente ma destabilizzante da un punto di vista metafisico. «In breve tutto questo è una storia d’interrogativi e di distruzione della materia, una storia de jeux d’optique prestigieux. Le sensazioni sono messe al servizio della forza attrattiva e del prestigio del luogo. I padiglioni espositivi, anche loro, devono amare lo spettacolo».

C&P


GENOVA | Jean Nouvel

In apertura, veduta del Padiglione centrale della Fiera di Genova. In basso, la sala espositiva

Insomma, quest’arteria pulsante della città, teatro di incontri internazionali, non può essere indifferente al genius loci genovese. Ecco quindi che il contatto con il mare è l’altro elemento essenziale dell’opera. Contrariamente a quanto avviene di norma negli edifici fieristici, qui non esiste una netta separazione tra contenitore e ambiente circostante. Un’operazione di sbancamento ha così permesso alla struttura di avvicinarsi incredibilmente alle acque, contribuendo a creare un incontro di vedute indubbiamente interessante. Il livello inferiore si trova, infatti, in continuità con l’attuale banchina, appena a un metro dal livello del mare. Strategica è la collocazione a ridosso del porto, che conferisce una composizione atipica del quartiere fieristico, incastrato tra padiglioni, grandi marine e ampie superfici all'aperto. Il principio della trasparenza è valido anche all’interno che, come l’esterno, è regolato da una rigorosa semplicità. Gli spazi espositivi sono stati concepiti per consentire la massima flessibilità d’uso. I due livelli, infatti, possono essere gestiti in maniera sia combinata che separata, ospitando due o più mostre contemporaneamente. C&P

Ma non è questo il tratto saliente, che va cercato piuttosto alzando lo sguardo: le due hall sono completamente coperte da specchi. «Una parte – spiega Nouvel – è costituita da piccole onde come la superficie irregolare dell’acqua del porto, come quelle leggere increspature che “ammaccano” il mare. L’altra è ritmata da lunghe onde parallele alla banchina; la variazione d’ampiezza dell’onda crea una sinusoide che decresce avvicinandosi al porto. Questi specchi rifrangono, riformano la vita delle esposizioni che coprono, su una superficie minore, anche le barche del porto». A questa soluzione fa da contraltare il sistema di illuminazione. «Sotto il primo specchio l’illuminazione è assicurata da lampioni “pluggati” al suolo che, ovviamente, non toccano mai il soffitto. Sotto il secondo, i proiettori sono all’interno delle onde, nelle pieghe o dietro ai vetri a specchio», continua l’architetto francese. Entrambe le messe in scena producono un bagliore che è molto simile ai riflessi argentati quando il mare è illuminato dal sole. «Dalla banchina e dall’esterno le esposizioni creano un doppio spettacolo di riflessi dinamici, multicolori, movimentati». 55


Pietro Vignali, sindaco di Parma

Parma: obiettivo “green city” È ecologico il futuro della città guidata dal sindaco Pietro Vignali. Un sistema di aree verdi sempre più interconnesse e fruibili tra loro, che puntano a migliorare la qualità della vita e della sociabilità urbana di Andrea Moscariello

Sostenibilità sociale, economica e ambientale. Su queste priorità Parma guarda al futuro dei suoi assetti urbanistici. Una visione condivisa anche dal suo primo cittadino, Pietro Vignali. «Lo scenario globale, profondamente mutato negli ultimi anni, richiede la messa in campo di nuove strategie, basando i prossimi sviluppi urbanistici sempre più sull’ecologia, sull’uso accorto delle risorse, sulla mobilità sostenibile e sulla qualità urbana» dichiara il sindaco. A elaborare le linee guide del nuovo piano strutturale comunale, è stato il progettista inglese Richard Burdett che, assieme agli studi Claire e Ambiter, ha disegnato la Parma del 2020, immaginandola come una vera e propria “green city” equilibrata e compatta. Quali sono gli obiettivi da raggiungere in prospettiva di questa svolta? «Intanto la riduzione delle emissioni di Co2 e la produzione di energia pulita. In questo sarà fondamentale l’incentivo della mobilità ciclabile, la riqualificazione dei quartieri e la riconversione delle aree produttive dismesse. Occorre puntare alla valorizzazione energetica del patrimonio edilizio e alla tutela dello 56

spazio rurale e delle frazioni». Che peso rivestono le aree verdi? «In questo progetto di città futura, che colloca al centro gli abitanti e la loro qualità di vita, le aree verdi sono fondamentali. Da una parte il verde urbano, che può essere rafforzato e qualificato dal progetto di parco fluviale che attraversa la città, attuabile mediante il meccanismo perequativo. Dall’altra parte lo spazio rurale, che dovrà essere valorizzato in termini paesaggistici, rafforzando il tessuto di imprese agricole che vi operano e che contribuiscono a fare di Parma la capitale mondiale della “food valley”. Attraverso la rete ciclabile, poi, si agevola l’integrazione tra campagna e città». Quali politiche perseguirà Parma relativamente alla sostenibilità degli edifici e dei suoi quartieri urbani? «Nel piano operativo comunale abbiamo inserito un sistema di meccanismi premiali finalizzati a incentivare soluzioni di efficienza energetica e innovazione tecnologica, sia sugli edifici che sulle grandi opere. Si va dall’illuminazione pubblica efficiente ai sistemi di C&P


cogenerazione, dalla produzione energetica da fonti rinnovabili alla fitodepurazione e al recupero delle acque piovane. Altri meccanismi introdotti dal Poc sono il ricorso ai bandi concorsuali e l’inserimento di un regolamento specifico legato alla qualità urbana mirato, ad esempio, alla realizzazione di sistemi di verde continuo, interconnessi e facilmente fruibili e di spazi pubblici di qualità». Quali esigenze dei cittadini vanno considerate, in primis, nella pianificazione urbanistica locale? «Ritengo fondamentale investire risorse per migliorare le condizioni dell’ambiente urbano e la sua vivibilità, portando maggiore efficienza all’interno degli spazi di vita e di relazione dei cittadini, in quella dimensione di vicinato che è il fondamento stesso della coesione sociale e della cittadinanza condivisa. Abbiamo intrapreso un percorso di formazione di masterplan dei quartieri, elaborato dallo studio Caire Urbanistica, che è partito dall’ascolto sociale e dalla dimensione di vicinato per raccogliere le esigenze vere di chi abita la città. Queste ultime sono state tradotte in strategie di intervento che saranno recepite nel nuovo piano C&P

strutturale comunale e che considero determinanti per migliorare la vivibilità dell’ambiente urbano e la qualità della vita quotidiana». Tra i progetti che più considerano i temi della vivibilità e del verde, anche come connessione tra la periferia e il centro cittadino, emerge il grande centro commerciale di Braganzola, disegnato dell’architetto Mario Cucinella. «Questo progetto rappresenta un’importante occasione di crescita per Parma, ne rafforzerà l’identità urbana, contribuirà a rendere la città attrattiva alla scala sovraregionale, anche in vista delle iniziative legate all’Expo 2015. Ciò che ha ideato l’architetto Cucinella, oltre a disegnare un luogo ad alto valore attrattivo e aggregativo, propone la qualificazione del sistema di spazi ambientali, di relazione e di svago che si svilupperanno da nord a sud della città, lungo le grandi fasce di verde fluviale. La prospettiva offerta dal masterplan riguarda la nascita di un ambiente fortemente aggregativo, che si integra all’attuale quartiere fieristico, potenziato e rinnovato, migliorandone l’offerta di servizi e qualificandone l’immagine architettonica generale». 57


Il centro commerciale che riflette il paesaggio Entro il 2013 nascerà a Parma il più grande centro commerciale della città, firmato da Mario Cucinella. Un progetto la cui struttura richiama elementi del territorio e si integra perfettamente al contesto circostante di Eugenia Campo di Costa

Sarà il nuovo polo commerciale della città. A pochi passi dal complesso fieristico. Il Parma Urban District, progettato dall’architetto Mario Cucinella e presentato in occasione di Eire 2010, sarà pronto entro il 2013. Sorgerà in località Baganzola, in prossimità dell’autostrada A1 Milano-Bologna e della nuova infrastruttura per la Tav, caratterizzata dalla grande visibilità e cruciale per lo sviluppo dell’adiacente area fieristica. «Abbiamo cercato di affrontare la progettazione in maniera che il nuovo polo commerciale rispondesse a tutte le esigenze funzionali richieste dal cliente e, allo stesso tempo, 58

fosse fortemente riconoscibile come Landmark di questa parte della città di Parma», afferma l’architetto. D’altra parte, intervenire in un luogo paesaggisticamente così caratterizzato ha significato assoggettare l’architettura all’imponenza del contesto, cercando di intervenire rispetto a essa nella maniera più armonica e più rispettosa possibile. Questo è stato il principio che ha guidato la progettazione degli edifici. Il progetto, infatti, fortemente riconoscibile nell’ambito del suo contesto, richiama nella forma della Pianura Padana.

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PARMA | Mario Cucinella

In apertura e in questa pagina immagini del progetto Parma Urban District a Baganzola (PR). Le immagini virtuali sono state elaborate da Engram

La frammentazione delle coperture ricorda una spaccatura del terreno e costruisce un nuovo paesaggio che ospiterà il grande centro commerciale

Date le dimensioni del progetto e il contesto in cui si va a inserire, il Parma Urban District si pone come uno dei più importanti elementi di “cerniera” tra la rinnovata area verde alle porte della città e il suo centro storico. Quali dettami e prerogative ha perseguito per meglio adattare l’opera al contesto verde che la circonda? «Il progetto dell’area Sip si confronta con le dimensioni eccezionali dell’intervento, 167.624 metri quadrati di superficie fondiaria, che hanno imposto una riflessione sull’inserimento del progetto nella scala territoriale in relazione alla città di Parma e al paesaggio della pianura padana. In questa logica le grandi fasce verdi legate ai corsi fluviali principali che, penetrando nel cuore della C&P

città storica, hanno dato vita, in passato, a spazi pubblici importanti come il parco Ducale, rappresentano oggi l’elemento generatore di un nuovo parco destinato a fare da cerniera tra la città di Parma e la rinnovata area Sip, situata a soli 5 chilometri dalla città, una distanza facilmente percorribile in bicicletta. In questa logica, il nuovo spazio contemporaneo delineato dal progetto nasce come estensione e integrazione dei grandi assi paesaggistici, già recepiti e rafforzati dal piano strutturale comunale». Il Centro contiene alcuni elementi riconducibili a una sorta di “spaccatura del territorio” che riprendono caratteristiche tipiche del paesaggio 59


della pianura padana. Quali aspetti paesaggistici in particolare l’hanno ispirata? «La frammentazione delle coperture ricorda una spaccatura del terreno e costruisce un nuovo paesaggio. Questo movimento del suolo ospiterà il grande centro commerciale con negozi di piccola, media e grande distribuzione, big box, tra cui una quota di superficie destinata ad alimentare specializzato, e un grande albergo: diventa così un elemento di continuità e allo stesso tempo di rottura con il paesaggio, consentendo l’impiego di un ampio ventaglio di strategie e impianti per la gestione e lo sfruttamento attivo e passivo dell’energia solare. Gli edifici del polo commerciale si raccolgono attorno a un grande “boulevard” pedonale che mette in collegamento il parco fluviale ad est del complesso, e di conseguenza l’insieme di percorsi pedonali e ciclabili, con l’area della fiera. Il grande vuoto lineare del “boulevard” rappresenta il cuore pulsante della nuova polarità dell’area Sip, collegando spazi e funzioni, altrimenti eterogenee, 60

dando sia continuità sia una ricca articolazione di spazi aperti e chiusi». L’alternanza tra spazi aperti e chiusi è un’altra caratteristica predominante del progetto. «Anche lo studio degli edifici da insediare prevede un articolato sistema di canali, specchi e giochi d’acqua, genera e articola i volumi di progetto trasformandoli in increspature e rotture della continuità. L’acqua, scorrendo e scavando, attraverso il grande piano di campi coltivati che circonda l’area, genera una serie di fratture che aggiungono agli elementi del paesaggio dodici grandi scaglie che partono dal terreno e che, salendo, si trasformano in coperture ed elementi filtranti a protezione sia degli edifici del nuovo polo commerciale, sia degli spazi aperti tra essi compresi». Il progetto contiene quella che ha definito “una nuova componente agro energetica”. Di cosa si C&P


PARMA | Mario Cucinella

“La casa da 100mila euro” vuole realizzare un complesso residenziale ad alta efficienza energetica, basso impatto ambientale e zero emissioni di CO2

“La casa da 100mila euro”, progetto di residenza a basso costo

tratta? «Avvalendoci del lavoro paesaggistico dello studio Land di Milano siamo arrivati a concepire il parco come una stratificazione di diverse funzioni. Alla tradizionale immagine del parco extra-urbano dedicato allo svago e al tempo libero, si aggiunge una nuova componente: un paesaggio agroenergetico che si rifà alla tradizione tipica di questo territorio, legata alla coltivazione e al corretto uso della terra, pur proponendo un’interpretazione nuova e contemporanea dei temi dello sfruttamento delle risorse e della produzione di energia. Ne deriva un bosco come massa vegetale, di protezione e filtro verso le infrastrutture varie e verso la nuova architettura. La rarefazione e concentrazione di essenze diverse, con propri tempi di fioritura, di caduta delle foglie, comporterà una visione continuamente mutevole nel corso dell’anno. Il sistema del verde si suddivide in diverse fasce parallele che dalla massa boschiva lungo la linea autostradale degradano verso il paesaggio agricolo C&P

circostante». A proposito di risparmio energetico, lei ha progettato “La casa da 100mila euro” capace di ripagare il costo dell’investimento con l’energia che è in grado di auto produrre. Quali riscontri sta ottenendo questo progetto? «Il progetto di ricerca nasce con l’intento di realizzare un complesso residenziale ad alta efficienza energetica, a basso impatto ambientale e a zero emissioni di CO2. Il tutto grazie all’impiantistica fotovoltaica integrata architettonicamente, all’utilizzo di superfici captanti energia solare per i mesi invernali, alla circolazione interna dell’aria per quelli estivi, e a tutte le strategie passive adottabili per rendere l’edificio una macchina bioclimatica. I riscontri sono piuttosto positivi, sempre più famiglie sono interessate a questo progetto, e si stanno formando le prime cooperative per realizzarlo. A Lodi, in particolare, si sta definendo il primo piano di realizzazione». 61




Foto Moreno Maggi

L’Eur si rinnova guardando indietro Il quartiere simbolo dell’architettura razionalista ha visto nel tempo nascere diversi progetti. Oggi il sindaco Alemanno ne vuole fare il fulcro del nuovo sistema congressuale, ma senza perdere di vista la sua storia di Leonardo Rossi

Il progetto Millennium passa anche da qui. Accantonata l’ipotesi di vedervi sfrecciare le vetture di Formula Uno, il quartiere Eur e la sua riqualificazione restano comunque centrali nell’ambito della creazione di un secondo polo turistico a Roma, idea che interesserà il quadrante sud ovest della città: un’area di 27 ettari, distribuiti sull’intero Municipio XIII e parte dei Municipi XII, XV e XVI, che dall’Eur arriva sino alla costa e al litorale di Ostia-Fiumicino. In particolare, nelle intenzioni della giunta Alemanno, il quartiere Eur diventerà il nuovo fulcro del sistema congressuale. E questo grazie soprattutto al nuovo centro congressi di Massimiliano Fuksas, l’ormai nota “Nuvola”, la cui ultimazione - dopo vari rinvii - è prevista per il 2012. 64

A parte, infatti, alcuni scambi di battute tra l’archistar e il primo cittadino («La inaugurerà Zingaretti», «Spero sia pronta prima della scadenza della consiliatura, il problema non si dovrebbe porre»), Alemanno sta portando avanti in questo senso l’impegno della giunta Veltroni, sotto la quale il progetto era nato. E proprio a questo proposito, poche settimane fa, a margine della firma del protocollo d’intesa per il riassetto della rete elettrica nazionale e di distribuzione dell’alta tensione nel Comune di Roma, Alemanno aveva annunciato che «il ministro Matteoli ha sbloccato un importo di 142 milioni di euro per Roma Capitale. Si tratta di una rimodulazione di fondi immediatamente disponibili che permetterà, tra l’altro, il completamento della “Nuvola”». C&P


ROMA | L’Eur cambia volto

Il cantiere del nuovo centro congressi nel quartiere Eur a Roma

L’opera di Fuksas costituisce una fase importante nella riqualificazione di questa nuova ala dell’Eur dove si concilia il moderno con il passato «L’opera di Fuksas – aveva dichiarato invece in precedenza, in occasione della posa della prima parte della copertura – costituisce una fase importante nella riqualificazione di questa nuova ala dell’Eur dove si concilia il moderno con il passato. Il quartiere si rinnova e trova un nuovo equilibrio con un’opera che farà scuola». Era difficile in realtà per la giunta comportarsi in maniera diversa, visto che al momento del suo insediamento l’iter dei lavori era già in fase avanzata. Più tortuoso invece il destino del complesso residenziale progettato da Renzo Piano, che deve sorgere proprio a fianco del nuovo centro congressi, al posto delle torri dove aveva sede il C&P

ministero delle Finanze. «Ci lascia molto perplessi – aveva detto inizialmente Alemanno a proposito del progetto – e vogliamo che si facciano delle modifiche per mantenere l’unità architettonica dell’Eur. Già la “Nuvola”, che comunque completeremo, è una realtà estranea al contesto, ma non vogliamo ripetere lo stesso errore con le Torri, la cui costruzione deve ancora cominciare. Dopo aver aperto un confronto con i costruttori, faremo altrettanto con Renzo Piano». Poi, anche a seguito di una parziale revisione del progetto, è arrivato il via libera ai lavori, sancito dal consiglio comunale quasi un anno fa. L’Eur, insomma, cambia volto. Anche senza la Formula Uno. 65


Foto Moreno Maggi


Foto Maurizio Marcato

ROMA | Massimiliano Fuksas

A sinistra, il cantiere del nuovo centro congressi di Roma. Sopra, Massimiliano Fuksas e uno schizzo della “Nuvola”

Una Nuvola all’orizzonte Dopo oltre dieci anni il progetto del nuovo centro congressi dell’Eur non ha ancora visto la luce. Il punto di Massimiliano Fuksas tra speranze, cantieri aperti e confronti con i lavori che procedono contemporaneamente in Estremo Oriente di Riccardo Casini

I suoi contorni sono spesso indefiniti ed evanescenti per definizione. Ma della “nuvola” che deve nascere nel quartiere Eur di Roma, ovvero il nuovo Palazzo dei congressi progettato da Massimiliano e Doriana Fuksas, sembrano ancora fumosi anche i tempi di realizzazione. Partito nel 1998 con la prima fase del concorso, l’iter al momento vede la consegna dei lavori in programma per il 2012, ma in molti dubitano 67


che entro quella data il complesso possa essere pronto ad accogliere i primi visitatori. Sviluppato su una superficie lorda di 55mila metri quadri, il centro congressi sarà formato da una grande “teca” in vetro e acciaio contenente un elemento sospeso (la “nuvola” appunto) costituito da piatti pantografati su struttura metallica rivestiti da un telo micro forato, e al cui interno troverà posto un auditorium da 1.800 posti. La teca sarà poi affiancata da un hotel (la “lama”) da 441 camere,

disposte su 16 piani. Con Massimiliano Fuksas facciamo il punto sulla situazione dei lavori, partendo proprio dall’origine del progetto. Lei ha sempre dichiarato che tutto è nato osservando il cielo della Grecia. In che modo quell’immagine mentale è diventata l’edificio che ora si sta realizzando? Quali linee ha seguito nel suo sviluppo? «La Grecia è un territorio


Due immagini del cantiere dell’aeroporto “Bao’an” di Shenzhen

naturale d’ispirazione. Il progetto del nuovo Palazzo dei congressi dell’Eur nasce dal desiderio di confrontare due geometrie, una euclidea e l’altra di natura più complessa, vicina alle analisi e agli studi che, in particolare nel periodo in cui ero a New York e insegnavo alla Columbia University, avevo portato avanti sulla fisica quantistica e i frattali. Il progetto prende origine da un’idea di teca, un parallelepipedo di vetro che si ispira al razionalismo romano del periodo fra le due guerre, e da una forma più organica, la “nuvola” appunto, contenuta all’interno della teca che idealmente tende a espandersi oltre i confini del volume che la racchiude».

congressi, può essere pericoloso. Ma in questo caso, come documentato anche in un recente servizio della Cnn di Londra, il lungo periodo mi ha permesso di affinare molti dettagli. L’accesso al centro congressi da via Cristoforo Colombo è, sin dal concorso, costituito da una rampa che scende a 10 metri sotto il livello del terreno, ed è lì che è situata la sala per 7mila persone; dallo stesso livello, con le scale mobili si accede a una cosiddetta “piazza” in travertino romano per esposizioni o installazioni artistiche. Sulla “piazza”, sospesa da tre elementi, abbiamo la “nuvola”, la forma organica che contiene l’auditorium di circa 2mila posti più foyer, camerini, punti ristoro e caffè».

Dalla vittoria del concorso sono trascorsi oltre dieci anni. In questo periodo si sono rese necessarie modifiche all’idea originale? «No, non c’è stata nessuna sostanziale modifica. Se ce n’è stata una, è stata aumentare il numero delle camere della “lama”, dell’albergo che affianca la teca congressuale. Il lasso di tempo che trascorre tra la concezione di un progetto e la sua realizzazione, se particolarmente lungo come per il nuovo centro

In quali direzioni deve procedere oggi la riqualificazione delle periferie urbane? Che ruolo ha l’architettura in questo? Quale ruolo dovrebbe assumere invece in rapporto all’urbanistica? «Nei riguardi della periferia ho sempre avuto una predilezione per i sistemi che potremmo definire molto vicini all’agopuntura o all’omeopatia. Resiste una preferenza, a priori e fuori dal contesto, per l’alta densità, con edifici a torre od orizzontali. Ma è

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A fianco, il progetto della nuova torre di Shenzhen in Cina. Sotto, gli Archivi nazionali a Parigi

Nei riguardi della periferia ho sempre avuto una predilezione per i sistemi che potremmo definire molto vicini all’agopuntura o all’omeopatia

dall’analisi della complessità urbana che scaturiscono le scelte appropriate. E comunque al centro del mio interesse c’è sempre stato l’essere umano». Recentemente, predicendo la fine dei lavori della “nuvola” per il 2013, ha dichiarato che potrebbe essere pronto prima l’aeroporto di Shenzhen. «La realizzazione del nuovo Centro congressi di Roma da parte dell’impresa di costruzione si basa su capacità e tecnologie completamente diverse da quelle impiegate dalle imprese cinesi che stanno realizzando l’aeroporto “Bao’an” di Shenzhen in Cina per il costo di 650 milioni di euro. Questo dipende anche dal fatto che per il Centro congressi l’impresa romana ha fatto un ribasso di 50 milioni circa di euro su 265». A proposito, come sta procedendo la realizzazione dell’aeroporto? «La costruzione a Shenzhen avanza con i tempi 70

previsti. La mia vittoria al concorso per la realizzazione del terminal 3 dell’aeroporto, a cui parteciparono molti distinguished colleagues (tra gli altri, Foster, Foreign Office Architects e Reiser+Umemoto), è avvenuta a marzo 2008; immediatamente dopo abbiamo lavorato sul progetto fino all’inizio dei lavori, avvenuto nell’autunno dello stesso anno. La fine dei lavori è prevista, invece, per dicembre 2012. E io vorrei terminare per lo stesso periodo il nuovo Palazzo dei congressi di Roma, anche se dopo circa tre anni l’impresa ha eseguito non oltre il 33% dei lavori». Ma quali sono i progetti in fase di realizzazione ai quali oggi tiene maggiormente, in Italia e all’estero? «In Italia il nuovo Palazzo dei congressi di Roma, ovviamente. All’estero, i nuovi Archivi nazionali a Parigi per il Ministero della Cultura e la Comunicazione di Francia. E una torre tra i 220 e i 300 metri in Cina, oltre all’aeroporto a Shenzhen». C&P



Memoria verde Appartamenti, negozi ma anche una serra alta 30 metri e un ampio giardino: il complesso residenziale di Renzo Piano che sorgerà al posto delle torri dell’Eur avrà un’anima ecologica. L’architetto promette: «Dialogherà con la “Nuvola”» di Leonardo Rossi

Sopra, il modello del complesso residenziale progettato da Renzo Piano che sorgerà all’Eur

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Con la “Nuvola” di Fuksas, oltre alla collocazione, condivide certamente un iter alquanto travagliato. Il progetto dell’edificio residenziale di Renzo Piano, che sorgerà accanto al nuovo centro congressi, ha infatti dovuto subire vari stop prima di ottenere, nel maggio 2010, il via libera dal consiglio comunale. Dalle torri alla casa di vetro e ritorno: così si potrebbe sintetizzare il tortuoso percorso del progetto del complesso che prenderà il posto dei grattacieli che furono sede del ministero delle Finanze. Proprio per non segnare uno stacco troppo brusco con l’architettura razionalista che contraddistingue il quartiere (grattacieli da demolire inclusi), il Comune di Roma aveva chiesto all’architetto genovese, che nella Capitale ha già lasciato recentemente il segno con l’Auditorium Parco della musica, di rivedere il suo progetto: in sintesi, più C&P


ROMA | Renzo Piano

L’idea di avere all’Eur questi due edifici, cioè la “Nuvola” vicina a una struttura vissuta, rende l'area viva per tutta la giornata e la sera

Renzo Piano dialoga con il sindaco di Roma Gianni Alemanno

travertino e meno vetro, e torri più alte rispetto all’idea iniziale. Una linea condivisa dal ministero per i Beni culturali, che dopo l’ok del consiglio comunale aveva dichiarato di condividere «la linea che gli interventi di trasformazione facciano salve le tipologie edilizie degli edifici sviluppati in altezza mantenendo così inalterata la percezione dei luoghi impressa nella memoria collettiva». L’edificio, un condominio di lusso alto 11 piani che conterrà appartamenti ma anche negozi, ha una forma a C e costituisce una sorte di corte aperta: al suo interno troverà posto un giardino di 11mila metri quadrati e, sul quarto lato, rivolta a sud, ci sarà una grande serra alta 30 metri che, ha detto Piano, «mi piacerebbe fosse gestita dal giardino botanico. Questa scelta serve per mantenere anche l'altra anima legata alla natura dell'Eur, e cioè C&P

quella del verde. Sarà un laboratorio di energie». Questo, prosegue, è «un progetto al quale tengo molto perché è di trasformazione. A suo interno ci saranno 320 famiglie, cioè 1.200 persone, e quindi sarà un luogo abitato». In merito invece alla sua vicinanza con il centro congressi di Fuksas, l’architetto genovese aveva dichiarato che «l'idea di avere all’Eur questi due edifici, cioè la “Nuvola”, che è un luogo di scambio vicina a una struttura vissuta, rende l’area viva per tutta la giornata e la sera, e questa mi sembra un'idea molto bella». Non a caso, lo stesso Piano aveva incluso sin dall’inizio nel progetto un percorso pedonale che collegasse la “Nuvola” con il Palazzo dei Congressi di Libera. Il costo dell’opera sarà tutto a carico dei privati (Fintecna e Alfiere spa in primis) che, inoltre, saranno obbligati anche a realizzare opere concessorie per circa 33 milioni di euro. 73




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NAPOLI | Silvio d’Ascia

Bagnoli, tra archeologia e futuro «Insolite, dinamiche, neourbane». Sono le forme di Porta del Parco pensate da Silvio d’Ascia. Il passaggio di Bagnoli, da periferia industriale ad habitat permanente di cultura e intrattenimento, va sotto il segno di un nuovo pensiero architettonico di Paola Maruzzi

Concepita come un grande spazio pubblico polifunzionale aperto sulla città e sul parco di Bagnoli Futura, il complesso di servizi integrati al turismo e alla cultura Porta del Parco - primo intervento di riqualificazione di un’area “difficile” da sempre legata all’immobilismo vuole «creare un pezzo nuovo di città contemporanea, in continuità con il suo genius loci. Il progetto, elaborato con l’Ati Servizi Integrati e Idi, si è così posto un obiettivo primario: dialogare con le grandi cattedrali del passato industriale e, al contempo, proporsi come luogo di urbanità», spiega l’architetto Silvio d’Ascia, che riflette sull’impossibilità di trovare un “grado zero” nella progettualità delle periferie. È dalle stratificazioni che bisogna partire, per rimettere in moto la macchina dalla polis. In che senso possiamo dire che a Bagnoli, l’architettura ha riscoperto un ruolo maieutico? «È indispensabile usare l’architettura per attivare un processo virtuoso collettivo, necessario tanto a Bagnoli quanto alle città italiane in genere. Porta del Parco rappresenta un tentativo di sperimentare le potenzialità dell’innovazione linguistica come strumento di accellerazione dei processi di trasformazione urbana dell’area. L’architettura del complesso, infatti, è stata concepita come una sorta di “archeologia del futuro”: gli C&P

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splendidi brani di archeologia industriale presenti nel sito vengono così valorizzati e trasformati in moderni contenitori di nuova urbanità». Nella città campana hanno lavorato molti big dell’architettura: Hadid, Bofill, Ruisanchez, Calatrava. Crede che questa spinta innovatrice si sia esaurita? «Il vero motore di questo fenomeno è stata la metropolitana regionale che, a partire dal progetto delle Stazioni dell’Arte inaugurato circa una decina d’anni fa, applicata in primo luogo alle stazioni e, a seguire, al territorio e ai processi di trasformazione urbana. Il processo, in parte sospeso, necessita oggi di un potere politico forte, che si prenda la responsabilità di continuare il lavoro già cominciato e che faccia appello alla visione architettonica come strumento di attuazione qualitativa e come motore di una dinamica più ampia di riqualificazione socio-economica e urbana, ricordandosi che la politica nasce proprio come interese alla polis, alla città nella sua realtà fisica. I tempi di attuazione sono però ancora troppo lunghi e i processi decisionali, su scala pubblica, troppo lenti. Fare progetti serve unicamente se nell’immediato futuro si realizzano i cantieri». 78

Al di là di Porta del Parco, per lei cosa è essenziale nella progettazione degli spazi pubblici? «Immaginare la vita della gente comune nel quotidiano degli spazi preposti ad accogliere pratiche sociali vecchie e nuove, comunemente condivise e collettivamente individuate come necessarie e utili al vivere insieme in società. Disegnare una piazza pubblica nel cuore della Porta del Parco come piattaforma di distribuzione delle diverse attività presenti nel complesso polifunzionale, o concepire la stazione stessa di Torino Porta Susa come una vera e propria galleria pedonale urbana: sono alcuni esempi di cosa voglia dire pensare l’architettura come strumento per creare a quello che io chiamo “l’effetto città”. La progettazione degli spazi pubblici non ha confini separati o compartimenti stagni rispetto ad altri programmi di natura apparentemente diversa. L’architettura è sempre creazione di uno spazio per la gente, anche se la committenza è “privata”». Come vede lo stato attuale dell’architettura italiana? «Credo che la creatività italiana si sia finalmente liberata dagli stretti dogmi disciplinaristi di tendenza e si stia aprendo al mondo e a una serie di confronti a C&P


NAPOLI | Silvio d’Ascia

In apertura, Porta del Parco. In alto, l’ex area industriale di Bagnoli. In basso, l’architetto Silvio d’Ascia

livello internazionale proficui per il dibatitto nazionale, non più confinato alle sole esperienze peninsulari. Progettisti italiani, giovani e non, cominciano, infatti, a confrontarsi professionalmente con realtà europee e internazionali, anche a livello universitiario e post, portando a compimento un processo interessante di svecchiamento e reale rinnovamento del panorama nazionale della produzione architettonica. Si cresce solo con il confronto aperto, non con l’isolamento o la chiusura. Credo senz’altro che le giovani firme cominciano ad affermarsi e si affermeranno sempre di più progressivamente all’interno dello scenario urbano italiano e internazionale, trovando così le occasioni per raccontare nuove e sorprendenti storie all’interno delle nostre città». Su quali progetti sta lavorando? «In Cina, a Pechino e a Shanghai, su alcuni grossi complessi finanziari e terziari che sono in cantiere e in fase di progetto; in Francia su alcuni concorsi di stazioni ferroviarie e, in Italia, su numerosi progetti di cui, purtroppo, la gran parte è ancora sospesa e in attesa di un nuovo slancio, come quello della Torre di servizi della stazione torinese, Porta Susa».

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SALERNO | Ricardo Bofill

Una nuova Salerno tra terra e mare La città campana è oggi protagonista di un complesso intervento di riqualificazione urbanistica. Tra i progetti, il waterfront disegnato da Ricardo Bofill, che ne svela i significati delle forme architettoniche di Francesca Druidi L’architetto Ricardo Bofill. In apertura, render di piazza della Concordia vista dalla darsena e sotto il Crescent visto dal mare

Un laboratorio in progress dell’architettura contemporanea. Molte, infatti, le archistar impegnate a cambiare, attraverso i loro progetti, il volto di Salerno. Oltre alla realizzazione della stazione marittima concepita da Zaha Hadid, sono previsti il Marina d’Arechi Port Village di Santiago Calatrava e il progetto di riqualificazione del litorale salernitano operato dal catalano Manuel Ruisánchez, ai quali si unisce la Cittadella Giudiziaria progettata dall’inglese David Chipperfield nell’area dell’ex scalo merci. Nel settembre del 2009 il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, ha dato il via ai lavori di un altro intervento urbanistico fondamentale: la riqualificazione del lungomare con la realizzazione di piazza della Libertà e di piazza della Concordia. Il tutto firmato da Ricardo Bofill. Il progetto dell’architetto spagnolo per il primo spazio, grande fronte mare compreso tra l’arenile di Santa Teresa e il Molo Manfredi, comprende una piazza monumentale sul cui pavimento sarà creata una palma stilizzata, una passeggiata a mare con negozi e attività per il tempo libero, parcheggi sotterranei e soprattutto C&P

il Crescent: un imponente complesso di edifici e porticato ad arco alto circa 24 metri dal diametro di 155 metri. Nonostante abbia suscitato non poche polemiche, dividendo cittadini e addetti ai lavori, il Crescent è difeso dal sindaco: per De Luca è «un’opera imponente e non solo per la sua qualità urbanistica ed economica, che muterà il destino di Salerno per i prossimi anni diventando un grande attrattore turistico, culturale e per il tempo libero, in un contesto naturale di straordinaria bellezza». Per Piazza della Concordia, Bofill ha studiato una “vela” protesa verso il mare, alta circa 120 metri. La struttura dovrebbe ospitare un hotel, ma all’interno troveranno spazio anche uffici, esercizi commerciali e servizi per il turismo. La forma a mezzaluna che contraddistingue il progetto del Crescent di Salerno rappresenta uno degli elementi ricorrenti nel corpus dei suoi lavori. Per quale motivo? «La forma di Crescent è una tipologia che mi ispira da anni, come ad esempio nei miei progetti degli anni 70 e 81


Abbiamo ridefinito i limiti del lungomare con due piazze che servono a coronare il centro cittadino, a nord piazza della Libertà e a sud piazza della Concordia

80 nelle Villes Nouvelles parigine. Questa forma risulta ideale perché assicura una vista eccellente a tutti gli abitanti e spesso sfocia su un giardino o un parco pubblico, elemento che arricchisce ancora di più la visione dell’insieme». Ha affrontato delle peculiari sfide tecniche in questo caso? «Non abbiamo applicato delle tecnologie ultramoderne nel rispetto dell’architettura esistente del centro di Salerno». In che modo ha tenuto conto della situazione del paesaggio preesistente per progettare piazza della Libertà e piazza della Concordia? «Si trattava al principio di terreni degradati che, essendo così prossimi al centro storico, avevano bisogno di un intervento teso a dar loro forma e coerenza. Con questo progetto, abbiamo voluto completare il processo di rinnovamento del centro storico di Salerno. Abbiamo ridefinito i limiti del lungomare, prima informe, con due piazze che servono a coronare il cuore della città, a nord piazza della 82

Vista area del Crescent in costruzione

Libertà e a sud piazza della Concordia». In quest’ultima piazza sorgerà un grattacielo a forma di vela, altra forma da lei particolarmente amata e utilizzata. «Sì, questa è una forma da noi già progettata e costruita con ottimi risultati e che incarna i valori intrinsechi di una città marittima come Salerno». In generale, qual è il suo personale approccio quando si tratta di affrontare la riqualificazione di spazi urbani? «Prima di tutto, dobbiamo capire le richieste del committente e metterci d’accordo con lui, poi tradurle in architettura, dando al progetto il plus dato dalla nostra esperienza internazionale». Dove sta andando, oggi, secondo lei l’architettura? «In questo momento l’architettura attraversa una crisi importante, associata - come si sa - alla crisi economica. Perciò le proposte di un architetto devono essere pensate tenendo conto di tale momento, dovrebbero essere il più possibile semplici e fattibili a un costo moderato». C&P



L’architetto spagnolo Manuel Ruisánchez. A fianco, l’ambito 4 del progetto di riqualificazione del litorale salernitano. Sotto, una sezione del progetto

Salerno non volterà più le spalle al mare Sta muovendo verso la fase attuativa il progetto di ripascimento e riqualificazione del tratto costiero salernitano realizzato da un gruppo di architetti guidato da Manuel Ruisánchez. Che ne illustra i principi guida attraverso la lettura del paesaggio urbano di Francesca Druidi

«Una testa del progetto più legata alla città, che si declina come un parco urbano in senso classico denso di attività commerciali; un’area centrale che guarda al rapporto tra mare e spiaggia attraverso un’opera di ripascimento del litorale e la disposizione di un sistema di lidi. Infine, un ritorno al materiale naturale nell’ultima zona, dove la città si perde un po’». Così l’architetto spagnolo Manuel Ruisánchez illustra i punti cardine del master plan studiato per il fronte mare di Salerno, vincitore del concorso nel 2008: un intervento sviluppato da una squadra di architetti composta anche da Emilio Maiorino, Valerio Morabito, Enrico Costa, Gaetano Suppa, Antonio Gabellini e Alphatec Ing.

Quali fattori ha considerato in maniera prioritaria nel realizzare il progetto di Salerno? «Siamo partiti da un elemento che abbiamo rilevato subito, fin dalla prima volta che ci siamo recati a Salerno: la scarsa relazione della città con il mare e la mancanza di spiagge sul lungomare. Gli obiettivi erano essenzialmente due: la messa in sicurezza e il ripascimento del paesaggio costiero contro gli effetti dell’erosione prodotta dal mare e l’esigenza di attribuire una forma diversa al sistema di lidi, che si presentava in cattive condizioni. In Spagna non è diffuso il concetto di lido, ma spesso in questi contesti ho riscontrato un rapporto difficile con la città. Si riscontra una


sorta di schermo che chiude, ostacola, questo legame. La mia intenzione era, quindi, quella di superare tale separazione. Abbiamo perciò lavorato in sezioni». La proposta si articola, infatti, in diversi interventi su tre ambiti specifici. «Sì, in quello che viene definito l’ambito 2 il progetto si sviluppa a partire dalle foce del fiume Irno fino al porto di Pastena, declinandosi come un parco urbano legato a elementi di infrastruttura sportiva. È, infatti, prevista una piscina coperta, la cui copertura sarà la base per un giardino affacciato sul mare, che recupera al proprio interno spazi non solo per attività ludiche-natatorie, ma anche per attività commerciali e di ristorazione. Accanto al parco urbano dovrebbe sorgere una torre che, date le difficoltà economiche attuali, potrebbe essere costruita più avanti».

L’ambito successivo riguarda, invece, l’approdo alla spiaggia. «Sì, la proposta in questo caso prevede una passeggiata sospesa a un’altezza diversa rispetto alla spiaggia, dalle quale sarà possibile giungere al mare passando sia attraverso i vari lidi sia utilizzando gli accessi pubblici, situati lungo tutto il percorso che dal porto di Pastena giunge a Marina d’Arechi. Una maggiore protezione dall’attività marina e dal moto ondoso ci aspettiamo arrivi dalla disposizione di un sistema di barriere soffolte, poste a un’adeguata distanza dalla spiaggia». Nel tratto conclusivo la natura sembra prendere il sopravvento. «Nell’ambito 4 abbiamo un’area dove la città deve ancora arrivare, un’area in trasformazione. Qui


abbiamo lavorato sull’idea di un grande spazio naturale, allontanandoci dal carattere preminentemente urbano e architettonico dei primi tratti. Le barriere, il sistema di pennelli per il controllo dell’erosione e la sedimentazione della sabbia, rientrano nell’ossatura del parco naturale, creando un sistema di dune e di laghi di acqua dolce e salata al quale si associa una vegetazione rispettosa dell’ecosistema del luogo». In generale, cosa significa per lei il concetto di architettura del paesaggio? E come lo declina nel suo lavoro? «L’architettura del paesaggio è una disciplina che possiede una propria logica, legata alle trasformazioni degli spazi e che implica strumenti che vanno dalla funzione agricola a quella più ludica. Nella trasformazione di un territorio, è importante tenere presente che quest’ultimo ha già subito diversi cambiamenti. Per il progetto di un paesaggio si lavora sulla base di un palinsesto di materiale 86

commissionato al quale si vanno a inserire nuovi accenti e nuovi valori, anche culturali». Qual è l’elemento centrale dal quale partire per un nuovo progetto? «Fondamentale è operare un reading del luogo, comprenderlo bene, attuando una lettura profonda sia delle problematiche che delle caratteristiche che conferiscono qualità e identità al luogo. Occorre scoprire questi elementi e fornire poi una risposta alle istanze che emergono dallo spazio stesso. Un progetto non costituisce mai un’invenzione autonoma, ma si sviluppa da ciò che il luogo stesso propone. Determinante è, dunque, creare un feeling con il paesaggio preesistente». A cosa ha lavorato il suo studio di recente? «Negli ultimi anni, abbiamo completato il Parco del fiume Guell a Vilablareix, vicino Girona: un intervento che prendeva le mosse dalla “memoria” di un vecchio tratto di fiume oggi canalizzato. Un progetto rientrato C&P


SALERNO | Manuel Ruisánchez

In apertura, render del terzo ambito del progetto di riqualificazione del litorale salernitano relativo alla passeggiata a mare. A fianco, Parco Guell a Vilablareix, vicino Girona, altro progetto realizzato dallo studio Manuel Ruisánchez

Un progetto non costituisce mai un’invenzione autonoma ma si sviluppa da ciò che il luogo stesso propone. Determinante è, dunque, creare un feeling con il paesaggio preesistente C&P

sesta Biennale europea del Paesaggio del 2010. Abbiamo, inoltre, progettato con l’architetto Francesc Bacardit un tratto del parco Vallparadís a Terrassa, nei pressi di Barcellona, dove aspettiamo che il materiale vegetale impiantato prenda forma per godere appieno del risultato finale». Prossimi progetti? «Ci stiamo concentrando su due diversi progetti. Il primo è rivolto al concorso per il parco lineare della Sagrera, l’antica ferrovia di Barcellona, portato avanti insieme ad altri colleghi tra cui Carlos Ferrater e Lavinya-De la Vila Architects. È in effetti un’ampia squadra quella che si occupa di questa proposta interessante relativa a un parco lungo 4 chilometri per 40 ettari, che identificherà un importante elemento verde per la città. Il secondo progetto consiste nella pianificazione urbana dell’“Eixample Nord” nell’area municipale di Vilanova i la Geltrú, pari a circa 107 ettari, ideato con lo studio di architettura Serra-Vives-Cartagena e vincitore del concorso nel 2009». 87




>La forma dell’imprevedibile Quello progettato dallo studio Oppenheim è sicuramente un campus universitario che lascia il segno. Previsto per lo scenario suggestivo della città di Miami, l’edificio si sviluppa su due torri di 35 piani ciascuna, che vanno a creare un vuoto dalla forma estroversa, quadrangolare. Come una rottura che, simbolicamente, influenza una sensazione subconscia di imprevedibile, di libertà. L’edificio si prevede ospiterà, oltre agli spazi residenziali, anche uffici, aree

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commerciali, sportive e ricreative, inserendosi idealmente nell’attivissimo contesto urbano circostante. L’esterno riprende la tendenza, tipicamente contemporanea, di alleggerimento, visivo e strutturale, delle pareti. La pelle di vetro, poi, consente al complesso una straordinaria illuminazione solare, offrendo dal suo interno una veduta mozzafiato, godibile anche dalle piscine poste sul tetto

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WORLD IN PROGRESS

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>Un lungo respiro É tanto ambizioso quanto innovativo il progetto dello studio parigino Influx, in collaborazione con l’organizzazione ecologica SHIFTBoston. I Boston Treepods, puntano infatti a riprodurre e migliorare artificialmente la caratteristica biologica principale degli alberi, vale a dire la loro capacità di purificare l’aria, assorbendo anidride carbonica e rilasciando ossigeno. Il progetto è stato concepito secondo i principi della biomimetica, ispirandosi alle forme naturali e ai processi biologici, come

UN TREEPOD

modelli di perfezionamento delle tecnologie umane. I progettisti hanno immaginato la creazione di una rete di Treepods su tutta la città di Boston, con installazioni mirate a quei punti in cui gli alberi naturali avrebbero difficoltà a sopravvivere. Grazie alla loro modularità, basata sulla pianta esagonale, tali strutture possono essere assemblate per formare spazi coperti più o meno estesi, offrendo alla città dei punti di incontro e di gioco completamente inediti

CENTO ALBERI

C A PAC I T À D I A S S O R B I M E NTO CO 2

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>Un futuro di trasparenza Lo studio Coop Himmelb(L)Au presenta il suo progetto per il nuovo Open Parliament albanese, a Tirana. Un’opera che intende rappresentare, simbolicamente, i concetti democratici dell’apertura, della trasparenza, e della co-determinazione pubblica. L’edificio, posto su un’area di circa 28mila m 2 , è il primo in assoluto mai disegnato dal celebre studio di architettura austriaco. Situato nei pressi

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delle principali sedi del potere politico di Tirana, il nuovo parlamento si pone come apripista del rinnovo non soltanto dirigenziale, ma anche urbanistico dell’Albania. Non solo, la struttura, in particolare l’esterno dell’edificio, è concepito in maniera tale da ridurre al minimo il consumo di energie a base di combustibili fossili, integrando l’utilizzo di fonti rinnovabili come solare ed eolico


WORLD IN PROGRESS


Credit foto Tadao Ando, Mitsuo Matsuoka

Nuovi luoghi per lo spirito Architettura e religione: un rapporto difficile, spesso anche contestato. L’archistar Tadao Ando vi ha dato forma più volte, e oggi dice: «Il mio obiettivo è sempre stato quello di creare spazi che restassero nel cuore degli uomini per sempre» di Riccardo Casini

Credit foto Tadao Ando Architect & Associates

Se si parla di architettura sacra, difficile non andare con il pensiero a Tadao Ando. Il 69enne architetto giapponese ha infatti legato la propria carriera ad alcune opere rimaste nell’immaginario collettivo, dalla Chiesa della luce a Ibaraki (1989) al Water temple a Hompukuji (1991). Ma come è nato questo interesse? È lo stesso Ando a ripercorrere le prime tappe della sua attività, da quando - nel 1969 - ha aperto lo studio Tadao Ando Architects & Associates. «Dopo aver lavorato nei primi anni a piccole unità abitative – racconta – sono stato avvicinato da clienti che mi hanno chiesto di progettare edifici religiosi. Il Giappone gode di una situazione unica, essendo un paese dove convivono molte religioni, dallo scintoismo al buddhismo, fino al cristianesimo. Credo che ognuno abbia il diritto di decidere cosa significhi Dio 96

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Credit foto Tadao Ando, Mitsuo Matsuoka

per se stesso. Per quanto mi riguarda, non pronunciandomi su nessuna religione, sono sempre stato aperto a chiunque mi chiedesse di creare un edificio con questo tipo di funzione». Ma in che modo la struttura, ovvero la forma, può contribuire a questa funzione spirituale degli edifici? «Prendo ad esempio la Chiesa della luce: ricevetti l’incarico nel 1987 e il cliente, il pastore della comunità protestante locale, mi disse che quello che volevano era solo un luogo appropriato dove si potessero radunare e adorare Dio, un semplice spazio privo di decorazioni. Mi dissero anche che avevano a disposizione un budget limitato, ma la loro forte volontà mi convinse che insieme avremmo potuto creare qualcosa di straordinario. Il mio primo progetto fu una chiesa in legno, ma loro volevano qualcosa di solido e stabile. Allora, dopo aver indagato le possibilità offerte dall’area, capì che con quel budget limitato si poteva erigere solamente una nuda struttura in cemento: ho cercato una soluzione e, dopo una lunga lotta con le condizioni in cui mi trovavo, ho pensato a uno spazio interno buio nel quale la luce naturale penetrasse solo C&P

attraverso una fessura a forma di croce». Sembra semplice. «Semplice è stata anche la forma scelta, una scatola composta da tre moduli cubici con un muro ad attraversarla diagonalmente: un aspetto scelto anche in modo da preservare tutti gli alberi presenti nell’area. Le difficoltà maggiori arrivarono però quando i lavori dovevano iniziare: a quel tempo il Giappone era nel bel mezzo della grande bolla economica, per cui era quasi impossibile trovare un’impresa edile che partecipasse alla realizzazione di un edificio a costo così basso. E fu così che il budget finì non appena vennero eretti i muri». Cosa successe a quel punto? «Stavo già pensando che anche senza un tetto questa chiesa poteva funzionare e che l’austerità avrebbe potuto legare la comunità locale in modo ancor più forte, immaginandomi i fedeli radunati sotto gli ombrelli, pronti magari dopo qualche anno ad aggiungervi il tetto grazie alla loro forza e alla loro volontà; ma fortunatamente l’impresa edile intervenne generosamente per costruire il tetto al posto loro. Il pavimento e le panche vennero 97


Credit foto Tadao Ando

invece realizzate con le assi dei ponteggi per ridurre ulteriormente i costi e ogni anno devono essere ridipinte dai fedeli: credo che questo, oltre a cementare l’unione della comunità, sia un aspetto appropriato all’edificio. Alla fine comunque, quello che volevo era solamente uno spazio dove la gente potesse placare la propria mente e diventare consapevole dei valori che costantemente ci circondano, come la natura o la luce». Anche nel Water temple la luce ha un ruolo importante. «Ho voluto usarla nuovamente per dar vita a un ambiente spirituale. Tradizionalmente le sale centrali dei templi buddisti hanno tetti larghi, mentre la mia idea era quella di rompere quel preconcetto facendovi entrare i visitatori attraverso la discesa da uno stagno pieno di fiori di loto, uno dei simboli del buddismo. All’esterno l’edificio è avvolto da colori naturali come, appunto, quello del loto, dell’acqua, delle montagne e del cielo. Dall’altra parte, all’interno tutto è color vermiglio, in stretta relazione con l’architettura buddista; nei templi poi la divinità è collocata sul lato ovest in modo che la luce al tramonto venga da dietro, e nel mio caso questa luce rende gli interni ancor più rossi. Il percorso per arrivare in questa sala però è volutamente allungato, in modo da dare tempo ai visitatori di placare il proprio spirito e, una volta raggiunta la sala sotterranea, di potersi focalizzare sulle cose al di fuori dalla vita quotidiana». Lei ha detto che “l’architettura ha dimenticato che lo

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ARCHITETTURA SACRA | Tadao Ando

A fianco, un’immagine dall’alto del Water temple a Hompukuji (1991). Nella pagina a fianco, interno ed esterno della Chiesa della luce a Ibaraki (1989). In apertura, ingresso e sala principale del Water Temple. Sotto, Tadao Ando

È importante apprezzare la storia, ma dobbiamo anche imparare a guardarla con spirito critico per poter aprire nuovi canali espressivi

Credit foto Tadao Ando, Mitsuo Matsuoka

spazio può essere una fonte di ispirazione”. In che modo lo spazio può riappropriarsi di questa funzione? «Ci sono splendide cattedrali e chiese in Europa, per esempio a Roma, i cui spazi mi hanno ispirato in modo particolare: ho imparato l’importanza della geometria, del decoro e dello spazio dove la gente si raduna. Penso sia importante comprendere e apprezzare la storia, ma dobbiamo anche imparare a guardarla con spirito critico per poter aprire nuovi canali espressivi. Il mio obiettivo è sempre stato quello di creare spazi che restassero nel cuore degli uomini per sempre. Spazi che dessero loro una possibilità di comunicare e interagire, e dove potessero trovare contemplazione; e penso che questo non dovrebbe limitarsi agli edifici religiosi. La mia modalità espressiva può anche essere cambiata nel corso degli anni, ma non questo mio obiettivo iniziale».

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Il Giappone sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua lunga storia. In che modo i grandi architetti potranno contribuire alla sua ricostruzione? «Sono rimasto allibito vedendo quanto è vana la forza dell’uomo nei confronti della natura. Ma nel corso della sua storia il Giappone ha mostrato notevoli capacità di ripresa da catastrofi come questa grazie alla volontà congiunta dei suoi cittadini. Anche questa volta ogni individuo deve diventare consapevole della serietà della situazione e contribuire in base alle proprie possibilità. Gli architetti non sono diversi: devono adempiere al loro ruolo come gli altri, dando risposte ai bisogni. Vorrei sottolineare però che la semplice ricostruzione degli edifici nelle aree devastate non metterà a posto la vita di chi ha perso tutto: sono necessari un ripristino complessivo e una ripresa delle aree interessate che gli architetti da soli non possono garantire». 99




L’architetto Luigi Centola, fondatore del portale Newitalianblood

Newitalianblood, idee giovani da sostenere L’architetto Luigi Centola è il fondatore di Newitalianblood, vetrina multimediale specializzata in concorsi, che premia gli studi di architettura emergenti. «Le migliori esperienze sono spesso quelle transnazionali; la contaminazione aiuta la crescita» di Michela Evangelisti

Si chiama Newitalianblood ed è l'unico portale specializzato nell'ideazione, gestione e diffusione di concorsi e premi di architettura, paesaggio, design e arti visive. La sua attenzione è rivolta in particolare ai professionisti emergenti, tra i quali ogni anno vengono scelti i migliori dieci giovani architetti e i migliori dieci giovani paesaggisti. Proprio in questi giorni a Cesena sono esposti gli studi di architettura e paesaggio selezionati nel 2010, che si sono distinti per realizzazioni e linee di ricerca e sperimentazione; la tappa di Cesena è una parte della mostra itinerante “Top10”. Da quale intuizione è nata questa esperienza? «È nata ormai dieci anni fa con l’obiettivo di offrire gratuitamente uno spazio virtuale agli architetti, con la costruzione di una mostra interattiva, in un momento in cui le riviste hanno difficoltà a pubblicare i lavori dei giovani professionisti. In secondo luogo, per organizzare concorsi di architettura, design e paesaggio diversi da quelli tradizionali: la possibilità di gestire le giurie on line ci consente di ricevere adesioni 102

da parte dei professionisti più competenti di qualsiasi parte del mondo e di ricercare una competizione trasparente e leale, esigenza che non sempre nei concorsi tradizionali viene messa al primo posto. Abbiamo ormai realizzato una quindicina di concorsi di vario genere e molte opere hanno già visto la luce». Quali criteri vengono seguiti nell’assegnazione del premio ai giovani architetti? «Da tre anni il premio è attivo con una sezione di architettura e una di paesaggio. Criteri di selezione sono l’età (è riservato agli under 36) e la valutazione dei progetti; chi ha già partecipato a competizioni e ha vinto per la novità delle idee possiede una carta di qualità in più, ma valutiamo anche i progetti in atto e la visione critica che ogni studio mette in pratica, cercando di privilegiare i perfetti sconosciuti, che magari non hanno ancora costruito nulla perché sono molto giovani». Cosa accomuna gli studi emergenti? «Le migliori esperienze sono spesso quelle C&P


In alto, in senso antiorario, il progetto Blaas a Bolzano e la centrale elettrica di Winnebach (realizzati dallo studio Monovolume) e la piazza/giardino Ghigi a Morciano di Romagna realizzato dallo studio associato Preger, Enrica Dall’Ara

transnazionali; la contaminazione con altre culture o la possibilità di vivere a contatto con studi stranieri importanti aiuta la crescita e chi riesce a essere anche un po’ imprenditore, rischiando su mercati diversi, è premiato da nuove possibilità. In Italia i concorsi sono C&P

chiusi ai giovani e aperti solo per fatturati, sono pochi come numero, qualità e quantità, e nel settore privato la situazione rispecchia il quadro economico generale, con più possibilità al nord e maggiori difficoltà al sud. In generale comunque è difficile trovare la quantità e la continuità di progetti necessaria per mandare avanti uno studio strutturato; in Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, gli studi hanno invece più possibilità di evolversi e crescere». 103


Forme integrate che emozionano Riqualificare gli spazi e riconfigurarli, sviluppando la sostenibilità ambientale e sociale. Tra esperienze all’estero, sogni e riconoscimenti, Mario Cottone e Gregorio Indelicato hanno portato l’architettura contemporanea in Sicilia di Michela Evangelisti

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Alla ricerca di forme architettoniche che dialoghino con il contesto naturale e antropizzato, con la topografia e con il clima, e che allo stesso tempo sappiano interpretare l’identità di un luogo e la sua cultura. Quarti classificati al premio Newitalianblood 2011 dedicato agli studi di architetti italiani emergenti under 36, Gregorio Indelicato e Mario Cottone (rispettivamente classe 1975 e 1974), superata la fase degli insegnamenti accademici e dell’influenza dei grandi maestri, portano sempre con loro «l’esperienza fatta da Rcr Arquitectes e da David Chipperfield, cercando oggi di trovare ispirazione nella natura, nell’arte, nella musica, nelle letture, nei viaggi e nei sogni». Provengono dallo stesso paese siciliano e hanno studiato a Palermo, anche se il loro sodalizio C&P

professionale è nato in Spagna, dove Mario Cottone lavora dal 2004 e Gregorio Indelicato lo ha raggiunto nel 2005. «L’idea di aprire uno studio insieme è la conclusione di lunghe e appassionanti conversazioni critiche – raccontano –. L’occasione è venuta nel 2009, quando per vari motivi siamo tornati in Sicilia e abbiamo ottenuto un primo premio per il concorso del Pier Museum a Miami e un secondo posto per l’edificio Benetton a Teheran. Così abbiamo trovato il coraggio di fare architettura contemporanea in Sicilia». Quali ostacoli incontra un giovane architetto in Italia? «La stessa professionalità dell’architetto è spesso ignorata o snobbata, sia dalle istituzioni che dalla gente; resistono molti pregiudizi verso la modernità 105


architettonica e per di più esistono leggi che nella quotidianità professionale e nei concorsi di progettazione penalizzano soprattutto i giovani architetti. Inoltre, oggi gli architetti italiani devono scontrarsi anche con gli effetti della crisi economica, che riduce le occasioni per portare avanti idee innovative e sperimentali. Un altro problema per gli studi emergenti è la bassa percentuale di progetti realizzati, conseguiti attraverso concorsi internazionali di architettura. Da un lato in Italia se ne fanno meno che in Europa e dall’altro le commissioni esaminatrici sono spesso gestite dai rappresentanti locali o politici anziché da veri professionisti». 106

Qual è la vostra idea di architettura? «La nostra architettura vuole provocare sensazioni ed emozionare, attraverso la semplicità espressiva della forma. Le volumetrie dei progetti si relazionano al programma funzionale e alla fluidità dei percorsi e sono formate da volumi compatti, ottenuti per addizione di elementi bidimensionali o per sottrazione di massa. Il concetto progettuale è la tensione espressiva scaturita tra le sequenze dinamiche e la loro aggregazione in forme semplici. L’obiettivo è progettare un’architettura che sia in grado di riconfigurare e riqualificare i luoghi, che sviluppi la sostenibilità ambientale e sociale. Un’architettura C&P


GIOVANI ARCHITETTI | Mario Cottone, Gregorio Indelicato

La nostra architettura è fatta di spazi concepiti sui concetti di essenzialità e di funzionalità nei quali le persone vengono rese protagoniste

In apertura e in queste pagine, alcuni render del progetto di riqualificazione dell’area est di Marinella di Selinunte

fatta di spazi concepiti sui concetti di essenzialità e di funzionalità, nei quali le persone siano coinvolte e rese protagoniste. La scelta dei materiali è sempre subordinata all’integrazione del progetto nel paesaggio urbano o naturale, alla reperibilità e disponibilità dei materiali nel luogo in cui s’interviene e alla loro forza comunicativa ed espressiva».

d’intervento: il principale consiste nella definizione della “piazza belvedere”, tramite la realizzazione di sedute lineari che scendendo di quota liberano la vista sull’orizzonte e sulla pineta. La piazza enfatizza la caratteristica di filtro tra la zona urbana e la riserva naturale, prevedendo l’uso di materiali naturali, come la pavimentazione in terra stabilizzata e le sedute in pietra, insieme a “elementi espressivi” in acciaio corten. Il secondo ambito è il “collegamento al mare”, mentre il terzo riguarda la riqualificazione dei viali naturalistici esistenti che portano alle spiagge e prevede degli interventi puntuali di arredo finalizzati ad aumentare la percezione sensoriale della riserva».

Attualmente state elaborando il progetto definitivo per l’area est di Marinella di Selinunte. «Il progetto riguarda la riqualificazione di alcune aree pubbliche che formano l’accesso alla riserva naturale della Foce del Belice ed è sintetizzabile in tre ambiti C&P

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GIOVANI ARCHITETTI | Alessandro Tessari, Matteo Bandiera

Alessandro Tessari e Matteo Bandiera, directors dello studio Etb, nel quale collaborano con Nicola Di Pietro e German de Pro Lozano (team project)

Il dialogo spontaneo tra edifici e paesaggio Si sentono più europei che italiani e l’idea di utilizzare un linguaggio codificato e riconoscibile non li ossessiona. «Ci sembra attrattivo spostare la tensione dall’oggetto architettonico in sé alla sua capacità di rispondere alle energie dei luoghi». La ricerca di Alessandro Tessari e Matteo Bandiera di Michela Evangelisti

Non credono che l’architettura possa ambire a cambiare il mondo o la società. Ma sono convinti che abbia un ruolo specifico nel costruire il supporto emozionale della nostra vita: per questo la sensualità e la bellezza che lo spazio e la costruzione possono silenziosamente emanare sono gli stimoli più autentici della loro professione. Alessandro Tessari e Matteo Bandiera hanno fondato nel 2008 lo studio Etb, che ha doppia sede, a Treviso e a Siviglia. «Ci piace affrontare l’architettura come un territorio di ricerca definito da poche regole chiare, un pentagramma dentro al quale muovere un limitato numero di note, così da lasciare al progetto un certo grado di flessibilità e freschezza» spiegano i due giovani professionisti. In molti casi, poi, trovano C&P

interessante svelare alcune regole del gioco, aprire la “scatola nera” dell’architetto, per rendere il processo progettuale accessibile alla società: una sorta di racconto silenzioso delle ragioni dell’architettura. Che cosa vi ha spinto ad aprire uno studio anche in Spagna? «La domanda potrebbe essere ribaltata in che cosa ci abbia spinto ad aprirlo in Italia, avendo dal 2006 concentrato la nostra attività principalmente in territorio spagnolo. Sentiamo una dimensione d’appartenenza culturalmente più ampia, direi europea, anche per la diversa origine dei nostri collaboratori. Siamo convinti che nel panorama contemporaneo l’architetto sia chiamato a 109


considerare come campo d’azione un territorio che vada ben oltre i confini nazionali e a confrontarsi con contesti sociali, culturali e paesaggistici diversi tra loro: questo può significare un sostanziale cambiamento di approccio del progetto». Quali difficoltà avete incontrato lavorando in Italia? «Per gli studi giovani che fanno del concorso di architettura la principale porta d’accesso all’attività professionale, l’Italia rimane una nazione poco interessante. Confrontarsi con la realtà europea permette di capire come il concorso non sia solo uno strumento virtuoso per la scoperta dei talenti, ma soprattutto per la produzione di architettura di 110

qualità su scale differenti: è un meccanismo di controllo e sviluppo democratico del territorio. Ma per funzionare ha bisogno di politiche in grado di garantirne la trasparenza e una forte volontà di selezione della qualità, concetti ancora troppo dolorosamente assenti in Italia». Quali sono i tratti distintivi del vostro linguaggio? «La nostra ricerca progettuale non è ossessionata dall’idea di creare o utilizzare un linguaggio più o meno codificato e riconoscibile. Quello che maggiormente ci attrae è riuscire a proporre un’architettura che sia capace di occupare spontaneamente e con un certo grado d’intensità il contesto nel quale si opera. Per questo il valore che C&P


GIOVANI ARCHITETTI | Alessandro Tessari, Matteo Bandiera

Il valore che più ci interessa dell’architettura è la sua continuità tonale con il paesaggio, la sua disponibilità a creare un discorso singolare con l’intorno

In apertura, render del Centro ospitalità turistica a Villafranca de los Barros, Spagna (vista di una “terrazza fiorita” e vista d'insieme); nella pagina a fianco, in alto, libreria a Bressanone, Italia (vista d'insieme e modello); in questa pagina Padiglione Farola, foto d'inserimento nel Parco dell’Arte

più ci interessa dell’architettura è la sua continuità tonale con il paesaggio, la sua disponibilità a creare un discorso singolare con l’intorno, quasi come fosse una preesistenza; ci sembra attrattivo spostare la tensione dall’oggetto architettonico in sé alla capacità dell’oggetto stesso di assorbire e rispondere alle energie dei luoghi».

agricolas”, tipiche costruzioni rurali profondamente radicate nell’immaginario di questo territorio; il lavoro parte dall’idea di dar vita a un edificio capace della stessa spontaneità e relazione con l’intorno. Per la nuova libreria nel centro storico di Bressanone, invece, la nostra proposta eredita dal contesto la profonda consistenza delle masse murarie della città vecchia e lo svuotamento generato dai numerosi portici che la caratterizzano. Questo semplice dato diventa l’unico strumento espressivo che genera il progetto: un volume singolare in cui le diverse sottrazioni di massa generano logge aperte allo skyline delle montagne e agli spazi pubblici urbani circostanti e una grande spazialità cava interna di forte impatto emozionale».

I progetti “Hacienda de las flores” e “Loggia” sono il risultato di due concorsi internazionali di architettura, uno nella regione dell’Extremadura, in Spagna, l’altro a Bressanone. «Nel primo progetto il contesto è quello della grande dispersione del paesaggio collinare del sud della Spagna, punteggiato da “haciendas C&P

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GIOVANI ARCHITETTI | Massimo Tepedino, Nacho Toribio, Carmelo Zappulla

Spazi da vivere tra società ed ecologia «I tratti del nostro linguaggio si trasformano costantemente, seguendo le componenti nuove che ogni progetto ci propone». Massimo Tepedino, Nacho Toribio e Carmelo Zappulla hanno scelto come base l’informale e dinamica Barcellona, dove l’architettura è una disciplina universalmente apprezzata di Michela Evangelisti

Occorre sapere osservare e ascoltare attentamente. «Qualsiasi cosa può diventare riferimento per un progetto o per una parte di esso». Parola di Massimo Tepedino, Nacho Toribio e Carmelo Zappulla; nel 2004 si sono spostati a Barcellona, ognuno per una ragione diversa, e il pretesto che li ha uniti è stata la collaborazione esterna, nel 2007, con Foreign Office Architects al concorso “Aerospace a Toulouse”. Concorso che hanno vinto e che ha

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sancito la nascita di External Reference Architects. «Da allora ci siamo occupati di progettazione e riqualificazione architettonica e urbana, progettazione d’interni, di eventi e spazi espositivi – spiegano –. Parallelamente approfondiamo l’attività di ricerca nell’ambito della docenza; in particolare, con lo Ied abbiamo un rapporto continuo e attualmente coordiniamo il master in progetto di spazi commerciali».

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In questo momento la vostra base principale è Barcellona e da lì lavorate e vi spostate in giro per l’Europa, soprattutto in Italia. Perché questa scelta? «Forse la nostra generazione è la prima a sentirsi pienamente europea, per questo pensiamo prima alle città e dopo al loro Paese d’appartenenza. Abbiamo aperto uno studio a Barcellona perché è la metropoli che meglio mescola le caratteristiche di una città del Nord e quelle di una città mediterranea. È informale, aperta, multiculturale, dinamica, organizzata, calda e connessa con le altre capitali europee, quindi è il luogo ideale dove vivere e generare relazioni di lavoro con l’estero. È una città, inoltre, che ha vissuto interessanti trasformazioni urbane negli ultimi anni ed è stata 114

palcoscenico dei più grandi architetti contemporanei». Da un confronto tra ambiente di lavoro italiano ed estero, che differenze emergono? «In Italia mancano una cultura architettonica contemporanea, i fondi e gli spazi per le giovani menti nella ricerca universitaria, un’imprenditoria giovane e dinamica e un piano politico economico. Dovrebbe cambiare il modo di essere italiani e di guardare le proprie risorse. E lo si può fare da un lato attraverso una strategia pragmatica immediata e dall’altro con un lavoro lento che viene dal sistema educativo. Generalizzando, a Barcellona abbiamo trovato un ambiente molto professionale. L’architettura fa parte C&P


GIOVANI ARCHITETTI | Massimo Tepedino, Nacho Toribio, Carmelo Zappulla

In apertura e nella pagina a fianco, la sfilata di moda-evento “Modafad”. In alto, la suite dell’hotel Juan Carlos I, un progetto rimasto fermo a causa della crisi. A sinistra, “Flight to the Island”, installazione esposta allo Ied di Barcellona

A Barcellona la gente vive pienamente gli spazi pubblici e contribuisce al dibattito contemporaneo, interagendo nelle decisioni della città. Un aspetto che purtroppo in Italia ancora manca

della cultura popolare, è una disciplina intellettualmente apprezzata, indispensabile e stimata. La gente vive pienamente gli spazi pubblici, le biblioteche, i parchi e contribuisce al dibattito contemporaneo, interagendo nelle decisioni della città. Un aspetto che purtroppo in Italia ancora manca». Quali sono i tratti distintivi del vostro linguaggio? «Crediamo nell’architettura come un sistema complesso nel quale tutti i fattori-chiave sono interconnessi o, per meglio dire, sono il risultato dell’interazione tra caratteri endogeni ed esogeni. Endogeni sono gli aspetti geometrico-spaziale, artistico, tecnico, funzionale, che sono propri della C&P

disciplina, che stanno alla base di ogni progetto di architettura. Per esogeni intendo tutti quei caratteri che generano la cornice nella quale il progetto prende forma e sono propri del contesto sociale, ambientale e programmatico. L’architettura avviene quando i caratteri di entrambe queste due categorie interagiscono in un rapporto dinamico e attivo. Se consideriamo l’architettura come un sistema di fattori interconnessi, avremo bisogno di nuovi strumenti di progetto capaci di gestire attivamente le sue caratteristiche, strumenti che siano in grado di interpretare tutti i suoi aspetti sociali, economici ed ecologici. Pertanto i tratti del nostro linguaggio si trasformano costantemente, seguendo le componenti nuove che ogni progetto ci propone». 115




Non c’è futuro senza infrastrutture «Mantenere il livello di dotazione infrastrutturale raggiunto, se la produzione di risorse non crescerà, sarà un obiettivo tutt’altro che secondario». Lo assicura Francesco Karrer guardando a quale potrà essere il futuro del sistema infrastrutturale in Italia di Renata Gualtieri

Francesco Karrer, presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici

Un Paese che non investe nelle infrastrutture è un Paese che non ha avvenire”, è quanto scrive Maurizio Lupi nella prefazione del suo libro Infrastrutture Brianza. Infrastrutture, mobilità e sviluppo: spunti concreti per elaborare un nuovo modello d’intervento. Al libro del deputato azzurro ha contribuito anche il presidente del Consiglio superiore del Lavori pubblici, Francesco Karrer, che ne condivide totalmente l’impostazione culturale, anche se «qualcuno sostiene che nelle società e nell’economia odierna il “peso” delle infrastrutture sia divenuto secondario nelle politiche di sviluppo e nell’assetto del territorio. Ciò però non è vero sia per le infrastrutture tradizionali che per quelle innovative». Oggi quanto si investe in grandi opere pubbliche? «Non so quanto si spenda attualmente in infrastrutture, è un problema di contabilità generale. Infatti non è solo lo Stato che spende, lo fanno anche le altre stazioni appaltanti che nel nostro Paese sono oltre 10.000. Certo che, data la situazione delle 118

finanze pubbliche, si spende non adeguatamente rispetto alle esigenze dell’Italia, che non riguardano solo lavori ex novo, ma anche la manutenzione dell’esistente. Meno si investe in nuovo e più il vecchio aumenta di valore. Purtroppo non c’è consapevolezza adeguata di ciò». Come si può uscire dalle sindromi Nimby italiane? «Con migliori politiche pubbliche e più certe risorse nelle quantità, nelle modalità e nei tempi di erogazione. Tutto ciò richiede una complessiva responsabilizzazione di tutti i soggetti decisionali coinvolti, anche dei rappresentanti degli interessi diffusi. Adottare migliori politiche pubbliche significa anche partecipazione alle decisioni e pianificazioni coerenti da parte di tutti i detentori di potere pianificatorio, oltre a un più chiaro uso delle cosiddette compensazioni, che vanno meglio disciplinate nelle tipologie e nell’entità economica». Cosa fare per avere un appalto pubblico-privato trasparente? «Nient’altro che applicare quanto leggi e regolamenti prevedono. Se ci si trova nella condizione virtuosa implicitamente descritta sopra, ovviamente il processo C&P


LAVORI PUBBLICI | Francesco Karrer

Manutenzione e gestione divengono funzioni strategiche davvero e lo sono tanto più quando si fa fatica a produrre nuovo capitale fisso sociale è fisiologicamente “trasparente”». Si può puntare sulle grandi infrastrutture per colmare il ritardo di sviluppo del Sud rispetto al resto del Paese? «Le infrastrutture, sia materiali che immateriali, hanno un grande rilievo nello “strutturare” i territori, quindi nel ridurre i gap esistenti e creare opportunità determinando attrattività e competitività. Ma esse devono essere “a sistema”, vale a dire concepite come integrate tra loro e con i territori. L’integrazione totale dovrebbe essere l’obiettivo». Quale importanza riveste per le città un piano strategico? «Piani e agende strategiche, stati generali, progetti di territorio sono strumenti volontari con o senza valenza urbanistico-territoriale. Possono essere di settore o integrati. Personalmente preferisco i secondi, che spaziano dalle questioni culturali a quelle socioeconomiche e, soprattutto, anche di organizzazione. Sono utili per costruire “visioni”, meglio se condivise. Sono giusti soprattutto per sopravanzare le “separatezze” con le quali di solito operano le amministrazioni pubbliche per via della logica delle C&P

competenze e della contabilità pubblica. Attraverso questi strumenti è possibile far emergere la qualità della società civile e aprire ai partenariati tra pubblico e privato. Bisogna, però, stare attenti a non cadere nella retorica della pianificazione strategica: quella buona si ferma alla fase prodromica dell’azione. L’azione è dominio di altre pianificazioni e programmazioni, la pianificazione strategica è tutt’altro che operativa. Ma la confusione al riguardo è molta». Che futuro avrà il sistema infrastrutturale in Italia? «Secondo un vecchio slogan in auge tra gli studiosi di futuro, «il futuro si costruisce, non si prevede». E ancora: il nostro sistema infrastrutturale «sarà quello che vorremmo che sarà». Ma dovremo fare i conti con le risorse, non solo quelle economico-finanziarie, che potremo utilizzare. Certamente mantenere il livello di dotazione infrastrutturale raggiunto, se la produzione di risorse non crescerà, sarà gia un obiettivo tutt’altro che secondario. Manutenzione e gestione divengono funzioni strategiche davvero. In realtà lo sono sempre, tanto più quando si fa fatica a produrre nuovo capitale fisso sociale. Anche la capacità della gestione dell’esistente è da considerarsi risorsa strategica». 119


Progettare un Paese migliore Questo, secondo il neopresidente del Consiglio nazionale degli architetti, Leopoldo Freyrie, il compito dei professionisti italiani. Ostacoli? La burocrazia e un mercato poco trasparente di Riccardo Casini

Eletto lo scorso 16 marzo alla guida del Consiglio nazionale degli architetti, paesaggisti e conservatori, Leopoldo Freyrie sembra avere già ben chiare le necessità dei professionisti di oggi. Non a caso, appena nominato ha dichiarato che in questa fase «avere un presidente che non è un professore» ma che continua a fare l’architetto «restando a contatto con la realtà della professione» può essere utile. «Non cesseremo mai – precisa oggi – di essere grati a Raffaele Sirica che nella lunga fase in cui è stato il nostro presidente si è battuto strenuamente a favore della categoria. Ma ora, purtroppo, il contesto nel quale operano gli architetti è profondamente cambiato: basta citare la crisi internazionale, drammaticamente abbattutasi anche sui conti italiani decimando i lavori pubblici, per comprendere l’esigenza di affrontare la fase nuova da una prospettiva più vicina alla professione intesa come pratica e frequentazione quotidiana. Questa esigenza è anche testimoniata dal fatto che il nuovo Consiglio nazionale degli architetti è stato rinnovato per più della metà dei consiglieri, rappresentando meglio le

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Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, paesaggisti e conservatori

diverse aree geografiche del Paese ma soprattutto rispecchiando davvero la composizione dell’Albo che raccoglie liberi professionisti, dipendenti pubblici e docenti universitari: figure che costituiscono tutte, sia pure nella loro apparente eterogeneità, l’anima della nostra professione». Quali sono oggi le necessità principali del mondo degli architetti italiani? «Semplificazione normativa, incentivi per i giovani e strumenti concorsuali e meritocratici nella scelta dei progettisti sono indubbiamente alcune delle riforme professionali che gli architetti italiani aspettano da tempo. Ecco perché, tra le priorità del Consiglio nazionale e dei 105 Ordini provinciali, vi sono la promozione dell’erogazione di servizi per aiutare gli iscritti a gestire l’attività e valorizzare al meglio le proprie capacità, la realizzazione di piattaforme informatiche che semplifichino e velocizzino il rapporto con le pubbliche amministrazioni e l’attivazione di forme societarie che permettano di fruire di benefici fiscali. Non meno urgente è intraprendere le necessarie

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DIBATTITI | Leopoldo Freyrie

azioni perché gli enti pubblici affrontino e risolvano il gravissimo problema dei debiti nei confronti degli architetti, così come lo è creare un’Agenzia di promozione degli architetti italiani nel mondo». In tutto questo, che ruolo dovrà assumere il Consiglio nazionale da lei presieduto? «Quello di creare il contesto nel quale gli architetti italiani, sulla base della competenza e del merito, possano esprimere le loro capacità per superare, in un momento di grave crisi economica, la difficoltà di accedere al mercato».

ad avere una dimensione pubblica. Per questo motivo stiamo collaborando a promuovere una Legge d’iniziativa popolare sulla qualità dell’architettura. Credo che questa legge possa anche essere lo strumento più efficace per correggere alcune gravi storture che ora sono sotto gli occhi di tutti, come la commistione tra progetto e realizzazione dell’opera, introdotta dalle norme recentemente entrate in vigore sull’appalto integrato. Ma il vero fine della legge è ottenere che finalmente lo Stato investa sulle giovani generazioni di architetti, comprendendo che sono loro la banca delle idee per realizzare le città di domani».

Lei si è detto d’accordo su una proposta di riforma dei concorsi pubblici che guardi al modello francese dei concorsi di idee. Quali vantaggi porterebbe? «Non mi stancherò mai di ripetere che prevedere che le amministrazioni siano tenute a utilizzare concorsi – di idee o di progettazione – avrebbe come risultati immediati quelli di rendere il mercato trasparente e accessibile ai giovani e di ridare, al contempo, centralità alla progettazione in Italia che tornerebbe

Oltre a questa legge, in che modo è possibile operare in funzione di uno snellimento della burocrazia nei confronti del mondo degli architetti? «Sono letteralmente migliaia le norme con le quali deve confrontarsi ogni giorno un architetto: da quelle antisismiche alla certificazione energetica, dalla sicurezza dei cantieri ai vincoli paesaggistici, fino agli strumenti urbanistici. A tutto ciò vanno poi aggiunti i diversi regolamenti comunali. La strada dello

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Sono le logiche clientelari e territoriali che spazzano via dal mercato i giovani architetti o addirittura impediscono loro di accedervi

snellimento e della semplificazione passa attraverso lo strumento dell’autocertificazione, da regolamentare però in modo attento e preciso assieme ai professionisti e in modo che tenga conto delle realtà amministrative dei Comuni. Il Consiglio nazionale sta anche da tempo lavorando a una procedura standardizzata per l’approvazione di progetti on line. E i primi esperimenti di presentazione di domande per le diverse autorizzazioni via internet sono già state avviate in alcune grandi città. Il passo successivo sarà quello di riunire tutti i diversi aspetti autorizzativi in un unico software. La nostra ambizione è però quella di introdurre una procedura unica digitale per tutte le domande, un progetto al quale lavoreremo intensamente nei prossimi mesi». Burocrazia a parte, quali sono le principali difficoltà che incontra oggi un giovane architetto per affermarsi in Italia? «Sono le logiche clientelari e territoriali che spazzano via dal mercato i giovani architetti o addirittura impediscono loro di accedervi. Tra i progetti più

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immediati del nuovo Consiglio nazionale vi è quello di realizzare una banca dati di tutti gli architetti italiani, con curricula e foto di progetti realizzati, accessibile sul web: chiunque potrà accedervi e trovare il professionista che corrisponda alle proprie esigenze. Un’altra proposta è quella dell’utilizzo dei “cahiers de jeunesse” che, adottati in Francia, consistono nella selezione annuale di un numero di giovani architetti ai quali viene assegnato un punteggio per i loro progetti. Punteggio che consente loro di partecipare ai concorsi ai quali, di fatto, non potrebbero accedere se non dopo aver realizzato, per l’appunto, qualche opera». Oggi molti professionisti scelgono di operare all’estero. Come è possibile invertire questa tendenza? «Che un giovane cerchi di completare la propria formazione arricchendola con un’esperienza all’estero è senz’altro positivo. Meno positivo, ovviamente, che l’estero diventi terra di emigrazione: intellettuale, professionale fin quanto si vuole, ma sempre terra di migrazione. Su questo terreno il nostro impegno sarà massimo».

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DIBATTITI | Leopoldo Freyrie

Come giudica il sistema universitario italiano, in rapporto anche alle esigenze del mondo del lavoro? «I temi della formazione e dell’accesso alla professione sono storicamente all’attenzione del Consiglio nazionale e vanno considerati all’interno di un quadro generale sulla professione e sulla qualità dell’architettura. Siamo pronti a proporre alle Università un confronto propositivo a partire dal tema della formazione proseguendo con il tirocinio fino alla formazione permanente. Su quest’ultimo aspetto, fondamentale soprattutto per il futuro dei giovani architetti, è necessario però verificare come assicurare una qualità alta e omogenea dei corsi e come abbatterne i costi per non aggravare il portafoglio già in crisi degli architetti, in particolare i giovani. Non c’è dubbio tuttavia che l’introduzione della formazione permanente obbligatoria debba rappresentare un traguardo che possa essere raggiunto, spero in tempi brevi». Secondo lei il futuro della professione sarà “non tanto nella capacità tecnica e progettuale, quanto in

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un filo rosso dell'etica che consenta soluzioni di sostenibilità ambientale e di vivibilità per la città”. In che modo dovranno adeguarsi i professionisti italiani? «Naturale valore etico dell’architettura è il suo essere al servizio della società affinché essa possa rispecchiarsi in questi professionisti. Gli architetti italiani devono essere messi in grado di contribuire allo sviluppo civile del Paese interpretando – e ritrasmettendole nei loro progetti – le esigenze dei cittadini, in particolare quelle nuove: consapevolezza, in primo luogo, dell’importanza della qualità e dell’ambiente, e di una nuova vivibilità quotidiana delle città senza più storture e desolazioni. Al primo posto anche la consapevolezza dei nuovi bisogni e impegni in termini di risparmio energetico. Salvaguardia e rispetto del territorio, uniti alla tutela del paesaggio, sono sempre più dei punti cardine nella vita professionale di ogni architetto italiano. I cittadini devono sapere quanto questi aspetti stiano a cuore a ciascuno di noi, consapevoli come siamo che abbiamo il dovere di lasciare a chi verrà dopo di noi un Paese migliore di quello che abbiamo ereditato».

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Semplificare per ripartire Il presidente Ance, Paolo Buzzetti, chiede al governo nuove norme e lo sblocco delle risorse. Ma soprattutto auspica «un cambiamento culturale, è necessario che si faccia strada la cultura della qualità. E bisogna lavorare sulla riqualificazione urbana» di Riccardo Casini

Paolo Buzzetti, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili

«Se vogliamo che il 2011 non sia un altro anno nero per il nostro settore, che dall’inizio della crisi a oggi ha già perso 29 miliardi di euro di investimenti lasciando a casa 250mila lavoratori, e continua a essere strozzato da stretta creditizia, peso del fisco e ritardo dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto dall’assenza di adeguati investimenti, l’unica strada percorribile è quella di trasformare gli annunci in decisioni vere». Paolo Buzzetti, presidente Ance, non ha dubbi sul modo in cui è necessario affrontare la crisi che ancora oggi attanaglia il settore edilizio in Italia. «Il governo – precisa – non deve perdere l’occasione della prossima manovra per sostenere gli sforzi delle imprese per ripartire. Le nostre proposte riguardano in particolare tre aspetti: al primo posto, norme sulle semplificazioni, sia per gli appalti pubblici che per l’edilizia privata. Poi, le risorse: bisogna far partire quelle già programmate dal Cipe ma da più di un anno e mezzo bloccate, e indispensabili per aprire i cantieri e per

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mettere in sicurezza il territorio. Infine, e questa è una partita cruciale visto il continuo disimpegno di risorse nazionali, occorre accelerare la riconversione dei fondi Fas, garantendo la loro destinazione alle infrastrutture così come il ministro Fitto in un recente incontro in Ance si è impegnato a fare». Nel 2010 Ance ha firmato anche un protocollo d’intesa con i presidi della facoltà di Architettura e Ingegneria. C’è un problema di formazione in Italia per queste figure professionali? «Il protocollo che abbiamo firmato lo scorso anno, e che sta dando buoni risultati, è frutto della consapevolezza che le nostre imprese devono essere prima di tutto sinonimo di qualità e di eccellenza. Ed è importante che possano contare su giovani tecnici già formati e in grado di seguire il processo costruttivo dalla fase progettuale fino a quella esecutiva in senso stretto. Attraverso questa nuova figura di “tecnico di cantiere altamente

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DIBATTITI | Paolo Buzzetti

specializzato” puntiamo a contrastare le forme di imprenditoria non qualificata, che fa concorrenza sleale a quella sana e regolare spesso avvalendosi di manodopera in nero, con evidenti rischi per la sicurezza dei lavoratori. Nell’attuale quadro di crisi occupazionale il Protocollo assume una valenza ancora più importante. Il percorso formativo previsto punta infatti a un immediato inserimento del tecnico nel mondo del lavoro: sia attraverso un tirocinio semestrale presso le imprese Ance sia con l’utilizzo della rete informativa del sistema associativo, che contribuirà ad agevolare l’incontro tra domanda e offerta». Lei si è detto d’accordo con Renzo Piano su una riforma dei concorsi pubblici. In che direzione sarebbe necessario procedere? Quali sono i principali difetti del sistema attuale? «Renzo Piano ha colto il nocciolo del problema, che è quello che noi come Ance denunciamo da tempo. Quello che manca in Italia è la fase decisionale: ci vuole molto

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più tempo che in ogni altro Paese per approvare un progetto. La decisione, però, non solo arriva tardi, ma quando arriva può essere modificata e impugnata in varie sedi fino a protrarre il processo per decenni, con conseguenze gravissime sia sul piano sociale che economico. Poche norme chiare e facilmente applicabili sarebbero dunque la chiave per eliminare questo circolo vizioso». Nonostante si inizi a parlare molto anche in Italia di “costruire sul costruito”, lei ha recentemente denunciato la mancanza di strumenti normativi e urbanistici adeguati, sostenendo che da noi è ancora “impossibile abbattere e ricostruire un edificio”. In che modo è necessario intervenire? «Innanzitutto serve un cambiamento culturale: è necessario che nel nostro Paese si faccia strada la cultura della qualità, a cominciare dalle imprese e dalle pubbliche amministrazioni. In Italia per molti decenni l’attenzione è stata esclusivamente concentrata sulla

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quantità: l’esigenza, del resto, era quella di dare una casa a tutti. Ma ora il contesto sociale è cambiato, bisogna lavorare sulla riqualificazione urbana. Per questo da tempo l’Ance insiste sulla necessità di adottare strumenti normativi e urbanistici adeguati, che favoriscano un processo di recupero e rilancio edilizio, come sta avvenendo in tutto il mondo, e senza il quale non sarà possibile rendere più vivibili le nostre città. Se non ci sono vincoli storici o paesaggistici particolari, anche l’edificio deve poter essere sostituito quando invecchia, così come un’automobile. Dobbiamo passare dal Piano casa al “Piano città”, che consenta la riqualificazione delle aree non soltanto residenziali: in questo modo non solo non consumeremo nuovo territorio, ma renderemo i nostri contesti urbani più moderni e vivibili». A proposito di riqualificazione, un notevole impulso al mercato edilizio può venire oggi dall’architettura

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sostenibile. «Qualità del costruire significa anche sostenibilità ambientale. Il rapporto con il territorio e con le sue risorse oggi non può che essere virtuoso. Questo in Europa lo hanno capito e lo stanno già facendo: nelle principali capitali europee sono stati infatti costruiti interi quartieri ecologici, realizzati con le più moderne tecnologie. Qualcosa sta avvenendo anche in Italia ma troppo lentamente. In questo senso la possibilità di abbattere e ricostruire può essere un incentivo importante alla trasformazione delle nostre città nell’ottica di una maggiore attenzione all’ambiente e al risparmio energetico. Su quest’ultimo punto, in particolare, gli incentivi del 55% hanno fatto tanto ed è per questo che l’Ance si è battuta per ottenerne la proroga. Stesso impegno sul fronte della certificazione energetica, su cui l’Ance ha insistito affinché, nelle compravendite, l’obbligatorietà scattasse sia per i nuovi edifici che per quelli esistenti».

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Ingegneri in aumento Adeguamento delle retribuzioni e revisione del sistema universitario sono alcuni provvedimenti indicati da Giovanni Rolando, presidente del Cni, per tutelare una professione la cui domanda resta alta solo nel privato di Riccardo Casini

Presentato recentemente dal centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri, il primo rapporto sulla professione in Italia ha evidenziato da una parte un incremento delle immatricolazioni universitarie e, dall’altra, un calo dei laureati e, soprattutto, delle assunzioni: con la crisi economica è infatti aumentato il tasso di disoccupazione, passato dal 3,1% del 2008 al 4% del 2009. E anche se l’ingegnere rimane una delle figure più richieste dal mercato del lavoro e l’indagine preveda per il 2010 un ritorno a una condizione di sostanziale “piena occupazione”, le incognite sul futuro restano, come attesta il presidente del Cni, Giovanni Rolando. Che momento vive oggi la professione? Quali sono 128

le difficoltà principali per chi vi si affaccia? «La professione è in crisi per una grande diminuzione del mercato dell’ingegneria, soprattutto delle gare pubbliche che, negli ultimi 20 anni, hanno subito un calo che va oltre il 50%. Inoltre le amministrazioni, anche per motivazioni collegate al patto di stabilità, non sono in grado di liquidare i professionisti nei tempi stabiliti, con gravi difficoltà per la cassa. Un settore che, invece, potrebbe non avere crisi è quello dell’ingegneria dell’informazione, in continuo sviluppo; purtroppo però la professione C&P


DIBATTITI | Giovanni Rolando

Nel tondo, Giovanni Rolando, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri

dell’ingegnere informatico non è, a oggi, soggetta ad apposita “riserva” e questo fa sì che venga spesso esercitata da soggetti non titolati, privi dell’adeguata preparazione, con un grave danno soprattutto per l’utente finale». Ma il calo delle retribuzioni può rappresentare una molla per trasferirsi all’estero? «Il calo delle retribuzioni può rappresentare indubbiamente una molla per trasferirsi all’estero: alcuni mercati esteri sono più dinamici e presentano maggiori opportunità rispetto al nostro, come ad esempio i paesi dell’Est e il nord Africa, almeno prima della crisi. Se ci si riferisce ai dipendenti “ingegneri”, molti Paesi della vecchia Europa o dell’America garantiscono retribuzioni più elevate rispetto all’Italia e opportunità di carriera più veloci». Come evitare allora una “fuga” anche in questo campo? C&P

«Per evitare una fuga di professionisti bisognerebbe adeguare il più possibile le retribuzioni, tenendo conto che il ruolo dell’ingegnere non può e non deve essere limitato solo all’ambito tecnico, avulso cioè dallo sviluppo della società in cui lavora. Deve invece essere valorizzato per diventare sempre più una figura dirigenziale, di riferimento, per qualsiasi tipo di società. Lo stesso discorso potrebbe valere anche per il mondo politico: un esempio è quanto sta avvenendo nel governo cinese, formato per lo più da tecnici ingegneri». Come giudica in proposito l’offerta del sistema universitario? La formazione è adeguata alle esigenze attuali del mondo del lavoro? «La differenziazione della formazione oggi è adeguata, mentre ciò che va rivisto è l’attuale sistema universitario basato sul “3+2”. Da sempre, la forza della facoltà di Ingegneria è stata la forma mentis che lo studente acquisiva durante il corso universitario nell’arco unico dei 5 anni; percorso che 129


gli consentiva di acquisire un metodo per affrontare problemi complessi e trovare soluzioni soddisfacenti in tempi brevi. È importante che il mondo del lavoro e, quindi, gli Ordini professionali siano sempre più coinvolti nella definizione dei corsi di laurea e del loro eventuale accreditamento». In Italia la burocrazia viene sempre ritenuta uno dei principali ostacoli da affrontare. In che modo è possibile intervenire? «Non bisogna confondere la burocrazia con le garanzie per l’utente finale. Quindi, sì a leggi chiare e a compiti affidati in maniera altrettanto chiara a persone qualificate; no, naturalmente, a tutte quelle procedure inutili che ritardano o, addirittura, bloccano i lavori». Si parla da tempo di una riforma delle professioni in Italia. Il Cni ha partecipato attivamente alla stesura di un testo presentato lo scorso anno al 130

ministro Alfano. Quali sono le sue linee guida? E quale sembra essere oggi il futuro di questa riforma? «Il Paese ha bisogno di una riforma delle professioni per poter esercitare l’attività in modo più snello e competitivo, anche in un contesto internazionale. Il nostro Consiglio ha partecipato in maniera fattiva alla stesura del testo presentato lo scorso anno al ministro Alfano. Riteniamo che la legge sulle liberalizzazioni con l’eliminazione dei minimi tariffari abbia prodotto effetti collaterali destabilizzanti: si arriva, ad esempio, a situazioni assurde come il fatto che i costi relativi alla sicurezza delle imprese non sono soggetti a ribasso, mentre i professionisti che progettano quella sicurezza sono sempre in regime di concorrenza. In alcuni casi, sono costretti a fornire ribassi anche del 90% e, quindi, a lavorare ampiamente in rimessa, pur di rimanere sul mercato. Sono comunque certo che con un confronto pacato si possano fugare dubbi nell'interesse del cittadino». C&P



Il volto contemporaneo delle “città della salute” Dialogo con i fondatori dello studio Solmona & Vitali, tra i principali protagonisti della progettazione ospedaliera italiana. I due progettisti spiegano perché gli spazi clinici, in rottura con il passato, devono sempre più confondersi con la natura e con il contesto urbano circostante di Carlo Sergi


SPAZI CLINICI | Solmona & Vitali

Renzo Solmona e Marco Vitali. Nelle immagini, alcuni progetti realizzati dai due ingegneri di Torino. In apertura, la piazza coperta del nuovo ospedale di Asti e, a lato, la sede della provincia di Torino info@sva.to.it www.solmonaevitali.com

Sono molti gli impatti da tenere in considerazione nell’elaborazione o nella riqualificazione delle strutture e delle aree clinico-ospedaliere. «Gli edifici devono indurre stati d’animo il meno traumatizzanti possibili. Per questo gli ospedali devono sapersi integrare nel tessuto urbano in maniera discreta, quasi come fosse un nuovo quartiere della città». A riflettere sul tema è Marco Vitali, che assieme al collega Renzo Solmona è a capo uno degli studi più importanti, in Italia, nell’ambito della progettazione di grandi aree sanitarie. I due ingegneri hanno concepito progetti come il nuovo ospedale di Asti, il distretto sanitario di Nichelino, nell’hinterland torinese, e il centro antidoping realizzato in occasione delle olimpiadi invernali del 2006, tenutesi nel capoluogo piemontese. Il primo punto su cui soffermarsi è proprio la connessione tra le aree ospedaliere e il contesto cittadino. Renzo Solmona: «L’ospedale ha un grande impatto sul tessuto sociale, si tratta di un grande edificio frequentato da moltissime persone, la maggior parte di esse con seri problemi. Da qui, l’importanza di inserire i progetti nella maniera più discreta possibile. Ma attenzione, non vanno inseriti nella cittadella della scienza e del potere medico, ma in un vero quartiere cittadino in cui, insieme all’eccellenza della medicina, si affianchino altri aspetti C&P

che caratterizzano e vivacizzano le città in cui si abita». Ancora prima degli aspetti estetici, un ospedale deve essere funzionale. Qual è la vostra filosofia progettuale in tal senso? Marco Vitali: «La funzionalità dell’edificio deve essere rivolta soprattutto ad agevolare l’attività sanitaria. A tal fine ritengo fondamentali tre aspetti. Intanto il sistema dei percorsi, che rappresenta il vero scheletro strutturale attorno al quale si sviluppano le numerose attività che si svolgono nell’edificio. In secondo luogo, l’edificio deve essere flessibile, ossia adattabile alle continue evoluzioni delle attività cliniche. Infine, altro tassello decisivo è quello delle biotecnologie, sempre più importante nell’attività medica, che richiedono spazi dedicati, estremamente specifici e ampi». Dal punto di vista del paziente, però, anche il confort è un elemento da considerare con attenzione. M.V.: «La progettazione architettonica è chiamata a creare un ambiente che dia sicurezza al malato, che abbia aspetti famigliari e che rappresenti, il più possibile, la continuazione della sua vita normale. Separare e proteggere i flussi dedicati all’attività medica dagli spazi aperti al pubblico è una formula utile in questo. Strategico è poi il rapporto con la natura esterna, che va fatta entrare il più possibile nell’edificio. Naturalmente anche 133


l’illuminazione, i colori, la scelta dei materiali e le forme degli ambienti sono determinanti nel raggiungimento di un buon risultato, cioè tutto quanto è necessario per ottenere una buona architettura». Parliamo di alcuni dei vostri progetti più importanti. Come il nuovo ospedale di Asti. Cosa lo caratterizza soprattutto? M.V.: «Certamente la grande piazza coperta. Essa

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rappresenta un gradevole ingresso, non c’è l’atmosfera confusa e greve che si respira di solito nei vecchi ospedali. Il grande spazio luminoso, l’apertura verso le colline con la vista del Monviso al fondo della galleria, l’arredamento e i materiali da esterno, i numerosi servizi per il pubblico che si affacciano sulla piazza e il movimento delle persone che la percorrono ai vari livelli, la rendono molto simile a un autentico pezzo di tessuto cittadino. Inoltre la piazza è anche il fulcro del sistema dei

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SPAZI CLINICI | Solmona & Vitali

In alto, da sinistra, il progetto della Residenza Menabrea, il Centro Antidoping per le Olimpiadi Torino2006 e il Distretto Sanitario di Nichelino. In basso, l’ospedale Santa Croce di Cuneo

I moduli sono tra loro connessi con percorsi pedonali vetrati che, in un futuro auspicabile, potranno essere collegati a quelli esterni del reticolo di percorsi del parco

percorsi, la sua particolare strutturazione, con le ali laterali che formano dei filtri tra le attività sanitarie e quelle aperte al pubblico, ha consentito di far partire dalla piazza tutti i percorsi delle persone mantenendone la necessaria separazione tipologica». Anche il distretto sanitario di Nichelino ha rappresentato uno dei vostri lavori più ambiziosi. R.S.: «In questo caso, poiché la zona urbanistica individuata risultava in mezzo a due grandi aree verdi, cioè i parchi del Sangone e di Stupinigi, abbiamo organizzato l’area dell’intervento come “parco sanitario”, in cui il distretto avrebbe dovuto essere il primo di alcuni edifici immersi nel grande verde. A tal fine era stata individuato un reticolo di percorsi pedonali, in buona parte coperti, entro cui inserire gli edifici. Il distretto è stato organizzato con moduli funzionali, tutti con un solo piano fuori terra, i cui locali si sviluppano intorno a una corte alberata. I moduli sono tra loro connessi con percorsi pedonali vetrati che, in un futuro auspicabile, potranno essere collegati a quelli esterni del reticolo di percorsi del parco». C&P

Nel 2006, avete preso parte alla grande trasformazione che Torino ha vissuto con le Olimpiadi Invernali. È vostro il grande centro antidoping. Come è stato concepito? M.V.: «L’edificio è sostanzialmente un grande e complesso laboratorio analisi. I due piani destinati all’area operativa sono stati organizzati a “open space”, con banchi semimobili e distribuzione dall’alto degli allacci per le utenze, mediante un reticolo di travi reticolari sospese. Questo sistema consente l’utilizzo di nuove attrezzature senza modifiche strutturali. La particolare solennità dell’evento a cui era destinato l’edificio, ne ha ispirato anche l’aspetto esterno». Mentre nel prossimo futuro cosa realizzerete? R.S.: «Stiamo lavorando a un interessante progetto per una cittadella della cultura a Chieri, oltre che a un nuovo albergo a Stintino, in Sardegna. In ambito sanitario, stiamo terminando il progetto del nuovo Ospedale di Chivasso e la ristrutturazione dell’Ospedale di Alexandria in Romania». 135


La bioedilizia, motore di sviluppo per il territorio Gli edifici pubblici, oltre che funzionali, devono essere anche energeticamente sostenibili e a basso impatto ambientale. Un obiettivo che Bellino Galante e Giuseppe Galante perseguono da anni, a partire dalla loro provincia, il ferrarese di Carlo Sergi

L’architettura è uno dei perni su cui reggono le infrastrutture e i servizi per il cittadino. E le amministrazioni locali lo sanno bene, essendo chiamate a scegliere con attenzione i professionisti cui affidare la realizzazione delle opere maggiormente strategiche e utili al territorio. Un’esperienza progettuale che gli architetti Bellino Galante e Giuseppe Rondinelli vivono da anni. Una simbiosi professionale nata dall’incontro di due personalità diverse, ma tra loro complementari. Gli architetti esercitano da più di vent’anni nel campo dell’architettonica e dell’urbanistica, in particolare nello svolgimento delle attività di progettazione, direzione lavori, collaudi e sicurezza nei cantieri, con attenzione alle strutture antisismiche e risparmio energetico, coordinando le diverse discipline progettuali al fine di poter supportare la propria committenza in tutte le fasi dell’opera. A partire dall’Emilia, regione in cui operano da anni e in cui proprio di recente hanno portato a termine la realizzazione di due edifici pubblici. A partire da Vigarano Mainarda, in 136

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EDIFICI PUBBLICI | Bellino e Giuseppe Galante

In apertura, l’asilo intercomunale “Il Veliero” (Mirabello – Fe), gli architetti Galante e Rondinelli con il loro staff e, sotto, il Palavigarano (Vigarano Mainarda - Fe). In questa pagina, sopra, il progetto per il Motel Rocca Angitola e, sotto, l’Hotel Resort (Vibo Valentia) galante-rondinelli@alice.it galante-rondinelli@alice.it

provincia di Ferrara, dove Galante e Rondinelli sono autori del Palavigarano. Una palestra finalizzata alla pratica di due discipline sportive, il basket e la pallavolo ma che può anche ospitare manifestazioni culturali ed espositive. «La struttura è stata concepita all’insegna della leggerezza, della funzionalità e del risparmio energetico» spiega l’architetto Galante. Il Palavigarano, la cui tribuna può ospitare fino a 500 persone, «ha una struttura di copertura a “volta di botte” con orditura principale a otto archi in legno lamellare, il tutto collegato alle fondazioni tramite piastre bullonate, mentre l’orditura secondaria realizzata con arcarecci in legno e tiranti in acciaio è ricoperta da un telo in tessuto di poliestere biplasmato a doppia parete. In questo modo all’interno vi sarà aria calda o fredda a secondo delle condizioni climatiche esterne». L’amministrazione locale, per completare la richiesta di impiantistica sportiva, sta realizzando, sempre su progetto dello studio Galante-Rondinelli, un’altra palestra nella frazione di Vigarano Pieve, adiacente all’attuale campo sportivo. E sempre in zona, i due architetti ferraresi hanno realizzato l’asilo nido intercomunale “Il Veliero”, per i comuni di Mirabello e Vigarano Mainarda. «La progettazione dell’asilo è il risultato di un confronto tra i comuni e noi progettisti, con l’obbiettivo di realizzare una struttura salubre attraverso C&P

l’utilizzo di materiali, tecnologie e impianti di tipo bioecologico» sottolinea Galante. E proprio il concetto di bioedilizia si è rivelata l’idea vincente per questa struttura, che ha ottenuto il certificato “Classe A” dalla Regione Emilia Romagna. «I volumi si collegano su quattro lati con una corte interna, dove si affacciano i servizi. L’orientamento solare dell’asilo e la distribuzione interna degli spazi funzionali è conseguenza della scelta di privilegiare la luminosità delle stanze, relazionandole allo stesso tempo con il giardino e la corte. La struttura portante – spiega Rondinelli è realizzata con elementi prefabbricati bidimensionali in legno per pareti e solai, l’uso del cemento è limitato alle fondazioni. Il risultato è un involucro ben isolato». Ma non si concentra unicamente al Nord il lavoro dei due architetti. Di recente si sono adoperati per la progettazione di un importante complesso ricettivo per l’area turistica di Vibo Valentia. Un motel e un hotel Resort, posizionati strategicamente tra il mare e le principali vie di comunicazione. Secondo i due progettisti, «Gli edifici, anche nel loro tratto architettonico, dichiarano la volontà di porsi come passo nel futuro, come ulteriore elemento di coesione e articolazione delle iniziative culturali, economiche e sociali che ruotano intorno al comprensorio e che puntano ad assumere un respiro di carattere propulsivo per l’intera area nel Centro Sud». 137


Forme accoglienti potenziano i valori dell’ospitalità Nel progetto di un albergo non bastano la creatività e l’estro dell’architetto. Bisogna saper ascoltare il luogo, conoscere i valori dell’ospitalità e i simboli per rappresentarli e trasmetterli direttamente all’inconscio. Così da favorire le relazioni fra le persone di Luca Cavera

Disegnare un albergo che con la sua forma accolga l’ospite. Varcata la soglia di un hotel, non si entra soltanto in relazione con il personale, ma ancora prima, si entra in relazione con le luci, gli arredi e con la costruzione stessa. Questi elementi di dettaglio, ma anche strutturali, contribuiscono all’accoglienza quanto e forse più della gentilezza e dell’interazione fra le persone. Spesso i progetti avveniristici, anche di matite geniali, non tengono in conto questi aspetti e quindi non riescono a raggiungere questo scopo semplicemente perché lo ignorano. Si vede così, a volte, un’architettura che parla solo di se stessa, che non dice niente di chi offrirà un servizio e di chi lo riceverà. «Uno degli aspetti che ultimamente si vanno perdendo, in questo mestiere, – afferma l’architetto 138

Vittorio Pedrotti – è il rapporto personale diretto con la committenza, rapporto che io cerco sempre di trovare e sviluppare, per avere quello scambio di idee che garantisca il raggiungimento del successo nella progettazione». Specializzato nella progettazione alberghiera, Pedrotti pensa che «il design per l’ospitalità debba dare un senso di protezione e non di aggressività. Per questo prediligo le linee curve che sono in sintonia con le forme del corpo umano e della natura. Ritengo che ogni architettura debba trasmettere dei valori a livello inconscio, stimolati attraverso la percezione visiva di forme simboliche. Nel Ramada Ticinum Hotel, ho cercato di rappresentare proprio i valori dell’ospitalità. Le forme arrotondate dei due corpi di fabbrica vengono percepite, a livello inconscio, come senso di C&P


PROGETTAZIONE ALBERGHIERA | Vittorio Pedrotti

Nelle immagini, ristrutturazioni alberghiere ad opera dello Studio Pedrotti, Milano www.vittoriopedrotti.com

Il design per l’ospitalità deve dare un senso di protezione e non di aggressività. Per questo prediligo le linee curve, in sintonia con le forme del corpo umano e della natura

protezione e accoglienza. Nel disegnarle ho voluto creare, per la corte interna, una zona psicologicamente riparata, ispirandomi all’azione di due mani che proteggono. Il punto focale della corte interna, sull’asse di collegamento tra i due edifici, coincide con la sala soggiorno per gli ospiti, spazio di comunicazione tra le persone e le varie culture». Inoltre la sua aspirazione «è quella di trovare soluzioni progettuali che tengano in considerazione il

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contesto specifico del luogo e che abbiano una continuità con la storia dell’edificio. Per esempio, ritengo essenziale, per un architetto, mettere a disposizione la propria creatività senza forzature, cercando di ascoltare il più possibile le suggestioni che il luogo o l’edificio esistente trasmettono, senza dover sempre imporre un proprio cliché estetico. L’architettura di una nuova edificazione deve essere il più possibile integrata con il paesaggio, in modo che non sia predominante a livello percettivo, ma che assecondi le linee del landscape». Per questo architetto, il settore alberghiero è sempre stato quello privilegiato per la progettazione, ma bisogna pure mediare fra il lato creativo e gli aspetti pratici, soprattutto nella direzione e nella gestione di progetti diversi, come quelli di interior design, di engineering e di project management. «In un intervento su un edificio storico come il Grand Hotel Miramare di Santa Margherita Ligure, che fa parte della prestigiosa associazione The Leading Hotels of the World, l’intento è stato quello di ricostruire le prestigiose ambientazioni degli ambienti originali della struttura, che erano molto eleganti; ma l’intento è stato anche quello, ricreandoli, di attribuire loro delle nuove funzionalità». 139


Gli spazi liberi infrangono l’isolamento Nella dinamica sinergia tra gli spazi urbani nasce l’ispirazione alla base dei progetti di Umberto Capelli, Marco Fossati e Raffaello Sandri. I fautori dell’importante rinnovo dell’aeroporto internazionale di Bucarest spiegano la loro filosofia architettonica di Paolo Lucchi

Porta la mente verso le immagini suggestive del volo e della leggerezza, crescendo su un sinuoso volume monolitico vetrato, sovrastato da una grande copertura “a onda”. Umberto Capelli, Marco Fossati e Raffaello Sandri, gli architetti a capo dello Studio Capelli Architettura & Associati di Milano, hanno così sviluppato l’imponente ampliamento dell’aeroporto internazionale “Henri Coanda” di Bucarest. Il team di Capelli è stato interpellato dalla società di ingegneria Technital Spa per la terza fase di sviluppo dell’area aeroportuale. «All’interno, l’organizzazione degli spazi è stata progettata secondo un’interpretazione funzionale del tutto inedita per questo tipo di edificio – spiega Raffaello Sandri -. Abbiamo enfatizzato gli spazi liberi e le trasparenze tra le diverse funzioni che tradizionalmente vengono isolate». Il progetto incrementa la riconoscibilità internazionale di uno studio di architettura che in oltre quarant’anni di attività ha già contribuito allo sviluppo e al 140

rinnovamento della città di Milano. Sempre in Est Europa, il gruppo ha elaborato la riqualificazione dell’ex area industriale Odkolek, a Praga, in evidente contrasto con il contesto naturale-residenziale nel quale è inserita. «L’intervento consiste in 225mila metri cubi di edificato suddiviso in residenziale, alberghiero, uffici e commerciale – racconta Marco Fossati -. Il progetto si pone come elemento di passaggio tra ambiente naturale e ambiente urbano, mantenendo come filo conduttore la trasformazione degli spazi verdi, sempre vivibili, da giardino residenziale a piazza urbana, dotata di boutiques, ristoranti, uffici e hotel». «La poliedricità dei nostri professionisti ci ha portato a realizzare con successo progetti di architettura d’interni, di edilizia residenziale, terziaria, alberghiera e industriale, nonché nel campo delle infrastrutture» evidenzia Umberto Capelli. I luoghi dell’abitare, della mobilità e del lavoro. Sono questi i tre scenari essenziali del vivere quotidiano. E C&P


Foto di: Archivio MM

PROGETTI INTERNAZIONALI | Umberto Capelli, Marco Fossati e Raffaello Sandri

Le stazioni di Milanofiori sono caratterizzate da una copertura, molto trasparente, che sottende per intero lo sviluppo delle banchine

In apertura, l’aeroporto Henri Coanda di Bucarest. Nelle altre immagini, in alto, la stazione Milanofiori Forum per la metropolitana di Milano, sotto, il progetto di riqualificazione dell’ex area industriale Odkolek a Praga (per F.I.M. Group) www.capelli-architettura.it

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l’analisi delle sinergie e delle contraddizioni tra di essi sono alla base della filosofia progettuale portata avanti dagli architetti. Tornando alla loro città madre, Milano, i tre hanno lavorato per la linea 2 della metropolitana, relativamente alle stazioni di Assago. Il progetto, elaborato da Metropolitana Milanese SPA, prevede, con il prolungamento della linea M2, la possibilità di raggiungere la cittadina di Assago attraverso le due nuove stazioni di Milanofiori Forum e Milanofiori Nord. «Le stazioni, sostanzialmente uguali, sono caratterizzate da una copertura a capanna, molto trasparente, che sottende per intero lo sviluppo delle banchine alle quali si accede mediante scale fisse, mobili e ascensori – descrive Umberto Capelli -. La stazione Milanofiori Forum è collegata al Forum e al Centro terziario di Milanofiori mediante una passerella pedonale che scavalca da una parte l’autostrada per Genova, dall’altra il viale frontistante Milanofiori». 141


L’ingegneria non può sottrarsi all’integrazione progettuale La progettualità ingegneristica necessaria per la realizzazione di infrastrutture non può trascurare le molteplici componenti del paesaggio con cui l’opera interferisce. Per Angela Procopio occorre progettare sistemi infrastrutturali più efficienti a minimo impatto ambientale di Giulio Conti

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INFRASTRUTTURE | Angela Procopio

In apertura, il Viadotto “Plati 2” della BagnaraBovalino (RC). In foto, l’ingegnere Angela Procopio con la sorella Carla, anch’essa ingegnere e socia dello studio S.T.I. angelaprocopio@sti.to.it

“Una strada non è un’entità chilometrica: è un avvenimento plastico in seno alla natura”. Così Le Corbusier annunciava nel 1939 una condizione imprescindibile del panorama ingegneristico delle città moderne, nonché la necessaria connessione tra le infrastrutture e il contesto paesaggistico che le incornicia. Perché, di fatto, «non si può progettare un’opera basandosi esclusivamente sui problemi tecnici e trascurando le molteplici componenti del territorio con cui interferisce. Ma occorre migliorare necessariamente l’integrazione dell’opera nell’ambiente». Angela Procopio, uno dei principali esponenti dell’ingegneria piemontese, a capo della società S.T.I., Studio Tecnico Italiano, descrive un complesso tessuto ingegneristico all’interno del quale «le infrastrutture devono rispondere alle richieste di una maggiore attenzione ambientale, maggiore efficienza e sicurezza». Qualsiasi riflessione sul futuro delle reti infrastrutturali non può infatti ignorare il tema del consumo energetico. «Molti esperti ritengono che nei decenni a venire saranno sempre più evidenti le problematiche inerenti l’approvvigionamento energetico e le situazioni climatiche estreme, in buona parte dovute alle emissioni di gas ad effetto serra utilizzate proprio dai sistemi infrastrutturali. Molte, naturalmente, sono le C&P

incognite: dall’andamento del prezzo del petrolio, alle politiche energetiche dei singoli Paesi; dalle congiunture economiche, alle pressioni dell’opinione pubblica sui temi ambientali, all’instabilità dovuta ai conflitti globali. Da qui emerge l’importanza di progettare sistemi infrastrutturali in grado di aumentarne l’efficienza diminuendo l’impatto ambientale». In che modo? «È necessaria un’adeguata pianificazione urbanistica che ponga in sinergia le politiche infrastrutturali con le altre strategie territoriali: ad esempio l’individuazione delle zone residenziali, quelle produttive, l’impatto che viene a determinarsi sul sistema della mobilità, la sostenibilità ambientale, i valori del paesaggio. Compatibilmente con le logiche del mercato, è inoltre importante che le produzioni siano quanto più possibile locali. Infine è fondamentale contribuire alla realizzazione di infrastrutture in grado di integrare al proprio interno tecnologie innovative tese alla produzione di energia rinnovabile direttamente dai gestori delle reti infrastrutturali». Sulla scia di Le Corbusier, ritiene che le opere infrastrutturali in Italia possano rappresentare “avvenimenti plastici in seno alla natura”? «Occorre innanzitutto pensare alla progettazione integrata delle infrastrutture in termini di processo 143


Aerea dello svincolo “Berchelle” (BI) opera progettata e diretta dallo Studio Tecnico Italiano di Torino

È necessaria un’adeguata pianificazione urbanistica che ponga in sinergia le politiche infrastrutturali con le altre strategie territoriali: ad esempio l’individuazione delle zone residenziali

unitario e continuo, e superare il pre-concetto secondo cui l’infrastruttura è un’opera pubblica che deve unicamente coniugare in sé funzionalità e tecnica/tecnologia. Noi crediamo fortemente nel fatto che non si possa progettare un’opera basandosi esclusivamente sui problemi ingegneristici e tecnici, trascurando o sottovalutando le molteplici componenti del territorio e del paesaggio con cui interferisce, ma che, diversamente si debba migliorare l’integrazione dell’opera nell’ambiente». Le infrastrutture non possono quindi comporsi di sole funzioni tecnologiche. «L’ingegneria contemporanea non può sottrarsi all’integrazione progettuale. Troppo spesso, infatti, è accaduto che nell’intento di progettare, ad esempio, strade più efficienti, sicure e veloci, si sia dedicata scarsa attenzione ai luoghi in cui si inserivano, attraversando zone caratterizzate da grande pregio naturalistico-ambientale e storico-culturale. Progettare 144

una strada consente di creare un’opportunità di contatto diretto con il paesaggio, di scoperta dei luoghi, di godimento dei panorami, e di risvegliare nel viaggiatore il desiderio di conoscere i paesaggi attraversati nella veloce e distratta percorrenza stradale». Molte archistar hanno dato il loro contributo al mondo infrastrutturale italiano progettando strutture che hanno cambiato il volto di molti “paesaggi ingegneristici”. Qual è la sua opinione? «Credo fortemente nel concetto del “fare rete”, nella possibilità cioè di mettere in comunicazione i saperi e le esperienze personali per raggiungere un obiettivo vincente, nonché un alto livello d’integrazione di competenze, tecnologie, sistemi e persone; integrazione che “fa rete” anche in momenti di crisi, per costruire il futuro del settore delle infrastrutture e renderlo capace di rispondere alle richieste di una maggior attenzione ambientale, maggiore efficienza e sicurezza». C&P



Pensieri tridimensionali La realizzazione di rendering fotorealistici rappresenta lo strumento ideale per visualizzare ogni progetto su qualsiasi scala e comunicarne tridimensionalmente estetica e funzionalità. L’esperienza dello studio Factory3 di Adriana Zuccaro

Lo studio progettuale di un’opera architettonica accostamenti cromatici permettono di verificare reclama l’impulso informaticoa priori la validità del pensiero progettuale tecnologico di strumentazioni di con simulazioni molto precise della realtà». supporto come il servizio di Grazie alla costante attività di realizzazione di rendering fotorealistici, sperimentazione e ricerca dei professionisti che permette di visualizzare al meglio il dello studio, le immagini dei progetti progetto o l’idea che ne sta alla base, realizzati da Factory3 catapultano in su qualsiasi scala. dimensioni estetiche e funzionali davvero Consci dell’importanza e dei possibili “atipiche”. effetti di una “rivoluzione” graficoPresso lo studio, «luogo ludico e pensatoio realizzativa, gli associati dello studio stimolante, convergono idee, attitudini e Factory3, il designer Federico Fazio e competenze professionali differenti che l’architetto Fiammetta Raggi De contaminandosi costituiscono il punto di Marini, hanno dato vita a una vera e partenza per lo sviluppo di ogni progetto propria agenzia creativa che lavora – spiegano i soci –. La consapevolezza attraverso le discipline di derivante da anni di esperienza nel architettura, design, graphic design e settore; la collaborazione con rendering. «La realizzazione di l’università; un team di lavoro giovane, immagini fotorealistiche, dinamico e aggiornato sulle ultime oltre ad essere un ottimo tendenze, sono gli ingredienti che mezzo per comunicare un caratterizzano l’attività progetto che esiste solo su progettuale». Un team che riesce carta, è anche un valido a valutare il progetto ascoltando strumento di progettazione le esigenze e motivazioni del – affermano i professionisti committente, comprendendo le –. Infatti, le fasi preliminari condizioni al contorno e di modellazione individuando i destinatari della In alto, da sinistra, scorcio uffico dello studio Factory3. tridimensionale, comunicazione. Perché, «è Rendering per il cliente Officina Architetti. Qui sopra, applicazione di materiali e fondamentale saper ascoltare, rendering per il cliente Studio EDB www.3factory.it finiture, valutazione degli per comunicare». 146

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Credit foto: © Francesco Jodice. Courtesy of the artist and Brancolini Grimaldi, London / Rome

Spazi dietro l’obiettivo Approccio classificatorio. Visione individuale. La fotografia oggi tende, secondo il docente e critico Walter Guadagnini, a unire i due aspetti per restituire la complessità dei paesaggi contemporanei di Francesca Druidi

«Il rapporto con l’architettura è stato centrale sin dalla nascita della fotografia». A sottolinearlo è Walter Guadagnini, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna e responsabile della sezione fotografia de Il Giornale dell’Arte. Tappa fondamentale di questo legame dialogico è la storica “Mission Héliographique” francese del 1851, primo caso di mappatura fotografica del patrimonio architettonico nazionale su committenza pubblica.

o di Werner Mantz, a un libro come Amerika. Bilderbuch eines Architekten di Eric Mendelsohn, per capire quanta storia delle immagini sia transitata attraverso l’architettura, e viceversa. Negli anni Sessanta, i tedeschi Bernd e Hilla Becher e gli americani Ed Ruscha e Dan Graham realizzano, proprio attraverso ricognizioni sulle forme architettoniche, alcune delle opere fondanti l’arte concettuale. Insomma, una storia infinita».

Nel suo volume Una storia della fotografia del XX e XXI secolo ha affrontato l’evoluzione della fotografia sotto diversi profili. Quale importanza ha assunto, in questo periodo, il rapporto tra fotografia e architettura? «Per quanto riguarda il XX secolo, basti pensare a quello che succede negli anni Venti e Trenta in Germania, alla forte presenza della fotografia al Bauhaus, a figure come quelle di Albert Renger-Patzsch

E da quale punto di vista ritiene più significativo operare un’analisi relativa all’intreccio delle due discipline? «Due aspetti meritano particolare attenzione: da un lato, vi è l’approccio analitico, tassonomico, da archivio, che nella sua freddezza e ricercata oggettività riesce a mettere in luce alcune costanti del panorama architettonico, urbano e suburbano, nelle quali si coniugano bellezza e funzionalità dell’immagine.

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FOTOGRAFIA | Walter Guadagnini

In alto a destra, Walter Guadagnini. In questa pagina, Untitled (Napoli) 1998 di Francesco Jodice. Sotto, particolare di un’altra foto di Napoli scattata da Jodice. Nella pagina successiva, Genova (1997) di Gabriele Basilico. Queste immagini fanno parte della mostra itinerante “Dettagli di territorio. I fotografi italiani della Ubs Art Collection” organizzata dalla Ubs

Oggi molti fotografi operano a contatto strettissimo con altri intellettuali, penso a una figura come Francesco Jodice C&P

Dall’altro, vi è l’approccio più individuale, se vogliamo più lirico, nel quale l’architettura è insieme personaggio principale e sfondo del racconto: penso alla Parigi vuota di persone di Atget o a certa fotografia americana degli anni Settanta, dove l’architettura e le persone sono inscindibili, hanno lo stesso carattere. Da questo punto di vista, la fotografia contemporanea cerca di coniugare questi due aspetti, anche perché è costretta a confrontarsi con territori sempre più complessi e l’approccio, di conseguenza, deve essere elastico anche in termini di scelte estetiche». Oggi, con quali finalità e modalità espressive la fotografia si pone di fronte allo spazio urbano? «La fotografia deve, appunto, cercare di rispondere a una complessità e a processi di mutazione rapidissimi, sia dal punto di vista storico e sociale che da quello specificamente architettonico e urbanistico. Inoltre, quello che una volta era “esotico” - penso al mondo medio ed estremo orientale per uno sguardo occidentale - oggi è il centro del mondo: con quali occhi si va a fotografarlo? Non si tratta di novità assolute, ma di accelerazioni e di esasperazioni, anche dei modelli della comunicazione. Negli anni Trenta del Novecento, Dorothea Lange realizzava le sue fotografie nel sud degli Stati Uniti collaborando con suo marito, che era un sociologo. Oggi questa è diventata una prassi, molti fotografi operano a contatto strettissimo con altri intellettuali, penso a una figura per me molto significativa nel panorama attuale come Francesco Jodice, il quale peraltro accompagna la fotografia al video». La missione francese Datar risulta fondamentale nell’evoluzione della fotografia di paesaggio e architettura. Per quanto riguarda l’Italia, individua un 149


Credit foto: © Gabriele Basilico

Sia alla Datar che a Viaggio in Italia ha partecipato Gabriele Basilico, un punto di riferimento per queste tematiche

movimento, un autore, un passaggio economicosociale altrettanto cruciale? «Occorre tenere presente che la missione della Datar del 1983 è stata una committenza pubblica, che ha riunito fotografi di tutto il mondo in vista di una lettura fotografica del territorio, a seguito degli interventi che lo hanno modificato a partire dal dopoguerra. In Italia, questo concetto di committenza pubblica non c’è praticamente mai stato: in fondo, l’immagine fotografica dell’Italia è stata costruita prima da un’impresa privata come quella degli Alinari e poi dalle campagne organizzate dal Touring Club, ma è chiaro che parliamo di approcci totalmente differenti. Anche il momento più vicino allo spirito della Datar è, in realtà, un’iniziativa privata: il “Viaggio in Italia”, nato sotto l’impulso di Luigi Ghirri, un fotografo che ha sempre collaborato con architetti e studiosi di architettura. In quel viaggio è cresciuta una generazione di fotografi e si è data una nuova lettura del territorio italiano».

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C’è un fotografo, italiano e non solo, che a suo parere ha meglio colto il legame tra architettura e fotografia o ne ha dato una visione particolarmente incisiva? «Sia alla Datar che a Viaggio in Italia ha partecipato un fotografo italiano, Gabriele Basilico, che credo sia davvero un punto di riferimento per queste tematiche. Almeno per due motivi: il primo è, ovviamente, la qualità della sua ricerca, la sua estensione e la sua coerenza. L’altro è la riflessione con la quale ha sempre accompagnato le sue immagini, e non parlo solo della sua riflessione individuale, ma di quella dei tanti architetti e studiosi di architettura che si sono misurati con queste fotografie. Se si realizzasse un’antologia degli scritti apparsi sui libri di Basilico, credo si otterrebbe una piccola storia dell’architettura e del pensiero architettonico contemporaneo. Tra i rappresentanti delle generazioni più giovani, credo che un’autrice come la tedesca Beate Gütschow metta bene in scena la condizione ambigua nella quale si trovano tanto la fotografia quanto l’architettura ai giorni nostri». C&P



Credit: RIBA British Architectural Library Photographs Collection

Comunicare l’architettura Quarant’anni anni di architettura nostrana letti attraverso l’evoluzione della visione fotografica. Accade nella mostra “Inquadrare il moderno. Architettura e fotografia in Italia 1926-1965” curata da Valeria Carullo di Francesca Druidi

Oltre 100 foto d’epoca, scattate da più di 60 fotografi, provenienti dalla Riba (Royal Institute of British Architects) British Architectural Library Photographs Collection, sono le protagoniste della mostra “Inquadrare il moderno. Architettura e fotografia in Italia 1926-1965”, che ha aperto i battenti al Maxxi di Roma il 24 marzo per terminare il 22 maggio. L’esposizione indaga come la fotografia, fin dalla sua nascita, abbia permesso agli architetti «da un lato, una più estesa conoscenza delle opere del passato e di quelle dei loro contemporanei, dall’altro, la diffusione del proprio lavoro presso un pubblico sempre più vasto», evidenzia Valeria Carullo, che cura la mostra insieme a Robert Elwall. Perché la mostra si focalizza sul periodo 19261965? «L’inizio e la fine del periodo da noi considerato sono

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C&P


FOTOGRAFIA | Valeria Carullo

L’intenzione era quella di approfondire il legame tra architettura e fotografia negli anni tra le due guerre e lo sviluppo di questo rapporto nel secondo dopoguerra

In apertura, Mostra Nazionale della Moda, Torino (Gino Levi-Montalcini, 1932) fotografata da Augusto Pedrini. Sotto, Valeria Carullo, curatrice della Mostra “Inquadrare il moderno”. A lato, Golf dell’Ugolino, Firenze (Gherardo Bosio, 1934), ripreso da Gino Barsotti

entrambi momenti di grande cambiamento. La seconda metà degli anni 20 vede la nascita del Razionalismo e, al contempo, la diffusione dei dettami della Nuova Fotografia nell’ambito della fotografia di architettura. All’inizio degli anni 60, si diffonde, invece, un diverso approccio in quest’ambito, più attento al contesto sociale e alle trasformazioni del paesaggio urbano, con una chiara influenza sia dei fotoreportage che della fotografia e del cinema neorealista. In generale, la nostra intenzione era quella di approfondire il legame tra architettura e fotografia negli anni tra le due guerre, periodo in cui il Movimento Moderno si afferma in Italia, e lo sviluppo di questo rapporto nel secondo dopoguerra».

il mezzo più efficace per diffondere la conoscenza dell’architettura e, tuttora, la nostra conoscenza di molti edifici si limita necessariamente alle loro immagini fotografiche. Particolarmente interessante è la contemporanea affermazione in Europa del Movimento Moderno e della Nuova Fotografia: quest’ultima dimostra di essere il mezzo ideale di rappresentazione della nuova architettura, le cui qualità spaziali e i cui materiali vengono esaltati da prospettive inusuali, tagli radicali, forti contrasti tonali tipici di questa nuova tendenza. Ciò è evidente anche nella fotografia di architettura italiana, tra l’altro favorita -più che in altri paesi- da un frequente utilizzo in mostre ed esposizioni, diventando così a sua volta parte di progetti architettonici».

Quali gli elementi più significativi che emergono nel rapporto di influenza reciproca tra fotografia e architettura? «Fin dall’Ottocento, la fotografia si era rivelata come

Si segnala anche il diretto coinvolgimento di molti architetti nella produzione di immagini fotografiche. «Tra i tanti esempi possibili, ci siamo soffermati su Giovanni Michelucci, che utilizzava il mezzo

C&P

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Fin dall’Ottocento, la fotografia si era rivelata come il mezzo più efficace per diffondere la conoscenza dell’architettura

Sopra, Club Motonautico Amila, Tremezzo, Lago di Como (Pietro Lingeri, 1931). A fianco, dall’alto, Padiglione Breda, XXIX Fiera Internazionale di Milano (Luciano Baldessari, 1951); sotto, a sinistra, foto della Villa-studio per un artista, Triennale di Milano (Luigi Figini e Gino Pollini, 1933), ad opera dello Stabilimento Fototecnico Crimella; a destra, Padiglione B del Salone delle Esposizioni, Torino (Pier Luigi Nervi, 1949)

principalmente per prendere “appunti” visivi; Giuseppe Pagano, che rivelò un notevole talento in questo campo, e Carlo Mollino, che negli anni 40 scrisse un trattato sull’arte fotografica, Il messaggio della camera oscura. Lo stretto rapporto tra queste due discipline è ulteriormente confermato da due commenti rivelatori nell’ambito della critica dell’epoca: da un lato, la fotografia, prevalentemente in bianco e nero, venne accusata - come conseguenza del suo ruolo primario nella diffusione della conoscenza dei nuovi edifici - di generare a sua volta un’architettura mancante di valori cromatici; dall’altro, l’architettura, come fu notato dal critico Marziano Berardi, aveva influenzato le nuove tendenze fotografiche, incoraggiando una maggiore attenzione verso la geometria delle forme, i valori grafici e plastici, l’equilibrio di pieni e vuoti, il senso del volume». Come si delinea il ruolo delle riviste specializzate 154

in questo processo? «È stato senz’altro determinante in quanto principale fonte di diffusione delle immagini fotografiche. Tra l’altro, sia Giuseppe Pagano che Giò Ponti, a lungo direttori rispettivamente di Casabella e Domus, nutrivano un profondo interesse nei confronti della fotografia: Pagano affermò nel 1938 che quest’ultima gli aveva insegnato un “nuovo modo di vedere”, mentre Ponti aveva esaltato la visione indipendente della fotografia nel suo articolo Discorso sull’arte fotografica del 1932. Le foto assunsero un ruolo sempre più importante nell’impaginazione grafica di Casabella nel corso degli anni 30, che in quegli stessi anni pubblicava tra l’altro regolarmente brevi articoli sulla Nuova Fotografia. Nelle pagine di Domus, invece, è negli anni 50 che si nota una maggiore enfasi nell’utilizzo dell’immagine fotografica. È interessante notare in questo contesto la mancanza, in entrambe le riviste, di articoli o analisi più specificamente incentrati sulla fotografia di C&P


FOTOGRAFIA | Valeria Carullo

architettura». Questa mostra, a suo avviso, fornisce strumenti utili per leggere lo scenario attuale? «Sembra banale sottolineare come la conoscenza del passato ci aiuti sempre a capire meglio il presente. Senz’altro, la tendenza dominante della fotografia di architettura oggi - e mi riferisco agli scatti dei professionisti, quelli che appaiono frequentemente nelle riviste del settore - trova le sue radici nel periodo esaminato dalla mostra. Penso in particolare all’esaltazione di quelle che Giorgio Casali definiva le qualità fotogeniche dell’architettura, come anche al C&P

gusto di isolare un dettaglio, all’apprezzamento di valori puramente grafici fino ad arrivare talvolta all’astrazione. Tutto ciò chiaramente trasposto nel mondo del colore, dato che il bianco e nero molto raramente fa la sua comparsa sulle riviste o viene richiesto dalla committenza, ed è in genere dominio della fotografia d’arte, anche se di recente mi è sembrato di notare una relativa inversione di tendenza. In ogni caso, mi piacerebbe molto che fossero i visitatori della mostra a trarre le proprie conclusioni su questo argomento, sperando che questo sia l’inizio di un fecondo dibattito». 155


Immagini fotografiche nell’era digitale Per Paolo Rosselli la tecnica della fotografia è cambiata. È diventata postmoderna, «aperta a ogni stile, possibilità e linguaggio». Ma restano fondamentali le scelte individuali, lo sguardo e la sensibilità del fotografo di Francesca Druidi



Scorci di conglomerati urbani quali Tokyo, Milano, Città del Messico, Shanghai. Forme e opere dei più celebri architetti del mondo come Herzog e De Meuron, Santiago Calatrava, Jean Nouvel. Sono alcuni dei soggetti scelti da Paolo Rosselli per i suoi lavori. «In partenza, la città, l’architettura o la natura sono soltanto dei soggetti potenziali, ma non sufficienti a creare qualcosa di nuovo a livello percettivo. È fondamentale avere un punto di vista», sottolinea il fotografo milanese rimarcando come la sua esperienza della città, negli ultimi anni, si sia modificata in virtù dei ragionamenti compiuti sullo spazio e sull’architettura. Nel suo libro più recente, Sandwich digitale, pubblicato da Quodlibet nel 2009, Rosselli definisce la città come un “clima”: «usare questo termine o concetto mi aiuta 158

nel fotografare, perché in un certo senso abolisce le differenze tra i soggetti presenti su questa scena e li comprime, mettendoli tutti sullo stesso piano contemporaneamente». Nel volume, il fotografo elabora, inoltre, una serie di riflessioni sulle sfide e in fondo sulle contraddizioni insite nella tecnica digitale. Una tecnica da lui utilizzata costantemente e che «non significa unificare la fotografia e renderla omogenea». Si parla di città postmoderna, ma come si traduce C&P


SCATTI D'AUTORE | Paolo Rosselli

In apertura, interno della Casa del Fascio di Giuseppe Terragni a Como (2004) colto da Paolo Rosselli (a sinistra nel tondo). Nella pagina precedente esterno della Casa del Fascio. Sopra, Tokyo

questo concetto in immagini? «Ovunque nel mondo, la città postmoderna e la città storica coesistono; le città cambiano più lentamente, si può dire. La fotografia, invece, potrebbe cambiare, ma spesso non lo fa per convenienza, per una certa deferenza verso la tradizione visiva. Questo per dire che il postmoderno significa qualcosa nell’architettura o nella città, ma può voler dire altro nell’immagine. Ciò che è cambiato veramente è la tecnica della fotografia, questa sì diventata pienamente postmoderna, vale a dire aperta a ogni stile, possibilità e linguaggio. Ma, in ogni caso, siccome è un individuo con la propria sensibilità a scattare fotografie, a rappresentare il mondo, l’eventuale rivoluzione che il digitale propone, dipende in ultima analisi dalle sue scelte personali». C&P

In base alla sua visione ed esperienza, come si articola il rapporto tra architettura e fotografia? «Questa domanda sembra rituale o banale, ma in realtà non lo è. Fino a qualche tempo fa, la fotografia, incontrando l’architettura, trovava un elemento diverso, un elemento “altro”, come si usa dire. Attualmente questo contrasto, che era molto seducente, non si verifica più in quanto l’architettura è, essa stessa, immagine o produce delle immagini, più che un senso dell’ordine. La fotografia rimane spaesata di fronte a questa nuova prova e per il momento sembra essersi rassegnata a documentare questa novità. Per questo il mio atteggiamento varia molto a seconda di cosa ho di fronte: fotografare Terragni a Como è cosa diversa da 159


Honk Hong (2005), immagine fotografica di Paolo Rosselli

fotografare Zaha Hadid in Cina, non solo perché luoghi e tempi sono differenti, 1935 e 2011, ma perché dal “discontinuo” del concetto di Terragni si è passati al “continuo” della forma della Hadid. In uno sono necessarie cento fotografie, nell’altro caso dieci sono più che sufficienti per capire lo spazio». Queste due discipline si influenzano reciprocamente? «Non credo che gli architetti siano stati molto influenzati dalla fotografia, semmai sono stati il digitale e l’uso del computer nella progettazione a provocare il cambiamento. L’architettura si è trasformata in una grande scultura abitabile». Come si declina il suo impiego del digitale? «Da anni ormai uso solo una macchina digitale per fare ogni tipo di lavoro; questo non significa unificare la fotografia e renderla omogenea. La declinazione del 160

digitale esiste nel senso strettamente tecnico di gradazioni nell’intervento sui dati del file che l’autore decide di fare. L’intervento del fotografo può essere vicino allo zero come può, invece, diventare radicale e decostruttivo dell’immagine stessa». Se l’immagine digitale è stratificata, come sottolinea nel suo saggio, qual è l’apporto più significativo della rivoluzione digitale alla fotografia? «L’apporto della rivoluzione digitale sembra ancora scarso da un punto di vista puramente percettivo. La fotografia, infatti, almeno in teoria, ha ancora il compito istituzionale di registrare la realtà, seppure interpretandola. Le differenze, molto forti, tra analogico e digitale stanno sicuramente nella materia trattata, divenuta molto flessibile da rigida e inalterabile quale era. Ma non si tratta solo di un fatto tecnico: il punto è che la tecnica influenza la percezione e questa, C&P


SCATTI D'AUTORE | Paolo Rosselli

La fotografia oggi può essere messa virtualmente sul tavolo anatomico e sezionata in sottili strati digitali che contengono informazioni, colori, riflessi ed effetti

Casa Barragan. Città del Messico

liberandosi da certe limitazioni (il negativo era inalterabile), inizia a ripercorrere la rappresentazione del mondo in modo completamente nuovo». Con quali traiettorie? «La stratificazione del digitale è reale, si basa su dei livelli – il “Sandwich digitale” consiste proprio in questa condensazione di percezioni – ma diventa a un certo punto sensoriale, abitua alla sperimentazione, spinge la percezione oltre i limiti fotografici abituali. Come ho scritto nel mio libro, la fotografia oggi può essere messa virtualmente sul tavolo anatomico e sezionata in sottili strati digitali che contengono informazioni, colori, riflessi ed effetti. La possibilità di estrarre queste informazioni e renderle reali, cioè visibili, sta cambiando la fotografia. Le stesse ambientazioni della fotografia, prima limitate da fattori fisici come la luce, diventano ora praticamente C&P

illimitate». Si individuano altre conseguenze? «Da qui, si può passare a mettere in forse anche altre eredità del passato, ovvero la lettura prospettica dello spazio, la ricostruzione gerarchica della realtà con un centro che cattura l’attenzione. Tutte preoccupazioni che oggi appaiono superate. Perché? Il motivo è semplice: il sensore digitale è in grado di leggere la luce di ogni zona della scena, di potenziarla, per così dire. Questa lettura minuziosa del paesaggio rende leggibili e visibili altri soggetti che prima non erano neanche lontanamente identificabili. Così la fotografia digitale riequilibra la rappresentazione, elimina il centro e porta una visione multipolare, con tanti soggetti invece di uno solo che domina. Ma di cosa non può fare a meno la fotografia digitale? Direi di una sua anima particolare che può essere ironica o, per converso, inquietante». 161




Foto di Saverio Lombardi Vallauri


SALONE DEL MOBILE | Giovanni De Ponti

Giovanni De Ponti, condirettore generale e amministratore delegato di FederlegnoArredo. A sinistra, un’immagine del Salone del Mobile del 2010

Cinquant’anni di storia parlano di tradizione e innovazione Il Salone si è trasformato da luogo degli affari a luogo di relazioni e immagine, dove esaltare il brand delle imprese che puntano all’export. Descrive l’evoluzione del settore l’amministratore delegato di FederlegnoArredo Giovanni De Ponti di Renata Gualtieri

Federlegno ha prima di tutto il merito di aver fondato il Salone, che poi negli anni è cresciuto d’importanza. All’epoca il direttore generale era Tito Armellini, che poi passò il testimone a suo figlio Manlio, segretario generale e direttore del Cosmit fino a due edizioni fa. Giovanni De Ponti, amministratore delegato di FederlegnoArredo, individua un passaggio strategico nell’occasione in cui gli imprenditori si riunirono per decidere se dare più importanza al Salone di Colonia o se scegliere di puntare su Milano. Gli imprenditori decisero che era più opportuno far crescere quello di Milano e il patrimonio fieristico italiano e che le novità di prodotto sarebbero state presentate prima a Milano e poi nel resto del mondo. C&P

In che modo Federlegno aiuta le imprese nella ricerca di nuove opportunità di mercato? «Andiamo a cercare nuove opportunità di mercato con fiere e con missioni business to business in giro per il mondo, che favoriscono gli incontri d’affari. Federlegno ha poi dei rappresentanti in tutto il mondo, a Shanghai, Mosca, India e Stati Uniti, che ci segnalano le opportunità d’affari che emergono in quei Paesi. Ma cerchiamo anche all’interno del nostro mercato». Nei prossimi 5 anni verranno costruite 50mila abitazioni riservate al social housing con investimenti di circa 10 miliardi per ottenere alloggi di alta qualità ma a basso costo. Ma quali opportunità di business potrà veramente cogliere le imprese associate? 165


Foto Luciano Pascali

Foto Saverio Lombardi Vallauri

Due immagini della scorsa edizione del Salone del Mobile

«Bisogna innanzitutto far capire alle imprese che questa rappresenta davvero un’opportunità che interesserà sia gli imprenditori che costruiscono le case in legno, che hanno grandi potenzialità, meno rischi per chi le costruisce e meno dispersione di energia rispetto ad una casa tradizionale, antisismicità e resistenza al fuoco, sia le aziende che si occupano delle finiture e tutto il settore dell’arredamento. Stiamo poi incontrando amministratori pubblici e privati italiani che si stanno preparando a predisporre bandi per costruire questi nuovi edifici per venire a conoscenza dell’esistenza di questi bandi e segnalarli alle nostre imprese. Ad esempio il Comune di Parma ne ha già lanciato uno per la costruzione di 850 alloggi di social housing». Per far crescere le imprese sotto quali aspetti sarebbe necessario un salto di qualità? «La parola chiave è innovazione, che si attua ad esempio mettendosi in rete con gli altri imprenditori. Non possiamo pensare che i Paesi emergenti come l’India, Cina e Brasile, che hanno meno capacità creativa e gusto del bello, abbiano una voglia di emergere molto superiore alla nostra. È quindi è 166

Come FederlegnoArredo andiamo a cercare nuove opportunità di mercato con fiere e con missioni “business to business” in giro per il mondo, che favoriscono gli incontri d’affari necessario un cambio di mentalità che è già in atto in tante aziende». Recentemente è scomparso Rosario Messina, per anni presidente del Salone. Quale è stato il suo apporto alla manifestazione? «Il presidente Messina ha guidato per nove anni il Cosmit, con grandi meriti. Con lui il Salone ha raggiunto l’apice del successo in termini di visitatori e di internazionalizzazione. Rosario Messina ha sempre spinto per promuovere il Salone, organizzando conferenze stampa in giro per il mondo, mentre adesso che è cambiato il sistema invitiamo qui i giornalisti. Metteva anche una grande passione nel comunicare l’eccellenza della produzione italiani e quindi ha lasciato una grande impronta». C&P


SALONE DEL MOBILE | Guglielmo Miani

Guglielmo Miani, presidente dell’Associazione via Montenapoleone

Una mostra a cielo aperto sulla via del lusso di Milano Per celebrare le evoluzioni del design di questi ultimi anni, e in occasione del cinquantennale del Salone del Mobile, nasce il connubio tra Citroën e l’Associazione di via Montenapoleone, alimentata dalle idee del presidente Guglielmo Miani, per rendere omaggio alla cultura e al design di Renata Gualtieri

Per la prima volta, l’Associazione di via Montenapoleone ospita il Salone del Mobile e trasforma la via in un “museo a cielo aperto” con le opere di giovani designer internazionali del Salone Satellite. «La mostra – spiega Guglielmo Miani, presidente dell’associazione – è concepita per consentire a tutti di immergersi nel design e di farlo in una via considerata un simbolo di Milano, come il Salone del Mobile che da 50 anni contribuisce a rendere la nostra città la capitale di questo settore». Citroën poi ha realizzato un’installazione aerea progettata da un designer di fama internazionale che, partendo da piazzetta Croce Rossa, si svilupperà per tutta la via. Inoltre, una mostra su strada accoglierà una selezione di oggetti della mostra “Avverati - A Dream Come True”, curata da Beppe Finessi per Cosmit e pensata come un percorso visivo. Da dove parte l’idea di una mostra a cielo aperto sulla prestigiosa via Montenapoleone? «L’idea parte dall’anniversario per i 50 anni del Salone del Mobile che è diventato il momento più C&P

importante dell’anno per Milano, sia per il numero di visite sia per la qualità dei visitatori che vengono in città. Il desiderio di fare una mostra a cielo aperto ben risponde al fatto che tutti i brand di via Montenapoleone durante la manifestazione hanno occasione di avere dei contatti con una clientela di altissimo target e, quindi, è giusto che Milano dia qualcosa indietro a chi visita il Salone». Come è nata la collaborazione tra l’associazione, Cosmit e Citroën Italia? «La collaborazione nasce da un’idea mia e dall’associazione. Abbiamo contattato il Cosmit per poter partecipare attivamente alla manifestazione perché ritengo che il Salone Satellite sia la massima espressione della creatività del Salone e, quindi, per me era importante avere una parte di questo sulla via: è la risposta naturale alla voglia di voler dare a tutti, nessuno escluso, la possibilità di ammirare oggetti di design. La rassegna che abbiamo studiato insieme al Cosmit e a Beppe Finessi, che ha curato la mostra sui pezzi dei giovani designer - realizzati e messi in produzione dalle grandi aziende del design 167


L’installazione aerea di Citroën in via Montenapoleone

va proprio in questo senso. Citroën è un’azienda che già negli anni passati aveva sponsorizzato e promosso alcune iniziative, in particolare su piazza Croce Rossa, adiacente a via Montenapoleone. Quindi mi sembrava giusto dare priorità a un’azienda, Citroën, che sul design punta molto come si evince dalle ultime automobili sul mercato». Il design è un patrimonio cittadino di cui tutti i milanesi e i visitatori nazionali e internazionali devono poter godere. Attraverso quali percorsi espositivi si consentirà a tutti di immergersi nel design e di farlo in uno scenario così importante? «Abbiamo creato “Montenapoleone design experience” che ospiterà, oltre alla mostra, anche numerosi eventi lungo tutta la via perchè ogni brand ha deciso di unirsi alla settimana del design, all’esterno e all’interno delle boutique su strada». Un museo sotto le stelle di via Montenapoleone dedicato alla parte più creativa del Salone: il Salone Satellite, da anni fucina di nuovi talenti, di cui verranno esposti dieci fortunati progetti. Avete 168

puntato su nuove idee creative per “svecchiare” una via considerata da anni un simbolo di Milano? «Si va sicuramente in questo senso perché Montenapoleone è il simbolo di Milano ma è anche innovazione continua nel campo della moda e dell’alta gioielleria. Spesso si è parlato male degli eventi del Fuori Salone probabilmente perché sono troppi e spesso presentano prodotti che non hanno una qualità all’altezza della manifestazione. Nel nostro caso la garanzia viene da brand di moda e alta gioielleria che vogliono esporre solo pezzi di design di alto livello. Dai marchi deriva dunque il successo dell’operazione, creando eventi in linea con quello che già viene fatto all’interno del Salone. Questa è la ragione per cui il Cosmit ha accettato per la prima volta di esporre al di fuori della fiera una mostra così prestigiosa. È molto importante anche la scelta del designer Ora Ito, che ha creato una installazione aerea su tutta la via. È un artista italo francese giovane, ha 32 anni, e qualche giorno fa ha ricevuto la nomina di Cavalier d’onore in Francia. È una star del design ed è il simbolo dei giovani designer che ce l’hanno fatta». C&P



La forza delle idee e l’eccellenza italiana “50 years young”. È questo lo slogan che celebra i 50 anni della design week milanese famosa in tutto il mondo. Il presidente di Cosmit, Carlo Guglielmi, ribadisce l’intenzione di guardare ai prossimi cinquanta «senza sentirsi vecchi e autocelebrarsi», ma creando qualcosa in prospettiva di Renata Gualtieri

La precedente edizione del Salone del Mobile ha raggiunto l’importante risultato di 330mila visitatori. «Anche i cittadini milanesi rispondono molto bene – precisa il presidente del Cosmit Carlo Guglielmi – e tutto fa pensare che questo risultato verrà riconfermato anche quest’anno. Il Salone del Mobile è poi accompagnato dall’aspetto più amato dai milanesi e non, ovvero il Fuori Salone: appuntamenti, eventi, concerti, mostre ed esposizioni aperte a tutti che ogni anno fanno il tutto esaurito, riscuotendo un grandissimo successo di pubblico. Perché il Salone del Mobile può essere considerato tra una delle poche fiere che ha saputo confermare il proprio successo nel corso degli anni e quali sono i 170

suoi fattori vincenti? «La prima causa del suo successo è che ha alle spalle una Federazione, la seconda è la sua capacità di innovarsi. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo saputo organizzare eventi aperti a tutti, che riguardano la cultura in senso più ampio e il sistema industriale. Così cerchiamo di far capire come i nostri prodotti siano il risultato, prima ancora che del nostro sistema, della nostra cultura». Che numeri si aspetta per questa edizione? «Questa è un’edizione distinta dal Salone degli Uffici e dal Salone della Luce, mentre quella dell’anno scorso riguardava il bagno e la cucina. Per questo motivo non sono facilmente comparabili, però i dati che abbiamo C&P


SALONE DEL MOBILE | Carlo Guglielmi

Alcune immagini della scorsa edizione del Salone del Mobile. In basso, Carlo Guglielmi, presidente di Cosmit

Con eventi aperti a tutti cerchiamo di far capire come i nostri prodotti siano il risultato, prima ancora che del nostro sistema, della nostra cultura oggi dicono che i nostri padiglioni sono tutti occupati, non c’è un metro di stand libero, abbiamo una lunga lista d’attesa e sappiamo che gli alberghi milanesi sono al completo. Quindi le prospettive sono importanti in termini di visitatori, dopodiché ci auguriamo che queste cifre vengano confermate anche in termini di business e di affari realizzati». Quali le novità più interessanti all’interno del Salone? «Verranno presentati più di 20mila nuovi prodotti e poi ci sono tutta una serie di eventi organizzati all’interno della fiera come avviene per Salone Ufficio dove ci sono delle aree molto particolari, realizzate dall’architetto Russi, che coinvolgeranno il mondo C&P

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Un’immagine della passata edizione del Salone del Mobile

della stampa, e all’esterno con la mostra “Principia” in piazza Duomo, dove la tecnologia viene messa a disposizione del mondo dell’arte. C’è “CuoreBosco” in piazza San Fedele, dove abbiamo realizzato un bosco artificiale riproducendo anche i suoi suoni. Lo scopo è quello di mostrare come la luce sia in grado di creare nuovi mondi e dare così risalto al cuore celtico di Milano, che corrispondeva proprio alla zona compresa tra il Duomo e piazza San Fedele. In via Montenapoleone abbiamo realizzato una mostra di oggetti del Salone Satellite che son diventati protagonisti dei cataloghi di grandi aziende. Abbiamo inondato la città di bandiere, cercando di creare anche con questo motivi di gioia per tutti».

Le prospettive sono importanti per quanto riguarda i visitatori, dopodiché ci auguriamo di vedere confermati questi dati anche in termini di business 172

Come viene esaltata l’eccellenza italiana che resiste all’attacco delle imitazioni e favorito l’incontro tra la creatività giovanile e le aziende presenti al Salone? «C’è grande attenzione per tutto ciò che è nuovo, dalle nuove generazioni ai nuovi prodotti, fino alla nuova comunicazione. Questo è un patrimonio che va protetto e quindi bisogna che le leggi attualmente in vigore nel nostro Paese e in Europa vengano applicate con rigore. Oltre a ciò, è necessario che al più presto vengano regolamentate le vendite attraverso internet». C&P


LE ARTI PROSSIME | Denis Santachiara

Quando la scienza diventa motore della creatività artistica «È la mostra clou del cinquantesimo del Salone del mobile perché il Cosmit per questo anniversario ha deciso di creare un evento non celebrativo ma che guardi verso il futuro delle arti». Denis Santachiara descrive il sottile rapporto che continua a esserci oggi tra creatività, arte e tecnologie di Renata Gualtieri

Giovani, importanti artisti e scienziati espongono nelle otto stanze del padiglione “Principia”, allestito in piazza Duomo, opere d’arte che utilizzano un principium riconducibile alle ultime e più avanzate tecnologie. Fra i nomi, Marina Abramovic, Luca Pozzi, Ludovico Einaudi, Marta de Menezes, Karin Sander, Pablo Valbuena. L’ideatore e curatore della mostra, Denis Santachiara, spiega come si inserise l’evento all’interno delle manifestazioni del Salone.

In questo senso quindi l’arte si appropria dei principi scientifici? «Esatto. Ad esempio il punto luce ha permesso a Giotto di creare figure che danno il senso di rotondità alle forme. In seguito c’è stata la scoperta del principio della prospettiva e della prospettiva bifocale; poi, Leon Alberti, che fa il prospettografo, fino ad arrivare al Novecento, con l’ottica laser che scopre i principi della visione. Infine, C&P

Foto di Miro Zagnoli

Quale è l’idea che c’è dietro al progetto del padiglione? «L’idea nasce dall’osservazione del legame tra la produzione artistica del passato con i principi matematici, geometrici, ottici, magnetici, elettrici. Nella storia le arti si sono sempre avvalse di artifici, piccole tecniche, principi scientifici, che hanno sempre accompagnato i grandi delle arti. Come la prospettiva e l’uso della camera oscura per il Guardi e il Canaletto».

Denis Santachiara, ideatore e curatore della mostra “Principia”

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Sopra, Ackroyd & Harvey, Shroud, 2010, courtesy Dan Ackroyd & Heather Harvey; a destra, Karin Sander, 3D Bodyscan of the living person

vorrei ricordare il caos meccanico di Tinguely e il magnetismo di Tachis. Insomma, la storia dell’arte è costellata da rapporti con questi artefici, questi principi tecnico-scientifici. Questa è la premessa della mostra. Il passaggio conseguente consiste nel vedere come si misurano gli artisti con i principi dell’arte contemporanea». Quali sono i “principia” utilizzati dai giovani artisti per esprimere oggi la propria arte? «Nell’era moderna i principi della tecnologica sono aumentati in maniera esponenziale. Io ne ho scelti otto, che rappresentano quelli più attuali. Nella stanza Second Nature avviene un’interazione tra bio e biotech che crea nuove nature. In Wireless Room gli artisti lavorano sul principio delle alte frequenze che possono trasmettere elettricità senza fili. Personal Factory Room è una sezione dove è presente il principio della stereo-litografia per produrre oggetti personalizzati. In No Gravity Room gli artisti si misurano con i principi dell’antigravità. Nella No Norm Room, gli artisti attraverso i principi della 174

Nell’era moderna i principi della tecnologica sono aumentati in maniera esponenziale. Io ne ho scelti otto, quelli più attuali e utilizzati dai giovani per esprimere la propria arte simulazione propongono realtà aumentate e ambienti fuori norma. Nella Nano Room gli scultori si confrontano con il principio delle nanotecnologie. Extensive Room presenta i principi algoritmici per creare nuove estensioni e linguaggi visuali dall’architettura aumentata all’entertainment dai robot artisti. In 3D Sound Room, ultima delle otto stanze, si percepisce il principio del suono 3D per nuove esperienze compositive». Quali i prossimi progetti che la vedranno impegnato? «Mi sto occupando di quattro progetti in particolare. Per il marchio Pallucco sto lavorando a un tavolo da té con ruote che galleggiano, un progetto visivamente molto curioso; per Campeggi, invece, sto realizzando un pouf che contiene un letto d’emergenza; per Naos ho pensato a un tavolino che si scompone e diventa un contenitore. Infine, una lampada per esterno che fa luce e si muove col vento per conto di una nuova società». C&P



Luca Pozzi, l’artista che espone nella stanza “No gravity room”, in piazza Duomo a Milano

Il foglio bianco dove creazione e distruzione hanno luogo Nella “No gravity room” «la forza di gravità smetterà di essere semplicemente una forza che fa cadere gli oggetti e che ci attira verso il basso ancorandoci al suolo, ma diventerà il tessuto stesso dello spazio-tempo, il palcoscenico con il quale ogni cosa interagisce». Con Luca Pozzi proviamo a capire come i principi della scienza, tra i concetti di struttura e di campo, diventano architettura di Renata Gualtieri

Tra le otto stanze di “Principia”, padiglione molecolare allestito in piazza Duomo, c’è spazio anche per lo scultore “quantistico” Luca Pozzi che fornisce una componente scientifica alle sue installazioni. «È evidente, nell’opera del giovane artista milanese, la volontà di destare meraviglia, di spiazzare utilizzando le facoltà apparentemente fantastiche della materia, come nel caso degli oggetti sospesi, che oltre a ingannare la gravità conservano sempre un valore di tipo scultoreo». Cosa avverrà nella “No gravity room”? «Saranno sondate diverse modalità di visualizzazione della forza di gravità, intesa non soltanto per quello che la nostra esperienza 176

quotidiana è abituata a insegnarci, ma, direi, sotto una luce fondamentale. Nella stanza la forza di gravità smetterà di essere semplicemente una forza che fa cadere gli oggetti e che ci attira verso il basso ancorandoci al suolo, ma diventerà il tessuto stesso dello spazio-tempo, il palcoscenico con il quale ogni cosa interagisce. Il foglio bianco su cui ogni creazione e distruzione ha luogo». Come gli artisti si misureranno con i principi dell’antigravità? «Forza di gravità=spazio-tempo, ne consegue che antigravità significherebbe anti spazio-tempo, non sento di poter affermare che gli artisti si misureranno sull’assenza dello spazio-tempo: è tutto quello di cui C&P


Foto di Antonio Maniscalco

I PRINCIPIA DELL’ARTE | Luca Pozzi

disponiamo. Credo che gli artisti si misureranno con la forza di gravità intesa come chiave di volta per unificare la duplice natura dell’universo: quantistica e relativistica, un principio fondamentale da assimilare nel momento creativo, la conciliazione dell’indeterminismo probabilistico con la regola progettuale».

L’artista è un protettore d’informazione; la storia dell’arte visualizza la “biodiversità” delle forme inventate dall’uomo per salvare la cosa più preziosa che abbiamo, il sapere

Quali opere presenterà per l’occasione? «Saranno in mostra due lavori inediti. Il primo è “Raymond’s Three”, un’installazione di 25 metri quadrati composta da un prisma di marmo nero del Belgio in levitazione elettromagnetica (tecnologia di Janick Simeray) sopra un network di profili di alluminio, ottenuto utilizzando gli algoritmi

dell’Iperdiamante cristallino dell’ingegnere informatico Raymond Aschheim. Si tratta di una struttura matematica in grado di codificare in bit di informazione l’intero modello standard delle particelle inclusa la forza di gravità e la famigerata particella di Higgs. Il secondo si chiama “Wall Strings #03”, in cui 49 elementi organizzati a parete

C&P

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Foto di Antonio Maniscalco

In apertura, “Wall Strings #02” 2010, palline da ping-pong, magneti al neodimio, ventose, alluminio mandorlato, 200x200x30 cm; in questa pagina, a sinistra, Spin Foam Network, dettaglio, 2010; in alto, Làputa Pyramid, dettaglio, 2010. Courtesy Luca Pozzi e Galleria Federico Luger

Foto di Antonio Maniscalco

Gli artisti si misureranno con la forza di gravità come chiave di volta per unificare la natura quantistica e relativistica dell’universo: un principio da assimilare nel momento creativo

compongono una circonferenza di 2 metri x 2 metri. Ciascuna stringa è ottenuta piegando una barra di alluminio di 230 cm le cui polarità si congiungono invisibilmente attraverso l’attrazione magnetica di due palline da ping pong colorate». Qual è il ruolo dell’artista contemporaneo di fronte al peso della storia dell’arte italiana? «L’artista è un protettore d’informazione, la storia dell’arte visualizza la “biodiversità” delle forme inventate dall’uomo per salvare la cosa più preziosa che abbiamo: il sapere. La storia dell’arte italiana è una prova tangibile di quanti esempi in tal altissimo senso esistano e si siano perpetuati nei secoli. Non ci 178

sono scuse, sappiamo che è possibile continuare a farlo, la responsabilità per alcuni è un peso, per altri un dato di fatto». Quali i prossimi progetti che la vedranno impegnato? «A maggio a Madrid si festeggiano i 25 anni della teoria di fisica Loop Quantum Gravity. È un evento storico che rileva l’importanza internazionale di tali ricerche. Sono stato invitato a presentare un nuovo progetto visibile dal 22 al 30 presso la Fondaciòn José Pons. A settembre invece, nel contesto della Biennale Arte Scienza, sarò co-curatore insieme a Vincent Verlé della mostra “Energie en Resonance”». C&P


I PRINCIPIA DELLA MUSICA | Ludovico Einaudi

Ludovico Einaudi, compositore e pianista

Le melodie più evocative nascono spazializzando il suono Nella “3D Sound Room” Principia diventa musica sulle note di Ludovico Einaudi. «Sono varie melodie che si combinano tra di loro e ognuna appartiene a un pianeta. La combinazione tra i vari pianeti e melodie è cangiante». Le fonti sonore avvolgono chi entra nella stanza e i suoni arrivano da ogni parte di Renata Gualtieri

Continua il viaggio attraverso le nanotecnologie, neon, alte frequenze, sfide alla gravità, tridimensionalità e suoni che propone il padiglione “Principia” e si arriva all’ultima stanza “3D Sound Room”, dove si percepisce il principio del suono 3D per nuove esperienze compositive e fruitive con gli autori Ludovico Einaudi e Ser Bob Cornelius e il sound design di Hubert Westkemper. Viene presentato un pezzo di tre minuti che nasce dal lavoro di Ludovico Einaudi, compositore e pianista, utilizzando questa tecnologia. La sua musica affonda le radici nella tradizione classica, con l’innesto di elementi derivati dalla musica pop, rock, folk e contemporanea ma c’è spazio anche per le nuove tecnologie. I principia originati dalla scienza diventano motore per realizzare opere sonore; dunque l’arte, il design, l’architettura, la musica, la moda non sono solo una proposta commerciale ma anche un evento culturale, tutto perfettamente in linea con lo spirito della 50ma edizione del Salone del Mobile. C&P

Cosa avverrà nella “3D Sound Room”? «Il progetto utilizza un sistema di diffusione del suono che consiste nella spazializzazione del suono. Le fonti sonore avvolgono chi entra nella stanza e i suoni arrivano da una precisa posizione nello spazio. Il lavoro che presenterò è l’elaborazione di un mio brano scritto quando ancora non avevo l’intenzione di specializzarlo. Il brano si chiama “The planet” e probabilmente conteneva in sé già questa idea. Il pezzo è composto da varie melodie che si combinano tra di loro e ognuna appartiene a un pianeta. La combinazione tra i vari pianeti e melodie è cangiante. Ogni melodia gira su sé stessa come l’opera “Mobile” di Calder». Cosa significa spazializzare il suono? «Quello che verrà utilizzato nel padiglione di piazza Duomo è il sistema più avanzato per spazializzare il suono. Si tratta di artisti che sfruttano per le loro installazioni il principio del suono spazializzato 3D. Si è chiusi in una stanza e si sentono i suoni collocati in 179


Render del padiglione della mostra “Principia. Stanze e sostanze delle arti prossime”, in piazza Duomo a Milano, progettato da Denis Santachiara

una precisa posizione nello spazio, un suono olofonico tridimensionale. Con questa tecnologia il compositore potrà decidere se un suono lo vuole sentire alla distanza di un metro o di tre centimetri». In che modo i principi della scienza e le nuove tecnologie, possono essere utilizzati oggi da un compositore? «Permettono di affrontare delle sperimentazioni fino a poco tempo fa più complesse e difficili da realizzare perché servivano centri specializzati, quindi non realizzabili da parte di tutti. Oggi invece la tecnologia è alla portata di tutti, e di questo ne beneficiano soprattutto i più giovani. I sistemi più elaborati di tecnologia diventano mezzi accessibili per verificare un’idea azzardata». Le sue melodie, profondamente evocative e di grande impatto emotivo, lo hanno reso uno degli 180

Nella “3D Sound Room”, ultima stanza del padiglione allestito in piazza Duomo, si possono ascoltare suoni collocati in una precisa posizione nello spazio, un suono olofonico tridimensionale artisti più apprezzati e richiesti dalla scena europea. Quali i prossimi appuntamenti in cui la vedremo impegnato in giro per il mondo? «In questo momento sono impegnato in tournée, con “The solo concert”, previsto tra marzo e aprile, in Germania, Stuttgart e Karlsruhe sono due delle tappe tedesche. Successivamente mi recherò in Asia. Senza però dimenticare l’Italia. Come l’anno scorso sarò presente alla “Notte della Taranta” a Melpignano, in Puglia, e continuerò il tour con tanti altri concerti in giro per l’Europa». C&P



Alberto Alessi, curatore della mostra “La fabbrica dei sogni, uomini, idee, imprese e paradossi delle fabbriche del design italiano”

Valore funzionale, segnico e poetico del design «Attraverso una carrellata di oggetti iconici, si sviluppa un racconto. Gli oggetti entrano in dialogo con i progettisti e le storie dei grandi uomini di impresa si intrecciano con le loro biografie personali in un’atmosfera giocosa e ricca di emozioni e suggestioni». Il curatore della mostra, Alberto Alessi, riflette sulle peculiarità e la natura profonda delle fabbriche del design italiano di Renata Gualtieri

Una settimana prima dell’avvio del Salone del Mobile è stata inaugurata al Triennale Design Museum la quarta edizione di “Le fabbriche dei sogni”, che il presidente Davide Rampello ha affidato al Cosmit. La scelta del curatore della mostra è ricaduta su Alberto Alessi, uno dei nomi più prestigiosi del design made in Italy, che ci guida tra alcuni dei più celebri oggetti del design italiano nell’allestimento di Martí Guixé. Quale è il concept della mostra? «La mia idea era di mettere in scena un racconto: quello del fenomeno delle fabbriche del design italiano dal dopoguerra a oggi, che porta avanti una visione del design come disciplina artistica e poetica opposta all’interpretazione che ne dà l’industria di mass 182

production contemporanea. Desideravo un tono favolistico, di sorpresa e di scoperta: a metà tra Alice nel Paese delle meraviglie e Il piccolo principe, e da qui la scelta della mise en scène di Martí Guixé». L’allestimento del Design museum della Triennale di Milano è l’occasione per festeggiare i 90 della sua azienda. Cosa è cambiato negli ultimi anni nel modo di fare design? «Molto dagli anni 70, poco negli ultimi quindici anni. Allora la pratica del design era circoscritta a un numero limitato di addetti ai lavori: i grandi autori del design italiano, tutti personaggi di grande spessore. Oggi questa pratica si è democratizzata, con tutti i pro e i contro che ne derivano». C&P


Foto di Fabrizio Marchesi

LE FABBRICHE DEL DESIGN | Alberto Alessi

C&P

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In apertura, foto della mostra Le fabbriche dei sogni. Uomini, idee, imprese e paradossi del design italiano; in alto, uno dei disegni dell’allestimento di Martí Guixé

Desideravo un tono favolistico, di sorpresa e di scoperta: a metà tra “Alice nel Paese delle meraviglie” e “Il piccolo principe”. Da qui la scelta della mise en scène di Martí Guixé

Quali i celebri oggetti del design italiano presenti nella mostra e come verrà riscoperto il loro valore funzionale e poetico? «La mostra si presta a vari livelli di lettura. Uno di questi è rappresentato dalla mia “teoria della borderline”, la sottile linea di confine tra il mondo del possibile e quello del non-possibile, tra i sogni e la realtà, sulla quale lavorano le nostre fabbriche: linea invisibile a occhio nudo e imperscrutabile dal marketing che noi siamo diventati piuttosto bravi a intercettare». 184

La mostra racconta la grande capacità e abilità dei nostri “laboratori di ricerca”. Cosa può spingere oggi i designer stranieri a lavorare in Italia? «È un dato di fatto che ancora oggi chi cerca le migliori espressioni del design francese, inglese o brasiliano deve per forza aprire i cataloghi delle fabbriche del design italiano che rappresentano nella fase storica attuale i più evoluti laboratori di ricerca nel campo delle arti applicate a livello internazionale. Ma tengo a sottolineare che si tratta sempre di design italiano». Nel percorso espositivo in che modo gli oggetti dialogano con i progettisti e le biografie dei grandi uomini di impresa? «Il tentativo è stato anche di mettere a fuoco quella strana alchimia che vede nascere il miglior design dalla collaborazione, o per meglio dire dalla connivenza, tra i grandi autori da una parte e gli imprenditori del design italiano dall’altra, questi ultimi in un ruolo di impareggiabili mediatori artistici tra il mondo della creazione e il mondo del mercato». C&P



Foto di Fabrizio Marchesi


DESIGN | Silvana Annichiarico

Silvana Annichiarico, direttrice del Triennale Design Museum

Le meraviglie italiane Come nella fiaba di Alice, al Triennale Museum, gli oggetti dialogano fra loro mentre le storie delle imprese del design italiano si intrecciano con le biografie dei loro fondatori. «Vere fabbriche di sogni, fatte di ricerca, idee, produzione e anche un po’ di follia» racconta Silvana Annicchiarico di Elisa Fiocchi

In occasione del cinquantesimo anniversario del Salone del Mobile, Triennale Design Museum dedica la sua quarta edizione agli uomini e alle aziende che con la loro attività hanno contribuito a creare il sistema del design italiano. «Se ripensiamo a cinquant’anni fa e ricordiamo le poche decine di aziende che hanno dato vita al Salone – ricorda il direttore del museo, Silvana Annicchiarico – oggi possiamo constatare che ci hanno consegnato la più importante iniziativa del settore al mondo sia per numero che per qualità di partecipanti. Attorno a essa si è affermato un settore produttivo tra i più ammirati in campo internazionale e si è acclarata la consapevolezza di come il design sia importante per il made in Italy e per tutta l'industria manifatturiera». Il viaggio comincia dalle origini delle “Dream factories” attraverso il racconto di storie di vita a cui s’intrecciano gli oggetti divenuti icone del design. «Le nostre fabbriche sono come factories dove ricerca, idee, produzione e anche un po’ di follia trovano la combinazione alchemica di un risultato che tutti ci invidiano». C&P

Ma chi ha resistito nei cinquant’anni di storia del Salone del Mobile e quali sono invece i laboratori di ricerca emergenti? «Le aziende che hanno promosso il Salone sono ancora pressoché tutte qui, pur necessariamente cambiate, a lottare in un modo globalizzato certamente più difficile che nel passato. Vedo però emergere nuove imprese come Magis, Meritalia, Campeggi e soprattutto, accanto a loro, nuovi designer che perseguono innovazioni e caratterizzazioni insospettabili come Giulio Iacchetti, Lorenzo Damiani, Paolo Ulian e molti altri». L’allestimento di Martí Guixé è concepito come una delle avventure di Alice nel paese delle Meraviglie. Può anticipare alcuni tra i più celebri oggetti del design italiano scelti per l’interpretazione? «Sono esposti oggetti facilmente riconoscibili, le cosiddette icone del design italiano, quelle che hanno fatto circolare l’eccellenza delle nostre “fabbriche dei sogni” in ogni angolo del pianeta. A guardarli a uno a uno da vicino, questi oggetti-icona sprigionano un 187


Foto di Fabrizio Marchesi

In queste pagine l’allestimento di Martí Guixé concepito come una delle avventure di Alice nel paese delle Meraviglie

potere evocativo quasi unico e lasciano intravedere – in filigrana – quel grumo di storie, vite, passioni, testardaggini, intuizioni, ossessioni, disciplina e genialità che li ha generati. Tra quelli più noti mi piace ricordare la poltrona “Proust” di Sandro Mendini, “Le Bambole” di Mario Bellini, il mobile “Carlton” di Sottsass e proprio all’ingresso il “Pratone” del Gruppo Strum, grande esempio di radical design degli anni Sessanta». Cosa intende per design italiano e verso quali prospettive s'indirizzerà nel futuro? «Il design italiano è quello progettato e prodotto dagli italiani. Abbiamo molti designer internazionali che si autodefiniscono tali, proprio in rapporto con le 188

factories del nostro Paese e meno designer italiani che producono all’estero ma credo ciò dipenda anche dalla scarsa qualità delle imprese internazionali, oltre che da un po’ di “pigrizia” dei nostri nell’andarsi a cercare lavoro all’estero. Del resto, quello del sistema del design italiano è uno dei pochi, se non il solo caso di “importazione di cervelli” in Italia. Il mercato mondiale delle merci e dei servizi, con l’avvento delle nuove economie Bric diventa sempre più grande anche nella fascia “alta” dove si colloca in larga parte il design italiano. C’è quindi la possibilità di progettare e realizzare sempre più cose nuove, emozionanti, oltre che utili, per consumatori che hanno avuto poco nel passato. Ciò accresce le responsabilità dei designer, soprattutto di quelli che, C&P


Foto di Fabrizio Marchesi

DESIGN | Silvana Annichiarico

secondo la lezione di Rogers, vogliono progettare il futuro: attenzione pertanto alla sostenibilità, all’ecologia, a un mondo in cui le materie prime sono “finite” e che, come il dramma di queste settimane in Giappone insegna, può dare sorprese di inusitata violenza». Il museo comprende anche un Laboratorio di Restauro dedicato alla “memoria della modernità” e alla sperimentazione di nuove tecnologie. Quali sono le ultimissime ricerche sulla scienza dei materiali e quali opere saranno prese in esame nel 2011? «Ci sono diverse ricerche internazionali in corso come quello di “Pop Art Project” finanziato dalla Comunità europea e il “Netherlands Cultural C&P

Per i designer c’è oggi un compito in più rispetto al passato, quello cioè di fare i conti con un mondo più grande e allo stesso tempo meno disponibile a essere abusato

Heritage Agency” di Amsterdam, che compie ricerche sui nuovi materiali del XX secolo. In questo momento stiamo ultimando un lavoro complesso: il restauro di “Ines”, il robot semimovente del 1986 di Denis Santachiara e realizzato da Kartell. La complessità concettuale e materiale del manufatto ha richiesto la partecipazione di professionalità molto differenti, che spaziano dal campo dell’informatica, alle tecnologie audiovisive, ai sistemi multimediali, alle tecnologie dell’industria, affinché fossero approntate le metodologie più appropriate. Si tratta dunque di un esempio emblematico di come sia fondamentale l’interazione tra saperi, e il considerare ogni oggetto del design come una vera opera d’arte, ma senza cadere in inutili feticismi». 189


Come Goethe e Caravaggio, storia di un viandante italiano «Viaggiare significa contenere più modi di pensare, capire il nostro tempo» racconta Gaetano Pesce, da 31 anni a New York. «L’Italia? Ho riprodotto una penisola sofferente dove vige la critica costante: serve cambiare pagina, fare leva sulla creatività e la ricerca per migliorare le nostre vite». La filosofia e l’identità in movimento di uno dei più celebri architetti italiani nel mondo di Elisa Fiocchi

«Ho sempre nutrito orrore della ripetizione, della staticità, dei cervelli che s’addormentano...». Sarà anche per combattere quest’insidiosa paura che il giovane Gaetano Pesce, classe 1939, coglierà nel viaggio l’essenza di quel cambiamento e di quella innovazione in grado di condurlo ben presto al successo. Dopo l’infanzia a La Spezia, esplora Padova, Venezia, Este e Firenze fino alla scuola in Inghilterra e al viaggio ancora più su, in Finlandia, che scoprì essere la «Mecca» dell’architettura. Poi si trasferisce per 14 anni a Parigi, prima del salto oltreoceano a New York, dove vive stabilmente dal 1983. «Tutto il mio lavoro è ancora caratterizzato dalla natura dell’arte italiana. La mia identità è ben precisa e legata in parte alle origini venete espresse nel mio lavoro, portatore di luce che s’avvicina alla tradizione veneziana dell’arte». Quando decise di lasciare l’Italia, quali erano le opportunità di lavoro per chi voleva diventare architetto? «Il mestiere si era impoverito, la committenza si era ridotta, con troppa gente che faceva la scuola senza sapere di che cosa si trattasse veramente. Non intravedevo molte possibilità di sopravvivere con questa attività. In secondo luogo, allora come probabilmente oggi, si lavorava per tessere le arti a un partito piuttosto che a un altro. Una cosa che succede anche fuori dall’Italia, ma in misura minore».

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Ha insegnato alla Cooper Union dove gli studenti non pagano ma sono nella scuola per merito. «È una scuola privata in cui chi non mantiene il livello scolastico richiesto viene espulso anche in fase finale con il rischio di perdere tutto. Sono logiche della vita vera, identiche a quelle del lavoro». E la formazione del nostro paese come si colloca nel panorama internazionale? «Ho tenuto di recente una conferenza alla Scuola di architettura di Torino, dove ho avuto l’impressione che gli studenti non avessero una chiara visione del mondo e che non fossero spinti dai loro insegnanti, a loro volta sedentari. Esistono davvero poche scuole al mondo che mettono gli studenti nelle condizioni di capire quello che il nostro tempo ci chiede. Il nostro mestiere, per fare un esempio, corrisponde a creare dei medicinali: l’industria farmaceutica non può esimersi dal fare ricerca». Quali sono stati i suoi grandi maestri? «Ho avuto come insegnanti dei grandi architetti ma non mi hanno trasmesso granché. Le nuove generazioni che studiano hanno bisogno di un sapere contemporaneo. Ad esempio, nessuna scuola al mondo insegna l’uso di materiali che emanano profumi per farci vivere meglio: un muro che esala un’essenza di mentolo se ho il raffreddore o un’architettura che cambia colore a seconda della pressione atmosferica o della temperatura dell’aria. Non so se queste idee

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DESIGN | Gaetano Pesce

In apertura, “L’Italia in croce”; nella pagina a fianco, “L’Abbraccio”; in questa pagina le “Melissa shoes”

migliorerebbe la vita, ma certamente la renderebbero più stimolata e meno statica». In che forme si fa innovazione? «Con la creatività. Mi fa dolore vedere che quella italiana sia forte nel campo della moda e del design (siamo il più avanzato nel mondo) ma carente in altri settori come la scienza e la ricerca spaziale. Trovo che il mondo politico italiano sia molto lontano dalla realtà di ogni giorno». In che modo è possibile colmare questo divario? «In novembre ho scritto al capo dello Stato per dargli un piccolo consiglio: al posto che fare i soliti discorsi a fine anno agli italiani da un ufficio polveroso che non ha alcun tipo di legame con la realtà operativa e attiva del nostro paese, ho pensato che potesse essere qualcosa di utile e prestigioso comunicare da un laboratorio di design italiano, l’anno dopo da un atelier di moda, l’anno dopo ancora in una casa automobilistica come la Ferrari. Queste sensibilità ci offrirebbero merito nel mondo che già ci ammira per alcuni settori e in aggiunta garantirebbe riconoscimenti a tutti coloro che con le loro attività contribuiscono a portare soldi e prestigio al nostro Paese». Come è stata accolta la sua proposta? «Mi è stato comunicato che è il Quirinale la casa di tutti gli italiani. Non è stata capita, come non è stato compreso il nostro tempo e la funzione del politico». Tornando alla moda: il brand di scarpe Melissa le ha affidato alcuni progetti. Come ha cambiato il concetto di scarpa nei suoi stivaletti plastificati? «L’idea è la stessa che esprimo nei mobili: proporre dei processi che in ultima battuta sono in mano al compratore che può creare così un pezzo unico. L’obiettivo è mettere sul mercato una scarpa che non si basa sull’eleganza e sulle cose stantie ma sul principio che ognuno ha dentro di sé una propria creatività da esprimere».

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Il Salone del Mobile compie cinquant’anni. Parteciperà all’evento? «Ci sarò con due cose. La prima è una collezione per “Meritalia” con cui realizzerò un progetto chiamato “Il Giullare”. Trovo che l’ambiente italiano sia in una fase di pessimismo, una baraonda di negatività. Questa serie di sedute richiamano al mondo effervescente e alla magia del circo. La seconda iniziativa riguarda un progetto da me ideato nel 1976. In quel periodo l’Italia era in un momento delicato, scandito da violenza, scioperi e Brigate Rosse. Avevo proposto a un museo di Milano questa installazione ma poi, dati i tempi e la tensione nell’aria, non era stato possibile inserirla. Oggi la Triennale ha accettato di presentarla a partire dal 12 aprile. Si chiama “L’Italia in croce”: una cappella di una chiesa con il crocefisso a forma di penisola italiana fatto con organi di carne messi in stampo e riprodotti con delle resine che danno l’impressione di un corpo, e quindi di una penisola, sofferente. Un modo per dire che tutti noi, con l’attitudine della critica costante che non usa l’energia per progetti di miglioramento, contribuiamo a far soffrire la nostra terra. Questa installazione ci chiede di cambiare pagina. Io mi riferisco a tutti: destra, sinistra, centro. Bisogna riflettere sul fatto che nel nostro paese la creatività può davvero migliorare le nostre vite». E quali talenti italiani emergenti ne saranno i promotori? «Ho visto alcune opere di giovani designer alle mostre della Triennale, uno di questi esponeva idee che contenevano energie nuove, questo aspetto mi piace. I miei oggetti, infatti, non si pongono all’attenzione della gente per il bel disegno ma fanno riflettere su nuovi modi di produrre, concepire gli stampi, nuovi modi di presentare l’estetica. Quella dell’errore e del malfatto si manifesta con oggetti estremamente umani perchè portano le imperfezioni della nostra natura. Mentre gli oggetti perfetti, fatti dalle macchine, risultano assai meno interessanti. Le deformazioni e gli errori possono dare vita a una nuova estetica in grado di aprire mercati sconosciuti».

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Alessandro Mendini; a destra, Mobili per Uomo, Bisazza, 1997-2009

Eclettismo e strategia utopica «Personaggi di romanzi, pittori, pensatori, registi di tante epoche e di diverse civiltà, anche arcaiche». Sono le fonti ispiratrici delle opere di Alessandro Mendini che a dire il vero dice di sè: «Non so bene cosa sono nè cosa faccio. È una continua variazione...». Dai quadri di cipressi, agli schizzi architettonici, all’avvento della tecnologia: storia di un architetto senza tempo di Elisa Fiocchi

Scrittura e disegno accompagnano da sempre la vita dell’architetto Alessandro Mendini, nato a Milano nel 1931, considerato uno dei grandi innovatori del design italiano degli anni Ottanta. Nella sua lunga carriera ha diretto le riviste Casabella, Modo e Domus, collaborato con compagnie internazionali ed è consulente di varie industrie per l’mmagine e il design. Nel 1979 e nel 1981 gli è stato attribuito il Compasso d’oro, nel 1989 ha aperto, assieme al fratello Francesco, l’Atelier Mendini a Milano. Quando studiava voleva diventare un “cartoonist” o un pittore. Poi arriva la laurea in architettura, la voglia di scrivere e infine di disegnare. Oggi da quali nuove passioni si fa contagiare? «Sono evidentemente un eclettico, interessato a comunicare attraverso le immagini, ma anche con la scrittura. Sono un timido, ma tutte queste discipline mi rendono estroverso». 194

Si è definito un progettista della Via Lattea. La visione fantastica e fiabesca, il progetto utopico è da considerarsi il grande motore della sua vocazione? «Sì, lavoro su una quantità di frammenti che davvero brillano e scompaiono come in una via lattea, e messi insieme hanno la fredda luminosità di una strategia dell'utopia». Con quale stato d’animo ha vissuto l’avvento della tecnologia nella progettazione? E qual è lo schizzo di gioventù che conserva gelosamente nel cassetto? «Non sono geloso delle mie cose, ricordo però con nostalgia qualche piccolo quadro che facevo da bambino, copiando cipressi, prati e animali. Questi quadri sono perduti. L’uso della tecnologia virtuale ora mi seduce, è ovvio, ma devo applicarmi con l'aiuto di collaboratori». Di quel rinnovamento del design degli anni Ottanta quali valori sono rimasti? C&P


DESIGN | Alessandro Mendini

«Il termine post-modernismo è oggi fuori moda, ma da quel momento degli anni ottanta tutto è cambiato profondamente. È stato quello il giro di boa epocale, e ne siamo all’inizio. Correnti di pensiero e talenti nuovi sono immersi in quella filosofia. Quella cioè dei parallelismi ideologici». Arti decorative e design: due mondi lontani o sovrapponibili? «Considero tutti i mondi e i generi delle attività creative come intrecciabili e sovrapponibili fra loro con ottimi risultati». C’è un’opera che più di ogni altra rappresenta la sua personalità? «I miei schizzi sono l’espressione visibile che più mi assomiglia». Oggi dove trova ispirazione per le sue creazioni? «Sono un po’ cleptomane, mi succede di essere plagiato C&P

Negli anni Ottanta tutto è cambiato profondamente, è stato quello il giro di boa epocale, e ne siamo all’inizio. Correnti di pensiero e talenti nuovi sono immersi in quella filosofia

da idee anche lontane dalle mie, delle quali mi innamoro. Osservo tante cose a tutti i livelli, le trasformo, le interpreto. Devo molto a quanto mi dà il mondo esterno, ma poi devo isolarmi e vuotare la mente». Da artista sarà abituato ai giudizi sulle sue opere, ma di Alessandro Mendini cosa si dice? «Ogni tanto mi si dice che sono gentile. Questo mi piace. È meglio così di quando mi si dice che sono cinico, cosa forse è un po’ vera». 195



DESIGN | Fabio Novembre

Fabio Novembre, designer e architetto

Novembre a Milano È il titolo del volume scritto dall’architetto e in uscita durante la settimana del design. «Amo dire che i miei spazi hanno pelle e carne, sangue e sensi, e i miei oggetti sono come Pinocchio, possono dire qualche bugia ma sono vivi». Il 2011? Sarà un anno di importanti collaborazioni con personalità del mondo dell'arte, della fotografia e del beverage di Elisa Fiocchi

Pugliese d’origine, Fabio Novembre si trasferisce a Milano nel 1984. Da bambino faceva il chierichetto, collezionava immagini sacre e giocava a tirare calci a un pallone nell'oratorio dietro la chiesa. «Poi sono cresciuto e sono arrivato a Milano: la dicitura “Iscritto al Politecnico di Milano presso la facoltà di Architettura” è servita a darmi un primo posto nel mondo e sopratutto a rassicurare i miei genitori» racconta. «Avrei capito solo in seguito che fare l'architetto non sarebbe stato un mestiere ma un approccio alla vita». Quando è scattata la scintilla? «Appena laureato mi sono sentito assolutamente deluso, pensavo di non avere imparato niente e oltretutto, ho sempre considerato l’architettura molto arrogante, invasiva, dura: non la puoi spostare, non puoi dire: “non mi piace, per favore non la mettete”. Da studente pensavo di mettere esplosivo dentro le strutture architettoniche per potersene facilmente liberare se la gente avesse pensato che quell’edificio era orribile. Ma l’architettura non è passibile di critica fino a C&P

questo punto. Ho mantenuto questa posizione finché non ho trovato il mio modo di fare architettura, il mio linguaggio». La sua biografia è raccontata nel suo sito online esclusivamente tramite l’uso delle immagini. Che cosa l’affascina del linguaggio muto? «Si dice che la fotografia rubi l'anima alle persone. Io non lo credo, preferisco pensare che abbia la magia di fermare il tempo. Un piccolo attimo di eternità accessibile a tutti, democratico. Le immagini, inoltre, sono l'unico elemento costitutivo del mio blog, “ioNoi”, un progetto nato due anni fa che lavora sull'accostamento di riferimenti provenienti da tutte le arti creando associazioni inaspettate, nuove interpretazioni e concetti». “Dal 1966 rispondo a chi mi chiama Fabio Novembre. Dal 1992 rispondo anche a chi mi chiama architetto”. Dopo vent’anni, quali altre risposte ha dovuto offrire al mondo? 197


In apertura, la mostra “Insegna anche a me la libertà delle rondini”; in questa pagina, in senso orario, “Robox”, che verrà presentato al Salone del Mobile 2011, la mostra “Il fiore di Novembre”, l’allestimento creato per la mostra “I still Love” di Franko B al PAC di Milano

«Sono un cultore del dubbio e proprio perchè il design è “superfluo” e non serve veramente a nessuno, come una poesia, posso permettermi di celebrare l'arte della domanda e non della risposta». In “Be your Own Messia”, lei afferma di aver sempre considerato l’approccio profetico delle religioni occidentali assolutamente negativo rispetto a quello mistico delle religioni orientali. «La religione cattolica mistifica il corpo, lo considera fonte di peccato mentre per le religioni orientali è lo strumento per raggiungere l'illuminazione. Io sono un cultore della bellezza che si esprime attraverso il corpo ma la radice cristiana non ha mai smesso di germogliare negli orticelli del mio fare. Quando ho costruito la mia casa ho finito per identificarmi con Adamo, trasformando un'architettura in un albero. Quell'albero ad Adamo è 198

costato il Paradiso. Io l'ho voluto come casa da condividere con la mia Eva, facendo amicizia con il serpente. La secolarizzazione del senso di colpa attraverso la trovata del peccato originale è il vizio di forma che invalida qualsiasi ricerca di armonia». Parliamo del futuro: quali progetti e impegni la attendono? «Proprio nei giorni del Salone del Mobile presenterò due nuovi prodotti per l'azienda Casamania: “Robox”, una libreria free standing ispirata ai robot che hanno accompagnato la mia infanzia e “Strip”, nata da una superficie che si ripiega armonicamente su se stessa. Il vetro invece sarà il protagonista dell'evento “Bohemian Rhapsody” presso l'Opificio 31 in Zona Tortona dove, assieme ai designer Nendo e Lehanneur, ho indagato i limiti di questo straordinario materiale. Sempre in concomitanza con la settimana del design uscirà il volume Novembre a Milano, che racconta il mio rapporto progettuale con la città e il numero speciale del mensile Ventiquattro del quotidiano Il Sole24ore, al quale ho contribuito in qualità di guest editor». C&P



Tra geometria, estetica e funzione Forme geometriche semplici e armoniose e il connubio fra funzionalità ed estetica, che grazie alla tecnologia oggi non sono più incompatibili. Questa è l’architettura secondo Luisita Facchin di Amedeo Longhi

Il progetto architettonico deve essere strettamente legato al contesto, nascere dall’ambiente, inserirsi armonicamente nelle forme del paesaggio. E naturalmente essere conforme non solo alle idee proposte dall’architetto ma anche alle aspettative e ai desideri di chi poi andrà ad abitare l’opera. Bello, significativo e funzionale dunque. Ma è possibile coniugare tutti questi aspetti? Secondo l’architetto milanese Luisita Facchin, non è solo possibile ma addirittura fondamentale: «Rifiuto la concezione che un manufatto esteticamente bello non possa essere funzionale. L’epoca nella quale siamo chiamati a operare ci permette di usufruire di nuove tecnologie, di materiali sempre più performanti, di tecniche costruttive fino a qualche anno fa imprevedibili; il saper cogliere tutto questo consente di dar forma al 200

pensiero architettonico nella maniera desiderata, senza rinunciare alla funzionalità, concetto che comunque considero fortemente soggettivo e differente per ognuno di noi». Nei lavori che propone emerge una netta geometria stilistica, in particolare per alcuni elementi come le scale. Tratti che rendono eleganti e puliti gli ambienti da vivere. Come giunge a queste scelte? «Nei miei lavori le scale vengono interpretate nella loro funzionalità come semplici collegamenti tra diversi luoghi del vivere e proprio per questo devono essere il più leggere e meno invasive possibili all’interno della geometria architettonica. Il rischio che a volte si corre è quello di concentrare su di esse l’importanza dell’impatto visivo, rendendo secondario tutto ciò che C&P


GEOMETRIE STILISTICHE | Luisita Facchin

Sotto, Luisita Facchin, titolare dello studio L.F. & Partners di Milano, in cui collaborano anche gli architetti Andrea Corti, Davide Galleani e Paola Zanco. Nella altre immagini, alcune realizzazioni dello studio (Foto: Gianluca Crippa) viadeipiatti@fastwebnet.it

Preferisco l’inserimento di pochi elementi, rintracciabili sia nella struttura del costruito che nell’interior design

è presente nel contesto e facendo perdere la sensazione del luogo».

minore importanza rispetto ad altri. Tutto deve essere originale e riconducibile al progetto per il quale è stato creato».

Qual è lo stile che permette di progettare attenendosi a questi principi? «Amo l’uso della geometria e dell’ordine architettonico. Preferisco l’inserimento di pochi elementi, rintracciabili sia nella struttura del costruito che nell’interior design, rispetto all’utilizzo eccessivo della simbologia nell’opera architettonica. Spesso il visitatore rischia di perdere la visibilità del luogo perché si trova circondato da troppi spunti, simboli che creano solo disturbo e confusione. Caratteristica del mio lavoro è il disegno di qualunque elemento inserito nell’architettura, nulla deve essere lasciato al caso e nessun dettaglio deve essere considerato di

L’interno della realizzazione di Via Candiani a Milano si sviluppa su più livelli. Quali sono gli elementi distintivi fra un piano e l’altro e quali quelli che conferiscono omogeneità all’opera? «Il loft di via Candiani si sviluppa su tre livelli; da una zona living accoglienza si arriva al livello superiore destinato al “vivere di giorno”. L’ultimo piano, la zona notte, è completamente affacciante su quelli inferiori. L’elemento comune che accompagna il visitatore nei diversi interpiani è un filo di colore rosso che si incontra nella zona living accoglienza e che collega vari sonetti di Thoreau dipinti su grandi tele bianche. Questo filo è riportato come elemento decorativo nella

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Nulla deve essere lasciato al caso e nessun dettaglio deve essere considerato di minore importanza rispetto ad altri. Tutto deve essere originale e riconducibile al progetto per il quale è stato creato

scala del primo livello, disegnato all’interno di una resina trattata in colore argento. È questo il motivo per cui perché mi piace definire “parlante” questo progetto: in quanto il visitatore vive un vero racconto». Potrebbe descriverci il progetto di Maruggio? «Maruggio prevede la realizzazione di ventisette unità a destinazione residenziale collocate su un terreno posto al limite della zona geografica chiamata “Le dune di Campomarino”, affacciante verso mare. Per ogni unità è prevista la zona giorno a tutta altezza con le zone notte poste al primo livello e collegate da una passerella in vetro strutturale trattata in extrabianco e aggettanti sulla zona living sottostante. Una scala interna porta ai terrazzamenti posti in copertura, il cui comfort è garantito da due ali a brise soleil con lamelle in materiale fotovoltaico che cambiano di inclinazione ombreggiando le parti sottostanti a seconda dell’irraggiamento solare. I materiali proposti sono tutti recuperati dalle cave locali e il progetto risponde pienamente ai canoni di eco-compatibilità». Su quali progetti si concentrerà nel prossimo futuro? «Attualmente lo studio è impegnato nella progettazione di nuovi edificati nell’isola di Ustica, in Liguria e in Piemonte. Entro la fine del 2012 prevediamo di aprire una nuova sede a Londra». C&P



Valorizzare l’antico attraverso il moderno Cura nei dettagli, attenzione alla sostenibilità, ricerca di soluzioni particolari. Da questi presupposti nascono i lavori di G-design. La filosofia dell’architetto Giacomo Longoni di Eugenia Campo di Costa

Creare un’architettura che duri nel tempo, al di fuori delle tendenze e delle mode effimere, pensata a misura dell’uomo contemporaneo. È questo lo scopo di Gdesign, studio milanese fondato dagli architetti Giacomo Longoni e Fruzsina Kaiser che, usciti dagli studi di Renzo Piano e Jean Nouvel, puntano verso con l’obiettivo di definire un linguaggio architettonico essenziale, fatto di elementi universali quali lo spazio, la luce e la materia. «L’attenzione ai dettagli, alla tecnologia e all’alta sostenibilità ambientale degli interventi architettonici – afferma Giacomo Longoni - fanno parte dei presupposti essenziali dai quali partono tutti i progetti. La ricerca e il lavoro di progettazione hanno lo scopo di creare ogni volta qualcosa di speciale attraverso il dialogo con il 204

committente, protagonista utilizzatore principale dello spazio». Dalla fondazione ad oggi G-design ha già realizzato numerosi appartamenti e negozi in Italia, progettato architetture da Abu Dhabi a San Pietroburgo e disegnato diversi masterplan in Turchia, Kazakistan, Azerbaijan in collaborazione con studi internazionali. Con quali accorgimenti si esplica, nel concreto, l’attenzione all’impatto ambientale nella realizzazione dei vostri progetti? «Utilizziamo materiali selezionati. Spesso nel design si usano materiali riciclabili, ma credo che il passaggio fondamentale sia utilizzare dei materiali già riciclati. I nostri mobili sono realizzati tutti in alluminio, un C&P


In apertura, l’ingresso del negozio Antichità Giglio in via Pisacane a Milano con la scrivania “Star desk” disegnata da G-design. Sopra, Giacomo Longoni e Fruzsina Kaiser. Sotto, un altro dettaglio di Antichità Giglio con la scala monolitica Zichichi spesso utilizzata dallo studio per l’eleganza del disegno. In occasione del Salone del mobile 2011 verrà pubblicato il nuovo sito internet dello studio www.Gdesign.eu

materiale non solo riciclabile al 100% ma anche riciclato al 100%, che si può fondere e ricreare in un processo continuo. Oltre all’alluminio utilizziamo altri materiali sostenibili, quali vetro e legno». Uno dei vostri progetti che più riflette l’esigenza ambientale è il negozio milanese Antichità Giglio. Quali le sue peculiarità in questo senso? «In questo lavoro il discorso non si limita all’utilizzo dei materiali riciclati o riciclabili. È stato progettato infatti un sistema di riscaldamento a pavimento in cui la temperatura dell’acqua che scorre in pannelli sotto il pavimento è di soli 35 gradi, trattenuta da finestre e vetrine speciali a bassissima dispersione termica. Durante l’estate, negli stessi pannelli, scorre acqua fredda che rinfresca l’aria, come avveniva nelle antiche ville romane, rendendo quindi inutile l’utilizzo di qualsiasi impianto di condizionamento dell’aria. Questo metodo consente un dispendio di energia di gran lunga inferiore e una vivibilità migliore sia in estate che in inverno. Anche la C&P

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Nell’immagine sopra il progetto di ristrutturazione di un appartamento a Milano. Sotto, tavolino in legno e alluminio “Asteroid”. A destra, Tibaldi Loft e le lampade a Led “Saber” che verranno presentate al Fuori Salone 2011 nel negozio Antichità Giglio insieme ad altri mobili e prototipi

progettazione della luce è molto interessante in questo progetto, e all’insegna del risparmio energetico. Tre sono le tipologie di luce utilizzate: i led da 12 volt, che hanno un ciclo vitale molto lungo e consumano pochissimo. La luce dei led filtra da tagli ricavati sul soffitto nel perimetro del negozio, e riflette contro il muro ottenendo un effetto di luce quasi naturale, perché indiretta. Poi ci sono le luci agli ioduri metallici, anch’esse con consumi molto bassi, e le luci alogene che integrano il sistema illuminotecnico del negozio». Come dialogano l’antico e il moderno all’interno del negozio Giglio Antichità? 206

«L’incontro con il committente Lino Giglio è stato molto costruttivo e ha permesso di generare un progetto dove antico e moderno trovano uno spazio di confronto che ne esalta le rispettive qualità, così i più bei mobili del passato dialogano attraverso il tempo con il design più contemporaneo. Questo è un tema decisamente innovativo, raramente affrontato in precedenza. Ad esempio, gli architetti del passato, disegnavano edifici e li arredavano con un tema unico. Nel loro disegno mancava proprio la variabile del tempo. Questo progetto, invece, coniuga presente, passato e futuro». In che modo? «Le persone hanno bisogno di vivere in C&P


LINGUAGGI ARCHITETTONICI | Giacomo Longoni e Fruzsina Kaiser

L’attenzione ai dettagli, alla tecnologia e all’alta sostenibilità ambientale degli interventi architettonici fanno parte dei presupposti essenziali dai quali partono tutti i progetti

uno spazio moderno e tecnologico, ma nel contempo si affezionano alle cose, amano anche i mobili storici ed antichi. E nulla vieta la coesistenza di questi due aspetti. Quindi perché non mischiare qualcosa di assolutamente antico a una struttura moderna? Da questa apertura si è arrivati a un risultato che valorizza l’antico proprio attraverso il contrasto con il moderno. Nel negozio abbiamo voluto sottolineare la modernità anche con la scrivania Star desk disegnata per l’occasione che si trova all’ingresso, proprio di fianco ad altri mobili dei secoli scorsi. E così l’architettura viene vissuta come un processo nel tempo, che non nega né il passato né il futuro». Tornando al tema dell’ecocompatibilità, uno dei suoi pezzi di design ha vinto il premio “Young & Design” come miglior oggetto di design sostenibile. Di che cosa si trattava nello specifico e quanto conta nella sua prospettiva la realizzazione di oggetti di design? «Ho vinto il premio Young design, targa Mazzali, per l’oggetto più ecocompatibile, con una libreria realizzata totalmente in cartone strutturale oggi prodotta anche in alluminio. Sfruttando la stessa distribuzione degli sforzi tipica di un ponte, la libreria può essere anche realizzata con un materiale povero come il cartone, e resistere, riuscendo a sopportare un peso fino a 120 chili. Tra gli obiettivi futuri dello studio c’è anche quello di crescere proprio dal punto di vista del design. In particolare, ci piacerebbe lavorare maggiormente con il design di produzione, perché finora abbiamo realizzato pezzi in serie limitata, molto particolari. Non ho avuto una formazione specifica come designer ma in un certo senso preferisco perché ho visto il design prendere delle pieghe molto futili: c’è stato un periodo in cui gli oggetti di erano pensati un po’ come gadget, mentre io credo che la forma debba essere sempre legata alla funzione. Oltre agli oggetti disegnati dallo studio, ad esempio spesso utilizziamo nelle nostre architetture la scala elicoidale monolitica prodotta da Zichichi dal design essenziale, che assomiglia più ad una scultura, ma che coniuga perfettamente alla funzione di unire due spazi verticalmente nel minor spazio possibile». C&P

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Dedizione allo spazio e sperimentazione progettuale Un progetto d’architettura non deve mai rinunciare alla bellezza. Che si tratti di una casa privata o del sagrato di una chiesa. Da questo fondamento parte l’esperienza e la sperimentazione dell’architetto Giorgio Comoglio di Luca Righi

“L’architettura non è una professione, ma è la dedizione a qualcosa di sacro”. In questa frase di F. L. Wright è sintetizzata la filosofia di Giorgio Comoglio, architetto, fondatore dell’omonimo studio di Torino, autore di progetti pluripremiati per qualità e realizzazione. Nel 2004, infatti, Giorgio Comoglio ha vinto la targa d’argento al Premio Internazionale Luigi Cosenza e nel 2010 la Rassegna Internazionale Giovani Architetti Italiani (Ventisette/Trentasette), e ha esposto alcuni suoi progetti all’Expo 2010 di Shanghai, presso il Padiglione Italiano. Si definisce un architetto «minimalista, preciso in tutte le fasi della progettazione fino alla completa realizzazione, attento anche alla parte economica di un progetto, poiché per fare della bella architettura non necessariamente si devono spendere tanti soldi; e comunque alla bellezza, un progetto non può rinunciare». La sperimentazione progettuale indagata 208

dall’architetto negli anni è caratterizzata da un lessico personale che ricerca le sue radici su una dedizione assoluta e appassionata verso l’architettura e il design. Quanto dicono di lei i suoi progetti? «Ogni progetto fa parte del mio cammino di crescita, per cui è inevitabile che rifletta sentimenti, stati d’animo e pensieri del periodo in cui è stato fatto. Ogni lavoro, però, mantiene una costante contraddittorietà, poiché solo così posso evitare di cadere in un atteggiamento conservatore dell’architettura e indagare sempre nuovi paradigmi». C’è un progetto, tra i più recenti, particolarmente significativo per lei? «Il progetto di ristrutturazione e interior design dell’appartamento privato al terzo piano di una casa sita in Torino, abitazione privata MA:CO, che è la sintesi di una ricerca sul tema della C&P


ARCHITETTURA E DESIGN | Giorgio Comoglio

In apertura, interno del progetto abitazione privata MA:CO, e sotto, Giorgio Comoglio. In questa pagina, altre due immagini del progetto MA:CO e, in fondo, due vedute dell’ingresso alla cappella del Ser.Mi.G. di Torino www.comoglioarchitetti.it

costruzione degli spazi bianchi e minimali. Il tema dominante è il rapporto tra il bianco e il nero, tra il lucido e l’opaco. L’ampio soggiorno include lo spazio della cucina come scelta di comunione di un’azione, “il cucinare”, che diventa scena principale nella vita quotidiana dello spazio giorno. Le ampie vetrate filtrano la luce esterna che si riflette sul bianco dei muri e dell’arredo moltiplicando la sua forza e contrastando il colore scuro del pavimento wengé. I ribassamenti del soffitto attraverso nuove velette connotano le diverse aree del soggiorno e caratterizzano le differenti tipologie di illuminazione artificiale. L’arredo dell’intero appartamento è stato disegnato e realizzato con artigiani locali interessati alla ricerca e alla sperimentazione, ne è un esempio l’apertura meccanica controllata della parete della cucina, che diventa gioco e spettacolo al tempo stesso». Molti dei suoi lavori riguardano la ristrutturazione dell’Arsenale della Pace di Torino (Ser.Mi.G). Per quale di questi ha un valore affettivo? «Sicuramente l’ingresso alla cappella del Ser.Mi.G., situata nel cortile scoperto dell’edificio principale. L’intervento interno è stato opera dell’artista Padre Costantino Ruggeri (Frate Sole), maestro e amico, con il quale ho avuto la fortuna di lavorare durante gli anni accademici. Ora che lui non c’è più, questo lavoro sembra legarci in modo indissolubile. Il progetto si inserisce nel contesto cercando di creare uno spazio armonico, simbolo dell’accoglienza e della progressiva introduzione al mistero della celebrazione. Piani orizzontali di differente forma, funzione e materiale (vetro, cemento armato, acqua) si inseriscono all’interno del cortile integrati con il verde. Una pensilina in acciaio e vetro ripara l’accesso alla cappella non interrompendo con la sua trasparenza la vista verso l’alto. I gradini frontali all’accesso possono diventare sedute permettendo così una differente fruibilità dello spazio centrale del cortile. Sul lato opposto altri piani orizzontali creano una composizione di posti a sedere in mezzo al verde». C&P


Puntiamo sui giovani designer Il design d’interni è un’attività che richiede molteplici qualità, non sempre facili da miscelare fra loro, dalla sapienza artigianale all’avanguardia nei materiali, dalle capacità comunicative a una grande fiducia nei giovani. Ne parla Alessandro Calligaris di Amedeo Longhi

Il prestigioso marchio del “made in Italy” non deve essere una scusa per sedersi sugli allori, ma al contrario «uno stimolo a investire in tutti quei fattori che hanno portato le aziende italiane a essere competitive nel mondo: la ricercatezza del design e dello stile, la progettazione e la tecnologia, il controllo e garanzia di qualità, il servizio e l’assistenza». Pensiero e parole dell’ingegner Alessandro Calligaris, da quasi venticinque anni a capo dell’omonima azienda di famiglia, fondata nel 1923 e proiettata oggi verso i mercati di tutto il mondo. Come riuscite a combinare l’anima familiare della società con le sue grandi dimensioni e la sua struttura quasi da multinazionale? 210

«Da laboratorio artigianale, culla di tradizione, stile e qualità, abbiamo percorso una strada che ci ha portato alla sperimentazione delle tecnologie più innovative. Sotto la mia direzione sono state profondamente innovate le funzioni di marketing e commerciale, sono stati effettuati rilevanti investimenti nella logistica aziendale e nella promozione del marchio, investimenti che hanno rappresentato la strategia vincente per lo sviluppo esponenziale dell’azienda». Voi credete molto nell’innovazione e nel potenziale creativo dei giovani designer, in che modo sviluppate questo settore? «Collaboriamo da diversi anni con importanti designer C&P


DESIGN D’INTERNI | Alessandro Calligaris

In basso, Alessandro Calligaris, presidente della Calligaris di Manzano (UD). Sotto, il Flagship Store Calligaris di Milano. A sinistra, la sedia Wien , nell'altra pagina la Basil e la Cream, che verranno presentate al Salone del Mobile 2011

che conoscono bene l’impronta che il marchio Calligaris desidera lasciare. Insieme al nostro team di ricerca e sviluppo, realizziamo i progetti e le idee che ci propongono; sono infatti di loro ideazione alcuni tra i nostri più grandi successi ottenuti nel campo dell’arredo casa. Inoltre siamo attenti anche ai giovani designer e i loro prodotti hanno già riscontrato un ottimo successo a livello di critica e mercato». Qualche nome? «Paolo Lucidi, classe 1974, e Luca Pevere, del 1977, che nel 2003 hanno fondato lo studio Lucidi-Pevere e hanno realizzato per Calligaris la pluripremiata sedia Wien. Ma anche Sandro Santantonio, trentatreenne, C&P


L’accessibilità è una caratteristica che è fondamentale possedere, non solo con riferimento al prezzo ma in senso lato come prossimità al quotidiano

che ha disegnato per noi diversi modelli di lampade e tappeti. Mr. Smith Studio è invece l’alter ego progettuale di Michele Menescardi e Marco Mascetti, entrambi nati nel 1979, che per Calligaris hanno disegnato la lampada Sextans e due nuove sedie che presenteremo all’imminente Salone del Mobile di Milano 2011: la Cream e la Basil». Come conciliate funzionalità, estetica e costi accessibili? «L’accessibilità è una caratteristica che è fondamentale possedere, non solo con riferimento al prezzo ma in senso lato come prossimità al quotidiano. Il “lusso accessibile” – perché un prodotto accessibile deve comunque far sognare chi lo compra – si concretizza grazie a una vasta rete distributiva, un sito web accessibile, un’offerta chiara e comprensibile in termini di stile, prezzi ragionevoli, design bello ma funzionale nella sua utilizzazione. In una frase: il design da vivere per la casa d’oggi».

Qual è il vostro rapporto con il legno, materiale tradizionale e ancora oggi protagonista del design d’arredo? «Dalla fase artigianale, durante la quale il legno era la risorsa principale, ci si è evoluti in molte direzioni. Questa evoluzione, dal monomateriale legno ha traghettato il settore del design verso la moderna cultura polimaterica, con l’introduzione di nuove combinazioni: plastica, metalli, tessuto, metacrilati e vetro. In ogni caso, il legno viene ancora largamente utilizzato nella nostra produzione; il faggio è l’essenza del nostro legno, che viene poi tinto in diverse finiture o laccato». È una scelta anche “ambientale” oltre che estetica e funzionale? «Utilizziamo alberi provenienti rigorosamente da boschi e foreste in cui è assicurato il rimboschimento immediato e, a garanzia di ciò, i prodotti dell’azienda già dal 2006 sono certificati dal Forest Stewardship Council (FSC), organismo che assicura la provenienza del legno da foreste protette e gestite in modo corretto e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, economici e sociali. Questa certificazione è in piena sintonia con uno dei valori principali a cui ci ispiriamo: l’etica. Etica letta come correttezza e trasparenza, poiché comprendiamo pienamente l’importanza di rafforzare il valore del marchio e della reputazione, specialmente in virtù delle numerose e complesse relazioni con l’ambiente esterno». C&P



Soft ed eclettico per un nuovo classicismo Se l’approccio per la progettazione di una casa, di un albergo o una boutique è necessariamente diverso, il concetto di “total design” sottende a tutte le realizzazioni dello studio N.O.W. architecture and design lab. Il punto di Pietro Gaeta di Eugenia Campo di Costa

È nel concetto di “Total Design” che può riassumersi la poetica dello studio N.O.W. architecture and design lab di Milano guidato dall’architetto Pietro Gaeta. Dall’architettura all’interior design, dall’arredo all’industriale design, l’approccio progettuale dello studio si basa su una visione complessiva che tiene conto dei vari aspetti coinvolti e attivi nelle dinamiche e nelle strategie, inclusi quelli inerenti la sostenibilità ambientale. «Esistono ambienti dove non c’è nessuna relazione tra l’architettura e gli spazi interni – afferma l’architetto Gaeta -. Il lavorare per compartimenti stagni porta al far coesistere linguaggi che non hanno alcuna relazione tra loro. Trovo che questo sia assolutamente sbagliato. La nostra attitudine poetica è, al contrario, quella di creare un progetto “soft” ed “eclettico” che coniuga diversi stili e indica un approccio progettuale contemporaneo, destinato a durare nel tempo, una sorta di nuovo “classicismo” teso a creare atmosfere rassicuranti dove l’uomo possa rifugiarsi e ritrovare se stesso». L’attitudine dello studio è quella di una certa multidisciplinarietà, le progettazioni spaziano dagli edifici residenziali a quelli commerciali, richiedendo approcci diversificati. «Progettare una casa privata – afferma l’architetto - significa entrare nell’intimo della persona che ci abita, capire le sue esigenze e cercare di concepire un’atmosfera che sia adatta alla persona. 214

Quando invece si approccia a uno spazio pubblico, un albergo, un ristorante o un negozio, il progetto deve tendere a soddisfare un gruppo ampio ed eterogeneo, oltre che a trasferire in maniera positiva, i “valori” del brand da comunicare. Il progetto architettonico, in questo caso, partecipa attivamente al piano di marketing dell’azienda». Tra i progetti più importanti di N.O.W. architecture and design lab, spiccano diversi hotel di lusso e le boutique Mariella Burani in tutto il mondo. Lavori in cui lo stile dell’architetto si coniuga alla perfezione con le esigenze del brand e del committente «un progetto si costruisce insieme – afferma Gaeta -, cercando le soluzioni più adeguate sia dal punto di vista della funzionalità che dell’estetica. C&P


TOTAL DESIGN | Pietro Gaeta

Sopra l’Eco Charme Hotel a Riva del Garda. Nelle altre immagini le boutique Mariella Burani www.now-lab.com

Ad esempio, prima di cominciare a sviluppare il concept per i nuovi negozi Mariella Burani, abbiamo avuto diversi e lunghi colloqui con la stilista stessa per condividere le linee guida principali». Da questi incontri preliminari sono emersi alcuni concetti molto importanti per il brand, primo fra tutti quello di “casa italiana”. «L’obiettivo era far trovare all’interno dei negozi lo stesso comfort degli ambienti domestici, creando un’atmosfera di totale confidenza senza rinunciare alla ricercatezza estetica e funzionale che una boutique richiede». Sensazioni piacevoli, naturalmente, devono saper suscitare anche gli alberghi. In particolare, negli hotel di lusso, le aspettative di benessere psicofisico della C&P

clientela salgono vertiginosamente. «Concorrono a produrre benessere psicofisico, tutte le discipline progettuali, dalla composizione architettonica all’ergonomia, all’interior design, passando attraverso il lighting project piuttosto che il new entertainment design. Trovo che uno degli elementi fondamentali sia lo spazio: una camera spaziosa è sicuramente un buon punto di partenza. Di grande importanza – conclude l’architetto - sono inoltre le scelte cromatiche degli ambienti, la selezione degli arredi, il progetto delle luci. Stimolare positivamente i sensi con profumi, suoni, atmosfera, sapori e superfici tattili è fondamentale per “immergere” il cliente in un’esperienza coinvolgente». 215


Mobili che “strutturano” gli ambienti Realizzare arredamenti su misura permette di ottimizzare gli spazi e ottenere mobili in linea con il contesto in cui vengono inseriti. Che si tratti di un’abitazione privata, un ufficio, un negozio, una banca o uno yacht. Il punto di Edoardo Catto di Eugenia Campo di Costa

Alcune realizzazioni dell’azienda CCT Mobili di Genova www.cctmobili.it

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Uno spazio parla di chi lo abita. E i mobili svolgono una funzione essenziale nel definirne l’atmosfera, sia che si tratti di un’abitazione, di un negozio, di un locale o di un ufficio. Oltre a essere esteticamente gradevoli, i mobili devono saper offrire funzionalità e, ovviamente, concorrono a creare l’atmosfera dell’ambiente in cui si trovano. Per questo è importante, tra le tante soluzioni che offre il mercato, scegliere quella di volta in volta più idonea allo spazio che la ospiterà, progettata “su misura”. Nonostante la crisi economica, che ormai da tempo coinvolge tutti i settori, i mobili di qualità e realizzati in base alle esigenze specifiche, riescono a tenere il mercato, complice il buon rapporto qualità prezzo che alcune aziende riescono a garantire. «Gli arredamenti industriali “fatti su misura” richiedono un’imprenditorialità e una professionalità molto specifiche» afferma Edoardo Catto, titolare della CCT Mobili, un’azienda genovese che opera sul mercato dell'arredamento da circa 70 anni. «Bisogna essere in grado di lavorare sia in fase di progettazione, che su disegni già realizzati, avvalendosi di manodopera altamente specializzata e di moderne tecnologie». La forza dell’azienda è proprio quella di saper arredare “su misura”, offrendo quindi soluzioni mirate per ogni tipo di progetto, dalle banche alle abitazioni, dalle sale di controllo ai negozi, rispettando sempre il progetto proposto sia dal punto di vista estetico sia in base ai materiali scelti. La CCT Mobili realizza inoltre arredi per yatch e navi da crociera avvalendosi C&P


INTERNI | Edoardo Catto

I materiali utilizzati nella realizzazione dei nostri mobili variano da commessa a commessa: non solo legno, ma anche di materiali di supporto come corian, vetro, acciaio, marmo

di materiali studiati appositamente, che non temono l’umidità e riuscendo a ottimizzare al meglio anche i piccoli spazi, che non restano inutilizzati. «Le tipologie dei materiali utilizzate nella realizzazione dei nostri mobili variano da commessa a commessa – continua Catto -, non si tratta esclusivamente di legno, ma anche di materiali di supporto come corian, vetro, acciaio, marmo: una varietà che permette di far fronte a ogni esigenza». Dallo stabilimento di Genova esce dunque una gamma di mobili che spazia da quello finito a colore, laccato, alla libreria in ciliegio, massello, alle postazioni di lavoro per banche in legno multistrato ricoperto in laminato. «Il nostro lavoro consiste nel creare arredi che si adattino nel modo migliore all’ambiente in cui devono essere inseriti. Questo aspetto è fondamentale soprattutto nell’arredo delle abitazioni, dove un mobile può dare “un senso” C&P

all’ambiente senza essere troppo appariscente». Ma quali sono le tecnologie maggiormente sfruttate nella realizzazione dei mobili di uso quotidiano? «La laccatura degli arredi è quella tecnica che consente di selezionare la tonalità voluta, in modo che il prodotto finito sia adatto al contesto in cui è inserito. Inoltre le nuove tecnologie dei materiali ci permettono di creare soluzioni lavorative per i maggiori poli industriali nell’arredamento delle loro centrali operative. Un centro di lavoro angoli curvi - conclude Edoardo Catto - ci permette infine di realizzare pantografie e disegni su legno». 217


Registi nella propria casa Molti hanno in mente come vorrebbero organizzare e arredare la loro casa. L’architetto deve essere in grado di trasformare quei pensieri in realtà. Il lavoro di Edoardo Moscheni di Nicoletta Bucciarelli

Progettare interni impone versatilità, la conoscenza delle esigenze di chi andrà ad abitare la casa e la capacità di capire queste esigenze e concretizzarle. «Oggi le necessità dei committenti sono cambiate perché è cambiato il modo di vivere », spiega l’architetto Edoardo Moscheni, di Milano. Lo studio Moscheni potendo contare sulla collaborazione dell’architetto Rudi Stoinich, oltre a fornire consulenze alle aziende nell’ambito della scelta degli immobili e della progettazione dei posti di lavoro, segue parallelamente il settore dell’edilizia privata, occupandosi di progettazione d’interni e di nuova costruzione. «L’ambito privato, sebbene sia il più problematico e ad alto dispendio di energie, resta ancora quello dove la creatività dell’architetto e la sua continua ricerca verso nuove soluzioni abitative può affermarsi ancora con pienezza e soddisfazione». Uno degli ultimi progetti in cui l’architetto Moscheni si è 218

trovato a lavorare è la ristrutturazione interna di un appartamento a Milano. «In questo caso in particolare abbiamo cercato di applicare tutte le richieste del committente. Lo abbiamo reso partecipe delle decisioni, scremando e capendo le sue esigenze e sottoponendogli di volta in volta una scelta limitata ma emotivamente importante, in modo da permettergli di essere sempre il regista della sua casa». Molta importanza hanno oggi gli spazi di servizio come la cucina, da sempre luogo centrale e oggi più che mai vero perno del nuovo abitare. «La cucina non è più semplicemente relegata a luogo del fare, ma rappresenta il posto del vivere e del condividere. Per quanto riguarda l’arredamento dell’appartamento in questione, il committente desiderava una cucina living, ma con una zona cottura schermata. Da qui l’idea di creare un bunker culinario in cui potersi esprimere celati alla vista degli ospiti, ma restando allo stesso C&P


INTERNI | Edoardo Moscheni

In queste pagine, immagini dell’appartamento a Milano ristrutturato dallo Studio Moscheni www.studiomoscheni.it

La scala non è solo connessione tra i due livelli, ma diventa fulcro dell’appartamento e rito di passaggio C&P

tempo partecipi del convivio. I materiali scelti sono nati di conseguenza. Per lo schermo è stata scelta una lamiera di ferro arrugginita in grado di comunicare un senso di protezione forte e resistente e che si congiunge idealmente alla cappa sovrastante fatta con lo stesso materiale. Il piano cucina per il pranzo o per colazioni veloci è in ardesia, a spacco naturale con inserti in legno noce. Importante è inoltre riuscire ad esprimere con i materiali il carattere del committente. Essendo in questo caso originario del Sud africa, aveva bisogno di colori che richiamassero il suo paese, i colori delle terre. La scelta di non inserire pensili tradizionali rende più armonico e integrato il luogo cucina con il resto dell’appartamento e lascia libere le pareti per poter inserire a piacimento quadri e tele a muro». L’appartamento è composto inoltre di un piano mansardato. «Il tema della scala che unisce i due piani è stato sviluppato cercando di portare avanti un concetto di unione a vista il più caratterizzante possibile. Per questo motivo si è optato per una scala in muratura enfatizzata dal colore arancione. Così facendo la scala non è solo una connessione tra i due livelli, ma diventa anche fulcro dell’appartamento e rito di passaggio». L’appartamento arredato rispecchia lo spirito di lavoro dello studio. «È indispensabile creare una sinergia con la committenza, valutando analiticamente tutte le richieste e le problematiche esistenti per mettere al servizio un know-how acquisito negli anni e soddisfare al meglio le esigenze dell’utilizzatore finale. A mio avviso l’architetto oggi deve essere una figura sempre più poliedrica, che sappia di psicologia, di tecnica, di moda, versatile nelle sue competenze, sempre informato sulle novità che il mercato e i materiali possono offrire. Per questo riteniamo che sia importante essere coinvolti fin dai primi passi, anche prima dell’acquisto dell’immobile, per poter offrire già valutazioni sulle potenzialità degli spazi e soprattutto poter supportare tutti i bisogni e le aspettative, che questo passo importante ingloba». 219


L’architettura che mette al centro le relazioni «Quell’angolo di terra che mi appartiene, mi sorride più di ogni altro», scriveva Orazio. Per l’architetto, questo si traduce in un obiettivo: creare uno spazio, da vivere come luogo e che sia sentito come “casa”. È questa la filosofia degli architetti Dubini, Risari e Melzi d’Eril di Francesco Bevilacqua

L’architettura ha oggi la possibilità, di darsi uno scopo che vada al di là della semplice progettazione e realizzazione di edifici, ambienti e spazi esterni. In un’era di profonde mutazioni che rischiano di alterare gli equilibri sociali e cancellare le identità degli uomini, questa antica arte può prefiggersi lo scopo di favorire lo sviluppo dell’uomo che si realizza pienamente nella relazionalità. La pensano così Umberto Dubini, Ambrogio Risari e Francesco Melzi d’Eril, soci e fondatori dello studio milanese DRMe: «Progettiamo luoghi che non si limitano ad accogliere un alto contenuto tecnologico o a coltivare una dimensione individuale della persona, ma che Sotto, Umberto Dubini, Ambrogio Risari e Francesco Melzi d’Eril, dello studio DRMe di Milano. Nelle altre immagini, realizzazioni degli architetti www.drme.it

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incentivano la capacità di creare un rapporto a livello esistenziale con il prossimo. Ricerchiamo la centralità della relazione reale, su cui anche la relazione virtuale si potrà appoggiare e trovare la sua dimensione». La coesistenza di tre anime, rappresentate dai tre soci, è una ricchezza per lo studio: «La condivisione, il confronto e il lavoro di gruppo – spiega Dubini –, sono la forza che permette di sfruttare il potenziale creativo di ognuno di noi, generato da differenti sensibilità». Una rigorosa metodologia progettuale è un percorso fondamentale per la riuscita del progetto, come sostiene Risari: «L’elaborazione di un progetto è un processo creativo: per definire uno spazio che parli alla persona che lo vivrà, occorre armonizzare valenze comportamentali, innovazioni tecnologiche, qualità dei materiali, efficienze funzionali, direzionalità della C&P


INTERNI | Studio DRMe

Progettiamo luoghi che non si limitano a coltivare una dimensione individuale, ma incentivano la capacità di creare un rapporto a livello esistenziale tra le persone

luce alla ricerca dell’equilibrio perfetto». Parlando di equilibrio, è importante chiarire il ruolo della tecnologia in questa declinazione della scienza del progettare: «Concepiamo la tecnologia come un servizio, non come un fine – precisa Melzi d’Eril –, per questo facciamo ricorso a essa con grande impegno e senza ostentazione. Per fare un esempio, al soggiorno tv-centrico preferiamo uno spazio in relazione con apparati tecnologici che non prevarichino le gerarchie, così da valorizzare la centralità della persona nello spazio e favorire l’incontro e la relazione, garantendo nello stesso tempo tutti i comfort». In questa concezione, il recupero dell’architettura esistente in stretto rapporto con il contesto in cui si trova diventa una priorità: «L’intervento di restauro C&P

non deve essere invasivo o invisibile, ma tende a far emergere e valorizzare la stratificazione storica», concludono i tre soci. «L’architetto ha la meravigliosa responsabilità di amalgamare l’innovazione tecnologica, il rapporto con la natura e la luce, la cultura e la personalità del committente, le esigenze della vita moderna e, non ultime, tutte le avanguardie e le tendenze dell’arte e della comunicazione». Il valore di riferimento è il rispetto per ciò che il passato ci ha trasmesso, la missione è valorizzare questa eredità guardando al futuro ed avendo il coraggio di vivere l’avventura della creatività progettuale come se fosse la prima volta. La ricerca dell’armonia nella complessità dell’organizzazione dello spazio viene affrontata con la consapevolezza che la forza del team è superiore alla somma delle qualità individuali. 221


Vivere gli spazi in profondità Trasformare e ampliare uno spazio abitativo. Perfezionando il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Marco Macioce descrive il progetto di recupero e ampliamento di una villa unifamiliare realizzato a Legnano di Luca Righi

Perfezionare il rapporto uomo, casa, ambiente. Avvalendosi di tecnologie innovative e con una particolare attenzione alle fonti rinnovabili. Da questi presupposti nasce la ricerca e il lavoro dello studio di architettura Villa del Re composto dall’architetto Marco Macioce e dal suo staff, che comprende gli architetti Anna Lazzarini e Paolo Tamborini, il geometra Marco Corti e l’ingegner Gianangelo Gaiera. La stessa filosofia si percepisce in uno degli ultimi lavori dello studio, il recupero e l’ampliamento di una villa unifamiliare degli anni 50 a Legnano. «Studiata per persone che per necessità lavorative si trovano spesso in varie latitudini del mondo, la casa doveva essere subito accogliente e 222

L’architetto Marco Macioce con i collaboratori che hanno lavorato al progetto, architetto Paolo Tamborini e geometra Marco Corti. Nelle altre immagini due interni della villa unifamiliare a Legnano www.studiodiarchitetturavilladelre.it

in grado di ospitare elementi e oggetti proventi da culture diverse – afferma l’architetto Macioce -. Questa predisposizione si intravede negli ampli spazi, nei volumi, nei colori, nei materiali volutamente ricercati». Dunque un lavoro che parte già su una base preesistente? «Esatto. Il progetto si inserisce in un’ottica di intervento C&P


INTERNI | Marco Macioce

L’ampia zona living è suddivisa in quattro ambienti: ingresso, cucina, soggiorno e studio che sfruttano vari livelli di quota

conservativo del territorio essendo recupero e ampliamento di uno spazio abitativo esistente. In questo senso si è cercato di ristrutturare l’intero fabbricato attribuendogli dei connotati più consoni alle caratteristiche del nuovo fruitore». Sarebbe a dire? «L’opera rivolge l’attenzione a un nucleo famigliare che ama la propria casa e che stabilisce con essa un rapporto continuo e profondo, persone che amano trascorrere gran parte della giornata tra le mura domestiche che a loro volta devono offrire spazi diversi dello stesso sistema. Da qui il risultato di un’ampia zona living suddivisa in quattro ambienti: ingresso, cucina, soggiorno e studio che sfruttano vari livelli di quota ma che attraverso l’inserimento di ampie vetrate, sulla piscina e giardino esterni, risultano uniti dall’illuminazione naturale». Quali sono gli elementi caratterizzanti il progetto e i materiali che avete utilizzato per il recupero dell’edificio? «Per i pavimenti legno in rovere naturale spazzolato, il tetto a vista è in legno lamellare tinteggiato in bianco. C&P

Pavimenti e tetto sono i due comuni denominatori di tutto lo spazio interno. Gli elementi scala e ascensore interni forniscono la continuità verticale degli ambienti ponendo a piano primo la zona notte sempre caratterizzata dal legno rovere spazzolato a terra e dalla travatura a vista tinteggiata di bianco». Mentre per quanto riguarda gli spazi esterni? «Sono stati studiati per garantire la massima fruibilità, sono caratterizzati da un ampio patio che si affaccia alla piscina e al giardino. L’elemento caratterizzante l’area esterna è la pietra; la scelta è ricaduta su due tipi di pietra provenienti da diverse latitudini ma che insieme coniugano una discreta cromatologia: il ceppo di Grè lombardo e la pietra basaltina siciliana. Anche la copertura in ardesia ripercorre la scelta dell’elemento naturale». L’impatto ambientale in quali termini è stato considerato? «Abbiamo posto un’attenzione particolare all’aspetto energetico mediante l’utilizzo di sistemi impiantistici per il raffrescamento e il riscaldamento dell’abitazione a ridotti e limitati consumi energetici». 223


INTERNI | Effebi arredamenti Cantù

Tra design e funzione Arredare interni significa soprattutto riuscire a studiare un progetto su misura. Dove la cura dei particolari e dei materiali si unisce alla scelta dei partner tecnici di Nicoletta Bucciarelli

L’esperienza accumulata nel campo dell’arredamento d’interni da Pierino Bellasio rappresenta la base su cui si è sviluppata la Effebi Arredamenti, un’azienda che fonda le sue radici sulla tradizione canturina del mobile, ma sensibile e attenta a guardare verso il futuro. «Realizzare appartamenti su misura Implica un lavoro preciso e meticoloso, quasi sartoriale». Sono le parole di Andrea Bellasio, che insieme ai fratelli Corrado e Marco ha raccolto dalle mani dalle mani di Pierino la capacità e la passione di creare qualsiasi progetto. «Seguiamo il lavoro a 360 gradi in tutte le fasi della produzione che comprendono l’integrazione di materiali come il legno, con altri come ad esempio vetro, metallo, pelle e tessuti. Partendo da una realtà artigianale possiamo permetterci di realizzare ogni cosa su misura per il committente. La fidelizzazione nei nostri confronti è molto importante, raramente quando un committente ci sceglie poi ci abbandona. Ci teniamo a seguire tutte le fasi di un lavoro, dalla fase progettuale in collaborazione con i vari professionisti fino alla produzione e alla posa in opera». La cura dei particolari e dei materiali si unisce a quella 224

In apertura l’interno della gioielleria Re Mida arredata dalla Effebi Arredamenti di Cantù (CO). Sopra, appartamento a Milano www. effebiarredamenti.it

della scelta dei partner tecnici. «Il costante confronto con noti architetti e le collaborazioni con aziende importanti hanno sempre stimolato la ricerca di nuovi materiali e l'applicazione creativa delle più innovative soluzioni tecnologiche. Il tutto abbinato alla consueta tradizione artigiana Canturina». Per quanto riguarda i supporti tecnologici «cerchiamo in ogni caso di fonderli con la tradizione, altrimenti non riusciremmo mai a produrre con la stessa precisione ma soprattutto con la stessa passione. Una frase tipica del signor Pierino sintetizza lo spirito che anima questa azienda: “Se una realizzazione mi soddisfa, difficilmente troverò qualcuno che potrà muovermi critiche”». C&P



Forme accoglienti Outdoor, Roma sound e Prestige. Le ultime collezioni Delta Salotti sfoggiano importanti tessuti, design e finiture quasi sartoriali. “Amplificando” le forme del comfort in poltrona di Giulio Conti

Metodi artigianali che enfatizzano la cura dei particolari e di ogni singola finitura. Pelli e tessuti esclusivi, scelti ad hoc in base alle tendenze della moda e del mercato. Ricerche formali all’insegna del comfort e funzionalità tecnologiche. I divani, poltrone, letti e chaise lounge realizzati da Delta Salotti presentano l’essenza del design, inedito perché innovativo, sposato al mondo della musica, degli spazi aperti e del lusso. «Con la nuova linea “Roma sound”, ad esempio, il divano viene interpretato come oggetto polifunzionale, perfetto per accogliere e “coccolare” chi si siede, ma al contempo, capace di creare nuovi stimoli, puntando l’attenzione verso altre esigenze della vita quotidiana». Dalle ultime collezioni Delta Salotti, in alto, poltrone Outdoor e sotto, divano Roma sound www.deltasalotti.com

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Gianni Difilippo, portavoce del gruppo industriale Delta Salotti e ideatore di “Roma sound”, spiega come «accuratamente integrato nella struttura del divano stesso, un sistema surround wireless potrà ospitare anche iPod e iPhone e attingere anche da altre fonti, come pc, notebook, iPad, senza collegare nessun tipo di cavo». Nuove linee e nuovo design, quindi, per un’immagine moderna e atemporale, grazie all’originale gioco delle forme, dei colori e dei materiali come quello disegnato per la collezione “Outdoor”, composta da grandi pouf, una comoda e accogliente chaise lounge e da voluminose poltrone, ora morbide, ora rigorosamente geometriche. «Perfette anche per l’interno – afferma Difilippo –, studiate per un pubblico internazionale e di qualunque età, le poltrone Outdoor sfoggiano gli eleganti tessuti della collezione Rubelli, informe pulite ed essenziali». Una rinnovata armonia delle forme, unita alla preziosità e modernità dei dettagli, ha inoltre dato vita a una linea Delta Salotti sofisticata e di grande appeal, come si intuisce dal nome, Prestige. «Lusso, eleganza e design sono le tre semplici parole che meglio descrivono perfettamente questa linea composta da divano con angolare o divano a due posti – precisa Difilippo –. Lusso per la ricercatezza del pellame; eleganza conferita dalle cuciture a vista realizzate accuratamente, quasi a livello sartoriale; e infine, design sviluppato su linee armoniose e sofisticate». C&P



Armonie di colori dialogano con l’arte È un dialogo continuo con opere dei grandi maestri dell’arte contemporanea, che si rigenera ogni volta tra impulsi creativi e inediti oggetti dell’arte tessile. L’atelier milanese Spazio Seta nelle parole dell’architetto Daniele Rossi di Giulio Conti

Musei, gallerie e fucine delle contemporanee generazioni artistiche non sono i soli luoghi deputati alla creazione di opere conclamate o inedite. Perché i continui moti dell’arte trascinano in sé “onde” ideative, materiali e concettuali, che a Milano, hanno di recente adottato il linguaggio dei tessuti. Inedito, esclusivo, eclettico ed elegante. Creato all’interno di un ex sito industriale completamente ristrutturato, il nuovo atelier “Spazio Seta”, realizzato sullo slancio progettuale dell’architetto Daniele Rossi, giunge con estrema classe e determinazione alla ricerca e alla promozione di tessuti per l’arredamento. «È un luogo che interpreta tre anime diverse – laboratorio di ricerca, luogo di esposizione e salotto di ricevimento – dove si può discutere di nuove forme di 228

design grafico e di tendenze estrose, ed esplorare la qualità e la storia del made in Italy, coniugando agilmente l’architettura industriale al fascino dei tessuti che con grande facilità e per loro natura si prestano all’allestimento di un ambiente elegantemente composto da armonie di colori e della disposizione delle forme». Lo spazio è un laboratorio per la progettazione e la vendita di tessuti, dedicato alla riscoperta delle produzioni provenienti da alcune tra le più prestigiose industrie tessili italiane. «Si è cercato di proporre una selezione di straordinari tessuti che dialogano e si legano per vocazione ai lavori dei grandi maestri dell’arte contemporanea. I “multipli” di Baj, Rauschenberg, Calder o Christo s’incontrano con C&P


ARTE TESSILE | Daniele Rossi

Nell’atelier Spazio Seta una quadreria composta da tessuti montati su supporti morbidi senza cornice, alternati come in un racconto alle suggestioni di alcuni “multipli”: richiami all’arte di Baj, Rauschenberg, Calder o Christo

In queste pagine, alcuni ambienti e dettagli dell’atelier Spazio Seta di Milano www.danielerossi.net www.spazioseta.com

C&P

l’esperienza di Burri e Fontana, mentre i tessuti che si sono ispirati all’arte futurista di Balla, ad esempio, si confrontano con la loro fonte ispirativa primigenia come in un quadro di Balla. Ecco allora reso evidente il flusso reciproco di comunicazione tra l’industria e lo spirito creativo dei protagonisti del 900. Nell’atelier di via Savona notiamo una quadreria composta da tessuti montati su supporti morbidi senza cornice, alternati come in un racconto alle suggestioni di alcuni “multipli d’arte”. «Per la parte espositiva si è dovuto pensare alla luce come fonte primaria per la visualizzazione delle opere, utilizzando luci per il controllo del colore e sfruttando la disponibilità dello spazio industriale che con pareti espositive generose consente effetti molto scenografici – spiega l’architetto –. Sono raccolti sulle pareti tessuti dell’antica produzione industriale italiana talvolta prodotti anche su telai jacquard ormai rari, con un’attenzione speciale per la qualità che si traduce in densità di trama e di ordito, in una selezione delle materie prime e un costante aggiornamento dei disegni con un occhio all’innovazione e al design». Spazio Seta è in definitiva un laboratorio di grande intensità in grado di offrire «un’ampissima varietà di tessuti da sempre ammirati solo in talune tra le residenze più prestigiose del mondo, ora presenti anche a Milano e a breve in un secondo atelier a Roma, accessibili a tutti coloro che ancora oggi ritengono che il tessuto sia un grande “momento d’arte”». 229




Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia

La città dell’arte Venezia si conferma come una delle città più importanti a livello internazionale per quanto riguarda le espressioni artistiche in tutte le sue forme. Paolo Baratta racconta i retroscena di tutti gli eventi passati e futuri di Nicolò Mulas Marcello

La Biennale di Venezia, in tutte le sue sembianze artistiche, rappresenta sempre di più l’occasione di conoscenza e di formazione per tutti coloro che operano in questi settori, dall’arte all’architettura, passando per il teatro, il cinema, la danza e la musica. L’ultima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Architettura ha riscosso un successo record. «Il successo a livello internazionale – spiega Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia – è rilevante in quanto Kazuyo Sejima ha fatto un lavoro straordinario». Cosa rappresenta la Biennale per la città di Venezia? «È un grandioso controsenso storico poichè la città più antica, e metafora della decadenza per i poeti, ospita la più grande macchina di rappresentazione, presentazione e aggiornamento sul contemporaneo. In questo senso è un arricchimento difficile da conseguire per una città, e il fatto che lo sia da 116 anni significa che chi l’ha fondata ha scelto una 232

formula che è stata durevole. Questa presenza rinnovata nel tempo con modifiche e integrazioni la fa diventare la madre di tutte le Biennali e un modello di gestione dell’informazione sul contemporaneo». A novembre si è conclusa la 12° edizione della Biennale Architettura. Quale il bilancio di questa edizione e delle attività svoltesi nel 2010? «È un bilancio estremamente positivo in quanto ci sono stati 170.000 visitatori paganti. Un vero record nella storia della Biennale Architettura, che si è confermata un appuntamento in cui le immagini contano di più dei discorsi da seminario. Abbiamo introdotto alcune innovazioni importanti come le Biennali Sessions: abbiamo invitato facoltà di architettura delle università di tutto il mondo e istituzioni similari a venire a trascorrere tre giorni qui con enormi vantaggi economici, per consentire a gruppi di 50 studenti con professori di svolgere un seminario loro. È stato un successo e lo ripeteremo quest’anno per la Biennale Arte. Ho già scritto a più di C&P



Foto di Def Image

In apertura, un’opera esposta alla scorsa edizione della Biennale Architettura; in questa pagina, Monica Bonvicini Light Me Black, 2009. Installation view: Galerie Max Hetzler, Berlin, Monica Bonvicini, Bet Your Sweet Life, 2010

2.300 istituzioni internazionali offrendo questa formula. Questo fa della Biennale il luogo di vocazione per chi studia e chi ricerca». Cosa ci dobbiamo aspettare da questa edizione? «Nel trascorrere dei decenni le problematiche legate all’arte contemporanea sono cambiate. Dagli anni in cui occorreva sfondare e provocare per farla conoscere si è arrivati a un periodo in cui essa è diventata molto popolare. La selezione diventa ora il tema centrale. Da qui nasce il concetto di illuminazione e l’operazione che la nostra curatrice fa nel sottolineare l’importanza del rapporto tra chi guarda l’opera e l’opera stessa. Cercando di andare al di là del puro e semplice gesto artistico, guardando il contemporaneo con un occhio diverso, che cerca l’emozione e non soltanto la provocazione». Oltre alle Biennale Sessions tra i progetti di punta di questa edizione ci sono anche i “meetings on art”. In cosa consistono? «Sono i seminari che l’anno scorso abbiamo organizzato per la Biennale di Architettura, 234

chiamando ogni sabato tutti i vecchi direttori della mostra a gestire un incontro con tema a loro scelta; quest’anno faremo la stessa cosa chiamando filosofi, teorici, critici, psicologi. Essendo il tema l’illuminazione e la sua percezione nell’arte, è interessante che ne parlino coloro che se ne occupano come studiosi». Quali saranno gli appuntamenti del 2011? «È in arrivo la Biennale di teatro. Sia per il teatro che per la danza, e in futuro anche per la musica, si è rovesciato un po’ il progetto, ovvero la formazione e i laboratori diventano l’aspetto più importante della mostra e il festival diventa un momento ulteriore che nasce dal laboratorio, e non viceversa. Già l’anno scorso abbiamo avuto un importantissimo laboratorio di teatro con nove tra i registi più importanti del mondo che hanno collaborato con molti giovani. Per quanto riguarda la danza, quest’anno avremo di nuovo l’Arsenale della danza, ovvero per 5 mesi ragazzi di tutto il mondo verranno a Venezia per incontrare vari coreografi e venire in contatto con tutte le scuole e le esperienze possibili. Questo è un modello che avrà un futuro». C&P


Le luci del mondo Scoprire cose mai viste prima o di cui non si è mai sentito parlare. Per Bice Curiger è questo il fascino della Biennale Arte che quest’anno ospiterà anche opere di artisti provenienti da paesi mai esposti a Venezia prima d’ora di Nicolò Mulas Marcello

Una Biennale dedicata alla luce, al suo significato e al suo utilizzo nell’arte. “Illuminazioni”, questo il titolo dell’edizione di quest’anno, sarà una sorta di excursus tra i vari paesi, le diverse culture e le più disparate concezioni della luce nelle espressioni artistiche. Saranno infatti più di 80 gli artisti che da giugno “illumineranno” Venezia con la luce delle loro opere di arte contemporanea. Ad aprire la mostra saranno i capolavori del Tintoretto che rappresentano una sorta di trait d’union tra il Rinascimento e la contemporaneità. «Credo anche che gli eccezionali dipinti di Tintoretto – spiega Bice Curiger, curatrice dell’esposizione di quest’anno – saranno visti in C&P

Bice Curiger, curatrice dell’Esposizione internazionale d’Arte di quest’anno

modo nuovo, grazie all’originalità del contesto espositivo». Il 4 giugno partirà la 54° Esposizione internazionale d’Arte. Come mai ha scelto il tema della luce? «Mi sono chiesta cosa rende la Biennale di Venezia così speciale rispetto alle altre Biennali: la presenza dei padiglioni nazionali. Allo stesso tempo ho scelto il tema della luce, un soggetto classico nell’arte che si adatta perfettamente anche alla città di Venezia. Mi piace poter riassumere un concetto in una sola parola». 235


BIENNALE D’ARTE | Bice Curiger

Nicholas Hlobo Ngubani na lo? 2009 Installation view Courtesy: e x t r a s p a z i o gallery, Rome

La Biennale è una mostra dedicata all’arte contemporanea che celebra in modo piuttosto ossessivo il nostro presente

Le nazioni presenti per la prima volta saranno Andorra, Arabia Saudita, Bangladesh, Haiti. Non tutti conoscono l’arte di questi paesi. Cosa ci dobbiamo aspettare? «È proprio questo che rende affascinante la Biennale di Venezia, il fatto di poter scoprire cose mai viste prima o di cui non si è mai sentito parlare». Per questa edizione avete chiesto a quattro artisti (Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong e Oscar Tuazon) di creare dei “parapadiglioni”, opere di carattere architettonico e sculturale in grado di ospitare il lavoro di altri artisti. Si può parlare di arte nell’arte? «Sì, credo di sì. Anche per me, come curatrice, è interessante capire come gli artisti iniziano a comunicare tra loro dopo averli messi in contatto. È 236

anche un modo per creare momenti più dinamici all’interno dell’esposizione, che interrompano la struttura tipica di una grande mostra a cui partecipano più di 80 artisti». Un’esposizione che guarda al futuro ma che non vuole certo dimenticare il passato. Come nasce la scelta di introdurre il Tintoretto nell’esposizione? «La Biennale è una mostra dedicata all’arte contemporanea che celebra in modo piuttosto ossessivo il nostro presente. Allo stesso tempo si svolge in un luogo carico di storia. Il mio gesto è una provocazione che vuole sfidare sia il pubblico che segue l’arte contemporanea sia gli appassionati dei grandi artisti del passato. Credo anche che gli eccezionali dipinti di Tintoretto saranno visti in modo nuovo, grazie all’originalità del contesto espositivo». C&P



Nuovi equilibri urbani Chiara configurazione spaziale, leggibilitĂ dei prospetti, cura dei dettagli. Sono i tratti che conferiscono una netta riconoscibilitĂ alle architetture di Gaetano Mossa. Pur se realizzate in campi diversi tra loro di Carlo Gherardini

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C&P


ARCHITETTURE URBANE | Gaetano Mossa

In apertura, il progetto dell’opificio Mas Marmi a Bari. A destra Gaetano Mossa, seduto, insieme ai suoi collaboratori. In basso, nuova sede della Guardia di Finanza di Otranto(Le) archimossa@libero.it

Il connubio fra forme geometriche e linee avvolgenti, la composizione volumetrica legata agli effetti di luce, le scelte cromatiche, l’abilità di associare materiali di natura differente: tali costanti ritornano nelle architetture firmate da Gaetano Mossa e danno vita a strutture plastiche, a spazialità essenziali e funzionali. Non sono, però, regole predefinite: ogni progetto è frutto di un’attenta analisi del luogo e del contesto specifico, finalizzata alla definizione di un equilibrio fra utenti e territorio, innovazione e tradizione. A queste caratteristiche si unisce la passione per il disegno e altre forme d’arte: una vasta produzione di quadri e sculture ha da sempre accompagnato le disparate sperimentazioni in campo prettamente architettonico. Le forme sinuose, frutto dell’osservazione del reale e una “metafisica” reinterpretazione personale, rappresentano un consapevole gesto di appropriazione dello spazio alla ricerca costante di un connubio fra stabilità, dinamicità e armonia. Questi concetti non si traducono solo nella progettazione architettonica ma anche nella realizzazione di oggetti di art design. Mobili, tavoli, sedute, lampade, elementi di arredo: tutti pezzi unici che diventano protagonisti dello spazio da vivere. Come si esplica nelle sue progettazioni l’art design e

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quale valore aggiunto fornisce l’elemento artistico al progetto? «L’elemento artistico è il completamento indispensabile dello spazio immaginato, sia che si tratti di spazio interno o comunque legato al manufatto architettonico, sia che si tratti di uno spazio urbano. Cosa sarebbe piazza di Spagna senza la “fontana della Barcaccia” di Pietro Bernini o le tantissime piazze e piazzette di Roma, Firenze, Milano, Venezia e di tantissime città, senza gli elementi artistici quali fontane, obelischi, colonne, sculture? Questi elementi sono emergenze artistiche che costituiscono la “riconoscibilità” e la bellezza degli spazi, contrariamente alla povertà delle città moderne che ne sono quasi totalmente prive. Quando si progetta uno spazio, lo si deve immaginare pensando anche alle pareti sulle quali inserire quadri, segni, colori o spazi nei quali posizionare sculture, elementi artistici o di design, con la stessa “attenzione” degli architetti del passato, artisti capaci di progettare grandi palazzi, ma anche di dipingere, scolpire, immaginare spazi nella loro totalità e complessità». Come dialogano secondo lei la struttura esterna di un edificio con i dettagli dell’arredo? «Tutti i “pezzi” di cui è composto uno “spazio costruito”

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sono tanto più belli quanto più sono armonici tra di loro. In questo senso, tutto ciò che si progetta in un medesimo luogo, deve avere un linguaggio unico, rispettoso del luogo stesso, comune e omogeneo. Dalle strutture, ai materiali, ai colori, agli arredi, ai complementi, alle opere d’arte, ogni elemento si deve rapportare in modo coerente con gli altri in relazione al risultato che si vuole raggiungere, o alle emozioni che si vogliono trasmettere». Il suo operato spazia in ambiti diversi, compreso quello urbanistico e residenziale. In particolare, il Piano di Zona è stato vincitore del concorso di idee per l’insediamento di 20mila abitanti nel comune di Barletta. «Il Piano di Zona per la realizzazione di un quartiere per 20mila abitanti a Barletta (Ba) fu esposto alla 3° Rassegna Nazionale di Urbanistica presso lo IUA di Venezia. È un piano urbanistico nel quale si è disegnato un “pezzo” di città, con i suoi percorsi, le sue piazze, le diverse funzioni e i diversi usi del territorio, gli spazi articolati nel loro rapporto tra “pieni”, le volumetrie, e “vuoti”, i collegamenti con altri “pezzi” della città esistente. Purtroppo la norma non consente a un progettista di un piano urbanistico di procedere nella progettualità successiva degli edifici, e questo è un grande limite; inoltre è molto difficile normare le caratteristiche estetiche che deve avere un fabbricato in 240

Tutto ciò che si progetta in un medesimo luogo, deve avere un linguaggio unico, rispettoso del luogo stesso, comune e omogeneo

fase di progetto urbanistico». Sempre in ambito residenziale ha realizzato il complesso di edifici residenziali e uffici direzionali presso S. Fara a Bari. Quali le caratteristiche del progetto? «Il complesso di S. Fara a Bari è un intervento di edilizia residenziale pubblica e privata. Una soluzione compositiva che si inserisce nel tessuto urbano esistente a margine della città costruita. Le linee guida del progetto sono state una chiara scelta tipologica dei manufatti, l’unità morfologica e la composizione tra le varie funzioni: residenza – terziario/commerciale e spazi pubblici. Planimetricamente è caratterizzato dalla presenza di un edificio a sviluppo rettilineo, composto da cinque corpi di fabbrica destinati all’edilizia residenziale, un edificio basso destinato all’edilizia commerciale, non residenziale, C&P


ARCHITETTURE URBANE | Gaetano Mossa

Da sinistra, il complesso di S. Fara a Bari, il Piano di Zona a Barletta, dettagli di arredo firmati dall’architetto Mossa

e una “piastra”, anch’esso un edificio basso, destinato all’edilizia commerciale – direzionale». In cosa si caratterizza, invece, l’intervento sull’opificio Mas Marmi di Bari? «Il progetto prevede la realizzazione di un opificio artigianale per la lavorazione di lastre di marmi e pietre dure da realizzarsi nei lotti n. 82-83 Comparto B del P.I.P. in località “S. Caterina” a Bari. Il fabbricato è costituito da un corpo realizzato con pannelli prefabbricati e strutture in c.a.p., destinato alla lavorazione dei marmi e delle pietre dure a un unico piano e un corpo con struttura intelaiata in c.a. destinato a show room-sala espositiva, uffici, alloggio per il custode e servizi per il personale distribuiti su due piani fuori terra. Negli interrati dei due corpi sono previsti locali deposito. Lo show room ha una tamponatura esterna in vetrata continua scandita da setti C&P

in cemento che disegnano con la loro ombra il pavimento; la parte terminale, rivestita in “scorza” di pietra locale, contrastando la trasparenza del vetro con un grande pieno, ha nella parte retrostante interna una grande fontana a piani verticali inclinati in travertino noce; lo spazio interno dello show room è articolato in una zona a doppio livello nella quale affacciano zone operative a primo piano». Quali i progetti futuri dello studio? «Le prospettive future si orientano verso un’ulteriore crescita anche grazie al lavoro svolto dal team di giovani architetti, Paolo Idra Mossa, Valeria Moscardin, Elvira Lassandro, Claudia Bufo, Francesco Pace, che mi affiancano, contribuendo a mantenere attivo quel carattere di “laboratorio di progettazione” continuo e dinamico che ha da sempre connotato lo Studio Mossa. Attualmente stiamo lavorando alla progettazione di diverse stazioni ferroviarie metropolitane, a complessi residenziali privati, e ad importanti lottizzazioni di cui una in particolare in collaborazione con lo studio MBM Arquitectes di Barcellona». 241


I Giardini Sospesi Riqualificare zone degradate per offrire ai cittadini una rinnovata qualità di vita. Da questo presupposto parte il progetto “I Giardini Sospesi”, a Varese, realizzato dalla FIM Group di Massimiliano e Matteo Monferini di Carlo Gherardini

Dallo sviluppo immobiliare al construction management, dal property management al facility management. È ampio lo spettro di attività coperto dal pool di qualificate società coordinate dalla FIM Group di Varese, che si pone oggi sul mercato come uno sviluppatore di provata professionalità e competenza. «Attualmente - afferma Matteo Monferini, a capo della società insieme al fratello Massimiliano - la domanda di immobili richiede standard qualitativi e tecnologici sempre più elevati. Da qui la nostra scelta di acquisire operazioni immobiliari in posizioni strategiche, la cui riqualificazione è affidata ad affermati studi di progettazione». L’obiettivo è rendere le città italiane, ma anche straniere, sempre più accoglienti, vivibili e vive grazie a progetti innovativi, sostenibili, armonici e qualitativamente perfetti. «La miglior strategia per 242

C&P


SVILUPPO URBANO | Massimiliano e Matteo Monferini

Alcuni render del progetto “I Giardini Sospesi”. In apertura, Massimiliano e Matteo Monferini, titolari della FIM Group di Varese www.fimgroup.eu

Chi abiterà ne “I Giardini Sospesi” ammirerà, affacciandosi al balcone, una distesa infinita di verde e nel contempo godrà di evolute tecnologie di domotica

mantenere inalterato il rapporto tra densità immobiliare e qualità della vita – afferma Massimiliano Monferini - è riconvertire aree depresse e in stato di abbandono postindustriale per riconsegnarle ai cittadini perfettamente ridisegnate». In quest’ambito si pone uno dei più importanti lavori di riqualificazione portati avanti dalla FIM Group: “I Giardini Sospesi” a Varese, un progetto dello Studio Capelli Architettura & Associati di Milano. Un percorso complesso, che comincia dal degrado di una ex area industriale, che dal 1974 al 2000 ha ospitato lo stabilimento della RFT, azienda produttrice di componenti tecnici in gomma e consociata italiana del gruppo svedese SKF, e che vedrà sorgere “I Giardini Sospesi”. Una trasformazione radicale. «“I Giardini Sospesi”– spiega Matteo Monferini - dovrebbero essere sinonimo di equilibrio tra un progetto immobiliare dotato delle più moderne tecnologie al servizio degli utenti e il suo insediamento in un perimetro ovattato, circondato da prati e piante che donino agli abitanti del complesso la sensazione di vivere nel bel mezzo di un’oasi verdeggiante ma, allo stesso tempo, di avere a C&P

disposizione tutti i più moderni servizi utili alla comunità come asili, scuole, trasporti, uffici pubblici. E il tutto a due passi dal centro cittadino». Chi abiterà ne “I Giardini Sospesi” ammirerà, affacciandosi al proprio balcone, una distesa infinita di verde e nel contempo potrà godere di tecnologie di domotica un tempo viste come un lusso destinato a pochissimi privilegiati. Un progetto completo, razionale e armonico, in definitiva, che tende a valorizzare tutti gli spazi disponibili con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di chi li vivrà giorno dopo giorno. «Abbiamo selezionato un pool di progettisti e architetti, coordinati da professionisti di grande esperienza, che ha apportato a tutta l’operazione la voglia di innovazione e lo studio di tecniche e materiali particolari tipici di chi fa dell’avanguardia la propria bandiera» afferma Massimiliano Monferini. Questo connubio è stato in grado di produrre soluzioni architettoniche di forte impatto estetico, che però garantiscono una comoda e agevole fruibilità degli spazi, sia all’interno delle unità abitative sia negli spazi comuni e a verde che caratterizzano l’intero complesso immobiliare. 243


Il valore del contesto Ha nelle sue radici i tratti fondamentali dell’architettura e dell’urbanistica meneghina. Eppure Gustavo Procopio è noto sull’intero territorio nazionale per i suoi progetti ricchi di carattere, ma sempre “in tema” con lo scenario circostante di Filippo Belli

Architettura e urbanistica. Due discipline che non possono evolversi su un percorso parallelo, bensì intersecante. Lo sviluppo delle metropoli contemporanee rende necessaria l’applicazione di un modus operandi progettuale non più fine all’opera in sé. È dal contesto che deve partire la riflessione costruttiva. Un punto su cui insiste anche Gustavo Procopio, architetto milanese noto nell’ambiente soprattutto per le sue competenze nell’ambito della pianificazione e della programmazione territoriale urbana. Tra i suoi lavori più significativi, meritano una menzione il palazzo dei servizi a Settimo Milanese, sede della Telecom, 244

la sede regionale Iveco di Catanzaro, il Villaggio Santa Monica di Crotone e la chiesa di Montepaone Lido, in provincia di Catanzaro. «Tutti questi progetti sono stati realizzati seguendo precise logiche di contestualizzazione – spiega Gustavo Procopio -. La personalità architettonica delle opere deve sempre esprimersi nel rispetto della qualità urbana, del territorio e della cultura cui si rivolge». Fondamentale, dunque, il concetto “tematico”. Ogni In apertura, panoramica di Catanzaro. Nella pagina accanto, a sinistra, la Chiesa Montepaone Lido (Cz), a destra il Villaggio Santa Monica di Crotone www.procopiogustavoarchitetto.it

C&P


ARCHITETTURA E URBANISTICA | Gustavo Procopio

La personalità architettonica deve sempre esprimersi nel rispetto della qualità urbana, del territorio e della cultura cui si rivolge

edificio dedito ai servizi, a un culto religioso, all’amministrazione di un determinato settore economico, porta in dote un importante carico simbolico che va a inserirsi nello spazio urbano circostante. «Per giungere a questa consapevolezza sono state utili le numerose e significative esperienze professionali vissute nell’ambito della progettazione tanto dell’edilizia residenziale, quando in quella industriale, turistica e scolastica. A Milano e nel resto del mondo» ricorda l’architetto. Il capoluogo lombardo resta, comunque, la sua vera “casa” professionale. «Il mio progettare è cresciuto C&P

cogliendo le espressioni principali della cultura architettonica milanese. Riportando tutti i concetti di innovazione e di attualità presenti nelle metodologie volte a sviluppare e promuovere elementi standard di contenuti, sia come espressione di valori estetici che ambientali». Emerge, nei suoi lavori, una massiccia interdisciplinarietà. Non solo architetti, ma anche professionisti strutturali, impiantisti, geologi, solo per citarne alcuni, collaborano in concerto alla realizzazione delle opere. «Ogni progetto – conclude Gustavo Procopio - è espressione di un gruppo di lavoro che sintetizza tutte le componenti interdisciplinari dei settori». 245


Il paesaggio, “luogo di vita” tra ambiente e cultura La città non più vissuta, unicamente, in quanto luogo produttivo, bensì come cuore pulsante dell’aggregazione sociale, dello svago e ambiente “didattico” per i più giovani. E gli spazi verdi sono il trait d’union di questa rivoluzione, come spiega l’architetto Lucia Bergo di Aldo Mosca

I Piani del Verde e del Paesaggio, nonché del Colore e dell’Arredo Urbano, parti integranti del nuovo Regolamento Edilizio del Comune di Cervatto (VC), sono tra i primi studi sul Paesaggio redatti in Piemonte, a livello comunale, a seguito dell’approvazione dei recenti piani sovraordinati della Regione. «Si tratta di uno studio in cui il concetto di Paesaggio, inteso come Ecologia del Paesaggio, è stato il filo conduttore di tutta la metodologia, oltre che la base su cui impostare la successiva e finale fase di pianificazione territoriale, per la redazione della Variante Strutturale al P.R.G.C.». A spiegarlo è l’architetto Lucia Bergo, titolare dell’omonimo studio di progettazione in Sesto San Giovanni, cui è stato affidato l’incarico. Una scelta certamente non casuale, considerando che l’architetto, ha collaborato con il Politecnico di Milano ed è uno dei principali ricercatori nei campi della composizione architettonica, della progettazione urbanistica e delle attività connesse alla realizzazione di opere pubbliche. 246

L’architetto Lucia Bergo. In apertura, progetto per la realizzazione di piste ciclabili e di un giardino pubblico (via Sirio – 1994). In basso, a destra, Rilievo cromatico –materico e progetto di recupero degli elementi decorativi e di arredo urbano originari posti sui fronti di Villa Cervattina, facente parte del Piano del Colore e dell’Arredo Urbano del Comune di Cervatto (Vc) lucia.bergo@libero.it

Concentriamoci sul concetto di Paesaggio. Cosa rappresenta per lei? «Il Paesaggio riguarda una forma profondamente umana della natura, che nasce dalle nostre scelte e dai nostri convincimenti. Non esiste in sé, ma assume un suo significato attraverso l’uomo che lo contempla. La sua profonda esaltazione nasce dalla sensazione che siamo noi a farlo accadere». C&P


ECOLOGIA DEL PAESAGGIO | Lucia Bergo

E tutto questo come si riflette nei piani a cui sta lavorando? «Il Piano del Verde e del Paesaggio, unitamente al Piano del Colore e dell’Arredo Urbano, intendono costituire un efficace strumento per combattere la lenta ma progressiva perdita di identità culturale, che si può manifestare attraverso le modifiche non sempre idonee dei beni architettonici originari, nonché l’avanzare incontrollato della vegetazione che sta danneggiando, oltre alle essenze nobili dei Parchi Storici di Cervatto, anche la relativa sentieristica, rilevante rete di comunicazione per l’attività agro – silvo – pastorale, nonché i punti percettivi del Paesaggio, costituenti attrattiva turistica».

Il Paesaggio riguarda una forma profondamente umana della natura. Non esiste in sé, ma assume un suo significato attraverso l’uomo che lo contempla

Soprattutto in Nord Italia, lei ha seguito diversi piani “verdi”. Qual è stato il più significativo? «Ogni progetto ha le sue valenze e peculiarità. Si potrebbe citare, ad esempio, il Piano di C&P

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L’ambiente che ci circonda è uno dei fattori chiave per lo sviluppo dei territori, rappresenta un fattore per il benessere individuale e sociale

riqualificazione ambientale del Comune di Cassina dè Pecchi, in provincia di Milano. In questo si sono previste modifiche alla viabilità e la realizzazione di quattro parchi attrezzati e collegati con il Parco Agricolo Sud Milano. Mediante percorsi ciclopedonali, con sottostanti infrastrutture tecnologiche interrate, tra cui la rete di cablaggio, il piano è stato integrato da quello relativo alla riqualificazione e alla valorizzazione ambientale dell’itinerario ciclabile “Martesana - Muzza”. Ciò ha consentito all’Amministrazione Comunale di Cassina dè Pecchi di candidarsi al “Progetto Bambino Urbano”, ottenendo il riconoscimento dal Ministero dell’Ambiente di “Città a misura delle bambine e dei bambini”». 248

Dunque uno spazio urbano sempre più a misura d’uomo? «Tutto questo è conseguenza della necessità, ogni giorno più sentita, di vivere diversamente la realtà urbana, non soltanto come luogo del lavoro e della produzione, ma anche come realtà in grado di offrire possibilità di aggregazione, socializzazione e svago, oltre che supporto didattico per studenti di diverse fasce d’età. Attualmente, infatti, la concezione di Paesaggio condivisa a livello europeo, orienta le popolazioni verso una nuova specifica attenzione alla sua interezza e complessità, non solo per le sue parti eccezionali da sottoporre al vincolo paesaggistico, ma anche per quelle parti di territorio che in Italia sono sempre state trascurate, ovvero i luoghi della vita di tutti i giorni, che spesso sono i più degradati». Verde significa anche sport. Di recente, ad esempio, ha portato a termine il progetto di completamento dell’area sportivo-ricreativa di Oltracqua di Fobello. C&P


ECOLOGIA DEL PAESAGGIO | Lucia Bergo

A sinistra, progetto esecutivo di piste ciclabili e rondò per il miglioramento della viabilità urbana, Cassina dé Pecchi (Mi), 2000. A fianco, Rilievo cromatico-materico del basamento del sagrato della Chiesa di S. Michele Arcangelo in Rimella (VC). Sotto, altro progetto di recupero degli elementi decorativi: rilievo cromatico-materico, Villa Cucciola, Cervatto (Vc)

«Si tratta di un progetto per il quale l’Amministrazione Comunale ha ottenuto i fondi europei Docup 2000-2006, classificandosi nella linea “Rivitalizzazione turistica delle aree depresse”. L’obiettivo è il potenziamento dell’offerta turistica di un’area ricchissima dal punto di vista paesaggistico. L’ambiente naturale e antropico, non solo costituisce patrimonio culturale di questo paese valsesiano, ma è ormai considerato uno dei fattori chiave per lo sviluppo dei territori, rappresentando una enorme risorsa per lo sviluppo sostenibile, nonché un fattore per il benessere individuale e sociale». Su cosa si focalizzerà per il futuro? «Oltre a completare i lavori sulla Variante Strutturale al Piano Regolatore di Cervatto, come dicevo poc’anzi, nei prossimi mesi seguirò il cantiere di restauro conservativo del sagrato della chiesa di San Michele Arcangelo di Rimella, in provincia di Vercelli, edificata nel 1788 su un precedente edificio risalente all’anno 1528 il cui progetto originario è conservato al Metropolitan Museum di New York. Il sagrato della più bella chiesa valsesiana, presenta elementi di degrado superficiale dovuti alla presenza di muschi e di piante infestanti, oltre a rotture e sfarinamento delle lastre in pietra di Luserna. Sul sito, poi, vi sono anche problemi statici dovuti alla tendenza dell’intero sagrato allo scivolamento verso valle, in quanto posato su materiale incoerente risalente all’epoca dell’edificazione della chiesa. L’obiettivo è conservare il più possibile i materiali originari che testimoniano il passaggio dell’edificio attraverso differenti epoche storiche». C&P

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Sensazioni architettoniche Un’architettura che si fa guardare ma non crea disturbo. La ricerca della differenza tra progettare edifici e realizzare architetture. L’architetto Maurizio Lo Presti racconta il progetto Kubik di Nicoletta Bucciarelli

Un progetto che ha visto l’interessamento dell’Accademia delle Belle Arti di Brera, tanto da averlo scelto come sede per l’esposizione dell’opera di un giovane artista emergente. Si tratta della residenza Kubik, un intervento edilizio situato a Milano, in via Fontanili, nato dal lavoro dell’architetto Maurizio Lo Presti e dello studio Aessei. «Si è trattato di un lavoro meticoloso e preciso che ha beneficiato del contributo fondamentale della committenza in termini di passione e di spunti». Quali sono state le difficoltà incontrate in un progetto come Kubik? «Ci siamo trovati a dover conciliare richieste della committenza, sensibilità del sito e norme urbanisticoedilizie. Volevo che la storia e i valori simbolici connessi emergessero dal progetto. A questo proposito di grande 250

ispirazione sono state le passeggiate tra le vie del quartiere, le riflessioni emerse guardando le torri di Massimiliano Fuksas, così austere nello sky line di via Spadolini e i ricordi di un viaggio fatto a Barcellona. In quell’occasione avevo ammirato l’edificio de viviendas dell’architetto Carlos Ferrater, perfettamente amalgamato nella via della città spagnola, ma fiero di essere lì. Volevo che l’architettura si facesse guardare ma non arrecasse disturbo. I materiali che ho utilizzato, legno, vetro e alluminio, dovevano aiutarmi a trasformare l’edificio che stavo immaginando in un’architettura». In che modo è stato d’ispirazione il committente? «Il buon rapporto avuto con la committenza, fondato anche su frequentazioni extra-lavorative, mi ha permesso di capire cosa avevano in mente e soprattutto, cosa si aspettavano da un giovane architetto, combattuto fra C&P


IL PROGETTO KUBIK | Maurizio Lo Presti

In queste pagine alcune immagini del progetto Kubik dello Studio Aessei di Maurizio Lo Presti www.studioaessei.it

progettare edifici e realizzare architetture. Aver cenato con loro, aver sentito suonare il piano da uno di loro, aver conosciuto alcuni componenti delle loro famiglie, aver visto le loro abitazioni, gli hotel e i negozi che frequentano mi ha ispirato e aiutato a creare Kubik». Come sta andando la selezione per l’esposizione dell’opera dell’artista dell’Accademia di Brera? «Al concorso, organizzato grazie alla volontà e all’impegno della proprietà, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera, hanno potuto partecipare studenti iscritti a uno qualunque dei corsi di diploma accademico di primo e secondo livello e diplomati da non più di 10 anni. La commissione ha selezionato 10 lavori sulla base della qualità artistica, estetica e tecnica, della fattibilità tecnico-economica, C&P

della semplicità di manutenzione e soprattutto della capacità di valorizzazione dell’architettura del luogo dove verrà collocata». A seguito di questa progettazione, cosa rappresenta per lei, oggi, l’architettura? «Ritengo che oggi, l’architettura in Italia stia perdendo il suo aspetto più affascinante, quello legato all’arte, alle emozioni, ai sentimenti. Oggi, purtroppo, contano solo i bussiness-plan, i tempi contrattuali, le penali. Spero invece che chi vivrà in KUBIK, o chi passerà dalla via Fontanili percepisca la passione combattuta, l’amore e l’odio che ha provato il suo progettista mentre cercava di trasformare un edificio in un’architettura». 251


A sinistra, Ivo Maria Redaelli e Davide Macullo. In basso, Arianna Redaelli; a lato, il progetto Caleido (Bernareggio 2010) www.redaelliassociati.it www.macullo.com

La natura, traino di un’architettura emozionale Una fotografia dei progetti più sensazionali e suggestivi di Davide Macullo, Ivo Maria ed Arianna Redaelli, a testimonianza di un’architettura che colpisce chi la vive di Aldo Mosca

Si fonda sullo scambio interculturale e sulle più diverse esperienze architettoniche internazionali il ricco portfolio lavori portato a compimento da Ivo Maria Redaelli, Davide Macullo e Arianna Redaelli. I tre architetti, a capo della Redaelli Associati e della Davide Macullo Architects , rappresentano oggi uno dei team più apprezzati sullo scenario del design mondiale. Già nominati ai World Architecture Awards di Barcellona e per il WAN House of the Year Award, continuano a distinguersi per la forte carica emotiva, per certi versi “drammatica”, che riescono a far emergere in ogni loro realizzazione. Di recente, si è tornato a parlare di loro per alcuni importanti progetti realizzati sul territorio italiano, a partire dall’edificio commerciale Caleido, nella piccola città di Bernareggio, alle porte di Milano. Esempio di come le aree industriali si trasformino in eleganti cerniere di collegamento tra le periferie e i

centri storici. «La forma di questo complesso è semplice, stretta, lineare, con le due nuove facciate posta l’una dinanzi l’altra» spiega Ivo Maria Redaelli. È soprattutto l’impatto visivo, dettato dai volumi dell’edificio, a caratterizzare il personale intervento dei tre professionisti. «La nuova “pelle” del palazzo è concepita come un filtro che dà sulla strada e che permette allo spazio pubblico di fluire negli ambienti interni». Entrambe le facciate, in pioppo nero e acero rosso, richiamano le file di alberi poste ai lati dei tipici viali del Nord Italia. L’edificio diventa “albero” e il tocco dell’architettura si limita a rielaborare in chiave funzionale uno dei tratti distintivi pre-esistenti di questo territorio. E pare proprio che l’uniformità, l’unicum, rappresenti uno dei capisaldi del manifesto stilistico dei Redaelli e di Macullo. Esempio di tutto questo è


PROGETTAZIONE | Davide Macullo, Ivo Maria e Arianna Redaelli


A sinistra un esterno del progetto Caleido e, sotto, lo stand permanente di Metaenergia in Fiera Milano. A destra, dall'alto in senso orario, nuovo quartiere "aree ex ospedale" di Vimercate e un interno dell'Ospedale di Vimercate; sotto l 'Elounda Bearch Resort di Creta, yacht club e Spa and Wellness

anche la scelta, in controtendenza, portata avanti nella realizzazione dello spazio Metaenergia per la Fiera di Milano. Lo stand non è più un insieme di elementi, bensì un solo oggetto che, tramite un “divenire” sinuoso, si sviluppa su di una geometria ondulata, abbracciando l’intero spazio, dal bar alla sala meeting. Un’idea di “insieme” scaturita anche dalla scelta cromatica e illuministica, in cui il bianco e il soffuso la fanno da padroni. Decisamente più “geometriche” invece, sono le forme di alcune recenti abitazioni disegnate dal team. «Anche per il living ci ispiriamo alle tante filosofie architettoniche approfondite confrontandoci con esperti dai background più 254

differenti e disparati – sottolinea Davide Macullo -. Elementi portanti e fili conduttori, oggi come oggi, restano comunque lo studio del territorio e l’applicazione di metodologie atte a garantire il minore impatto ambientale possibile. L’architettura deve essere sostenibile». Ogni spazio ha un suo substrato emotivo. Una verità che gli architetti dello studio palesano, utilizzando un registro progettuale per certi versi futuristico. Osservando i colori, le forme e le luci scelte per il design interno dell’ospedale di Vimercate, si coglie una visione dello spazio clinico in netta evoluzione rispetto al tipico ospedale italiano. Ogni ambiente è contraddistinto attraverso cromie che C&P


PROGETTAZIONE | Davide Macullo, Ivo Maria e Arianna Redaelli

accompagnano verso più emozioni. L’ambiente ospedaliero diventa così più vivibile, favorisce sensazioni di rilassamento, anche grazie all’introduzione di elementi naturali quali la vegetazione e immagini di paesaggi. «In questo è stata molto utile anche la collaborazione diretta con lo staff medico dell’ospedale – racconta Arianna Redaelli -. La varietà dei fiori è stata scelta proprio dai medici. Ogni pianta, in ogni divisione, è collegata alla specifica terapia che si esegue nel singolo reparto». In particolare, l’elemento naturale è centrale nell’ala pediatrica, concepita come una foresta florida, con forme che ricordano gli alberi e led C&P

colorati. «Questi spazi aiutano i più piccoli a passare, con la fantasia, dalla loro dura realtà di malati al tipico mondo “dipinto di rosa” in cui è giusto che essi si immaginino di trovarsi». Infine, non si può non menzionare il settore delle Spa, su cui il gruppo di architetti ha certamente potuto sfogare nella maniera più elegante e creativa possibile il suo estro. Su tutti, il progetto per l’Elounda Beach Resort Hotel di Creta, una struttura di lusso in cui esterni ed interni si confondono. Soprattutto, i tre architetti si sono concentrati sul paesaggio circondante, che gli ospiti della struttura possono ammirare senza interruzioni dalla splendida piscina panoramica posta nel secondo piano. 255


Il valore della tridimensionalità Dal pensiero di Renato Rizzi, dello studio associato Rizzi-Proteco, emerge una sostanziale rottura dalle tendenze architettoniche più diffuse. Non più un isolamento ma un tutt’uno tra il progetto e il suo ambiente. Senza mai distaccarsi dall’origine di Andrea Moscariello

Progetto per il Teatro Elisabettiano, Danzica

Ricerca e progettazione. Un continuum che si sviluppa mediante una metodologia che recupera, concretamente, il valore della tridimensionalità nell’architettura. Renato Rizzi, professore associato di progettazione allo Iuav di Venezia, medaglia d’oro all’architettura italiana nel 2010, apre le porte dello suo studio in associazione con PROTECO. Una realtà che si distacca nettamente dalle correnti architettoniche contemporanee, al cui interno si è sviluppato un modus operandi particolare, elaborato assieme a un pensiero e a un programma "teorico". «Il metodo riguarda contemporaneamente progettazione e rappresentazione attraverso l'uso di modelli in gesso – spiega il professor Rizzi -. L'ambito tridimensionale della progettazione, caratteristica essenziale dell'architettura, è presente fin dall'inizio, in ogni fase lavorativa e produttiva». La riflessione di Rizzi, però, ancora prima che dalla pratica, parte da una precisa analisi etimologica. Lei parla di teoria, ma più spesso ha sottolineato il fatto che occorre parlare di “Theoria”. 256

C&P


PROGETTAZIONE | Renato Rizzi

Renato Rizzi dello studio associato Rizzi-Proteco di Marghera (Ve). A sinistra, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (Ferrara 2010). Sotto, Stazione della Sublagunare nel bacino Marciano (Venezia 2008) e progetto paesaggistico per la Superstrada Pedemontana Veneta proteco@vegapark.ve.it

«Con il termine "theoria" facciamo riferimento a una visione efficace, non a una concettualizzazione astratta. Si mette in atto una consapevolezza critica nei confronti della secolarizzazione della cultura contemporanea. Al pragmatismo-funzionalista si somma l'ontologia dell'estetico, la massima espressione del sociale». Perché la sua riflessione parte proprio dall’ontologia dell’estetico? «Dobbiamo avere la capacità di distinguere, nell’estetica, almeno due vocaboli. Un sostantivo maschile, l’estetico, e il sostantivo femminile, l’estetica. La differenza è molto semplice. L’estetico è l’oggettivo apparire di tutte le cose, nel loro insieme. Il piano estetico è quello realmente non oltrepassabile, noi non possiamo superare l’estetico perché tutte le cose appaiono, e quando tutte le cose appaiono sono tutte in relazione tra di loro. L’estetica, invece, è il sapere critico interpretativo nei confronti dell’oggettivo apparire delle cose, cioè dell’estetico». Questo si discosta molto dalla forma mentis della cultura contemporanea. «Vero. Cultura che, guarda caso, è in forte declino. Oggi si tende a vedere ogni cosa irrelata dalle altre, tutto è isolato. Il piano estetico, quello invalicabile, è indifferente al problema dell’estetica. Ciò accade perché la cultura contemporanea, che è prettamente tecnico-scientifica, si fonda sull’isolamento delle cose, ha come suo fondamento un’espressione che è sì estetica, ma che poi è contraddittoria con il piano dell’estetico». C&P

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Ciò si collega al percorso che lei compie nell’eseguire il suo lavoro. Un percorso a scalare, gerarchico. Si parte dal territorio per poi scendere alla scala prettamente costruttiva. Dunque lei non si è fatto influenzare da questa cultura dell’Isolamento? «Spero proprio di no. Lo strumento che noi scegliamo in maniera prevalente è quello dei modelli in gesso. Utilizzando una sola sostanza, il gesso, si rinnova l’analogo principio aristotelico dell’unità di materia e forma. Ma ciò implica una metodologia che dipende da una theoria. Il gesso richiede una tecnica molto complessa e raffinata. Ma con questo metodo di lavoro riusciamo a indagare tutte le scale, dalle più grandi alle più piccole, prendendo in considerazione tutti quei paesaggi mentali e reali che altrimenti rimangono repressi o dimenticati. Occorre, in architettura, ripescare sempre le immagini e i substrati culturali, le memorie che appartengono allo spazio in 258

cui si va a operare. Si riconsidera, quindi, l’origine». L’origine? «Certo. Ricordiamoci che l’origine non rappresenta un punto remoto nel tempo. Nell’arte, dunque anche nell’architettura, è il luogo cumulativo del sapere cui bisogna sempre farvi ritorno per poi risalire all’attualità. Per questo quando si crea un progetto occorre tenere vincolati i due estremi temporali, quelli del passato e del futuro. In ciò che è accaduto ieri si trovano già i lineamenti di un domani non ancora dato». Ne approfitto per collegarmi al fatto che tutti i suoi progetti contengono importanti riferimenti simbolici. Ne è un esempio il suo teatro elisabettiano di Danzica. C&P


PROGETTAZIONE | Renato Rizzi

Utilizzando una sola sostanza, il gesso, si rinnova l’analogo principio aristotelico dell’unità di materia e forma

«I lavori per il teatro sono iniziati in questi mesi, e dovrebbero terminare nel 2012. In realtà il progetto contiene due tipologie teatrali, da un lato quello elisabettiano, con il palco al centro, dall’altro quello italiano. Due modelli in contraddizione tra di loro ma che siamo riusciti a far convivere grazie ad una sofisticata tecnologia teatrale presente all’interno della struttura. Parlando di simbologie, per risponderle, sicuramente l’elemento più significativo è dato dal tetto, che si può aprire in verticale, come le pagine di un libro o come due ali. La Polonia, oltre ad avere una straordinaria tradizione teatrale, ha una cultura fortemente influenzata dalla sua storia più recente, pensiamo a Solidarnosc. E l’apertura “alare” si ricollega anche a questo, all’idea simbolica della libertà. Queste ali che si aprono sono in qualche modo il simbolo della dignità umana che il celebre movimento sindacale polacco ha rappresentato». Per il futuro quale progetto ha a cuore? «Ho molti progetti che vorrei realizzare. Uno in particolare è la Casa della Musica a Napoli, nel quartiere Villaricca, totalmente interrato. Napoli contiene in sé due mondi straordinari, uno in C&P

Da sinistra, inserimento paesaggistico del ponte sullo Stretto di Messina, il Centro Giovanni Paolo II (Cracovia 2007), la Città della Musica (Napoli 2007), il Museo d’Arte Moderna (Varsavia 2007)

superficie e uno sotterraneo. Quest’ultimo è custode di tutta la mitologia e simbologia epica napoletana, si tratta di una realtà che possiamo fisicamente percorrere, possiamo scendere nel sottosuolo. Purtroppo Villaricca è un quartiere molto povero, eppure merita un grande rispetto. Per questo non ci si può imporre, ma ci si deve nascondere. Il nostro progetto, quindi, “sprofonda” nella terra, nell’inconscio della materia, nei fantasmi della memoria, dove sono però custodite le potenze invisibili e formanti dell’architettura». 259


Le indagini che plasmano lo spazio

Il processo creativo degli architetti Alberto Bertolini e Alessandra Galli parte da una dettagliata ricerca portata avanti in loco. «Per trovare una forma, anziché partire da quella» di Eugenia Campo di Costa

“Costruire è un modo di collaborare con la terra, imprimere un segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”. Così scriveva Margerite Yourcenar nel suo “Memorie di Adriano”. E questa è la visione condivisa dagli architetti Alberto Bertolini e Alessandra Galli, il cui studio ha sede a Luvinate vicino a Varese. La loro architettura spazia dalle opere private a quelle pubbliche, partecipano a concorsi nazionali e internazionali con progetti che indagano i caratteri storici e morfologici dei luoghi, come l’ampliamento del Centro Sportivo della Moriggia a Gallarate (Va), 2001; il riassetto di Piazza Verdi e del Popolo a Como, 2001; la nuova sede dell’Aler a Varese, 2004; 260

l’Europan 8, sito di Aulla (Ms), 2005; il riassetto del centro storico di Cermenate, 2007. Ma tra le principali realizzazioni annoverano anche la nuova Scuola Materna e parco pubblico a Bernareggio (Mi) 1996-2003, l’Ampliamento del Centro Sim-patia a Valmorea (Co) 2002-2006, edifici residenziali nelle province di Varese e Milano. «Il processo creativo afferma Alberto Bertolini - è per noi ciò che veramente conta e che determina tutte le caratteristiche di un progetto, dalla forma fino ai dettagli costruttivi». Processo creativo che di solito prende il via da una profonda indagine conoscitiva che ha per oggetto il tema e i diversi aspetti del luogo del progetto. «All’inizio non tocchiamo per C&P


PROGETTAZIONE | Alberto Bertolini e Alessandra Galli

In apertura, Terrazzo Montblanc Italia a Milano Bovisa, 2008. Sopra, in senso orario la piscina del centro Simpatia di Valmorea, 2006; la casa a terrazze a Casciago (Va) 2010 e l’interno dello studio Bertolini Galli di Luvinate (Va) www.bertolinigalli.com

qualche giorno la matita o il “mouse” – afferma Alessandra Galli - ma ci immergiamo nella ricerca, fiduciosi di trovare informazioni utili per affrontare il progetto più sicuri e armati di valide ragioni». Ma cosa vanno cercando gli architetti in questa “investigazione” preliminare? «Informazioni di ogni tipo – risponde Bertolini - sulle vicende urbanistiche, sulla storia, sulle scelte politiche passate o future che interessano i luoghi; interroghiamo vari referenti, chi ne sa più di noi, e teniamo conto di riferimenti a nostro avviso imprescindibili, intesi come opere o progetti del presente o del passato». «Cerchiamo tutte le informazioni preziose su aspetti geologici, orografici, metereologici del sito – interviene Galli -, su aspetti legati alla migliore tecnologia da applicare nel progetto. Insomma tutto ciò che ci vincola e riporta a una determinata soluzione, che ci costringe a trovare una forma anziché partire da quella. E poi i cosiddetti “maestri” – antichi o nuovi - che idealmente ci possono in qualche modo dare una mano nella inevitabile selezione che segue la ricerca, e che alimentano la discussione e il nostro spirito critico nell’affrontare una nuova “avventura progettuale”, per lo più personaggi del passato, uno per tutti: Adolf Loos, l’autore di “Parole nel vuoto”, C&P

La curiosità di voler trovare delle tracce, degli indizi per costringere il progetto in una direzione ben precisa, permette agli architetti di superare eventuali “impasse” e di andare oltre una visione soggettiva delle cose

con le sue osservazioni acute e pungenti sui temi più disparati». Spesso la curiosità di voler trovare delle tracce, degli indizi per costringere il progetto in una direzione ben precisa, permette agli architetti di superare eventuali “impasse” e di andare oltre una visione soggettiva delle cose, tutto per arrivare a concepire qualcosa che esprima dei valori possibilmente oggettivi e condivisibili, che affondi le radici nei luoghi in cui si deve intervenire. Qualcosa che continui a esprimere rispettosamente il carattere del luogo una volta trasformato dal progetto, cercando in tutti i modi di tessere una sorta di “trama di continuità”con gli esempi migliori che si possono trovare, con la migliore tradizione dell’architettura e della cultura dei luoghi. 261


Il valore della multidisciplinarietà Sono ormai passati i tempi in cui l’architetto poteva svolgere il suo lavoro munito esclusivamente di matita e righello. Come raccontano Marco Grasselli ed Espedito Ivan Carrozza oggi serve una pluralità di competenze di Amedeo Longhi

Il lavoro che i professionisti dell’architettura devono essere in grado di svolgere oggi è sempre più diversificato e improntato sulla multidisciplinarietà. Oltre a quelle tradizionali di progettazione infatti, competenze di pianificazione economica, gestione amministrativa e burocratica e addirittura di pubbliche relazioni sono elementi fondamentali per offrire un servizio efficace. Marco Grasselli ed Espedito Ivan Carrozza, i due architetti che compongono lo studio T Project di Milano, hanno basato il loro lavoro proprio sulla pluralità dei servizi offerti, unita al dinamismo e alla voglia di ricercare soluzioni sempre nuove tipici della loro giovane età. «Il cinque per cento del nostro fatturato – raccontano Grasselli e Carrozza – viene reinvestito in ricerca e innovazione e proprio questa è l’arma che ci ha permesso di crescere tanto negli ultimi anni». Allo studio si rivolgono privati, aziende o studi di ingegneria e architettura che non hanno determinate competenze, amministrazioni condominiali e anche grosse società di gestione della proprietà immobiliare. Parallelamente a questo, è importante possedere anche una struttura e una dotazione di mezzi e strumentazioni che permetta una buona flessibilità nell’esecuzione dei lavori. «Le nostre attrezzature – spiega a proposito Grasselli – ci permettono di far fronte a grandi opere così come a piccoli lavori. Un esempio sono le termografie a raggi infrarossi, che 262

Marco Grasselli ed Espedito Ivan Carrozza, titolari dello studio T-Project – Società di Ingegneria di Milano. In alto, la sede della RCS Rizzoli di Milano, certificata dallo studio www.tproject.it

eseguiamo nei grossi cantieri ma anche presso singoli appartamenti, quando i proprietari chiedono di verificare il passaggio di tubazioni piuttosto che infiltrazioni oppure ponti termici che causano muffe e condensa». Un aspetto oggi dominante a cui non si può più rinunciare è quello del risparmio energetico, sia in termini di abbattimento di consumi e costi, sia per quanto riguarda la riqualificazione energetica degli edifici. «Questo è un campo delicato – precisa Carrozza – perché all’esecuzione dei lavori bisogna affiancare tutta l’attività di certificazione e un’attenta pianificazione economica degli investimenti». È infatti strettissima la collaborazione con commercialisti e consulenti C&P


PROGETTAZIONE | Marco Grasselli ed Espedito Ivan Carrozza

All’esecuzione dei lavori bisogna affiancare tutta l’attività di certificazione e un’attenta pianificazione economica degli investimenti. È infatti strettissima la collaborazione con commercialisti e consulenti fiscali

fiscali per trovare forme sempre nuove di abbattimento dei costi grazie alle agevolazioni fiscali. «È importante – racconta Grasselli – dimostrare al committente quanto è possibile risparmiare grazie all’ottimizzazione dei costi di manutenzione, la riduzione dei consumi e gli incentivi fiscali, il tutto unitamente a un maggiore comfort abitativo e al contenimento dell’impatto ambientale». L’importanza di questo settore è testimoniata dal mercato, che come spiega Carrozza offre un chiaro riscontro: «Le prestazioni più richieste al momento sono la costruzione di villette in classe A, la realizzazione di interventi d’isolamento o di tetti e facciate di edifici sfruttando la detrazione fiscale del C&P

55% consentita dalle ultime leggi finanziarie, la progettazione di nuove centrali termiche per quanto riguarda sia il risparmio energetico che la prevenzione incendi». «Crediamo nella funzionalità delle opere e nel loro aspetto estetico – concludono i due architetti –, ma anche nella necessità di trovare il giusto equilibrio fra il costo del lavoro e il ritorno economico garantito da contenimento delle spese di gestione, incentivi fiscali e comunitari, miglioramento dell’immagine aziendale, creazione di un margine tra la spesa per l’involucro edilizio e quella per arredamento e architettura di interni e in generale da tutti quegli aspetti che contribuiscono a garantire la sostenibilità economica dell’opera». 263


Una casa ecosostenibile La piena integrazione urbanistica della residenza in un contesto di archeologia industriale e l’autonomia energetica dell’edificio non tradiscono la storia dell’immobile. Un progetto dello studio Morbelli di Luca Cavera

«Ogni luogo, se trattato con gusto e competenza, può diventare attraente. Il bello non è un concetto soggettivo: quando si entra in un ambiente ben progettato lo si ammira, ci si sente meglio e infine lo si desidera. Tutto ciò non è il frutto di improvvisazione, ma dello studio di spazi e misure, luci e colori». All’interno del “Piano Casa”, l’architetto Eleonora Morbelli sta realizzando un progetto su un immobile ubicato a Milano in una zona semicentrale. Il progetto, che prevede l’aumento del volume esistente, costruendo due piani a uso residenziale, si pone all’interno del contesto urbano come un intervento innovativo sotto diversi aspetti, anche per quel che riguarda i sistemi tecnologici. «L’edificio sfrutta differenti sistemi per garantire un basso impatto ambientale. Sui terrazzi sarà possibile realizzare dei giardini d’inverno, che permetteranno di sfruttare la luce solare per riscaldare gli spazi. Il sistema “serra”, regolato da griglie elettriche e finestre domotiche, permetterà anche di rinfrescare le stanze d’estate. I materiali esterni, 264

In alto, il progetto realizzato a Milano con Piano Casa dallo Studio Morbelli eleonora.morbelli@fastwebnet.it

pur richiamando quelli originali, hanno un’alta prestazione energetica. Sono stati posti in copertura dei pannelli solari, per il riscaldamento degli ambienti e dell’acqua, e in più dei pannelli fotovoltaici, che produrranno l’energia per le attività artigianali. In tal modo l’edificio, oltre che ecosostenibile, sarà quasi totalmente autonomo dal punto di vista energetico». Nella progettazione degli spazi interni sono stati privilegiati funzionalità e design. Viene così realizzata la piena integrazione urbanistica nel contesto di archeologia industriale. «Poiché rimarranno al piano terra le attività produttive artigianali, gli appartamenti sono trattati come loft, con spazi living all’interno delle unità immobiliari, ma saranno anche dotati di grandi terrazzi vivibili, che valorizzeranno l’intervento nel suo complesso». C&P



Quando il confronto innesca la reciproca “contaminazione” La sperimentazione progettuale e le sue tematiche nell’architettura e nel design. I concorsi di progettazione. Momenti di confronto con altre realtà nazionali e internazionali. Occasioni di incontro fra spazi e culture di Luca Cavera

«La capacità di sperimentare è alla base del lavoro dell’architetto – afferma Francesco Caragiulo –. L’inventio è la chiave del processo progettuale e la volontà di affrontare tematiche architettoniche complesse ci ha permesso di affinare il nostro metodo di lavoro». Questa flessibilità è stata fondamentale quando lo studio Caragiulo Architects ha prestato la sua competenza in contesti esteri, in particolare in quelli dell’Est Europa. «La necessità di rispondere alle loro aspettative, molto diverse da quelle italiane, ci ha costretto a “imparare” abitudini e modi di vivere per noi nuovi. Penso, per esempio, al mercato Lituano, dove ci è stato chiesto di progettare un complesso multifunzionale». La risposta progettuale, in questi casi, nasce dalla commistione di culture diverse, quella del progettista e quella intrinseca al luogo in cui si “pensa il progetto”. «Proporre un’idea di architettura in parti diverse del mondo non significa esportare un modello, ma ripensare continuamente un tipo in funzione del luogo. Questo è un modo intelligente di internazionalizzarsi, innescando un processo di reciproca contaminazione». Fondamentali sono i concorsi di progettazione, che permettono agli architetti di cimentarsi nel dare risposte progettuali alle diverse tematiche che di volta in volta sono richieste. «Ogni concorso di progettazione ci consente di sperimentare la nostra 266

Francesco Caragiulo, titolare dello studio Caragiulo Architects, Mola di Bari (Ba) www.caragiuloarchitects.com

idea di architettura in ambiti differenti. Penso al concorso per la Biblioteca civica di Bressanone o a quello per il Palazzo provinciale di Bolzano, ma soprattutto al concorso per La città della Musica e il Parco delle cave di Lecce, che ha visto la nostra proposta arretrare solo di fronte al nome di Alvaro Siza Vieira. Partecipare ai concorsi significa confrontarsi con altri studi internazionali; ciò ci spinge a offrire soluzioni progettuali innovative e a utilizzare tecniche all’avanguardia». Questo approccio scaturisce da una continua ricerca e sperimentazione, anche di software innovativi. «Il nostro team si impegna in tutte le fasi, dall’analisi alla concezione del progetto e, ovviamente, alla realizzazione. Ma noi investiamo molte delle nostre competenze allo scopo di riuscire a rendere il progetto “vivibile” prima ancora della sua stessa realizzazione pratica. Ciò è possibile grazie a una presentazione che sfrutta le tecniche più sofisticate. Crediamo che questo sia un corretto modo di rendere comprensibili le qualità spaziali e formali di un progetto. Normalmente, in un approccio classico, queste qualità non risulterebbero evidenti per la maggior parte dei committenti». C&P



L'essenza del costruire Se si getta uno sguardo alle città moderne, si nota subito la standardizzazione di ciò che le circonda. Palazzi tutti uguali, realtà abitative simili fra loro. È qui che entra in gioco il ruolo dell’architetto. A parlarne Umberto A. Affatato di Belinda Pagano

Il termine “architetto” ha origine nell’antica Grecia ed è composto da arkhi, “capo” e tékton, “tecnico”. Una parola che sottolinea la consapevolezza di colui che si accinge a costruire qualcosa dal nulla. È una figura professionale esperta che si occupa di tutto ciò che concerne spazi architettonici e urbanistici, dalla progettazione al restauro, dalla pianificazione all’estimo. Tuttavia nella realtà contemporanea «lo spazio per chi “pensa architettura” è molto limitato, lo dimostra l'immagine delle nostre città che se non fosse per la presenza dei nuclei antichi sarebbero tutte uguali». Così spiega l’architetto Umberto A. Affattato, socio dello studio di Ruvo di Puglia. «Burocrazia, politica, cultura del costruire, speculazione, concorrenza sleale, sono alcuni dei nemici da combattere per esprimere l’essenza e la Realizzazioni dello studio Affatato Fatelli Architetti Ingegneri Associati, situato a Ruvo di Puglia (BA) info@affatatofatelli.it

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funzione dell'architettura nella nostra provincia meridionale». E allora come fare? «Malgrado tutto il miracolo può avvenire: si costruisce partendo dall'architettura e la città s'impreziosisce di opere tali da modificare in positivo il carattere dei nuovi quartieri abitativi». Il problema tuttavia risiede a monte, in piani urbanistici incapaci di nuove idee. «Purtroppo questa situazione è creata proprio da coloro che rappresentano la cultura accademica e quindi bisogna combattere con l’operato. Alcune nostre costruzioni, ad esempio, hanno avuto la potenza di far riflettere la gente e la città ha assunto la funzione di terra di sperimentazione». Tutto ciò si ottiene grazie a semplici regole: «oltre alla capacità professionale degli architetti, ci vuole grande dedizione da parte dei componenti, una presenza costante nel cantiere e una continua ricerca architettonica». La collaborazione, quindi, fra diversi esperti nel settore diventa aspetto fondamentale. «Il nostro studio, ad esempio è composto da quattro professionisti: io, l’ingegner Fatelli, l’architetto Anna R. Affatato e l’architetto Ciliberti, oltre ovviamente a diversi collaboratori. L'attività svolta comprende il settore urbanistico, progettazione, strutture, design e ognuno porta all’interno dello studio le sue esperienze pregresse e innovative con un'attenzione particolare verso i principi dell'architettura organica, difficili da adottare nella nostra cultura urbanistica attuale». C&P



L’architettura socialmente utile

I progetti di housing sociale hanno sempre avuto una grande valenza, perché forniscono una casa anche a chi normalmente non se la potrebbe permettere. E oggi, questo non avviene più a discapito delle forme architettoniche. Ne parlano Sergio e Fulvio Wirz di Francesco Bevilacqua

La casa è una necessità e a ciascuno deve essere garantita la possibilità di soddisfarla. Partendo da questo presupposto appare chiaro che la progettazione e la realizzazione di edifici non possono essere sempre e solo esercizi stilistici finalizzati a disegnare scorci urbani esteticamente gradevoli, ma devono rispondere anche a esigenze più stringenti, quelle appunto di garantire un tetto per tutti. Al tempo stesso, non è detto che sia necessario abbandonare qualsiasi canone relativo alla bellezza e alla piacevolezza delle linee e ritornare ai grigi e alienanti “casermoni”, protagonisti principali dei ghetti e dei quartieri dormitorio di molte città italiane. È quindi possibile unire estetica ed edilizia con finalità sociali? Certamente, come dimostra l’esperienza che sta 270

vivendo lo studio Wirz di Napoli, impegnato nella realizzazione di un progetto di housing sociale nella provincia di Avellino. Sergio Wirz dirige insieme al figlio Fulvio lo studio, avvalendosi della collaborazione degli architetti Valeria Borrelli, Mario Coppola, Francesco Giordano, Dario Matrone e Claudia Ruberto. «L’attività professionale – racconta Sergio – riguarda la progettazione architettonica, con particolare attenzione al significato espressivo dei materiali nella pianificazione degli interventi ambientali di landscape architecture, edilizia civile e industriale e nella costruzione del paesaggio interno, cioè interior design e office planning, piani urbanistici e progetti per il ridisegno di aree storiche, industriali o agricole». «I recenti lavori – C&P


HOUSING SOCIALE | Sergio e Fulvio Wirz

prosegue il figlio Fulvio – riguardano insediamenti residenziali nella provincia di Avellino, nello specifico il piano di housing sociale a Pietradefusi, masterplan di impianti industriali nella provincia di Napoli e pianificazioni territoriali in diversi comuni campani. Vi è poi il progetto del Parco Sanguinito a Sant’Agata de Goti, promosso dalla STAT di Senago, Milano, e sviluppato dallo studio Wirz, un intervento integrato di riqualificazione urbana dal carattere innovativo, che assume i tratti di un caso “fuori norma”. Il progetto infatti si confronta con il borgo gotico medioevale del paese, arroccato su un promontorio tufaceo ai cui lati si aprono due grandi vallate». Sergio Wirz descrive il progetto: «Il masterplan prende spunto dalla logica delle ramificazioni presenti in natura per quanto riguarda la struttura e la gerarchia dei livelli di capillarizzazione delle infrastrutture che connettono e unificano le differenti tipologie architettoniche. La massima fluidità dei percorsi, l’esaltazione dell’interconnessione tra gli spazi e la creazione di punti focali che dirigano la percezione all’interno dell’intervento sono tra i principali benefici di questo schema. Inoltre la chiarezza organizzativa e la forza del segno che la rete da esso generata imprime sul territorio consentono di operare scelte di linguaggio architettonico differenziate a seconda delle funzioni senza sacrificare con questo l’unicità dell’intervento, che appare come una molteplicità di elementi rispondenti in maniera localizzata alle medesime regole di pianificazione dello spazio». L’amministrazione comunale ha aderito alla proposta di riqualificazione di un’area dismessa, ricoprendo, con il sindaco Carmine Valentino, un ruolo di regia sugli interventi urbanistici, ambientali, edilizi, sociali ed economici in una logica integrata e con un sistema di partenariato tra i soggetti pubblici e tra pubblico e privato. «Il processo di pianificazione e progettazione – prosegue Fulvio – si basa sulla volontà di C&P

Sopra, Sergio Wirz e il figlio Fulvio, entrambi alla guida dello Studio Wirz Architetti di Napoli. Sotto, da sinistra, Claudia Ruberto, Valeria Borrelli e Mario Coppola. Nelle altre immagini, i render del progetto di Sant’Agata dei Goti (BN) e Pietradefusi (AV) studiowirzarchitetti@libero.it

elevare la qualità insediativa attraverso la riqualificazione del tessuto urbano residuale, di creare una pluralità di funzioni integrate al quartiere, di aumentare la presenza dei servizi pubblici, di rispondere alla richiesta abitativa tramite la realizzazione di nuovi alloggi per fasce sociali e valorizzare le aree pubbliche non come vuoti residuali del progetto ma come spazi centrali dell’habitat stesso». In questo senso, quella del Parco Sanguinito rappresenta non solo una sfida impegnativa intrapresa per sostenere il terzo settore, ma anche la dimostrazione concreta della possibilità di intervenire con progetti di qualità nell’ambito dell’housing sociale. Di fatti, gli immobili del complesso abitativo si avvalgono della garanzia dell’abitare di qualità data dal protocollo costruttivo “Casacerta”, protocollo che certifica il rispetto di tutti i parametri e normative in materia di risparmio energetico e di sostenibilità ambientale. 271


Tra funzione e contemporaneità In ogni progettazione bisogna avere ben chiare quali saranno le esigenze dell’utente finale. L’architetto Stefano Rizzi racconta una trasformazione urbanistica che ha contribuito a cambiare il volto del quartiere Niguarda a Milano di Nicoletta Bucciarelli

L’architetto Stefano Rizzi nel suo studio di Milano. In apertura e nella pagina accanto i render e le foto dei nuovi edifici realizzati o in corso di realizzazione sulle vie Palanzone, Ornato e Pezzobonelli a Milano e il planivolumetrico della trasformazione urbanistica in atto sterizzi@tiscalinet.it

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Fluidità dei percorsi, razionalità e continuità degli spazi interni-esterni rappresentano le fondamenta della progettazione urbanistica e architettonica residenziale. «Il fulcro dell’approccio alla progettazione di qualsiasi edificio è restare concentrati sulle esigenze dell’utilizzatore finale, sia che si tratti di un singolo individuo, che di un nucleo familiare o della collettività». Spiega l’architetto Stefano Rizzi. «La casa, intesa nel senso più ampio del termine, ha sempre avuto un peso estremamente rilevante tra i bisogni primari dell’uomo, ed è in questo senso ovvio che la sua qualità è in grado di modificare radicalmente la qualità della vita. Pertanto è necessario produrre un’architettura che sappia rapportarsi in maniera equilibrata con l’ambiente, che sia pensata per le necessità dell’uomo e che sia capace di soddisfare i bisogni delle attuali generazioni, senza limitare, con il consumo indiscriminato di risorse, quello delle generazioni future». C&P


ARCHITETTURA RESIDENZIALE | Stefano Rizzi

È su queste basi che negli ultimi anni l’architetto Rizzi ha indirizzato il lavoro del progetto che ha visto la trasformazione del territorio di Niguarda. Vecchi stabilimenti industriali, luogo di lavoro e centro attorno al quale ruotava l’intera economia del quartiere per molte generazioni di niguardesi, dopo la loro dismissione e anni di abbandono, stanno lasciando posto a nuovi edifici residenziali, a giardini, a parcheggi e a spazi d’uso collettivo. «Una trasformazione attenta alle nuove esigenze abitative ma rispettosa del tessuto urbano esistente, le cui caratteristiche vengono riprese dall’impostazione progettuale sia urbanistica che architettonica degli immobili realizzati». Gli interventi edilizi in corso di attuazione e quelli già costruiti si sono sviluppati in particolar modo sulla direttrice nord-est del quartiere di Niguarda, con particolare riferimento alle vie Ornato e Palanzone. «Si tratta di aree industriali che, previa bonifica C&P

ambientale, sono state riconvertite in aree edificabili tramite i Piani Integrati di Intervento. Constatato l’ormai cronica scarsità di aree edificabili nel Comune di Milano, le Società Cooperative, attuatrici degli interventi, sono state costrette a cercare porzioni di terreno su cui realizzare le idee progettuali condivise nel tessuto urbano già edificato. Il processo di trasformazione si è sviluppato negli anni grazie a uno sforzo congiunto fra le Cooperative, gli Uffici Tecnici Comunali e i professionisti. In questo modo è stato possibile integrare sul territorio gli attuali interventi che, pur con caratteristiche diverse, esprimono dei comuni denominatori di connessione come le aree a verde attrezzate, i parcheggi pubblici, l’impostazione planivolumetrica, la qualità dei materiali di facciata e gli impianti a forte risparmio energetico. Lo sviluppo di tali progetti ricopre una soglia dimensionale importante per un totale di circa 700 appartamenti di nuova realizzazione. Questo dimostra che è possibile realizzare un’architettura residenziale di qualità a basso impatto ambientale e a un prezzo contenuto nei limiti dell’edilizia convenzionata. Un ulteriore valore aggiunto per l’utente finale». 273


La bioarchitettura tra comfort e risparmio energetico Sistemi costruttivi innovativi e materiali altamente efficienti dal punto di vista energetico. Spazi interni comodi e sfruttati al meglio. L’edilizia civile per lo sviluppo sostenibile e il rispetto dell’ambiente di Luca Cavera

L’acquisto di un’abitazione rappresenta un impegno economico che si ripercuote sul lungo periodo. Per questo, come spiega Marino Milillo, «nell’edilizia residenziale, i progetti sono finalizzati innanzitutto alla realizzazione di abitazioni altamente confortevoli e all’avanguardia. Con un’attenzione per la bioarchitettura, in maniera tale da creare abitazioni che abbiamo un buon livello di comfort e che garantiscano anche un certo risparmio energetico». Ma soprattutto c’è l’impegno a realizzare entro i limiti economici imposti dal mercato edilizio, con un giusto compromesso fra qualità e prezzo. Vengono richiesti appartamenti con ambienti non molto grandi, ma al contempo accessoriati e confortevoli. A questi requisiti costruttivi risponde il progetto disegnato dall’architetto Marina de Marco. «È un lavoro che stiamo per iniziare. Si tratta di una struttura per abitazioni civili che sorgerà nella zona fieristica di Bari, a un passo dal centro storico. È una zona isolata dal traffico cittadino, anche se immediatamente collegata alle attività della città sia con i mezzi pubblici che attraverso le grandi vie di comunicazione per il trasporto privato». Quest’area è compresa in una piccola maglia 274

Prospetto ovest della futura realizzazione di Comiedil di Domenico e Marino Milillo, Bari comiedil@libero.it

urbanistica che, malgrado sia già interamente edificata, sta ancora vivendo una fase di profonda trasformazione e di rinnovamento edilizio. «L’edificio, dall’esterno, si caratterizza per i pannelli opachi di rivestimento che, oltre a un valore estetico, hanno la funzione di proteggerlo dagli agenti atmosferici, aumentandone il comfort interno con un effetto di schermatura. Gli aspetti tecnici della progettazione sono stati curati con attenzione, attraverso l’impiego di soluzioni tecnologiche di semplice manutenzione che consentono sia il risparmio energetico che il rispetto dell’ambiente. L’edificio utilizza impianti di raccolta e riutilizzo dell’acqua piovana, per l’irrigazione del giardino e il raffreddamento dei pannelli fotovoltaici posti sul tetto, che assicureranno la produzione di energia elettrica condominiale. Sempre sul tetto saranno installati dei collettori solari per l’acqua calda». C&P



Il restauro più importante A breve inizieranno le procedure d’appalto dei lavori di restauro di uno dei monumenti più importanti della nostra cultura. Il Colosseo vedrà di nuovo il suo splendore grazie ai finanziamenti dell’imprenditore Diego Della Valle. Roberto Cecchi spiega come si svolgeranno i lavori di Nicolò Mulas Marcello

A gennaio è stata firmata l’intesa tra il ministero per i Beni Culturali e Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il progetto è già stato definito e prevede l’installazione di vari cantieri. «Durante i restauri il Colosseo continuerà a essere aperto al pubblico – sottolinea Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero – risulteranno eventualmente inaccessibili, per limitati periodi, singole aree interessate da cantieri e zone di sicurezza. Ma va assicurato il pieno godimento della visita e, anche per questo, i cantieri non si svolgeranno tutti contemporaneamente». Come verrà gestito il restauro? «Il lavoro sarà suddiviso in diversi cantieri: il primo a partire sarà quello per la sostituzione delle chiusure dei fornici del primo ordine con una nuova cancellata in ferro. 276 C&P

Altri cureranno il restauro degli esterni del monumento; la sistemazione e il restauro degli ambulacri e delle aree ipogee (un terzo delle quali già aperto al pubblico dallo scorso novembre, dopo i lavori previsti dal commissario delegato). Ve ne saranno, infine, per gli impianti, da quelli elettrici a quelli di sicurezza, e per un centro servizi, esterno al monumento». Quando inizieranno i lavori e per quando è previsto il termine? «Al momento posso dare informazioni relative all’avvio delle procedure d’appalto. Rammento che i tempi possono variare, anche in modo significativo, a seconda che si superi o meno la soglia comunitaria. Si inizierà a breve con l'iter relativo al cantiere per la chiusura dei fornici del primo ordine con cancellate in ferro. Sarà poi C&P276


RESTAURO | Roberto Cecchi

Nel tondo Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero dei Beni Culturali

Si inizierà a breve con l'iter relativo al cantiere per la chiusura dei fornici del primo ordine con cancellate in ferro

la volta dei prospetti esterni, per i quali - a partire dall'esito dell'evidenza pubblica - abbiamo calcolato una durata massima di 36 mesi di cantiere, ma stiamo lavorando ad un'organizzazione del lavoro che consenta di recuperare qualche mese. Entro il periodo estivo sarà avviata la procedura relativa al centro servizi. Negli ultimi 22 mesi, del resto, abbiamo già aperto una settantina di cantieri, impegnando le risorse a disposizione, circa 31 milioni di euro, a beneficio delle aree archeologiche di Roma e Ostia antica». Il progetto prevede anche la costituzione di una fondazione senza scopi di lucro chiamata “Amici del Colosseo”. Quali saranno i fini di questa fondazione? «L’associazione/fondazione “Amici del Colosseo” potrà svolgere attività di comunicazione per promuovere i lavori di restauro del Colosseo eseguiti con il contributo

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finanziario del gruppo Tod's. La scuola italiana di restauro godrà di una ribalta mondiale, come merita: le modalità comunicative – innovative, rispettose del monumento e delle esigenze dei visitatori - saranno concordate dal Ministero per i Beni Culturali, con lo sponsor, l’associazione e con il mio ufficio. Agli “Amici del Colosseo” potranno aderire tutti coloro che intendono sostenere l’attività di restauro (persone fisiche o giuridiche, enti pubblici italiani o stranieri) oppure altre iniziative di alto rilievo che siano comunque orientate alla migliore conservazione del patrimonio archeologico e storico artistico. Il Colosseo sarà raffigurato in un logo che l’associazione realizzerà e che accompagnerà tutta la comunicazione degli interventi di restauro ricompresi in un piano, va ricordato, che abbiamo proposto agli investitori di tutto il mondo, ricevendo dal gruppo Della Valle l’offerta più convincente ed esaustiva delle esigenze che l’amministrazione della tutela ha presentato». 277


Verso l’antica piazza tra luci, passanti e negozi Dario Molteni racconta la sua visione per il rinnovo di uno degli angoli più suggestivi di Cantù. In cui gli antichi edifici, pur mantenendo i loro caratteri originali, sono stati riaggiornati in chiave moderna di Aldo Mosca

È davvero una piccola “Reinassance” quella avvenuta in un angolo dell’area pedonale del centro storico di Cantù, in provincia di Como. In particolare, grazie al lavoro dell’architetto Dario Molteni, due edifici collocati lungo la Via Matteotti sono stati ampiamente ristrutturati. «Gli interventi hanno interessato diversi immobili di proprietà privata – spiega l’architetto Molteni -. Si tratta di una delle parti più vissute dalla cittadinanza, essendo via Matteotti un’area pedonale che termina nella piazza principale, nel cuore della vita cittadina, dove si affacciano numerosi locali e attività commerciali». Come mai le hanno chiesto di intervenire su questi 278

L’architetto Dario Molteni, a sinistra, esercita a Cantù (Co). In alto, ingresso con vetrata in un edificio storico sulla via Matteotti di Cantù. Nella pagina a fianco, interno di un negozio di orologi presente nel primo edificio recuperato

C&P


IL CENTRO STORICO DI CANTÙ | Dario Molteni

I lavori hanno permesso di completare il rinnovo di questa via storica, contribuendo quindi a valorizzarne l’intero percorso

edifici? «Occorreva mettere fine a un evidente stato di degrado avanzato. I lavori messi in atto hanno permesso di ricucire e completare il prospetto, più ampio, di rinnovo di questa via storica, contribuendo quindi a valorizzarne l’intero percorso». Non si è trattato di un lavoro breve. «Il primo progetto è stato realizzato all’inizio degli anni Novanta, e ha visto il recupero dell’edificio d’angolo tra via Matteotti e piazza Volontari della Libertà, dove è stato realizzato un negozio di orologi. Tra il 1998 e il 1999 si è recuperato un altro negozio situato nella parte centrale della via. L’ultimo è stato terminato a fine 2010 e ha interessato un edificio a corte, il cui progetto ha permesso l’apertura del cortile interno, rendendolo uno spazio pubblico fruibile durante il giorno, su cui si affacciano le vetrine dei negozi collocati al piano terra».

«L’edificio d’angolo presentava al piano interrato delle strutture voltate che sono state consolidate e mantenute a vista, inoltre sono stati ripristinati i decori in rilievo sulla facciata. L’edificio a corte ha visto il restauro delle volte e dell’arco, che costituisce l’ingresso al negozio realizzato a piano terra. Nella parte sul retro abbiamo valorizzato un pozzo di luce attraverso la creazione di un lucernario che dalla base attraversa il primo piano mediante un cilindro in vetrocemento, per poi terminare sul terrazzo- giardino del secondo piano. Anche il portone dell’androne di ingresso alla corte è quello originale, l’abbiamo sistemato attraverso un intervento di restauro che ne ha permesso il consolidamento e la riverniciatura. Il terzo recupero dell’edificio nella parte centrale della via intervento ha visto il nel restauro del complesso, il recupero del caratteristico controsoffitto ligneo a cassettoni, che copre l’androne di ingresso, ripristinando le rosette lignee presenti».

In particolare quali elementi degli edifici sono stati recuperati?

Anche l’illuministica rappresenta un elemento centrale, essendo gli edifici posti su una delle aree maggiormente

C&P

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Particolare di soffitto ligneo

Il secondo intervento ha visto nel restauro del complesso, il recupero del caratteristico controsoffitto ligneo a cassettoni, che copre l’androne di ingresso, ripristinando le rosette presenti

vissute del centro cittadino. «Con il tecnico dell’impianto elettrico si è studiata la soluzione migliore in grado di valorizzare l’intervento. In particolare, per l’edificio al civico 33 di via Matteotti è stata realizzata un’illuminazione a pavimento che vede il posizionamento di tre faretti a led. Questi segnalano l’ingresso sotto l’androne. Inoltre abbiamo inserito dei faretti nel cortile interno per delineare il percorso lungo le vetrine. Due apparecchi luminosi, poi, valorizzano l’arco di ingresso al negozio. Inoltre è stata ampliata l’illuminazione della facciata sulla via principale che mette in evidenza le vetrine esterne». Quanto si è investito, economicamente, sui progetti? «Gli investimenti sono paragonabili, se non maggiori, a quelli necessari per una nuova costruzione. Soprattutto, si debbono considerare gli adeguamenti necessari per rispondere alle normative vigenti, non solo dal punto di vista della stabilità strutturale, ma anche di quello impiantistico, energetico e dell’abbattimento delle 280

barriere architettoniche. Inoltre, è stato necessario adeguare l’edificio per rispondere al meglio alle necessità imposte dalla destinazione d’uso, in modo da creare uno spazio flessibile e funzionale». Negli ultimi vent’anni sono cambiate le priorità nella salvaguardia e nella riqualificazione delle aree storiche? «Rispetto al passato emerge sempre di più l’esigenza dell’adeguamento impiantistico. Ciò comporta lo studio di soluzioni appropriate per rendere compatibile l’aggiunta dei nuovi impianti con l’edificio antico, che ovviamente non li prevedeva. Proprio nel caso di Cantù si sono sviluppate soluzioni ad hoc per integrare le tubazioni e i nuovi apparecchi senza intaccare la struttura originaria. È fondamentale per mantenere l’immagine estetica dell’immobile. Un’altra problematica riguarda la difficoltà a reperire maestranze specializzate che sappiano trattare gli elementi e i materiali dell’edilizia storica. Occorrono artigiani che ora in Italia, ahimè, fatichiamo a coltivare». C&P



La memoria delle città Costruire meno per costruire bene. Ridisegnare lo spazio pubblico. Salvare la storia delle città e dei piccoli centri: il volto urbanistico della tradizione. La risposta al modello contemporaneo, orientato solo al profitto di Luca Cavera In apertura, foto di Valsoda (CO); sopra, ristrutturazione di una casa a Valsoda effettuata dallo studio Pianezzi rpianez@tin.it

«Lo sviluppo non riconosce lo spazio disegnato come uno spazio collettivo – afferma l’architetto Ruggero Pianezzi –. Fino a metà 900 venivano disegnate le parti collettive della città; con l’avvento della speculazione, è scomparsa la relazione spaziale tra pubblico e privato, da ciò le periferie, cancro edilizio del nostro tempo». Nelle città e nei comuni di antica formazione c’è un pericolo di scomparsa delle stratificazioni storiche che ne testimoniano la memoria. «Mario Botta dice che: “Siamo ‘condannati’ a migliorare le città. Perché è inevitabile che continuino a essere un bene comune”. In linea con il suo pensiero, concordo che il valore della città è dato dalla memoria. Il territorio non può più essere pensato come oggetto di consumo. Bisogna intervenire sull’esistente, per correggerlo ed eliminare i misfatti, per creare un’impronta della nostra era». C’è da domandarsi se la civiltà attuale sia in grado di lasciare un proprio segno da consegnare alla storia e 282

alla bellezza. «In realtà, si avverte la volontà di rinnovare e riconfigurare il nostro ambiente privilegiando, su tutte, le ragioni economiche e della rendita; queste sono percepite come ragioni vitali a confronto di quelle avvizzite della conservazione. Le metropoli del capitalismo asiatico sono il nuovo modello urbano e sociale, non certo le vecchie città storiche europee». Pare che il restauro sia proprio della cultura europea. «Per me non si tratta di mummificare il passato, ma di “tessere antico e nuovo con lo stesso filo”. Non si conserva per pochi eruditi, ma per il presente e le generazioni future. E per garantire condizioni e modelli di vita migliori di quelli assicurati dall’attuale “industria edilizia”. Si restaura, infatti, anche per stimolare una più alta qualità dell’architettura contemporanea, che non sia solo industria, investimento e rendita, ma torni a essere vera “arte del costruire” e “dell’abitare”». C&P



Il nuovo nell’antico Per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio architettonico, la progettazione deve privilegiare istanze di minimo intervento e di compatibilità. Perché come spiegano Carlo e Gianfranco Vinardi, le opere esistenti vanno conservate non solo nella forma, ma anche nella materia, denunciando con un’architettura contemporanea le integrazioni necessarie alla loro funzionalità di Giulio Conti

Lontani dagli stereotipi spesso trascritti nelle fattezze degli oggetti architettonici. Diretti a individuare l’unicità che la storia e l’ambiente trasmettono alle architetture giunte fino a noi, e a rivalutarla ponendo le basi per una corretta lettura delle recuperate preesistenze. Concentrati a innovare l’incipit progettuale, senza mai perdere di vista i parametri dell’ecosostenibilità. È con questi presupposti che i fratelli Carlo e Gianfranco Vinardi, titolari dell’omonimo studio di architettura attivo a Torino dall’inizio degli anni Settanta, operano nell’ambito della progettazione architettonica, del restauro, del consolidamento strutturale, dell’allestimento, dell’arredamento degli interni e del design. Un ventaglio di attività ben delineato sulle basi di un concetto quasi 284

“globalizzante” dell’architettura, dove il dettaglio progettuale viene posto in dialogo implicito con il contesto generale, e ogni specificità “locale” con le presenze architettoniche internazionali. «La matrice di riferimento del nostro orientamento progettuale è la scuola compositiva torinese caratterizzata dalle personalità di Carlo Mollino, Ottorino Aloisio e Roberto Gabetti, esplicita ed espressa nell’attenzione per una cultura architettonica indirizzata alla rivalutazione della storia, dei luoghi, della tradizione – spiega Carlo Vinardi –, in contrasto quindi con l’omologazione, ma a favore della specificità e delle differenze, nell’idea, già espressa da Vittorio Gregotti, che i principi dell’architettura internazionale e quelli della cultura locale siano interdipendenti». C&P


RIQUALIFICAZIONE | Carlo e Gianfranco Vinardi

In apertura, ex Ospizio di Carità, ora facoltà di Economia e Commercio e i professionisti dello studio Vinardi: Carlo, Gianfranco e Barbara Vinardi, Flaviana Di Carlo e Monica Fantone, con i consulenti per le metodologie del restauro, i professori Maria Grazia Vinardi e Luciano Re. Qui, in alto a sinistra, Castello di Sant’Ambrogio restaurato; a destra, Sacra di San Michele. A fianco, casa unifamiliare, Torino archivinardi@inwind.it

Le premesse concettuali con cui gli architetti Vinardi mettono in atto la loro creatività progettuale, si esprimono chiaramente nei progetti di edilizia residenziale in cui l’attenzione al rapporto con il contesto e le preesistenze si manifestano alle varie scale di intervento. Tra queste, ad esempio, «quando si tratta di intervenire nella definizione o riqualificazione di piani urbanistici, consideriamo determinanti la conoscenza del territorio, i rapporti dimensionali, gli orientamenti, le visuali e le confrontanze – afferma Gianfranco Vinardi –; nella costruzione di singoli edifici le scelte dei materiali, C&P

delle tecniche tradizionali aggiornate rispetto alle recenti acquisizioni in termini di eco-sostenibilità, e la cura per il particolare costruttivo garantiscono funzionalità e facile manutenzione anche a distanza di anni». Nei più recenti cantieri di conservazione e restauro in edifici vincolati «le scelte sono state rivolte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio architettonico, letto nella sua complessità e stratificazione edilizia e ambientale, in cui la progettazione e la direzione lavori hanno privilegiato le istanze di minimo intervento e di compatibilità». 285


Dall’antico all’avanguardistico Con le ristrutturazioni dei palazzi d’epoca, la Milano anni Venti torna a nuova vita. Privati cittadini, ma anche multinazionali come Honda, spiega Vincenzo Sciglitano «prendono dimora in questi immobili storici» di Luca Cavera

La ristrutturazione dei palazzi anni Venti del centro di Milano può trasformare costruzioni antiche, e alle volte abbandonate, in residenze moderne o anche in sedi dell’avanguardia tecnologica. Queste strutture, concepite con i metodi di un’altra epoca, possono avere una nuova vita grazie agli interventi mirati delle competenze architettoniche contemporanee. «Oggi si costruisce coi pilastri – spiega Vincenzo Sciglitano, geometra –, invece questi palazzi sono costruiti con muri portanti di 50 cm che devono reggere il peso dell’intera struttura. Spesso, nel ridisegno dell’appartamento, si è costretti a tagliare porzioni di muro, per suddividere gli spazi interni e modificare quelli originari. Bisogna porre delle protezioni temporanee, mettere dei rinforzi strutturali, delle travi a vista, per ripartire i carichi della struttura». 286

Nelle ristrutturazioni di interni, in che modo, nello specifico, si organizza il lavoro? «Abbiamo un ufficio interno che segue personalmente le squadre degli operai, precedentemente selezionate insieme al committente dei lavori. L’ufficio, composto da geometri e da altri collaboratori, organizza e coordina tutte le figure professionali che intervengono nelle diverse fasi che compongono un’opera di ristrutturazione. Queste vanno dalle eventuali demolizioni iniziali, ai muratori e agli idraulici ed elettricisti. Una volta che sono state applicate tutte le finiture, una serie di operai altamente qualificati, effettua tutti i montaggi. Noi siamo anche in contatto con fornitori di ceramiche per pavimenti e sanitari, di parquet e di mobili, tutti ottimi materiali. Tuttavia per queste scelte l’ultima parola è sempre del futuro inquilino, che spesso si C&P


RISTRUTTURAZIONI | Vincenzo Sciglitano

Alcune immagini della sede di Honda Italia ristrutturate da Redre Group (Recupero Edilizio e Restauro) redregroup@tiscali.it

La sede di Honda Italia è stato un importante lavoro di design: abbiamo realizzato una sala per i disegnatori, una per le proiezioni con l’insonorizzazione dei muri perimetrali, un auditorium

affida a un architetto». Ci può parlare della ristrutturazione della sede di Honda Italia? «Siamo intervenuti su uno stabile degli anni Venti che si trova in corso Magenta, nel centro storico di Milano. Lo scenario iniziale era quello di una vecchia struttura, uno stabile completamente disabitato. Il primo intervento è stato quello di “sventrare” il palazzo e ripulirlo dai materiali di risulta. Nella ristrutturazione siamo stati seguiti da un architetto della Honda, che ci guidava nella scelta dei materiali, mentre noi ci occupavamo della coordinazione delle varie fasi operative. È stato un importante lavoro di design: abbiamo realizzato una sala per i disegnatori, una per le proiezioni con l’insonorizzazione dei muri perimetrali, un auditorium. E poi vari accorgimenti di C&P

dettaglio, come tutte le venezianine degli uffici con oscuranti elettronici e i servizi piastrellati in vetro». Come si interviene in un contesto difficile come quello milanese? «Milano è una città stretta. Però siamo abituati a lavorare con macchinari particolari, che ci consentono di intervenire e lavorare pressoché in qualsiasi situazione. Per esempio, se è problematico accedere direttamente ad alcune aree della struttura dell’immobile, si noleggiano dei mezzi come gru o autoscale. Con una serie di accorgimenti per la sicurezza, si può intervenire anche in contesti difficili. Ci sono macchine che fanno da ponteggio e sollevano gli operai fino alla quota di lavoro. Spesso si opera in spazi angusti, ma di solito si riesce sempre a trovare una soluzione». 287


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