architettura 10 2010

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CARRIERE&PROFESSIONI

SOMMARIO

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EDITORIALE Sandro Bondi

062 ARCHITETTURA SOSTENIBILE Esmeralda Mapelli

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L’INTERVENTO Vittorio Gregotti Paolo Buzzetti

066 ESPRESSIONI ARCHITETTONICHE Luisita Facchin

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IN COPERTINA Mario Botta

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OPERE IN BIANCO E NERO Pino Musi

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LA CITTÀ DISSEMINATA Jean-Luc Nancy

072

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PROGETTARE L’ARTE Richard Meier Steven Holl

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RIQUALIFICAZIONE INDUSTRIALE Luciano Ugolini Giancarlo Marzorati

058

ARCHITETTURA INDUSTRIALE Alfonso Mercurio

LO STILE ITALIANO Aldo Colonetti Matteo Cibic

082 I LUOGHI DEL DESIGN Triennale Scuola Politecnica di Design 094 LA SCUOLA DI EINDHOVEN Anne Mieke Eggenkamp 098 ECODESIGN Marco Capellini Debbie Wijskamp Alulife Giorgio Caporaso Shiro Inoue 122

RESTYLING Mario Nanni

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SCATTI D’AUTORE Gabriele Basilico

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NELLO STUDIO DI Mario Cucinella

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ATMOSFERE D’INTERNI Mauro Francesconi Massimo Zanaboni

APPUNTAMENTI Saie

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REALIZZAZIONI Graziano Poles

RESTAURO Marcello Balzani Opificio delle Pietre Dure

208 SOLUZIONI ARCHITETTONICHE Marcello Carraro e Silvano Simi

RIFLESSIONI Renzo Piano

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BIOARCHITETTURA Paolo Salizzato Edifici pubblici

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POLITICHE ENERGETICHE Marco Ferranti Stefano Arganini

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DALLE CARTE AL CANTIERE Sviluppo del progetto

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TECNICHE COSTRUTTIVE Vincenzo Lama

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RIQUALIFICAZIONE URBANA Pierangelo Brandolisio Claudio Gulti Aldo Pavoni

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SICUREZZA SUI CANTIERI Dario Roustayan

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LAVORAZIONE LAMIERA Loris e Fabio Basso

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ARMONIE ARCHITETTONICHE Marcella Morlacchi

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PROGETTAZIONE Lucio Merlini Mirella Morelli Vittorio Brambilla Paolo Russo Marilisa Da Re

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PROGETTAZIONE ANTISISMICA Rita Manzo e Nino Doganiero

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MATERIALI Elisa Casson e Maurizio Cassetta Franco Vissa

CARRIERE&PROFESSIONI

SOMMARIO

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L’INTERVENTO

La cultura, un bene comune specchio dell’identità nazionale Sandro Bondi - Ministro per i Beni e le attività culturali

In Italia la cultura è sempre stata vista come lo strumento più importante per ottenere il consenso. Da quando sono ministro ho inteso superare questa concezione, restituendo piena libertà agli uomini di cultura perché la cultura vera non è di destra né di sinistra. Ed è autentica quando è libera e non assoggettata a un disegno politico. Il primo passo è stato la realizzazione di una riforma epocale del Ministero. Ho istituito una nuova Direzione generale per la valorizzazione del nostro immenso patrimonio culturale affidandola a un manager autorevole e capace come Mario Resca. La sfida è quella di introdurre un approccio manageriale nella gestione dei musei e dei siti archeologici, dando un nuovo slancio al turismo culturale e riportando l’Italia al primo posto nel contesto internazionale. Gli strumenti per raggiungere il maggior numero di potenziali fruitori di cultura sono molti. Alcuni sono più facilmente attuabili, penso a iniziative come il ministero su Facebook, YouTube e Twitter o la possibilità di passeggiare virtualmente tra le meraviglie di Pompei offerta gratuitamente a milioni di utenti in tutto il mondo grazie a un accordo tra il Mibac e Google Italy. Altri richiedono fondi e tempi di realizzazione maggiori. Mi riferisco alle aperture

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serali, al prolungamento degli orari, alla traduzione in più lingue dei testi nei musei alla modernizzazione delle strutture museali. Tutte iniziative alle quali stiamo lavorando con grande impegno. Importante è stata anche la decisione di commissariare Pompei, l’area archeologica di Roma e di Ostia antica, gli Uffizi e Brera. Sono altresì fiero di ciò che ho fatto per la tutela del paesaggio, a partire dalla complessa questione relativa al veto al parcheggio multipiano del Pincio fino alla decisione di tutelare il paesaggio dell’Agro Romano. Il governo sta promuovendo un approccio liberale alla cultura, affiancando alle risorse pubbliche un maggior coinvolgimento dei privati attraverso la defiscalizzazione degli investimenti. Inoltre, vogliamo evitare di disperdere in mille rivoli le poche risorse disponibili: per questo abbiamo siglato un accordo con l’Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane finalizzato al coordinamento degli interventi nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio culturale. Dobbiamo in definitiva favorire in ogni modo la massima partecipazione dei cittadini alla vita culturale del Paese, senza pregiudizi ideologici o approcci elitari. Solo così gli italiani potranno riconoscersi nel proprio patrimonio culturale.

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L’INTERVENTO

Riflessione sulla differenza di Vittorio Gregotti - Fondatore dello studio Gregotti Associati

Nel Settecento con l’Illuminismo, con la Rivoluzione industriale e con la Rivoluzione francese, le arti hanno assunto una certa responsabilità nei confronti della società e dei singoli soggetti politici, stabilendo, però, al contempo rispetto allo stato reale delle cose una diversità, una distanza critica. Negli ultimi 30 anni tutto ciò ha ceduto il posto a una forma di strano realismo, una specie di realismo capitalista. Ne è derivato, oltre che un disprezzo per il contesto storico e fisico dentro il quale ci si muove, una tendenza a conferire un eccessivo valore all’originalità, anche quando non è necessaria, alla bizzarria, alla grandezza fisica delle opere come dimostrazione di forza e di capacità che porta a un progresso visto secondo parametri di positività iperliberali. Non è un caso che tutto questo sia avvenuto proprio nel periodo thatcheriano, cioè quando anche la convinzione complessiva del capitalismo globalizzato è diventata una forma di potenza che sembrava non avere più limiti. Dal punto di vista delle arti questo ha prodotto una specie di comunione tra le diverse discipline artistiche, avente al centro l’idea della multimedialità, intesa, però, come preminenza della comunicazione in relazione al consumo delle cose, il che ha generato un mondo statico, dove quello che conta è lo stile e dove tutto è diventato design e forma. Insomma, apparenza e spettacolarizzazione. Vi è la necessità di ristabilire una differenza tra le diverse identità disciplinari.

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L’interdisciplinarità è un elemento fondamentale, ed è stato un elemento di progresso, ma deve implicare che le discipline siano diverse tra loro, altrimenti non esiste possibilità di relazione. La liquefazione o dissoluzione dell’architettura deriva dalla tendenza di mettere insieme le diverse arti, come se l’arte fosse un’unità al di sopra di ciascuna di queste. Invece ognuna ha una propria specificità, i propri strumenti, le proprie pratiche e tecniche. E quindi anche una propria identità attraverso cui dialogare con le altre. Il rapporto tra l’architettura e la pittura, per esempio, è sempre stato un rapporto importantissimo nella storia dell’Europa in questi ultimi mille anni. Ma naturalmente nessuna delle due ha tentato di diventare l’altra, invadendone il campo, ognuna ha cercato di lavorare all’interno della propria condizione del fare. Che è quanto oggi non accade. Ma reputo negativo anche appellarsi continuamente alla creatività, che così diventa più che altro una citazione. E nulla più. Invece, io ritengo che nessuno si inventi le cose da zero. Tutti noi modifichiamo, trasformiamo, cambiamo, aggiungiamo, proponiamo. È questo il ruolo che abbiamo sulla terra. Ovviamente l’opera ha sempre la pretesa di durare, di significare anche al di là dello stesso autore, e in effetti, i lavori artistici detengono questa qualità, parlandoci delle cose anche al di là delle ragioni per cui sono state costruite. Ecco, secondo me, fare architettura significa soprattutto questo.

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L’INTERVENTO

Riqualificazione e sviluppo del territorio di Paolo Buzzetti - Presidente dell’Ance

Dall’analisi del mercato immobiliare emerge la fotografia di un’Italia in cui non c’è stata né ci sarà alcuna bolla immobiliare, a differenza di quanto è accaduto in molte parti del mondo. E questo non solo perché la domanda di case risulta ancora molto alta, ma anche perché l’indebitamento delle nostre famiglie è di gran lunga inferiore rispetto agli altri Paesi. Nonostante questo, tuttavia, il mercato immobiliare del nostro Paese ha rallentato. I nostri dati mostrano che in Italia esiste un fabbisogno non soddisfatto pari a 350.000 alloggi. Gran parte di questa domanda potenziale viene dalle fasce sociali più deboli: giovani coppie, anziani, studenti fuori sede. Per questo l’Ance ha da subito valutato molto positivamente il piano per l’housing sociale: un provvedimento che mancava nel nostro Paese da almeno 30 anni e che, oltre a consentire di soddisfare il fabbisogno di case in vendita e in affitto, dovrebbe permettere anche la riqualificazione delle aree urbane che versano in stato di degrado. Ma finora, tra discussioni e lentezze tipiche del nostro Paese, anche su questo fronte si è perso almeno un anno di tempo. Noi abbiamo spinto e sollecitato, e continueremo a farlo, affinché si possa finalmente partire, altrimenti il piano non servirà né a contrastare la crisi né a rispondere ai veri bisogni dei cittadini. Di sicuro, all’uscita da questa crisi economica, il mercato delle costruzioni avrà dimensioni quantitativamente ridotte rispetto al passato e si fonderà su una maggiore selezione dei prodotti. Ciò che C&P

dovrà emergere con forza sarà l’attenzione agli aspetti qualitativi del costruito, quindi, maggiore efficienza energetica, sicurezza e sostenibilità ambientale. Cambiare il modo di progettare, costruire, demolire e recuperare edifici all’insegna della qualità diventa un imperativo per le imprese, che dovranno rendersi maggiormente competitive e allo stesso tempo capaci di determinare benefici in termini di miglioramento della qualità urbana e delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. Non a caso, infatti, gran parte dell’impegno dell’Ance riguarda i requisiti di qualificazione delle imprese, che devono essere selezionate sulla base della propria reputazione e capacità, non solo su certificati privi di valore. Vorremmo, poi, che la cultura della qualità e il valore delle imprese vengano acquisite dal mercato privato, per il quale chiediamo da tempo una vera qualificazione. Ridare ossigeno alle costruzioni, avviando tutti i cantieri possibili - da quelli per le piccole e medie opere agli interventi per l’edilizia scolastica fino ai piani casa 1 e 2 non solo significa salvaguardare migliaia di imprese e di lavoratori di un settore che ha sempre trainato il Pil del Paese, ma anche ottenere un importante effetto anticiclico e di rilancio dell’economia. A mio parere siamo a un punto importante di svolta. Abbiamo due possibilità: modernizzare il Paese attraverso quelle riforme che l’Italia attende da tempo, soprattutto nel campo delle infrastrutture e dell’edilizia abitativa, oppure tamponare le emergenze senza riuscire a creare le condizioni per tornare a crescere. 19


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Foto Enrico Cano

COPERTINA | Mario Botta

In apertura il Mart di Rovereto; a destra, l’architetto Mario Botta

Il museo contemporaneo una moderna agorà tra passato e futuro Un viaggio attraverso le architetture contemporanee realizzate in cinquant’anni di carriera dall’architetto Mario Botta per scoprire, in particolare, come le strutture adibite alla fruizione dell’arte sono diventate un’importante «piazza culturale» di Nike Giurlani

Architettura contemporanea e spazio urbano circostante. Come mettere in comunicazione le due realtà? Questo è la domanda alla quale sono spesso chiamati a rispondere gli architetti. In Italia, una soluzione interessante e apprezzata è il Museo d’Arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Otto anni dopo l’inaugurazione, il Mart ha deciso di rendere omaggio al suo ideatore con la mostra “Mario Botta. Architetture 1960-2010”, un progetto espositivo curato dallo stesso architetto, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, Janine Perret Sgualdo e con la collaborazione di Peter Erismann. La mostra documenta le opere più significative realizzate in tutto il mondo da Mario Botta: dalle

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prime case unifamiliari, originali espressioni della scuola ticinese, ai grandi edifici pubblici, e ancora biblioteche, teatri, musei, chiese e sinagoghe. Attraverso progetti, schizzi, modelli originali e fotografie vengono ripercorsi cinquant’anni di carriera, fatta di lavori sempre innovativi dietro i quali si cela un’attenta analisi preparatoria, volta a individuare il modo migliore per mettere in relazione la nuova struttura moderna con il tracciato urbano circostante. Nel caso di strutture museali Botta ha cercato soprattutto di preservare l’identità del luogo e di creare spazi flessibili in grado di adattarsi alle varie esposizioni artistiche, ne sono un esempio il Museo Tinguely di Basilea, il Moma di San Francisco, il

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Centro Dürrenmatt di Neuchâtel e il Mart di Rovereto. Obiettivo finale: rendere questi centri delle «moderne agorà» punto d’incontro e di scambio tra le culture. Come vanno ripensate le città in modo che l’arte possa convivere in maniera armonica con lo spazio circostante? «Da sempre, le città sono caratterizzate da un continuo scambio tra antico e nuovo. La stratificazione storica rappresenta proprio un aspetto fondamentale della cultura urbana che sta alla base delle città europee. Nel Ventunesimo secolo, noi architetti continuiamo su questa filosofia perchè la città ha la necessità di arricchirsi attraverso la cultura contemporanea e allo stesso tempo è importante 22

preservarne la storia e la cultura proveniente da altre epoche». In generale, sta cambiando il concetto di museo come contenitore d’arte. Come i suoi progetti si sono adattati a questa nuova concezione? «Il bisogno di confrontarsi con i valori dell’arte, delle testimonianze artistiche e del passato diventa importante in una società globalizzata come la nostra e il museo assume un ruolo strategico in questa continua ricerca d’identità, anche per sviluppare un senso di appartenenza al territorio. Questo deriva dal fatto che il museo non è solo un deposito di valori, di esperienze e di forme artistiche, ma si sta trasformando sempre più spesso in una realtà ricca di sfaccettature verso la quale il visitatore si pone C&P


COPERTINA | Mario Botta

A sinistra il Museo Tinguely di Basilea; in basso, un bozzetto preparatorio del medesimo museo realizzato da Mario Botta

con una consapevolezza diversa, più profonda. Il museo sta assumendo i tratti della moderna agorà, una piazza culturale, attraverso la quale ci si può avvicinare alle esperienze precedenti grazie, per esempio, alla presenza di bookshop dove poter acquistare i cataloghi delle mostre e allo stesso tempo entrare in contatto con realtà moderne come le caffetterie».

Il museo è un contenitore a servizio delle forme d’arte e deve sapersi adattare alle nuove esigenze

Quali sono i principi che animano i suoi progetti inerenti a musei o luoghi culturali? «Ogni progetto è a se stante, non posso seguire un’unica filosofia. Ogni lavoro deve adattarsi ai contesti in cui mi trovo ad agire. Ecco perchè ogni opera ha una sua precisa identità, dal Museo d’Arte moderna a San Francisco alla Galleria d’arte contemporanea Watari-um di Tokyo e al Museo Jean Tinguely di Basilea. Nella realizzazione dei miei progetti devo, però, tener conto che i musei si caratterizzano per la presenza di due realtà differenti: da una parte le collezioni permanenti, dall’altro le esposizioni temporanee. Nel primo caso parliamo di uno spazio stabile dove l’obiettivo primario è valorizzare al massimo le opere; nel secondo caso si tratta di spazi che ogni quattro o sei mesi subiscono delle variazioni e devono quindi risultare degli ambienti flessibili per adattarsi sempre a nuovi percorsi espositivi». Il Mart di Rovereto si è dimostrata particolarmente funzionale a ospitare negli anni vari percorsi espositivi. Qual è la forza di questa struttura? «L’aspetto principale, in grado di valorizzare in

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Sopra, il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel; a sinistra, render della biblioteca Tsinghua di Pechino realizzato dallo studio Dim

particolare il Mart, è la sua capacità di interagire con la struttura urbanistica circostante attraverso un rapporto di reciproco arricchimento. Questo è stato possibile grazie a una costruzione in seconda fila, arretrata rispetto al corso Bettini, e più in generale alla città storica. Grazie a questa soluzione abbiamo guadagnato una grande libertà espositiva e compositiva, senza innescare interferenze dirette con le realtà preesistenti. Il Mart è la riprova che il museo contemporaneo ha bisogno del contesto storico e, viceversa, il contesto storico si arricchisce proprio grazie alla presenza del nuovo». Qual è, invece il rapporto che si instaura tra

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visitatore e struttura museale? «All’interno del museo il visitatore entra in contatto con due spazi distinti. Da una parte c’è lo spazio pubblico, caratterizzato da una grande ricchezza spaziale, dove i visitatori prendono contatto con la struttura e devono essere posti in grado di coglierne l’organizzazione spaziale e individuarne l’identità. Qui il visitatore si sente il protagonista. Poi, però, una volta entrati nelle gallerie, protagonisti devono tornare le opere d’arte e quindi l’architettura deve mettersi in secondo piano, rendersi più soft per lasciare che l’attenzione sia tutto concentrata sulle singole opere». Quale sarà il futuro dei musei contemporanei?

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COPERTINA | Mario Botta

Il museo non è solo un deposito di valori, di esperienze e di forme artistiche, ma si sta trasformando sempre più spesso in una realtà ricca di sfaccettature. Sta assumendo i tratti della moderna agorà

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«Probabilmente subiranno ulteriori evoluzioni in funzione delle tendenze artistiche. Non bisogna, infatti, dimenticare un aspetto importante e prioritario: il museo è prima di tutto un contenitore a servizio delle forme d’arte e deve sapersi adattare alle nuove esigenze». A quali progetti sta lavorando in questo momento? «L’aspetto che caratterizza il mio lavoro è che non seguo mai un solo progetto, ma ne porto contemporaneamente avanti più d’uno e su diversi fronti. Ecco perchè, per esempio, sto progettando la biblioteca Tsinghua a Pechino e un’altra a Trento. Inoltre, sto ultimando alcune chiese in Italia, un albergo a Shanghai, ma anche degli spazi espositivi in Cina».

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Tutte le foto sono state realizzate da Pino Musi


OPERE IN BIANCO E NERO | Pino Musi

In apertura il Mart di Rovereto; nel tondo, il fotografo Pino Musi

Tra architettura e fotografia. Come nasce il legame tra materia, luce e spazio La creatività di Mario Botta esaltata dall’arte fotografica di Pino Musi. Trent’anni di collaborazioni ricordati dal fotografo che, grazie alla frequentazione con l’architettura e con le opere di Botta, è riuscito ad affrontare nuove sfide nel campo della fotografia di Nike Giurlani

Compagni di viaggio. Questo sono stati per lungo tempo Mario Botta e Pino Musi. Un viaggio che per il fotografo è stato un percorso di formazione, di crescita professionale, che si è dimostrato fondamentale per la sua carriera. «Grazie a Mario ho imparato a concepire il legame che sussiste tra spazio, luce e materia e ad avere “fiuto” nel lavoro». Un rapporto profondo, durato trent’anni, finché Musi ha sentito l’esigenza di portare dentro lo spazio una sua dimensione interiore, affrontando temi più contemporanei, anche legati alla sua terra d’origine, la Campania. Temi ben distanti dalla fotografia di genere, ma che è riuscito ad affrontare solo grazie alla lunga frequentazione con l’architettura contemporanea. «Attraverso le fotografie realizzate in occasione della mostra “Mario Botta. Architetture 1960C&P

2010” ho individuato il modo per ritrovarmi con Mario in maniera molto forte», spiega il fotografo. Centoventi immagini caratterizzate da un timbro e un registro basato sul bianco e nero, aspetto oggi fondamentale nelle fotografie di Musi, che ripercorrono e rendono omaggio alla carriera di Botta. «Grazie a questa esperienza ho creato un punto d’incontro tra quello che sono ora, quello che sono stato e l’importanza e la complessità di trenta anni insieme». Come è nata la collaborazione con Mario Botta? «Trent’anni fa a Salerno, in occasione di un ciclo di conferenze dedicate all’architettura. L’organizzatore di questo evento mi chiese di realizzare dei ritratti di ambiente per tutti gli architetti che partecipavano 27


all’iniziativa. Mario era già conosciuto a livello internazionale per le abitazioni nel Canton Ticino, ma io non ne avevo mai sentito parlare anche perché l’architettura era un mondo che non mi competeva, in quanto la mia formazione era legata al teatro. Rimasi subito colpito dalla sua forza comunicativa e così quando venne nel mio studio realizzai per lui un ritratto molto particolare e glielo regalai. Mario apprezzò molto il mio lavoro e mi chiese se fossi interessato a fotografare le sue architetture. Si trattava per me di un genere completamente nuovo e non presi troppo seriamente la sua proposta. Un anno e mezzo dopo a Milano ci rincontrammo al Salone del Mobile e lui mi rifece la stessa proposta. Questa volta accettai, ma all’inizio non realizzai foto molto interessanti. Lui, però,

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credette in me e iniziò così la nostra lunga collaborazione che è continuata per trent’anni finché io capii che per me era arrivato il momento di cimentarmi in nuovi campi». Quali le caratteristiche architettoniche che predilige nei progetti di Botta? «La vera forza di Mario sta nella sua capacità di creare un’interazione tra luce e materia che ormai è rimasta in ben pochi architetti. Ogni materia ha una sua luce: compito del fotografo è quello di essere capace di percepire il rapporto che esiste tra i due elementi. Fotografare le opere di Mario mi ha permesso di approfondire questo discorso, di maturare artisticamente. Ho imparato a cogliere la profondità di questo legame e

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OPERE IN BIANCO E NERO | Pino Musi

A sinistra il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel; in alto, la Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro e la chiesa di San Giovanni Battista a Mogno

Fotografando le opere di Mario Botta ho individuato il modo di penetrare la materia attraverso una certa tipologia di luce

ho così individuato il modo di penetrare la materia attraverso una certa tipologia di luce».

allo stesso tempo ho potuto mettermi alla prova con una maggiore libertà creativa».

Qual è l’opera che più ha amato e che più l’ha messa alla prova? «Fotografare i musei, per esempio il Moma di San Francisco, è stato un lavoro complesso perché sono opere inserite in un spazio urbano e le variabili che entrano in gioco sono molte. Solo grazie a una grande maturità professionale e tecnica sono riuscito a ottenere certe immagini. Le opere che invece ho amato di più sono state le piccole chiese agresti come la chiesa di San Giovanni Battista a Mogno o la Cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro, attraverso le quali sono riuscito a cogliere ed esaltare il lavoro di Mario, ma

Nel concepire l’architettura contemporanea cosa la unisce a Mario Botta e cosa la divide? «Sicuramente ci unisce il rapporto tra materia e luce e come questi due elementi siano in grado di creare uno spazio. Aspetti che da sempre hanno caratterizzato la mia fotografia, ma che ho imparato a capire fino in fondo lavorando con Mario. Quello che ci divide ora, alla luce della mia maturità artistica, è un certo sovraffollamento di segni, di texture, che lui utilizza continuamente nelle sue architetture, mentre io pur mantenendo al centro della mia indagine la materia, la luce e lo spazio, tendo a scarnificare l’eccesso di trame e di segni».

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Oltre la città e la periferia A distanza di oltre un decennio dalle prime riflessioni sulla dimensione urbana, il filosofo Jean-Luc Nancy lancia nuovamente il suo sguardo lucido sui processi che portano al dissolvimento delle tradizionali categorie di città di Francesca Druidi

“La città si allontana da noi, diventa un’altra città, qualcosa di diverso da una città: cerchiamo ancora la sua misura, e il sapere necessario per attraversarla e nello stesso tempo allontanarcene”, afferma il filosofo francese Jean-Luc Nancy ne La città lontana, pubblicato da Ombre Corte nel 2002, che riunisce le prime riflessioni di Nancy sul presente e sul futuro della città, scritte alla fine degli anni Ottanta, e quelle compiute dodici anni dopo. Nel 2010 la città è ancora disseminata come l’ha descritta ne La città lontana? «Ciò che conferiva un fascino peculiare alla città diffusa, dispersa, frammentata, quella cioè che travalica le dimensioni e gli schemi della “città” tradizionale - come poteva apparire Los Angeles quando ho scritto questo mio libretto - sussiste tuttora, senza dubbio, in quelle città che hanno saputo conservare un proprio “carattere”, penso oltre a Los Angeles, a Mosca, Il Cairo o Tokyo, per fare qualche esempio senza però alcuna certezza di 32

cogliere nel segno. Questo ha a che vedere, mi pare, con quei centri urbani che si mantengono tra due modelli: quello della città propriamente antica, storica, come Parigi e Roma, e quello della città quasi interamente rifondata su un nuovo fattore di crescita e sviluppo, come Shanghai e molte città asiatiche o africane». Cosa le distingue? «Le prime sono sempre più deturpate e danneggiate dalle continue trasformazioni, dal traffico, dalle periferie che poco a poco feriscono e deformano il volto urbano. Le seconde appartengono a un’altra tipologia: non possiedono più alcun fascino singolare, o ne hanno molto poco. Non sono più città, ma bensì delle “megalopoli” dove il brulicare, l’ammassarsi e l’iperattività precedono da tutti i punti di vista l’apertura dello spazio e dei rapporti. Siamo ormai oltre la città, concetto che si allarga e va sfumando. Siamo in quello che viene definito “l’agglomerato” o la “conurbazione”, ovvero spazi C&P


LA CITTÀ DISSEMINATA | Jean-Luc Nancy

In apertura, un’immagine della Chinatown di Los Angeles. A destra, il filosofo francese Jean-Luc Nancy; sotto, le Watts Towers, simbolo di Watts, distretto periferico di Los Angeles

complessi per la presenza di molteplici reti intrecciate tra loro e al contempo semplici per l’assenza di un’organizzazione intima. L’intimità, la dimensione dell’incontro, non riguardano più la “città”, ma a volte un quartiere, talvolta determinati luoghi di lavoro o del proprio tempo libero». Attraverso i flussi migratori in questi ultimi anni diverse città, soprattutto europee, hanno scoperto “l’altro da sé”: altre culture, altre religioni, altri usi e costumi. È, dunque, mutato il concetto di periferia? «No, l’immigrazione ha piuttosto aggravato il carattere distinto, separato e talvolta emarginato della periferia: vi sono periferie abitate da immigrati che sono tagliati fuori dalla città e dal Paese da molteplici punti di vista: spaziale, economico, culturale, simbolico, commerciale. Ma allo stesso tempo esistono nelle città degli interi quartieri che diventano territori di popolazioni definite in base alla provenienza migratoria, una sorta di città cinesi o africane. Ciò riconfigura lentamente il profilo delle città».

Nelle città degli interi quartieri diventano territori di popolazioni definite in base alla loro provenienza migratoria, sorta di città cinesi o africane C&P

Los Angeles per lei corrispondeva alla metropoli dispersa per eccellenza dove “la banlieue, la periferia, ha infiltrato o contaminato tutto”. Individua uno scenario simile in Europa? «Quando affermavo questo, attribuivo alla periferia un valore ancora positivo. Mi piaceva pensare a Los Angeles sotto questo aspetto. Ma anche Los Angeles ha la sua o le sue periferie, in particolare Watts. E noi non sappiamo come lottare contro la messa al bando che accompagna il fenomeno della periferia nel suo carattere di esclusione. A questo proposito, la città traduce lo scarto crescente tra ricchezza e povertà e la faglia creatasi in seno alla nostra civiltà, che si imbarbarisce senza tregua. Io credo, infine che la città non sia nemmeno più un buon punto di partenza per questo tipo di riflessioni. Il nostro problema non è la città, ma piuttosto la civiltà. E neanche questa: si tratta dell’umanità dell’uomo». 33


Uno stile essenziale in nome dell’arte Un luogo dove l’arte è al centro dell’attenzione. Uno spazio nel quale la forma deve valorizzarne il contenuto. Questa è la concezione di Richard Meier nella progettazione dei numerosi musei e gallerie d’arte che portano la sua firma di Nicolò Mulas Marcello

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Photo by Horst Bernhard

PROGETTARE L’ARTE | Richard Meier

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Luce, forma e spazio perfettamente integrati insieme. L’uso del bianco come una tela su cui riprodurre l’arte. Sono questi gli elementi fondamentali su cui Richard Meier lavora da sempre per sperimentare, progettare e creare edifici museali in giro per il mondo. Lei ha disegnato molti spazi pubblici nel corso della sua lunga carriera e in particolare musei. Qual è la sua concezione dei musei e delle gallerie d’arte moderna? «La cosa più importante è che l'arte risalti e che sia nel giusto ambiente. L'accento deve essere posto proprio sui contenuti artistici del museo. Lo spazio deve creare un senso di evento e deve mettere a fuoco l'arte stessa. Credo che per fare questo sia giusto usare una “tela bianca” come il colore che mi contraddistingue».

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Quanto è importante il fattore umano nel lavoro di progettazione? «È di primaria importanza». Lei ha detto: “Fondamentalmente le mie meditazioni sono mirate allo spazio, forma, luce e a come renderli al meglio. Il mio obiettivo è la presenza, non l’illusione”. Come si è evoluta la sua filosofia di progettazione? «Al college si studiano tutti i grandi architetti e inevitabilmente si viene influenzati da loro. Ma ognuno di noi è un individuo unico anche se siamo parte di un tutto. La mia filosofia di design si è evoluta sicuramente nel tempo, ma è diventata la mia quando ho fondato il mio studio personale nel 1963».

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PROGETTARE L’ARTE | Richard Meier

In apertura, l’Arp Museum di Rolandseck in Germania; in alto a sinistra, il Getty Museum di Los Angeles; sotto, la Gagosian Gallery di Beverly Hills; al centro, l’interno dell’High Museum of Art di Atlanta; qui sopra, Richard Meier; nella pagina seguente, il Museo d’arte contemporanea di Barcellona

Il bianco è uno dei tratti distintivi del mio lavoro. Eppure, per me non è un concetto superficiale, ma piuttosto un principio guida, utilizzato per chiarire concetti architettonici e aumentare il potere della forma visiva Parliamo dei suoi progetti recenti. Oltre ai musei su quali altri progetti sta lavorando? «Stiamo lavorando su molti progetti in questo momento. Abbiamo appena finito il Museo Arp in Germania e la Gagosian Gallery di Los Angeles. Sono molto orgoglioso di entrambi i progetti in quanto amo molto l’arte. Attualmente stiamo costruendo il complesso residenziale Torre Rothschild a Tel Aviv. È una bellissima location, un progetto che fonde la tradizione del Bauhaus con l’atmosfera del mare. Stiamo anche sviluppando la fase 2 di un progetto sul mare a Jesolo in Italia. Si tratta di un condominio di 10 piani con una splendida piscina e vista sul mare. È molto vicino a Venezia, ed è davvero una meta sorprendente. Abbiamo appena finito un edificio molto high tech sul porto di

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Amburgo, in Germania. L’intera area è stata oggetto di riqualificazione urbana, e ha avuto molto successo, coinvolgendo architetti e investitori per rendere il luogo un centro per il commercio e la cultura. Molti dei miei progetti sono stati finalizzati alla riqualificazione urbana, dal Museo di Barcellona in Spagna al Palazzo delle Esposizioni a Ulm, dalla Chiesa del Giubileo a Roma all’High Museum di Atlanta. È bello essere in grado di costruire qualcosa che diventi un punto di riferimento, che unisce le persone. Stiamo lavorando anche su un piano generale del centro di Newark, dove sono nato. Al momento è tutto ancora in divenire, ma stiamo costruendo tre scuole, e gli alloggi degli insegnanti, insieme a un centro residenziale ed edifici commerciali che, si spera, ridiano vita alla comunità».

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Lei è noto per il suo stile modernista e per l’estetica. Perché sceglie il colore bianco? «Il bianco è uno dei tratti distintivi del mio lavoro. Eppure, per me non è un concetto superficiale, ma piuttosto un principio guida, utilizzato per chiarire concetti architettonici e aumentare il potere della forma visiva. Mi permette di perseguire il mio scopo principale, che è la manipolazione della luce e dello spazio. Il bianco è il colore che esalta la percezione di tutti gli altri colori. E’ infatti proprio su una superficie bianca che è possibile apprezzare al meglio il gioco di luci e ombre, pieni e vuoti. Per questo motivo il bianco è stato tradizionalmente considerato come un simbolo di purezza e chiarezza, di perfezione. Dove gli altri colori sono valori relativi dipendenti dal loro contesto, il bianco invece è assoluto. Eppure, di per sé il bianco non è mai solo, la luce trasforma quasi sempre le sue sfumature, è mutevole come il cielo, le nuvole, il sole, la luna». Com’è stato influenzato dai cambiamenti apportati

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dalla tecnologia? Cosa pensa dell’architettura virtuale? «Tutti i nostri concept design sono ancora fatti a mano. Anche se quei disegni sono poi trasferiti al computer direi che nel mio ufficio nessuno lavori nel mondo virtuale. Facciamo bozze, costruiamo modelli, ci concentriamo più che altro su una scala umana, e solo successivamente usiamo i computer e la tecnologia per migliorare il nostro processo di progettazione. Abbracciamo la tecnologia, ma cerchiamo di mantenere alcune delle basi essenziali». Qui in Italia ha realizzato molti progetti. Come si combinano le sue idee con la tradizione italiana? «Il contesto è importante in ogni progetto, e in Italia esso è estremamente ricco. In Italia questa concezione si riflette nel rapporto con lo spazio e gli edifici intorno. È qualcosa di cui noi siamo sempre consapevoli e rispettosi. Un edificio deve essere adattato all’ambiente circostante. Può essere moderno, ma deve essere inserito bene nel suo contesto».

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Credit Iwan Baan


Credit Mark Heitoff

PROGETTARE L’ARTE | Steven Holl

In apertura, un interno dell’Herning Museum of Contemporary Art di Herning, Danimarca; qui sopra, Steven Holl

Musei, spazi culturali e sociali «Vivere l’arte è un fenomeno di fondamentale importanza per la collettività e per l’individuo». È questa la concezione degli spazi espositivi, musei e gallerie, che deriva dalle nuove tendenze e dall’esperienza di Steven Holl di Renata Gualtieri

Ha recentemente ottenuto l’International Architecture Awards per il Knut Hamsun Center di Hamarøy, in Norvegia e l’Herning Museum of Contemporary Art di Herning, in Danimarca. È lo stesso Steven Holl a commentare i premi ricevuti sottolineando che le opere sono state apprezzate «perché sono entrambe opere sensibili al loro ambiente e culturalmente importanti». Riconoscimenti che, secondo l’architetto statunitense, rendono onore a «un design nuovo e all’avanguardia e mirano a promuovere l’eccellenza in architettura e urbanistica da un punto di vista globale». È in atto la tendenza a fare dei musei degli spazi di natura non solo esclusivamente culturale ma di incontro e socializzazione. Condivide questa nuova concezione 41


Lo spazio della piazza, con la sua forma concava “sotto il cielo”, configura il carattere dello spazio esterno, mentre il soffitto convesso costituisce spazi espositivi “sotto il mare”

Dall’alto, acquerello del museo Cité de l’Océan et du surf. Qui sotto, un interno del centro Knut Hamsun Center di Hamarøy, Norvegia

del museo? «Vivere l’arte è un fenomeno di fondamentale importanza per la collettività e per l’individuo. I buoni musei sono una combinazione equilibrata di spazio culturale e spazio sociale o comunitario». Sempre più spazi museali portano la firma di “archistar”. Può succedere così che l’architetto tolga visibilità al contenuto? «Io credo che l’architettura ha bisogno di essere ancorata al territorio in cui si inserisce. Il suo significato deve essere profondamente radicato nelle condizioni della sua nascita. Il mio primo libro Anchoring descrive la relazione di un edificio con un luogo, con la sua cultura, con le sue origini metafisiche. Se il concetto che guida l’architettura vuole essere più profondo, si cerca di dare un significato al luogo. Si rafforza un luogo tramite pensieri e speranze filosofiche, o anche umorismo e storie, che sono privi di stile. Ovunque noi lavoriamo cerchiamo di ancorare l’architettura all’esistente».

Credit Steven Holl Architects

L’idea di design che sta alla base del progetto Cité de l’Océan et du surf si basa sulla frase “ sotto il cielo/ under the sea”. Può chiarire meglio questo concetto? «La forma dell’edificio è destinata a creare una piazza centrale per la raccolta di cielo e mare con l’orizzonte in lontananza. Lo spazio della piazza, Place de l’Océan, con la sua forma concava “sotto il cielo”, configura il carattere dello spazio principale esterno, mentre il soffitto convesso costituisce spazi espositivi “sotto il mare”». 42

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>La filiforme città del futuro SRME, Silk Road Map Evolution, è un progetto di OFL Architecture e Francesco Lipari che nasce dalla volontà di rifondare e rigenerare l’attuale tracciato della via della seta attraverso una riqualificazione sociale, economica, politica e architettonica. Si tratta di una filiforme “città motore” che corre in aiuto di realtà urbane ed economiche in difficoltà. I 15mila km della via della seta saranno intervallati da torri bioniche che rappresenteranno il centro delle nuove conurbazioni. Mentre nuovi percorsi si dirameranno dalla linea principale della silk road per costituire un grande indotto economico, di cui la nuova silk road line è generatrice. Silk Road Map Evolution diventa una città globale per il futuro composta da lunghissimi tunnel e torri di forma variabile altamente sostenibili e abitabili

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WORLD IN PROGRESS

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>La tenda delle meraviglie È un cono alto 150 metri il Khan Shatyr Entertainment Center di Astana, Kazakhstan. L’incredibile progetto realizzato da Foster & Partners è stato inaugurato ufficialmente in occasione del settantesimo compleanno del presidente Nursultan Abishuly Nazarbayev. Quella che possiamo definire la più grande tenda mai realizzata al mondo copre un’area interna di oltre 140mila metri quadrati con un centro divertimenti, negozi, ristoranti, cinema e, ciliegina sulla torta, una spiaggia artificiale. Norman Foster in persona ha progettato il tutto affinché il clima non possa danneggiare l’opera, realizzata in una speciale plastica trasparente che fa passare la luce trattenendone la potenza calorifera

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WORLD IN PROGRESS

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>La vita sotto il mare Un ecosistema abitabile sotto il manto dell’oceano. Questo il futuristico progetto presentato da Phil Pauley, riprodotto tridimensionalmente dalla sua Pauley Interactive. Un mondo sottomarino la cui area è equivalente a quella di tre interi campi da football americano. Destinato a turisti, amanti del grande blu e, soprattutto, agli studiosi delle scienze oceanografiche, questo habitat è concepito per sostenere anche la vita animale e vegetale, garantendo supporti per aria, acqua, cibo ed elettricità. Il tutto reggendosi su un innovativo sistema di regolazione della pressione atmosferica variabile

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WORLD IN PROGRESS

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Il gigante di cristallo si affaccia sul Tevere Esempio di eccellente riqualifica delle ex aree industriali capitoline, la nuova sede del gruppo api-IP sulla Via Salaria è stata concepita con i canoni del risparmio energetico e della massima funzionalità. A parlarne è il progettista ingegnere Luciano Ugolini della Ugolini & Partners di Pierpaolo Marchese

Un complesso direzionale che si sviluppa su una superficie di 13mila mq coperti. Un edificio imponente, ambizioso, che porta la firma della Ugolini & Partners di Roma, associazione professionale di ingegneria, architettura e urbanistica fondata dall’ingegnere Luciano Ugolini. Questa la nuova sede romana del gruppo nato dalla fusione di api con IP. La fase esecutiva è stata condotta con l’assistenza degli associati architetti Cristian Bufalino e Sabrina Fabbri. Alto 12 metri su un lotto di oltre 25mila mq, l’edificio sorge in un’area che, in passato, ospitava un complesso 50

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RIQUALIFICAZIONE INDUSTRIALE | Luciano Ugolini

A sinistra, l’ingegnere Luciano Ugolini. Sullo sfondo, la sede dell’api-IP a Roma

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La scelta cromatica delle facciate continue nasce dall’esigenza di integrare il complesso nel contesto locale prevalentemente industriale, ma che nello stesso tempo vanta la presenza di alcuni scorci tipici della campagna romana e del fiume Tevere

industriale punto di riferimento della produzione di lubrificanti api. La fusione di api con IP, compagnie petrolifere già presenti sul territorio nazionale nel campo dei carburanti e lubrificanti, ha visto nascere un più importante gruppo nazionale che ha reso necessaria una nuova logica produttiva e commerciale. Si è palesata quindi la necessità di procedere a una ristrutturazione delle funzionalità del deposito di oli, ottenuta con il concentramento della produzione e la riorganizzazione interna dello stesso» spiega Luciano Ugolini. E, ovviamente, ciò ha portato alla progettazione di un nuovo edificio teso a ospitare la sede direzionale e amministrativa dell’intero gruppo petrolifero». Come si è giunti alla scelta dell’area su cui costruire? «La scelta dell’area costituita dallo stabilimento produttivo, nasce dall’esigenza di affiancare alla funzione operativa, dunque alla produzione e alla distribuzione dei prodotti, la funzione direzionale, la presidenza, l’amministrazione e tutti gli uffici. Nell’area sorgeva un’elisuperficie a terra, per cui ne abbiamo realizzata una ex-novo sulla copertura. Per comprendere tutte le esigenze è stata progettata una struttura che, pur rispondendo al carattere dell’unitarietà architettonica dell’edificio, mantenesse un’indipendenza tra le varie parti, corrispondenti alle

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RIQUALIFICAZIONE INDUSTRIALE | Luciano Ugolini

Immagini della nuova sede api-IP a Roma realizzata dalla Ugolini & Partners. Lo studio è ora impegnato nella riqualificazione di tutti gli edifici ex industriali di proprietà del gruppo Marzotto www.ugolinipartners.it

diverse funzioni interne previste». Quali sono i tratti distintivi del progetto? «Il complesso è caratterizzato da due edifici semicircolari, di tre piani fuori terra, concentrici fra loro, per il rispetto delle distanze dalla linea ferroviaria e dalla strada statale. Il tutto senza soluzione di continuità, poiché collegati mediante passaggi sospesi e un volume centrale con un giardino pensile in copertura costituente la sala conferenze. Al piano terra i due edifici sono separati da una lingua di verde, caratterizzata da passaggi pedonali e aree di sosta all’aperto». Interessante è la scelta del vetro per le facciate di entrambi gli edifici. «La struttura vetrata è stata opportunamente trattata per la protezione solare e la dispersione termica, al fine di ridurre al minimo la separazione fisica fra interno ed esterno, alleggerendo la massa dei volumi. La continuità delle vetrate viene interrotta unicamente in corrispondenza dei vari corpi scala, costituiti da setti in cemento armato, rivestiti in Etalbond, che si elevano fino alla linea di gronda dell’edificio, e da schermature brise-soleil di lamelle in alluminio verniciato». C&P

Da cosa nasce la scelta del colore verde? «La scelta cromatica delle facciate continue nasce dall’esigenza di integrare il complesso nel contesto locale prevalentemente industriale, ma che nello stesso tempo vanta la presenza di alcuni scorci tipici della campagna romana e del fiume Tevere». Come avete organizzato gli aspetti funzionali del nuovo edificio? «I due nuovi corpi di fabbrica, articolati in diverse zone interne, servite da più corpi scale, sono stati pensati per alloggiare funzioni differenti e in modo tale che non vi fosse interferenza fra le varie zone. Il corpo principale, prospiciente Via Salaria ed il fiume Tevere, si presenta articolato, nella sua forma circolare, in quattro blocchi distinti ma collegati tra loro mediante atri circolaricerniere che contengono i servizi e i collegamenti verticali. La cerniera centrale costituisce l’atrio principale di accesso, caratterizzato da un ampio spazio a tripla altezza, coperto da un grande lucernario circolare. All’interno di quest’ultimo sono collocate due rampe di scale semicircolari, simmetriche, strutturalmente autoportanti e due ascensori panoramici. Per questi punti di snodo si è cercato di beneficiare al massimo dell’illuminazione naturale proveniente dai lucernai, le superfici sono tinteggiate 53


A sinistra, il progetto del Tecnopolo Lanerossi a Schio in Veneto. Sotto, recupero del Castello di Origliano e della tenuta Torre Giulia in Orte (VT)

Tra i lavori in fase di realizzazione vi sono senza dubbio il progetto del Tecnopolo Lanerossi a Schio in Veneto e il recupero del Castello di Origliano e della tenuta Torre Giulia a Orte, nella provincia di Viterbo

rigorosamente di colore bianco, il tutto per restituire la purezza dei volumi, che contengono gli ascensori, e delle pareti circolari, oltre che per permettere alla luce di penetrare intatta fino al piano terra». Dunque la diffusione della luce è un elemento centrale del tutto? «Esatto. Dai vari atri circolari si snodano i corridoi illuminati anch’essi da lucernai rettangolari che trasmettono la luce naturale fino al piano terra mediante pozzi di luce». Per tutte le zone costituenti il tessuto connettivo del complesso, si è scelto di utilizzare un unico materiale, il legno color acero. Per quali ragioni? «La scelta è stata guidata dal proposito di conferire a questi passaggi una continuità tra le superfici orizzontali e verticali di pavimenti, pareti e controsoffitti. La stessa linea è stata adottata per i rivestimenti della sala conferenze progettata per ospitare oltre cento posti. Le partizioni interne degli uffici sono realizzate con un sistema integrato di pareti mobili e i pavimenti sono del 54

tipo flottante, per agevolare il passaggio e la manutenzione dei vari impianti». Mentre per quanto riguarda il corpo retrostante posto verso la ferrovia? «È stato realizzato seguendo le stesse linee guida dell’edificio principale. Ospita al piano terra la mensa e il Ced. Il primo e il secondo piano sono destinati ad uffici. Anche qui per gli atri e il tessuto connettivo è stato scelto il legno d’acero per pavimenti, pareti e controsoffitti. Dal secondo piano mediante una scala all’interno di un torrino vetrato si accede alla copertura. Qui è stata realizzata l’elisuperficie, progettata seguendo le ultime tecnologie impiantistiche, che rappresenta, a Roma, l’unico esempio di elisuperficie privata in copertura». Quali sono, invece, i progetti che avete attualmente in fase di lavorazione? «Tra quelli più significativi vi sono senza dubbio il progetto del Tecnopolo Lanerossi a Schio in Veneto e il recupero del Castello di Origliano e della tenuta Torre Giulia a Orte, in provincia di Viterbo». C&P



Spazi definiti dalle emozioni Gli interventi di riqualificazione delle aree industriali cambiano volto al tessuto urbano. Come a Milano, dove Giancarlo Marzorati si è aggiudicato il “mattone d’oro” per il miglior progetto turistico alberghiero di Adriana Zuccaro

Immaginazione che si traduce in creazione, in disegno. E l’emozionalità, input ideativo dei progetti dell’architetto milanese Giancarlo Marzorati, si trasforma nell’abecedario grafico necessario alla lettura del tessuto urbano. «Nello spazio totalmente costruito della città è proprio l’aspetto emozionale che genera varietà e interesse, differenziando gli spazi secondo una precisa funzione che non può essere altra cosa rispetto all’espressione formale». Perché per Giancarlo Marzorati «l’architettura deve rivelare, senza nascondere sotto una facciata uniformante». Su quali principi dovrebbe basarsi l’urbanistica contemporanea? «La responsabilità della trasformazione di un territorio ha a che fare con il destino di chi abita il nostro Paese perché quello che si trasforma, in qualche modo determina il vivere, il poter lavorare e convivere nelle 56

L’architetto Giancarlo Marzorati nel suo studio di Sesto San Giovanni (MI). Sopra, particolare del Parco termale Aquardens (VR) e, nell’altra pagina, hotel BH4 Alinvest Spa e residenza Miluce (MI) marzorati@tin.it

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RIQUALIFICAZIONE INDUSTRIALE | Giancarlo Marzorati

La silhouette strutturale dell’hotel, rigorosa e pulita, viene contraddetta dagli incavi profondi che aprono il volume a diverse altezze

città. Il punto di partenza per ogni pianificazione edilizia dovrebbe dunque essere il ritorno al concetto che gli spazi pubblici sono l’anima della città, il luogo in cui società e città si incontrano, dove il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato». Quale resoconto urbano-architettonico è possibile fare su Milano e Sesto San Giovanni? «Milano è stata accomunata con il territorio sestese da una realtà di città industriale e operaia che oggi non esiste più. Così il recupero e la trasformazione di importanti aree dismesse o inedificate hanno rappresentato l’occasione per cambiare il volto alla città. Con il nuovo Piano di Governo del Territorio credo di poter asserire che ci troviamo di fronte a un “Rinascimento” della città di Milano in campo architettonico che si sostanzia in alcuni edifici simbolo come quello che ospiterà la nuova sede della Regione e CityLife, nel quartiere Fiera». C&P

Anche il suo progetto vincitore del “Mattone d’Oro” testimonia una nuova architettura urbana. «Il progetto dell’hotel BH4 Alinvest Spa rappresenta una delle facce del mio “fare architettura” che coniuga luce e leggerezza con il linguaggio del colore e della tessitura di superficie. La silhouette strutturale, geometricamente rigorosa e pulita, viene contraddetta dagli incavi profondi che aprono il volume a diverse altezze e messa ancor più in risalto dalla struttura trasparente di forma circolare alla base; su di essa un gioco esterno di travi in acciaio incrociate e una macroscopica pensilina sospesa e trasparente conferiscono alla struttura un aspetto fortemente tecnologico. Sembrano apparentemente due entità differenti con un’unica connessione centrale tra i collegamenti verticali e i pilastri a vista, in una composizione architettonica che vuole essere punto di riferimento, non solo visivo, per la città di Milano». 57


Il volto italiano dell’architettura industriale A tu per tu con Alfonso Mercurio, tra i piÚ apprezzati architetti italiani. Il fondatore di AMA group racconta i progetti che lo hanno reso un simbolo per la realizzazione di complessi industriali nel mondo di Andrea Moscariello

Esterni e interni della sede centrale della St Microelectronics a Ginevra

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ARCHITETTURA INDUSTRIALE | Alfonso Mercurio

Sono tra i primi, e tra i pochi, al mondo in grado di realizzare grandi complessi industriali dedicati alla produzione elettronica. Certo è che negli anni settanta, il fondatore di AMA Group, l’architetto Alfonso Mercurio, mai avrebbe pensato di divenire uno dei personaggi più influenti nel campo della progettazione industriale dei semiconduttori, arrivando a costruire in 13 paesi. E così, da uno studio romano rivolto all’architettura residenziale, oggi il gruppo ha uffici a Singapore, in Cina e perfino in Libia. Opera manifesto della carriera di Mercurio e del suo gruppo, è senza ombra di dubbio il complesso della Advanced Micro Devices realizzato a Dresda. «Ricordo ancora quando iniziai a lavorare in quell’area – racconta Mercurio -. All’epoca Dresda era desolata, cercava di riprendersi dopo la caduta del muro di Berlino». Una ripresa che è avvenuta eccome. Oggi quest’area, in parte grazie proprio alla spinta propulsiva e all’indotto creato dal complesso che porta la firma di AMA Group, è considerata come una sorta di Silicon Valley del Centro Europa. Molto più di un semplice progetto. «Questo intervento industriale rappresenta uno dei più importanti tentativi di riequilibrio tra la Germania dell’Est con quella dell’Ovest. Si tratta di una realizzazione incredibile nata sulla base di un town planning. Generalmente, per lavori di questa portata, subentrano più architetti, per cui il risultato è una sorta di mosaico a più mani. In questo caso invece siamo stati noi ad

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Alfonso Mercurio e, sopra, esterno del complesso realizzato a Dresda da AMA Group. Sotto, AMD Fab 25 Sub-micron Wafer Fabrication Building & Office – Austin, Texas, USA

occuparci del tutto. Ecco perché lo stabilimento è divenuto un simbolo di architettura industriale organica, con una sua linea ben precisa. Credo si tratti di uno dei più grossi interventi nel campo dell’elettronica mai realizzati, se non proprio il più grande».

Non ci si può limitare a creare opere con il solo fine di stupire e innovare esteticamente, l’architettura deve anche reggersi su canoni di gestibilità e di sostenibilità economica

In quanti anni è stato realizzato? «Soprattutto tra il 1996 e il 2006. Ma in realtà ci stiamo ancora lavorando. Il complesso, assieme all’industria, è infatti continuamente in evoluzione, si ingrandisce anno dopo anno. Si sono investiti miliardi di dollari su Dresda. Basti considerare che ogni modulo può costare, soltanto per la parte edile, intorno ai 400 milioni di dollari. Ma soprattutto parliamo di un contenitore tecnologico avanzatissimo. All’interno del complesso vi sono camere bianche che misurano circa 13mila metri quadrati l’una. E in più ci sono gli uffici e i centri di ricerca, i quali fungono da tessuto connettivo tra le white room». Un altro vostro progetto simbolo è quello di Ginevra, la sede mondiale della St Microelectronics. «In questo caso però parliamo di una sede rappresentativa, non di un complesso industriale. Anche per questo ci siamo potuti concedere molte più note stilistiche. Costruire strutture industriali, invece, pone molti limiti. Confini che io, personalmente, ho sempre tentato di superare. Cerco sempre di creare progetti funzionali, economici, sostenibili, ma sempre con una loro dignità architettonica». All’epoca della sua realizzazione la struttura ginevrina fu

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ARCHITETTURA INDUSTRIALE | Alfonso Mercurio

Sopra, il master plan concepito per il FAB Park di Abu Dhabi. Sotto, complesso Industriale M6 STMicroelectronics, Catania, 2000-2004 www.amagroup.it

all’avanguardia. «Vero. Dieci anni fa fummo tra i primi a creare interi piani coperti con pannelli fotovoltaici semitrasparenti. Parliamo di un edificio molto avanzato dal punto di vista tecnologico. Il futuro è questo. Certo, è più semplice spingere sul fotovoltaico in edifici meno vincolati funzionalmente piuttosto che in poli industriali dove il fabbisogno energetico è molto elevato». Anche in Italia si presta attenzione al risparmio energetico? «La normativa parla chiaro, pone dei vincoli ben precisi. Diverso è ciò che viene realizzato in concreto. E, onestamente, ho anche qualche dubbio sulle competenze di coloro i quali sono chiamati a verificare la qualità e il rispetto delle regole assai complesse nei progetti realizzati».

Nel suo ambito quali differenze trova tra l’Italia e il resto del mondo? «In Italia siamo bloccati da alcuni limiti troppo severi. I piani urbanistici impongono dei dettami talvolta assurdi, me ne rendo conto lavorando per esempio a Roma. In alcune realtà straniere, invece, si verifica il problema opposto. Le città cambiano praticamente di anno in anno, non c’è controllo, tutto è esagerato, pensiamo solo a Dubai o a Singapore, dove si fanno le case per poi buttarle giù due anni dopo solo perché non rispondono più alle esigenze di mercato. L’architettura figlia della finanza creativa sta creando delle assurdità che non hanno nulla a che fare con la mia filosofia progettuale. Non ci si può limitare a creare opere con il solo fine di stupire e innovare esteticamente, l’architettura deve anche reggersi su canoni di gestibilità e di sostenibilità economica, ma vedo che in molti non se lo ricordano più». Attualmente in Italia su cosa state lavorando? «A Catania stiamo trasformando uno stabilimento della St Microelettronics, che dalla produzione di microchip passerà a quella di pannelli fotovoltaici. La crisi del settore It ha inciso notevolmente anche sull’architettura industriale, che ora si deve adeguare ai nuovi assetti produttivi. Mentre a Roma è in corso la costruzione di tre edifici residenziali, per un totale di 160 appartamenti che, nel rispetto delle tematiche ambientali, sono progettati per sfruttare la fonte di energia del sottosuolo, il geotermico››.

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Un’architettura verticale per un futuro “green” È proiettata al futuro la mente di Esmeralda Mapelli, firma di Urban Group. Con la volontà di improntare l’architettura su una filosofia comunicativa tesa a garantire un futuro sostenibile, per tutti, all’interno delle nostre città di Andrea Moscariello

Il substrato estetico e culturale di una realtà urbana non deve intimorire l’estro delle nuove generazioni di architetti. E l’Italia, al pari di altre realtà come il Medio Oriente o i paesi anglosassoni, deve concedere libertà di espressione, e quindi di evoluzione, ai giovani progettisti. «Il carattere preesistente di una città deve essere la base, non un vincolo che limita l’architettura moderna». Così parla l’architetto Esmeralda Mapelli, dello studio Urban Group di Milano, confrontando lo “stallo” italiano con l’intraprendenza dei grandi progetti internazionali. E la professionista lo sa bene, avendo preso parte ad alcuni importanti concorsi, tra cui quello per la realizzazione dell’Oic Building, l’edificio per 62

l’organizzazione della conferenza islamica. «Architettura è, prima di tutto, comunicazione – spiega Mapelli -, non deve rappresentare unicamente una disciplina fine a se stessa, deve invece integrarsi con le altre arti, con la cultura e soprattutto con la realtà in cui va a inserirsi». Un’integrazione che nell’epoca contemporanea deve necessariamente basarsi su nuovi presupposti, a partire dalla riqualificazione delle aree urbane e l’ampliamento degli spazi verdi. «In Italia questo è un discorso fondamentale. Non abbiamo i grandi spazi degli Stati Uniti. Per questo dobbiamo puntare alla concentrazione delle masse edilizie, verticalizzandole, per ottenere spazi da dedicare al verde. In questo C&P


ARCHITETTURA SOSTENIBILE | Esmeralda Mapelli

In apertura progetto per via Stephenson (Milano), lavori iniziati nel 2007, di cui, qui a sinistra, vi è il prospetto della torre, (sviluppatore Immobiliare Lombarda). In alto, a sinistra, progetto per l’OIC Center (Concorso svoltosi nel 2006); sopra il progetto “Arconate” e, sotto, piano per il nuovo waterfront di Reggio Calabria (Concorso svoltosi nel 2007) studio.mapelli@tin.it urbangroup@legalmail.it

senso l’architettura riveste una funzione prettamente pubblica. La presenza di quartieri green all’interno delle nostre città è fondamentale per l’intera comunità residente». E proprio in questi mesi a Milano è in cantiere un ambizioso progetto che porta la firma dell’architetto Mapelli. La riqualificazione di un’ex area industriale della città meneghina. Una serie di torri dalle facciate in vetro con una struttura metallica a vista. «Questo è l’esempio di una progettualità di sviluppo verticale, cui accennavo prima, che consente di realizzare aree verdi». Secondo Mapelli, inoltre, l’Italia dovrebbe seguire una tendenza già fortemente sostenuta a livello globale: «non solamente attorno agli edifici, ma all’interno degli stessi possiamo inserire del verde. C&P

La sostenibilità è il grande tema dell’architettura del futuro. I materiali, il risparmio energetico e l’impatto ambientale sono i canoni da perseguire». Di recente Urban Group ha partecipato con Sistema 2000 al concorso per il rinnovo dello skyline e del waterfront della città di Reggio Calabria. «Anche il Meridione merita un rinnovo. E questo può essere veicolato attraverso il messaggio, la comunicazione che i grandi progetti architettonici consentono. Spero solo che cambi la mentalità italiana, talvolta troppo frenante verso le novità. Basta osservare ciò che accade a Milano per la realizzazione delle nuove grandi opere, su tutte Citylife». Insomma, dare spazio alle innovazioni e non chiudersi rispetto al resto del mondo. 63




Gianluca Crippa

La trasparenza che esalta il preesistente Ferro, vetro, luce. Elementi alla base di uno degli ultimi progetti milanesi dell’architetto Luisita Facchin. Un moderno ascensore che, posto al centro di un complesso storico, non ne aggredisce i caratteri ma, al contrario, li valorizza di Paolo Lucchi


ESPRESSIONI ARCHITETTONICHE | Luisita Facchin

In apertura, Ascensore panoramico Casa Boni Pelitti, via Castelfidardo (Milano) progetto: arch. Luisita Facchin e Lisa Ferrari. A sinistra e in basso, nuova edificazione – lottizzazione (Valderice – Trapani). Progetto: arch. Luisita Facchin e Salvatore Palmisano, sculture di Corrado Petri. Qui a lato, zona esterna con ampliamento terrazzi e realizzazione di “giardino d’inverno”, via Fiori Chiari (Milano) viadeipiatti@fastwebnet.it

Un lavoro che parte da uno studio approfondito dei luoghi e da chi, questi spazi, li vive in prima persona. Il progetto realizzato in Via Castelfidardo, a Milano, è vissuto con orgoglio dall’architetto Luisita Facchin. Un ascensore che unisce, all’interno di un fabbricato di valenza storica e architettonica, una realizzazione ricadente nei canali dell’architettura moderna. «È un simbolo di orgoglio, non solo dal punto di vista professionale per il risultato raggiunto, ma soprattutto dal punto di vista privato e civile» racconta l’architetto di Milano. Inutile chiederle se è entusiasta del risultato. «Quanto realizzato è tra i lavori emotivamente più importanti che io abbia mai affrontato negli ultimi anni. Nasce dalla collaborazione di un team di persone che agiscono in sintonia con il professionista e che, insieme a lei, accettano una sfida. Mi riferisco alla grande collaborazione nata, C&P

ad esempio, con il committente e con tutte le persone che ne sono state direttamente coinvolte. È stato un percorso non facile, dove la mancanza di civiltà verso il prossimo, manifestata da alcuni, ha fatto a volte perdere la gioia che si prova quando si crea, ma non ha fermato il processo costruttivo». Su quali materiali si è orientata? «Ho scelto tra i più semplici dei nostri tempi: ferro e vetro. Ogni elemento è stato realizzato a disegno secondo l’esigenza architettonica, riuscendo a dare fattibilità normativa, senza però dover rinunciare a un manufatto esteticamente ricercato». La scelta della trasparenza quale valore estetico porta al complesso in cui si inserisce? «L’uso della trasparenza non significa, necessariamente, rendere il manufatto invisibile, anzi, a volte è la trasparenza stessa che diviene 67


Uno spazio diviene “bello” quando rispetta le esigenze e le richieste di chi lo abita. La complessità a volte diventa sinonimo di confusione e rischia nel tempo di appesantire e annoiare il visitatore

impatto visivo valorizzante l’intorno. Abbiamo esaltato gli strati preesistenti, senza creare interferenze con specchiature e caratteri architettonici dei fronti prospettici». Recuperare gli spazi, specialmente in Italia, significa dover inserire elementi di modernità all’interno di ambienti che, il più delle volte, devono mantenere il proprio aspetto originario. Quale approccio architettonico si deve scegliere affinché in un’abitazione possano coesistere passato e presente? «È vero, nel nostro paese l’architettura si deve confrontare con la storicità dei luoghi, ma questo non diviene un limite, anzi, dà spunto alla creatività. Nella mia architettura amo il confronto tra passato e presente, non amo realizzare finti antichi, mentre approfitto di tutto ciò che la tecnologia del nostro tempo ci sta regalando attraverso tecniche costruttive che permettono di dare forma al pensiero creativo. Fonte di ispirazione sono anche i materiali dalle caratteristiche così specifiche e performanti che aiutano la filosofia progettuale a prendere vita. Considero davvero un peccato non approfittare di 68

tutto questo». Cambiando progetto, in Via Fiori Chiari, sempre a Milano, si sta occupando dell’ampliamento di un terrazzo serale. Quali elementi occorrono per dotare di “calore” e comfort, tipici degli interni, uno spazio esterno? «Uno spazio esterno deve avere da parte del progettista la stessa attenzione e cura di quella rivolta agli spazi interni. Il dentro e il fuori devono diventare tutt’uno. Un percorso unico, non una netta separazione. In una città come Milano questi spazi diventano di particolare interesse in quanto molto rari. Materie, cromie, illuminotecnica, così come vengono studiati per gli interni possono essere rivisti e trasferiti verso l’esterno. Nel caso specifico di Via Fiori Chiari, ad esempio, la scelta di inserire un camino a bioetanolo contribuisce a dare un carattere architettonico direttamente collegabile agli spazi chiusi. Il progetto prevede sia l’ampliamento della superficie esterna che la realizzazione di una serra “giardino d’inverno”». Da sempre i suoi lavori si concentrano soprattutto C&P


ESPRESSIONI ARCHITETTONICHE | Luisita Facchin

Nella pagina a fianco, nuova edificazione (Ustica - Palermo). Progetto: arch. Luisita Facchin e Salvatore Palmisano. Sopra, loft in via Candiani (Milano) Sotto, loft in via Terraggio (Milano) Tra i collaboratori dello studio, gli architetti Giulio Brisolese, Andrea Corti, Davide Galleani e Paola Zonco

sull’ambito abitativo. Generalmente si lascia guidare dal committente oppure è lei a dettare stile? «Ideale è il luogo nel quale si riconosce chi lo abita e col quale può ritrovare tratti a lui comuni. Le linee guida che portano al pensiero progettuale sono molte, il progettista deve confrontarsi con le esperienze di altri, aumentando il proprio bagaglio culturale ed essere, così, invogliato e aiutato a rendere ogni realizzazione ricca di simbologie uniche. In uno dei miei ultimi lavori, ad esempio, ho affrontato il tema dei “locali per la Cucina”, così amo definirli, avvalendomi della preziosa collaborazione di Rossana Miro, una nota naturopata che esercita a Vancouver. Attraverso il suo insegnamento un semplice luogo è divenuto richiamo per successivi miei interventi». Il suo stile appare lineare, elegante, semplice. Più essenziale che complesso. È giusta questa analisi? «Uno spazio diviene “ bello” quando rispetta le esigenze e le richieste di chi lo abita. La complessità a volte diventa sinonimo di confusione, rischiando nel tempo di annoiare il visitatore». C&P

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Il design detta il linguaggio ai percorsi innovativi «Non c’è una tendenza che domina le altre. Il design è diventato strutturale, quindi necessario e insostituibile in qualsiasi azienda dove il futuro è un’opportunità e non rappresenta un problema». È quanto emerge dall’attenta analisi di Aldo Colonetti, direttore scientifico dello Ied di Renata Gualtieri Il design ha le proprie origini all’interno delle discipline progettuali, in modo particolare dell’architettura, senza mai dimenticare le sue relazioni, necessarie, con le arti. «Queste ultime – commenta Aldo Colonetti, direttore scientifico dell’Istituto europeo di Design – sono un grande “fiume creativo” per il design». In questi ultimi decenni, in Italia, dagli anni Sessanta in avanti, sempre di più il design industriale ha assunto una propria autonomia, riconducibile in modo specifico alla dimensione produttiva; la serialità, per il design industriale, non è un’opzione, ma una necessità da cui non può prescindere. «Per queste ragioni, pur nella sua autonomia, il design dovrà sempre

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guardare all’architettura da un lato e, dall’altro, alle arti visive, per evitare di diventare narcisista e autoreferenziale». “Una scuola di design valorizza la capacità progettale e l’esecuzione dell’idea”. Oggi è difficile fare formazione nell’ambito del design? «Una scuola di design, come tutte le esperienze formative che trasferiscono saperi per avviare i giovani ai “mestieri”, deve privilegiare, accanto alle discipline teoriche e storiche, percorsi di avvicinamento progressivo al mondo della produzione, nel suo significato più alto: cultura industriale come conoscenza e non solo come

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LO STILE ITALIANO | Aldo Colonetti

In alto a sinistra, il progetto Eco Kitchen; al centro, retro della pensilina del progetto Zona Zero; a destra, il progetto Whaler; in basso Aldo Colonetti

Nelle aziende più avanzate il design ha un ruolo strategico perché appartiene a tutte le fasi della produzione opportunità nel mercato. Certamente non è facile fare formazione oggi perché è presente una diffusa separazione, insieme a una pretesa autonomia, tra il mondo del fare e la scuola. È una questione tipicamente italiana, non presente nel sistema formativo anglosassone e tedesco. Dobbiamo guardare a queste esperienze se vogliamo evitare una frattura tra scuola e lavoro: l’Istituto europeo di Design, dalla sua origine a oggi, per esempio, ha costruito la propria identità sull’idea che fare è pensare». “Il design acquista significato se coniugato alla produzione”. Come si arriva al mercato?

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In alto a sinistra, BMW ZX-6 di Jai Ho Yoo and Lukas Vanek; in alto a destra, la mostra “Apriti”, Ied 2009; in basso da sinistra, un workshop e il cortile dell’Istituto

«Il design senza la produzione non è altro che un esercizio accademico, se intendiamo la produzione non soltanto come la fase della realizzazione, ma soprattutto in relazione alla ricerca applicata. È attraverso questo snodo che è possibile arrivare al mercato, preparati, e soprattutto capaci di rispondere ai desideri, il più delle volte potenziali, dei consumatori. Il design non deve appiattirsi sul mercato, né deve essere ricondotto, meccanicamente, alle indicazioni del marketing. Nelle aziende più avanzate il design ha un ruolo strategico all’interno della governance perché appartiene, come insieme di competenze, a tutte le fasi della produzione».

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Quanto è importante oggi il settore del design nel nostro Paese? Si può ancora parlare di una scuola italiana del design? «Certamente il design è una delle poche leve di sviluppo economico del nostro Paese, se lo intendiamo come linguaggio della differenza - ovvero interprete delle necessità del mercato, delle istituzioni, dei sistemi territoriali - nel segno di linguaggi, immagini, cose, “architetture”, dove qualità estetica e aspetti funzionali sono al centro del progetto. L’Italia resta ancora, da questo punto di vista, un riferimento fondamentale e insostituibile; basti pensare al flusso sempre più numeroso di studenti stranieri che frequentano le nostre scuole».

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Nuovi oggetti, antica tradizione Il giovane design guarda all’artigianato come a una nuova fonte di ispirazione. L’autoproduzione è il mezzo attraverso il quale progetti che si rifanno alla tradizione artigiana riescono a proporsi a un pubblico di intenditori. Matteo Cibic racconta la sua avventura di designer emergente illuminato di Piera Girardi

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Da qualche tempo il mondo del design sta spalancando le sue porte a nuovi talenti. La possibilità di autoprodurre i propri progetti riesce a offrire alle nuove menti creative la possibilità di oltrepassare la fase della ricerca di un produttore, operazione sempre più difficile se si tratta di progetti dal forte valore concettuale e che quindi non assicurano un immediato ritorno economico. Matteo Cibic, designer emergente tra i più brillanti, sta riportando il design a una dimensione più umana, più vicina alla tradizione dell'artigianato storico italiano. Prima di pensare a nuovi oggetti, Cibic si fa ispirare dalle suggestioni dei materiali, per ricercarne poi nuovi processi di lavorazione. I suoi oggetti, prodotti spesso

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in serie limitata, sono duraturi, tesi al superamento della moda dell'"usa e getta". Lei è considerato un designer emergente. A cosa pensa sia dovuta questa reputazione all'età di soli ventisette anni? «Già prima dei ventitré anni ho cominciato a lavorare con mio zio Aldo. Poi ho cominciato a collaborare con il giovane studio April di Milano in grossi progetti retail, che mi hanno dato sicurezza e autonomia nella gestione dei progetti. In quel momento lì in Italia non c'erano giovani designer under trenta, mentre nel resto d'Europa amici della mia età erano già emersi e figuravano come designer-star internazionali. Qualche

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Nella prima pagina, il designer Matteo Cibic; Domsai; in alto, le lampade Girasole Light

mese dopo ho aperto il mio studio, iniziando a produrre collezioni di oggetti con piccoli artigiani veneti, sono piaciuti alla stampa e li hanno pubblicati». La sua produzione si fa contaminare dalla grafica, dalla moda e dall'arte. Pensa che questo sia un nuovo tipo di iter progettuale che vedrà sempre più designer coinvolti? «È un iter abbastanza comune in tutti i campi artistici quello della contaminazione. Oggi è molto facile che si producano oggetti identici ai due capi del mondo, nello stesso momento, perchè il background culturale ed estetico si sta uniformando e le fonti di informazioni sono spesso le stesse».

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Si è formato sia in Italia che in Gran Bretagna, ovvero al Politecnico di Milano e alla Kingston University. In quale modo è stato formativo assistere ad approcci al design completamente diversi ma di eguale rilevanza? Come può influire e quanto può essere determinante il percorso didattico che un designer sceglie? Quali sono le strade di eccellenza, universitarie e non, da intraprendere? «Dipende molto da cosa si cerca. Io ho un approcio molto più artistico, che ho scoperto prima con Aldo e poi ho strutturato in Inghilterra in un Btec Diploma in Art & Design, dove ho scoperto l'utilizzo delle mani, della materia e delle lavorazioni artigianali, oltre ad

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LO STILE ITALIANO | Matteo Cibic

La musica, l'arte e l'incontro di persone completamente diverse da me mi dava un energia incredibile, passavo le notti in biblioteca e nei laboratori meccanici e di carpenteria

progettazione, oppure potrebbe essere un ritorno sostanziale del design ad una dimensione più a misura d'uomo? «Per me è stata un esigenza. Ho proposto molti dei miei prodotti a decine di aziende che non mi hanno mai risposto. La ceramica è l'unico materiale "nobile" che permette la realizzazione di oggetti in serie con investimenti moderati».

A partire dall’alto, Nespresso Cup Cleaner; GAS Hotel Bread&Butter Berlin; Hi-Fido

essermi appassionato all'arte contemporanea Inglese degli anni 90. Nel 2000 in Inghilterra mi sentivo al centro del mondo: la musica, l'arte e l'incontro di persone completamente diverse da me mi dava un energia incredibile, passavo le notti in biblioteca e nei laboratori meccanici e di carpenteria. Il mio consiglio è di provare più esperienze, specialmente all'estero, in scuole con una presenza internazionale e una selezione ferrea all'ingresso e all'uscita dai corsi». Gran parte dei suoi prodotti sono progettati sfruttando le conoscenze di maestranze artigianali di eccellenza. Questo è uno dei tanti approcci alla

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Alcuni suoi oggetti sono "autoprodotti", ovvero non hanno un committente e quindi non hanno un produttore. È lei stesso li produce e li mette in vendita. Visto che questo è un trend che attualmente coinvolge sempre più designer, pensa che questo possa essere un elemento di forte cambiamento nel futuro immediato del design? «Se un designer si autoproduce è perchè non c'è un imprenditore interessato a investire in quell'idea. Da qui due considerazioni: ci sono pochi imprenditori visionari che investono in nuovi progetti; il mercato è saturo di oggetti ed è più ecologico produrne pochi e venderli a caro prezzo».

Nel panorama del design ti si può rappresentare come una delle personalità più effervescenti ed eclettiche. Qual è l'ideale principale che ispira la sua pratica produttiva? «La curiosità di provare o creare qualcosa di nuovo, lavorare con persone simpatiche, ed essere esteticamente appagato da quello che faccio».

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I LUOGHI DEL DESIGN | La Triennale

In apertura, interno della Triennale Design; qui a fianco, Davide Rampello, presidente della Triennale

Spazio ai nuovi talenti e ai protagonisti della creatività «La conoscenza e la creatività sono due modi di sperimentare la vita. Senza la creatività l’uomo non conosce perché questa dote serve a comprendere la realtà, in quanto la interpreta e la modifica». Il reale in evoluzione, secondo il presidente della Triennale Davide Rampello di Renata Gualtieri

Il design trova origine nella cultura latina. La parola design, infatti, deriva da disegno e la cultura latina è l’esempio più alto di progettualità. «Se si pensa agli acquedotti, ai teatri e alla più grande opera di design sociale che è il diritto romano – commenta il presidente della Triennale Davide Rampello – ci si rende conto subito che le sue radici vengono da lì; poi si sono evolute fino ad arrivare alla grandissima stagione del Dopoguerra italiano e al design italiano di oggi, che sviluppa una qualità progettuale e realizzativa unica al mondo». La Triennale contribuisce a far emergere i nuovi protagonisti del design, con un’intera area nel quartiere della Bovisa dedicata alla sperimentazione

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e al Vision Lab, un laboratorio realizzato per ibridare i linguaggi dell’arte, della scienza, della ricerca e della creatività. “Mini & Triennale Creative Set” è una galleria permanente che contribuisce ad arricchire l’offerta del Triennale Design Museum. All’interno della Bovisa esiste poi un padiglione dedicato alla formazione dei bambini. «È questa l’area riservata al design nel senso alto della parola, perché qui veramente si fa ricerca e formazione legata alla cultura della progettualità». Come si inserisce all’interno della Triennale l’idea di un museo “mutevole”? «Il museo mutevole è dinamico, ogni anno cambia

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temi, criteri d’allestimento e curatori. Quando abbiamo pensato di fare il primo museo internazionale del design, ci siamo accorti gli altri musei al mondo che tutti hanno un grande handicap perché sono ancora realizzati e pensati secondo una logica classificatoria: per anno, per autore o per genere. Questo è un grandissimo limite perché toglie all’oggetto la sua vera qualità, il rapporto “sentimentale” che esso ha con l’uomo, cioè tutta la contestualità narrativa, che è la vera forza dell’oggetto il quale, oltre a essere il risultato di una progettualità e una produzione, si riempie di valori simbolici, di rapporti. Il primo anno, i sette registi più importanti d’Italia, da Olmi a Mortone a Soldini, sono

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stati chiamati a rispondere alla domanda “che cosa è il design italiano”, commissionando loro sette temi e il racconto attraverso gli oggetti». Come si intrecciano nel design conoscenza e creatività? «La conoscenza e la creatività sono due modi di conoscere la vita. La conoscenza è un processo costante che l’uomo attua, è un processo cognitivo e la creatività è parte di questo processo. Senza la creatività l’uomo non conosce perché questa dote serve a conoscere la realtà in quanto la interpreta e la modifica. Evidentemente Einstein quando ha avuto l’intuizione della formula della relatività non ha fatto

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I LUOGHI DEL DESIGN | La Triennale

Nella pagina precedente, “Magma fossile” Mini e Creative Set; in questa pagina dall’alto, la mostra “Tra gioco e discarica”; al centro, la mostra “Serie fuori serie”; in basso “Triennale Creative Set”;

I grandi musei del design hanno un grande handicap perché sono tutti ancora realizzati secondo una logica classificatoria per anno, per autore o per genere

altro che creare un processo cognitivo, creativo. Lo stesso vale per Michelangelo che concepisce l’immagine straordinaria del David piuttosto che Castiglioni che disegna l’arco». Dal 27 marzo 2010 al 27 febbraio 2011 il Triennale Design Museum presenterà il nuovo percorso che ha come filo conduttore le storie nascoste negli oggetti del design italiano. Può anticipare qualcosa? «Il titolo dice “Quali oggetti siamo”. Ogni oggetto ha una storia nascosta perché è il frutto di un percorso creativo e ideativo: dall’E.T., il modellino fatto da Rambaldi, alla scodella che serve ai carcerati di

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Bergamo, che è lo stesso modello di un quadro di Casellati esposto in mostra, dagli oggetti utilizzati da Morandi nell’esercizio dei suoi quadri a un abito di Caraceni fatto negli anni 40. Ogni oggetto è la storia di chi l’ha ideato, chi l’ha prodotto e chi lo ha usato perché la realizzazione non finisce nel momento produttivo, ma quando l’uomo lo usa e lo fa diventare cosa». L’ingresso gratuito per il mese di agosto ha incrementato le presenze? «Hanno incrementato moltissimo, in un modo esponenziale e questo vuol dire che il prezzo del biglietto in un momento di crisi pesa sull’economia

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In alto, la mostra “Quali cose siamo”

generale della famiglia che spende 40 o 50 euro QUOTE per venire da noi».

Ogni oggetto è la storia di chi l’ha ideato, prodotto e usato. La realizzazione non finisce nel momento produttivo, ma quando l’uomo lo usa e lo fa diventare cosa 86

Nello spazio “Creative Set”, gestito in collaborazione con Mini, si continua a indagare sul design italiano. Qual è il nuovo design italiano? «La Triennale in questo momento è quella che più di tutti sta facendo emergere i talenti nuovi. Abbiamo cominciato quattro anni fa, commissionando al sociologo Aldo Bonomi una ricerca su tutto il territorio italiano allo scopo di “scoprire” i centri o i singoli casi di creatività. Ne abbiamo censiti oltre 600 e ne abbiamo inseriti 125 nella mostra “New Italia design”. Moltissimi di questi stanno diventando protagonisti nella creatività generale. Creative Set è lo spazio che ci serve ogni mese per far emerger un protagonista. Una volta i grandi maestri erano solo architetti perché non era stata ancora istituita la laurea in design ma, da quando è nata, ha laureato 35.000 studenti. Il design è diventata una professione di massa ma trova un altissimo tasso di occupazione perché oggi non è solo progettazione di oggetti, ma un modo di affrontare la realtà, per cui si sente parlare di economy design e di design applicato anche all’immateriale».

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A sinistra, Antonello Fusetti, direttore della Scuola Politecnica di Design; nella pagina a fianco, Thonet Tomorrow al salone Satellite

Cultura progettuale e orientamento concreto alla formazione «Fare design oggi vuol dire allargare il proprio sguardo anche ad altri settori merceologici». Così Antonello Fusetti, direttore della Scuola Politecnica di Design, che rivela il ruolo dell’istituto milanese, un attore molto importante per lo sviluppo e la promozione della cultura del progetto e del design in Italia e nel mondo, e sottolinea l’orientamento professionalizzante degli studi di Renata Gualtieri

La Scuola Politecnica di Design è la più antica istituzione formativa italiana nel settore, nasce nel 1954, un anno importante perché vengono alla luce il premio Compasso d’Oro, la rivista Stile Industria e la decima Triennale di Milano viene dedicata al design. È considerata la prima scuola di design in Italia, ha svolto un ruolo importante e continua a svolgerlo; infatti, le materie e i piani di studio che sono stati creati da Di Salvatore, il fondatore della Scuola, hanno fatto da base a molte altre realtà non solo italiane ma di tutto il mondo. «In tutti questi anni – sottolinea Antonello Fusetti, direttore dell’istituto milanese – la scuola ha sempre avuto studenti da tutto il mondo e docenti di grande fama come Giorgio

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Monari, Gio Ponti, Max Huber e ancora oggi cerchiamo di avere i docenti più interessanti nel panorama nazionale e internazionale». A testimoniare l’elevato grado di internazionalità è il fatto che ogni anno l’80% degli studenti è costituito da stranieri che arrivano da ben 50 Paesi diversi e il 10% di docenti non sono italiani. Alla base della didattica c’è un mix ideale tra cultura progettuale e orientamento concreto alla formazione. Con quali strumenti avviene ciò? «Questa è proprio una delle caratteristiche della Scuola sin da quando è nata, il fondatore del programma di studi ha delineato un giusto mix tra

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materie progettuali, pratiche e teoriche, come storia del design, semiotica, percezione, scienza della visione. Si è data sempre molta importanza all’aspetto percettivo della visione e anche di tutti i vari sensi che interagiscono quando si parla di prodotto o con un artefatto visivo quando parliamo di comunicazione visiva. Materie come modellistica e disegno a mano sono da sempre patrimonio della scuola e oggi, grazie alla presenza di laboratori informatici aggiornatissimi, è stato inserito nel nostro programma di studi anche il disegno con il computer, attraverso il 3D. Il nostro è un istituto unicamente di master post laurea, da qui dunque deriva l’esigenza di un orientamento molto

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professionalizzante. Durante l’anno infatti gli studenti svolgono dei laboratori di progettazione in cui vengono sviluppati i progetti dati come brief dagli studi o dalle aziende». Quanto è difficile per un giovane entrare nel mondo del design? «Il mondo del design è molto vasto per cui ci sono diversi gradi di difficoltà in base anche alle esigenze del mercato. Il settore più competitivo al mondo è quello del car design, al di là della crisi del settore auto, dove veramente ci sono pochissimi posti e bisogna avere un grandissimo talento. Non è facile trovare spazio neppure nel settore dell’industrial

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design. C’è troppa gente che sceglie di percorrere questa strada ma per fare questo mestiere, oltre a un’ottima formazione, è importante che gli studenti abbiano una grandissima cultura che deriva dalle loro esperienze educative e sociali; infine, è indispensabile l’aspetto multidisciplinare. Oggi, ad esempio, per disegnare un’auto o un oggetto bisogna conoscere molto bene l’arte contemporanea, le tecnologie digitali, l’architettura, la moda». Qual è il rapporto delle aziende di design italiane e la Scuola Politecnica di Design? «Proprio per il fatto di essere una scuola di master sviluppiamo all’interno dei nostri percorsi formativi

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stage che vanno da uno a cinque o sei mesi. Il rapporto con le aziende e le loro problematiche è patrimonio della nostra didattica in quanto dobbiamo insegnare ai nostri studenti come si lavora in un’azienda o in un istituto professionale. Collaboriamo con aziende italiane ma anche con realtà tedesche come Adidas, Nivea e il Gruppo Volkswagen. Questo dimostra che anche per aziende di altri settori il design è uno strumento per raggiungere il proprio vantaggio competitivo, pensiamo al campo dell’alimentare, dell’informatica, dell’accessoristica per la moda, delle energie rinnovabili e l’eco design. Fare design oggi vuol dire allargare il proprio sguardo anche ad altri settori merceologici».

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I LUOGHI DEL DESIGN | Scuola Politecnica di Design

Nella pagina a fianco, uno dei modelli Lamborghini realizzato in occasione dello scorso master in Car design; in questa pagina, dall’alto, studenti e docenti del corso di Car design della Scuola Politecnica di Design; il taxi realizzato con Volkswagen per Milano Mobility; un progetto di industrial design realizzato per Ignis, Hafstein paisteles, Erreira

Se Volkswagen ha deciso di venire a Milano è perchè crede nella città, nella formazione e nella ricerca italiana

È stato siglato un accordo per i prossimi 5 anni dal Gruppo Volkswagen, il Politecnico e la Scuola Politecnica di Design riguardante “Milano Mobility” per la mobilità sostenibile del futuro in un’area metropolitana. Quanto il design anticipa i tempi con progetti come questo? «È uno dei più importanti accordi mai fatti nel settore del design. Noi però già collaboriamo con il Gruppo Volkswagen da alcuni anni, perchè abbiamo lavorato per i brand Audi e Lamborghini. L’accordo citato è importante non solo per la Scuola, ma anche per l’intero comune di Milano e l’Italia perché sancisce il rapporto tra una delle aziende più potenti nel settore dell’auto e la scuola italiana. Se Volkswagen ha

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In alto, il divano Mr Hyde, realizzato dagli studenti della Scuola Politecnica di Design in collaborazione con Serralunga

deciso di venire a Milano è perchè crede nella città, nella formazione e nella ricerca italiana; per cui questo progetto ha un valore che va al di là di un aspetto prettamente legato alla nostra scuola, ma riguarda anche tutto il mondo della ricerca milanese e italiana. L’accordo prevede, da parte degli studenti del master in Car design, lo sviluppo di veicoli sostenibili, con alto valore ecologico per la mobilità di Milano. Il design per antonomasia deve sempre cercare di innovare e guardare al futuro e certamente bisogna riuscire a proporre qualcosa di interessante al momento giusto. Proprio il settore del car design è orientato al futuro perché mette in primo piano delle cose che verranno sviluppate in automobili nel 2015

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si stanno delineando ora». Quali sono le nuove tendenze del design e verso quali direzioni si stanno orientando? «Una delle ultime tendenze è quella della sostenibilità, per cui il design di prodotto come quello dei servizi e dei trasporti deve fare i conti con la sostenibilità ambientale, economica e sociale, vale per l’eco design e il design dei servizi. Dall’incrocio tra metodo progettuale e quello manageriale possono nascere delle cose molto interessanti. Da tenere sott’occhio sono, inoltre, il settore dedicato all’incrocio tra design e urbanistica e il design degli spazi esterni».

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Foto di Jose van Riele


LA SCUOLA DI EINDHOVEN | Anne Mieke Eggenkamp

A fianco, Anne Mieke Eggenkamp, presidente del comitato esecutivo della Design Accademy di Eindhoven ; in apertura, il progetto Cultural Roots di Gionata Gatto ;

La fabbrica dei designer del futuro Una delle scuole più importanti d’Europa per quanto riguarda il design è l’accademia di Eindhoven. Un luogo in cui, come spiega Anne Mieke Eggenkamp, non si sviluppa solo una formazione professionale ma anche una crescita personale di Nicolò Mulas Marcello

Semplicità, chiarezza e austerità sono i segni distintivi del design olandese, che trova la propria caratteristica espressione nel lavoro di giovani artisti provenienti dalla famosa Accademia del design di Eindhoven. Il ruolo della scuola è quello di crescere persone in grado di sfidare le nuove frontiere del design, senza però dimenticarsi di migliorare anche come esseri umani. Anne Mieke Eggenkamp, presidente del comitato esecutivo dell’accademia, non ha dubbi: «I nostri studenti saranno i timonieri dei cambiamenti futuri. Devono essere capaci di porsi le domande giuste, per trovare le risposte giuste». Alla base della formazione dei giovani designer c’è un discorso affascinante che è quello

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che mette a confronto lo studente con le proprie fragilità e contraddizioni. Tutto passa attraverso una riflessione sul mondo di oggi, con i miti del consumismo ormai a pezzi e con un occhio particolare al problema ecologico, alle ricadute dell’economia sulla vita di tutti i giorni e alla conseguente rivalutazione dello spazio domestico e privato. L’accademia sorprende sempre per la forza contemporanea dei suoi progetti e forma ogni anno una notevole quantità di talentuosi designer. Molte le tematiche sociali e ambientali trattate nei master e nei corsi a partire da riflessioni umanistiche e da esplorazioni nelle tecnologie più avanzate. Dai numerosi ed interessanti progetti che vengono

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Quali sono gli obiettivi che la scuola vuole raggiungere nell’educazione dei giovani designer? «Il nostro obiettivo è quello di educare i designer a rispondere alle domande che il mondo gli pone. È perciò importante insegnare non solo l’aspetto pratico del design, ma anche quello teorico e sottolineare argomenti come storia dell’arte, filosofia

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Foto di Lisa Klappe

Foto di Lisa Klappe

presentati a fine anno dai diplomati si evince la particolare attenzione all’aspetto emozionale delle creazioni e allo spiccato senso estetico delle idee. Arte e design si compenetrano con la cultura attraverso uno sguardo sempre attento all’innovazione e all’originalità.

e sostenibilità. Vogliamo educare gli studenti a essere critici verso il proprio lavoro e allo stesso tempo essere critici verso le domande poste dalla società attuale». Qual è la relazione tra design e arte? «Riteniamo che entrambi, design e arte, siano connessi alla cultura, ma invece di una relazione vediamo una differenza. L’artista è libero di pensare e dare forma alla sua creazione. Il designer deve invece sempre ricercare una risposta. Alle volte è una richiesta che proviene dall’industria, altre volte invece è la necessità di rispondere a una esigenza personale».

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Foto di Rene van der Hulst

Foto di Rene van der Hulst

Foto di Mathilde Alders

LA SCUOLA DI EINDHOVEN | Anne Mieke Eggenkamp

Come è cambiata l’educazione dei designer attraverso gli anni? «Nel passato la Design Academy di Eindhoven era dotata del consueto programma con classi inerenti il tessile, la grafica e l’interior design. Nel 1998 cambiammo il piano di studi. Al posto di quella struttura introducemmo otto dipartimenti basati sulle esigenze quotidiane dell’uomo moderno. Creammo perciò dipartimenti chiamati “L’Uomo e lo spazio pubblico”, “L’Uomo e il benessere”, “L’Uomo e la vita”, “L’Uomo e la mobilità”. Attraverso questa struttura i risultati degli studenti divennero innovativi e sorprendenti».

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È importante insegnare non solo l’aspetto pratico del design ma anche quello teorico e sottolineare argomenti come storia dell’arte, filosofia e sostenibilità

Nella pagina precedente, a sinistra, il progetto Tafeltonen di Wilco Spruijt; a destra, il progetto Een menselijke maat (a human measure) di Digna Kosse; in questa pagina dall’alto, You’re invited di Mathilde Alders; Moulding Tradition di Andrea Trimarchi & Simone Farresin; Shaping oral knowledge di Jihyun Ryou

Con quale tipo di disciplina si integra il lavoro del designer? «Non vediamo una vera e propria integrazione tra design e scienza. Però è interessante sia per il designer che per lo scienziato o ricercatore creare una collaborazione. Entrambi hanno un’attitudine e un approccio diverso. I designer sono mossi da emozioni mentre gli scienziati sono mossi dalla razionalità. Riteniamo che entrambe queste correnti debbano fare la conoscenza altrui e imparare ad apprezzare i benefici della collaborazione. In Olanda la Design Academy di Eindhoven inizierà tra breve una serie di progetti con tre importanti università, cosi da facilitare gli scambi e la collaborazione tra design e scienza».

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Dalla discarica alla vetrina virtuale Matrec è il primo portale italiano sull’ecodesign. Dal 2002 raccoglie esperienze e nuove tendenze. La testimonianza del suo fondatore, Marco Capellini: «Materiali sempre più competitivi, ma occorre superare la fase di maturità. In arrivo leggi contro le “pennellate verdi”» di Riccardo Casini

Il connubio tra design e sostenibilità costituisce da tempo uno stimolo per architetti e progettisti di tutto il mondo, ma se questa filosofia oggi si sta diffondendo in Italia il merito va sicuramente anche a Matrec, la prima banca dati sull’ecodesign sorta nel nostro Paese. Nata nel 2002 da un’idea dell’architetto Marco Capellini, Matrec si è subito imposta all’attenzione degli addetti ai lavori e non solo. Capellini, da tempo impegnato nel settore con il suo studio professionale, ha portato la sua esperienza in questo portale, che oggi si è espanso dal mondo virtuale a quello reale. Diventando, da semplice database, un vero e proprio centro ricerche che fornisce assistenza alle imprese interessate a sviluppare progetti nel campo del design sostenibile. «Matrec – spiega Capellini – è nato per diffondere informazioni sull’utilizzo dei materiali riciclabili e sui relativi prodotti, e per farli conoscere al mondo

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ECODESIGN | Marco Capellini

A sinistra Marco Capellini; in alto, oggetti del marchio “Remade in Italy”

dell’impresa, del design e dell’architettura. Negli anni Matrec è cresciuto, ottenendo un grande riscontro che ha portato nel 2006 all’apertura di centri (a Milano e in seguito a Udine e Ascoli Piceno) per far vedere, toccare, e perfino annusare, questi materiali. Matrec è ovviamente in continuo e costante aggiornamento e supporta molte imprese, circa 15-20 ogni anno, nella scelta dei materiali per i propri scopi». Quali tipi di aziende si rivolgono a Matrec? «Grandi, ma anche medie e piccole, tutte realtà che ci chiedono di collaborare nello sviluppo di prodotti e nuovi materiali. Il fatto curioso è che magari spesso queste aziende non avevano mai preso in considerazione nuovi materiali, che poi si rivelano di successo. Otteniamo riscontri interessanti proponendo nel design materiali

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presi dal mondo dell’edilizia, come gomma, vetro soffiato o carta pressata, o anche semplicemente accoppiandoli in modo diverso, creando cioè nuovi conglomerati di materiali diversi. Vogliamo offrire la nostra professionalità alle imprese, e per questo è necessario un continuo monitoraggio della situazione internazionale». Cosa emerge da questo monitoraggio? Quali sono oggi i materiali di riciclo più utilizzati? «È difficile stilare una classifica, i materiali impiegati sono molti. Ma la ricerca ha permesso di raggiungere livelli qualitativi sempre più alti. Oggi i materiali di riciclo sono estremamente competitivi rispetto a quelli vergini, spesso scelti più per le loro proprietà o caratteristiche estetiche che non per l’effettiva sostenibilità, e per questo non vengono più considerati di serie B. Le cose sono

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decisamente cambiate rispetto a qualche anno fa, e senza saperlo ci troviamo a convivere in casa o in ufficio con molti prodotti di riciclo che a livello di estetica o design non hanno nulla da invidiare agli omologhi vergini. È insomma un mondo in continuo divenire: la nuova frontiera è rappresentata dall’utilizzo di fibre naturali dai rifiuti alimentari o di altro tipo. Si passa insomma dalla discarica alla valorizzazione». Qual è allora il ruolo dell’ecodesign oggi? Che obiettivi si pone? «La tematica ha senza dubbio raggiunto una fase di maturità, ma bisogna andare oltre. Da una parte fortunatamente sono nati provvedimenti che stanno regolando il mercato, obbligando i produttori a usare materiali con componenti ambientali; dall’altra parte la questione resta viva, con imprese che fingono solamente di effettuare operazioni di carattere ambientale, in realtà gonfiate ad arte per falsare il mercato. Ma queste hanno vita breve, grazie a ulteriori regolamentazioni in arrivo che consentiranno un controllo più specifico sui materiali. In questo senso va anche la certificazione “Remade in Italy”, proposta dalla nostra associazione per i prodotti italiani realizzati con materiale riciclato, nonché l’unica a indicare anche le mancate emissioni di Co2». Quali differenze sono riscontrabili tra Italia ed estero in termini di sensibilità nei confronti del tema della sostenibilità?

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«Molti pensano che il nostro Paese sia arretrato in questo ambito, ma si tratta di un mito da sfatare: abbiamo eccellenze che fanno scuola di design a livello mondiale. Certo, vi sono aziende che perseguono questa linea in maniera seria e altre che tentano di cavarsela con una cosiddetta “pennellata verde”, ma questo accade ovunque, non solo in Italia. Anzi, il nostro tessuto produttivo è caratterizzato da una miriade di piccole e medie imprese che vanno aiutate di più». Per i grandi marchi invece l’utilizzo di materiali di riciclo sembra essere ristretto soprattutto al packaging. È possibile prevederne un impiego che vada oltre questo aspetto del prodotto? «In realtà alcuni grandi gruppi hanno già applicato strategie ecosostenibili all’interno dei prodotti, anche perché si sentono obbligati dal mercato. Ma è difficile trasformare una produzione industriale da un giorno all’altro: intervenire sull’imballaggio è piuttosto semplice, più difficile è farlo sul prodotto. Anche l’abbandono forzato a partire dal 2011 delle buste in plastica, i cosiddetti shopper, costituisce un tema interessante. Alcune catene della grande distribuzione si sono già attivate alla ricerca di soluzioni alternative, gli ecodesigner possono intervenire a livello progettuale, ma deve essere il consumatore a tornare nell’ottica di utilizzare borse multiuso, modificando le sue abitudini. Più che sulla busta, l’ecodesign dovrà avere un ruolo nell’aspetto successivo, ovvero negli imballaggi che la busta conterrà».

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Eco glam: il design in un mondo di carta Gli oggetti e i materiali che ci circondano ogni giorno sono un’inesauribile fonte di ispirazione. Per Debbie Wijskamp esplorare i confini dei nuovi e vecchi composti costituisce un’ opportunità per creare mobili e articoli per interni di Nicolò Mulas Marcello

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In apertura, alcuni articoli per la casa della collezione Paperpulp; in basso, a sinistra, Debbie Wijskamp

La giovane designer olandese Debbie Wijskamp ha scelto una materiale insolito per costruire articoli per la casa e mobili dagli elementi impilabili: la cartapesta. Un materiale di recupero che, come sostiene lei stessa, offre una straordinaria versatilità. Quando ha capito di voler diventare una designer? «Quando ero una bambina disegnavo sempre e costruivo oggetti con la carta, con scatole vuote, corde e mattoncini Lego. Inoltre, decoravo costantemente la mia camera. Dopo il liceo ho fatto un corso chiamato “Shop and display design and styling” ma per me non era abbastanza, volevo di più e così ho inniziato a disegnare e costruire i miei

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prodotti, specialmente oggetti per la casa. Successivamente ho iniziato a studiare Procuct Design all’ ArtEZ, l’Istituto delle Arti ad Arnhem in Olanda. Qui ho sviluppato la mia passione per gli interni e ho cominciato a disegnare nuovi prodotti. Dopo essermi diplomata nel luglio del 2009 ho allestito il mio studio di design dove lavoro alle mie collezioni che generalmente auto produco». Come è nata l’idea di usare carta pesta per le sue produzioni? «Avevo sperimentato l’uso della carta già da tempo. È un materiale molto versatile con cui lavorare. Volevo fare prodotti per la mia casa con i materiali da riciclo

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ECODESIGN | Debbie Wijskamp

In queste pagine, alcuni mobili della collezione Paperpulp

che avevo. Scegliere i materiali autonomamente dà una grande libertà e mi offre la possibilità di produrre ciò che mi piace». Trova ispirazione in qualche cultura in particolare? «Non c’è una cultura in particolare, ma le mie creazioni ricordano molto le case dei nativi americani di Taos Pueblo. Questo popolo usava blocchi di fango per costruire le proprie case». Cosa pensa dell’eco glam. È una definizione appropriata per la sua arte? «Anche se non riesco a inquadrarmi ancora in una categoria, credo che la definizione “eco glam” sia giusta per il mio stile. Non mi vedo propriamente come una eco designer, ma al momento l’ecologia è per me un argomento molto importante a cui pensare, dato che i miei oggetti sono vicini al tema

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dell’ambiente e abbracciano tutti i prodotti di massa e materiali di scarto». Qual è l’idea che c’è alla base dei suoi lavori? «Per la mia collezione “Paperpulp”, composta da armadi e vasellame fatti di carta da riciclo, volevo creare un mio personale materiale da costruzione che prevedesse il riutilizzo della carta straccia come materiale. Oltretutto, la carta è versatile e offre molte possibili applicazioni. In contrasto con i mobili, i miei prodotti da tavola “Paperpulp” sono oggetti di arredamento molto fragili. Il colore dei vasi dipende dalla quantità di inchiostro utilizzata nei giornali riciclati e rende ogni pezzo unico. Durante l’esperimento Paperpulp ho scoperto che questo modo di lavorare mi il controllo totale del processo di progettazione, dalla produzione all’oggetto finito. Tutto ciò mi offre la libertà di creare il mio “mondo personale”».

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ECODESIGN | Shiro Inoue

Tra cognizione e sostenibilità Shiro Inoue, giovane designer trasferitosi dal Giappone a Eindhoven, parla dei suoi progetti e dell’Italia: «Qui il design cerca di migliorare la realtà circostante. Ma le vostre opere ci fanno apprezzare la bellezza della vita» di Riccardo Casini

A cavallo tra arte e design, i progetti di Shiro Inoue, 28enne giapponese da qualche anno trapiantato a Eindhoven, sono accomunati da due caratteristiche: da una parte l’interessamento per i processi cognitivi dell’essere umano, dall’altra l’attenzione al tema dell’ecosostenibilità. Elementi che traspaiono chiaramente non appena si inizia a parlare del suo lavoro. «Alcuni – spiega – dicono che il design serve a risolvere problemi, io invece credo che progettare significhi trovare domande: per questo spesso non sono interessato alle intenzioni che muovono i progettisti. In altre parole, per me il design è soprattutto l’attività di pensare alla raison d’etre. E in questo c’è una completa identificazione con l’attitudine del cosiddetto mondo In apertura, il progetto Acceptance sul tema del riconoscimento ed espressione degli oggetti; in alto a destra, Shiro Inoue

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L’ecodesign è il modo in cui riusciamo ad attuare nuove prospettive partendo dagli oggetti che ci circondano e dalle nostre abilità In queste pagine, alcune immagini del progetto Alternative memory. Inoue indaga la memoria di un luogo riproducendo su di un chewing-gum la mappa topografica della zona di Prali (To), località nota per la produzione di talco, un materiale utilizzato, tra le altre cose, proprio per la superficie delle gomme da masticare

oggi l’ecodesign? «È difficile dare una risposta, dal momento che i nostri interessi e desideri, così come la definizione di felicità, cambiano continuamente. Domande, e di conseguenza obiettivi, cambiano sempre in funzione della situazione del momento».

dell’arte: sono in fondo entrambi mezzi di espressione nati per mettere in contatto i pensieri e il cuore delle persone con nuove idee». Qual è l’importanza dell’ecodesign nella società contemporanea? «La sua importanza consiste nel ripensare a ciò che abbiamo già. L’ecodesign è il modo in cui riusciamo ad attuare nuove prospettive partendo dagli oggetti che ci circondano e dalle nostre abilità. Se il design rappresenta la creazione di un valore prima sconosciuto, il ruolo dell’ecodesigner è essenzialmente quello di pensare e costruire partendo dal giudizio umano. Un materiale resta un semplice materiale quando sta di fronte a noi: il giudizio umano è la base per un suo corretto impiego, oltre che il modo per ripensare alla sua produzione, consumo e post-consumo». Quali sono gli obiettivi e le sfide a cui è chiamato

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Molti ecodesigner vivono e lavorano a Eindhoven. Cosa vi offre in particolare questa città? «Non so, di certo sento che qui si stanno cercando di scoprire prospettive alternative nel design per migliorare la realtà circostante. I problemi ambientali costituiscono un tema di grande importanza, a volte però è difficile percepirne l’essenza nonostante a livello informativo sappiamo quel che sta succedendo nel mondo e come sia necessario comportarsi per ottenerne uno migliore. La nostra è una società paradossale: basti pensare a come, magari dopo aver visto un programma televisivo sul pericolo di esaurimento delle risorse naturali della Terra, il nostro desiderio sia attratto dalla pubblicità di prodotti seducenti. Penso che l’attività dei giovani designer a Eindhoven punti, attraverso questo mezzo espressivo, alla ricerca di una sorta di “terreno comune” tra i problemi ambientali e la nostra realtà personale». Da dove nasce invece la tua attenzione ai materiali di recupero? «Il mio interesse nasce dalla scoperta della bellezza di questi materiali a livello di potenziale e di efficienza in rapporto al minore impatto. Detto da un designer potrebbe sembrare stupido, ma credo che il risultato di un progetto non appassioni mai il cuore della gente a meno che non possieda una bellezza interiore. E se il nostro cuore non si appassiona, alla fine quel risultato non appassionerà mai. Per questo motivo, quando guardo ai materiali di riciclo, cerco di considerarli senza nessun tipo di informazione allegata, in modo da averne una comprensione pura».

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ECODESIGN | Shiro Inoue

Ma quali si prestano maggiormente ad applicazioni utilizzabili? «Credo che gli ecomateriali non debbano sempre per forza essere individuati tra quelli che abitualmente chiamiamo in quel modo. Tutto dipende da come la nostra capacità di immaginare possibilità sia innescata dai materiali stessi. Personalmente credo che anche solo un piccolo sasso che ci sta di fronte possa essere un oggetto utilizzabile. Si tratta di ridefinire il senso del valore a un livello personale, e questa è una delle abilità più geniali dell’uomo». Il progetto “Alternative memory” riproduce su un

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chewing gum la topografia della zona di Prali, vicino a Torino. Qual è il tuo rapporto con l’Italia e il suo design? «In quell’occasione avevo partecipato a un workshop chiamato “Eco e Narciso” in qualità di rappresentante dell’Accademia di design di Eindhoven. Del design italiano mi interessa particolarmente la coesistenza tra la componente intellettiva e quella sperimentale. Oggi però avverto una sorta di “depressione” da parte dei giovani designer italiani che incontro: tutti dicono che da voi è abbastanza difficile sopravvivere, e per questo stanno cercando un lavoro in un altro paese. Peccato, perché è grazie all’atteggiamento positivo che sta dietro molte grandi opere italiane che la gente di tutto il mondo si rende conto di quanto sia sempre splendida la vita».

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Nuova vita all’alluminio verso un mondo di classe A Alulife è una superficie innovativa che permette il riutilizzo infinito di un materiale sempre considerato grigio e freddo. Il suo proprietario, Massimiliano Uzzo, spiega come favorire l’incontro tra design e sostenibilità ambientale di Riccardo Casini


In queste pagine, alcune applicazioni di Alulife; sopra, l’Anthology Restaurant a San Francisco; sotto, Joy - Villa Olmo a Como; nella pagina a fianco, la Commercial Bank of Qatar

Abbandonare l’idea dell’alluminio come materiale freddo e sobrio, per non dire neutro. Valorizzarlo, dargli nuovi colori. E renderlo eterno. Parte da qui l’esperienza di Alulife, una superficie innovativa nata da un ciclo di lavorazione e ossidazione anodica sviluppato in collaborazione con ricercatori universitari, e che vuole donare nuova vita e luce all’alluminio. «Il nome stesso – spiega Massimiliano Uzzo, proprietario di Alulife – vuole identificare un prodotto con una texture nuova. L’aspetto è diverso ma le caratteristiche sono quelle dell’alluminio: leggero, resistente, sicuro, lavabile, ignifugo e soprattutto riciclabile». È quest’ultimo aspetto a risultare particolarmente interessante: Alulife, brevettato dopo un’esperienza di oltre 40 anni nel mondo dell’alluminio, garantisce a questo materiale un riutilizzo praticamente eterno per le più svariate applicazioni, come pavimenti e rivestimenti per interni ed esterni. Non una semplice piastrella, ma una superficie poliedrica, che negli anni ha arredato hotel, abitazioni e padiglioni espositivi, ma

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A sinistra, un interno del Dominican Hotel a Bruxelles; a destra, lo showroom Alulife a Milano

anche la sala vip dello stadio Olimpico di Roma. «Lavoriamo indifferentemente – prosegue Uzzo – per clienti privati e pubblici. Senza dimenticare il design: molte aziende ci richiedono il materiale, anche finito, per realizzare i loro prodotti, che vanno dall’arredo ai punti luce. Da poco poi siamo entrati nella nautica, un settore di nicchia ma sempre alla ricerca di nuovi materiali, e nella gioielleria, che può sfruttare i giochi di luce molto eleganti di Alulife. Ma la completa riciclabilità è un vantaggio anche nel caso di utilizzi temporanei come allestimenti fieristici o showroom. Spesso è stato utilizzato anche per ricoprire pavimenti esistenti. E se il richiedente dopo qualche tempo lo ha voluto cambiare, noi lo abbiamo riacquistato». Un ciclo potenzialmente infinito, dunque, che unito alla facilità di trasporto e posa, ha reso Alulife un prodotto richiesto anche a livello internazionale. Rivolto indubbiamente a un target medio-alto, porta in ambienti prestigiosi la filosofia del riciclo pre e postconsumo, decisamente cara a Uzzo. «La riflessione

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È necessario trasmettere il messaggio che l’accostamento tra design e sostenibilità ambientale non comporta forzatamente costi maggiori o minore convenienza sull’ecosostenibilità si è resa da tempo necessaria a livello mondiale, purtroppo l’Italia è ancora tra gli ultimi paesi in questo campo. Manca un’ottica a lungo termine, i vantaggi vanno visti anche in funzione delle future generazioni. Ma prima ancora dei clienti devono essere gli stessi produttori, così come gli architetti e i progettisti, a coglierne i punti di forza e a comunicarli agli utenti. Sarebbe bello essere circondati da elementi di classe A, ma per arrivarci è necessario trasmettere il messaggio che l’accostamento tra design e sostenibilità ambientale non comporta forzatamente costi maggiori o minore convenienza».

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Dal legno e dal cartone i moduli per un ambiente sostenibile Da qualche anno lo studio di Giorgio Caporaso propone linee di arredo con materiali di riciclo, caratterizzate dall’adattabilità ai più svariati contesti: «Penso a oggetti che ci seguano per tutta la vita, in un gioco continuo» di Riccardo Casini Con il progetto “More” nel 2008 ha vinto il primo premio del concorso “Tomorrow’s design philosophy: match-making matching tradition with change, cultural heritage with global interface”, indetto in occasione di “100% Design Futures” a Londra. La storia di Giorgio Caporaso inizia però già nel 1997, con l’apertura dell’omonimo studio a Varese. Dal 2007 inizia la sperimentazione di una linea di prodotti di arredo rispondenti anche ai criteri del design sostenibile e dell’ecodesign, sviluppandone ricerca estetica e accoppiamenti

inediti di materiali con soluzioni semplici e intercambiabili. Da “Mattoni” a “More” la scelta, oltre che sul possibile impiego di materiali di riciclo, punta anche sul concetto di modularità che, secondo Caporaso, «consente di creare arredi di forme, dimensioni e utilizzo diverso in contesti differenti a partire da pochi pezzi base facilmente assemblabili». Il concetto di modularità, in questo senso, è connesso strettamente a quello di trasformabilità. «Mi piace pensare a sistemi di


arredo che mutano nel tempo, plasmandosi alle esigenze di cambiamento dei loro proprietari. Progettare per elementi modulari poi ci consente di coniugare l’aspetto estetico con la possibilità di garantire la facilità di manutenzione e prolungare la vita di un oggetto. In caso di danneggiamento non sono costretto a rottamare il prodotto, ma posso sostituire un singolo pezzo. Inoltre al termine del ciclo di vita del prodotto tutti i materiali sono facilmente separabili, consentendo lo smaltimento differenziato dei componenti». Quelli di Caporaso sono prodotti rivolti indifferentemente all’ambiente domestico, ai luoghi di lavoro e agli spazi per il tempo libero. Come “X2 Chair”, realizzabile in legno o cartone riciclato. «Ma stiamo pensando anche ad altri materiali – anticipa Caporaso –. Potenzialmente se ne possono utilizzare molteplici, anche quelli più

Il designer deve poter essere coinvolto in tutto il ciclo di vita di un prodotto, dall’ideazione alla distribuzione, fino alla sua dismissione impensati di utilizzo industriale, a patto ovviamente che non siano tossici o inquinanti. Mi affascina tentare di valorizzare il materiale attraverso la ricerca di una forma che ne enfatizzi le caratteristiche, magari anche attraverso accoppiamenti inediti con altri materiali. Il cartone è sempre stato considerato povero e destinato agli imballaggi per il trasporto, ma abbina resistenza, leggerezza e trasportabilità. Il legno invece è il materiale più tradizionalmente legato al concetto di ecologia e all’immaginario di una casa calda e confortevole».


ECODESIGN | Giorgio Caporaso

In apertura, X2 Chair, sedia modulare in cartone o legno riciclato; il prototipo di Mattoni, biblioteca in moduli di cartone riciclato; sopra a sinistra, More, sistema d'arredo modulare multifunzione in cartone riciclato; a destra e nella pagina a fianco, altre due possibili applicazioni di Mattoni

Con questi lavori Caporaso persegue un’ottica di sviluppo sostenibile e di riduzione dell’uso di risorse e di materiali di scarto, «il cui smaltimento – spiega – sta diventando sempre più difficoltoso e oneroso in termini sociali. Penso che l’utilizzo di materiali di recupero nel design, oltre che contribuire concretamente a un progetto ecologico di salvaguardia del pianeta, abbia anche un valore di sensibilizzazione nei confronti del consumatore, facendolo riflettere sulla necessità di preservare le risorse». In tutto questo, secondo Caporaso, il designer deve assumere un ruolo di primo piano, «venendo coinvolto in tutto il ciclo di vita di un prodotto:

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dall’ideazione alla filiera industriale, alla distribuzione, al suo utilizzo fino alla dismissione del prodotto stesso, attraverso la scelta di forme e funzioni che ne ottimizzino al meglio l’utilizzo e la durata, ma anche lo smaltimento al termine del suo ciclo di vita. Fondamentale è anche pensare oggetti che possano durare nel tempo, sia in termini di facile manutenzione che di riutilizzo e trasformabilità degli stessi in risposta al modificarsi degli stili di vita delle persone. Penso a oggetti che seguono la vita della persona, cambiano casa e si adattano a nuovi spazi, e che si prestano a essere trasformati in qualcosa di nuovo, che crescono con noi in un continuo gioco».

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Narrazioni lagunari A metĂ strada tra caffetteria e spazio espositivo, la sala di CĂ Giustinian accoglie il lavoro permanente di Mario Nanni. Che, attraverso un racconto di luce, riporta al centro delle Biennale un nuovo modo di fruire i luoghi pubblici di Paola Maruzzi

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RESTYLING | Mario Nanni

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Il mio compito è raccontare il luogo in cui il progetto è calato, educare lo spettatore a vederlo sotto un altro punto di vista. In continuo divenire, come gli spazi cittadini

Contaminare la rigidità dei luoghi istituzionali con rituali quotidiani. Aprirli al pubblico, alla casualità degli incontri e al succedersi di eventi culturali e mondani. Questo è lo spirito che ha animato il restyling degli ambienti della Biennale. A Mario Nanni è toccato il compito di ideare la caffetteriasalotto L’ombra del Leone, le cui sale sono collocate al piano terra di Cà Giustinian, sede storica degli uffici della Fondazione. Il progettista lo ha fatto animando la parete di immagini e giochi di luce. Mentre si alternano avventori e consumazioni, il muro si fa altro da sé. Diventa vera e propria superficie narrante. «È un lavoro fatto su misura, che ha tutto il sapore delle opere delle botteghe artigiane

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di un tempo, in cui l’arte era innanzitutto opera», spiega Nanni, che tiene a cuore una poetica del fare. Ma quali sono gli elementi che compongono il racconto? «Ho usato dei frammenti di manifesti della storia della Biennale come texture. Questi disegni, la linea dell’orizzonte, il volo dei gabbiani, il filo del territorio, l’ombra del leone di San Marco, la gondola, la porta, lo specchio e il campanile sono i protagonisti che accompagnano i visitatori nel loro percorso. Il primo è il leone, simbolo per eccellenza veneziano. L’animale sale dalla linea dell’orizzonte per incrociarsi con la sua sagoma tridimensionale che emerge dalla parete. Da questo incontro nasce l’ombra che si muove come sotto al sole, dilatandosi e

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RESTYLING | Mario Nanni

In apertura, “La parete narrante” della caffetteria L’ombra del Leone; sopra, una veduta dalla terrazza di Cà Giustinian che si affaccia sul Canal Grande; sotto, il progettista Mario Nanni

comprimendosi fino a diventare solo una traccia, il segno del suo passaggio. Gli elementi del progetto di luce avvolgono le pareti per poi sfondarle, dando al salotto-caffetteria una scenografia sempre diversa. Suggestiva ma costante. Mutevole ma presente. La mia “poesia di luce” si traduce in un lavoro permanente in cui la luce diventa la protagonista della comunicazione emotiva e descrittiva. Ho pensato all’illuminazione come a un intervento architettonico che si integrasse con ante, tagli e specchi per definire in un unico gesto lo spazio. Un filo che si srotola sulle superfici e le apre trasformandole in volumi dagli orizzonti infiniti». Nella messa in scena di Nanni gli avventori del locale sono direttamente chiamati a

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partecipare. Infatti, «sono proprio le persone a dare il via alla trama. O meglio lo fanno attraverso i passi, le sagome riflesse tra specchi e acqua, attraverso il moto come il tratto del tempo che passa lungo l’orizzonte. È il nuovo racconto di Cà Giustinian, che ricomincia da dove si era sospeso. Dalle albe e i tramonti, con i suoi tetti e campanili colti da Turner, dalla sua sequenza del Canal Grande con luci, palazzi, ponti e chiese che scorrono nei fogli tra acquerelli e bozzetti, tra oli e idee di luce. La leggerezza pervade queste immagini e la leggerezza è l’espressione della luce che dipinge le pareti della Sala degli Specchi». D’altronde Venezia è per antonomasia una città esposta. Alla laguna, ai riflettori, al susseguirsi di

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eventi culturali, all’andirivieni di persone. C’è tutto un corollario di simboli urbani che formano un crocevia di sguardi e rappresentazioni. La parete narrante di Mario Nanni in qualche modo catalizza e reinterpreta ciò che proviene da fuori. Infatti, per lui fare design significa affacciarsi sul mondo. «Il progettista vive il luogo, lo ascolta, lo ama, lo studia. Poi lo trasforma. Così la parete è soprattutto uno scenario capace di inquadrare la vita cittadina che le scorre accanto. Diventa uno strumento narrativo che permea l’esterno all’interno e viceversa. Il mio compito è raccontare il luogo in cui il progetto è calato, educare lo spettatore a vederlo sotto un altro punto di vista. Nuovo, personale e in continuo divenire. Così come lo sono gli spazi cittadini».

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Esplorazioni urbane nelle città in trasformazione Documenta l’architettura con una spiccata predilezione per il paesaggio urbano. Partendo dalla sua città natale, Milano. L’esperienza dello sguardo e della visione secondo Gabriele Basilico, uno dei più importanti fotografi contemporanei

Nora Raggio

di Francesca Druidi


SCATTI D’AUTORE | Gabriele Basilico


Architetture, città, visioni. Il titolo di questo libro, nato dalle esperienze del grande fotografo Gabriele Basilico e curato da Andrea Lissoni (Bruno Mondadori Editore), ne condensa con efficacia il percorso umano e artistico. Perché come il medico indaga sul corpo dei pazienti per individuare eventuali anomalie, così Gabriele Basilico, dall’indagine sulla periferia industriale di Milano compiuta tra il 1978 e il 1980 ai lavori svolti in tutto il mondo (Francia, Beirut, Istanbul e di recente Shanghai per citare solo qualche esempio), osserva le città per coglierne i segnali di mutamento, concentrandosi sui luoghi dove i centri urbani esprimono maggiormente il loro percorso di crescita. Perché con le sue fotografie ha privilegiato l’esplorazione del tessuto urbano non tanto nelle sue 130

parti centrali ed esteticamente rilevanti, quanto in quegli elementi considerati dai più minori e privi di interesse? «L’architettura, l’edilizia colta che sta nella storia e fa la storia, è quella ordinaria. A me interessa l’architettura, provengo del resto da questi studi, ma soprattutto mi interessa la città. In particolare dal 1978, quando ho iniziato quella sorta di grande progetto su Milano, Milano ritratti di Fabbriche, un’indagine sulle periferie e su spazi dove dominava il lavoro. Da allora, è sempre stato un tema più o meno ricorrente nelle mie esplorazioni urbane. La città costituisce la sommatoria finale dell’architettura importante, quella che rimane e funge da riferimento, storica oppure contemporanea, e di quell’area urbana che i cittadini spesso ignorano». C&P


SCATTI D’AUTORE | Gabriele Basilico

Credo che Milano individui sempre un laboratorio di visione e, quindi, anche un po’ di pensiero che in qualche modo si relaziona con le altre immagini del mondo

Quali aspetti è importante tenere presente nel momento in cui ci si accosta alla lettura di una città dal punto di vista urbanistico? «Io porto avanti un lavoro di tipo documentario, ma quest’ultimo possiede una sua doppiezza e una sua ambiguità: da una parte, tende a misurare con un possibile grado di esattezza la realtà, restituendo ciò che l’occhio vede senza tentativi evidenti di alterazioni o interpretazioni; dall’altra c’è nel progetto, nel linguaggio forzatamente per alcuni, meno per altri- una dimensione poetica o artistica o come si voglia definire. È questo che porta alle immagini. Si seguono così due strade che coesistono, si sovrappongono e si incrociano continuamente». Per lei è sempre stato così? «Ai tempi del progetto milanese sulle fabbriche avevo fotografato tutto, in quanto la completezza era uno degli obiettivi da raggiungere, ma poi spostandomi in molte città del mondo, mi sono reso conto che questo era impossibile. Ho, quindi, scelto di volta in volta dei percorsi. Certo, spesso questi progetti si assomigliano perché ho dei soggetti preferenziali: quei luoghi dove una città cambia, si trasforma, si evolve. Mi interessa l’aspetto vitale della città. Mi piacciono anche i monumenti storici, ma sempre in rapporto al loro vissuto, al loro consumo. Mi interessa, in definitiva, la città come un corpo che cresce, invecchia, si modifica. Che vive. Per alcuni ciò può sembrare un paradosso perché nelle mie visioni le persone sono assenti, ma si tratta di una questione di ordine visivo, il cui obiettivo è restituire intensità a quanto si sta osservando. Quando c’è qualcuno che attraversa la strada o un’auto che passa, c’è sempre un momento. La

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fotografia, come diceva Cartier-Bresson, è fermare l’attimo. Io non fermo alcun attimo, il mio attimo si allunga e la non presenza di persone serve a dare più respiro alla visione, in modo da comprendere meglio la forma dello spazio». Milano è stata la sua fonte di ispirazione. C’è un altro luogo in Italia o nel resto del mondo che l’ha colpita in maniera altrettanto profonda? «Marco Belpoliti dice che nel mio lavoro in giro per il mondo c’è sempre Milano. Milano è una città che ha problemi come altri centri urbani e nell’epoca della globalizzazione si confonde con questi. Essendo però la città dove sono nato e che vivo in modo affettivo, e anche contradditorio, la sento come uno spazio privato, proiettando questo aspetto nelle mie fotografie. Ma si 132

tratta di un elemento non percepito da tutti, solo da chi è abituato a osservare molto il mio lavoro. E nemmeno io ne sono consapevole. Credo che Milano individui sempre un laboratorio di visione e, quindi, anche un po’ di pensiero che in qualche modo si relaziona con le altre immagini del mondo». Come è si è trasformata la fotografia in questi ultimi anni? E il paesaggio urbano? «Con la generazione di fotografi alla quale appartengo, è stata rilanciato in Italia - e da altri in Europa - l’interesse per il paesaggio e nello specifico per il paesaggio urbano. Un interesse che continua tuttora, anche se i fotografi più giovani, sensibili alla trasmigrazione della fotografia nel mondo dell’arte e viceversa, fanno moltissime altre cose. La tecnica e la cultura digitale hanno favorito questo C&P


SCATTI D’AUTORE | Gabriele Basilico

Se ci proiettiamo in Cina, troviamo parti di città che ne appiattiscono e livellano delle altre, imponendosi in tempi assolutamente impensabili da noi

In apertura, Gabriele Basilico; nelle pagine successive, due scatti di Milano, una del 1996 e una appartenente al progetto Milano ritratti di Fabbriche 1978-1980, e due immagini di Shanghai, scattate nel 2010 da Basilico prima dell’inaugurazione dell’Expo per il ministero degli Esteri

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passaggio, basti pensare alle fotografie scattate dagli artisti con il telefonino. Il mondo è diventato molto più complesso e stratificato e credo che la stagione del paesaggio conviva più o meno a fatica con gli altri fenomeni. L’ultimo lavoro l’ho realizzato a Shanghai poco prima dell’inaugurazione dell’Expo per il nostro ministero degli Esteri. Lì si segnalano cambiamenti realmente violenti, così come immagino in India e in Sud America. Se ci proiettiamo in Cina, troviamo parti di città che, alla stregua di un esercito, ne appiattiscono e livellano delle altre, imponendosi in tempi assolutamente impensabili da noi. La Cina mostra una velocità incredibile nel cambiare l’aspetto del territorio, nell’inurbamento e nello spostamento di persone. L’Expo di Shanghai e le Olimpiadi a Pechino hanno senza dubbio fornito un’accelerazione a tali processi». 133




Daniele Domenicali Susanna Pozzoli

Mario Cucinella è il fondatore di MCA, società creata a Parigi nel 1992 e della quale Elizabeth Francis è partner. Lo studio, che oggi ha sede a Bologna e si avvale di un team di architetti e ingegneri provenienti da vari Paesi, possiede una solida esperienza nella progettazione architettonica con particolare attenzione alle tematiche energetiche e ambientali, anche attraverso collaborazioni con Istituti universitari e programmi di ricerca banditi dalla Commissione europea


NELLO STUDIO DI | Mario Cucinella

Salvaguardia ambientale e sostenibilità architettonica Per Mario Cucinella occorre un’architettura che sostituisca nella sua forma, nella sua cultura e nel progetto, l’impiego eccessivo della tecnologia recuperando anche l’importanza del valore estetico di Nicolò Mulas Marcello

L’utilizzo razionale dell’energia, l’attento studio delle forme e dei materiali e il rispetto delle risorse naturali. Sono questi gli elementi su cui si fondano i progetti dell’architetto Mario Cucinella. Trascorrendo una giornata nel suo studio di Bologna, accanto al team di trenta persone impegnate nella ricerca e nella progettazione, si apprende come si possono raggiungere ottimi risultati di comfort, funzionalità ed estetica lavorando su una filosofia di architettura che mette tra le priorità l’attenzione ai consumi, alle emissioni e al risparmio energetico. Questo metodo di lavoro ha reso possibile lo sviluppo di progetti a scale diverse, dal design industriale alle ricerche tipologiche sugli edifici per uffici, ai grandi progetti urbani. Funzionalità ed estetica sono i due punti cardine su cui si fonda l’architettura. Qual è il segreto per coniugare questi due elementi? «A questo binomio oggi bisogna aggiungere il valore ambientale. Il concetto di funzionalità è cambiato nel

tempo perché costruendo edifici troppo funzionali ci siamo trovati a dare molta più importanza alla funzione che all’estetica, quindi direi che questi sono termini che si stanno rimettendo un po’ in gioco. C’è poca cultura sull’estetica come un valore vero del progetto su cui lavorare e a questo si aggiunge che la definizione di estetica negli anni è cambiata perché è un concetto parallelo alla società, se cambia la società cambiano i canoni della bellezza. Oggi non si può più dissociare il tema della funzionalità degli edifici e della loro qualità estetica dal valore ambientale. In questo c’è un’evoluzione dei termini». Come avviene lo studio e lo sviluppo di un progetto nel suo studio? «Noi cerchiamo di coniugare due anime, da una parte quella più pragmatica che consiste nel risolvere un problema di natura funzionale - come può essere un ospedale, un ufficio o un’università - dove bisogna essere molto concreti perché gli edifici sono oggetti


Daniele Domenicali

Oggi non si può più dissociare il tema della funzionalità degli edifici e della loro qualità estetica dal valore ambientale.

d’uso quindi vanno utilizzati e devono funzionare; dall’altra parte proviamo a coltivare l’anima più emotiva che è poi quella che le persone colgono di più. La funzionalità è importante ma quello che si percepisce è anche il grande valore estetico e l’emozione che trasmette. Questo aspetto ultimamente viene trascurato perché viviamo in una cultura troppo tecnologica - che tralascia gli aspetti emotivi - dove la qualità della luce e i colori sono considerati marginali. All’interno dello studio, i progetti vengono sviluppati da un team di trenta persone, all’interno del quale c’è un piccolo gruppo che si occupa solo di ricerca ambientale. Il loro lavoro si inserisce nella dialettica tra funzione ed estetica, sviluppando il tema dell’ambiente e delle prestazioni energetiche, con l’obiettivo di darci una guida sulla forma e sui materiali da usare in quanto gli edifici hanno bisogno di questo nuovo Dna. Occorre ritrovare il tema dell’energia, dei consumi e delle emissioni come uno degli elementi di fondo degli edifici». Nel 2007 durante la Campionaria delle qualità italiane lei ha presentato il progetto “La casa da 100.000 euro”. In cosa consiste? «Il progetto è nato per rispondere a una domanda che non ci ha ancora posto nessuno: come costruire edifici residenziali a basso costo? Quindi dare la possibilità di accesso alla casa a una fascia di popolazione sempre più ampia, di associare al tema della casa quello energetico e cercare di disegnare edifici per soddisfare il desiderio di chi vive secondo uno proprio stile di vita; abbiamo proposto non case finite al loro interno ma loft, vale a dire spazi che le persone, per capacità manuali, per

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NELLO STUDIO DI | Mario Cucinella

In apertura il 3M Headquarter di Pioltello, a Milano; al centro il Centre for sustainable energy tecnologies di Ningbo, in Cina e qui sopra lo studio MCA di Bologna

risorse o per risparmi, possono contaminare e adattare al proprio stile. Tutto ciò rappresenta innanzitutto una riduzione di costi importante, poi anche la possibilità di estendere lo scenario molto interessante del fenomeno Ikea ad esempio, dove la gente entra e arreda la casa, quindi una persona compra uno spazio e lo abita come crede. Questa libertà oggi sul mercato non c’è». Sono già state costruite queste case? «Abbiamo appena iniziato a costruire a Lodi per una cooperativa di 20 soci, che hanno comprato un terreno del Comune su cui costruire questa piccola comunità. Dietro a questo progetto non c’è uno spirito di speculazione, ma l’idea di dare voce alla creazione di una comunità di gente che si associa in cooperative o sottoforma di co-housing e cerca una casa che sia anche un modo di esprimere la propria idea di abitare. In questo contesto si inserisce il tema della condivisione energetica, la gestione autonoma degli spazi e una direzione condominiale condivisa e meno conflittuale». “More with less” è il suo motto. Come si concretizza nell’architettura? «Deriva da un gioco di parole di ciò che i razionalisti definivano “less is more”, cioè il segno pulito e l’assenza di ornamenti che rappresentava la filosofia del Dopoguerra. Invece “more with less” vuol dire che bisogna continuare a crescere e a vivere senza rinunciare alle comodità ma con meno risorse, un consumo di energia più basso, minori consumi e un minor grado di inquinamento. Considerato che, ormai, non c’è una tendenza generale né al risparmio né tantomeno a

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Daniele Domenicali

Due immagini del progetto “La Casa da 100.000 euro”

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costruire una società sostenibile, almeno proviamo a crescere in un altro modo». Nei suoi lavori è spesso presente una dimensione sperimentale. Su cosa punta la sua ricerca? «Il tema più interessante per noi è il rapporto tra la forma e la performance poiché c’è sempre qualcosa che giustifica una forma non solo per il suo valore estetico. La storia dell’architettura prima della rivoluzione industriale aveva un valore estetico sempre legato a una ragione che poteva essere di natura funzionale come di natura ambientale o culturale. Stiamo provando a capire se questo nuovo filone di architettura basato sul tema del risparmio energetico non debba generare, proprio

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per questa attitudine delle nuove forme degli edifici, un rapporto nuovo con l’ambiente. Pertanto prima di iniziare a disegnare, proviamo a fare sperimentazione sull’analisi dei siti, a capire come sono fatti, a valutare le opportunità offerte dalle condizioni climatiche. Credo che gli edifici del futuro saranno sempre meno tecnologici, ma sempre più costruiti con intelligenza perché è sbagliato pensare che la tecnologia risolverà i nostri problemi, occorre invece risolverli prima con la forma e le materie, ovvero quelle attenzioni che l’architettura ha sempre avuto». Lei ha iniziato a lavorare con l’architetto Renzo Piano: la sua architettura l’ha influenzata in qualche modo?

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Daniele Domenicali

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NELLO STUDIO DI | Mario Cucinella

Daniele Domenicali

Alcune vedute degli interni del nuovo teatro ligneo de l’Aquila

«Quello dell’architetto è un mestiere fatto di grandi influenze. Per me è stata una figura importante perché in un momento storico come quello, il lavoro di Renzo, come ancora oggi, è un punto di riferimento. E come dico sempre: questo è un lavoro che un po’ ce l’hai nel sangue e un po’ lo devi andare a rubare da chi lo sa fare meglio di te. Questo è stato lo spirito anche del mio lavoro con lui». Quali progetti ha concluso di recente e su quali sta lavorando attualmente? «Abbiamo terminato da poco la realizzazione di un centro di ricerca in Cina per l’Università di Nottingham; si tratta di un lavoro importante, che ha avuto una

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grandissima eco e un gran successo perché abbiamo provato a dimostrare che un centro di ricerca sulle energie rinnovabili non è fatto di pannelli fotovoltaici, ma può esprimere un’idea di bellezza e di forma dentro cui ci sono tutte le soluzioni tecniche. Adesso stiamo lavorando al nuovo teatro de l’Aquila, una struttura lignea che prova a recuperare la tradizione del teatro ligneo italiano del 600/700. È un edificio che non ha impianti, ma funziona per forma, dimensione e uso della materia. Un altro progetto interessante su cui sono impegnato è sicuramente quello per l’Università di Aosta dove, insieme alla Regione, costruiremo la prima Università in Val d’Aosta. Il progetto prevede il recupero di una vecchia caserma militare nel cuore di Aosta».

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RBPW Foto Nic Lehoux


RIFLESSIONI | Renzo Piano

In apertura, il Modern Wing dell’Art Institute di Chicago; nel tondo, Renzo Piano

Architettura è capire e conoscere Costruire è un mestiere complesso, un’avventura. Che nasce dalla tecnologia, dagli uomini. E dalla poesia. La voce del maestro italiano dell’architettura contemporanea è rivolta alle generazioni future, a cui Renzo Piano suggerisce di viaggiare. Di osservare il mondo e di imparare ad amarlo di Camilla F. Gargano

«Fare architettura per me non vuol dire gestire ciò che fanno gli altri. Tutto il giorno traccio schizzi, lavoro, m’impegno». È questo il mestiere dell’architetto. È questo Renzo Piano. Lontano dal «priapismo mediatico» di certa architettura contemporanea, estraneo alla definizione di “archistar”, che non gli si addice se si considera quel suo “tipico understatement genovese”, come hanno definito il suo atteggiamento. Certo è che nei discorsi di Renzo Piano c’è sempre il progetto prima. Non il progettista. Non per niente, tutti i suoi lavori sono caratterizzati da un tangibile adattamento al contesto, con soluzioni formali e tecniche sempre diverse. Come nel centro culturale Jean Marie Tjibaou, realizzato negli anni Novanta in una scenografica penisola protesa nell’oceano della Nuova Caledonia. Il centro è un omaggio alla cultura indigena dei Kanaki ed è intitolato al loro leader, che combatté e fu ucciso per l’indipendenza del Paese. Ecco allora che il complesso, interamente in legno, s’ispira alle soluzioni formali, architettoniche e costruttive locali e con i suoi dieci gusci alti decine di metri disposti intorno a un atrio, ricorda un villaggio tradizionale di capanne. In California, invece, la nuova sede dell’Accademia delle Scienze di San Francisco è costruita con tecniche sostenibili e materiali di recupero, è autosufficiente dal punto di vista

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energetico, e il suo tetto è interamente ricoperto di piante native del territorio, che per sopravvivere non necessitano di irrigazione artificiale, vero cruccio per i californiani. «Il giorno dell’inaugurazione venne da noi l’erede dell’indiano d’America che fu proprietario del terreno sul quale sorge il complesso – ricorda Renzo Piano – e mi disse che quello era il primo edificio di native California che avesse visto nascere sul territorio». La sostenibilità riveste un ruolo molto importante nei suoi progetti. «Credo che oggi sia abbastanza diffusa la consapevolezza dell’importanza della sostenibilità in architettura, ma la scoperta che la terra è fragile è purtroppo molto recente. Barack Obama ha dato un forte impulso a questa consapevolezza. Bisogna capire, adesso, che la sostenibilità non significa solo abbassare i costi, ma sviluppare un linguaggio. Bisogna chiedersi “Come respira un edificio?”. Nell’architettura c’è sempre un linguaggio pragmatico, dettato dalla necessità, e uno poetico, rappresentato dal desiderio. Se nel dare risposta ai bisogni si riesce anche a darla ai desideri, allora si è un bravo architetto. Si potrebbe così uscire dall’intorpidimento del “priapismo mediatico”, dove gli architetti la fanno sempre più grossa. Da questo si esce trovando l’equilibrio tra poetica e tecnica».

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RBPW Foto John McNeal

Il tetto dell’Accademia delle Scienze di San Francisco, ricoperto di piantine native del territorio

Lei ha realizzato progetti in tutto il mondo. Quali sono le maggiori differenze tra lavorare in Italia e all’estero? «Non sono tante, in verità. Sono cresciuto in una casa di costruttori e ho nel Dna il gusto di fare le cose, ma ho sempre lavorato in giro per il mondo, i miei studi sono a Parigi e New York. Posso dire che il modo di fare architettura è uguale negli Stati Uniti, in Giappone, in Germania o in Italia. Da un certo punto di vista, anzi, l’Italia è privilegiata, perché qui c’è il “piacere di fare”, che è una molla straordinaria. Sul fare architettura, quindi, non ci sono differenze: all’estero si possono fare cose che in Italia non si potrebbero realizzare e viceversa. Si può trovare ovunque qualcuno che s’innamora dell’idea, persone

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straordinarie disposte a realizzarla. La grossa differenza, invece, sta nella burocrazia. E qui il discorso cambia. Io “adoro” la burocrazia, perché c’è chi mi dice esattamente come le cose vanno fatte e talvolta la mancanza di libertà aiuta. Ma la burocrazia pasticciona è un problema e un fastidio. La burocrazia tedesca o giapponese, ad esempio è bellissima. I burocrati italiani, invece, sono veri e propri “artisti”, per loro le regole non sono mai esatte. Si può fare in un modo ma sempre, anche, in un altro». Quali consigli darebbe a un giovane studente di architettura e a un giovane professionista? «Quello dell’architetto è un mestiere di frontiera. Un’arte corsara, che respira con il ritmo della terra. A un giovane

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RIFLESSIONI | Renzo Piano

studente, direi che se vuole fare architettura, deve viaggiare. Architettura è capire, conoscere, non chiudersi e fare schizzi. Perché a rimanere soli, prima ancora di aver imparato il mestiere, si rischia di diventare già dei formalisti. I giovani devono soffrire, lavorare, viaggiare. D’altronde questo è un lavoro bellissimo, che se potessi consiglierei a tutti. È una rapina a viso scoperto, che prende e restituisce. Ai miei tempi, quando avevo trent’anni, si espatriava. Oggi, purtroppo, è diverso». Che cosa ne pensa del sistema dei concorsi di architettura? Esiste vera meritocrazia e trasparenza per la loro realizzazione in Italia e all’estero? «In Italia, purtroppo, lo stato dei concorsi è pessimo. Ci

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sono altri Paesi dove, invece, sono organizzati bene; penso ad esempio ai Paesi anglosassoni. Invece il caso della Francia è diverso: ha sempre avuto dei pessimi architetti, perché in realtà si trattava di artisti che si improvvisavano architetti, poi a un certo punto ha introdotto l’obbligo di partecipazione ai concorsi. E oggi il sistema funziona molto bene. E soprattutto, una volta realizzati i concorsi, i progetti vincitori si realizzano. In Italia invece, di concorsi se ne fanno pochi. Quelli che si fanno, sono per lo più “mediatici”. Quando si fanno e vanno in porto, spesso non vengono realizzati. Ed è solo tempo perso. Un architetto ha bisogno di costruire, come un cantante di cantare. Se potessi, obbligherei tutti i giovani architetti a partecipare ai concorsi. Per i primi cinque anni si faranno male, poi sarà sempre meglio».

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Ricerca e innovazione si incontrano al Saie Una moderna “piazza” dove trovano spazio i dibattiti sui temi del settore, le tecnologie applicate al costruire, i servizi per il global business, le tendenze più attuali e quelle future. Il Salone internazionale dell'edilizia nelle parole di Marino Capelli di BolognaFiere di Renata Saccot

Sostenibilità, produzione e servizi. Sono le tre aree tematiche che ospiteranno la riflessione e i dibattiti sulle tematiche che interessano il mondo delle costruzioni. È così che Saie si presenta negli spazi di BolognaFiere quale punto d’incontro privilegiato per tutti gli operatori della filiera. Slogan della 46esima edizione è “Integrare per costruire”, con l'obiettivo di fornire un contributo per arrivare a una piena ed efficace integrazione di saperi, competenze e tecnologie per spingere l’edilizia verso quel salto di qualità atteso dagli operatori di settore. A spiegare il ruolo e gli obiettivi del Salone internazionale dell'edilizia è Marino Capelli, responsabile delle manifestazioni dell’area Costruzione e industria dell'ente fieristico bolognese. 150

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APPUNTAMENTI | Saie

Nella pagina precedente, Marino Capelli, responsabile delle fiere dell’area Costruzione e industria di BolognaFiere

Che “peso” ha la manifestazione per l'Ente? «Per BolognaFiere le manifestazioni riguardanti il settore dell’edilizia, Saie e Cersaie, rappresentano un momento di particolare eccellenza perchè è nel nostro quartiere fieristico che si parla da più tempo dell’industria delle costruzioni: di forniture, di macchinari, di tecnologie di servizi indispensabili a progettisti, imprese e amministrazioni pubbliche per gestire l’intero comparto dell’edilizia, delle costruzioni e dell’architettura». Saie è il luogo dove gli operatori della filiera delle costruzioni mostrano, discutono e si confrontano su progetti, tecnologie e sistemi per costruire. Su cosa si è puntata l’attenzione per l’edizione 2010? C&P

«Alla luce della trasformazione che sta subendo il mercato delle costruzioni, abbiamo deciso di modellare la manifestazione alle esigenze che ci sono state segnalate dagli operatori e che noi abbiamo individuato come fondamentali per il settore, quindi la sostenibilità, i servizi e la cantieristica. Inoltre, abbiamo deciso di rendere più interattivo il rapporto con il pubblico attraverso la realizzazione di una “piazza” in cui si tengono forum e incontri e dove gli stessi espositori possono presentare le loro migliori case history, proprio per avere un ulteriore momento di comunicazione con il visitatore». Crisi del settore, trasformazione del mercato, internazionalizzazione: quali sono gli scenari del 151


futuro delle costruzioni e che ruolo svolge la manifestazione in questo contesto? «Tutte le manifestazioni sono lo specchio del mercato di riferimento. In particolare, il settore delle costruzioni è sempre più attento alle innovazioni che l’industria propone perchè è spinto dall’esigenza di raggiungere maggiori performance nei consumi energetici, nella sostenibilità e nella sicurezza dei lavoratori. Altro aspetto è quello dell'internazionalizzazione. E proprio per agevolare questo processo, Saie cerca di aprire nuove finestre verso i mercati stranieri, organizzando un folto programma di incontri con delegazioni estere che, per l’edizione 2010, riguarderà soprattutto i Paesi del bacino del Mediterraneo». 152

Nel 2004 è stata inaugurata “Servizio Novità” che raccoglie le innovazioni presentate durante il Salone dagli espositori. A sette anni dalla prima edizione è possibile fare una riflessione sullo stato dell’arte dell’innovazione tecnologica in Italia e sulle capacità di gestione di tale innovazione da parte degli operatori di settore? «Sì, l’abbiamo fatta già nel corso del 2009 mettendo intorno a un tavolo i direttori dei cinque più importanti periodici specializzati del mondo delle costruzioni. A loro abbiamo chiesto di individuare, all’interno dei prodotti e dei progetti presentati al Saie, quali fossero le principali tendenze. Il gruppo di esperti ha deciso di segnalare quattro tematiche che segneranno il futuro delle costruzioni nei prossimi anni: la velocità e facilità C&P


APPUNTAMENTI | Saie

In apertura, uno dei progetti presentati per il concorso “Green&Stone”; nelle altre immagini, alcuni momenti dell’edizione 2009

Abbiamo deciso di rendere più interattivo il rapporto con il pubblico attraverso la realizzazione di una “piazza” in cui si tengono forum e incontri

di montaggio in cantiere; il recupero, quindi la necessità di prodotti specifici per lavorare sul riuso; la sostenibilità e i progetti integrati». Uno degli appuntamenti culturali di Saie è “Cuore Mostra”, che rappresenta un momento di incontro tra ricercatori, progettisti e rappresentanti del mondo industriale. Perché quest’anno la scelta tematica è caduta sull’integrazione fra i saperi dei diversi settori? «Perchè riteniamo che la complessità normativa e di offerta di prodotti e tecnologie sia tale che per raggiungere l’eccellenza nel settore edile sia necessario un coordinamento delle specializzazioni professionali, a partire dalla fase di progettazione fino C&P

a quella di realizzazione in cantiere». Architettura&Innovazione è uno dei principali appuntamenti della manifestazione. Quali tendenze e novità il settore dell’architettura presenterà al Saie? «Per quanto riguarda il mondo della progettazione ci saranno due eventi: il concorso SaieSelection, a cui hanno partecipato circa 180 progettisti provenienti da tutto il mondo e il concorso Green & Stone, il cui tema sarà l’integrazione tra pietra e verde come spunto per nuove forme di urban design. Ci sarà una mostra dedicata all’uso della pietra naturale negli spazi pubblici, la mostra sarà curata dallo studio Lucchese e verranno presentati dieci pezzi assolutamente originali progettati per l'esterno». 153





RESTAURO | Marcello Balzani

In apertura, studio in 3D del Tempio Malatestiano di Rimini di Leon Battista Alberti; a fianco, Marcello Balzani, docente alla facoltà di architettura dell’università di Ferrara

Il restauro, la vera frontiera del progetto del futuro Le nuove tecnologie, da sole, non bastano. Secondo Marcello Balzani, docente di architettura all’Università di Ferrara, nel campo del restauro dei beni culturali bisogna puntare a un obiettivo più organico: mettere in rete la ricerca di Michela Evangelisti

Il Salone del Restauro non è solo una vetrina di eccellenze, ma anche un appuntamento strategico per fare il punto sulle nuove tecnologie e cogliere opportunità di sviluppo, «perché permette un approccio integrato, aperto alla discussione, alla presentazione dei risultati e alla comprensione critica delle differenze riguardo quanto sta accadendo e quanto potrà accadere». Parola di Marcello Balzani, che con il Salone collabora e che dirige Diaprem, il centro dipartimentale per lo sviluppo di procedure automatiche integrate per il restauro dei monumenti. Come procedono la scoperta e la sperimentazione di nuove tecniche o nuovi materiali applicati al restauro? «Da alcuni mesi sono a capo di uno dei laboratori della rete ad alta tecnologia della Regione Emilia Romagna, C&P

il Teknehub del Tecnopolo di Ferrara, che ha proprio la finalità di trasferire sviluppo e innovazione tecnologica dai centri di ricerca all’impresa di restauro e recupero. La ditta di restauro spesso opera in scala artigianale e non può permettersi di investire sulle tecnologie. Forse la novità più interessante, che verrà presentata al Salone, riguarda proprio un diverso spirito di squadra, che permette di innovare e crescere. Nei laboratori ogni giorno si travasano conoscenze che vengono da tanti settori (medico, energetico, ambientale) e che si possono sperimentare anche sul corpo del bene culturale. È importante inventare un nuovo metodo di visualizzazione non distruttivo, amplificare l’efficacia di una nanofibra, ma fondamentale è soprattutto creare gli hub. Connettersi insieme (ditte, progettisti, enti di 157


La tecnologia di rilievo 3D per la diagnosi può generare anche un ottimo prodotto di comunicazione per il marketing e per l’allestimento

tutela, ricerca, industria) per individuare e testare le possibili sinergie, permettendo alle nostre aziende di vincere importanti appalti, gare internazionali, di essere più concorrenziali. I beni culturali possono veramente mettere in rete la ricerca». Fiducia incondizionata nelle tecniche innovative o acritica applicazione di procedure tradizionali? «Succede sempre che le tecnologie vengano inventate, prodotte e sviluppate prima che ci si renda conto di cosa possono realmente fare dal punto di vista del metodo. L’approccio critico è invece parte di una reale acquisizione di conoscenze che discrimina, sceglie, verifica, produce differenze. Il mondo del restauro è il luogo dove questi conflitti sono da sempre più espressi e quindi anche più risolti. Il progetto sull’antico richiede una cosciente flessibilità e una visione etica espressa dalla reversibilità. Si cerca di individuare la

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Studio della chiesa di Sant’Andrea a Mantova. Una mostra al prossimo Salone del Restauro di Ferrara presenterà il progetto di valorizzazione e di documentazione 3D per la conservazione delle architetture albertiane, che investe le città di Mantova, Ferrara, Rimini e Firenze

valenza di unicità del patrimonio e quindi di rendere ogni intervento reversibile, nel senso di meno contaminante, distruttivo, interpretante, disperdente possibile, per consentire a chi verrà dopo di godere del medesimo bene e di poter tornare a intervenire reversibilmente con tecnologie ancora più tutelanti. In fondo è un principio progettuale progressivo, che non si limita con una modalità predeterminata, ma detta le basi per auto verificarsi, auto correggersi, insomma, cerca di migliorare nel tempo. Il restauro è la vera frontiera del progetto del futuro». Quali sono le nuove frontiere nell’utilizzo di tecniche e prodotti il più possibile compatibili con l’ambiente? «L’approccio conservativo e il processo logico che si sviluppano nell’atteggiamento culturale (e anche metodologico) con il progetto di restauro permettono di

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RESTAURO | Marcello Balzani

Salone del Restauro di Ferrara Dal 30 marzo al 2 aprile 2011 si terrà la XVIII edizione. È ancora presto per dare anticipazioni, ma il direttore, Carlo Amadori, è sicuro che anche quello del 2011 sarà un appuntamento fondamentale per il mondo del restauro e della conservazione dei beni culturali Quasi 30.000 visitatori, 258 espositori, 42 convegni internazionali e 120 incontri tecnici. Questi i numeri 2010 di una fiera in costante crescita, «la prima al mondo nel settore del restauro» spiega il suo direttore, Carlo Amadori. «L’Italia ha la leadership assoluta, non solo per la quantità di beni culturali, valutabili intorno al 60/70% del patrimonio occidentale, ma anche per il concetto di restauro conservativo da noi perseguito – prosegue Amadori -. In fatto di tutela abbiamo delle prerogative uniche al mondo: solo da noi si salvaguarda l’opera, mantenendo il rapporto tra

la parte originale e la parte restaurata, o comunque integrata, seguendo dei canoni ben specifici che fanno del nostro paese un riferimento assoluto nel campo». Ampio spazio da sempre viene dato all’interno del Salone alle nuove tecnologie applicate al restauro. «Le tecnologie sempre più perfezionate che si evolvono di anno in anno sono fondamentali per l’approccio al tema del restauro, sia in fatto di conoscenza che in fatto di intervento – conclude Amadori –. Prima di iniziare qualsiasi operazione è infatti fondamentale fare il punto sullo stato di conservazione e sulla genesi dell’opera».

comprendere come molte tecnologie (appropriate per l’epoca in cui sono state applicate) possono essere rilette e reinterpretate nella contemporaneità. L’antico ci racconta continuamente come sia possibile creare qualità integrando innovazione con le risorse disponibili. Affrontare la problematica ambientale permette di far attecchire un atteggiamento cosciente e responsabile. È un settore in cui l’industria sta sviluppando ogni giorno nuovi componenti, che associano qualità intelligenti e strutturate a criteri sempre più ecocompatibili. La ricerca, oltre a brevettare nuovi isolanti, componenti strutturali, leganti, fibre e filmati, si sta impegnando anche nel settore di verifica di processo. Ovvero nella comprensione di quanto accade nella fase meta progettuale, progettuale, applicativa e manutentiva, a seconda delle condizioni del contesto». Ci sono progetti di restauro sperimentali in atto o

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che stanno per essere avviati in Italia? «La crisi economica richiede di operare con attenzioni diverse da un tempo. Il tema della valorizzazione e della sostenibilità economica dell’intervento di restauro e della successiva gestione del bene culturale è al centro del dibattito e i progetti che si stanno mettendo in campo riguardano molto spesso la ricongiunzione di questi due fondamentali obiettivi (si pensi al sito aostano di Saint Martin de Corleans, al Mudi di Firenze, al Meis di Ferrara o al Colosseo). La sperimentazione, quindi, non riguarda esclusivamente l’intervento conservativo ma anche le tecnologie di allestimento, museografiche, la strategia di marketing territoriale, il modello di gestione. Tutti aspetti che vanno metaprogettati sinergicamente fin dal primo momento. Un esempio: la tecnologia di rilievo 3D per la diagnosi può generare anche un prodotto di comunicazione per il marketing e per l’allestimento, mentre non può avvenire il contrario».

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RESTAURO | Opificio delle pietre dure

In apertura, il lavoro di pulitura della Croce di Giotto della chiesa di Ognissanti a Firenze; a fianco, la soprintendente Isabella Lapi, direttore dell’Opificio delle Pietre Dure

Le tecnologie fanno risplendere i capolavori dell’arte All’Opificio delle Pietre Dure, diretto dalla soprintendente Isabella Lapi, laser e micro onde rappresentano le nuove frontiere tecnologiche del restauro e della conservazione. In altre parole, l’innovazione applicata nel massimo rispetto dell’antico di Michela Evangelisti

«Possiamo forse affermare che non vi è grande restauro senza una qualche, anche minima, componente di innovazione». Così esordisce Isabella Lapi, direttore dell’Opificio delle Pietre Dure, nei cui laboratori fermentano in continuazione nuove metodologie di restauro e sono attualmente ricoverati veri capolavori dell’arte mondiale: il Tabernacolo dei Linaioli del Beato Angelico e la Bella di Tiziano, solo per citarne due. Proprio in questi giorni è giunto a conclusione il restauro della croce monumentale di Giotto, proveniente dalla chiesa di Ognissanti a Firenze, eseguito con un innovativo sistema di pulitura. Sta, inoltre, per terminare l’intervento sulla Porta del Paradiso del Ghiberti,

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fondamentale sia per la metodologia adottata che per le innovazioni relative al microclima e alla conservazione preventiva. L’Istituto è suddiviso in diverse aree di restauro e di ricerca, individuate in base ai materiali costitutivi delle opere d'arte. Qual è il settore più innovativo? «Difficile dire quali siano i settori più innovativi, perché tutti cercano di aggiornarsi costantemente per applicare, al meglio delle loro possibilità e grazie a progetti mirati condivisi con università ed enti di ricerca, le tecnologie più avanzate. Negli ultimi tempi è certamente nel campo delle indagini non distruttive che si sono fatti grandi passi avanti, un esempio fra

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tutti, sono le scoperte relative all’underdrawing di Caravaggio effettuate mediante un innovativo strumento per riflettografia a infrarosso. Ma anche i sistemi di pulitura sono in continua evoluzione».

anni. A differenza di corsi similari attivati nelle università, i nostri allievi frequentano fin dal primo anno i laboratori, apprendendo in tal modo sul campo oltre che dalle lezioni teoriche».

La formazione nel campo del restauro è uno dei vostri obiettivi primari. Su quali nuovi percorsi professionalizzanti punterete? «Com’è noto è attiva nel nostro Istituto una scuola di alta formazione per restauratori, che proprio quest’anno ha ripreso a funzionare dopo un periodo di chiusura conseguente a modifiche normative. La scuola rilascia un diploma parificato a una laurea magistrale e, come i corsi universitari, dura cinque

Il vostro laboratorio scientifico sviluppa costantemente nuove tecnologie da applicare al restauro e alla conservazione. Quali sono le ultime conquiste? «L’Opificio ha acquisito negli ultimi anni una notevole capacità operativa nell’uso dei laser, applicati nella pulitura di svariate tipologie di manufatti, grazie anche al fatto che i restauratori dei diversi settori hanno la possibilità di confrontare quotidianamente i risultati

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RESTAURO | Opificio delle pietre dure

I laboratori dell’Opificio e, in alto, un restauratore al lavoro con il laser sul pulpito della chiesa di Arcetri a Firenze

ottenuti. Grazie ai nostri rapporti con centri di ricerca del Cnr e all’interazione con alcune aziende produttrici, stiamo usando e sviluppando applicazioni metodologiche di pulitura laser sui metalli, sulle pitture e, sperimentalmente, sui materiali cartacei e tessili. Dal punto di vista chimico e biochimico, sempre per le delicate fasi di pulitura, stiamo verificando non tanto le capacità dei nuovi sistemi (solventi a umido, solventi addensanti, bioimpacchi, adesivi soft, protettivi temporanei, consolidanti “su misura” e altri), quanto la loro adattabilità alla nostra metodologia di intervento, che prevede di raggiungere il risultato prefissato nella maniera più sicura per l’opera, con una particolare attenzione all’integrazione fra i vari momenti del

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procedimento di restauro in modo da ridurre al minimo eventuali incompatibilità tra i materiali e i prodotti usati in ogni singola fase. Per quanto riguarda l’intervento preventivo per la conservazione delle opere d’arte, si sono adottati i sistemi più avanzati per la disinfestazione da insetti e larve dannosi, sia per i supporti lignei che membranacei, usando i più moderni e sicuri metodi anossici con gas di nulla o bassa tossicità (azoto, CO2); è infine recentissimo un innovativo progetto per la disinfestazione dei supporti lignei con l’uso delle micro-onde». Quali sono invece le nuove frontiere tecniche e metodologiche della diagnostica?

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Negli ultimi tempi è nel campo delle indagini non distruttive che si sono fatti grandi passi avanti, ma anche i sistemi di pulitura sono in continua evoluzione

Giotto, Croce di Ognissanti, particolare del bambino in riflettografia all’infrarosso

«La conoscenza e la caratterizzazione dei materiali potrebbe apparire come una fase abbastanza semplice, data l’ampia casistica e la base di dati accumulata nel tempo. In realtà proprio in questo campo ci sono forse gli obiettivi più importanti da perseguire. Da tecniche di rilievo prettamente di superficie si sta procedendo con risultati promettenti anche nella direzione di un’indagine della stratificazione dei materiali. Il fronte su cui ci stiamo muovendo è quello di progetti sia a livello europeo (come il progetto Charisma) che regionale (Temart), dove numerosi partner internazionali e nazionali convergono su delle linee di ricerca comuni». L'Opificio era presente all’Esposizione universale di Shanghai 2010. L’intento del progetto 166

era quello di illustrare l’evoluzione negli ultimi decenni delle metodologie di restauro. Qual è stato l’impatto della partecipazione? «L’Opificio è stato presente a Shangai con un restauro in diretta di elementi scultorei curato dal settore dei materiali lapidei, settore storico dell’Istituto e allo stesso tempo all’avanguardia nell’uso delle nuove tecnologie. A Shanghai i nostri operatori hanno utilizzato per la pulitura uno dei laser più innovativi al momento, il sistema Smart clean II, appositamente progettato dai ricercatori dell’Ieq del Cnr di Firenze per il restauro dei materiali lapidei e messo a punto dalla ditta El.En. di Calenzano. La nostra presenza è stata molto apprezzata, come hanno dimostrato le migliaia di visitatori e il riscontro ottenuto dai media cinesi e dalla stampa internazionale». C&P



Rivisitare l’architettura in chiave bio Il debutto della bioarchitettura è ormai passato alla storia. Per Paolo Salizzato l’architettura si lascia alle spalle l’era dell’edilizia miope e autoreferenziale di Luciana Fante

Gusto estetico e prestazioni della bioedilizia possono tranquillamente convivere. Anzi, generano un incontro inaspettato. A sostenerlo sono rispettivamente lo staff tecnico di Sa-fra ed Ecodomus, le due società che hanno siglato una partnership in nome del rispetto ambientale. Il presidente di Sa-fra, Paolo Salizzato, ripercorre i punti chiave di un fare architettura decisamente in linea con i tempi. La prima regola è sempre la stessa «efficienza energetica e utilizzo di materiali ecocompatibili». Paolo Salizzato non fa mistero neanche su difficoltà e falsi allarmismi: tra questi i prezzi stellari – o presunti tali – della bioedilizia. «Ma a questo punto bisogna saper scegliere: o si investe sulla qualità a lungo termine, puntando sul futuro e indiscusso risparmio energetico, oppure si precipita verso una 168

progettazione di corto respiro, che magari si presenta ben confezionata ma domani potrebbe riservarci delle sorprese poco piacevoli». Quali i sono i primi passi per progettare un bioedificio? «Si parte dall’analisi preliminare del sito, in modo che l’edificio venga collocato nel punto più virtuoso, quello cioè in cui si riesce a sfruttare al meglio gli apporti solari. Verso questa fonte di calore ed energia abbiamo un’attenzione particolare, giocata su più livelli. Il fotovoltaico è solo un esempio d’applicazione. Dopo aver definito l’orientamento della struttura si passano in rassegna i materiali dell’involucro. Questi devono essere prestanti, sia da un punto di vista termico che energetico. In questa fase si pensa già C&P


BIOARCHITETTURA | Paolo Salizzato

Nella pagina a fianco, la Banca popolare etica a Padova e il presidente di Sa-fra Paolo Salizzato. A destra, altri esempi di bioarchitettura progettati da Sa-fra ed Ecodomus infoecodomus@safra-ve.com safra@safra-ve.com

La prima regola è sempre la stessa: efficienza energetica e utilizzo di materiali ecocompatibili. Non possiamo concederci il lusso di guardare solo all’estetica senza pensare all’impatto e ai costi aggiuntivi

all’impatto che avrà la futura demolizione dell’edificio che, come ogni altra cosa, ha un inizio e una fine. Nel caso di Banca popolare etica a Padova, oltre all’impiego di materiali di origine naturale è stato realizzato il corpo centrale dell’edificio completamente in legno». Attenzione all’ambiente e comfort assicurato: questi i temi forti della bioedilizia. Ma molti lamentano che l’investimento iniziale sia caro. Cosa risponde? «Alzare i costi è inevitabile quando si punta alla qualità. Questo credo che valga per ogni settore. Ma dobbiamo educare enti pubblici e privati cittadini a dare il giusto valore alle cose. Non è un mistero che la bioedilizia possa richiedere anche un’impiantistica particolare e sofisticata. Inoltre andiamo a utilizzare materiali e tecnologie che altrimenti verrebbero tralasciati. Questo comporta una lievitazione nell’investimento. Mi è difficile quantificarlo. È altrettanto vero, però, che la spesa iniziale, indubbiamente superiore rispetto a quella dell’edilizia tradizionale, dia i suoi frutti a lungo C&P

termine. Pensiamo alle nuove frontiere del risparmio energetico e non solo. Ci sono alcuni edifici che riescono a produrre energia. Credo quindi che valga la pena tentare». Si parla in continuazione di bioedilizia ma spesso ce ne sfugge il senso più profondo, perché il suo campo d’azione è davvero sconfinato. Come racchiuderebbe il suo significato? «Rivisitare l’architettura in chiave “bio” significa progettare strutture che sappiano comunicare con ciò è preesistente e che, inevitabilmente, ci sopravvivrà: sto parlando dell’ambiente. Ritengo che nel nostro settore l’era dell’autoreferenzialità stia giungendo al termine. Non possiamo concederci il lusso di guardare solo all’estetica senza pensare all’impatto e ai costi aggiuntivi. Per questo spingiamo verso l’integrazione: tra interno ed esterno, tra spazi che sono prerogativa dell’uomo contemporaneo e ciò che invece è patrimonio di chi verrà. Infine la prerogativa della bioedilizia è quella di saper coniugare nobili intendi con una resa ottimale. Il comfort è sempre garantito. Anzi è nettamente superiore rispetto a quello della vecchia scuola». 169


Si punta alla bioedilizia per lo sviluppo del territorio Gli edifici pubblici, oltre che funzionali, devono essere anche energeticamente sostenibili e a basso impatto ambientale. Un obiettivo che Bellino Galante e Giuseppe Rondinelli perseguono da anni, a partire dalla loro provincia, Ferrara di Carlo Sergi

L’architettura è uno dei perni su cui reggono le infrastrutture e i servizi per il cittadino. Un’esperienza progettuale che gli architetti Bellino Galante e Giuseppe Rondinelli vivono da anni. Una simbiosi professionale nata dall’incontro di due personalità diverse, ma tra loro complementari. Gli architetti esercitano da più di vent’anni nel campo dell’architettonica e dell’urbanistica, seguendo le attività di progettazione, direzione lavori, collaudi e sicurezza nei cantieri, con particolare attenzione alle strutture antisismiche e al risparmio energetico. Soprattutto in Emilia Romagna, in cui proprio di recente hanno portato a termine la realizzazione di due edifici pubblici. A partire da Vigarano Mainarda, in provincia di Ferrara, dove Galante e Rondinelli sono autori del Palavigarano. Una palestra finalizzata alla pratica di due discipline sportive, il basket e la pallavolo ma che può anche ospitare manifestazioni culturali ed espositive. «La struttura è stata concepita all’insegna 170

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BIOARCHITETTURA | Edifici pubblici

In apertura, l’asilo intercomunale “Il Veliero” (Mirabello – Fe), gli architetti Galante e Rondinelli con il loro staff e, sotto, il Palavigarano (Vigarano Mainarda - Fe). In questa pagina, sopra, il progetto per il Motel Rocca Angitola e, sotto, l’Hotel Resort (Vibo Valentia) galante-rondinelli@alice.it

della leggerezza, della funzionalità e del risparmio energetico» spiega l’architetto Galante. Il Palavigarano, la cui tribuna può ospitare fino a 500 persone, «ha una struttura di copertura a “volta di botte” con orditura principale a otto archi in legno lamellare, il tutto collegato alle fondazioni tramite piastre bullonate, mentre l’orditura secondaria realizzata con arcarecci in legno e tiranti in acciaio è ricoperta da un telo in tessuto di poliestere biplasmato a doppia parete. In questo modo all’interno vi sarà aria calda o fredda a secondo delle condizioni climatiche esterne». E sempre in zona, i due architetti ferraresi hanno realizzato l’asilo nido intercomunale “Il Veliero”, per i comuni di Mirabello e Vigarano Mainarda. «La progettazione dell’asilo è il risultato di un confronto tra i comuni e noi progettisti, con l’obbiettivo di realizzare una struttura salubre attraverso l’utilizzo di materiali, tecnologie e impianti di tipo bioecologico» sottolinea Galante. E proprio il concetto di bioedilizia si è rivelata l’idea vincente per questa struttura, che ha ottenuto il certificato “Classe A” dalla Regione Emilia Romagna. «I volumi si collegano su quattro lati con una corte interna, dove si affacciano i C&P

servizi. L’orientamento solare dell’asilo e la distribuzione interna degli spazi funzionali è conseguenza della scelta di privilegiare la luminosità delle stanze, relazionandole allo stesso tempo con il giardino e la corte. La struttura portante – interviene Rondinelli - è realizzata con elementi prefabbricati bidimensionali in legno per pareti e solai, l’uso del cemento è limitato alle fondazioni. Il risultato è un involucro ben isolato. Ma non si concentra unicamente al Nord il lavoro dei due architetti. Di recente si sono adoperati per la progettazione di un importante complesso ricettivo per l’area turistica di Vibo Valentia. Un Motel e un Hotel Resort, posizionati strategicamente tra il mare e le principali vie di comunicazione. Secondo l’architetto Rondinelli, «gli edifici, anche nel loro tratto architettonico, dichiarano la loro volontà di porsi come passo nel futuro, come ulteriore elemento di coesione e articolazione delle iniziative culturali, economiche e sociali che ruotano intorno al comprensorio e che puntano ad assumere un respiro di carattere propulsivo per l’intera area nel Centro Sud». 171




Tra ingegneria e architettura A volte tra i due ambiti intercorre una sottile ma incolmabile differenza di vedute. Che mette a repentaglio la buona riuscita del progetto. Marco Sostero ed Ermes Copetti scelgono la via della reciprocità di Paola Maruzzi

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Ingegneri e architetti spesso schierati su fronti opposti. Ognuno colpisce sfoderando le armi migliori. Pragmatismo e funzionalità, incalzano i primi. Sottigliezze e resa estetica, ribattono i secondi. Siamo nell’ambito dei luoghi comuni e dei vicoli ciechi. Dalle carte al cantiere c’è il rischio o la fortuna (dipende da che prospettiva si guardano le cose) che il progetto cambi e si deformi. L’esperienza di Marco Sostero ed Ermes Copetti è invece un’altra storia. Il background ingegneristico di Copetti è andato incontro al sapere architettonico di Sostero. E viceversa. «Ne è nata una partnership che va avanti da cinque anni» spiega il primo. «L’ultima collaborazione riguarda la costruzione di una palazzina che si affaccia sul mare di Lignano. Per quanto riguarda la facciata e gli sbalzi, abbiamo cercato di non stravolgere le linee architettoniche. Poi, allargando il discorso, pensiamo al fatto che viviamo e lavoriamo in Friuli. Questo non è un dettaglio di poco conto: siamo C&P


DALLE CARTE AL CANTIERE | Sviluppo del progetto

Siamo costretti a scontrarci con difficili condizioni climatiche. La bora “aggredisce” gli edifici. Penetra tra gli infissi forza le coperture e le porte. È necessario dare solidità alle strutture

In apertura, la palazzina inaugurata a Lignano Sabbiadoro nell’ottobre del 2010 e realizzata grazie alla partnership tra Marco Sostero ed Ermes Copetti marco@sostero.it studiocopetti@libero.it

infatti costretti a scontrarci condizioni climatiche difficili. Pensiamo ai venti di bora e alla scirocco nel periodo invernale. Il vento “aggredisce” gli edifici. Penetra tra gli infissi, forza le coperture e le porte. È necessario quindi dare solidità alle strutture. Deriva anche da questa nostra peculiarità geografica, la voglia e la necessità di mettere insieme le competenze. Lignano si è sviluppata negli anni del boom economico come meta turistica d’eccezione. Se vuole restare sulla cresta dell’onda occorre un restyling». La cornice tratteggiata dall’ingegnere è molto chiara, gli edifici devono avere sostanza oltre che appeal estetico. E su quest’ultimo punto interviene il “collega” Marco Sostero, riportando la discussione su un piano ideale: «La bravura di un architetto sta nella capacità di interagire con tutte le figure professionali; ingegneri, geometri, capi cantieri e manovali compresi. Umiltà e mediazione tra le parti: è questa la scuola di pensiero da cui C&P

provengo». Ma, in concreto come si procede? Sostero ha adottato un metodo, cioè «coinvolgere l’ingegnere quando il progetto è ancora in fase embrionale, senza aspettare che si inauguri la messa in opera. Non tutti gli architetti procedono in questo modo. Anzi, a volte si trincerano dietro le loro campane di vetro. Dimenticandosi degli aspetti pratici». In gioco, infatti, non c’è solo la buona riuscita del progetto, ma soprattutto l’abbattimento dei costi. Ci tiene a precisarlo Sostero. «Più che essere competitivi tra gli addetti ai lavori, bisogna esserlo con i mercati. Va benissimo l’estro dell’architetto, ma teniamo sempre presente che ogni trave, ogni pilastro elaborato triplica i costi. La difficoltà sta proprio nel trovare il giusto compromesso tra forme estetiche, funzionalità e prezzi sostenibili. Nell’attenzione verso gli aspetti pragmatici – ammette l’architetto – gli ingegneri hanno una marcia in più. Non ci resta, dunque, che prenderne atto». 175


Foto di Elia Falaschi

La moderna agorà prende forma tra le luci Un luogo di incontro, di fusione. La piazza come spazio aperto al divenire dell’anima urbana. Pierangelo Brandolisio illustra la filosofia posta alla base della riqualificazione urbana del centro storico di Fanna di Aldo Mosca

«La Piazza, soprattutto nella tradizione europea e in quella italiana in particolare, è il luogo urbano per eccellenza, tema ambito da molti architetti che spesso devono confrontarsi con le molteplici miopie culturali presenti nel territorio». A parlare è Pierangelo Brandolisio, architetto di Pordenone conosciuto anche per la pubblicazione di importanti progetti e per l’ottenimento di premi e riconoscimenti a livello Europeo e nazionale. Un professionista che è, inoltre, autore della riqualificazione urbana di uno dei punti cardine del centro storico di Fanna (Pn), Piazza XX Settembre. Da sempre impegnato nella ricerca e nello studio dei paesaggi urbani, con una fissazione per l’analisi costante dei materiali e delle tecnologie applicative, questo allievo di Arrigo Rudi, ultimo maestro della corrente filo-scarpiana, ci tiene a lasciare la propria impronta su ogni progetto realizzato. «Da un’accurata analisi dello stato di 176

fatto, ho voluto liberare Piazza XX Settembre da ogni presenza dissonante, da ogni superfetazione, al fine di restituire alla storia un vuoto urbano autentico, privo di ostacoli e interruzioni formali, un unicum di piani inclinati giustapposti» racconta. Brandolisio osserva da sempre l’agorà come un luogo d’incontro che proprio attraverso «il non definito» sottolinea i fatti urbani per eccellenza. «L’intervento è volto ad esaltare l’architettura del luogo, specialmente la chiesa di San Martino, che è la vera protagonista di questo spazio. Un’area che deve accogliere la luce zenitale e le proiezioni d’ombra, favorendo i molteplici rapporti che intercorrono tra le istituzioni e il cittadino». Le linee guida del progetto di Brandolisio ricalcano gli antichi tracciati che, secondo i flussi consolidati, dirigono verso la chiesa di San Martino e l’adiacente canonica istituita in tempi successivi. La pavimentazione, disposta trasversalmente ai flussi C&P


RIQUALIFICAZIONE URBANA | Pierangelo Brandolisio

Alcuni particolari di Piazza XX Settembre, Fanna (PN) p.brandolisio@archiworld.it

Non volevo elementi puntiformi di illuminazione che disturbassero la piazza. Ho pensato a un corpo libero e snello, indipendente nelle forme

pedonali, è in pietra locale e ricopre una superficie di circa 1600 mq. Quest’ultima è stata definita dal modulo ricavato dal colonnato tetrastilo del Pronao. L’area del sagrato è invece delimitata da un ordine lapideo imposto dal rigoroso pronao, secondo l’asse della navata centrale. «Non volevo avere elementi puntiformi di illuminazione che disturbassero la piazza, spesso scomodi, pertanto ho pensato a un corpo libero e snello, indipendente nelle forme, posizionato nel marciapiede opposto, capace tuttavia di controllare, mediante cinque proiettori disposti a ventaglio, la luce artificiale – prosegue l’architetto -. Per l’area di piazza verde è stata usata una luce indiretta. Immaginavo uno sfondo morbido che suggerisse uno spazio alternativo anche sotto il profilo cromatico». Una realizzazione resa possibile anche grazie alla precedente Amministrazione comunale, che ha sostenuto nel 2000 il progetto unitario, voluto e C&P

realizzato senza alcuna riserva dall’esecutivo nel 2008. In tutto, il costo complessivo per la riqualificazione della piazza sfiora il mezzo milione di euro. «L’intervento urbano è stato completato con la definizione cromatica dei parterre nell’area alberata e attraverso elementi d’arredo di maggior dettaglio, quali luci artificiali, panchine, paracarri e cestini – conclude Brandolisio -. Siamo riusciti a caratterizzare un luogo attraverso un’architettura volta a enfatizzare un ambito appartenente alla collettività. Abbiamo formato assi pedonali e aree di sosta per la fruizione degli edifici istituzionali presenti riqualificando, al tempo stesso, l’ingresso laterale della Chiesa di San Martino e del Sagrato. Questo spazio deve essere necessariamente flessibile nel tempo, deve poter essere allestito di volta in volta per attività culturali e istituzionali, grazie soprattutto a un rapporto interattivo tra gli elementi architettonici presenti». 177


Verso una nuova edilizia L’orientamento dell’attività urbanistica ed edilizia è consolidato verso il recupero e la trasformazione del tessuto urbano obsoleto. Centriamo le caratteristiche dei metodi costruttivi con Claudio Gulti di Ezio Petrillo

Il settore della progettazione edilizia di edifici residenziali e industriali è diventato una sorta di termometro dell’economia di una nazione. La crisi oggi non investe soltanto operatori economici, ma si riflette su altri comparti in una sorta di effetto a catena. Le cause sono diverse. «La chiusura dei mutui bancari a garanzia ridotta e a lungo termine ha stroncato l’acquisto di case usate da parte degli immigrati e, conseguentemente, l’acquisto di nuove case da chi le doveva vendere. Le attività edilizie in corso non hanno prospettive favorevoli. Ciò implica il rimando dei progetti dei nuovi interventi a tempo indeterminato». A parlare è l’architetto Claudio Gulti che evidenzia come i correttivi approntati a livello governativo non siano stati totalmente efficaci. «Il “Piano casa”, ad esempio, a mio

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avviso non ha risolto i problemi. Basta leggere le statistiche dei progetti presentati. A Milano sono addirittura al di sotto della decina». I possibili interventi da approntare per un comparto in crisi devono, allo stesso tempo, conciliarsi con esigenze di tutela ambientale. «Il rispetto dell’ambiente – spiega Gulti - deve essere garantito dal mantenimento delle attività agro-silvo-pastorali, senza le quali il controllo del territorio è pura utopia. Ne sono esempio i disastri continui ad ogni pioggia. Se manca il mantenimento dei cavi, dei rii, delle cunette, lo scolo delle acque non è governato e non può che produrre danni. Questa operazione la possono fare solo i proprietari dei fondi direttamente interessati alla produttività derivante. Le risorse andrebbero concentrate e spese per sostenere i

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RIQUALIFICAZIONE URBANA | Claudio Gulti

Alcuni progetti presentati dall’architetto Claudio Gulti che lavora nello studio di Peschiera Borromeo (MI) arch.gulticlaudio@tin.it

In Italia e nella Mittel Europa prevale la costruzione delle case in pietra, mattoni e calcestruzzo. L’idea di solidità ultracentenaria di un immobile è nella cultura media delle popolazioni proprietari dei fondi, soprattutto collinari e montani per incentivare il non abbandono del territorio. Così si può garantire anche la conservazione di borghi in fase di abbandono». Le tecniche costruttive impiegate in edilizia sono diverse a seconda della cultura delle popolazioni e dei climi dove si attuano. «Parlando di case, per esempio, in Italia e nella Mittel Europa la costruzione in pietra, mattoni e calcestruzzo è prevalente. L’idea di solidità ultracentenaria di un immobile è nella cultura media delle popolazioni. Nessuno mi è mai venuto a chiedere di costruire una casa tipo “baracca” in legno nel nostro Paese, cosa che invece è del tutto normale negli Stati Uniti, popolo di “nomadi” interni allo Stato. Le costruzioni a secco (ferro C&P

e rivestimento in placoplatre o cartongesso) sono invece tipiche dei paesi nordici dove il gelo la fa da padrone. In sostanza rimango del parere che il buon mattone Italico sia ancora il più valido tra i metodi costruttivi per la normale edilizia. Ovviamente, se si parla di altre utilizzazioni il discorso cambia». Le tecniche sono diverse a seconda delle dimensioni geometriche dell’involucro. «Viene impiegato il ferro per alte strutture (maggiore resistenza), calcestruzzo e legno lamellare per i capannoni. Del recente passato sono diverse le applicazioni tecnologiche che hanno enormemente arricchito e migliorato l’edilizia moderna, ma che necessitano di molta attenzione nella posa. Oltre alla scarsità di risorse, un altro problema del settore è che l’evoluzione tecnica non ha finora richiesto agli operatori identica evoluzione culturale nella conoscenza dei prodotti da utilizzare. La partecipazione a scuole edili di formazione e la conoscenza dell’Italiano deve essere obbligatoria per chi intenda lavorare nel settore. Oggi la maggioranza degli operai è formata da immigrati con tutte le enormi difficoltà di comprensione che ne conseguono». 179


Funzione d’uso e funzione estetica Per Vitruvio, l’architetto è un intellettuale capace di modellare lo spazio secondo i requisiti di stabilità, utilità e bellezza. Seguendo gli stessi principi, Aldo Pavoni guarda alla riqualificazione urbanistica e al recupero dei Silos di Trieste di Adriana Zuccaro

«Mediatore paziente tra l'intellighentia che ruota attorno a un progetto e la committenza, l’architetto ha, oggi più che in passato, l'obbligo morale di divulgare la cultura della qualità e del “costruire bene” con ogni mezzo». Per questo, gli sforzi creativi e propositivi dell’architetto Aldo Pavoni dello studio Archeaprogetti, si basano sempre sui tre principi vitruviani di firmitas (stabilità), utilitas (utilità), e venustas (bellezza). In quali termini si traduce l’utilitas in ambito urbanistico? «In genere affrontando un progetto, la prima risposta da dare è sempre di tipo “utilitaristico”, quindi funzionale nel senso più ampio del termine. Un luogo facilmente riconosciuto e riconoscibile che si proponga a un uso 180

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RIQUALIFICAZIONE URBANA | Aldo Pavoni

In apertura, Aldo Pavoni di Archeaprogetti di Latisana (UD) impegnato nella riqualificazione dei Silos di Trieste info@archeaprogetti.it

intenso e vitale. Nel processo di scelta formale e tipologica delle diverse categorie d’uso di edifici progettati, ogni nostro intervento è infatti accomunato da una forte attenzione alla permeabilità, immediatamente percepita o dichiarata esplicitamente dal linguaggio architettonico o simbolico». Come può l’architettura correggere le incongruenze del tessuto urbano? «L'architettura, poiché viene investita di significato solo se fruita dall'uomo, deve saper virare verso l'integrazione spaziale delle varie funzioni protagoniste della quotidianità dell'individuo, non ponendosi come “guaritore” delle abitudini errate delle persone, ma creando nuove centralità che diano interesse e vivibilità anche alle periferie». E per riqualificare le zone inutilizzate? «Le aree urbane dismesse sono spesso ex aree industriali o militari che hanno però peculiarità diverse; nel caso in cui la qualità architettonica non esista, non bisogna aver paura di demolire per riqualificare, infrangendo quello che in Italia è diventato quasi un C&P

Il progetto di recupero dei Silos dichiara la modernità dei volumi aggiuntivi con una copertura in acciaio e vetro tabù: l’ossessione del recupero a tutti i costi. Esempio inverso è quello dei Silos di Trieste, edificio dell’800 di grandissimo valore architettonico: a quei tempi anche gli edifici di lavoro o solo di stoccaggio merci richiedevano pregio e qualità estetica, non solo funzionale». Come ripristinerete la venustas dei Silos di Trieste? «Il progetto di recupero segue la linea della netta dichiarazione della modernità dei volumi aggiuntivi, che si sostanzia in una copertura in acciaio e vetro della corte centrale fra le due ali dell’edificio storico, e con la nuova testata nord in elementi prefabbricati rivestiti esternamente con lamiera stirata. Il progetto delle parti storiche, al contrario, punta a valorizzare al massimo quella che è al contempo un’imponente ed elegante struttura voltata in pietra e laterizio, con interventi che vanno dal consolidamento statico all’illuminazione d’accento». 181


ARMONIE ARCHITETTONICHE | Marcella Morlacchi

Un nuovo sguardo sulla Capitale La città eterna è piena di esempi di edifici dal colore “sbagliato”, che ne compromettono l’armonia architettonica e di conseguenza il decoro. Il piano del colore è lo strumento volto a restituire il cromatismo corretto degli edifici storici di Roma. Ne parliamo con l’autrice Marcella Morlacchi di Ezio Petrillo

Troppo spesso le nostre città sono prive di “semantizzazione”, di elementi pregnanti che possano in qualche modo denotarne una riconoscibilità, un marchio, una caratteristica. Il colore in questo caso è l’elemento primario, distintivo, che conferisce all’uomo un senso di appartenenza al territorio di tipo identitario e relazionale, nell’epoca in cui i non-luoghi pervadono i nostri spazi. Ma come si riconosce il vero colore di Roma? «Dovremmo andare, d'inverno, sul lungotevere e, con le spalle alla Farnesina, guardare attraverso le rade foglie dei platani il colore di palazzo Farnese. Esso è la sintesi dell'accostamento di due tipici materiali di superficie che da secoli, dall'epoca romana agli anni dell'eclettismo, rivestono i muri degli edifici, a protezione e decoro della struttura sottostante: il travertino e il laterizio a cortina, in tutte le loro infinite sfumature di tono. Il travertino vero o simulato nei risalti dell’ordine architettonico, il laterizio vero o simulato, nei fondi delle pareti». A parlare è l’architetto Marcella Morlacchi. Roma, città eterna, può diventare l’esempio calzante di come la realizzazione di un “piano del colore” adeguato, possa restituire alla 182

collettività quel decoro e quella bellezza che solo individuando il “colore giusto” per ogni edificio storico si può ottenere. «Un colore “sbagliato” – spiega l’architetto Marcella Morlacchi, autrice del volume Roma, il colore e la città edito da Gangemi- può costituire un motivo di deprezzamento dell’intero palazzo, mentre, al contrario, il colore “giusto”, ossia distribuito correttamente su fondi murari e risalti, ne esalta le caratteristiche, la bellezza architettonica e riqualifica l’intero ambiente circostante». Gli errori cromatici nel restauro degli edifici, almeno nella capitale, hanno i giorni contati. La metodologia seguita dalla Morlacchi per il territorio del Municipio II, la conseguente Normativa e la Tavolozza dei Colori verranno estese a tutto il tessuto urbano della Città Storica,nel Piano di Tutela dell’ Immagine : Colore e Arredo Urbano di Roma. Una commissione di esperti sarà a fianco dell’ arch.Morlacchi per completare ognuno per il proprio ambito di competenza ( archeologia,verde urbano,arredo degli spazi aperti,ecc.) - questa necessaria e urgente operazione di tutela della bellezza di Roma Capitale. C&P



Verso un’architettura colta prima che pretenziosa La terza dimensione dell’architettura dilata lo spazio e ne riduce i contorni, utilizzando forme e colori del linguaggio pittorico. Ne nascono volumi che danno emozioni e rispondono alle attuali esigenze dell’abitare. La filosofia di Lucio Merlini di Lucrezia Gennari

“Quando una cosa è espressa bene, il suo valore diviene molto alto”. La poetica enunciata nel 1976 da Carlo Scarpa trova continuità e rinnovamento nei progetti di Lucio Merlini, poliedrico artista veneto il cui «approccio all’architettura è legato alla cultura». Dedicatosi in prima battuta alla sola arte pittorica, ha poi abbracciato «quel particolare spirito dell’architettura che nasce con l’uso del colore e delle 184

forme e che si sviluppa ricalcando il linguaggio proprio della pittura». Interazioni, rispondenze e finalità sono le carte poste in gioco dalla coscienza creativa degli architetti contemporanei. «Oggi tendiamo a razionalizzare l’idea e a renderla leggibile, diretta – sostiene Merlini –. Non si lascia molto spazio alle cose nascoste. Si vuole vivere quello che si vede realmente. Il contatto deve C&P


PROGETTAZIONE | Lucio Merlini

In apertura interno di un’opera residenziale firmata dall’architetto Lucio Merlini. In questa pagina, restling di un palazzo d’angolo in Villafranca di Verona www.studiomerlini.com

Il contatto con lo spazio deve essere quasi immediato, definito, evoluto, trasparente. Il vetro è la materia più usata, perché funge da tramite e contiguità tra spazio interno ed esterno

essere quasi immediato, definito, evoluto, trasparente. Così il vetro è la materia più usata, perché funge da tramite e contiguità tra spazio interno ed esterno». Come giungere allora a un’architettura colta piuttosto che tecnologica e pretenziosa? «Tutto nasce da un discorso emozionale. Prima di impegnarsi sugli aspetti tecnici o costruttivi, dobbiamo fare in modo che ogni individuo possa sentirsi sempre a casa anche in spazi in cui è, per forza di cose, assieme agli altri e che, a maggior ragione, possa sentirsi totalmente a proprio agio all’interno della sua abitazione». L’architettura di Lucio Merlini mira a ottenere proprio questo risultato. A rispondere alle esigenze attuali dell’abitare, offrendo soluzioni qualificate, che creano emozioni, anche a chi, in questo momento storico, non ha una relativa disponibilità economica. «In una realtà condizionata dalla crisi economica globale, trovo sia giusto comunque offrire, a chiunque lo desideri, un approccio qualificato alla progettazione delle abitazioni, dallo studio dell’arredamento, alla C&P

ristrutturazione degli spazi» afferma Merlini. Il suo lavoro si rivolge dunque a una clientela qualificata che, anche con relative possibilità economiche, desideri ottenere architetture che danno emozioni. Ma come nascono progetti di questo tipo? I diversi livelli cognitivi che consentono di creare e usufruire di un oggetto architettonico si concentrano nella fase ideativa. «Nel primo schizzo c’è già il centro del progetto – afferma Merlini –. C’è lo spirito dell’idea da affinare, il sistema costruttivo, la volumetria. Tutto prende forma se si individua la giusta relazione tra lo spazio e l’uomo». Occorre estrapolare tranche di realtà e individuarne la più profonda necessità di benessere, universalmente inteso. «Perciò - conclude l’architetto prediligo lo spazio fluido che si dilata, entra dentro altre situazioni e ambienti, espande l’individualità nel suo rapporto con l’intorno. Colgo determinati effetti prospettici camminando, muovendomi all’interno di situazioni ambientali che sono già nella realtà per percepire fino in fondo la tattilità degli oggetti e intuirne l’essenza». 185


L’architettura pubblica tra funzione e contemporaneità Percorsi fluidi e razionalità degli spazi. Sono i cardini della progettazione. Soprattutto quella degli edifici pubblici. Mirella Morelli racconta il progetto del nuovo padiglione dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova di Eugenia Campo di Costa

Restare concentrati sulle esigenze dell’utilizzatore finale. Che sia un singolo individuo, o un piccolo nucleo familiare o, ancora, la collettività. Questo, secondo l’architetto Mirella Morelli, è il fulcro dell’approccio alla progettazione di un qualsiasi edificio, dall’abitazione, all’ufficio pubblico, al padiglione ospedaliero. «La fluidità dei percorsi e degli spazi e la razionalità nel loro utilizzo sono la base ispiratrice di ogni progettazione» afferma l’architetto. Attualmente il principale lavoro in cui è impegnata l’architetto è il progetto del nuovo padiglione 186

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PROGETTAZIONE | Mirella Morelli

In apertura, il render del nuovo padiglione dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova e, sotto, il recupero dell’albergo Minetto a Urbe Martina (SV). Qui sopra, render nuovo insediamento a Gattorna – Moconesi (GE) realizzato in collaborazione con l’architetto Carlo Andrea Guidi di Bagno. Lo studio Morelli Piana si trova a Genova studiopiana@libero.it

Il nuovo padiglione dell’Istituto Giannina Gaslini, oltre a liberare spazi che potranno essere destinati alla ricerca, mira a dimostrare la necessità e la volontà di essere inseriti nella contemporaneità dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova, Istituto pediatrico per la diagnosi e cura dell’infanzia e ricerca scientifica, settore in cui l’Istituto eccelle a livello non solo nazionale. Il piano del nuovo padiglione e del parcheggio in sottosuolo per 600 auto è risultato il vincitore dell’Appalto Concorso concessione San Gerolamo, e portava la firma dell’architetto Emilio Piana che lo aveva studiato in collaborazione con la moglie, l’architetto Mirella Morelli. Il progetto è stato approvato nel 1998 dal Comune di Genova. «Per l’indisponibilità di fondi sufficienti a realizzare l’intera opera in un lotto unico – spiega l’architetto Morelli -, nel 2004 è stato terminato il primo lotto del parcheggio in sottosuolo, progetto curato da me personalmente. Nel 2009 è stato terminato il secondo e ultimo lotto del parcheggio». Nel frattempo, anche e soprattutto grazie a una generosissima donazione all’Istituto Giannina Gaslini, «abbiamo iniziato la costruzione del nuovo padiglione per la cui progettazione di variante sono affiancata dallo C&P

Studio Canepa Associati di Genova». L’assetto progettuale ha conservato l’impostazione originaria: un nucleo centrale prevalentemente vetrato da cui si sviluppano due ali laterali degradanti verso l’alto con coperture piane a prato. L’impostazione formale del nuovo padiglione, che volutamente non evoca gli edifici fra cui si pone, vale a dire il resto dell’Istituto, realizzato dall’architetto Angelo Crippa del 1938, e il complesso storico dell’Abbazia di San Gerolamo, vuole essere espressione del proprio tempo anche se, nell’utilizzo della pietra naturale per il rivestimento esterno, richiama materiali storicamente utilizzati in architettura. «Grazie anche alla disponibilità e alle osservazioni formulate dai vari enti preposti all’approvazione del progetto e alle indicazioni puntuali dell’Istituto stesso - conclude l’architetto Morelli -, l’edificio, oltre a liberare spazi che potranno essere destinati alla ricerca, mira a dimostrare la necessità e la volontà di essere inseriti nella contemporaneità». 187


Edificio e contesto Un rapporto armonico Nella progettazione, ma anche nel recupero di un edificio, non si può prescindere dalle preesistenze. Così, alla funzionalità degli spazi, deve coniugarsi l’armonia con il contesto. L’esperienza dell’architetto Vittorio Brambilla di Civesio di Eugenia Campo di Costa

Funzionalità. Una “parola chiave” in architettura. Perché lo spazio deve innanzitutto rispondere ai bisogni e alle esigenze di chi lo vive. Sia che l’architettura interessi la progettazione ex novo di un edificio, pubblico o privato, sia che riguardi il restauro architettonico di un fabbricato tutelato dalla Soprintendenza, o il recupero in genere. L’esperienza dell’architetto Vittorio Brambilla si è sempre basata su questo fondamento. «Renzo Piano afferma che l’architettura è “un’arte corsara” - interviene l’architetto

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Vittorio Brambilla di Civesio - fatta di molta osservazione, che si inserisce nel contesto senza deturparlo, ma per valorizzarlo, affiancandosi armoniosamente alle preesistenze, e risolvendo in meglio la scansione dei vuoti e dei pieni». E così, quanto realizzato a Contra di Missaglia (LC) negli anni 1996-1999 si rivela un esempio di costruzione per una comunità religiosa in adiacenza all’esistente, un edificio che risolve in modo armonioso la sua collocazione, facendo attenzione all’inserimento nel contesto paesaggistico del parco che lo circonda,

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PROGETTAZIONE | Vittorio Brambilla di Civesio

A sinistra, Contra di Missaglia (LC): il progetto per la nuova costruzione è caratterizzato da spazi interni perfettamente funzionali rispetto agli elementi rigidi. A destra, Milano - Via Bonvesin de la Riva: nuova reception istituto scolastico con pavimenti in marmo e granito

all’orientamento della “stecca” da nord-est a sud-ovest per rendere più salubri gli alloggi. Il progetto per l’edificio nel Comune di Missaglia (LC) sorge sulle colline della Brianza in una frazione esterna al paese, poco distante da Montevecchia. «La necessità della proprietà dell’immobile era quella di ampliare l’edificio preesistente risalente al 1969 - illustra l’architetto -, localizzando nel nuovo edificio di tre piani fuori terra, camere e servizi confortevoli per religiose anziane, la reception, un’autorimessa al piano seminterrato e al piano primo una cappella religiosa con pavimento e altare in marmo, con ampie vetrate, in parte vivacizzate con vetri colorati e simboli liturgici». La cura progettuale è stata fondamentale nel rendere gli spazi interni perfettamente funzionali rispetto agli elementi rigidi (strutture e tamponamenti). «Le ampie vetrate che si sovrappongono ad angolo ai piani rialzato,

In apertura, Missaglia (LC): intervento di restauro in più fasi della ex Villa Melzi di Cusano (XVII secolo). A lato, l’architetto Vittorio Brambilla di Civesio, milanese. Ha sviluppato l’attività sia nell’ambito dell’edilizia residenziale ricettiva e scolastica, sia nel restauro architettonico architettobrambilla@hotmail.com

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primo, secondo alleggeriscono il fabbricato e nello stesso tempo danno un senso di autorevolezza, mentre dall’interno si gode del panorama del parco e delle colline circostanti». La progettazione e direzione lavori dell’architetto Brambilla di Civesio si è specializzata anche nei plessi scolastici, che costituiscono un sistema complesso di funzioni: ambienti didattici, uffici, palestre, sale teatro o multiuso, pensionati universitari, porzione residenziale. «Gli interventi principali – spiega l’architetto - riguardano a Lodi in Via Cabrini l’ampliamento e il sopralzo della scuola e il recupero del sottotetto per la comunità religiosa, a Milano, in via Bonvesin de la Riva, la nuova reception dell’istituto scolastico con pavimenti in marmo e granito oltre agli spazi interni, a Pavia in viale Il Moro il sopralzo per nuove aule e nuovo volume scuola ai piani seminterrato, rialzato, primo nonché ristrutturazione di salone teatro, servizi, a Brescia in via Lombardia il sopralzo della scuola e la ristrutturazione della sala teatro, a Melzo in via Casanova la formazione della nuova scuola materna, la ristrutturazione della palestra del plesso scolastico, la formazione di nuove camere per la residenza della comunità religiosa». 189


Vivibilità e comfort Che si progetti una villa di lusso, un palazzo borghese o un’abitazione popolare non si può prescindere dallo studio intelligente dello spazio. Parola dell’architetto Paolo Russo di Eugenia Campo di Costa

Progettare il comfort. Perché una casa deve essere vissuta al meglio. Che sia una villa di lusso o un’abitazione popolare. Il lavoro dell’architetto mira a sistemare gli spazi affinché possano essere vissuti comodamente, studiando soluzioni adatte alle esigenze di chi, quegli spazi, li abiterà. «È fondamentale che l’opera sia esteticamente valida e indovinata dal punto di vista distributivo perché, se si sbaglia, la casa non viene né venduta né comprata» commenta l’architetto Paolo Russo di Roma. Un professionista della vecchia guarda, di quegli architetti che ancora disegnano a mano, la cui esperienza non può essere eguagliata dalle nuove generazioni. «Noi siamo stati fortunati – afferma perché subito dopo la guerra c’è stata la ricostruzione. A sei mesi dalla laurea già lavoravo come un professionista avviato. Gli architetti della mia generazione hanno costruito tanto, sia per i ricchi che per i meno abbienti». Ed eccoli due esempi 190

eccellenti di queste architetture residenziali. Una villa borghese all’Olgiata e un fabbricato intensivo in zona Tuscolano – S. Giovanni. Grande, lussuosa, la villa dell’Olgiata è stata realizzata circa cinque anni fa dall’architetto Paolo Russo. «È una casa per una famiglia numerosa, ha parecchie camere da letto, grandi soggiorni, comodità infinite, ascensore interno, una grossa autorimessa, piscina e un’impiantistica

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PROGETTAZIONE | Paolo Russo

In apertura e a sinistra due immagini della villa dell’Olgiata progettata dall’architetto Paolo Russo. Nella pagina precedente, sotto, il progetto del fabbricato intensivo in zona Tuscolano – S. Giovanni, con pianta “a sciabola” paolo.russo49@virgilio.it

Nella villa bisogna prevedere il giardino, nella palazzina verande, terrazze. Prediligo i balconi ampi, abitabili, non solo nelle case di lusso ma anche nelle abitazioni popolari particolare». La residenza ben si adatta all’esclusività del contesto in cui sorge, un quartiere che è una vera e propria “riserva controllata”, con due ingressi e vigili all’entrata. «È molto difficile ottenere l’approvazione dei progetti in questa zona, perché devono rispondere a determinate caratteristiche estetiche, funzionali, residenziali». Il quartiere è nato intorno al campo di golf dell’Olgiata, uno dei più antichi di Roma e molte residenze appartengono proprio agli amanti di questo sport. È evidente l’esclusività del contesto, nonché l’importanza di rispettare l’ambiente circostante, caratterizzato da viali alberati e vegetazione lussureggiante. «Il rispetto per il verde è stato un altro cardine imprescindibile nella progettazione della villa – continua l’architetto – , massima attenzione è stata posta al mantenimento dei prati, all’alberatura. Ho progettato la casa in modo da non dovere abbattere C&P

neanche un albero, prevedendo un ampio prato all’inglese». Anche giardini, terrazze e balconi rientrano in quella concezione del comfort tanto ricercata dall’architettura di Paolo Russo. «Nella villa bisogna prevedere il giardino, nella palazzina balconi, verande, terrazze. Prediligo progettare balconi ampi, abitabili e non solo nelle case di lusso, ma anche nelle abitazioni a carattere popolare». Un tempo le case popolari non avevano balconi ma solo finestre, oggi «anche queste ambiscono ad avere balconi più grandi e terrazze». Un concetto che Paolo Russo aveva già fatto suo dieci anni fa, quando progettò il fabbricato intensivo in zona Tuscolano – S. Giovanni. Si tratta di un fabbricato a carattere medio borghese, interessante soprattutto per la particolare forma planimetrica, che Paolo Russo ama definire «a spada, a sciabola». Un progetto voluto da Gaetano Caltagirone che ha richiesto un lavoro particolarmente impegnativo. «Questo progetto è fatto “a scalette” – conclude l’architetto Russo – e per risolverlo, man mano che il fabbricato sale, per questioni di regolamento ho dovuto adeguarmi strutturalmente e quindi ritirare gradualmente il prospetto. Ne è nata una prospettiva, una sagoma del fabbricato molto divertente, molto originale». E ancora oggi assolutamente attuale. 191


Dove la mano disegna l’emozione dell’abitare La casa è un involucro che deve realizzarsi attorno a chi andrà ad abitarla. È un tutt’uno, un continuum con il suo inquilino e con il suo evolversi. È, come spiega Marilisa Da Re, «il progetto più emotivo di tutta l’architettura» di Aldo Mosca

«Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino». È da questo celebre aforisma di Victor Hugo che l’architetto Marilisa Da Re inizia il racconto del suo fare architettura. Un’attitudine che la guida da anni nella realizzazione di progetti abitativi. «Aprioristicamente conoscere l'inquilino ci permette di costruire la sua “conchiglia”. Questo è il principio che guida la progettazione». Principio che, secondo l’architetto di Pordenone, si concretizza nel riuscire a trasferire nell'abitazione «il personale sentimento dell'abitare, facendo in modo che ognuno viva nella propria casa e non in case altrui». Alla base di queste riflessioni si scorge inevitabilmente la passione che Da Re ripone in questo settore progettuale. Il suo studio, pur occupandosi trasversalmente di più ambiti architettonici, è negli edifici residenziali, nella loro completezza, dalla ristrutturazione all’interior design, dall’inserimento dell'edificio nell'esistente alla sistemazione del verde di pertinenza, che trova la 192

C&P


PROGETTAZIONE | Marilisa Da Re

A sinistra, in basso, Marilisa Da Re nel suo studio di Pordenone. Nelle altre immagini, alcuni render dell’architetto di un edificio in realizzazione ledarch@hotmail.it

L'edificio abitativo non può assoggettarsi a stilismi che non siano propri del suo utilizzatore

propria raison d’être. Cosa accade prima di realizzare un’abitazione? «La progettazione delle dimensioni degli spazi abitativi e la loro organizzazione viene sempre preceduta da lunghi colloqui con la committenza, successivamente al loro dimensionamento gli spazi vengono messi in relazione con il volume, la luce e, conseguentemente, con il colore. Tutti elementi che determinano l'emozione e il benessere dell'abitare specifico di ogni individuo». Da dove nasce il suo amore per questo ambito progettuale? «L'edificio dell'abitare è l'organismo più complesso e più denso di variabili di tutta la produzione architettonica, il più pregnante di emozioni, di ricordi, di sentimenti, di modi d'uso». C&P

Lo descrive come fosse un essere vivente. «Questo perché si tratta di un organismo che può cambiare radicalmente fra l'inizio e il termine della fase progettuale. Tutto il mio lavoro è basato sul sentimento nei confronti di quella che sarà, per il committente, la sua “conchiglia”, e che sarà inevitabilmente destinata a cambiare ulteriormente assieme a lui». Pare di capire che lei, più che imporre uno stile, preferisca tradurre in concreto ciò che ha in mente chi andrà a vivere nel progetto. «L'edificio dell'abitare non può assoggettarsi a stilismi che non siano propri del suo utilizzatore, ed è questo l'assunto fondamentale sul quale si basa qualsiasi progettazione. Il nostro obiettivo è quello di accompagnare culturalmente la committenza affinché le esigenze che essa manifesta siano sì personali, ma mai incoerenti o errate». 193


Ogni edificio merita un’adeguata protezione antisismica La reale protezione dal rischio sismico non può essere un diritto riservato solamente agli edifici strategici. Le nuove tecniche di progettazione e di adeguamento antisismico con isolamento si dovranno applicare a tutti i manufatti edilizi. È l’impegno di Rita Manzo e Nino Doganiero di Andrea Costanza

La progettazione antisismica tradizionale, nel rispetto della normativa vigente, ha lo scopo di salvaguardare la vita umana con una sicurezza nei confronti del crollo delle strutture per terremoti di forte intensità «ma per motivi di convenienza tecnica ed economica, prevede e accetta il verificarsi di danni ingenti, anche non riparabili». Per l’architetto Rita Manzo, che insieme all’ingegnere Nino Doganiero coordina TecnoArt Studio, «in caso di terremoto, anche la sola presenza di danni può causare notevoli ripercussioni psicologiche sull’individuo che vede vanificarsi in pochi istanti gli sforzi e i risparmi di una vita intera, con tutte le conseguenze e i costi sociali per la disgregazione della comunità e per la perdita di identità del luogo». A Frosolone, in provincia di Isernia, TecnoArt Studio ha 194

negli anni acquisito notevole esperienza nel campo della progettazione coordinata di architettura e ingegneria «con particolare riguardo alla sicurezza sismica delle costruzioni – spiega l’ingegnere Doganiero - attraverso l’utilizzo delle più moderne tecnologie antisismiche che consentono una protezione pressoché totale, efficace e consapevole nei confronti del terremoto». Fin dall’inizio dell’attività professionale, la missione dell’ingegnere Doganiero e dell’architetto Manzo, in collaborazione con tecnici di settore sia del mondo professionale che accademico, è stata di C&P


PROGETTAZIONE ANTISISMICA | Rita Manzo e Nino Doganiero

In apertura e qui sopra, sezione edificio e render villa unifamiliare con tecnologie antisismiche, e sotto, l’ingegnere Nino Doganiero. Qui, in basso, Rita Manzo, architetto di TecnoArt Studio con sede a Frosolone (IS) info@tecnoartstudio.it

sensibilizzare, far conoscere e divulgare l’applicazione dell’isolamento sismico, oltre che per gli edifici strategici, anche per gli edifici residenziali nuovi ed esistenti, perché «tutti hanno il diritto di essere realmente protetti dal terremoto». TECNOLOGIE INNOVATIVE «Le tecniche innovative di protezione con l’isolamento sismico della struttura – sostiene l’architetto – consentono di conseguire il risultato in maniera molto più efficace rispetto alle tecniche tradizionali poiché limitano direttamente la trasmissione dell’energia sismica da parte del terreno alla struttura; infatti, tra la struttura e la fondazione dell’edificio, vengono inseriti dei dispositivi antisismici che conferiscono al sistema di appoggio un’elevata rigidezza verticale, per sostenere il peso della struttura, e una bassa rigidezza orizzontale, per permettere alla struttura di muoversi rispetto alla fondazione». Rispetto a un analogo edificio tradizionale, sotto l’azione di un evento sismico della stessa intensità e caratteristiche, «nell’edificio isolato sismicamente – specifica l’ingegnere – si evita il danno negli elementi che lo costituiscono, si preserva tutto quello che è contenuto al suo interno, si riduce la percezione umana del terremoto, si annullano le spese di riparazione dei danni e soprattutto il tutto rimane perfettamente funzionante e agibile». Se si prescinde quindi dai costi C&P

sociali e si confrontano i soli costi di costruzione con il sistema tradizionale, questi sono paragonabili se non addirittura inferiori nel caso di edificio isolato sismicamente; peraltro dal punto di vista prestazionale della sicurezza nei confronti del sisma, la differenza è notevolmente a vantaggio del sistema con isolamento sismico in cui, come rivela l’architetto Manzo, «diviene possibile una maggiore libertà progettuale ed espressione estetica nell’individuazione formale e funzionale del manufatto edilizio». Nel corso degli ultimi vent’anni, l’ingegnere Doganiero ha approfondito questa innovativa tecnica di protezione sismica per le costruzioni, diventando un riferimento a livello nazionale per quanti si occupano di progettazione antisismica, sia come consulente sia portando l’esperienza dell’attività professionale in seminari e convegni di settore, nonché in ambito accademico. Per questo «al nostro impegno professionale abbiamo sempre posto l’ambizioso obiettivo di colmare il notevole gap esistente tra il mondo accademico e il mondo professionale, ossia tra la ricerca scientifica e la concreta applicazione a casi reali».


L’adeguamento sismico e funzionale della Scuola “A. Notte” di Macchiagodena rappresenta il primo esempio nazionale di applicazione dell’isolamento sismico a una scuola esistente

IL PRIMO PROGETTO DI ISOLAMENTO SISMICO In coerenza con la filosofia dello studio, «il primo progetto è stato quello di una villa unifamiliare in costruzione nella zona di Frosolone che risulta essere la prima a prevedere l’utilizzo di queste tecnologie innovative di protezione sismica ed è stata inserita nell’elenco delle primissime applicazioni in Italia su pubblicazioni di settore». L’importanza di tale progetto è evidente se si considera che prima della sua realizzazione, le applicazioni antisismiche interessavano prevalentemente gli edifici di maggiore rilevanza strategica, atti cioè a garantire l’operatività e la gestione dell’emergenza in caso di terremoto (ospedali, protezione civile, caserme dei vigili del fuoco), oppure quelli edifici il cui contenuto superava il valore degli edifici stessi (musei, banche, centri di calcolo). «Attualmente, la committenza privata che si rivolge allo studio è più consapevole e chiede esplicitamente residenze con isolamento sismico; di conseguenza, anche le applicazioni all’edilizia residenziale ordinaria cominciano ad essere diverse, sempre più orientate all’isolamento antisismico. Peraltro tali richieste riguardano anche le costruzioni contigue ad altre esistenti, come nel caso di due edifici residenziali di imminente realizzazione a Frosolone; in questi casi è comunque possibile proteggerli adeguatamente dal terremoto prevedendo dei giunti sismici, di dimensione opportuna, per permettere agli edifici isolati sismicamente di muoversi senza interferire con i manufatti esistenti». LA SCUOLA “A. NOTTE” DI MACCHIAGODENA Un importante intervento affidato a TecnoArt Studio 196

è l’adeguamento sismico e funzionale della Scuola “A. Notte” di Macchiagodena. Si tratta di un edificio in cemento armato di quattro piani, costruito tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, per il quale la “sfida” della committenza, è stata quella di voler recuperare integralmente l’edificio per la tutela e la salvaguardia ambientale, e al contempo garantire lo stesso livello di sicurezza di una nuova costruzione ma con costi più contenuti. «L’intervento di adeguamento sismico – spiega l’ingegnere – consiste essenzialmente nell’inserimento di un sistema di isolamento misto, costituito da isolatori e dissipatori, in testa ai pilastri del piano seminterrato, con lo scopo di filtrare e ridurre l’azione sismica a valori prossimi a quella che la struttura è in grado di sostenere nella situazione preesistente». Tale intervento rappresenta il primo, e per il momento unico esempio nazionale di applicazione dell’isolamento sismico a una scuola esistente; «ciò riveste particolare interesse per il recupero del patrimonio scolastico ed edilizio in genere, sia per il livello prestazionale che si raggiunge, sia per i costi decisamente concorrenziali rispetto a un adeguamento sismico tradizionale e all’ipotesi di abbattimento e di ricostruzione». Si ritiene che sia dovere morale, prima ancora che professionale, di tutti gli operatori del settore, informare e incentivare chiunque all’utilizzo dell’isolamento sismico che consente una protezione sismica totale, efficace e consapevole sia della costruzione che del suo contenuto senza nessun costo aggiuntivo, perché tutti hanno il diritto di essere realmente protetti dal terremoto. C&P



I materiali definiscono l’ambiente La scelta dei materiali avviene in base al contesto, alla destinazione d’uso e alle necessità del committente. Tutti gli aspetti devono fondersi in armonia per dare all’ambiente un particolare significato. Il parere di Elisa Casson e Maurizio Cassetta di Andrea Costanza

«L’aspetto più complesso della progettazione sta nel comprendere e interpretare ciò che il committente desidera». A sostenerlo l’architetto Elisa Casson e il geometra Maurizio Cassetta di Venezia. In effetti l’architetto può riuscire a inserire la propria impronta nel progetto solo se c’è feeling con chi poi dovrà usufruire di quello spazio. «Se si instaura una certa sintonia - spiega Casson - si ha maggiore possibilità di fare qualcosa di personale e di lasciare il proprio segno, anche caratterizzando il contesto locale. I materiali possono variare, ma l’impronta del lavoro proviene proprio dalla collaborazione tra architetto e committente». Sperimentare sulle strutture e sui materiali si può, ma sempre e solo se c’è la volontà da parte di entrambi. «Ritengo che lo scopo del progettista sia di creare una pelle sugli edifici» afferma Cassetta, «e per farlo si possono utilizzare diversi materiali. Per esempio il metallo è talmente flessibile da poter racchiudere qualunque edificio, di qualsiasi forma. Personalmente prediligiamo le architetture moderne, aperte alla luce. Nei lavori cerchiamo di utilizzare fondamentalmente il bianco e il nero, giocando sui dettagli dei materiali, come il vetro, le resine, l’alluminio, lo zinco titanio, o impiegando per rivestimenti la pietra o la ceramica». Questi diversi materiali possono anche 198

essere utilizzati insieme, pertanto devono unirsi in armonia. «Tutti i materiali vengono scelti in base alla funzionalità e alla finalità d’uso di quell’ambiente - prosegue Casson - e partendo da questo presupposto poi si può sperimentare l’impiego di certi materiali in ambienti dove abitualmente non si userebbero. Faccio un esempio: il parquet nel bagno, oppure il legno naturale nei rivestimenti sull’esterno, se sono poi previsti adeguati lavori di manutenzione».

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Nella pagina a fianco, in alto, interno progetto di villa “66”; sotto, l’architetto Elisa Casson e il geometra Maurizio Cassetta. In questa pagina, sopra, progetto di “comunità alloggio per disabili”, vista generale del fronte est-sud; qui a fianco, a sinistra, altra visuale dell’interno della villa “66”; sopra, particolare dell’interno del bagno di un appartamento duplex casson.arch.elisa@libero.it geom.mauriziocassetta@gmail.com

La scelta del materiale è influenzata anche dal contesto ambientale in cui sorgerà la struttura. È l’ambiente a dare i primi spunti, «a suggerire se utilizzare materiali più naturali oppure più costruiti. È necessario fare una ricerca sui materiali del luogo – spiega il geometra Cassetta - per cui, per le case di campagna usiamo certi tipi di materiali, come gli intonaci e le pitture a base di calce, la pietra, il mattone a vista; mentre per gli edifici in città osiamo di più, con l’impiego di materiali innovativi tipo la lega di

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zinco e titanio, il rame, l’alluminio anodizzato e con il dialogo vetro e acciaio che caratterizza l’architettura urbana del xx secolo». L’impiego di questi materiali contemporanei è molto presente in paesi europei come Germania e Olanda, ma non è molto sviluppato in Italia. «È un peccato perché, un po’ come succede nella scultura, anche nell’architettura la personalizzazione e l’espressione della creatività derivano non solo dalla forma ma anche dai materiali che si utilizzano». 199


MATERIALI | Franco Vissa

La qualità a terra Individuiamo i materiali maggiormente utilizzati nella progettazione e realizzazione di pavimentazioni nell’ambito industriale e residenziale. La parola alla Vissa Srl di Ezio Petrillo

Un esempio di pavimenti progettati dalla Vissa Srl, azienda che progetta prodotti tecnologicamente innovativi, prestando particolare attenzione all’ambiente e alla salute dell’uomo info@vissa.it

Resina e cemento. Sono i materiali maggiormente utilizzati dalle aziende che progettano pavimentazioni. Resistenza all’usura, agli urti, permeabilità. Sono queste le caratteristiche fondamentali delle pavimentazioni in resina. «È dall’analisi e dallo studio preliminare di ogni progetto, nonché dal sopralluogo per la verifica dello stato dell’ambiente, che inizia il nostro lavoro». A parlare è Franco Vissa, titolare dell’omonima azienda specializzata nella progettazione dei pavimenti sia nell’ambito residenziale che industriale. «La resistenza all'usura delle pavimentazioni in resina deriva dall'effetto simultaneo di diversi fattori come durezza, forma, e granulometria della carica, ossia dei granulati incorporati in superficie o all'interno della massa del legante e dell'indurente impiegato nella posa in opera. La resistenza all'urto dipende invece dalla miscela resina-indurente, ma soprattutto dalla natura della resina, quando l'aggiunta di granulati speciali ne aumenta la deformabilità precedente alla rottura del rivestimento. La permeabilità ai liquidi e quella ai vapori, come pure la capacità di assorbimento dei liquidi, sono fattori 200

importanti, per cui occorre conoscere preventivamente la destinazione della pavimentazione». Le pavimentazioni in resina possono essere trattate anche in maniera speciale, in modo da poter sopportare sollecitazioni chimiche e meccaniche molto elevate. «Le resine stanno prendendo piede anche nel settore residenziale – spiega Vissa -. La loro superficie continua, la resistenza agli agenti chimici e al carico nonché l’ottima conducibilità che le rende adatte all’utilizzo del riscaldamento radiante sono elementi che le avvantaggiano sul mercato della pavimentazioni, assieme alla possibilità di ottenere realizzazioni uniche, assolutamente particolari». Le pavimentazioni in cemento, invece sono particolarmente adatte per capannoni industriali, centri commerciali e supermercati. «Per le caratteristiche intrinseche del cemento, questi pavimenti devono essere trattati con specifici prodotti da finitura trasparenti o colorati che, oltre a proteggerli e a incrementare la loro resistenza all’abrasione, ne modificano, esaltandolo, il loro aspetto estetico». C&P



Semi-minimalismo per interni d’elite L’arredamento definisce sempre l’atmosfera degli interni. Nei bar, ristoranti e hotel, progettati e arredati dalla Frigorim, lo stile parla il linguaggio della linearità. L’obiettivo di Mauro Francesconi è pervenire a un design nuovo ed elegante di Jessica Violanti

Quasi invisibili i dettagli formali. Cromatismi scelti all’insegna dell’emozionalità da suscitare. Spazi e design creano atmosfere che, di volta in volta, il pubblico assimila e poi riconosce. Alla Frigorim ogni idea prende forma dall’esigenza di creare e arredare sale da bar, ristoranti, hotel, gelaterie e molte altre tipologie di locali pubblici, con uno stile che parla il linguaggio della linearità. «L’input ideativo dei nostri progettisti nasce da una concezione di semi-minimalismo d’elite. Si deve 202

sempre prestare attenzione alle grandi novità del mercato dell’arte e del design e prevenirne gli effetti». Mauro Francesconi, portavoce della Frigorim, azienda attiva da oltre cinquant’anni in progettazione, produzione e montaggio di arredamenti per locali pubblici e spazi turisticoricettivi, rileva l’importanza dell’aggiornamento e lo studio delle innovazioni stilistiche e progettuali di settore. «Immettere nel mercato del design prodotti e C&P


ATMOSFERE D’INTERNI | Mauro Francesconi

Immettere nel mercato del design progetti all’avanguardia, significa innovare interpretando il gusto della committenza sempre alla ricerca di uno stile nuovo, elegante, comunicativo e lineare

In queste pagine, interni progettati e arredati dalla Frigorim di Volano (TN) www.frigorim.com

progetti all’avanguardia significa innovare interpretando il gusto della committenza, sempre alla ricerca di uno stile nuovo, inteso in termini di eleganza, comunicatività e linearismo formale». Per raggiungere questi obiettivi e tradurre nell’arredamento le esigenze estetiche e funzionali cui il progetto deve rispondere, la Frigorim impegna lo studio tecnico e gli addetti specializzati alla ricerca di tecnologie e materiali ad hoc. Tra questi, «intramontabile e versatile, il legno è il C&P

materiale che privilegiamo», afferma Francesconi. Con sede a Volano, in provincia di Trento, attiva soprattutto nelle zone tipicamente montane del Nord Italia, la Frigorim predilige i legni “rustici” come il larice e l’abete. «Non poche delle nostre realizzazioni sono presenti anche in Austria, Germania, Canarie, Israele; in Grecia e in Polonia abbiamo arredato le zone comuni di due hotel della catena Hyatt Regency, rispettivamente a Salonicco e a Varsavia». 203


www.zanaboni.it

Eclettiche interpretazioni Tra classico e contemporaneo, le collezioni Zanaboni non guardano né a mode, né a minimalismi. Lo stile è insito nell’arte del decoro. Il linguaggio formale è affidato a preziosità, cromatismi, morbidezze di Adriana Zuccaro

Classicismo e modernità in un raffinato melange di stili che arredano, decorano, raccontano. «Ogni progetto ridefinisce una nuova domesticità che si fa interprete, con una visione di bellezza dalla personalità inedita, delle esigenze di un committente che interpreta la casa come crocevia dove gli oggetti si incontrano narrando storie d’epoche diverse». Portavoce di una firma di stile tra salotti, tessuti e accessori d’arredo d’alto pregio, Massimo Zanaboni descrive una filosofia estetica che si ritrova anche in esclusive club house, ambasciate, prestigiosi hotel a Mosca, New York, Parigi. Le collezioni Zanaboni, infatti, «arredano le dimore di chi sa apprezzare la decorazione e il ricercato dettaglio come i ricami che impreziosiscono i cuscini, la morbidezza delle piume e la preziosità dei materiali, la lucentezza delle pietre o l’oro zecchino. Un esercizio stilistico che sa 204

cogliere l’emozione che emana dai cromatismi delle sete che sono parte delle raffinate proposte tessili definite dalla continua ricerca sul decoro». In casa Zanaboni la texture è l’elemento irrinunciabile per un’eclettica interpretazione di stile. «Lontano dalle mode e dalle tendenze, i nostri salotti, letti e complementi d’arredo veicolano un linguaggio formale innovativo – afferma Zanaboni – che concepisce il comfort come una delle frontiere del progetto e della sperimentazione». Soprattutto negli ultimi anni, con la collezione Atlantique, l’azienda ha dato vita a un nuovo progetto contrassegnato da una forte impronta di gusto internazionale. «Distaccata da quel certo minimalismo architettonico e decorativo ormai abusato, l’attenzione è stata rivolta a prodotti contemporanei, realizzati con la stessa concentrazione artigianale che dal 1967 contraddistingue la produzione Zanaboni». C&P



Un tuffo nell’innovazione La progettazione di piscine richiede laboriosità e rispetto di rigidi canoni come vincoli paesaggistici. Indagini geo-tecniche e stratigrafia dei terreni sono necessarie per realizzare strutture in tutta sicurezza. L’esperienza di Graziano Poles di Ezio Petrillo

Qualche tempo fa la piscina era considerata un bene di lusso. Negli ultimi anni, invece, grazie alla continua evoluzione del settore questo “prodotto” è stato fortemente lanciato. I MATERIALI La scelta dei materiali è una componente fondamentale. «Per scelta realizziamo solo piscine in calcestruzzo gettato in opera, unica tipologia che, secondo la nostra esperienza, garantisce durabilità nel tempo. Questo tipo di struttura, infatti, permette alla vasca di resistere alla spinta dell’acqua e di trasferire al terreno il peso della stessa e dell’acqua in essa contenuta». A parlare sono i soci che rappresentano La Piscina Srl. «Utilizziamo materiali naturali, come la pietra e il mosaico. Per quel che riguarda i rivestimenti delle pareti e del fondo della vasca c'è un ritorno all'impiego del mosaico vetroso, materiale di durata eccezionale che dona all'acqua dei riflessi molto particolari e di grande effetto. Per ciò che concerne la pavimentazione dei solarium, utilizziamo prevalentemente la pietra naturale di origine locale, in 206

Alcune piscine realizzate dall’azienda La Piscina Srl di San Donà di Piave (VE) info@dreamspool.it www.dreamspool.it

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REALIZZAZIONI | Graziano Poles

Utilizziamo materiali naturali, come la pietra e il mosaico. Per quel che riguarda i rivestimenti delle pareti e del fondo della vasca c'è un ritorno all'impiego del mosaico vetroso che dona all'acqua dei riflessi molto particolari

particolare la “Pietra di Prun”, proveniente dai monti Lessini. Questo materiale è stato ampiamente utilizzato nei secoli scorsi per la costruzione di opere architettoniche nel veneziano». I VINCOLI Nella costruzione delle piscine bisogna rispettare dei vincoli paesaggistici che cambiano da regione a regione, dettate da un decreto legge. «Per soddisfare questi requisiti, la nostra azienda, il più delle volte, effettua prima un’indagine geotecnica storico ambientale e poi una stratigrafia del terreno, il tutto a discrezione del progettista e della direzione lavori». I PARCHI ACQUATICI La progettazione di parchi acquatici oltre che di piscine, risulta alquanto laboriosa. «Nella realizzazione di un parco acquatico all’isola d’Elba - un progetto di cui Poles va particolarmente orgoglioso – è stata impiegata un’estrema cura dei particolari e garantita la ricchezza di attrazioni, accompagnate da un paesaggio C&P

suggestivo immerso nel verde a caratterizzare il tutto. Le vasche che si intersecano sono poste a livelli diversi e vivacizzate da idromassaggi, giochi d’acqua e scivoli. L’originalità è il fattore che rende unica questa progettazione». L’ASSISTENZA POST-VENDITA Garantire un’adeguata assistenza in questo settore è indispensabile. «È necessario – specifica Poles seguire il committente anche dopo la costruzione dell'opera con specifici programmi di manutenzione, atti a soddisfare le sue esigenze. Provvediamo, inoltre, a fornire i prodotti chimici e gli accessori necessari per la gestione della piscina. Le verifiche periodiche necessarie da eseguire sono, tra le altre cose, pulizia della vasca, controllo del cloro, del PH e della pressione in ingresso e in uscita dei filtri. Un corretto funzionamento dell’impianto di filtrazione e disinfezione, la pulizia della vasca e il giusto equilibrio dei valori dell’acqua sono semplici e basilari operazioni che permettono un’ottimale balneazione». 207


Un’architettura antropocentrica Progettare e realizzare residence per anziani. Perché la terza età non sia anticamera della depressione e della solitudine. E perché si ritorni a un’architettura antropocentrica. L'esperienza di Marcello Carraro e Silvano Simi di Luciana Fante

«Molti credono che gli anziani stiano bene “parcheggiati” in qualsiasi posto. Noi sosteniamo che la struttura che li accoglie può fare la differenza. Ecco perché ci interroghiamo su quali siano le loro esigenze e tentiamo di trovare soluzioni architettoniche adeguate, non dimenticando i valori estetici». Ecco in sintesi l’intendo dello Studio associato Carraro & Simi Architetti, specializzato nella progettazione e realizzazione di complessi edilizi residenziali destinati a ospitare persone anziane. Un impegno che dura da 25 anni e che ha messo radici nel Nord Italia. I complessi di Thiene e Bressanin sono solo alcuni esempi di come la progettazione degli spazi abbia a cuore la qualità della vita. «Diciamola tutta, spesso la nostra società è indifferente verso le problematiche che è costretto a vivere chi ha varcato un certo limite d'età. I “vecchi” sono da molti ingiustamente considerati alla 208

stregua di un peso da scaricare appena possibile. Non credo di esagerare nell'affermare questo, altrimenti non si spiegherebbe il degrado in cui versano molti dei nostri ospizi. Nella vita di ogni persona la terza età rappresenta una fase delicatissima, sorprendente e profonda. Gli over sessanta hanno ancora moltissimo da dare e da chiedere. Basta solo saperli ascoltare. Perché in alcuni casi anche il più piccolo accorgimento può rivelarsi di un'importanza vitale. Figuriamoci quanto peso rivesta l'habitat quotidiano». Con queste parole gli architetti Carraro e Simi segnano uno spartiacque tra i luoghi e i significati di cui si fanno portatori: da una parte l’alienazione, dall’altra l’accoglienza. Infatti, ripercorrendo le linee e gli ambienti da loro progettati, è proprio il caso di dire che la loro architettura ha preso uno slancio sociale. «Attraverso scelte ben precise, cerchiamo di ricreare degli ambienti familiari e accoglienti. La prima regola è la C&P


SOLUZIONI ARCHITETTONICHE | Marcello Carraro e Silvano Simi

In apertura, il complesso residenziali per anziani Villa Bressanin a Borgoricco (Pd). In alto, esterno e interni di Guido Negri a Thiene (Vi) carraro_simi@libero.it

trasparenza, sia in termini metaforici che reali. Abbondanze di vetrate, giochi di luce e open space: così l'ospite non si sente mai isolato, ma trova sempre un canale di comunicazione aperto. Con gli altri e con l'ambiente esterno. Ritrovarsi insieme, condividere piccoli passatempi, stare ore a chiacchierare: le strutture che progettiamo devono invogliare a fare questo». Insomma, lo spazio circostante, attraverso forme e colori, rassicura, protegge e dialoga. Nel caso di Bressanin racconta di un altrove temporale. Il residence, infatti, sorge sulla struttura di un vecchio complesso agricolo. «Questi luoghi non sono insignificanti né alienanti. Hanno dentro tutta la memoria di un'epoca passata. E l'anziano lo riconosce e lo apprezza». Non solo costruzioni ex novo, ma anche riqualificazioni di fabbricati che altrimenti finirebbero nel dimenticatoi. Ma qual è la cartina di tornasole che permette di testate lo stato di salute delle case di C&P

In un paese che invecchia, la domanda di strutture per anziani altamente qualificate ed efficienti si fa sempre più pressante cura? «Il continuo e libero viavai di persone, ospiti e visitatori compresi. Quando un luogo del genere è frequentato è un buon segno. Significa che c'è ancora la voglia di rimanere in gioco. Il nostro percorso professionale ci ha portati a scommettere su questo – continuano gli architetti – e a fronte di un paese che invecchia, la domanda di strutture altamente qualificate ed efficienti si fa sempre più pressante. Sono in aumento le richieste di nuovi posti letto e strutture Rsa, di servizio e assistenza per gli anziani autosufficienti e non, per centri Alzheimer e Hospice. Un ramo dell'edilizia complesso e delicato che esige un rigoroso rispetto per gli aspetti tecnici e normativi». 209




L’Italia e le rinnovabili Occhi puntati sulla Svezia, avanguardia del risparmio energetico. Tra sistemi geotermici, impianti climatici innovativi e fonti alternative. Anche l'Italia si rinnova. Per Marco Ferranti siamo sulla buona strada di Paola Maruzzi

«Puntiamo al nord Europa e ai suoi precursori in tema di politiche energetiche rinnovabili. Guardiamo alle virtù della Svezia e a come negli anni si sia consolidato il sacrosanto principio dell'edilizia ecosostenibile. Pensiamo al successo delle tante strutture “intelligenti” che, su più livelli, riducono i consumi. E, stringendo il campo, prendiamo ad esempio la Lombardia, il Trentino e l'Emilia Romagna, regioni che si sono distinte nel panorama nazionale». Per Marco Ferranti il confronto ha senso se può funzionare da sprone. Soprattutto in prossimità del 31 dicembre 2010, quando gli italiani capiranno se verranno rinnovati incentivi e finanziamenti statali per il risparmio energetico. Un tema scottante. «Se 212

così non fosse, per il nostro Paese significherebbe fare un passo indietro. Finora sono 27 milioni gli alloggi che hanno usufruito delle detrazioni. E la domanda è destinata a crescere. O almeno è questo il mio sentore». In tal senso Marco Ferranti ha un osservatorio privilegiato da cui guardare le cose. Ha messo su un team di ingegneri e tecnici e da anni progettano e realizzano impianti di riscaldamento e di climatizzazione estiva. Ha quindi le sue ragioni quando racconta dell'importanza di eseguire a regola d'arte alcuni interventi e quando riflette sulla piega altalenante che a volte prende la politica nostrana per tagliare corto il problema del risparmio energetico. «Bisogna investire sull'innovazione tecnologica, soprattutto a fronte di una netta C&P


POLITICHE ENERGETICHE | Marco Ferranti

Con la tecnica dell'isolamento termico: il calore viene “dirottato” laddove è necessario, ottimizzando gli sprechi. Si riduce ciò che è superfluo, consentendo di non sprecare almeno un buon 30 per cento di energia.

In queste pagine, alcuni lavori eseguiti dall0 Studio di Marco Ferranti marco.ferranti@alice.it

C&P

tendenza che si va delineando: enti pubblici e privati cittadini chiedono di limitare al massimo i consumi. Un'esigenza dettata sia da motivi economici, legati al costo dell’energia (in continuo aumento), che alla tutela dell’ambiente». Ma, senza girarci troppo attorno, risparmiare energia penalizza le prestazioni? «Assolutamente no. Al contrario, le amplifica. Pensiamo alla tecnica dell'isolamento termico: il calore viene “dirottato” laddove è necessario, ottimizzando gli sprechi. In sostanza viene mantenuto il comfort dei tradizionali sistemi di riscaldamento. Si riduce solo ciò che è superfluo, consentendo di non sprecare almeno un buon 30 per cento di energia». I saperi ingegneristici si interrogano su come continuare a scarnificare i consumi. In tema d'innovazione bisogna dirottare verso le gelide terre della Svezia e della Danimarca. «Qui – conclude Ferranti – hanno fatto di necessità virtù. I loro sistemi geotermici sono all'avanguardia. Cerchiamo di tenere il passo». 213


POLITICHE ENERGETICHE | Stefano Arganini

L’impianto fotovoltaico in un edificio a Fiumicino info@staes.it

Solare chiavi in mano Conversione globale al fotovoltaico. Stefano Arganini ripercorre gli anni bui in cui l’Italia affrontava la crisi del petrolio. E tira le fila: con le rinnovabili non si torna indietro di Paola Maruzzi

È ufficiale: entro la primavera del 2011 anche Barack Obama passerà al fotovoltaico. Se persino la Casa Bianca viene rivisitata in stile green è segno che i tempi sono maturi. Le politiche energetiche ridisegnano così la fisionomia delle strutture architettoniche. E mentre impatto zero ed ecosostenibilità diventano argomenti di discussione globali c’è chi, lontano dai riflettori, è impegnato sul campo per rendere fruibile l’innovazione. Accade, per esempio, nel comune di Fiumicino, dove la quadra di Staes ha rimodernato un edificio preesistente rivestendolo di pannelli. Il rendimento? Stefano Arganini, a capo della società romana, fa parlare i numeri «19,98 chilowatt picco, cioè l’unità che misura la potenza massima generata da un impianto fotovoltaico. In pratica il dispositivo è in grado di soddisfare il 78 per cento del fabbisogno energetico». D’obbligo una precisazione di carattere tecnico. «L’impianto funziona in parallelo alla rete di 214

distribuzione dell’energia di Bt ed è stato realizzato considerando le disposizioni di legge e le norme Cei». La voglia di scommettere sulle rinnovabili Stefano Arganini l’ha ereditata dal padre, che in tempi decisamente “non sospetti” è stato uno dei primi ad avventurarsi nel settore. «La molla è scattata negli anni Settanta, quando l’economia italiana soffriva a causa della crisi del petrolio. A quell’epoca era inimmaginabile la rivoluzione che avrebbe subito il fotovoltaico, che veniva impiegato solo in rarissimi casi. Per esempio nei cosiddetti impianti isolati, irraggiungibili dalla corrente. Passo dopo passo le cose sono cambiate. La svolta c’è stata nel 2000, quando finalmente è stato possibile allacciarsi alla rete elettrica dell’Enel. A incoraggiare soprattutto i privati il decreto ministeriale che ha messo a disposizione gli incentivi. È nato così il Conto energia. E il riscontro è stato notevole, visto che le committenze aumentano vertiginosamente». C&P



Così si realizzano grandi opere Capacità operative e strategiche. Tecniche affinate, sviluppate negli anni. Sono le caratteristiche necessarie per far fronte alla crisi del settore edile e industriale. La testimonianza del Cavalier Vincenzo Lama di Lucrezia Gennari

Il settore edile e industriale negli ultimi decenni ha affrontato una serie di grandi trasformazioni, che hanno coinvolto in primis l’aspetto normativo e che oggi riguardano l’aspetto economico. Resistono bene quelle realtà forti di una grande esperienza, nonché di particolari capacità operative e strategiche, in grado di gestire grandi opere. Come la società Italasme, impegnata di recente nella realizzazione della quinta linea metropolitana di Milano. «Ci siamo aggiudicati la fornitura di una gru a portale da 20 Ton con Benna mordente da MC. 4 completa di tramoggia da MC. 50» spiega il cavalier Vincenzo Lama, fondatore, 25 anni fa, della celebre azienda di Vimercate. Attualmente 216

Italasme sta realizzando anche il nuovo centro congressi con tre piani in metallo e vetro affacciati sui futuri grattacieli di City Life, progetto di grande rilevanza architettonica ed economica. «Il nuovo spazio offrirà 18 mila posti a sedere – continua Lama con una sala plenaria e 73 sale modulari e un’area espositiva di oltre 54 mila metri quadri: sarà il centro congressi più grande d’Europa con una vela progettata dall’architetto Carlo Bellini. Per la realizzazione di quest’opera imponente sono state fornite dalla società Italasme apparecchiature di sollevamento a torre con bracci da 60 a 77 Mt. e portate da 10 a 16 Ton». Nuovi progetti nazionali e internazionali hanno superato la C&P


TECNICHE COSTRUTTIVE | Vincenzo Lama

Nel 1995 Italasme firmò l’esecuzione dei lavori per l’installazione di apparecchiature di sollevamento per la torre delle telecomunicazioni Mediaset

A sinistra, realizzazione nuovo centro congressi Fiera City (Milano 2010); al centro, Torre delle telecomunicazioni Mediaset, altezza mt. 114, (Milano 1990); a destra, Linea 5 metropolitana, (Milano 2010) www.italasme-gru.it italasmesrl@virgilio.it

fase preliminare e sono pronti ad essere trasformati in esecutivi con il supporto di Italasme. Un’azienda che guarda al futuro, forte di un passato glorioso. Specializzata oggi nel noleggio, montaggio, smontaggio, assistenza e consulenza relativi alle apparecchiature di sollevamento per industria ed edilizia, le radici dell’azienda affondano nel 1955 quando Vincenzo Lama intuì l’importanza tecnica ed economica che potevano rivestire le apparecchiature di sollevamento nel settore edile e industriale. «L’Italia degli anni 50 – ricorda il cavalier Lama – aveva “tanta voglia” di ricostruire la sua credibilità produttiva. In pochi anni, le società italiane, si posizionarono ai vertici, tra le grandi imprese di costruzioni internazionali per la realizzazione di impianti, edifici e opere per migliorare le condizioni di vita generali». Vincenzo Lama collaborò con alcune tra le più grandi società italiane degli anni 60 nel settore del sollevamento, come la Società Loro e Parisini che lo spinsero ad installare i primi derricks C&P

nella costruzione delle dighe prima in Italia e poi all’estero ed allestire fiere “made in Italy” con la collaborazione dell’I.C.E., Istituto Commercio Estero. «Successivamente intrapresi una significativa collaborazione con la società francese Potain leader mondiale nel settore del sollevamento, con la qualifica di ispettore del Medio Oriente, tra gli 73-80». Questo incarico di grande pregio ha comportato non pochi sacrifici: Vincenzo Lama si trasferì per cinque anni nella città di Teheran in Iran con tutta la famiglia. La collaborazione con Potain durò fino al 1980 e pochi anni dopo, nel 1985, Vincenzo Lama fondò la società Asme, divenuta in seguito Italasme. La società firmò in quegli anni l’esecuzione dei lavori per l’installazione di apparecchiature di sollevamento di importanti lavori come la torre delle telecomunicazioni Mediaset nel 1995. Nello stesso anno, la società Italasme, in seguito al forte sviluppo aziendale, arricchì il proprio organigramma con la presenza dei figli. Di qui ebbe inizio il suo glorioso percorso. 217


Gli edifici si proteggono con l’innovazione Realizzare un cantiere significa dotarlo di ponteggi e attrezzature capaci di garantire la totale sicurezza dei lavoratori. Da quasi 50 anni il gruppo Pilosio si muove in questo settore e oggi Dario Roustayan punta all’internazionalizzazione di Adriana Zuccaro

Nella fornitura di ponteggi, casseforme, solai, blindaggi e attrezzature speciali per l’edilizia, «il valore dell’offerta non si basa solo sulla qualità strutturale e progettuale della produzione ma anche sull’eccellenza degli aspetti correlati alla sicurezza sui cantieri e, più in generale, sul luogo di lavoro». Alla vigilia del suo cinquantesimo anno di attività, il gruppo Pilosio, factory udinese con sede a Tavagnacco, affida al nuovo amministratore delegato, Dario Roustayan, l’impegno di «affrontare di petto la crisi e perseguire la strada degli investimenti in innovazioni produttive e dell’internazionalizzazione delle aree di vendita». Quest’anno la Pilosio ha concluso un investimento di 3 milioni di euro in tecnologia. Con quali obiettivi? 218

C&P


SICUREZZA SUI CANTIERI | Dario Roustayan

In apertura Dario Roustayan, ad della Pilosio spa con sede a Tavagnacco (UD). Le altre immagini illustrano il cantiere della basilica di San Bernardino (AQ) www.pilosio.com

«L’implementazione del nuovo impianto di saldatura robotizzato risponde all’esigenza di produrre un nuovo tipo di ponteggio in ottemperanza alla più restrittive normative di sicurezza in cantiere e al controllo della più elevata qualità. L’impianto, è in grado di produrre 13 diverse tipologie di telai, di cambiare modello in soli trenta minuti e di garantire un controllo della qualità e della saldatura su ogni pezzo. Secondo le previsioni, grazie alla tecnologica efficienza dell’impianto, la Pilosio potrà raggiungere un aumento della capacità produttiva del 70 per cento». In quale opera di cantierizzazione siete presenti attualmente? «In molte città d’Italia e nel mondo, come ad esempio a Venezia, Roma, Jeddah, Alessandria d’Egitto, Beirut, Kuwait, al momento si stanno utilizzando attrezzature speciali Pilosio. Tra le più importanti opere di cantierizzazione in atto, merita però particolare attenzione quella avviata con il ponteggio multidirezionale MP di Pilosio progettato per il restauro della bellissima basilica rinascimentale di San Bernardino a l’Aquila, danneggiata a seguito del terremo del 2009». Quali forniture erano necessarie per la C&P

ristrutturazione della basilica? «A L’Aquila l’esigenza primaria era la messa in sicurezza della basilica con la realizzazione di una struttura provvisionale capace di garantire alle maestranze di procedere in totale sicurezza in quel delicato intervento di ristrutturazione della cupola, della basilica e, in un secondo momento, del campanile. Le difficoltà erano quelle di non poter appoggiare il ponteggio sui tetti e sulle strutture esistenti a causa della loro situazione precaria. In fase di progetto, Pilosio ha dovuto prevedere un ponteggio “a ponte”, ovvero a sbalzo, in modo da scavalcare le parti di edificio staticamente non sicure». Già affermata in Italia, in quale direzione internazionale si muove oggi la Pilosio? «Uno dei principali obiettivi è il raggiungimento dell’espansione internazionale dell’azienda, con particolare riferimento alle aree caratterizzate dal potenziale di crescita maggiore come, ad esempio, Medio Oriente e Russia, senza trascurare tuttavia mercati storici per Pilosio come Nord Africa, Stati Uniti, Canada e Sud America. L’internazionalizzazione è corroborata da investimenti che sottintendono crescita, sviluppo e che veicolano implicitamente quei nuovi scenari cui la Pilosio si rende portavoce. Perché da cinquant’anni la parola chiave è sempre innovazione». 219




Soluzioni per l’edilizia Produrre impianti flessibili, robusti e affidabili. Soluzioni studiate su misura, in grado di soddisfare anche richieste più esigenti. Questa è la mission di chi si occupa di impianti di lavorazione delle lamiere. La parola a Loris e Fabio Basso di Ezio Petrillo

L’innovazione e l’affidabilità sono la base. E riuscire a offrire le tecnologie più moderne in grado di lavorare materiali non comuni è una sfida non certo semplice per quelle imprese che operano nel settore della progettazione di macchinari adatti alla lavorazione delle lamiere. «Per il rispetto della sicurezza ci affidiamo a controlli elettronici di ultima generazione». A parlare sono Loris e Fabio Basso, Presidente e vice Presidente della ditta Camu, specializzata nel progettare questa particolare 222

tipologia di impianti. «L’incremento dell’uso di acciai speciali ad alto resistenziale di elevato spessore ormai di largo uso nel campo di numerose applicazioni legate all’edilizia civile (opere pubbliche) e all’arredo, ci ha portato a studiare impianti specifici capaci di processare materiali di elevato spessore con caratteristiche alto resistenziale e di annullare nella lamiera le tensioni interne. Progettiamo e costruiamo linee di spianatura e taglio in fogli da 0,2 a 12 mm, linee di taglio in strisce “slitter” nella gamma 0,2 – 8 C&P


LAVORAZIONE LAMIERA | Loris e Fabio Basso

A sinistra, infrastruttura realizzata attraverso prodotti da materiali processati. Sopra, linee di taglio slitter nella gamma da 0,2 a 8 mm ad alta effcienza e accanto linee di taglio in fogli nella gamma da 0,2 a 12 mm info@camu.it

La nostra azienda ha conquistato fette sempre più ampie di mercato, con una quota export pari al 70% della produzione mm e linee di imballo bobine, che grazie al sofisticato know-how tecnologico posseduto, è in grado di fornire differenti varianti adatte a soddisfare le più svariate esigenze di taglio». I materiali lavorati provengono dai centri di servizio specializzati. «Grazie all’impiego dei più moderni sistemi di progettazione e di fabbricazione – specifica Loris Basso - , e grazie al supporto di uno staff tecnico altamente qualificato, di procedure severe di prova e collaudo e del costante impegno per la ricerca di C&P

soluzioni tecniche ed economiche vantaggiose, la nostra azienda ha conquistato fette sempre più ampie di mercato, con una quota export pari al 70% della produzione». In un comparto di produzione di impianti, instaurare un rapporto di fiducia con la clientela è fondamentale. «Bisogna – conclude Fabio Basso - stringere relazioni basate su fiducia e comunanza degli obiettivi, consapevoli che il successo della committenza favorirà di riflesso il nostro futuro». 223


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