L’editore
IN DIFESA DELLA LIBERTÀ
di Maria Elena Golfarelli
ueste pagine vogliono raccontare i protagonisti della giustizia, quelle persone che ogni giorno lavorano perché l’applicazione della legge garantisca la libertà di tutti e il rispetto della democrazia nel nostro Paese. Sono avvocati, uomini dello Stato e giuristi la cui statura intellettuale e morale dà luce e dignità alla giustizia italiana.
Q La voce chiara e forte di chi si sta mettendo in gioco per un sistema giudiziario migliore e più giusto
Allo stesso tempo Giustizia intende analizzare i casi processuali che hanno fatto la storia del nostro Paese. Denunciare le storture del sistema giudiziario ed anche evidenziarne i meriti. Avviare, stimolare e portare avanti dibattiti su tematiche di interesse generale. Ma, soprattutto, vuole esser la voce chiara e forte di chi si sta mettendo in gioco per un sistema giudiziario migliore e più giusto che garantisca i diritti di tutti i cittadini contro chi invece intende ridurlo a mero strumento di potere o di lotta politica. È l’amore per la verità che ce lo chiede, la nostra storia e l’orgoglio di far parte di questo grande Paese che ce lo impongono. Prendiamo come punto di riferimento e facciamo nostre le parole del presidente del Consiglio quando dice: “è un compito a cui non possiamo sottrarci, convinti come siamo che la difesa della libertà sia la missione più alta e più nobile a cui possiamo essere chiamati”.
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Dixit
RIFORME NECESSARIE AL BENE DEL PAESE di Angelino Alfano - Ministro della Giustizia
l tema della giustizia è come un pianoforte. Per ottenere musica e non rumore occorre suonare i tasti in modo armonico, e non battere sempre un tasto unico. Penso che la riforma sia il vero elemento di confine tra conservatori e riformatori e sostanzialmente farà capire al Paese chi intende rinnovare il sistema e chi, invece, preferisce lasciare inalterato lo status quo. Nonostante sia assolutamente legittimo dichiararsi conservatori, esserlo in giustizia significa mantenere un sistema sclerotizzato, che consente un rinvio delle udienze civili datate 2008 al 2012 o al 2013.Abbiamo un sistema penale che non garantisce la certezza della pena, che permette a gente condannata di non stare in galera mentre la maggioranza dei detenuti è semplicemente in attesa di giudizio. Bene, chi è dell’idea di voler conservare tutto questo deve sapere che noi siamo dalla parte opposta: vogliamo riformare il sistema. A proposito di sistema carcerario, uno dei maggiori problemi è il sovraffollamento. Premesso che chi delinque deve andare in prigione e che non si può raggiungere il paradosso per cui non si perseguono i reati per il fatto che non ci sono le carceri, va ricordato che molte strutture risalgono a epoche precedenti al 1800. Per questo abbiamo in progetto un serio piano di costruzione. Occorre poi affrontare con realismo e lucidità il fatto che buona parte dei detenuti è straniera e in attesa di giudizio. Con un buon lavoro di diplomazia internazionale confidiamo sia possibile fare scontare queste pene fuori dei nostri confini, avendo anche la certezza che non tornino in Italia a delinquere. Per quanto concerne, invece, la riforma delle intercettazioni il nostro sforzo è quello di trovare un equilibrio tra tre diritti costituzionali: quello di cronaca, quello di indagine e quello alla riservatezza delle comunicazioni. Il diritto di cronaca è sacrosanto. Ma questo non significa far passare in secondo piano il diritto alla riservatezza e alla privacy che vanno ugualmente tutelati e difesi. Non è pensabile, infatti, che un soggetto che ha poco a che fare con le indagini finisca inevitabilmente nel tritacarne mediatico e veda la sua vita rovinata. Credo allo stesso tempo che se ci fosse stato un efficace contrasto alle fughe di notizie o alla impropria rivelazione di fatti, forse non sarebbe stato necessario intervenire con una legge.
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Chi è dell’idea di voler conservare questa giustizia deve sapere che noi siamo dalla parte opposta: vogliamo riformare il sistema C&P • GIUSTIZIA
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L’opinione
UNA RIFORMA CON AL CENTRO I CITTADINI di Giancarlo Lehner - Deputato Pdl l fatto che in Italia non si sia mai riusciti a portare a termine una seria riforma della giustizia anche quando in parlamento, come sta avvenendo adesso, sedevano ampie maggioranze è un vero dramma. Sono persino scettico che si riesca a realizzarle in questo momento, anche perché sono almeno quindici anni che si parla di riforma e separazione delle carriere. Si sono fatti progetti, convegni, studi ma poi non si è concluso niente. Il nostro sistema giudiziario risente di culture illiberali perché, di fatto, non proveniamo dal diritto romano ma dai codici pseudo liberali dell’Italia unita. Sono cose forse un po’ odiose, ma vere, e vanno dette. A questa cultura illiberale si è aggiunta la forte presenza comunista anche a livello di giuristi, avvocati, giudici. Con il risultato che ora abbiamo davanti una macchina culturalmente estranea alla cultura occidentale. Il problema è che l’Italia è condizionata dalle corporazioni forti. Tra queste c’è certamente quella delle toghe che hanno una capacità straordinaria di interferire sui poteri legislativi anche perché, bisogna avere l’onestà intellettuale di ammetterlo, i nostri parlamenti non hanno brillato in quanto a coraggio o particolare attenzione verso le riforme. Questo è un parlamento che dalla Costituente in poi ha avuto tanti scheletri nell’armadio tant’è che un intervento chiaro e deciso sulla magistratura non si è mai potuto fare. Questo è dovuto anche a un profondo senso di colpa della classe politica, perché è assurdo che nel 2009 ancora parliamo della separazione delle carriere che è un dato di fatto in tutto il mondo. Quindi ribadisco: c’è una forte responsabilità politica trasversale. Studi sulla riforma risalgono al secolo scorso ormai. Certamente il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha in mente il progetto che sarebbe dovuto partire nel dicembre 2008. La separazione delle carriere ha senso se coerentemente con quello che avviene all’estero – Inghilterra e Francia in primis – il pubblico ministero cessa di essere un giudice e diventa un avvocato dello Stato, in qualche modo facente parte dell’esecutivo. Una separazione delle carriere ha senso e inciderebbe davvero se il pubblico ministero fosse non condizionato, non “schiavizzato”, ma comunque inserito all’interno di una strut-
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tura statale con una guida politica, perché chi deve essere autonomo e indipendente in maniera assoluta è soltanto il giudice; perché è lui che deve essere terzo e quindi non può avere alcun tipo di assoggettamento. Quindi giudici e pubblici ministeri devono essere due avvocati che svolgono funzioni opposte: l’accusatore ovviamente dovrebbe appartenere a una struttura statale e agire in nome dell’interesse pubblico. Essendo difensore dell’interesse dello Stato è logico che debba agire per conto del governo. Questa è una cosa normale in tutti i Paesi civili, non capisco perché solo in Italia debba fare scandalo. Non dobbiamo pensare soltanto ai vari Berlusconi e Franceschini, ma al cittadino comune, al “signor nessuno”, che ha paura della giustizia italiana perché ogni volta che è incappato in essa ha avuto un problema. Una riforma vera della giustizia deve ruotare intorno al cittadino comune. Il centro non può che essere l’uomo. 11
Gabriele Fava • La voce del diritto
CRISI OCCUPAZIONALE: RIVALUTIAMO IL LAVORO PRECARIO l posto fisso è ormai un vago ricordo. Nel 2009 la possibilità di un posto fisso, magari anche a tempo indeterminato, è sempre più un’utopia. Proprio per questo sta nascendo un nuovo esercito di lavoratori che, oltre ad essere precari, devono essere anche flessibili e adattarsi alle mutevoli condizioni di lavoro che il mercato impone. I contratti a tempo determinato, a progetto, di collaborazione occasionale, di somministrazione, di inserimento, di apprendistato, di lavoro accessorio, con partita iva, ecc., rappresentano solo una parte del panorama contrattuale innovato dalla legge Biagi (l. 14 febbraio del 2003 n. 30) per cercare di dare al mercato del lavoro, da lungo tempo ormai in una situazione stagnante, una nuova dinamicità. Alcuni ritengono che la crisi finanziaria abbia evidenziato le crepe di un impianto normativo che ha trasformato la flessibilità, da punto di forza a punto debole e che i primi a farne le spese siano stati proprio i lavoratori cosiddetti “precari”. In effetti, nell’ottica di far fronte alla forte contrazione della domanda, le aziende hanno cominciato ad abbattere i costi non solo attraverso il mancato ricorso a nuove assunzioni “flessibili”, ma anche tagliando le risorse umane già impiegate. Nella maggior parte dei casi, inoltre, la tipologia contrattuale ha comportato che questi lavoratori non avessero diritto ad alcun tipo di liquidazione né accesso ai sussidi di disoccupazione. Probabilmente, le imprese hanno abusato del lavoro a tempo determinato e del lavoro somministrato (ex interinale), a discapito delle assunzioni permanenti. Potrebbe, pertanto, risultare utile l’adozione di “accorgimenti legislativi” che
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di G. Fava - Giuslavorista e chairman Fava & Associati
impediscano alle imprese di utilizzare la crisi come scusa per espandere il ricorso alla precarietà lavorativa. Tuttavia, a chi reclama la necessità di interventi normativi a tutela dei precari, va ricordato che l’aggravarsi della crisi non ha evitato massicce perdite occupazionali anche tra i lavoratori con un impiego stabile. La disoccupazione, d’altra parte, sta aumentando in tutto il mondo. A questo punto, assume scarsa rilevanza avere un posto di lavoro “stabile” piuttosto che “precario”; mentre acquista importanza fondamentale essere occupati. Occorre, dunque, una riflessione. Se si offrisse una maggior tutela ai precari a scapito delle imprese, si avrebbe, come naturale conseguenza, un aggravio della loro difficoltà a resistere sul mercato e un conseguente aumento del rischio di perdita di posti “fissi”. Prima di intervenire, occorre necessariamente valutare e bilanciare le diverse esigenze ed i diversi interessi in gioco: da un lato i lavoratori, bisognosi di un’occupazione, dall’altro le aziende, al limite della sopravvivenza sul mercato. Il loro futuro è strettamente legato. Il crollo di una parte comporta l’automatico coinvolgimento dell’altra. Un’ulteriore riforma legislativa metterebbe ancor più “paletti” in un momento in cui è necessaria una certa elasticità del sistema, tale da consentire un’occupazione anche temporanea piuttosto che la disoccupazione. Pertanto, almeno finché la situazione non migliori, occorre sostenere il lavoro “precario” con le attuali garanzie contrattuali offerte dal nostro ordinamento, considerandolo non più come l’anticamera della disoccupazione, bensì come un’occasione, anzi un’opportunità di occupazione.
Occorre sostenere il lavoro precario con le attuali garanzie contrattuali offerte dal nostro ordinamento, considerandolo non più come l’anticamera della disoccupazione, bensì come un’occasione, anzi, un’opportunità di occupazione
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Istituzioni • Annibale Marini
Verso un’Italia a Camera unica Un ruolo più forte del presidente del Consiglio, ma senza virare verso il presidenzialismo «estraneo alla nostra cultura istituzionale». Il presidente emerito della Corte costituzionale Annibale Marini delinea il quadro delle riforme più urgenti di cui l’Italia ha bisogno per rendere effettivamente compiuto il lungo percorso verso la “seconda Repubblica” di Sarah Sagripanti
Annibale Marini, civilista e presidente emerito della Corte Costituzionale, ne è stato presidente tra novembre 2005 e luglio 2006
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n passaggio che non è ancora del tutto realizzato. E che attende alcune importanti riforme costituzionali per dirsi finalmente compiuto. Le istituzioni italiane da tempo hanno avviato un lungo percorso di trasformazione verso nuovi equilibri, i risultati del quale sono forse già chiari, ma non ancora ufficialmente riconosciuti. Secondo Annibale Marini, già presidente della Corte costituzionale, ci sono alcune riforme che non possono più attendere, soprattutto «quelle sulle quali esiste un consenso diffuso e generalizzato di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione». Dall’eliminazione del bicameralismo paritario – «anacronistico», lo definisce Marini – alla riduzione del numero dei parlamentari; dall’introduzione del premierato – la «costituzionalizzazione di un ruolo “forte” del presidente del Consiglio» – allo scioglimento del «nodo gordiano» delle Province. Quali sono, a suo avviso, le novità più importanti che hanno caratterizzato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica? «I cambiamenti che hanno accompagnato il nostro Paese nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, indipendentemente dalle perplessità che può suscitare il riferimento gergale a una successione di Repubbliche, sono di un duplice ordine: politico e istituzionale. Sotto il primo aspetto, può ricordarsi, a titolo d’esempio, la sostanziale scomparsa di quei partiti che, per quasi mezzo secolo, avevano dominato la scena politica nazionale. Mi riferisco, in particolare,
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Annibale Marini • Istituzioni
Il bicameralismo paritario è anacronistico e ormai privo di qualsivoglia giustificazione politicoistituzionale alla Democrazia cristiana, al Partito comunista, ai due Partiti socialisti, ai partiti liberaldemocratici, Partito liberale e Partito repubblicano, e al Movimento sociale italiano. Tutti sostituiti da nuove formazioni che, per una serie di ragioni e principalmente per il venir meno della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, risultano prive di quell’accentuata coloritura ideologica propria dei vecchi partiti. Una nuova classe politica, dunque, costituita in gran parte non più da quadri, ovvero professionisti della politica, ma da esponenti della società civile e in particolare dal mondo delle professioni e dell’imprenditoria». Dal punto di vista delle istituzioni, invece, quali sono stati i maggiori cambiamenti? «Le principali innovazioni istituzionali hanno riguardato la legge elettorale, passata da un sistema proporzionale a uno maggioritario e il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, dovuto soprattutto, anche se non esclusivamente, al fatto di essere “votato” e non già designato dalla formazione vittoriosa nella competizione elettorale. Si assiste, poi, con l’introduzione del cosiddetto premio di maggioranza, a una tendenziale riduzione del numero dei partiti e a una maggiore governabilità, essendo la durata dei governi e della legislatura sempre più legata alla persona del presidente del Consiglio “votato” in sede elettorale e sempre meno condizionata dai mutevoli umori della maggioranza di governo. E ciò dovrebbe indurre a ritenere superata la prassi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali, in quanto in contrasto con la volontà del corpo elettorale; prassi del C&P • GIUSTIZIA
resto sconosciuta a quegli ordinamenti nei quali il presidente del Consiglio è votato dagli elettori e non già designato dalle forze politiche». È sempre più frequente il ricorso alla fiducia da parte del governo. Ciò significa un indebolimento della funzione del parlamento? «È vero che il ricorso alla fiducia è finito per diventare un mezzo per accelerare i lavori del parlamento e per evitare, spesso, la decadenza dei decreti legge per la mancata tempestiva conversione. Occorre, allora, se si vuole ridare al voto di fiducia la sua originaria funzione, provvedere a riformare i regolamenti parlamentari conciliando l’esigenza di un approfondito dibattito parlamentare con quella, non meno importante, di evitare una indefinita paralisi del parlamento e dell’attività di governo e il conseguente pregiudizio dell’interesse generale della collettività». In questo scenario, qual è oggi il ruolo del presidente della Repubblica? «Quanto al presidente della Repubblica mi limito a sottolineare quella “moral suasion” che mi sembra non solo politicamente opportuna e anzi necessaria, ma, specie se esercitata con la moderazione e il senso di misura dell’attuale presidente, una componente necessaria e ineliminabile dell’altissima funzione di rappresentante dell’unità nazionale». Quali sono, quindi, le più urgenti riforme costituzionali necessarie per portare a compimento il passaggio alla seconda Repubblica? 19
Istituzioni • Annibale Marini
«Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non può certo ritenersi esaurito, restando allo stato solo annunciate le riforme costituzionali necessarie e anzi indispensabili per l’ammodernamento del nostro ordinamento di governo. Mi riferisco soprattutto alle riforme della II parte della Costituzione e in particolare a quei punti sui quali esiste un consenso diffuso e generalizzato di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. È possibile menzionare, senza voler fare un elenco esaustivo, la riforma del cosiddetto bicameralismo paritario che risulta anacronistico e ormai privo di qualsivoglia giustificazione politico-istituzionale, alla sempre auspicata e mai realizzata riduzione del numero dei parlamentari; alla costituzionalizzazione di un ruolo “forte” del presidente del Consiglio che riceve
Specie se esercitata con la moderazione e il senso di misura di Napolitano, la “moral suasion” è una componente ineliminabile della funzione di rappresentante dell’unità nazionale
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l’investitura fiduciaria, propone la nomina e revoca dei ministri, decide lo scioglimento anticipato del parlamento o della Camera dei deputati alla quale, con l’eliminazione del bicameralismo, sarebbe riservata la dialettica politica. Mentre sempre più urgente e anzi indilazionabile diventa una riforma organica e globale della giustizia. E da ultimo, ma non meno importante, ritengo necessario, per la serietà stessa della nostra classe politica, lo scioglimento del nodo gordiano delle Province. Si sente parlare da anni, e anzi da decenni, di una soppressione delle Province in quanto enti inutili e si assiste nello stesso tempo a una moltiplicazione del numero delle Province effettuata spesso su iniziativa degli stessi assertori della loro estinzione. Sarebbe forse ora che i signori parlamentari decidessero su tale capitolo cosa intendono effettivamente fare». La cosiddetta Repubblica presidenziale può essere utilmente trapiantata nel nostro sistema politico costituzionale? «Sono molto cauto, per usare un eufemismo, nella valutazione del presidenzialismo che è, tra l’altro, estraneo alla nostra cultura istituzionale e che sarebbe difficilmente digeribile dalla nostra classe politica. In conclusione, credo che al nostro sistema servano poche e incisive riforme costituzionali, ma ampiamente condivise. Non bisogna dimenticare che il modo più efficace per non cambiare nulla resta sempre quello, gattopardesco, di pretendere di cambiare tutto e subito». C&P • GIUSTIZIA
Istituzioni • Alfredo Biondi
Per cambiare la Costituzione serve coesione politica Modificare innanzitutto l’attuale legge elettorale. Provando a trovare un’intesa, la più ampia possibile, tra maggioranza e opposizione. Secondo Alfredo Biondi sono queste le premesse per aprire la stagione delle grandi riforme di Marilena Spataro
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stato sostenitore e teorico in tempi non sospetti della necessità di riformare in alcune sue parti la Carta costituzionale italiana, quantunque l’argomento fosse ancora un tabù. Oggi Alfredo Biondi, avvocato, ex ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi, nove volte parlamentare nutre scetticismo sulla possibilità che tale processo si possa avviare, e ciò a causa del conflitto che si sta vivendo tra maggioranza e opposizione, e che evidentemente impedisce non solo la possibilità di dar vita a una nuova costituente, ma esclude anche la possibilità di un dialogo costruttivo che spiani la strada verso un percorso riformista condiviso. «Una litigiosità – commenta l’ex ministro – che in questi ultimi tempi si è accentuata in seguito alla presenza di un sistema bipolare che amplifica gli attriti tra le parti politiche determinando più problemi di quanti non ne abbia risolti». Come giudica una delle prime riforme di questa legislatura, che ha portato al federalismo fiscale? «Positivamente, ritengo che invece di dividere, come da qualche parte si teme, tale riforma unirà la nazione, sebbene nella diversità delle situazioni. Bisognerà, però, avere il coraggio di evitare il raddoppiarsi della burocrazia rendendo duplice il rapporto tra il cittadino e lo Stato. In sintesi occorrerà fare in modo che non vi sia una centralizzazione regionale e una nazionale». Reputa che sarebbe necessario avviare anche un discorso federalista in senso istituzionale?
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Alfredo Biondi • Istituzioni Alfredo Biondi è avvocato e giurista. Parlamentare per nove legislature, è stato ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi
Sono un presidenzialista, ma solo se si è in presenza di validi contrappesi di carattere istituzionale e non politico «Ritengo che il nostro Paese potrà realizzare una realtà federale solo allorché le condizioni climatico-politiche lo consentiranno; nelle condizioni di conflitto permanente tra fronti contrapposti in cui vive la politica attualmente, credo sia velleitario pensare a un federalismo puro. Secondo me sarebbe urgente iniziare a smantellare i vantaggi che oggi traggono le Regioni e le Province a Statuto speciale, infatti queste hanno una gestione che le rende diverse pur avendo gli stessi problemi delle altre realtà nazionali, e ciò non fa altro che penalizzare il resto del Paese. Se si dovesse arrivare al federalismo ovviamente verrebbe meno anche l’esigenza di mantenere questa specie di enclave di vantaggi. Dei privilegi che, in presenza o meno di un sistema federalista, andrebbero in ogni caso eliminati alla luce dell’articolo 3 della nostra Costituzione che vuole i cittadini tutti uguali». Qual è il suo pensiero circa la riduzione dei parlamentari e l’introduzione di due Camere con compiti differenti? «Sono molto favorevole. Il numero dei parlamentari è esorbitante proprio dal punto di vista funzionale, ridurlo non toglierebbe di certo l’autonomia al parlamento, semmai renderebbe più responsabile ogni suo membro. Un buon lavoro nelle commissioni e l’utilizzo di queste in fase redigente snellirebbe inoltre l’iter legislativo. Per quanto riguarda il bicameralismo, ritengo sia inutile avere due Camere che si occupano delle stesse materie, secondo me queste devono occuparsi di contenuti diversi, rivestendo funzioni differenti. C&P • GIUSTIZIA
In un sistema federalista, il Senato assumerebbe la funzione di Camera delle Regioni, mentre alla Camera dei deputati spetterebbe la responsabilità più generale della rappresentanza politica per i temi più rigorosamente politici e quindi più controversi. Ovviamente anche in tal caso la riforma richiede un iter di modifica costituzionale per cui occorre che tra maggioranza e opposizione vi sia quella coesione che attualmente nei fatti non c’è». La trasformazione in senso presidenziale del nostro Paese pensa sia una ipotesi praticabile? «Personalmente sono un presidenzialista, ma solo se si è in presenza di validi contrappesi di carattere istituzionale e non politico. Mi spiego: di fronte a un governo, a un parlamento e specialmente a un presidente che abbiano una serie di poteri rafforzati, non è concepibile vi siano lasciapassare che diano a questi organi, particolarmente al premier, un ruolo troppo egemone. Ritengo che per il nostro Paese sia più indicato un sistema semipresidenziale alla francese. Comunque trattandosi in tal caso di una grande riforma, si richiederebbe una assoluta unità tra tutte le forze politiche, che, ribadisco, al momento non solo c’è, ma nemmeno si intravede. Tuttavia se si riuscisse a instaurare un’atmosfera meno avvelenata, forse si riuscirebbe almeno a varare una riforma elettorale condivisa che rimetta il cittadino al centro delle decisioni. Una volta ottenuto questo risultato, allora si potrebbe pensare seriamente alla possibilità di cominciare a porre mano alla riforma del sistema, se non per questa legislatura, almeno per la prossima». 23
Separazione delle carriere • Michele Saponara
Occorre paridignità traaccusa edifesa La separazione delle carriere. Temuta, contrastata. Ma sempre tirata in ballo. Questione centrale: il timore dei giudici di una sottomissione al potere esecutivo. È davvero così? «La separazione delle carriere non mina in alcun modo l’autonomia della magistratura» dichiara Michele Saponara membro laico del Csm. Che esorta: «Ci vuole una legge costituzionale, altrimenti finisce come con il lodo Alfano» di Giusi Brega
Nella foto, Michele Saponara membro laico del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria che ha lo scopo di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato
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ipetutamente reclamata dagli avvocati e sempre avversata dalla magistratura, la separazione delle carriere tra giudici e pm continua a tenere banco, sostenuta dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che ha ribadito la ferma intenzione ad andare avanti con riforme, istituzionali e costituzionali. E soprattutto di mettere mano anche alla giustizia dopo aver già varato la riforma del processo civile. Partendo appunto dalla separazione delle carriere tra giudici e magistrati che ieri, peraltro, ha incassato il sì delle Camere penali. Obiettivo, arrivare ad un riequilibrio tra accusa e difesa. «È un discorso che va fatto – sottolinea Michele Saponara membro laico del Consiglio superiore della magistratura – anche se c’è la paura da parte dei giudici di una sottomissione al potere esecutivo. Un discorso meramente corporativo di una categoria che ha il timore di perdere il potere». Ma tutto questo «va visto in un contesto più ampio – continua Saponara – ovvero in un contesto della riforma della giustizia». L’Italia è un’anomalia nell’ambito dei Paesi occidentali per quanto riguarda la separazione delle carriere. Come mai? «La Costituzione, attraverso il Consiglio superiore della magistratura, assicura ai magistrati le più ampie garanzie di autonomia e indipendenza da ogni altro potere dello Stato, e allo stesso tempo esclude ogni forma di gerarchia interna; l’articolo 107 stabilisce infatti che “I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”. È da questa norma costituzionale che discende il principio, unico esempio tra le costituzioni mo-
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Michele Saponara • Separazione delle carriere
Se non ci fossero state polemiche sul lodo Alfano si sarebbe avviato un vasto programma di riforma, compresa quella della giustizia C&P • GIUSTIZIA
derne, della non separazione delle carriere dei magistrati. L’ordinamento in questo momento in vigore prevede, infatti, la possibilità per i magistrati di passare, tramite concorso, dalla magistratura inquirente a quella giudicante e viceversa». Ma questo non pone il pm in una posizione privilegiata? «Di fatti, da questo elemento tecnico dell’organizzazione interna dei tribunali, ne consegue una posizione privilegiata del pubblico ministero, in quanto unico soggetto a cui l’ordinamento riconosce l’esercizio dell’azione penale, all’interno del procedimento processuale e rispetto all’imputato. Posizione che risulta tuttavia equilibrata dalla norma relativa all’onere della prova, secondo la quale è sempre onere dell’accusa fornire la prova della colpevolezza dell’imputato». È giustificato il timore dei pm che la separazione delle carriere possa sottoporli al potere esecutivo? «La questione sollevata dai pm è da sempre delicata e controversa. Ricordo che uno dei giudici che si schierò per la separazione delle carriere fu Giovanni Falcone. Nella Costituente si è discusso a lungo sulla posizione dei pm. Adesso la situazione è maturata e la separazione delle carriere dispone anche di un supporto costituzionale. Il supporto è dato dall’articolo 111 della Costituzione che recita:“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti (accusa e difesa), in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. La separazione delle carriere non mina in alcun modo l’autonomia della magistratura. Si paventa che il pubblico ministero “separato” dai 25
Separazione delle carriere • Michele Saponara
Un’altra foto di Michele Saponara. Avvocato penalista è stato, tra le altre cariche ricoperte, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano e presidente della Camera penale di Milano
giudici possa essere soggetto al potere esecutivo, quindi al ministro della Giustizia come accade in altri Paesi, tipo la Francia. Questo inconveniente, che andrebbe a violare il principio della divisione dei poteri, può essere ovviato con la previsione di un Csm per i pubblici ministeri che ne garantisca così l’indipendenza». Quali potrebbero essere i passaggi da affrontare per raggiungere l’obiettivo della separazione delle carriere? «Una riforma completa del Csm richiederebbe una legge costituzionale. Per cambiarne la composizione riequilibrando il numero di laici e togati, modificarne la durata o la norma sulla totale o parziale rieleggibilità e fissare con precisione ruoli e competenze, evitando incursioni “politiche” nel campo legislativo. La sezione disciplinare dovrebbe diventare indipendente dal Csm ed essere composta non in prevalenza da magistrati in servizio, come avviene attualmente, ma anche da giuristi laici ed ex procuratori generali». Accanto alla creazione di un secondo Csm, quali altre novità prevedrebbe un intervento in tal senso? «A suo tempo, la riforma Castelli prevedeva che i concorsi fossero separati e i magistrati dovessero decidere a quale ramo della magistratura aderire già al momento del concorso e avessero la possibilità di cambiare la decisione presa solo nei primi tre anni di attività. Dopo di che, sarebbe stato per loro impossibile passare da un ramo all’altro». Lei ha parlato dell’esigenza di una legge costituzionale. Ma c’è chi afferma che basterebbe una legge ordinaria. Cosa ne pensa? 26
«Per stare davvero tranquilli, reputo più opportuno il ricorso a una legge costituzionale. Chi dice, e tra questi ci sono anche autorevoli giuristi, che si può arrivare alla separazione delle carriere attraverso una legge ordinaria lo afferma in virtù del fatto che la Costituzione non garantisce al pm indipendenza assoluta come agli altri magistrati. Certo, la legge costituzionale richiede più tempo per ottenerne l’approvazione e poi se non è approvata dalla maggioranza dei 2/3 da ciascuna delle due Camere è soggetta a referendum. Ma è da preferire, perché se la riforma è fatta in via costituzionale, si è garantiti dal pericolo che la legge venga dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Così come è accaduto per il lodo Alfano». A proposito del lodo Alfano, come ne commenta l’esito? «È inutile negarlo. L’esito ha deluso un po’ tutti. Perché in sostanza si pensava potesse essere approvato anche perché c’era stata un’ampia collaborazione degli uffici giuridici del Quirinale. Fino a che punto ci fossero state garanzie non lo so. Ma un certo affidamento era pacifico, perché quando approvarono la legge il presidente Napolitano motivò la sua promulgazione, cosa che non sempre avviene, dicendo che in effetti il lodo Alfano aveva recepito tutte le indicazioni della sentenza che aveva dichiarato incostituzionale il lodo Schifani. Si è fatto affidamento anche perché l’attuale presidente della Consulta era stato il relatore del lodo Schifani, quindi conosceva bene la questione. Le polemiche purtroppo hanno creato grossi problemi, perché se non ci fossero state si sarebbe potuto avviare con serenità un vasto programma di riforma, compresa quella della giustizia». C&P • GIUSTIZIA
Separazione delle carriere • Alfonso Papa
La magistratura non è un potere ma un Ordine Affrontare il tabù della separazione delle carriere e della distinzione delle funzioni. Mettere mano a riforme che ottimizzino il lavoro. E dire basta al “partito dei giudici” perché, come sottolinea Alfonso Papa, la commistione tra politica e giustizia «mina l’autorevolezza della magistratura» di Giusi Brega
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a commistione tra politica e giustizia «è da sempre nociva anzitutto per la credibilità e l’autorevolezza della magistratura». A sottolinearlo è Alfonso Papa, magistrato e sostituto procuratore della Repubblica. «Personalmente – continua – ho scelto di accettare la proposta di candidatura dopo un periodo di collocamento fuori ruolo e nutro perplessità tutte le volte che vedo magistrati scendere nell’agone politico, dopo aver sfruttato la notorietà mediatica derivante dallo svolgimento d’indagini o processi». Il partito dei giudici è, poi, di per sé, la «negazione della democrazia», perché fonda la legittimazione democratica «sul discutibile valore etico di una naturale superiorità della magistratura rispetto ad altre istituzioni democratiche. Ma non sarebbe certo impedendo ai magistrati di candidarsi ad elezioni, che si risolverebbe il problema della politicizzazione nella magistratura». Perché i magistrati italiani si oppongono alla separazione delle carriere o a una più netta distinzione delle funzioni? «L’unicità delle carriere è un principio costituzionale voluto per assicurare la massima indipendenza anche ai magistrati della pubblica accusa, parificandoli alle garanzie previste per chi giudica. Questa prerogativa, che non ha equivalenti in nessun Paese democratico del mondo, ha assicurato alla magistratura italiana un’indipendenza senza pari. Ma era una prerogativa bilanciata da norme costituzionali altrettanto basilari come quella sull’immunità per i
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Alfonso Papa • Separazione delle carriere
Nella foto, Alfonso Papa. È magistrato di tribunale e sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura di Napoli
Sono perplesso quando vedo magistrati scendere nell’agone politico dopo aver sfruttato la notorietà mediatica parlamentari, che oggi, invece, è stata inopinatamente soppressa. D’altro canto questo assetto soffre anche molto il processo d’integrazione europea, che ci vede sempre più lontani dagli standard occidentali. In altre parole, la separazione delle carriere non risolve da sola i problemi della giustizia, ma bisogna anche smetterla di ragionare su di essa come se fosse un tabù o comunque un argomento proibito». La caratteristica di un ordinamento giuridico, in una democrazia, non dovrebbe essere l’indipendenza del giudice e non quella della pubblica accusa? «Questo dato riflette il valore universale dei principi in tema di giurisdizione fissati nelle convenzioni internazionali, dove si riconosce solo a chi giudica, il diritto-dovere intangibile all’indipendenza e si richiede peraltro il requisito della property, vale a dire equilibrio e buon senso, che credo oggi sia un valore altrettanto essenziale dell’indipendenza. Mi chiedo, però, se la separazione delle carriere sia una vera necessità o il frutto inevitabile dell’infelice idea di sopprimere l’immunità parlamentare, specie con un codice come quello vigente, che ha reso il pm un protagonista mediatico e non solo, delle indagini e del processo». Cosa pensa della proposta lanciata dal ministro Brunetta di dotare i magistrati di un badge? «Mediamente i magistrati sono tra i pochi dipendenti dello Stato che lavorano negli uffici più delle ore medie di ogni altro dipendente statale, non hanno il riconoscimento degli C&P • GIUSTIZIA
straordinari, non ricevono un adeguato trattamento di buoni pasto, portano il lavoro a casa. Essi non dispongono, in particolare per quelli assegnati al ramo civile, di uffici specifici o autonomi. È prassi usuale anche in Cassazione, per non parlare della quasi totalità degli uffici giudiziari, che essi dividano i luoghi di svolgimento dell’attività con personale amministrativo e altri colleghi. La retribuzione del magistrato è sensibilmente inferiore a quella media dei ruoli dell’alta dirigenza statale e inferiore di circa la metà rispetto alla retribuzione media dei giudici amministrativi e contabili, e di oltre 2/3 inferiore a quella degli appartenenti al corpo dell’avvocatura dello Stato. Risale agli anni 80 l’ultima riqualificazione stipendiale dei magistrati, e nell’ultimo decennio l’adeguamento automatico degli stipendi si è sempre più assottigliato. Ritengo che i magistrati lavorino mediamente molto, ma spesso male e con scarsissima organizzazione, a volte anche per i limiti di molti capi d’uffici. Non ritengo che il badge, ma riforme come l’ufficio del giudice, possano migliorare il servizio giustizia». Cosa sarebbe importante insegnare ai futuri magistrati? «Fondamentale sarebbe puntare su un’alta professionalizzazione e profonda sensibilizzazione rispetto alla cultura della giurisdizione per chi giudicherà. Nonché radicare un’alta cultura investigativa per chi sceglierà le funzioni requirenti. Per entrambi la cultura della prova dibattimentale dovrebbe essere la regola fondamentale, metro di tutta la formazione». 29
Riforma della professione • Maurizio De Tilla
Quello delle Casse è un problema che non c’è Oggi l’urgenza per le libere professioni è la modifica della legge Bersani. Quanto alle riforme che riguardano la classe forense, quella sull’avvocatura è ormai in dirittura di arrivo e quella sulla previdenza è una realtà che attende ormai solo l’approvazione ministeriale. A intervenire in materia è Maurizio De Tilla, nella doppia veste di presidente dell’Oua e dell’Adepp di Esmeralda Caserta
Maurizio De Tilla è presidente dell’Oua, l’organismo unitario dell’avvocatura e dell’Adepp, l’associazione degli enti previdenziali delle professioni
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n questi ultimi tempi sempre più insistentemente si parla della necessità di riformare unitamente alle professioni il loro sistema previdenziale. Due aspetti questi che sempre più appaiono strettamente interconnessi. «Anche se le normative sono diverse», fa notare Maurizio De Tilla, attuale presidente dell’Associazione degli enti previdenziali privati e dell’Organismo unitario dell’avvocatura italiana. Per quanto riguarda la riforma delle professioni egli sottolinea come questa attende ormai da tempo l’approvazione di un testo unitario: «Fino ad oggi – commenta con una certa delusione il presidente – non si è trovato nella politica un consenso unanime e giacciono presso le Commissioni parlamentari giustizia e attività produttive numerose proposte di legge, tanto per citarne alcune: Vietti, Mantini, Siliquini, Pastore, Capano e altre. Per tutte queste si è aperta una ennesima discussione alla Camera dei deputati». In realtà, secondo il professionista, quello che manca per affrontare l’argomento è la volontà politica «e ciò al punto che alcune rappresentanze professionali si sono persino smarcate, provvedendo a sollecitare la riforma della propria categoria professionale» aggiunge De Tilla. Gli avvocati attendono la riforma dell’ordinamento forense, che risale al 1933, evidentemente orami da troppo tempo, ragion per cui hanno formulato un progetto condiviso presentandolo al Senato; il progetto è stato esaminato da un comitato ristretto della Commis-
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C&P • GIUSTIZIA
Maurizio De Tilla • Riforma della professione
L’insistenza che viene da talune parti nel segnalare un problema che non c’è, fa sospettare che si tenti ancora una volta di “mettere le mani sui patrimoni delle Casse
sione giustizia che ora sta per esaurire i propri lavori. Anche se al riguardo il presidente Oua ritiene che l’insorgere di notevoli contrasti hanno dato luogo alla presentazione di ben 270 emendamenti «il che non è certo molto rassicurante» aggiunge. Rispetto a questa situazione quella della riforma della previdenza professionale appare invece diversa. «Con la privatizzazione le Casse hanno guadagnato l’autonomia normativa, per cui per emendarla non occorre più una legge – ammette De Tilla –. Perciò gli enti dei professionisti hanno proceduto, ciascuno per proprio conto, a riformare la rispettiva previdenza e questo al fine di rendere più stabile il sistema, garantendo gli aspetti di protezione previdenziale almeno a trent’anni». Commercialisti e geometri hanno già ottenuto l’approvazione ministeriale al riguardo, mentre avvocati, ingegneri, architetti, consulenti del lavoro e veterinari, attendono l’approvazione ministeriale che sembra, così come ha assicurato più volte il ministro Sacconi, non dovrebbe tardare. Lo sforzo di far quadrare i conti degli enti dei professionisti per i futuri 30 anni, come richiesto dalla finanziaria del 2007, sembra in qualche modo essersi arenato. Come mai? «Le Casse professionali hanno puntualmente ottemperato alla riforma della loro previdenza allorché hanno provveduto al cambiamento del sistema, all’aumento dei contributi e dell’età pensionabile, alla previsione di una pensione C&P • GIUSTIZIA
integrativa modulare, al consolidamento della solidarietà ed ad altre modifiche di grande rilevanza.Va ricordato che dalla privatizzazione, da cui sono trascorsi quindici anni, le Casse hanno compiuto un percorso virtuoso che ha portato all’incremento dei patrimoni e degli attivi di bilancio. Abbiamo più volte posto in evidenza che per effetto dell’autonomia della previdenza privata si è realizzata un’importante contrapposizione al sistema keynesiano; così è sorta una struttura previdenziale affidata alla responsabilità dei gruppi professionali. Per gli enti dei professionisti la scelta di entrare nel settore privato è stata effettuata con profonda convinzione da parte delle rappresentanze professionali nella consapevolezza che provvedere in autonomia ai propri trattamenti previdenziali costituisca una scelta moderna che consente di pensare alla previdenza professionale non solo in termini di trattamento strettamente pensionistico, ma come tutela dell’età post lavorativa, intesa come tutela sociale della salute e della vecchiaia, in termini di accentuata solidarietà sociale». Di recente si è parlato della possibilità che le Casse che non siano in grado di rispettare i criteri imposti dalla legge finanziaria che introduceva la sostenibilità trentennale dei bilanci anziché quindicinale, vengano sciolte. Una ipotesi di pura fantasia? «Credo fermamente sia un’ipotesi di pura fantasia. Sarebbe 31
Riforma della professione • Maurizio De Tilla
Le Casse hanno compiuto un percorso virtuoso che ha portato all’incremento dei patrimoni e degli attivi di bilancio
assurdo pensare al “commissariamento” di Casse professionali che versano in ottima salute, hanno persistenti attivi di bilancio, hanno già provveduto ad adeguare i propri ordinamenti, facendo così in pieno il proprio dovere verso le nuove generazioni. L’Adepp ha approvato più documenti con i quali ha chiesto l’approvazione urgente delle riforme adottate anche da più di un anno dalle Casse professionali». Come occorrerebbe muoversi per riformare il sistema pensionistico legato alle libere professioni? Quali sono le proposte che arrivano dall’Adepp? «Il problema, ribadisco, non è più quello di assicurare proiezioni attuariali a trent’anni, in ossequio al dettato della finanziaria 2007, che ha elevato a tale periodo la più ridotta previsione a quindici anni. Le Casse hanno già provveduto a questo adeguamento. L’insistenza che viene da talune parti nel segnalare un problema che non c’è, fa sospettare che si tenti ancora una volta di “mettere le mani sui patrimoni delle Casse”, come è stato già fatto in precedenza, ma con scarso successo in quanto le categorie professionali hanno efficacemente reagito a tale ingordigia politica anche sul piano del consenso elettorale. Il vero problema è che la previdenza privata, che ha già la piena sostenibilità, non assicura in taluni casi l’adeguatezza della prestazione previdenziale che va riposizionata e integrata». Quali sono i nodi più importanti da sciogliere relativamente alla previdenza della classe forense? «La riforma della previdenza forense è stata approvata dal 32
precedente comitato dei delegati con l’incremento della contribuzione soggettiva e integrativa, e l’aumento graduale dell’età pensionabile, l’istituzione della previdenza complementare, il raffreddamento dei coefficienti per il calcolo della pensione. La riforma è buona e merita di entrare in vigore il 1 gennaio 2010 con l’approvazione ministeriale». Come questa materia si collega con le altre problematiche di cui oggi soffre la categoria? «I gravi problemi che affliggono l’avvocatura riflettono in gran parte gli effetti disastrosi della legge Bersani che ha costretto i giovani avvocati ad accettare convenzioni professionali al ribasso, fortemente al di sotto dei minimi di tariffa. La crisi economica ha aggravato ancor più la crisi dell’avvocatura. La modifica della Bersani è urgente e non può più attendere. Altro che le ulteriori liberalizzazioni prospettate dall’Antitrust, che non conosce le problematiche del ceto forense. La presenza di ben 230mila avvocati costituisce un numero che non si può più sopportare. Occorrono rimedi radicali: numero programmato nell’università, accesso contenuto e selezionato agli albi, formazione seria e continua, effettività dell’esercizio professionale, rigorose incompatibilità, limiti di età e altre incisive innovazioni. L’Oua ha organizzato per novembre una conferenza nazionale dell’Avvocatura di due giorni proprio per dialogare e per confrontarsi su tutti questi temi con il governo e con le varie forze politiche». C&P • GIUSTIZIA
Riforma della professione • Ester Perifano
Una riforma specchio della società Una voce fuori dal coro. Ma mai contraria per partito preso. Ester Perifano, presidente dell’Associazione nazionale forense, quando parla dei problemi che affliggono la classe forense, lo fa guardando alla realtà dei fatti. È partendo da qui che a volte critica e a volte condivide le politiche messe in atto dagli organi ufficiali che rappresentano la categoria di Giusi Brega
a suscitato un forte dibattito la bocciatura da parte dell’Antitrust di alcuni dei punti più importanti della riforma della professione d’avvocato che nello scorso luglio avrebbe dovuto essere approvata dal Comitato ristretto della commissione Giustizia del Senato. A oggi, a parte la polemica suscitata da questa bocciatura dell’Antitrust, non si parla più granché di tale riforma né tantomeno si sa con certezza quando essa riuscirà a vedere la luce. Ester Perifano, segretaria dell’Anf, espone le indicazioni che arrivano dalla sua organizzazione circa le attese della classe forense rispetto al testo riformatore spiegandone i motivi della battuta di arresto dell’iter legislativo. Perché secondo lei la riforma si è arenata? «È stata lo stesso ministro della Giustizia, tramite il sottosegretario Alberti Casellati, a chiedere lo slittamento della discussione del testo di riforma all’esame del comitato ristretto. Su molti punti, infatti, il ministro Alfano non è d’accordo e dunque intende intervenire concretamente». Come commenta la bocciatura dell’Antitrust? «Ritengo che alcune delle contestazioni mosse siano condivisibili, ad esempio quelle relative all’eccessivo potere regolamentare attribuito al Consiglio nazionale forense e quelle che riguardano il percorso previsto per le specializzazioni». Un tema cruciale da affrontare oggi è quello dell’accesso alla professione dei giovani avvocati, sempre più numerosi e al contrario sempre con minori pos-
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sibilità lavorative. Quali le soluzioni proposte in merito dall’Anf? «L’accesso alla professione è oggi il grande problema della classe forense, sia perché il numero degli abilitati cresce ogni anno a dismisura, ma soprattutto perché non sempre quelli che riescono poi ad avere l’abilitazione sono i migliori. A nostro avviso un primo, significativo intervento dovrebbe riguardare il corso di laurea in giurisprudenza, prevedendo un percorso specifico per chi in seguito vorrà dedicarsi a una delle tre professioni legali: avvocato, magistrato o notaio. Limitarsi a intervenire pesantemente solo sul tirocinio e sull’esame di stato, come vorrebbe il progetto di riforma in discussione, con test di ingresso, scuole forensi obbligatorie, prove di preselezione informatica e prova d’esame più selettiva, serve solo a raggiungere il fine indiretto della diminuzione di un numero che viene considerato esorbitante, ma non contribuisce certo a migliorare la preparazione dell’aspirante avvocato. Tutto ciò è ben chiaro all’Antitrust, per questo ha deciso di intervenire». Quanto è importante la formazione e quali i suoi costi attuali? Come si sta muovendo a livello associativo la categoria per promuovere la formazione e l’aggiornamento senza gravare troppo sulle finanze dei giovani professionisti? «Il costante aggiornamento professionale è fondamentale per la qualità della prestazione. E già il nostro codice deontologico prevede all’articolo 13 il dovere di aggiornamento professionale e al precedente articolo 12 il dovere di C&P • GIUSTIZIA
Ester Perifano • Riforma della professione
Il sistema dei crediti è assolutamente inefficace. Nei Fori dove c’è una presenza associativa importante i costi sono, generalmente, assai più contenuti che altrove
competenza, per effetto del quale è vietato all’avvocato assumere incarichi per i quali non abbia la competenza sufficiente. Inoltre, come spesso si sente ripetere, non è l’Europa a pretendere la formazione continua obbligatoria: esiste solo una risoluzione che lo auspica per tutte le professioni. Per esempio ancora oggi per gli ingegneri e gli architetti l’aggiornamento professionale è solo facoltativo e non per questo vengono sanzionati. Noi riteniamo che ogni avvocato dovrebbe potersi aggiornare liberamente, secondo le necessità e le possibilità di ciascuno, senza l’imposizione di obblighi che, alla prova dei fatti, si rivelano spesso del tutto inidonei. Il sistema dei crediti, poi, è assolutamente inefficace, oltre a essere anche piuttosto costoso. Le nostre sedi locali spesso intervengono con l’organizzazione di corsi tendenzialmente gratuiti e il risultato è che nei fori in cui c’è una presenza associativa importante i costi sono, generalmente, assai più contenuti che altrove». Altro tema di viva attualità è quello delle tariffe professionali, specie dopo la liberalizzazione dovuta alla legge Bersani. Quali sono gli aspetti più controversi in materia? «Sull’argomento si è creata un po’ di confusione. Si fronteggiano, sul punto, due diversi orientamenti, ambedue autorevoli: l’uno, sostenuto dall’Antitrust nell’esercizio di una facoltà legittima di intervento, secondo il quale le tariffe minime inderogabili violano il principio della concorrenza; l’altro, della Corte di Giustizia, secondo cui la determinazione delle tariffe minime e massime inderogabili per gli avvocati, nel regime ante legge Bersani, non è in contrasto con le regole comunitarie in materia di concorrenza. Per cui gli avvocati invocano l’abrogazione della legge e il ripristino delle tariffe minime inderogabili. La verità è che le famose “lenzuolate”, almeno per quanto riguarda la nostra professione, hanno certamente favorito il grande capitale. Banche e assicurazioni hanno, infatti, immediatamente ridotto al di sotto del minimo le parcelle ai loro avvocati, mentre poco o nessun vantaggio hanno portato al consumatore, per il quale è importante poter contare su un avvocato di qualità e vincere la causa, e non pagare poco l’avvocato». Strettamente collegato a tutti questi argomenti c’è C&P • GIUSTIZIA
I CREDITI PER LA FORMAZIONE econdo il regolamento approvato dal Consiglio nazionale forense nel 2007 sulla formazione professionale continua degli avvocati è necessario maturare 90 crediti formativi ogni 3 anni. Tale obbligo si assolve attraverso la partecipazione a eventi promossi, organizzati o accreditati dal Consiglio nazionale forense, dai consigli dell’Ordine e dalla Cassa nazionale di previdenza. Gli eventi formativi più comuni sono: i corsi di ag-
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giornamento, i master, i seminari, i convegni, le giornate di studio, le tavole rotonde, le commissioni di studio, i gruppi di lavori istituiti da organismi nazionali e internazionali della categoria professionale e anche altri eventi individuati dal Cnf e dai singoli consigli dell’Ordine. Chi partecipa a questi eventi acquisisce crediti per ogni metà giornata di partecipazione con il limite massimo di nove crediti per ogni singolo evento formativo
quello della previdenza. Quali i nodi cruciali da sciogliere? «Il nostro ente previdenziale gode fortunatamente di ottima salute. Tuttavia, per espressa disposizione legislativa, è tenuto a garantire il pareggio di bilancio per i prossimi trenta anni per cui è in corso di approvazione una riforma del sistema. Si tratta di trovare il giusto equilibrio tra i diritti e i benefici già maturati e le aspettative di chi si iscrive oggi alla Cassa per la prima volta». Come va riformato il vostro ordinamento per un allineamento con le mutate esigenze delle moderne società? «Attraverso una serie di regole semplici e comprensibili anche all’esterno, che ci permettano di recuperare presso l’opinione pubblica un’immagine che oggi, purtroppo, è piuttosto sfavorevole». 35
Riforma della professione • Roberto Cassinelli
La proposta prevede, tra l’altro, che l’accesso alla professione sia regolato in modo più rigoroso
Il doppio binario della riforma forense Migliorare l’efficienza dei servizi, mantenendo intatta l’identità professionale. È su questi presupposti che si muove la proposta di riforma dell’ordinamento forense. L’analisi dell’avvocato Roberto Cassinelli, relatore per la Camera dei deputati di Agata Bandini 36
na riforma che, se attuata, si preannuncia «storica». Così l’avvocato e parlamentare Roberto Cassinelli definisce il disegno di legge per la revisione dell’ordinamento forense da lui stesso presentato, insieme ad altri deputati, lo scorso maggio alla Camera. Una proposta, spiega Cassinelli, che interviene a modernizzare un assetto sostanzialmente fermo al 1933, e dunque palesemente inadeguato alla complessa realtà della professione attuale. Che invece richiede di ribadire, oggi più che mai, «il ruolo centrale dell’avvocato nella moderna società quale interprete dei valori e dei diritti fondamentali del cittadino». La proposta di riforma presentata a maggio recepisce il progetto già avanzato dal Consiglio nazionale forense. Quali sono i punti principali? «L’iniziativa che abbiamo assunto è quella di fare nostra la bozza di riforma elaborata dal Consiglio nazionale forense, dall’Organismo unitario dell’avvocatura italiana e dai principali ordini locali che, per la prima volta, hanno raggiunto un’intesa sul testo di una possibile riforma. I cardini di questa riforma riguardano l’accesso alla professione, la formazione professionale e la reintroduzione dei minimi tariffari, che erano stati abrogati dal precedente governo Prodi con il decreto Bersani». Per quanto riguarda l’accesso alla professione ci saranno modifiche rilevanti? «Certamente sì: la proposta prevede che l’accesso alla professione sia regolato in modo più rigoroso. Con riferimento alla
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Roberto Cassinelli • Riforma della professione
L’avvocato Roberto Cassinelli, deputato Pdl, è relatore alla Camera della legge di riforma della professione forense. Sotto Cassinelli con il ministro della Giustizia Angelino Alfano
formazione professionale è infatti previsto un test preliminare obbligatorio per l’iscrizione al registro dei praticanti, al quale farà seguito un tirocinio della durata di ventiquattro mesi che si comporrà della pratica presso uno studio legale e della frequenza obbligatoria ai corsi di formazione tenuti esclusivamente dagli Ordini professionali e dalle associazioni forensi. Si ipotizza anche l’introduzione di una preselezione informatica destinata a limitare l’accesso all’esame di abilitazione solo ai più preparati». La proposta ha incontrato l’opposizione dell’Autorità anti-trust: quali sono i termini contestati e perché? «L’Antitrust sostiene che il reinserimento dei minimi tariffari, le restrizioni nell’accesso alla professione, le nuove esclusive e i limiti alla pubblicità determinerebbero gravi limitazioni al funzionamento del mercato, imponendo oneri non giustificati a cittadini e imprese. In realtà, i minimi tariffari hanno giovato esclusivamente ai “grandi clienti” in grado di imporre la propria forza contrattuale al professionista, senza di fatto portare alcun beneficio ai semplici cittadini. Le restrizioni nell’accesso alla professione e le nuove esclusive garantiranno ai clienti un’assistenza sempre più qualificata e d’eccellenza, evitando che l’attività forense diventi un facile sbocco lavorativo per chi non ha trovato, al termine degli studi universitari, collocazioni di altro genere; un’attenta disciplina della pubblicità eviterà un imbarbarimento della concorrenza tra colleghi che, soprattutto attraverso la pubblicità comparativa, rischierebbe di compromettere quel livello di dignità che sino a oggi è stato invece assicurato». C&P • GIUSTIZIA
Quali effetti si prevede avrà concretamente sulla professione, se verrà approvata? «Questa storica riforma, che auspico possa arrivare in tempi brevi a modificare un testo del 1933, ribadisce l’attualità e la centralità dei principi di autonomia e libertà nell’esercizio della professione forense, assicura funzionalità ed efficienza agli organi rappresentativi dell’avvocatura. È evidenziato il ruolo centrale dell’avvocato nella moderna società quale interprete dei valori e dei diritti fondamentali a tutela dei cittadini, garantendo a questi la più alta qualità dei servizi resi. Essendo relatore per la Camera dei deputati dei progetti di riforma, cercherò di dar vita in ultima istanza a un testo che si richiami fermamente a questi principi». Anche sulla base della sua esperienza professionale, crede che la riforma dell’ordinamento forense potrà da sola realizzare in Italia un sistema della giustizia efficiente, come da tempo auspicano tutte le categorie coinvolte? «Certamente darà un contributo in tal senso, ma ritengo che per giungere a una giustizia che funzioni veramente sia necessario un lavoro più ampio: penso alle riforme già introdotte dal Governo Berlusconi in ordine al processo civile, a una più razionale organizzazione della Magistratura, all’introduzione delle nuove tecnologie nei nostri tribunali che ancora oggi sono sommersi dalla carta. Si tratta di provvedimenti che sono già all’attenzione del ministro Alfano e che, in tempi ragionevoli, potranno dare un impulso di modernità al nostro sistema giudiziario». 37
Riforma del processo civile • Salvatore Grimaudo
Dal congresso all’aula L’attenzione dell’avvocatura è tutta rivolta alla delega che la legge di riforma del codice di procedura civile ha conferito al governo per ridurre i riti dei processi. Va in tale direzione l’appello del presidente uscente dell’Uncc Salvatore Grimaudo di Marilena Spataro
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l congresso nazionale dell’Unione delle camere civili tenutosi di recente a Palermo è stata l’ennesima occasione per fotografare la disastrosa situazione della giustizia civile in Italia. «Tale situazione è stata evidenziata in tutte le relazioni, anche internazionali, che ci vedono costantemente agli ultimi posti nelle graduatorie. Il titolo Ricominciamo dalla giustizia del congresso è un ulteriore invito che l’avvocatura civile formula alla classe politica affinché si ponga seriamente mano allo studio di un processo rapido, semplice e con connotazioni europee». Parole dure queste pronunciate dal presidente uscente Salvatore Grimaudo, al congresso nazionale dell’Uncc. Quali sono gli aspetti che ancora pongono ostacoli al buon funzionamento della giustizia civile, nonostante di recente si sia proceduti alla riforma in quest’ambito? «Personalmente ritengo che quanto fatto fino a ora dal parlamento non contribuisca ad abbreviare la durata dei processi, ma che il governo, come ho fatto rilevare tempo fa in commissione Affari costituzionali, ha ancora in mano un’arma validissima per fare qualcosa di buono. Si tratta della delega per l’unificazione e semplificazione dei riti il cui decreto delegato dovrebbe essere in fase di elaborazione. Se fallirà questa opportunità si sarà creato altro caos, mentre il tentativo di riformare seriamente il processo facendo funzionare concretamente la giustizia si potrebbe considerare naufragato». Perché ridurre i riti è tanto importante per il funzionamento della giustizia?
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C&P • GIUSTIZIA
Salvatore Grimaudo • Riforma del processo civile
Savatore Grimaudo è stato presidente dell’Uncc fino al recente congresso tenutosi a Palermo dove è stato eletto nuovo presidente l’avvocato Renzo Menoni
«L’attuale miriade di riti trasforma il processo in un meccanismo nel quale interessa poco il diritto sostanziale del cittadino, soverchiato dai problemi formali che trasformano la lite in una palestra di diritto processuale nella quale la sostanza della lite assume un ruolo del tutto secondario. E questo è quanto nel 2008, la delegazione dell’Uncc, di cui facevo parte, ha illustrato al ministro della Giustizia Angelino Alfano che ci aveva ricevuti al ministero. In quella sede ho esposto la proposta che la nostra Camera sostiene da oltre un decennio sull’unificazione e semplificazione dei riti. Ho anche consegnato al ministro i due volumi intitolati Le procedure civili che l’Unione camere civili ha stampato nel 2007 con l’Unione degli ordini del Triveneto e che contengono le norme dei diversi modi di porre una lite e di condurla. Il ministro dichiarò di condividerne il contenuto». Relativamente al provvedimento delegato che dovrebbe semplificare e ridurre i riti, qual è il contributo che l’avvocatura offre? «Innanzitutto offriamo la nostra collaborazione alla sua stesura al fine di evitare, come accade sovente, che il modo di fare il processo venga scritto da coloro che hanno frequentato poco i tribunali. Pensare di abbreviare un processo che, specie in sede di gravame, dura decine di anni, mediante la riduzione di quindici giorni delle ferie degli avvocati, rimanendo però intangibili quelle dei magistrati, ridurre da sei a tre mesi i tempi per la riassunzione di una causa, ridurre i termini per le impugnazioni, è un paradosso che, in definitiva, riduce spazi in danno degli avvocati senza incidere sulla C&P • GIUSTIZIA
L’attuale miriade di riti trasforma il processo in un meccanismo nel quale interessa poco il diritto sostanziale del cittadino durata processuale». Quali sono gli altri temi sui cui intendete far sentire la vostra voce? «Molteplici. C’è ad esempio da definire il ruolo che nel nuovo processo spetta alla magistratura onoraria, che secondo noi non è certo adatta a pilotare, come si dovrebbe, il processo. Le Camere civili hanno sempre considerato l’esistenza di soggetti che emettono decisioni senza essere magistrati un male necessario, ma pur sempre un male. E se è vero che il numero dei nostri magistrati e le risorse destinate alla giustizia nel nostro Paese non sono inferiori a quelli degli altri Paesi di Europa, forse hanno ragione coloro che attribuiscono l’inefficienza a un problema di organizzazione, oltre che di struttura del processo. Ricordiamoci che in Europa siamo gli unici ad introdurre la domanda con un atto di citazione con termine a comparire di novanta giorni, quei tre mesi che per alcuni processi in Germania o Spagna sono sufficienti per emettere la sentenza». Il recente congresso dell’Uncc ha nominato un nuovo presidente, l’avvocato Renzo Menoni, che va a sostituirla, pensa che seguirà la linea da lei tracciata in questi anni di presidenza? «Il nuovo presidente è un giovane e validissimo avvocato, sono certo che si saprà muovere nel modo più opportuno facendosi interprete al meglio delle istanze dell’avvocatura e perseguendo con la forza che gli deriva anche dalla sua giovinezza l’obiettivo comune di una giustizia che finalmente possa chiamarsi giusta». 39
Donne di legge • Adriana Boscagli
Genere: ostacolo o valore? Una società competitiva e in crisi pone uomini e donne dinanzi a scelte difficili. Soprattutto culturali. Quello del rapporto e della parità tra i generi è un punto tutt’altro che risolto e su cui, secondo l’avvocato Adriana Boscagli c’è ancora tanto da sviscerare. A partire dalla famiglia e dal matrimonio di Andrea Moscariello
siste ancora oggi un profondo, talvolta meno visibile rispetto al passato, ostracismo di genere. Le donne lottano quotidianamente per affermare la propria utilità e valenza sociale, oltre che economica, all’interno di una realtà globale che, seppure avanzata e fiorente di opportunità, fatica ancora a superare determinate barriere ideologiche e culturali. Nella categoria forense, ciò si ripercuote nelle carriere di migliaia di avvocati. «L’Italia, nonostante sia uno dei Paesi più avanzati al mondo, è tra quelli che maggiormente soffrono le differenze che si creano tra donne e uomini nella partecipazione alla vita economica» sostiene l’avvocato Adriana Boscagli, nota matrimonialista di Roma. Un ruolo, il suo, da molti ritenuto più adatto all’universo femminile, necessitando di particolare sensibilità e capacità di interazione con soggetti emotivamente provati, spesso minori. Ma questa riflessione è comunque il frutto di una visione limitata e, seppure elogiativa, sessista. Secondo la Boscagli essere donna non costituisce necessariamente un valore aggiunto nell’avvocatura. «Parlerei di pari valore tra avvocato donna e avvocato uomo, con caratteristiche a volte diverse, a volte molto simili» dichiara il legale. Quali, dunque, le differenze? «La diversità sta nelle attitudini o nelle passioni che scaturiscono più dalla complessità della persona che dalle differenze di genere. In Italia si fa ancora fatica a sradicare dalla società i vecchi tarli del maschilismo. È doloroso doverlo ammettere e certamente è “una vecchia storia” della quale
E L’avvocato Adriana Boscagli, nel suo studio di Roma, città in cui esercita la professione sin dal 1982. La sua carriera iniziò in uno degli studi più importanti della capitale, quello del professor Carmine Bevilacqua e dell’onorevole Donato Bruno. Nella pagina a fianco, di nuovo Adriana Boscagli assieme al suo staff studioboscagli@boscaglilex.com
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Adriana Boscagli • Donne di legge
si fa ancora oggi fatica a parlare». Quindi per le donne c’è ancora tanta strada da compiere? «Sì, ma io sono ottimista. Ho apprezzato l’invito da parte del Presidente della Repubblica affinché le donne si recassero al Quirinale l’8 marzo per premiare con “onore al merito” tutte le rappresentanze femminili che lavorano nei vari settori. La meritocrazia fa emergere anche i talenti femminili. Alle donne rimaste in ombra io consiglio di avere coraggio, perché questo sarà premiato». Esistono delle “responsabilità di genere” relativamente alla situazione che stiamo vivendo? «Credo che sia troppo facile parlare di responsabilità delle donne. Ci sarà anche quella, ma non è questo il punto. Anzi, affermando che la responsabilità della situazione è anche delle donne, si corre il rischio di fare il gioco di tutti coloro che preferirebbero un mondo dominato dagli uomini. Così in questo modo, deresponsabilizzandosi, si lascerebbe irrisolto il reale problema. È chiaro, una donna fa molta più fatica ad affermarsi e non lo dico per fare della retorica vittimistica. Le donne non vogliono, ed è giusto che non vogliano, rinunciare a famiglia, ai figli e alla cura di sé. Ma il compromesso è possibile». Quali sono gli errori maggiormente commessi? «Spesso la scelta di rimanere nell’ombra è indotta da qualcosa o qualcuno. Troppo spesso, le donne si acquietano in situazioni di comodo, nell’idea di avere bisogno degli uomini, della loro solidarietà e complicità. Da sole le donne non C&P • GIUSTIZIA
*LEADERSHIP
Secondo il Cerved le donne assicurano una sana vita d’impresa fatti parlano chiaro. L’Italia deve compiere passi da giganti» afferma l’avvocato Adriana Boscagli. L’Unione Europea ci ha ingiunto di equiparare l’età di pensionamento tra uomini e donne, così come imposto dalla sua normativa, che stabilisce età pensionabili uguali per ambo i sessi. Nel contempo una recente ricerca del Cerved, fondata su uno dei maggiori database del nostro Paese per valutare l’affidabilità di imprese e persone, ha affermato che la “guida al femminile” genera più ricavi e profitti di quella maschile nelle maggioranze aziendali. Ovvero, con la loro maggiore presenza nei consigli di amministrazione, pare proprio che le donne riescano a ridurre il rischio di “default” o “crisi aziendale”. Una rivelazione che dovrebbe attirare l’interesse del mondo imprenditoriale italiano, prettamente maschile. «Secondo i dati raccolti le imprese con guida femminile hanno performance gestionali e finanziarie superiori alla media del settore – sostiene la Boscagli -. Mi risulta che si stia elaborando una proposta legislativa per rendere obbligatoria la quota di partecipazione di donne nei “board”, quale antidoto contro i default che minano la sopravvivenza di un crescente numero di imprese. È un bel successo».
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Donne di legge • Adriana Boscagli
possono farcela, è vero. Ma un’integrazione con gli uomini non sempre è possibile. Lo sradicamento dalla vecchia formula maschilista, quindi, è complicato e ancora in elaborazione. Molti uomini ci apprezzano come collaboratrici, come colleghe, ancora troppo pochi scommetterebbero sulla nostra capacità di essere capi. Con furbizia, molti uomini ancora scettici trovano solidarietà in certe donne. Quali? Quelle che si lasciano andare a denigrazioni facili per compensare piccoli complessi, piccole insicurezze, ingenue e miopi valutazioni». Cosa si sente di suggerire alle altre donne? «Solidarietà.Vera. E coraggio. Tentiamo di imitare la solidarietà maschile, quella che hanno gli uomini da sempre tra loro. E non lasciarsi abbindolare da facili critiche, perché la denigrazione distrugge anche le migliori intenzioni. Andiamo avanti sorridendo e con ottimismo». Il suo ruolo di matrimonialista la pone di fronte a difficili situazioni famigliari in cui si evidenziano le differenze tra i due sessi. Parlando in particolare di separazioni e divorzi, qual è, oggi, il compito dell’avvocato? «È un ruolo di grande responsabilità. Spesso è l’avvocato che dirige una separazione giudiziale o consensuale. Credo che un avvocato matrimonialista non debba mai perdere occasione per tentare di abbassare il conflitto, o almeno di contenerlo. Ovviamente tirando fuori le unghie se serve. Inoltre, ha il dovere di tenere in mente che i figli della coppia che si separa vanno tutelati sempre e a ogni costo. Uma42
Credo che un avvocato matrimonialista non debba mai perdere occasione per tentare di abbassare il conflitto, o almeno di contenerlo. Ovviamente tirando fuori le unghie se serve C&P • GIUSTIZIA
Adriana Boscagli • Donne di legge
namente, inoltre, deve essere vicino al suo o alla sua assistita, in un momento che è e rimane destabilizzante per chi sta affrontando la separazione o il divorzio. Anche se ci si rivolge all’avvocato con la convinzione condivisa che non vi sia miglior cosa che la separazione, ciò non significa che i due coniugi abbiano elaborato il convincimento contemporaneamente. C’è sempre uno dei due che soffre più dell’altro e che si sente più solo. Questo squilibrio deve essere compensato dalla sensibilità dell’avvocato». È favorevole all’affido condiviso? «Certamente sì. I due coniugi si separano come marito e moglie, ma non devono farlo come genitori. L’obiettivo dell’introduzione della legge è sano, quello di ridurre i conflitti e i contenziosi. È anche vero però che la realizzazione concreta di questi vantaggi è ancora difficile e deve passare per un’attenta e fedele interpretazione. Imparato il concetto che con affido condiviso si intende quasi esclusivamente l’esercizio congiunto della patria potestà, la legge mette solo nero su bianco un’abitudine che da sempre dovrebbero avere i genitori separati. Dovrà comunque passare del tempo prima che se ne abbia l’adeguata applicazione e comprensione pratica. Siamo ancora spesso di fronte a strumentali battaglie per l’affido condiviso che invece nascondono, come troppo spesso accade, il problema “denaro”. La legge certifica e abilita esplicitamente il ruolo economico genitoriale: entrambi i genitori alla pari, come è giusto che sia. D’altro canto, la figura del genitore dopo la separazione deve rimodellarsi a vantaggio dei figli. I genitori, entrambi, C&P • GIUSTIZIA
dovrebbero lavorare molto per far sì che i figli non rimangano carenti di affetto, sicurezze e insegnamenti, con la stessa complicità e protezione che c’era durante il matrimonio o la convivenza». Quali sono, in generale, i problemi che insorgono più frequentemente nella famiglia contemporanea secondo il suo punto di osservazione? «Posso dire quello che ho osservato in 25 anni di attività. Sicuramente vi è la necessità di reinventare il modello matrimoniale. Le coppie devono prepararsi a condividere un matrimonio che con il tempo cambia, si trasforma, anche interiormente, e non sempre con la stessa tempistica da parte dell’uomo e della donna che formano il nucleo famigliare. Rispetto alle coppie dei nostri genitori o dei nostri nonni, quella odierna è formata da persone nuove, da nuovi modelli e da altre personalità. Evidentemente il collante deve essere cambiato, altrimenti non si regge l’impalcatura. La donna che prima era solo moglie e madre o che, se era anche altro, si guardava dal manifestarlo pubblicamente, incideva fortemente sull’equilibrio della coppia e sul reciproco relazionarsi dei coniugi tra di loro e verso l’esterno. Molti uomini, inoltre, fanno fatica a recepire l’idea di avere per moglie una donna impegnata quanto loro se non di più». E le donne come vivono tale cambiamento? «Le donne, dal canto loro, non hanno più il tempo di cercare le innumerevoli attenzioni necessarie a mantenere salda l’armonia della coppia. La nuova coppia è composta 43
Donne di legge • Adriana Boscagli
Aumentano le separazioni in Italia. Di queste, buona parte vengono risolte con rito consensuale
da due mononuclei totalmente indipendenti e autonomi, che devono condividere i pochi spazi di libertà e di tempo che rimangono, senza modelli genitoriali che possano guidarli nelle scelte. Oggi la donna non è l’unica delle due parti a doversi modellare sulla stanchezza dell’altro. Il rispetto che chiede o pretende può disorientare anche il più ragionevole degli uomini, che di contro non possiede le giuste chiavi per entrare nel nuovo mondo femminile e non ha il tempo o la voglia di soffermarsi a studiare il fenomeno. Nel frattempo gli interessi corrono e anche l’abitudine a fare a meno l’uno dell’altra. Si manifesta una certa violenza verbale e c’è da considerare che la crisi economica incide direttamente sui matrimoni». Le separazioni con rito consensuale sono più del doppio rispetto a quelle con rito giudiziale. Ciò induce a pensare che, nella maggioranza dei casi, vi è una conflittualità che potrebbe essere discussa e risolta senza i tribunali. «Assolutamente no. Sarebbe una grave e imperdonabile miopia. La complessità delle norme necessarie a coordinare
una separazione di coniugi è tale che non può fare a meno di una verifica attenta dei tribunali e, prima di essi, degli avvocati che la collazionano su misura di vari clienti, tutti diversi. Non credo di aver fatto in tanti anni due separazioni uguali. Le norme che vanno considerate per risolvere non solo i problemi dell’oggi, ma soprattutto poter evitare i contenziosi dell’indomani, sono il frutto di un’attenta e peculiare valutazione che cambia da caso a caso e che può essere anche negoziata tra le parti ma solo con la consapevolezza dei propri diritti». Stando ai fatti di cronaca sempre più spesso la separazione di coppie miste, per esempio di nazionalità o religioni diverse, crea vere e proprie tragedie. Servirebbe una normativa ad hoc? «Le coppie cosiddette miste sono in grande aumento, è vero. Forse anche in conseguenza, e ovviamente non solo, del rapporto matrimoniale italiano in crisi. Ma ci sono sempre state. Le norme a tutela, quindi, ci sono. Non credo abbiamo bisogno di altre leggi al momento. È necessario conoscere e applicare quelle che possediamo».
Dovrà passare del tempo prima che si abbia un’adeguata applicazione dell’affido condiviso
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Diritto immobiliare • Marco Valerio
Immobili e diritto Alla luce della congiuntura economica, il settore immobiliare ha subìto importanti mutamenti. Tuttavia, tra i vari tipi di investimento, «resta tra le forme più sicure e redditizie» come sottolinea l’avvocato Marco Valerio, titolare dell’omonimo studio legale tra i più apprezzati in Lombardia nel settore della consulenza legale-immobiliare di Alessandro Cana
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Marco Valerio • Diritto immobiliare
Nella foto, l’avvocato Valerio con il suo team di più stretti collaboratori: Linda Perego, Luca Canevotti, Cristiana Bardella e Serena Saggini www.avvocatovalerio.it
Prerogativa dello studio è assicurare tutela e garanzia ai proprietari e ai fruitori di immobili attraverso una prestazione professionale e un’accurata assistenza contrattualistica giudiziaria e gestionale
a crisi economica internazionale ha causato molteplici variazioni all’interno del settore immobiliare. Innanzitutto la diminuzione dei prezzi degli immobili. Questo ha portato la domanda immobiliare in ripresa e l’offerta in aumento. I tempi di vendita degli immobili si stanno stabilizzando. I venditori sono più consapevoli dei cambiamenti avvenuti sul mercato e l’acquirente ha ancora margini di trattativa. Un settore multiforme e variegato, dunque. Ma oggi come nel passato, al di là dei turbamenti economico-finanziari che hanno caratterizzato gli ultimi periodi, si deve oggettivamente riconoscere che la necessità di investire è rimasta immutata e imprescindibile. Purché si tratti di immobili con ubicazione e caratteristiche che determinino una rivalutazione nel tempo: l’investimento in un lasso di tempo medio lungo non ha mai deluso e ha sempre dato soddisfazione. Il settore immobiliare è dunque contraddistinto da molteplici interpretazioni e variegate manifestazioni pratiche di utilizzo e godimento. «Da qui la necessità di fornire e garantire, nello specifico settore del diritto immobiliare, la tutela e garanzia dei proprietari e di tutti i fruitori, attraverso l’assistenza professionale resa in forma tale da “massimizzare” il valore dell’immobile, conducendolo al suo “maggior reddito” possibile. Tale obiettivo è possibile attraverso l’assistenza contrattuale e gestionale, oltrechè nell’ambito della disciplina e della regolamentazione, in modo da ottimizzare ogni profilo ed aspetto dell’immobile medesimo, quale investimento
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sul piano commerciale ». Questo è il principio ed il modus operandi sottolineato dall’avvocato Marco Valerio, specializzato nel settore del diritto immobiliare con particolare riguardo alle materie di compravendita, contratti di locazione, condominio, realtà comprensoriale, mediazione immobiliare, azioni a difesa di possesso e proprietà, usucapione, franchising immobiliare, espropriazione immobiliare. E proprio «per assicurare la piena tutela a questa molteplice e multiforme realtà - continua l’avvocato Valerio - è evidente che si imponga sempre più, attraverso la prestazione professionale del legale, la necessità di assicurare, agli immobili e ai loro fruitori, proprio quella garanzia e quella tutela e sicurezza tanto richieste quanto necessarie, rivolgendosi a professionisti competenti e specializzati in tale settore ». Anche in Italia, pur con quale rallentamento, il settore delle locazioni rappresenta un importante ambito della realtà immobiliare. Quali sono le attività connesse a questo campo? «Nell’arco dell’esperienza che ho potuto maturare sul campo, mi è stato possibile riscontrare che il settore delle locazioni contempla svariate realtà, talvolta semplici e talora più complesse. Nella gestione dei patrimoni immobiliari, siano essi abitativi o commerciali, dal punto di vista legale si ha a che vedere con svariate attività: in particolare, opportuna si pone l’assistenza legale ad “ampio raggio” in tale ambito, ossia una prestazione professionale che assista il Cliente nelle diverse attività riconnesse alla 47
Diritto immobiliare • Marco Valerio
Al di là dei turbamenti economici la necessità di investire è rimasta immutata, e con essa, rivolgersi a professionisti specializzati nell’assistenza gestionale dei propri immobili
Nella foto, Marco Valerio nel suo studio di Milano, a pochi passi da Piazza Affari dove ogni giorno si contrattano e decidono gli assetti degli investimenti spesso poi rivolti al mondo immobiliare
redazione dei contratti, alle procedure giudiziali e di conseguente fase esecutiva. Oppure in tutte le azioni giudiziarie necessarie nell’ambito del rispetto dei rapporti contrattuali sottesi alla locazione stessa, anche naturalmente sotto il profilo del recupero del credito». Dal punto di vista della contrattualistica, il settore immobiliare risulta molto impegnativo? «In questo comparto, è sempre più opportuno per il cliente prestare attenzione ai diversi aspetti e profili che sono sottesi alla stipulazione di un contratto da cui possono sorgere anche rischi di “non tutela” o di prevaricazione dei propri diritti. E’ da qui dunque che sorge nel mercato attuale come anche in passato, la necessità, sempre più sentita e propizia per una corretta “amministrazione” del proprio immobile, dell’attività di assistenza nell’ambito della contrattualistica.Tale assistenza è riconnessa alla gestione e alla direzione delle unità e/o compendi immobiliari, anche eretti in condominii, supercondominii e/o comprensori, in termini di redazione di contratti o di singole clausole, oltrechè naturalmente di prestazione di tutte le attività riconnesse alla gestione stragiudiziale delle liti e controversie sotto il profilo del raggiungimento di transazioni e accordi volti a dirimere le controversie senza dover accedere ai canali del contenzioso giudiziale». Quali sono le esigenze dei grandi complessi immobiliari dal punto di vista della consulenza legale? «Al riguardo, ho potuto spesso riscontrare che, quando le singole unità abitative evolvono, fino a diventare grandi compendi immobiliari, condomini, supercondomini, comprensori, si costituiscono in complessi immobiliari che possono arrivare a 48
raggiungere anche vaste estensioni in cui si accentrano e sviluppano molteplici attività ed esigenze: da quella abitativa a quella commerciale e produttiva, laddove nel compendio e nei complessi immobiliari trovano sede società, industrie, spazi commerciali, con la loro particolare destinazione. Ed è proprio in tale scenario, che occorre l’intervento dell’assistenza legale, che si concretizza sia nelle fasi inerenti lo sviluppo e la realizzazione dell’iniziativa immobiliare sia durante la realizzazione del progetto immobiliare stesso e quindi nella gestione delle diverse problematiche sottese alla direzione e gestione dei compendi realizzati, con particolare cura anche alla stipulazione, attuazione e osservanza degli annessi contratti di appalto, costruzione, manutenzione, locazione inerenti le strutture immobiliari medesime, per ogni loro più corretta amministrazione e gestione». Più nello specifico, quali sono i settori del diritto immobiliare di cui si occupa il suo studio? «I settori di cui ci occupiamo sono molteplici: dalla assistenza nelle diverse fasi delle iniziative immobiliari, dalla tutela del puro diritto di proprietà riferito alla singola titolarità di un’unità immobiliare, sia parallelamente spaziando nell’ambito della prestazione professionale rivolta ai grandi compendi e complessi, anche nel settore del diritto condominiale e comprensoriale, cooperando da tempo con i principali nomi e le firme più note e prestigiose dell’affermata realtà immobiliare, sia essa privata che pubblica, nell’ambito del real estate e del property management, facility management accompagnando e seguendo con la nostra competenza giuridica le più importanti realtà imprenditoriali ed i maggiori brands del settore immobiliare soprattutto nel Nord Italia, ma non solo». C&P • GIUSTIZIA
Prospettive • Nico D’Ascola
Un nuovo modello culturale per l’avvocatura Diventare, in concreto, un centro di tutela dei diritti dei cittadini contro gli arbitri legislativi o giudiziari. L’opinione dell’avvocato Nico D’Ascola di Silvia Reggiani
utelare la parte assistita. È questo il ruolo principale dell’avvocatura. Ma certo non il solo. L’avvocatura dovrebbe costruire un modello culturale che la accrediti quale centro di tutela generalizzata dei diritti dei cittadini dal rischio di arbitri legislativi o giudiziari. Ne è convinto l’avvocato Nico D’Ascola che ricorda come «l’Unione della camere penali italiane in passato abbia perseguito questo obiettivo». A conferma di ciò, basti pensare alla riforma dell’articolo 111 della Costituzione, al modificato regime di utilizzabilità delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari, nonché all’introduzione delle indagini difensive. In che modo si sono evoluti i rapporti tra avvocati e magistrati nel corso degli ultimi anni? «Il dialogo è più equilibrato con i giudici della Cassazione, data la serenità di una competenza che vieta l’esame del fatto. Con i pubblici ministeri il rapporto è ovviamente più aspro, sia perché essi incarnano un ruolo di contrasto con le posizioni della difesa, sia perché l’avvocatura è oggi più attenta al rispetto delle regole processuali. Non a caso si reclamano interventi legislativi che assicurino l’indipendenza dei giudici di merito dai pm. Infatti, nonostante i progressi compiuti soprattutto dai giudici per le indagini preliminari, categoria più esposta al rischio di scarsa autonomia, la vera equidistanza è ancora lontana. Un maggior equilibrio tra accusa e difesa costituirebbe, peraltro, il necessario presupposto di un miglioramento del rapporto». E quelli tra giustizia e politica? «È in atto un conflitto tra due poteri dello Stato che si contendono un maggior ambito di incidenza sulla società. Una delle basi di ogni democrazia moderna è il principio di divisione tra poteri, divisione la quale postula contrappesi che scongiurano lo sconfinamento di un potere nell’area riservata all’altro. Stabilire se oggi uno dei due poteri abbia sottratto spazi costituzionalmente destinati all’altro è un problema sia politico che giuridico». Della riforma del codice penale si discute ormai da diversi anni. Qual è la sua opinione in merito? «Ritengo che la riforma del codice penale sia ormai improrogabile. Malgrado l’elevatissimo livello tecnico-giuridico, il Codice Rocco è talmente datato da non riflettere ormai le esigenze di una società così complessa come quella attuale. La riforma poi sarebbe coerente con una proficua gestione del modello processuale oggi vigente».
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Il principio di legalità vieta ogni forma di interpretazione creativa con la quale i giudici divengono, di fatto, creatori del diritto
Nico D’Ascola. Oltre a esercitare la professione, l’avvocato insegna anche presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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Nico D’Ascola • Prospettive
DAL 1991 AL 2008 SI SONO SUSSEGUITI DIVERSI TENTATIVI DI RIFORMA DEL CODICE PENALE. NESSUNO PERÒ È MAI RIUSCITO AD APPRODARE IN PARLAMENTO Crede che sarebbe opportuno un trasferimento dei cosiddetti “reati bagatellari” all’autorità amministrativa? «Certamente, specie se puniti con la sola pena pecuniaria. Collocarli in un sistema amministrativo punitivo agevolerebbe l’alleggerimento del processo penale. Processo che va celebrato solo quando il massimo livello di garanzia è irrinunciabile perché è in discussione la libertà personale dell’imputato, non già il solo patrimonio». Le carceri italiane sono stracolme e diventano sempre più ingestibili. Per evitare di dover nuovamente ricorrere allo strumento dell’indulto, dove va cercata la soluzione? «Il problema è connesso alla necessità di un nuovo codice penale. Una delle ragioni dell’affollamento carcerario è l’inadeguato arsenale sanzionatorio esistente. Escluse le pene pecuniarie, le attuali pene sono per la maggior parte detentive, con l’unico insufficiente correttivo delle pene sostitutive o alternative. L’odierna scienza penalistica ha individuato un ampio catalogo di pene diverse dalla detenzione in carcere, ma egualmente capaci di incidere sulla libertà personale quali, tra le altre, l’imposizione di lavori di pubblica utilità o l’obbligo di permanenza in casa per determinati giorni della settimana. Si potrebbe anche ampliare il novero delle già esistenti pene interdittive. Ciò, ovviamente, per i reati meno gravi. Un ricco arsenale sanzionatorio era stato proposto dalle due commissioni ministeriali di riforma del coC&P • GIUSTIZIA
parte il più datato tentativo della commissione Carnelutti, il primo progetto di riforma organica del codice penale risale al 91 ed è stato compiuto dalla commissione presieduta dal professor Pagliaro. Uno schema di legge delega in cui confluivano i principi costituzionali fondamentali — quali legalità, proporzionalità, colpevolezza e rieducazione — ma la cui conclusione coincise, purtroppo, con la profonda crisi politicoistituzionale vissuta dall’Italia nel 92. Non riscosse successo il progetto Riz — dal nome del suo primo firmatario — redatto da un comitato istituito nel 94. Tra il 98 e il 2001 fu, poi, elaborato dalla commissione Grosso un nuovo progetto che, già nella prima stesura, prevedeva alcune opportune innovazioni, come la tipizzazione delle posizioni di garanzia e una moderata definizione del concorso eventuale. Sebbene nella seconda stesura di tale progetto si fosse, poi,
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cercato di tenere in conto i rilievi critici sollevati nel dibattito seguito alla diffusione del primo testo, anch’esso restò, purtroppo, lettera morta. La commissione studio istituita nel 2001 e presieduta dal dottor Nordio, ha fatto ricorso — nella stesura di un articolato sia di parte generale che di parte speciale — al criterio delle denominazioni e definizioni espresse, idoneo a limitare la discrezionalità giudiziale e favorire la praticabilità processuale degli istituti. Obiettivi, questi, perseguiti anche mediante un’analitica tipizzazione delle forme di concorso. Il progetto, inoltre, ha concretamente attuato il principio di un diritto penale come extrema ratio, sia mediante un ancoraggio delle norme all’offesa, che attraverso l’abolizione delle contravvenzioni. Ciò nell’ottica della creazione di un diritto penale-amministrativo punitivo. Centrale, poi, la riforma del sistema sanzionatorio,
connotata in particolare dalla eliminazione delle pene pecuniarie, congiuntamente a un ampliamento dell’arsenale punitivo. Similmente, anche il progetto proposto dalla commissione Pisapia nel 2006 si è contraddistinto per un’analoga revisione delle sanzioni. Tale progetto, a differenza dei precedenti, era stato posto all’ordine del giorno della commissione Giustizia del Senato per il gennaio 2008 sicché, se non vi fosse stato lo scioglimento anticipato delle Camere, per la prima volta un progetto di riforma del codice penale sarebbe stato finalmente discusso in Parlamento. La commissione Pisapia era, infatti, riuscita ad approdare a un progetto organico corredato da un largo consenso su principi basilari, quali l’eliminazione della responsabilità oggettiva, il rispetto della “riserva” di codice per la creazione di fattispecie incriminatrici e la riforma del concorso di persone.
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Prospettive • Nico D’Ascola
L’attuale processo penale andrebbe semplificato perché troppo macchinoso e reso più credibile
Nico D’Ascola nel suo studio di Reggio Calabria
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dice penale di cui ho fatto parte, la Nordio e la Pisapia. Se il sistema ruoterà ancora sulle sole pene detentive in carcere non vi sarà soluzione, se non quella dannosa, e sbagliata, dell’indulto». La riforma del processo penale è nell’aria da tempo. A suo parere è un passo necessario da compiere? «Per brevità, mi limito a segnalare che l’attuale processo penale andrebbe semplificato perché troppo macchinoso. Andrebbe, inoltre, reso più credibile. Ovviamente, la semplificazione non deve essere considerata come un’occasione per poter ridurre le garanzie per gli imputati». Si parla sempre dell’eccessiva lentezza dei processi italiani e della necessità di snellire le procedure. Si tratta, in realtà di un tema controverso. Come conciliare il bisogno di “rapidità” con quello di “profondità”? «La lentezza del processo penale è innegabile, ma deve essere chiaro che esso non può divenire talmente rapido da sacrificare la serietà nell’accertamento della responsabilità. L’articolo 111 della Costituzione garantisce all’imputato il diritto di disporre del tempo necessario per apprestare la difesa. Sarebbe pertanto incostituzionale una accelerazione dei tempi ottenuta contraendo lo spazio destinato all’esercizio del diritto di difesa, mentre sarebbe attuabile con riguardo alle fasi di inuC&P • GIUSTIZIA
Nico D’Ascola • Prospettive
*NICO D’ASCOLA
rofessore di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, l’avvocato Nico D’Ascola svolge anche l’insegnamento di diritto penale dell’economia. È, inoltre, professore presso la scuola di specializzazione per le professioni legali. Ha fatto parte della giunta nazionale dell’Unione delle camere penali. È figlio di un avvocato penalista e attualmente ha studio a Reggio Calabria, Roma e Milano.
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tile permanenza del fascicolo nelle cancellerie». La separazione delle carriere è stato uno dei temi “caldi” delle ultime due legislature. A suo parere è ormai improrogabile? «Ero un giovane avvocato quando il tema fu proposto per la prima volta nel 1985 al Congresso di Bari dell’Unione delle camere penali. All’epoca molti operatori del diritto addirittura lo ignoravano. Reputo la separazione delle carriere necessaria per garantire il principio costituzionale di terzietà del giudice. I giusti timori di perdita di indipendenza dei pubblici ministeri potrebbero essere fugati dall’estensione a costoro dei principi costituzionali di autonomia e indipendenza». Si parla molto negli ultimi tempi di certezza della pena, soprattutto in seguito ad alcuni casi di cronaca che sono stati ampiamente trattati sulle pagine dei quotidiani, prima ancora che nelle aule. Crede che gli italiani abbiano perso fiducia nel sistema della giustizia? «Per restituire effettività al sistema sanzionatorio occorre recuperare la certezza della pena. Colui che delinque auspica che il reato non venga scoperto o che la propria responsabilità non sia accertata o ancora che l’esito del giudizio sia assolutorio. Ma oggi si scommette anche sulla possibilità che C&P • GIUSTIZIA
la pena, ancorché definitivamente irrogata, non sia poi eseguita. Così il sistema penale non svolge più alcuna funzione di prevenzione generale e, anzi, rischia di incentivare la commissione di reati. Il vero imputato di questa paradossale situazione è il processo penale di esecuzione e di sorveglianza che, un tempo regolato da poche e chiare disposizioni, è ora divenuto elefantiaco e irrazionale». Parliamo del principio di legalità, uno dei principi fondamentali dell’ordinamento di uno Stato. Quanto si può dilatare, a suo parere, l’applicazione delle norme penali? «Questo principio costituzionale concerne i rapporti tra ordine giudiziario e politica, riservando al potere legislativo, dunque ai rappresentanti eletti dal popolo, le scelte tra vietato e consentito in campo penale. Poiché questo principio costituisce l’irrinunciabile snodo di un equilibrato sistema democratico, una analoga prerogativa, oltre che al potere esecutivo, deve essere preclusa all’ordine giudiziario, dato l’innegabile deficit di democraticità di una categoria non eletta dal popolo. Dunque, il principio di legalità vieta ogni forma di interpretazione creativa con la quale i giudici, travalicando anche il limite di interpretazione letterale estensiva, divengono di fatto creatori del diritto». 55
L’etica e la giustizia • Giulia Bongiorno
Ogni processo è una grande sfida «Un’attività invisibile». Perchè gran parte del lavoro, spesso intenso, paziente, certosino che un penalista infonde in ogni singola causa non può essere percepito dal cliente. Ma è proprio questo impegno costante e la voglia sempre rinnovata di «calpestare la polvere dei tribunali», il segreto della tenacia e della passione legale, dell’avvocato Giulia Bongiorno di Agata Bandini 60
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Giulia Bongiorno • L’etica e la giustizia Giulia Bongiorno, palermitana, è avvocato penalista e presidente della commissione Giustizia della Camera dei Deputati
Chi svolge due ruoli deve saper distinguere. L’avvocato penalista deve tener presente la singola persona con la sua storia e le vicende che la riguardano; il politico, invece, deve saper guardare all’interesse generale
ervida determinazione. È questo che viene in mente quando si incontra un profilo professionale e umano come quello di Giulia Bongiorno. Un concentrato di rigore e tenacia, che però non nasconde, semmai anzi esalta, quasi per contrasto, un fondamento di autentica passione. Passione per il lavoro, prima di tutto, per la ratio giuridica, con le sue logiche singolari e non sempre trasparenti, le sue procedure stringenti e lunghissime, ma anche e forse più per le vicende umane che vi si intrecciano, di volta in volta, nel bene e nel male. «Del penale mi attrae la dimensione antropocentrica, difendere la persona: garantire il diritto inviolabile di difesa all’interno delle regole del giusto processo», spiega l’avvocato Bongiorno. Come dire che anche il gioco normativo, la strategia più complessa e meditata, può e forse deve lasciar spazio alla voce e alla vicenda dell’individuo, alla sua storia singolare e umana. E che dunque in ogni processo «il comune denominatore è la passione». E la passione, aggiunge, «è identica per ogni difesa».
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C&P • GIUSTIZIA
Quali sono per lei i principi deontologici fondamentali della professione forense? «Ritengo che i doveri di lealtà e correttezza siano i principi basilari di ogni professione e di quella forense in particolare. Ma, insieme a questi, metterei anche l’impegno continuo. La nostra è un’attività invisibile: intendo dire che spesso il cliente non può controllare quanto tempo viene dedicato a un fascicolo. Ma, proprio per questo, studiare in modo intenso e continuo rientra tra i doveri dell’avvocato». Il lavoro di preparazione di un processo può essere lunghissimo ed estremamente impegnativo. Quando e da cosa capisce di aver individuato la giusta linea difensiva? «Il metodo per trovare la linea difensiva giusta è studiare gli atti e poi rappresentare al mio assistito le contestazioni dell’accusa e gli elementi a carico. Dopo aver ascoltato le sue ragioni e riletto moltissime volte gli atti, la strategia emerge con chiarezza. In ogni caso, reputo essenziale conoscere alla perfezione tutte le carte e tutti i documenti di un processo: sono determinanti, ov61
L’etica e la giustizia • Giulia Bongiorno
LA FORZA DI REAGIRE essuna sia lasciata sola. Perché condividere le proprie esperienze, scoprirle condivise, purtroppo, da molte donne, può aiutare a trovare il coraggio di rompere il silenzio. È questa l’idea di fondo che ha portato alla nascita di Doppia Difesa, la fondazione presieduta e fortemente voluta da Giulia Bongiorno insieme a Michelle Hunziker. Un sodalizio nato come legame tra avvocato e cliente e presto divenuto amicizia per-
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sonale, cementato dal comune, costante impegno nell’affiancare e aiutare in diversi modi le troppe donne ancora vittima di violenze e abusi. Un percorso sempre lungo e difficile, che parte dalla denuncia e prosegue lentamente verso la ricostruzione di sé e la riconquista della serenità. Ma che nasce sempre da un primo, fondamentale passo: riconoscere di essere vittima. Accettarlo, per quanto sia doloroso, per poi trovare la forza di reagire.
viamente, anche lo studio e l’aggiornamento della più recente giurisprudenza». Ha difeso politici e calciatori, gente di spettacolo e gente comune, magistrati e persino un mancato sovrano. Da un punto di vista strategico, c’è qualcosa che accomuna ogni causa, al di là delle specifiche situazioni? «Il comune denominatore è la passione. Sarebbe impossibile fare l’avvocato senza una fortissima motivazione. E la passione è identica per ogni difesa». Il penale rimane il campo del diritto che richiede il maggior impegno, sia emotivo che mentale. Diventare penalista è stata per lei una scelta di ragione o di sentimento? Cosa l’ha attirata di più, la sfida dell’intelletto che ogni causa penale porta con sé o il suo significato etico? «Diventare penalista per me, che provengo da una famiglia di avvocati civilisti, è stata anche una sfida. Del penale mi attrae la dimensione antropocentrica, difendere la persona: garantire il diritto inviolabile di difesa all’interno delle regole del giusto processo». Lei è diventata nota in tutta Italia a soli 28 anni, grazie al processo Andreotti. E su quel processo ha scritto un libro, intitolato Nient’altro che la verità. Cosa significa cercare la verità giuridica e in cosa differisce dalla verità del senso comune? «La verità giuridica è la verità che emerge nel processo a seguito dell’applicazione delle regole procedurali e di diritto sostanziale. A volte corrisponde alla verità storica.Altre volte ne differisce. Ma nemmeno l’avvocato conosce quasi mai la verità storica». A parte il processo Andreotti e la sua celebre esultanza durante la sentenza, qual è stato il momento più significativo della sua carriera, sinora? «È stato nel 2006, quando ho deciso di entrare in politica.Volevo fornire un contributo nel settore della giustizia. Come avvocato applicavo le norme, partecipare al processo formativo di quelle norme ha rappresentato una tappa fondamentale per me, come giurista prima ancora che come politico». Anche una volta eletta in parlamento, lei ha scelto di continuare la professione di avvocato. In cosa si incon62
trano questi due aspetti della sua attività e in cosa invece divergono radicalmente? «L’esperienza maturata sul campo mi è molto utile: nelle mie valutazioni tengo sempre conto di quanto accade nelle aule. Certo, chi svolge due ruoli deve saper distinguere. L’avvocato penalista deve tener presente la singola persona con la sua storia e le vicende che la riguardano; il politico, invece, deve sempre rivolgere lo sguardo all’interesse generale.Votando contro l’indulto, credo di aver dimostrato che quando faccio politica non guardo all’interesse professionale». Cosa può insegnare il politico all’avvocato e viceversa? «Credo che sia soprattutto l’avvocato a poter fornire un contributo alla politica. Calpestare la polvere dei tribunali è importante per evitare di creare norme che non abbiano perfetta aderenza ai problemi quotidiani. L’avvocato, da parte sua, può proporre al politico utili soluzioni legislative perché ha maggior cognizione del contesto concreto in cui le regole dovranno essere applicate». Lei ha molto a cuore la questione femminile, soprattutto in politica. Le donne devono prendersi anche a forza il loro spazio o fare in modo che venga loro riconosciuto? «Nonostante in astratto tutti la affermino, in concreto la tanto sbandierata parità non esiste. Basti pensare alla divisione quotidiana dei compiti in una famiglia: è scontato che tutte le incombenze domestiche, organizzative e no, ricadano sulle donne, anche se lavorano fuori casa. Non sono temi dai quali si può prescindere: il tempo è essenziale! Ma soprattutto, ogni discriminazione non combattuta dà origine a forme di violenza. Ecco perché ho tanto a cuore Doppia Difesa, la fondazione alla quale Michelle Hunziker e io abbiamo dato vita nel 2007 con lo scopo di incoraggiare a uscire allo scoperto le donne che hanno subìto violenze, abusi e discriminazioni dentro e fuori le pareti domestiche. Forniamo loro assistenza sul piano legale e psicologico e lo scorso anno abbiamo avviato anche un progetto in collaborazione con la Fondazione internazionale Fatebenefratelli allo scopo di realizzare un modello d’intervento integrato, legale, psicologico e medico, a sostegno di chi ha subito violenza». C&P • GIUSTIZIA
L’incontro • Francesco Gianni
Così ho anticipato le law firm in Italia Rappresenta la sesta generazione di una famiglia di giudici, magistrati e avvocati. Eppure da ragazzo sognava di fare lo storico. Oggi la storia la sta scrivendo. Tra ricordi, sfide e progetti, Francesco Gianni ripercorre la sua carriera professionale. E invita i giovani a sperimentarsi all’estero di Sofia Rossi
Francesco Gianni, fondatore e senior partner di Gianni Origoni Grippo & Partners
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onsiderato tra i massimi esperti a livello europeo di M&A e finanza strutturata, nonché tra i primi dieci giuristi d’impresa più importanti degli ultimi anni, Francesco Gianni è un professionista che non si è mai risparmiato nel lavoro. Fondatore e senior partner di uno studio leader nella consulenza e assistenza alle aziende in tutti i settori del diritto d’affari, l’avvocato Gianni ha fatto della dedizione e dell’onestà intellettuale l’asse portante del suo impero legale. La decisione che ha fatto sì che diventasse un professionista conosciuto a livello internazionale è stata quella di andare a perfezionare gli studi prima all’Università di Londra e poi negli Stati Uniti. Erano gli anni 70 e Gianni era un giovane ma già promettente avvocato ravennate, pieno di buona volontà e voglia di mettersi in gioco. Al suo rientro in Italia, nel 1988, decise di dar vita, insieme ai suoi soci, alla Gianni, Origoni, Grippo & Partners, il primo studio istituzionale in Italia. Che cosa ricorda degli inizi della sua carriera? «All’epoca di professionisti italiani che andavano all’estero ce n’erano pochissimi. Per me è stata un’esperienza molto importante, perché mi ha permesso di confrontarmi con una realtà legale diversa da quella italiana. In quegli anni ho avuto la possibilità di farmi un’idea concreta sugli “studi istituzionali”, queste grandi strutture ultracentenarie che dominano il mercato legale in America e in Inghilterra. Tutto questo mi ha convinto che c’erano dei modelli di organizzazione della professione legale collaudati in altri Paesi, ma
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Francesco Gianni • L’incontro
Fare l’avvocato significa essere molto legato alla realtà in cui si opera, e svolgere la professione da un Paese all’altro è molto diverso assenti in Italia, e mi sono deciso che era possibile organizzare la professione in maniera diversa anche da noi». Quali sono i punti di forza di questo diverso modello organizzativo? «Lo studio tradizionale-padronale, legato al fondatore, difficilmente potrà soddisfare le esigenze connesse a operazioni complesse, perché i clienti richiedono un’assistenza integrata. Inoltre lo studio istituzionale “sopravanza” la vita delle persone fisiche ed è basato su principi un po’ più aperti rispetto a quelli che erano utilizzati in quel momento in Italia». Lei si è formato all’estero. È una strada che consiglierebbe anche oggi a un professionista? «La formazione giuridica italiana era, ed è ancora oggi, allo stesso livello di quella di altri Paesi esteri. Diverso è invece il discorso per l’organizzazione professionale. Rispetto a quando ho iniziato venti anni fa, l’Italia dal punto di vista dell’organizzazione ha fatto passi da gigante. Ci sono stati altri studi che hanno seguito le nostre tracce, sono arrivate le law firm straniere. La forma organizzativa, oggi, è molto più avanzata. In ogni caso, ad uno studente di giurisprudenza, consiglierei comunque di andare a passare un periodo di formazione all’estero. Fare l’avvocato significa essere molto legato alla realtà in cui si opera, e svolgere la professione da un Paese all’altro è molto diverso. Per questo essere esposti a questa “diversità” fin da giovani è molto importante». Il vostro studio, leader europeo nel suo settore, si specializza sin da subito in diritto d’affari. Perché C&P • GIUSTIZIA
avete scelto in questo ambito? «C’era sicuramente il desiderio di occuparsi del mondo degli affari, tanto più nei rapporti internazionali. Inoltre per tanti anni l’Italia era protagonista di un forte afflusso di capitali esteri, prevalentemente nordamericani, e c’era bisogno di questo tipo di assistenza. Esisteva un mercato in espansione e abbiamo ritenuto che fosse il settore giusto per poter crescere in maniera più rapida. Siamo diventati uno studio di grandi dimensioni e per tanto tempo siamo stati considerati una grande novità nel mercato europeo. Un’enorme soddisfazione». Quali sono le qualità per affrontare con successo la professione legale? «Rischio di cadere nel banale, ma in realtà in questa professione occorrono molto spirito di sacrificio e molta dedizione. Lo studio, poi, e l’aggiornamento costante sono fondamentali. Serve onestà intellettuale e un alto livello di etica». Quando ha scelto di intraprendere la carriera di avvocato? «In realtà, il mio destino era pressoché già scritto. Rappresento la sesta generazione di una famiglia di giudici, magistrati e avvocati, anche se inizialmente avrei voluto fare lo storico. Poi però mi sono accorto che il senso della giustizia, quel concetto quasi infantile “del bene e del male” era talmente prevalente nel mio modo di pensare che tutto questo non poteva che trovare nello studio del diritto la sua naturale evoluzione». 65
Conciliazione • Jams-Adr Center
Mediazione agile,veloce edeconomica Con questo istituto, spiegano Giuseppe De Palo e Leonardo D’Urso, fondatori Jams-Adr Center, società privata specializzata nell’Adr, sono «le parti a controllare meccanismi e risultati, a forgiare il procedimento con l’aiuto di un terzo e ad arrivare a una soluzione condivisa» di Nera Samoggia
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siste da sempre e a ogni latitudine. Ma, nel senso più moderno del termine, la mediazione «ha origine, negli anni Settanta, negli Stati Uniti, possibile conseguenza della “litigation explosion”». Quando cioè un aumento esponenziale del contenzioso, imputabile al movimento per i diritti civili, alla crisi petrolifera e alla ripresa dei commerci, ingolfò i tribunali d’Oltreoceano. Per gestire, «in modo alternativo al processo ordinario, questo carico giudiziale extra» e anche per abbattere gli «eccessivi costi e ritardi della giustizia ordinaria, il sistema nordamericano reagì promuovendo a vari livelli la mediazione», ricorda Giuseppe De Palo, fondatore, insieme a Leonardo D’Urso, di Jams-Adr Center, società privata specializzata nella mediazione. Veloce e non molto onerosa. Indubbi i vantaggi economico-temporali di una procedura che, per sua stessa natura, è volontaria e informale e dove le parti in lite, spiega De Palo, presidente di Jams-Adr Center, «scelgono un terzo neutrale (un mediatore) che le assista nel raggiungere una soluzione negoziata senza che prenda decisioni vincolanti». L’Adr, di cui la mediazione è la procedura più utilizzata, è un valido strumento per prevenire la carta bollata? Giuseppe De Palo: «Sicuramente. Se ci riferiamo a quella precontenziosa. È opportuno fare qui una distinzione fondamentale. La mediazione può essere anche endoprocessuale, detta anche court related o court annexed, ossia raccomandata dal giudice relativamente a una causa pendente. Ma, mentre la mediazione endoprocessuale può essere attivata solo in forza di una proposta del giudice, quella pre-contenziosa è frutto di una
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Jams-Adr Center • Conciliazione
Sopra, a destra, Giuseppe De Palo, fondatore e presidente di Jams-Adr Center, società privata specializzata nella mediazione. Nella pagina a fianco: Leonardo D’Urso, amministratore delegato di Jams-Adr Center
Il ricorso alla mediazione stragiudiziale è in grado di portare una lite alla risoluzione definitiva nel 75-85% dei casi C&P • GIUSTIZIA
proposta del giudice, quella pre-contenziosa è frutto di una scelta privata delle parti che hanno sottoscritto una clausola contrattuale oppure si sono accordate per tentarla prima di adire il giudice. In ogni caso, il valore aggiunto della conciliazione consiste nel permettere alle parti di regolare autonomamente i loro rapporti e interessi. E nel poter guardare oltre la lite, esplorando soluzioni “creative” svincolate dalle richieste originarie. La conciliazione offre la possibilità di arrivare a soluzioni cosiddette win-win in cui non ci sono perdenti». Quali sono le figure che entrano in gioco? GDP: «Sono le parti a controllare procedimento e risultato, a forgiare il procedimento con l’aiuto di un terzo e ad arrivare a una soluzione condivisa. In altre parole, alla procedura può intervenire chiunque le parti e il mediatore vogliano. Di sicuro, non devono mai mancare le persone con il potere di firma e chiunque eserciti un’influenza significativa sulla possibilità che si raggiunga l’accordo». In media, l’Adr richiede tempi lunghi? Leonardo D’Urso: «Il ricorso alla mediazione stragiudiziale è in grado di portare una lite alla risoluzione definitiva nel 7585% dei casi. Per quanto riguarda i tempi di conclusione di una mediazione bisogna fare una distinzione: nelle controversie di basso valore l’accordo viene raggiunto in media in mezza giornata lavorativa, al massimo una. Quando invece ci sono maggiori interessi in gioco si richiedono una o due giornate. Spesso la trattativa continua a distanza e l’accordo si raggiunge nell’arco di uno o due mesi. In generale comunque la mediazione ha una durata non superiore a 45 giorni». 67
Conciliazione • Jams-Adr Center
LA FORZA DI REAGIRE: UNO STUDIO a previsione per il 2009 è di +35%. Un balzo rispetto a un già cospicuo +8% nel 2008 e a un buon +6% nel 2007. Sono in costante aumento le domande di consumatori residenti e imprese operanti nel territorio romano che, invece di recarsi in Tribunale, bussano alla porta della Camera arbitrale di Roma per comporre le loro controversie attraverso la conciliazione. Istituita dalla Camera di Commercio per agevolare imprese e consumatori nel ricorso all’arbitrato e alla conciliazione, strumenti che consentono di evitare le aule giudiziarie, la Camera arbitrale di Roma è il perfetto termometro che rileva il tasso di ‘gradimento’ verso la procedura della conciliazione che si caratterizza per rapidità, economicità e riservatezza. Squadernando i dati della Camera arbitrale di Roma, riferiti appunto all’hinterland romano, colpisce, nel triennio 2006-2008, l’andamento fluttuante delle domande di conciliazione depositate da con-
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sumatori e aziende. Mentre le prime, pur essendo quantitativamente considerevoli, registrano un leggero calo (83% nel 2006, 70% nel 2007, 65% nel 2008); le seconde raddoppiano (17%, 30% e 35%). Quanto ai settori delle controversie, nel 2008 la Camera rileva un 38% di conciliazioni nelle telecomunicazioni distaccato dall’8,39% nel commercio e dal 7% nel turismo. Chiude un doppio 3% nella subfornitura e del diritto societario. Partendo dalla constatazione che i contenziosi giudiziari per le aziende sono un onere gravoso, la Camera di Commercio di Roma, attraverso la propria Camera arbitrale, ha stanziato risorse ad hoc per incentivare l’utilizzo alla conciliazione. Fino al 31 dicembre, la Camera arbitrale garantirà, a titolo gratuito, la risoluzione delle liti, tra imprese ovvero tra imprese e consumatori, per controversie il cui valore non superi i 50mila euro (sono escluse controversie di natura giuslavorista e societaria).
Quali sono le principali tipologie di controversie? LD: «Secondo la nostra esperienza, la maggior parte delle controversie, sottoposte a mediazione, riguardano il diritto societario, assicurativo, costruzione e appalti, eredità e responsabilità medica. In generale più la controversia è complessa e più adatto appare lo strumento della mediazione. Maggiori sono gli interessi in gioco, non solo economici, e maggiori sono le possibilità per il mediatore di facilitare il raggiungimento dell’accordo, salvaguardando le parti». Chi sono i principali fruitori di questo strumento? LD: «Sia i privati che le grandi aziende utilizzano la mediazione, rivolgendosi in linea di massima agli organismi pubblici, come Camera di Commercio e Corecom, per le controversie attinenti la tutela dei diritti dei consumatori (es. mediazioni telefoniche) e agli organismi privati per tutti gli altri casi, come l’esperienza di Jams-Adr Center dimostra». Costi: rispetto alla solita causa sono più contenuti? LD: «Tra i vantaggi della mediazione non vi è solo un contenimento dei tempi di una causa, ma anche dei costi. Poiché le sessioni di mediazione vengono prenotate a blocchi di tempo, di norma mai meno di mezza giornata, e il compenso del conciliatore è ancorato ad una tariffa oraria, i costi della procedura saranno sempre anche prevedibili». Si ricorre spesso alla conciliazione? LD: «Negli ultimi sei mesi, ancor prima dell’entrata in vigore della legge 69/2009 che ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia, si è registrato un aumento delle richieste. Il tanto parlare di questo strumento sicuramente ha incrementato l’interesse e la curiosità generale. Comunque Jams-Adr Center lavora non solo con aziende e studi legali italiani, ma anche e soprattutto con società straniere». Rilevate criticità su cui il legislatore deve intervenire? LD: «Nonostante i vantaggi offerti, il suo ricorso su base volontaria è ancora poco utilizzato. Sarebbe quindi di estrema importanza che il legislatore introduca delle misure per incentivare il ricorso a questo strumento, prevedendo l’obbligatorietà del tentativo in alcune tipologie di controversie e l’invito del giudice alle parti di ricorrere in via preliminare alla procedura di mediazione». I codici civili dei Paesi Ue prevedono la mediazione? GDP: «La mediazione è prevista in tutti i Paesi Ue in forma più o meno strutturata. A variare sono, però, i tipi di incentivi. Direi che maggiori sono gli incentivi e migliori sono i risultati».
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Cinzia Brunelli • Conciliazione
Il notaio, un perfetto mediatore È la figura super partes per antonomasia. Perfetta quindi per l’istituto della mediazione. È il notaio. La conciliazione, avverte Brunelli, va intesa come «il primo e naturale rimedio alle situazioni di conflitto e non va relegata a mero strumento di emergenza all’eccessivo carico del sistema giudiziario» di Carlotta Pallieri
un conciliatore ante litteram il notaio nel cui Dna ci sono i cromosomi del perfetto mediatore. Basti pensare «all'imparzialità e alla terzietà – osserva Cinzia Brunelli, notaio che ha svolto il ruolo di conciliatore sia in veste di giudice onorario aggregato nel processo civile, sia in sede stragiudiziale – che costituiscono l’essenza del ruolo istituzionale, alla riservatezza che coincide col segreto professionale, al rapporto di fiducia coi clienti, nonché al valore aggiunto rappresentato dall'essere esperto di diritto e di tecnica contrattuale, con facoltà di attribuire efficacia di titolo esecutivo agli atti notarili». Atout che si fondono con la naturale predisposizione a poter «concorrere a diffondere anche l’abitudine a ricorrere alla conciliazione nella risoluzione dei conflitti contrattuali. Fornendo così consulenza professionale sul contenuto delle clausole di conciliazione, sul loro inserimento nei contratti e favorendo la loro diffusione». Il suo ruolo, in seno a questa specifica procedura, è delineato dalla legge 18/6/2009 che nell’articolo 60 detta le linee guida di delega al governo in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali. «E qui si evidenzia la particolare sensibilità con cui il legislatore individua un valore aggiunto nel ruolo degli ordini professionali. Mi riferisco, in particolare, non solo alla previsione della specifica professionalità dell’avvocatura (i cui consigli degli ordini potranno istituire presso i tribunali organismi di conciliazione), ma anche, limitatamente a controversie in particolari materie, alla facoltà degli ordini di
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Cinzia Brunelli, notaio con una forte esperienza di mediazione
istituire organismi di conciliazione presso i rispettivi consigli e dello stesso conciliatore di avvalersi, come i giudici, di esperti iscritti negli albi dei consulenti e periti presso i tribunali». Specialisti come voi, ad esempio. «La nostra professionalità si colloca nei settori del diritto propri della nostra peculiare formazione, quali diritto di famiglia, delle successioni, immobiliare, urbanistico e dell'edilizia, diritto commerciale, nel cui ambito è da tempo delegato al notaio il controllo di legalità anche formale in campo societario.Valorizzare il patrimonio culturale e il tecnicismo di singole professioni, nella ricerca di una giustizia più giusta, significa dare avvio a un circolo virtuoso nel quale venga esaltata una formazione sempre più di qualità degli ordini professionali a servizio della società civile. Mi pare una significativa risposta del legislatore alla crisi economica dei mercati, imputabile in massima parte all'assenza di regole e all'anarchia generalizzata». Quali sono gli elementi positivi della conciliazione? «In estrema sintesi, si può affermare che è uno strumento nuovo, celere ed economico, ad alte potenzialità nell’agevolare una soluzione gradita alle parti. Garantisce riservatezza e confidenzialità. Assicura sempre il controllo del risultato. Preserva la relazione tra le parti e non preclude l’accesso alla giustizia ordinaria o all’arbitrato. Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione culturale verso una giustizia più “giusta”, che dovrebbe condurre a percepire la conciliazione come il primo e naturale rimedio alle situazioni di conflitto, anziché relegarla a mero strumento di emergenza all'eccessivo carico del sistema giudiziario». 69
Giustizia penale internazionale • Fausto Pocar
Collaborare in modo da sostenere la pace Il ruolo della Corte penale internazionale è di fondamentale importanza per ristabilire la pace in paesi martoriati dalla guerra e dai genocidi. Ma ancora persistono resistenze nei confronti del suo operato. E, secondo Fausto Pocar, la sua trasformazione da internazionale a universale non è di certo dietro l’angolo di Lara Mariani
Fausto Pocar nel 1999 fu nominato giudice per il Tribunale internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia, e ne è stato presidente dal 2005 al 2008. È ora membro della Camera d’appello del tribunale e di quella del Tribunale penale internazionale per il Ruanda
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ondannare i crimini di guerra e quelli contro l’umanità. Ma anche ristabilire la pace e cercare di mantenerla. E, in generale, fungere da deterrente per i belligeranti. Queste le funzioni e le intenzioni della Corte penale internazionale che ha sede all’Aia e dei vari tribunali penali internazionali che, a partire dal Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia nel 1993, sono stati istituiti dal Consiglio di sicurezza in caso di necessità. E le situazioni di necessità in questi anni non sono affatto mancate. Basti pensare alle decine e decine di conflitti e guerre civili che sono oggi in corso in tutto il mondo. E anche a quelli che sono terminati, per i quali però i criminali di guerra devono ancora essere giudicati e condannati. Fausto Pocar fa un quadro della situazione. Descrive compiti e modalità di intervento della Corte penale internazionale, augurandosi in un futuro non troppo lontano una maggiore adesione da parte degli Stati che ancora non ne hanno sottoscritto lo statuto e una maggiore collaborazione da parte di quelli che lo hanno già fatto. Come e quando si realizza l’intervento della corte? «Lo statuto non prevede una giurisdizione primaria della Corte penale internazionale, che è invece affidata ai singoli Stati. La competenza della corte è limitata ai crimini più seri che riguardano la comunità internazionale, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, ed è complementare anche in questo caso a quella dei singoli Stati. Dunque la corte può intervenire solo se, e solo quando, gli Stati non vogliono o non possono agire per punire crimini internazionali». In quali casi si arriva a istituire un tribunale interna-
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C&P • GIUSTIZIA
Fausto Pocar • Giustizia penale internazionale
zionale ad hoc? «In realtà non c’è una procedura fissa. Ad esempio, nel caso della guerra dei Balcani e del genocidio del Ruanda la decisone di istituire i primi tribunali penali internazionali è stata presa dall’Onu per cercare di ristabilire la pace. In altri casi il Consiglio di sicurezza ha seguito altre formule, ad esempio in Sierra Leone è passato attraverso un accordo con il governo di quel Paese per istituire un tribunale misto con giudici locali e giudici nominati dalle Nazioni Unite. Lo stesso è stato fatto per la Cambogia e per il Libano. In realtà l’istituzione di tribunali internazionali ad hoc non dovrebbe essere più prevista se la Corte penale internazionale diventasse, come dovrebbe, un organo realmente universale e il suo statuto fosse ratificato da tutti gli Stati». Quanto manca alla realizzazione di una Corte peC&P • GIUSTIZIA
Nel caso del genocidio del Ruanda la decisone di istituire i primi tribunali penali internazionali è stata presa dall’Onu per cercare di ristabilire la pace 93
Giustizia penale internazionale • Fausto Pocar
nale internazionale universale? «È difficile dirlo perché attualmente gli Stati che hanno ratificato lo statuto sono 109. Se consideriamo che gli stati membri dell’Onu sono quasi 200, è evidente che manca ancora quasi la metà della comunità internazionale. E tra quelli che ancora non hanno aderito, vi sono potenze importanti come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e molti Paesi asiatici e del Medio Oriente. Al momento la corte non è di certo universale, ed è difficile dire quando potrà diventarlo». Può fare un bilancio dell’azione del tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia? «Il tribunale per la ex Iugoslavia ha processato e sta processando una varietà di responsabili. Da accusati che non avevano un ruolo molto rilevante nella struttura militare o politica del Paese, fino a comandanti militari di alto grado e a politici di primo piano come Miloševic o Karadzic. In totale il tribunale, quando chiuderà, avrà preso in considerazione 161 accusati. I responsabili in realtà possono essere, secondo stime approssimative, da 5mila a 16mila. Tutti gli altri casi dovranno essere esaminati davanti ai tribunali nazionali e locali.A tal fine è stata creata a Sarajevo una corte statale mista, con giudici stranieri e giudici bosniaci con il compito di occuparsi dei crimini di guerra e contro l’umanità. E questa corte sta già facendo un lavoro importante come pure le corti distrettuali ordinarie in Bosnia, in Croazia e in Serbia. Purtroppo
una recente decisione comporterà che non vi saranno più giudici stranieri ad affiancare i locali». Quindi, comunque, la corte si affida alle strutture giudiziarie locali. «Una volta processate le persone di più alto livello nella scala gerarchica militare o politica, gli altri devono essere trattati dal tribunale locale, con una certa assistenza internazionale.Trovo giusto che non si faccia tutto all’Aia e che, quando le strutture giudiziarie nazionali riprendono a funzionare in modo adeguato, i processi si facciano a livello locale, anche ai fini di una maggiore visibilità e partecipazione delle vittime». Ci sono stati Paesi nei quali per la corte è stato più difficile intervenire? «Le difficoltà sono ovunque, perché il tribunale funziona solo con la cooperazione degli Stati e questi mostrano sempre una certa resistenza. Resistenza che può essere di carattere politico, ma anche semplicemente di carattere tecnico. Ad esempio per collaborare con il tribunale internazionale bisogna mettere in atto delle procedure che normalmente le leggi interne non prevedono. Molti Stati ancora non hanno adottato quelle modifiche agli ordinamenti interni che sarebbero necessarie per una collaborazione con la corte. Fondamentalmente i lavori della corte procedono, ma procederebbero molto più velocemente se diversi Paesi passassero da semplici posizioni di facciata a posizioni di sostanza».
La corte può intervenire solo se, e solo quando, gli Stati non vogliono o non possono agire per punire crimini internazionali
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Casi irrisolti • Roberta Bruzzone
Delitto perfetto o indagini imperfette? Dopo oltre due anni il delitto di Garlasco non ha ancora un colpevole. Incerta la posizione di Alberto Stasi, unico imputato. Troppe le perplessità. E, come sottolinea la criminologa Roberta Bruzzone «c’è rischio oggettivo che l’omicidio resti senza colpevole» di Giusi Brega 104
n una calda mattina di metà agosto del 2007 Chiara Poggi, 26 anni, viene trovata morta nella villetta dove abitava con i genitori, a Garlasco in provincia di Pavia. A trovare il cadavere, il fidanzato Alberto Stasi. Niente arma, niente movente, niente prove. Il delitto perfetto? «Non credo sia un delitto perfetto», dichiara con fermezza la criminologa Roberta Bruzzone, presidente dell’Accademia internazionale di scienze forensi, sottolineando il fatto che la scena del crimine abbia fornito tantissimi elementi. «Purtroppo, ho ragione di credere che vi siano stati alcuni inconvenienti, sviluppatisi soprattutto nella fase iniziale di approccio al caso, in cui una serie di informazioni non sono state probabilmente impiegate nella giusta prospettiva. Oggi, a distanza di oltre due anni dal delitto, ci ritroviamo con una vicenda giudiziaria che sembrerebbe volgere a una piena assoluzione dell’unico imputato, il fidanzato della vittima Alberto Stasi, e tutto da rifare dall’inizio». A suo avviso è stato un delitto passionale o dettato dall’odio? «Secondo me è stato un delitto di rabbia, causato da un impeto non pianificato. Sicuramente la dimensione emotiva ha giocato un ruolo fondamentale, ma è un crimine molto più vicino alla sfera dell’odio che non a quella passionale». Com’è possibile che le perizie siano così discordanti? «Quando si ragiona nel dominio delle scienze forensi, per quanto riguarda la solidità dell’impianto molto spazio è la-
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Roberta Bruzzone • Casi irrisolti
GARLASCO, UN DELITTO SENZA COLPEVOLE l 13 agosto 2007 viene ritrovata morta Chiara Poggi, una ragazza 26enne di Garlasco, in provincia di Pavia. I genitori della ragazza si trovavano, al momento del delitto, in montagna, per le ferie estive. Secondo una prima ricostruzione, la sera prima, Chiara Poggi ha cenato in compagnia del suo fidanzato, Alberto Stasi. È lui a dichiarare che, dopo cena, ha lasciato la villetta della famiglia Poggi per tornare a casa sua e trascorrervi la notte e, la mattina successiva, ha provato inutilmente di contattare la Poggi al telefono cellulare. Attorno alle ore 14 del 13 agosto, il ragazzo si è recato nuovamente presso l’abitazione della sua fidanzata e lì ha trovato la porta aperta:
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entrato in casa, ha trovato il corpo esanime della ragazza, riverso per terra in un lago di sangue. Lasciata la casa, Alberto Stasi si è recato presso la vicina caserma dei carabinieri per dare l’allarme. Ad oggi, il ragazzo è l’unico sospettato per l’omicidio di Chiara in un caso che fin dalle prime battute ha attirato l’attenzione dei media e avuto un forte impatto sull’opinione pubblica. Il giallo di Garlasco rischia di restare senza soluzione. Salvo colpi di scena, dopo due anni di indagini, polemiche e consulenze, il gup Stefano Vitelli ha infatti affidato a un esperto super partes il compito di fare chiarezza, esperto che ha azzerato quasi tutti gli indizi raccolti precedentemente.
Nell’altra pagina, la psicologa e criminologa Roberta Bruzzone. È presidente dell’Accademia internazionale di scienze forensi. In alto, Chiara Poggi, la ragazza uccisa nell’agosto del 2007
Ripercorrere i passaggi della vita della vittima dopo oltre due anni è molto più complicato. Anche se non impossibile C&P • GIUSTIZIA
sciato alla metodologia utilizzata e alla cautela con cui certe informazioni vengono raccolte e utilizzate. È molto complesso fare valutazioni tecniche quando non ci sono elementi abbastanza solidi per sostanziarle. Alcuni consulenti tecnici lavorano in maniera estremamente legata ai dati di fatto, agli elementi emersi sulla scena del crimine. Io appartengo a questa categoria, quindi sono di quelli che non lanciano mai “il cuore oltre l’ostacolo” e appoggiano unicamente le tesi sostenibili dagli elementi a corredo di quanto si sta ipotizzando. Probabilmente ci sono altre scuole di pensiero che utilizzano metodologie ragionevolmente diverse attraverso cui la sfera delle speculazioni e quindi delle ipotesi ha un po’ più di spazio rispetto agli elementi di realtà, ai fatti. Di conseguenza, molto dipende dal paradigma scientifico che si utilizza. Si può arrivare a parità di condizioni a sostenere tesi differenti in virtù del fatto che le tracce e le prove, come in questo caso, posso essere lette da diverse prospettive». Ritiene che ci siano stati errori nelle indagini? «Le indagini sono eseguite da esseri umani e, dunque, perfettibili per definizione. Ragion per cui è possibile presumere che qualche errore può essere stato commesso. Di alcuni abbiamo notizia certa, come il fatto di essersi dimenticati di prelevare le impronte digitali della vittima nell’immediatezza del fatto. Tutta una serie di valutazioni fatte sulla scena del crimine che poi hanno dato adito a certe decisioni – mi riferisco ad esempio al fermo di Alberto Stasi –, di fatto non erano corredati da elementi sufficientemente solidi, ma hanno gettato sull’intera vicenda una 105
Casi irrisolti • Roberta Bruzzone
Nella foto sotto, il comandante Luciano Garofano e gli uomini del Ris di Parma. A destra, Alberto Stasi, fidanzato della vittima
luce un po’ offuscata. Credo che tutta una serie di imprecisioni e di errori, dovuti probabilmente anche alle condizioni in cui si è verificato il crimine, ha fatto sì che, probabilmente, si perdesse tempo prezioso e, forse, alcune prove e tracce utili, andassero perse irrimediabilmente. Del resto, la richiesta fatta dal giudice Stefano Vitelli che ha disposto il riesame di tutti gli elementi con le cosiddette “super perizie” lascia poco spazio all’immaginazione. Che siano state indagini condotte in maniera non appropriata non lo dico io, lo dicono i fatti. E anche i risultati di queste perizie». Ci sono prove inconfutabili su cui fondare l’accusa contro Alberto Stasi? «No». Esiste il rischio concreto che l’omicidio di Chiara Poggi resti senza colpevole? «Temo che sia un rischio oggettivo. Del resto il nostro Paese non è nuovo a scenari di questo genere. Partendo dal presupposto che Alberto Stasi venga assolto ed esca dalla vicenda, è evidente che oggi la strada è tutta in salita. L’investigatore che ha seguito il caso all’epoca avrà sicuramente scandagliato la vita di Chiara Poggi; obiettivamente oggi ripercorrere i passaggi più importanti della vita della vittima a distanza di oltre due anni dalla sua morte è sicuramente molto più complicato. Anche
se non impossibile. Occorrono competenze specifiche perchè ora abbiamo a che fare con un “cold case”, un caso a pista fredda». Come descriverebbe il profilo psicologico del killer di Garlasco? «L’assassino non è andato a casa di Chiara per ucciderla. Ragionevolmente, è una persona che sapeva che in quel momento era sola, quindi qualcuno che le era sufficientemente vicino per conoscere le sue abitudini. Purtroppo ancora oggi non sappiamo con quale arma è stato commesso e anche la sfera motivazionale è ancora estremamente labile. Alla luce di quello che è emerso e di quello che ci dice la scena del crimine con molta probabilità si è trattato di un uomo, abbastanza giovane o comunque nella fascia di età compatibile con quella di Chiara. Qualcuno con cui lei aveva una relazione superficiale al punto da non lasciare traccia nella sua vita. Ma non necessariamente il livello di profondità relazionale era lo stesso per l’assassino: ci sono alcune persone che hanno una psicologia disturbata, per cui basta pochissimo per costruirsi dei “castelli in aria”, soprattutto a livello relazionale. Ci sono casi di omicidio maturati in scenari di questo genere. Non so se sia questo il caso, ma io ricomincerei da lì».
Che siano state indagini condotte in maniera non appropriata non lo dico io, lo dicono i fatti. E i risultati delle perizie
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Sanità e diritto • Nino Marazzita
In difesa di camici e pazienti Razionalizzare la spesa. È anche il primo passo per porre fine ai crescenti episodi di malasanità. Ridando fiducia al cittadino. Troppo spesso vittima di medici impreparati o di strutture inadeguate a curare i pazienti. L’avvocato Nino Marazzita guarda con ottimismo ai provvedimenti legislativi in corso di Esmeralda Caserta
L’avvocato Nino Marazzita è un famoso avvocato penalista. Da anni si occupa di casi di malasanità
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Nino Marazzita • Sanità e diritto
ra un’emergenza e l’altra, il nuovo governo, è riuscito ad avviare anche le politiche necessarie per trovare efficaci risposte ai tanti mali cronici che affliggono la società e le istituzioni italiane. Gli obiettivi da perseguire riguardano soprattutto la razionalizzazione della spesa del nostro sistema sanitario, il che dovrebbe permettere di porre fine o almeno di ridurre gli episodi di malasanità che nel nostro Paese si vanno moltiplicando vertiginosamente di anno in anno. A descrivere dal punto di vista giuridico e della prassi processuale cosa accade concretamente ai cittadini vittime di errori sanitari, indicando loro come comportarsi in questi sfortunati casi è Nino Marazzita, uno dei maggiori avvocati italiani, cofondatore del tribunale dei diritti del malato. Quando da un punto di vista medico è possibile parlare di errore medico? «La condotta del medico diventa colposa quando per negligenza, imprudenza o imperizia crea un danno che provoca la morte di un paziente o una lesione grave alla sua persona. Il relativo comportamento può essere commissivo, come nel caso di terapia farmacologica non adeguata o di un intervento chirurgico sbagliato, oppure omissivo, quando il medico non agisce perché non ha capito di che patologia il paziente soffre». Quali sono le principali cause d’errore sanitario? «In genere è l’errore nella diagnosi che porta all’errore della terapia. Di solito non bastano le consulenze degli esperti del
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pubblico ministero e della difesa, ma è necessario ricorrere a una perizia di un perito neutro o a un’equipe di più periti con specializzazioni diverse». L’accertamento dei fatti in genere si presenta difficile? «Molti casi sono evidenti, soprattutto quando la capacità di diagnosi è elementare. A volte invece il danno è più difficile da accertare da parte del giudice il cui giudizio si basa su consulenze mediche, quelle dell’accusa e quelle della difesa». Come si deve muovere un cittadino vittima della malasanità? «Le strade da seguire sono due. C’è quella penale che consiste nella denuncia-querela alle autorità di pubblica sicurezza, se vi sono elementi sufficienti ha inizio un procedimento penale e le persone che hanno contributo a procurare un danno vengono imputate. In tal caso la presunta vittima ha la possibilità di costituirsi parte civile all’interno del processo penale. Altra strada è quella civilistica in cui si formulano le richieste risarcitorie. Laddove in questa sede emergessero responsabilità penali esse si potranno fare valere in sede penale solo nei casi in cui il reato sia perseguibile d’ufficio e non a querela di parte». Cambia qualcosa se l’errore viene commesso in un ospedale pubblico piuttosto che in uno privato? «Assolutamente no. Quando il danno deriva da carenze delle strutture o cause addebitabili a queste è la struttura a pagare sia essa pubblica o privata, quando invece è il medico a essere responsabile del danno è lui a pagare». 111
Sanità e diritto • Responsabilità medica
Accanimento mediaticoo malpractice? «Il medico deve poter svolgere con la massima serenità la sua professione, unica per importanza e per obiettivi. Non con il terrore che la scure punitiva dello Stato agisca con leggerezza, ma nel totale rispetto del principio “in dubio pro reo”» con queste parole l’avvocato Maria Teresa Zampogna affronta il tema della colpa medica di Francesca Divella
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e informazioni a sfondo sanitario che affollano i nostri media appartengono a due generi di notizie, può trattarsi di un nuovo traguardo raggiunto dalla medicina o al contrario dell’ennesimo fatto di cronaca che ha per protagonista un errore medico. Questa continua oscillazione tra speranza e pessimismo crea una sconcertante forma di disorientamento, che può portare, nel peggiore dei casi, a diventare le vittime potenziali di certi “avvoltoi del foro”. Esistono infatti avvocati che vendono fumo ai loro clienti in merito alle possibilità di trarre grandi guadagni da richieste di risarcimento per presunti danni contro medici e strutture sanitarie nelle quali si è stati curati. D’altra parte sempre più spesso i cittadini si trovano a subire un tipo di medicina “difensiva”, caratterizzata da scelte terapeutiche, che i medici operano più per cautela giudiziaria, che per reale convincimento scientifico. Abbiamo approfondito questa complessa materia con l’avvocato penalista Maria Teresa Zampogna del Foro di Milano, che ha maturato, in 20 anni di professione, una consolidata esperienza e competenza in reati di responsabilità medica, con una specializzazione in psicologia giuridica: reati nell’ambito della famiglia, contro la Pubblica Amministrazione, e di criminalità organizzata. L’avvocato Zampogna infatti, ha intrapreso la sua brillante carriera “forense” nel 1989 con l’inaugurazione del nuovo codice di procedura penale, facendo pratica presso alcuni dei più noti penalisti a livello nazionale, come l’Onorevole avvocato Armando Veneto, a Roma, e l’avvocato Armando Radice a Milano, che
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C&P • GIUSTIZIA
Responsabilità medica • Sanità e diritto
In apertura l’avvocato Maria Teresa Zampogna e a destra i suoi collaboratori gli avvocati Giovanni Bitto, Camillo Ferioli e il dottor Andrea Ranghino mt.zampogna@legalimilano.it – www.legalimilano.it
Nella maggior parte dei casi gli errori si verificano in condizioni di lavoro particolarmente stressanti: turni prolungati, sovraccarico, carenza di personale fu il legale di Casa Savoia. Avvocato Zampogna, è raro trovare una giovane donna con una esperienza paragonabile alla sua. Come ha iniziato la professione di avvocato? «Ho iniziato la carriera a 26 anni con il processo per il sequestro di persona ai danni di Cesare Casella, ottenendo una clamorosa assoluzione dei miei assistiti. Ho proseguito impegnata nei più importanti maxi processi relativi alla criminalità organizzata, assistendo posizioni di vertice delle relative organizzazioni, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, presenti nel Nord Italia. Ho patrocinato nel processo relativo al sequestro di persona dell’imprenditrice milanese Alessandra Sgarella, oltre che in quello di Mani Pulite e nel recente scandalo delle Agenzie delle Entrate Lombarde». Come è venuta in contatto con la difficile realtà relativa ai reati di responsabilità medica? «Ho avuto l’occasione di assistere in prima persona il professor Poggi Longostrevi, il cosiddetto Re Mida della Sanità, nel procedimento penale che a Milano ha coinvolto centinaia di medici delle ASL della Regione Lombardia. Da allora mi capita spesso di assistere ad una battaglia mediatica e giudiziaria contro la classe medica, troppo spesso accusata con leggerezza di “malpractice” sulle prime pagine dei quotidiani. Così i medici, schiacciati tra la volontà di offrire le migliori cure ai loro pazienti e le direttive delle amministrazioni economico-sanitarie che impongono parametri a cui riferire ogni scelta terapeutica, stanno vivendo un momento molto delicato. Eppure la gran parte dei sanitari sotC&P • GIUSTIZIA
toposti a giudizio, circa 2 su 3, viene poi assolta perché non colpevole, subendo stress giudiziari, danni morali e patrimoniali incancellabili». Come reagiscono a questa impennata di denunce le assicurazioni sanitarie? «Quella delle assicurazioni è una problematica molto sentita dai medici a causa della frequente disdetta della garanzia assicurativa, che avviene indipendentemente dall’accertamento della responsabilità del sanitario, in modo quasi automatico, ad ogni notizia di risarcimento pervenuta. Come se non bastasse offrono coperture per responsabilità civile gravate da clausole e franchigie sempre più onerose, giustificate, in maniera del tutto discutibile, dalle perdite subite per gli importi “riservati” ai sinistri. Senza parlare degli aumenti esponenziali dei premi per riassicurare i medici “disdettati” da altra compagnia. Si è arrivati al punto che un chirurgo stenta a trovare una compagnia che lo assicuri pur spendendo un premio che può superare una intera mensilità dello stipendio». Come possono tutelarsi i medici in una situazione talmente critica? «Avvalendosi della collaborazione di professionisti che possano offrirgli consulenza ed assistenza in ciascun settore del diritto nel quale può venire in rilievo la loro colpa professionale. Non sarà sufficiente per il medico affidarsi ad un legale generalista, ma sarà necessario che individui più figure, ciascuna esperta in un ramo del diritto e, in particolare, dei problemi relativi alla colpa professionale medica». 113
Antitrust • Antonio Catricalà
L’anima del commercio nonva venduta al diavolo La pubblicità è il motore dell’economia. Ma deve rispettare una condizione fondamentale: informare correttamente e non ingannare. Perché come sottolinea il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà «le pratiche commerciali scorrette danneggiano il buon funzionamento del mercato e, alla lunga, possono creare sfiducia tra i consumatori» di Giusi Brega
Nella pagina accanto, Antonio Catricalà, presidente dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato
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a sempre le aziende investono massicciamente nella pubblicità e nella promozione di prodotti per attrarre l’attenzione dei consumatori. Basti pensare che solo nel 2008 sono stati spesi 8,5 miliardi di euro sui canali pubblicitari. Condizione imprescindibile è che l’attività di promozione debba fornire in modo corretto e completo tutte le informazioni necessarie al consumatore affinché egli possa essere consapevole della propria scelta. In altri termini, il messaggio deve informare correttamente e non ingannare, omettendo magari notizie importanti e inducendo il consumatore verso scelte che altrimenti non avrebbe fatto. Proprio in quest’ottica, la recente disciplina sulle pratiche commerciali scorrette è intervenuta allo scopo di arginare l’uso illegittimo della promozione pubblicitaria, attribuendo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il potere di accertare e sanzionare i messaggi ingannevoli e le altre pratiche commerciali scorrette. Negli ultimi mesi, di fatto, le segnalazioni all’Antitrust hanno subito un incremento, come mette in evidenza lo stesso presidente dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, Antonio Catricalà sottolineando «una crescita del 75% delle denunce presentate dai consumatori». Un vero e proprio boom che può essere spiegato non solo dal fatto che i cittadini sono diventati più attenti e risoluti a far valere i propri diritti, ma anche e forse soprattutto con il fatto che sempre più imprese, probabilmente affaticate dalla congiuntura economica internazionale, tendono ad adottare pratiche commerciali e
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Antonio Catricalà • Antitrust
Senza la libertà di scelta del consumatore assisteremmo solo ad abusi di mercato che farebbero male a tutto il Paese comportamenti non corretti. Da questo punto di vista, l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato appare come interlocutore fidato a cui rivolgersi per veder difesi e tutelati i propri diritti. Negli ultimi mesi, l’Antitrust ha inflitto svariate sanzioni nei confronti di tanti operatori in vari settori. Il primo interessato sembra essere quello delle telecomunicazioni, tuttavia nessun ambito può considerarsi indenne. Se in passato, infatti, ad essere multate erano quasi sempre le società telefoniche, adesso si interviene anche in altri settori, come ad esempio quello relativo al mercato dell’energia che, all’apparenza libero, manifesta ostruzionismi che ostacolano il consumatore nella libertà di poter scegliere l’operatore più adatto alle proprie esigenze. Nella sua relazione del giugno scorso lei ha evidenziato un incremento del 75% delle denunce scritte dei consumatori. A cosa è dovuto questo fenomeno? «Credo che vi sia una molteplicità di fattori: da un lato l’Antitrust ha aumentato la sua visibilità, diventando un punto di riferimento dei consumatori per i quali abbiamo istituito un numero verde. Dall’altro la crisi economica ha ingenerato nella gente insicurezza e sfiducia spingendola a cercare tutela nell’Autorità che presiedo». Tra le pratiche commerciali scorrette, quali sono le più diffuse? «È difficile fare una classifica generale perché il tipo di pratica, e la sua diffusione, cambia da settore a settore. Con la recessione però sono aumentate le denunce per false offerte C&P • GIUSTIZIA
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Antitrust • Antonio Catricalà
A destra la sede dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato. Sotto, Antonio Catricalà
di lavoro, promozioni di prodotti civetta, finte vendite sottocosto, promesse di vincita alle lotterie, proposte reticenti che alimentano il miraggio di un facile credito al consumo: evidentemente quando le persone sono in difficoltà diventano più reattive a fronte di promesse non mantenute. Continua inoltre, nonostante i nostri interventi, la prassi sleale di attribuire a cibi, integratori alimentari, pillole e cosmetici poteri miracolosi di salvaguardia della salute e della forma fisica». Quali sono le ricadute economiche e giuridiche di tali comportamenti? «Per le aziende che vengono sanzionate c’è, evidentemente, una penalizzazione economica oltre che un effetto reputazionale negativo. Per i consumatori che hanno subito la pratica, al di là del danno che varia ovviamente da caso a caso, c’è la negazione della libertà di scelta. Le pratiche commerciali scorrette, e questo è l’elemento più preoccupante, danneggiano il buon funzionamento del mercato perché violano le regole del gioco e, alla lunga, possono creare sfiducia tra i consumatori». Qual è il settore maggiormente interessato? «Tradizionalmente è il settore delle telecomunicazioni, dove si registra il maggior numero di denunce e di sanzioni. Non credo però che questo significhi automaticamente una maggiore scorrettezza delle aziende del settore: giocano, invece, da un lato la complessità dei prodotti offerti, dall’altro l’elevato grado di diffusione dei servizi di telefonia nel nostro 118
Paese». Quanti sono i casi aperti dall’Antitrust sulle pratiche commerciali scorrette? «Complessivamente, da quando è entrata in vigore la nuova normativa, abbiamo avviato oltre 2.300 casi, di cui più di 300 chiusi con sanzioni. In diverse occasioni il procedimento si è chiuso positivamente grazie alla nostra “moral suasion”: l’azienda ha cambiato spontaneamente la comunicazione messa sotto osservazione rendendola più chiara e più trasparente. Altre volte ancora l’azienda ha presentato impegni per rimuovere il comportamento scorretto. Il nostro obiettivo è tutelare il consumatore e utilizziamo tutti gli strumenti che la legge ci mette a disposizione pur di raggiungerlo». Quali sono le differenze sostanziali tra la nuova normativa e la vecchia legge sulla pubblicità ingannevole? «In base alla nuova legge possiamo intervenire non solo quando c’è un messaggio pubblicitario ingannevole, ma ogni volta che un’azienda ha un comportamento scorretto in grado di influire negativamente sulle scelte dei consumatori. In sostanza non conta solo l’informazione ma contano le azioni. Si tratta di un cambiamento che ha ampliato la nostra area di competenza. Inoltre, a differenza che in passato, possiamo agire anche d’ufficio, senza avere bisogno di una denuncia completa e firmata del cittadino. Per poter svolgere al meglio il nostro ruolo dovremmo però poter tutelare anche le piccole e medie imprese nei confronti delle prepotenze C&P • GIUSTIZIA
Antonio Catricalà • Antitrust
La crisi economica ha ingenerato nella gente insicurezza e sfiducia spingendola a cercare tutela nell’Antitrust C&P • GIUSTIZIA
delle più grandi. Anche il massimo edittale andrebbe elevato per far sì che le sanzioni abbiano un maggiore potere deterrente». Disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e class action: in che modo sono connesse? «In base alla legge che entrerà in vigore dal prossimo anno, il giudice competente dovrà verificare l’eventuale pendenza, presso un’autorità indipendente o un giudice amministrativo, di un’istruttoria che riguardi “fatti rilevanti al fine del decidere”, e potrà in questi casi disporre la sospensione dell’azione di classe. Posso presumere che, con questa previsione, il legislatore abbia voluto prevenire difformità di valutazione tra il giudice competente della class action e l’Antitrust. Per questo credo che le nostre decisioni avranno sicuramente un peso rilevante all’interno di una causa collettiva, anche se non saranno vincolanti automaticamente. Proprio per semplificare la procedura avevo peraltro chiesto un ruolo più incisivo dell’Antitrust nel nuovo istituto ma il legislatore ha scelto un’altra strada». C’è chi dice che si rischia di tutelare troppo il consumatore a scapito della libertà di mercato. Come risponde? «Rispondo che della libertà di mercato fa parte, a pieno titolo, la libertà di scelta del consumatore, senza la quale assisteremmo solo ad abusi di mercato che farebbero male a tutto il Paese. Non c’è democrazia economica che possa basarsi sull’inganno e sulla scorrettezza». 119
Fallimentare • Gian Piero Biancolella
Intervenire in tempo sui sintomi Per un’azienda lo stato d’insolvenza è il segnale di una grave crisi finanziaria. Che quasi sempre si conclude con l’attivazione delle procedure fallimentari. Gian Piero Biancolella spiega come in tal caso occorre muoversi per evitare il male maggiore di Marilena Spataro
Gian Piero Biancolella è esperto di diritto penale societario e dell’economia. Vari i processi di cui si è occupato nel corso della sua carriera, dal default del Banco Ambrosiano alle vicende legate alla scalata delle banche Antonveneta e Bnl
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on deve sembrare paradossale, ma anzi appartiene a una prudente condotta da parte dell’imprenditore, quella di presentare egli stesso il ricorso per ottenere la dichiarazione di fallimento, quando non appaiono sussistenti le possibilità di ricorrere alle procedure alternative». È questo il primo consiglio che un avvocato esperto in materia fallimentare come Gian Piero Biancolella, che è stato anche il legale di Callisto Tanzi nel processo Parmalat, si sente di dare a tutti quegli imprenditori che versando in grave crisi, si vengono a trovare nella fase pre-fallimentare. «La presentazione del ricorso da parte dell’imprenditore in stato di insolvenza, unitamente alla non effettuazione di pagamenti nel periodo che precede immediatamente la presentazione del ricorso, è una condotta che viene sicuramente valutata in maniera positiva dalla magistratura e consente di evitare le contestazioni di reati quali la bancarotta preferenziale o il dissesto aggravato, ritardando la richiesta di fallimento» precisa il professionista. Che qui analizza i vari aspetti giuridici della crisi finanziaria d’azienda, indicando la strada più conveniente, ma al contempo la più corretta, per uscirne con il minor danno possibile. Quali sono i prodromi del fallimento e quali gli strumenti giuridici cui ricorrere per evitarlo? «Il presupposto è lo stato d’insolvenza, che consiste nell’incapacità irreversibile da parte dell’imprenditore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. La nuova normativa ha
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Gian Piero Biancolella• Fallimentare
Le innovazioni introdotte dalla riforma consentono all’imprenditore di evitare il fallimento attraverso il ricorso a due nuove procedure: il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti
però introdotto un principio secondo cui non può essere dichiarato fallito l’imprenditore che non abbia svolto attività particolarmente rilevanti sotto il profilo patrimoniale e la cui azienda non abbia avuto, prima della crisi finanziaria, un attivo patrimoniale superiore a 300mila euro o ricavi lordi superiori a 200mila euro, oppure che non riesca a pagare debiti che non superino i 30mila euro. In questi casi il fallimento non è ritenuto utile dal legislatore perché viene a mancare l’allarme sociale connesso allo stato d’insolvenza dell’impresa. Peraltro le innovazioni introdotte dalla riforma del 2006, modificata successivamente nel 2008, consentono all’imprenditore di evitare la dichiarazione di fallimento attraverso il ricorso a due nuove procedure: il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Questi due strumenti permettono di presentare al tribunale proposte di soddisfazione parziale dei creditori, con la possibilità di mantenere in vita l’impresa. Il concordato preventivo è invece una procedura concorsuale che permette di evitare la dichiarazione di fallimento, presentando un piano di ristrutturazione di tutti i debiti che preveda pagamenti parziali ai creditori, attraverso diverse modalità operative, compresa la possibile cessione dei beni dell’azienda agli stessi creditori o altre operazioni straordinarie. Ovviamente tale piano deve essere accettato dai creditori. Con l’accordo di ristrutturazione del debito, viene invece stipulato un patto con almeno il sessanta per cento dei creditori, che prevede un pagamento parziale e diluito nel tempo. Tale accordo, oltre che trovare C&P • GIUSTIZIA
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Fallimentare • Gian Piero Biancolella
NEL 2009 SEMPRE PIÙ CASI IN AUMENTO ono ben 2.750 le imprese in Italia che nel secondo trimestre di quest’anno hanno fatto ricorso alla procedura fallimentare, il che significa che ogni giorno per 30 aziende inizia l’iter fallimentare. Il dato emerge da una ri-
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levazione a cura di InfoCamere e mette in evidenza come nel nostro Paese il sistema imprenditoriale sia stato colpito duramente dalla crisi finanziaria ed economica internazionale. Ma le difficoltà sono altresì legate al-
consenzienti i creditori che partecipano all’accordo, dovrà essere accompagnato da una relazione da parte di un esperto che certifichi l’attuabilità del piano e l’idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei alle intese sopra citate». Quali sono i vantaggi che derivano all’imprenditore dall’attivazione di tali procedure alternative? «Molteplici. Attivando tali procedure non si producono gli effetti civili del fallimento a carico dell’imprenditore quali l’inabilitazione all’esercizio di un’ impresa commerciale, né possono trovare applicazione le sanzioni penali espressamente previste dalla legge fallimentare in caso di declaratoria di fallimento. Inoltre, e questo è sicuramente l’aspetto maggiormente significativo, l’azienda può continuare a operare sul mercato, potendo ritornare in bonis e preservando in tal modo in tutto o in parte i livelli occupazionali». Quali sono in generale gli aspetti più gravi che derivano da un fallimento? «Il fallimento determina per l’imprenditore l’impossibilità di disporre dei beni dell’impresa dichiarata fallita. Ben più gravi le conseguenze penali che potrebbero derivare nelle ipotesi in cui il fallito ponesse in essere condotte di bancarotta, quali ad
l’accesso al credito, visto che, in base a una rilevazione di Unioncamere, nello scorso mese di giugno un’impresa su cinque ha avuto difficoltà nell’accedere al credito bancario. Il rischio è quello di arrivare a una stretta creditizia che ri-
schia di soffocare l’attività delle imprese, specie quelle medie e piccole, costringendole o a chiudere l’attività, oppure ad affrontare il sacrificio di acquisire nuova liquidità dalle banche con spread più elevati.
esempio la distrazione o l’occultamento di beni o la falsificazione delle scritture contabili allo scopo di procurarsi un ingiusto profitto a danno dei suoi creditori. Le pene previste sono particolarmente severe. Inoltre l’imprenditore o gli amministratori della società fallita potrebbero essere personalmente condannati a risarcire con il proprio patrimonio personale i creditori danneggiati, ove venissero accertate responsabilità nella gestione dell’impresa, derivanti da violazioni delle condotte che la legge impone a chi esercita attività imprenditoriali. A ciò si deve aggiungere la sanzione per la durata di dieci anni dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa». Si può affermare che il legislatore con la riforma ha inteso in qualche modo recuperare il soggetto fallito? «Certamente. Infatti, la riforma sembra prendere in considerazione la possibilità che un soggetto fallito non venga definitivamente escluso dal contesto sociale produttivo e imprenditoriale, permettendo, a particolari condizioni, il reinserimento di chi è “incappato” in una dichiarazione di fallimento».
Con l’accordo di ristrutturazione del debito si stipula un patto con i creditori, che prevede un pagamento parziale e diluito nel tempo
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C&P • GIUSTIZIA
Restructuring • Marco Arato
L’accordo è sempre preferibile Anche i creditori prediligono soluzioni di ristrutturazione più snelle. Che offrono il vantaggio di non compromettere definitivamente il patrimonio professionale e umano delle aziende in difficoltà. Lo sottolinea Marco Arato, socio dello studio Bonelli Erede Pappalardo di Francesca Druidi
on esistono numeri precisi, ma le stime elaborate del centro studi TopLegal sul mercato dei servizi legali individuano in 100 milioni di euro il giro d’affari relativo alle operazioni di restructuring in Italia negli ultimi dodici mesi. Questo a sancire con forza il crescente dinamismo di un settore che costituisce una delle principali voci nel fatturato degli studi legali nel 2009. Si tratta soprattutto di un settore che permette di ricollocare aziende, società e gruppi in crisi sul mercato, sventando gli effetti sociali che scaturiscono dalla chiusura di realtà produttive e permettendo al contempo la soddisfazione delle parti creditrici. Lo scopo prioritario è la conservazione dell’impresa proprio nei momenti più delicati della propria storia e del proprio cammino imprenditoriale, dove più che mai necessita di compiere le scelte più appropriate. Soprattutto se il management dell’azienda non vuole correre il rischio di incorrere in gravi responsabilità. A confermare la tendenza che vede gli interventi di ristrutturazione in crescita progressiva è il professor Marco Arato, socio dello studio Bonelli Erede Pappalardo, coordinatore del practice group impegnato sul fronte restructuring e insolvency nel quale gravitano quindici partner, provenienti dai dipartimenti di società e finanza, bancario, contenzioso, lavoro e antitrust. Un gruppo di lavoro trasversale in quanto unisce competenze specialistiche che, di caso in caso, vengono messe in campo e plasmate alle esigenze dell’interlocutore. Come si può spiegare il boom di mandati regi-
N Già nel 2008 non si percepiva la portata della flessione economica e finanziaria riscontrata a livello mondiale 148
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Marco Arato • Restructuring
Nella pagina a fianco, Marco Arato socio dello studio Bonelli Erede Pappalardo, coordinatore del practice group della law firm impegnato sul fronte restructuring e insolvency
strati nel settore del restructuring d’impresa? «L’incremento si è registrato contemporaneamente all’esplosione della crisi a metà del 2008. In quel momento però non avevamo sentore di tutto quello che poi sarebbe accaduto in autunno. È comunque doveroso mettere in evidenza la differenza esistente tra restructuring e insolvency: sotto il primo termine ricadono le ristrutturazioni stragiudiziali di situazioni di crisi aziendale, mentre nella seconda definizione rientrano i passaggi attraverso vere e proprie procedure concorsuali. Entrambi i settori stanno conoscendo un notevole sviluppo, in particolar modo il restructuring, perché sono gli stessi creditori, in prevalenza identificati dal sistema bancario, a preferire gli accordi di ristrutturazione piuttosto che le procedure concorsuali. I creditori cercano, infatti, di evitare il ricorso a soluzioni sia di minore impatto come il concordato preventivo, sia di forma più grave, quale l’amministrazione straordinaria o controllata». Crede che il trend proseguirà anche a fine 2009 e nel 2010? «In base all’esperienza diretta dello studio, sembra che la tendenza proseguirà per il resto del 2009. Attualmente sono oltre quaranta le operazioni seguite dal team legale, distribuite in modo equo tra restructuring e insolvency. Mentre per il 2010 è difficile fare una previsione. Già nel 2008 non si percepiva la portata della flessione economica e finanziaria riscontrata a livello mondiale». Di fronte al volume di operazioni di restructuring, c’è il rischio che qualche studio legale si lanci nel settore, magari anche improvvisando una specializzazione che in realtà non possiede. Lei ritiene che sia più efficace l’azione di un dipartimento dedicato esclusivamente al settore oppure un team multidisciplinare? «Il nostro studio opera a tutto campo per quanto riguarda il settore del restructuring d’impresa: presta assistenza ai creditori, per lo più banche, così come ai debitori, ossia alle imprese in difficoltà. Inoltre, quando si apre la procedura concorsuale, lo studio diventa il legale che segue la pratica. Il team è, quindi, equamente distribuito su queste tre forme di assistenza. Ciò rappresenta il nostro punto di forza, perché in questo modo riusciamo a essere consapevoli delle problematiche a tutto tondo che connotano il mercato del restructuring. La multidisciplinarietà è però anche il frutto delle storie e delle esperienze di ciascun professionista dello studio, considerando che la law firm è a sua volta il prodotto della fusione di tre studi legali. Così Paolo Oliviero è maggiormente rivolto all’assistenza degli istituti di credito, Emanuela Da Rin e Andrea De Tomas si rivolgono verso la ristrutturazione del debito mentre io e i professori Bonelli C&P • GIUSTIZIA
IL NODO ALITALIA arco Arato definisce l’assistenza prestata dallo studio nel corso del 2008 a Cai nel deal Alitalia come «un’esperienza complicata ma affascinante sotto il profilo tecnico, non solo per la dimensione del caso, ma anche e soprattutto per l’esigenza di fronteggiare la pratica con una molteplicità di competenze differenti». Come spiega Arato, infatti, sono stati coinvolti nella practice circa quindici soci e sessanta avvocati, appartenenti pressoché a tutti i settori di competenza dello studio. «Sono state necessarie competenze bancarie, se pensiamo ad esempio ai contratti di leasing pendenti per gli aerei; competenze afferenti al diritto del lavoro per le risorse umane; conoscenze
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relative alla proprietà intellettuale, declinata come marchi, nomi di dominio e siti Internet; competenze di diritto pubblico, richieste ad esempio dalla presenza del programma MilleMiglia di Alitalia, e di diritto della navigazione aerea». Per il socio dello studio Bonelli Erede Pappalardo, questa pratica, in virtù della mole di lavoro richiesta, poteva essere portata avanti solo da uno studio grande e strutturato. «L’operazione può risultare più o meno condivisibile, ma il nostro obiettivo era quello di concludere l’operazione senza che il traffico aereo venisse fermato neanche per un giorno. Si è prestata, in definitiva, particolare attenzione alla prevenzione di disagi per l’utente».
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Restructuring • Marco Arato
UNA MOLTEPLICITÀ DI COMPETENZE, NON FACILMENTE REPERIBILI Le operazioni di ristrutturazione spesso necessitano da parte degli studi legali di multi-disciplinarietà, organizzazione e dimensioni adeguatamente ampie. Lo spiega Ennio Cicconi, esperto in restructuring attivo presso lo studio Chiomenti al 2008 il settore del restructuring ha registrato un crescente volume di operazioni rispetto al passato. Due fattori sono all’origine del fenomeno secondo Ennio Cicconi, socio dello Studio Chiomenti che si occupa in particolar modo di diritto fallimentare e ristrutturazioni aziendali: «Uno è di natura economica – spiega l’avvocato – e di dimensione internazionale; l’altro, di carattere normativo, più specificamente riferibile al nostro Paese. Oltre alla crisi economica mondiale, a favorire l’incremento dell’attività di restructuring sono state, infatti, le rilevanti innovazioni legislative in materia fallimentare, le quali prevedono una pluralità di strumenti giuridici concepiti per evitare il fallimento». Introdotte a partire dal 2005, queste hanno gettato le basi affinché, ancor prima del deflagrare della congiuntura negativa, tale attività ricevesse in Italia un sensibile impulso. «L’introduzione delle recenti riforme favorisce soluzioni concordate di tipo negoziale o giurisdizional-negoziale, anche se il ricorso a tali istituti, in particolare gli accordi di ristrutturazione, non sembra aver trovato almeno finora l’applicazione auspicata dal legislatore». Il contesto normativo delle operazioni di re-
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structuring è quello del diritto fallimentare, disciplina trasversale che comprende in sé il diritto civile, il diritto commerciale, la procedura civile, e anche il diritto amministrativo qualora si profili o si determini l’apertura di procedure con-
corsuali a carattere giurisdizionale-amministrativo. «Non infrequenti sono, poi, le implicazioni penalistiche, così come quelle gius-lavoristiche e fiscali». Senza trascurare gli aspetti di diritto internazionale privato, inevitabili quando l’impresa in crisi abbia rapporti con soggetti esteri o direttamente sedi all’estero. «All’avvocato che presti assistenza in tali operazioni è dunque richiesta una notevole preparazione giuridica. Ma nemmeno questa è sufficiente, soprattutto quando si tratta di im-
prese di grandi dimensioni. In questi casi è richiesta una particolare esperienza in operazioni societarie cosiddette “straordinarie” o di finanza, anche notevolmente sofisticate». Da qui, come specifica l’avvocato Cicconi, la scelta dello Studio Chiomenti di costituire un gruppo di lavoro permanente, composto da professionisti appartenenti a differenti dipartimenti, portatori nel loro insieme di quella somma di competenze, non realisticamente cumulabili in un unico professionista o in gruppo di professionisti omogenei quanto a preparazione ed esperienza. Lo Studio Chiomenti ha prestato assistenza in operazioni di restructuring di rilevante entità, come nel caso del Gruppo Tiscali o del Gruppo Ferretti. «È significativo citare anche l’assistenza prestata all’Alitalia in amministrazione straordinaria, che non può definirsi restructuring in senso stretto visto che l’amministrazione straordinaria aveva finalità liquidatorie, ma ad ogni modo ha avuto come esito la prosecuzione dell’impresa, pur in mano di nuovi proprietari». Un caso di straordinaria complessità e rilevanza pubblica che rappresenta una conferma esemplare della necessità di nozioni e competenze varie nel settore del restructuring.
e Domenichini abbiamo maturato una specifica competenza in materia di procedure concorsuali». Quanto ha influito sul settore la riforma fallimentare? «Sicuramente ha inciso, perché la riforma ha introdotto forme di accordo tra debitori e creditori al di fuori delle procedure concorsuali. Fino al momento in cui non sono stati introdotti nel 2005, tali accordi di ristrutturazione del debito erano meno diffusi e “pericolosi”. Prima del 2005, il più importante accordo di ristrutturazione del debito l’aveva realizzato proprio lo studio Bonelli Erede Pappalardo nel caso del gruppo Cameli. Si può definire in questo senso un accordo precursore della normativa poi entrata in vigore». Cosa comporta da un punto di vista legale C&P • GIUSTIZIA
Marco Arato • Restructuring
un’operazione di restructuring? «Un’operazione di ristrutturazione richiede competenze legali, ma anche finanziarie e industriali. Un accordo di restructuring ha come effetto quello di congelare il credito vantato per lo più dalle banche, spesso per mantenere i fidi esistenti con l’obiettivo di ristrutturare lo svolgimento dell’attività industriale. Questi tre passaggi, la fase di moratoria, la nuova finanza e la ristrutturazione industriale, richiedono infatti anche l’applicazione di competenze finanziarie. Occorre capire quanta parte della partecipazione vada congelata oppure rinunciata e comprendere quale quota di fidi debba essere concessa dagli istituti di credito per la sopravvivenza delle aziende». Per quanto riguarda, invece, il fronte più propriamente industriale? «Risulta fondamentale risalire alle ragioni che hanno portato l’azienda a trovarsi in una situazione critica di disequilibrio economico e finanziario e tentare, di conseguenza, di superarle. Esistono motivazioni finanziarie e motivazioni industriali, che possono presentarsi in modo separato o congiunto. Le cause di natura finanziaria si affrontano generalmente chiedendo la rinuncia di parte del credito e attraverso la richiesta di moratoria. A queste si affiancano in molti casi motivazioni che riguardano in ma-
niera specifica lo svolgimento dell’attività industriale. In questo contesto, si rendono necessarie decisioni afferenti alla produzione vera e propria. Ad esempio, si può interrompere la produzione di un bene che in Italia non trova più un mercato adeguato optando magari per una delocalizzazione in altri Paesi. Oppure può essere opportuno riconvertire una produzione a scarso valore tecnologico valorizzandone una superiore, in modo da fronteggiare meglio la concorrenza straniera. Questi sono tutti scenari plausibili, ma il nodo cruciale è un altro». Quale? «Le imprese hanno bisogno di un advisor industriale che le consigli e le indirizzi su questo tipo di decisioni. Al contempo, serve loro un esperto finanziario che presti attenzione agli aspetti competenti, tra cui i flussi di cassa. L’accordo di ristrutturazione viene redatto dallo studio legale, ma per presentare alle banche un piano caratterizzato da una base solida, servono contenuti non solo giuridici ma anche dati specifici di natura finanziaria e industriale. In questo modo, è più probabile che la banca accetti l’accordo. Naturalmente, poi, l’istituto pretenderà che l’accordo venga concretamente posto in essere, ponendo in seconda istanza dei paletti di verifica al progetto di ristrutturazione».
È fondamentale risalire alle ragioni che hanno portato l’azienda a trovarsi in una situazione critica di disequilibrio economico e finanziario
C&P • GIUSTIZIA
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Grandi tributaristi • Vitali Romagnoli Piccardi e Associati
Gestire una materia di confine Prima trattare le questioni in diritto civile e commerciale, poi trarne le conseguenze in ambito fiscale. Così si affronta ogni problematica nello studio di Vitali Romagnoli Piccardi e Associati, uno dei più importanti a livello nazionale per la materia tributarista. Come racconta il giovane partner Marcello Valenti di Federica Gieri
onoscenza profonda della disciplina, ma, al tempo stesso, massima apertura nello sviluppare competenze nei settori affini. È l’atout che si richiede a commercialisti e avvocati che varcano il portone dello studio Vitali Romagnoli Piccardi e Associati. Come è accaduto a Marcello Valenti, avvocato esperto in diritto tributario e partner dello studio. Ma non solo. «Ci occupiamo di diritto tributario – spiega Valenti –. Tuttavia, il fondatore del nostro studio ci ha sempre insegnato la massima: first civil, then tax». E così il diritto tributario diventa occasione per studiare molto altro. Come si è evoluta la professione dell’avvocato tributarista nel tempo e, soprattutto, alla luce dell’attuale congiuntura? «Dapprima, l’approccio alla professione era molto tradizionale: studi molto piccoli e grandi operazioni affidate a studi professorali. In estrema sintesi, i clienti si gestivano il più possibile in casa anche le grandi operazioni, dopodiché si chiamava il grande avvocato, magari il professore per il blessing. Negli anni Novanta, il cambiamento. Con i primi studi legali internazionali, il mercato si è molto trasformato: quelli italiani hanno cominciato a crescere, industrializzandosi sull’esempio anglosassone. Gli studi internazionali hanno introdotto anche un modo di lavorare molto differente, standardizzando la professione. La vera trasformazione, tuttavia, si è avuta quando gli avvocati hanno cominciato ad avere un ruolo fondamentale a partire dalla fase di costruzione delle operazioni. Con il tempo la situazione è andata evolvendosi: il lavoro le-
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gale, pur con eccezioni, è diventato una commodity dove la battaglia non la si fa più sulla qualità, via via decrescente, ma sul prezzo, vera base di concorrenza. Con la crisi, il fattore prezzo è restato determinante. Come ulteriore paradosso, la congiuntura ha aumentato la qualità del servizio legale: le scrivanie meno ingombre di pratiche hanno permesso a molti partner di importanti studi di essere congiuntamente impegnati su ogni operazione, mentre prima gli stessi erano una specie di “Araba fenice”. Per i clienti, un bel guadagno in qualità». L’avvocato è sempre più un consulente specializzato? «Non del tutto. Almeno non nel nostro caso. È vero che ci occupiamo prevalentemente di diritto tributario, disciplina di nicchia, ricca di dettagli che richiedono un impegno importante, anche per la continua evoluzione. Tuttavia, il metodo di lavoro dello studio è quello, in sostanza, di trattare le questioni prima in diritto civile o diritto commerciale per poi trarne le conseguenze in ambito fiscale. Con la conseguenza che il diritto tributario diventa una buona scusa per studiare molto altro. È indubbio che non possiamo pretendere di avere lo stesso livello di conoscenza di chi si occupa esclusivamente di diritto civile o commerciale. È altrettanto vero, tuttavia, che dove i colleghi esperti in quegli ambiti si fermano nella loro analisi, lì iniziamo noi». Da Vitali, Romagnoli Piccardi e Associati vale dunque un po’ di meno la regola della super-specializzazione? C&P • GIUSTIZIA
Vitali Romagnoli Piccardi e Associati • Grandi tributaristi
In apertura, Marcello Valenti, avvocato esperto in diritto tributario e partner dello studio Vitali Romagnoli Piccardi e Associati
«Siamo un mix di avvocati e commercialisti ben assortito perché il diritto tributario è davvero una materia di confine. Da un lato, presuppone una conoscenza solida del bilancio e delle dinamiche economiche d’impresa, tipica dei commercialisti; dall’altro, essendo un diritto, richiede comunque la forma mentis e le tecniche interpretative tipiche degli avvocati. In quest’ottica, a ciascun praticante, a seconda del suo settore di provenienza, occorre un lungo percorso di avvicinamento all’altra specialità. Al termine del percorso, i nostri commercialisti interpretano molto bene le norme, con metodi da avvocati, i nostri legali acquisiscono una conoscenza più solida del bilancio. Si crea, quindi, un’osmosi tra le due professioni. Una dissolvenza professionale impossibile quando gli studi sono solo di avvocati o commercialisti perché ognuno di fatto rimane padrone della sua specialità. Non sono neanche infrequenti i casi di professionisti iscritti sia all’albo degli avvocati che a quello dei commercialisti. È però vero che, per la mia esperienza, questo accade più a chi, partendo dall’iscrizione all’albo dei commercialisti, sente poi l’esigenza di aggiungere anche l’altra laurea, diventando poi avvocato». Il numero sempre crescente di avvocati rappresenta un limite o un’opportunità per la categoria?
«Un’opportunità. A condizione che ci siano solide norme deontologiche a presidio, evitando così le parodie da film americano, dove l’avvocato sparge biglietti da visita al pronto soccorso. Considerando che il mercato lo fa il mercato, la professione legale ha solo da guadagnare. Certo, bisogna scoprire i talenti giusti. Pensiamo anche il ruolo degli headhunter in campo legale: sempre più utili e sempre più qualificati, stanno facendo un boom di fatturato, anche in periodo di crisi». Anche in Italia si stanno diffondendo le grandi law firm. In che modo cambia lo scenario competitivo nazionale e quali sono le strategie per rispondere alle esigenze del mercato? «La crisi è un grande evento da cui possono nascere importanti opportunità. È indubbio che darà un’altra forma al mercato. In un’accezione più ampia, crisi significa anche verifica e giudizio, anche sul passato, sui propri comportamenti e sul proprio approccio alle cose anche al fine di prepararsi al meglio agli scenari futuri. Scenari che non ci coglieranno impreparati. Il segreto è, quindi, essere aperti ad intuire i cambiamenti perché qualcosa di diverso ci sarà. Il lateral thinking, del resto, è elemento fondamentale nella sacca degli attrezzi di ogni buon avvocato fiscalista».
Il diritto tributario presuppone una conoscenza solida delle dinamiche economiche, tipica dei commercialisti, e la forma mentis degli avvocati
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Lavoro • Salvatore Trifirò
Il mercato chiede mobilità Un articolo ormai datato. E che non corrisponde più alle mutate esigenze del mercato del lavoro in una realtà industriale ed economica in continua evoluzione. Secondo il giuslavorista Salvatore Trifirò, riformare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori oggi più che mai comporterebbe benefici sia per le imprese che per i lavoratori di Esmeralda Caserta 190
n un momento di crisi economica come quello che il mondo sta vivendo dopo il crollo dei mercati finanziari nell’ottobre 2008, appare particolarmente opportuna per il sistema produttivo del nostro Paese la proposta di riforma legislativa dell’articolo 18 della legge 300 dello Statuto dei lavoratori avanzata lo scorso anno dal deputato del Pdl, Giuliano Cazzola. La misura più rilevante che emerge da tale proposta è quella che conferisce all’imprenditore la facoltà di corrispondere al prestatore di lavoro un’indennità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro liberando le aziende dalla rigidità dell’obbligo della reintegrazione. Questo, come sottolinea uno dei più famosi giuslavoristi italiani, Salvatore Trifirò, «disincentiverebbe la parte datoriale dal ricercare la “flessibilità” a mezzo di contratti a termine, eliminando così anche concettualmente il “lavoro precario”, con effetti politici-sociali e psicologici di grande impatto». Il regime legislativo ancora in vigore sulla base dell’articolo 18 prevede, infatti, l’applicazione del vincolo della “stabilità reale”: «Questo ostacola, in ogni caso, la mobilità del lavoro nell’ambito dell’azienda, facendo sì che il datore di lavoro sia spinto a stipulare contratti a tempo determinato» aggiunge il giurista, il quale reputa che la proposta Cazzola, se realizzata, sortirebbe un ulteriore effetto benefico: «tracciare la strada maestra per ristabilire quel clima di reciproca fiducia nell’ambito dell’impresa intesa come comunità di lavoro finalizzata allo sviluppo e alla elevazione socio-economica di tutti i suoi partecipanti imprenditori e lavoratori».
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Salvatore Trifirò • Lavoro
Salvatore Trifirò è tra i maggiori avvocati giuslavoristi italiani
IL NUOVO TENTATIVO DI RIFORMA l progetto di legge, presentato su iniziativa dei deputati Giuliano Cazzola e Benedetto Della Vedova, si compone di un solo articolo che modifica il comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, estendendo anche al datore di lavoro soccombente in giudizio la facoltà di corrispondere un’indennità risarcitoria pari a quindici mensilità di retribuzione globale anziché dare corso al reintegro nel posto di lavoro. Il precedente tentativo di riforma risale al 2001: l’allora governo Berlusconi presentò un disegno di legge delega in cui c’era anche la proposta di sospensione temporanea del suddetto articolo, in particolare del diritto di reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato. Il disegno di legge prevedeva
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la momentanea sostituzione del diritto di reintegra sul lavoro in caso di licenziamento ingiustificato con un risarcimento pecuniario in relazione a ipotesi particolari. Questo provocò la reazione dei sindacati. Successivamente l’esecutivo raggiunse un accordo con Cisl e Uil contenente l’ipotesi di modifica dell’articolo 18 al fine di promuovere nuova occupazione regolare attraverso misure sperimentali, e perciò temporanee, con l’obiettivo di incoraggiare la crescita dimensionale delle piccole imprese. A seguito del rifiuto della Cgil di firmare l’accordo e, soprattutto, in ragione dell’inasprimento del conflitto, il governo scelse di stralciare la parte relativa alle modifiche del disposto dello Statuto dei lavoratori.
Perché il mondo del lavoro possa essere flessibile in entrata è necessario che lo sia anche in uscita C&P • GIUSTIZIA
In concreto quali sono gli effetti benefici dell’applicazione di questa norma che andrebbe a modificare il regime sul licenziamento? «Per espletare concretamente i suoi effetti benefici sarebbe necessario, innanzitutto, che i giudici applicassero la norma approfondendo le singole fattispecie con lo stesso rigore metodologico con il quale hanno applicato, da ultimo, l’articolo 18. Vale a dire valutando attentamente il caso prima di dichiarare la illegittimità del licenziamento. Sotto questo profilo potrebbe essere utile prevedere che i giudici specializzati in diritto del lavoro seguano dei corsi che consentano loro di poter “studiare sul campo” le realtà aziendali. Rispetto al particolare momento di crisi, la possibilità di vedersi corrisposte 20 mensilità per chi perde il posto di lavoro costituisce una misura utile. Ovviamente anche gli ammortizzatori sociali possono contribuire a ridurre l’impatto della gestione degli esuberi». Parlare di riforma del sistema del licenziamento individuale è un tabù in Italia? «Ogni volta che si è discusso circa la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sono sempre sorte tensioni a livello sociopolitico, essenzialmente dovute al fatto che in Italia è fortemente radicata l’idea del posto “fisso”. L’anno prossimo questa norma compie quarant’anni: il fatto di non essere riusciti a riformarla è la prova più evidente di come una riforma del sistema dei licenziamenti sia in Italia un vero e proprio tabù, che, finché regge, precluderà ai giovani l’ingresso nel mondo del lavoro non più da “precari”». Da più parti si invoca un sistema del lavoro che sia flessibile in entrata, ma anche in uscita. Una revisione dell’articolo 18 potrebbe essere utile in tal senso? «Perché il mondo del lavoro possa essere flessibile in entrata è necessario che lo sia anche in uscita. Diversamente si crea una situazione di staticità che è l’esatto contrario della dinamicità che è alla base della crescita dell’impresa, così come il merito è alla base della crescita economica e professionale dei lavoratori. Desidero ricordare che il boom economico degli anni 50 si è verificato in assenza dell’articolo 18. Con ciò non vuol dire che quella legislazione non sia stata utile per lo sviluppo anche “qualitativo” dei rapporti di lavoro, tuttavia è un fatto che l’Italia sia andata avanti: anche senza di essa, così come oggi vanno avanti i Paesi anglosassoni e quelli di Oltreoceano che ne sono privi». 191
Lavoro • LabLaw
Sono al vaglio le regole del lavoro L’equilibrio occupazionale è un problema non solo economico, ma anche sociale. Soprattutto in tempi di crisi. Gli avvocati Luca Failla e Francesco Rotondi, fondatori dello studio LabLaw, riflettono su una materia, il diritto del lavoro, sempre più complessa e rilevante di Paolo Nobilio
Gli avvocati Luca Failla (sopra) e Francesco Rotondi (nella pagina accanto), soci fondatori dello studio legale LabLaw, con sedi a Milano e Roma, specializzato in diritto del lavoro
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l tema del lavoro è sempre delicato. Per la sua assoluta centralità nella vita di ogni cittadino e per le evidenti implicazioni materiali e morali che tale centralità comporta. Ma in tempi di crisi, la questione del lavoro da delicata diventa, inevitabilmente, cruciale. E anche per le aziende occorre muoversi con estrema attenzione, per fronteggiare la situazione nel modo migliore e meno traumatico possibile. Anche e soprattutto sotto il profilo giuridico. «Il diritto del lavoro è sicuramente il settore più interessato dal grave momento di crisi che sta attraversando l’intero sistema economico-industriale a livello mondiale» spiega l’avvocato Francesco Rotondi, socio fondatore, insieme a Luca Failla, dello studio LabLaw, che fin dalla fondazione ha scelto con decisione la strada della specializzazione in questo fondamentale settore del diritto. «Un campo – continua – i cui esperti, nel nostro come in altri paesi, si trovano ad affrontare soprattutto operazioni straordinarie di riorganizzazione e riassetto societario, operazioni che normalmente portano alla riduzione degli organici». È evidente, tuttavia, che «il tema “lavoro” non può essere liquidato come “giuridico”, poiché attiene alla vita, al sociale, alla famiglia». La riflessione giuridica, pertanto, riguarda al momento soprattutto gli strumenti da utilizzare per attenuare gli effetti di tali operazioni: «I famosi ammortizzatori sociali oggi sembrano non poter più reggere o comunque fornire adeguate risposte alle mutate esigenze di un mercato che si presenta completamente diverso dagli
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C&P • GIUSTIZIA
LabLaw • Lavoro
anni settanta e ottanta – spiega Rotondi –. Se dunque il tavolo è “caldo”, tra gli addetti ai lavori, è soprattutto con riferimento alla necessaria e improrogabile riforma degli ammortizzatori sociali». È questo probabilmente il più importante insegnamento che occorre trarre dalla congiuntura, la quale ha sottolineato «la necessità inderogabile di riformulare la normativa relativa a tali strumenti e le cosiddette “regole del lavoro”». Chiarisce Rotondi: «Sono infatti emerse numerose variabili aziendali da gestire che, all’epoca dell’introduzione della legge 223/91 di riforma degli ammortizzatori sociali e dell’introduzione dei licenziamenti collettivi, non erano state calcolate. Più in generale – aggiunge – credo che sia arrivato il momento di porre mano al rapporto di lavoro in ogni sua parte, non più avendo a mente solo la fase patologica. Sono convinto, del resto, che una maggiore flessibilità delle regole nello svolgimento del contratto avrebbero potuto salvaguardare molti posti di lavoro». Dal dibattito tecnico alle specifiche situazioni aziendali, tuttavia, i termini della questione diventano ben più concreti e stringenti. Interviene l’avvocato Luca Failla, co-fondatore dello studio milanese: «Gli aspetti giuridici più delicati che devono essere affrontati da una grande impresa, in tema di lavoro, sono legati principalmente alle modalità di risoluzione del rapporto e, soprattutto, alla gestione delle procedure di riduzione, in quanto eventuali errori in queste fasi possono generare complessi contenziosi, con conseguenti ripercussioni economiche. Le aziende inoltre – C&P • GIUSTIZIA
Nel nostro Paese purtroppo sono riscontrabili diverse rigidità normative che rendono molto complessa la gestione del lavoro 193
Lavoro • LabLaw
BOUTIQUE SPECIALIZZATE: UN MODELLO VINCENTE E SEMPRE PIÙ ATTRATTIVO ondato nel 2006, lo studio legale LabLaw è divenuto in pochi anni una delle realtà più importanti nell’area del diritto del lavoro. Guidato dai Fondatori Luca Failla e Francesco Rotondi lo studio svolge attività di advisory per importanti aziende italiane ed estere, oltre a seguire top manager in complesse trattative sia di formalizzazione che di cessazione dei rapporti di lavoro. Il tutto attraverso un’accorta integrazione tra dimensione nazionale e internazionale, dove compe-
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tenze ed esperienze maturate all’estero possono tramutarsi, una volta reinserite nello scenario italiano, in chiari vantaggi competitivi. Così è stato ad esempio per il recente ingresso dell’avvocato Piergiovanni Mandruzzato, già senior counsel presso il noto studio internazionale Allen & Overy e da settembre socio effettivo di LabLaw. Un acquisto importante, che rientra nella più ampia strategia di crescita ed espansione perseguita dallo studio e dettata direttamente
continua – sotto un profilo più gestionale, in questo momento non devono dimenticare aspetti quali la motivazione dei dipendenti in seguito a eventuali tagli del personale, nonché la conservazione di know-how e professionalità per il momento della eventuale e auspicata ripresa». Alla prova del confronto con i problemi reali, tuttavia, l’attuale legislazione italiana in materia giuslavorista non appare del tutto adeguata. «Purtroppo sono riscontrabili diverse rigidità, dal punto di vista legislativo, che rendono molto complessa la gestione del lavoro e del lavoratore con conseguenti ricadute organizzative», spiega Failla. «Più in generale si potrebbe dire che in Italia risulta molto difficile per un imprenditore poter fornire risposte adeguate dal punto di vista organizzativo a fronte di uno scenario del mercato e della concorrenza che invece muta velocemente, imponendo scelte e strategie che per la sopravvivenza dell’azienda e, quindi, dei posti di lavoro necessiterebbero risposte altrettanto rapide, svincolate da obblighi a volte eccessivamente formali e conservativi». Altro nodo da sciogliere, per migliorare la generale effi194
dalle richieste del mercato: «Dall’inizio del 2009 abbiamo quasi raddoppiato il numero di professionisti – spiega Failla – e stiamo acquisendo professionalità con expertise internazionale che possano allargare i nostri servizi». A tal fine, aggiunge, «grazie all’ingresso di Mandruzzato, è stato recentemente finalizzato il passaggio del dipartimento Labour di Allen & Overy in LabLaw». Un’inversione di tendenza rispetto al passato, in cui erano le piccole boutique ad essere assor-
bite dai grandi studi internazionali. «Adesso al contrario, boutique altamente specializzate, quali LabLaw, divengono polo di attrazione di competenze elevate provenienti dai network internazionali». Una tendenza che, tuttavia, non altera in alcun modo i principi operativi dello studio, il cui modello, conclude Failla, rimane centrato su «una consulenza di altissima qualità e attenta al cliente, sia esso rappresentato da un’impresa italiana o internazionale».
cienza del quadro normativo, quello delle vicende “collettive”. Anche su questo la posizione di Failla è chiara: «Per la buona riuscita anche di queste operazioni, con la salvaguardia degli interessi che solo apparentemente si possono considerare contrapposti, la questione della rappresentatività del sindacato va superata o chiarita». Il mercato occupazionale, del resto, è ormai mondiale e il tema del lavoro non può più essere visto in un’ottica nazionale. Una situazione che comporta, per il consulente di diritto del lavoro, problemi e opportunità. A partire dalla necessità, di fronte alla progressiva globalizzazione, di sapersi muovere tra diversi ordinamenti e parlare diverse “lingue forensi”. «La capacità di agire su più fronti e culture – interviene di nuovo Rotondi – è un tema estremamente significativo per LabLaw. Ad oggi circa il 20-30% del nostro fatturato viene generato dall’estero, veniamo interpellati soprattutto da società multinazionali che ci chiedono di assisterle nei vari paesi in cui sono presenti. È innegabile di conseguenza che ci troviamo costantemente di fronte al problema della territorialità del diritto, soprattutto in questo momento, in cui vengono attuati molti processi di riorganizzaC&P • GIUSTIZIA
LabLaw • Lavoro
Nell’altra pagina, da sinistra, gli avvocati Gianluca Crespi, Nicola Petracca, Angelo Quarto e Piergiovanni Mandruzzato, quattro dei sei soci dello studio, che conta in tutto 30 avvocati
L’attuale congiuntura ha senza dubbio sottolineato la necessità inderogabile di riformulare la normativa relativa agli ammortizzatori sociali e le cosiddette “regole del lavoro” zione transnazionali». Più nel dettaglio, prosegue l’avvocato, «risulta spesso complesso riuscire a far comprendere ai clienti stranieri le sostanziali differenze delle legislazioni a livello europeo o addirittura mondiale. Sarebbe quindi necessaria una complessiva armonizzazione del diritto, almeno a livello europeo, che si rifletterebbe indubbiamente in un aumento della competitività delle aziende. Ma in che modo gli avvocati specializzati in questo campo possono contribuire a un tale processo? La risposta sta soprattutto in un imperativo: costruire reti. «Per fare fronte a questa oggettiva difficoltà – spiega Rotondi – LabLaw ha ormai creato e consolidato una rete di relazioni internazionali con primari studi anche extraeuropei, specializzati in diritto del lavoro, così da poter seguire e affiancare il cliente italiano anche al’estero nella realizzazione di operazioni complesse». Ovviamente, aggiunge, «per potere fare tutto ciò è fondamentale l’uso e la conoscenza delle lingue, principalmente quella inglese, caratteristica ormai necessaria per il moderno avvocato di impresa». Pensare e agire su scala internazionale, però, non significa trascurare la dimensione nazionale, che rimane fondamentale. È C&P • GIUSTIZIA
seguendo questa strategia di sviluppo che, lo scorso luglio, lo studio milanese ha inaugurato una nuova sede a Roma. «La decisione di intraprendere l’avventura romana è la naturale continuazione del progetto LabLaw – conferma Failla –.Tutti i grandi player europei hanno una doppia sede e la presenza a Roma e Milano rappresenta il connubio ideale per avere una dimensione nazionale. L’apertura della sede romana, inoltre, ci permette di essere più vicini alla clientela del centro sud». Per quanto diverso da quello lombardo, lo scenario della capitale non sembra porre particolari problemi operativi. «Senza dubbio la piazza romana presenta alcune peculiarità rispetto a quella milanese – spiega ancora l’avvocato –, a partire dalle interessanti opportunità di lavoro con le grandi imprese privatizzate e con le multinazionali presenti da anni nella capitale. E tuttavia non credo ci siano grandi differenze: “il lavoro è il lavoro” e riteniamo che lo spirito, la diligenza e la dedizione siano un grimaldello universale, a cui vanno aggiunte la velocità di risposta e la capacità di risolvere i problemi stando a fianco del cliente». Tutte caratteristiche, conclude, «poste sin dall’inizio a fondamento di LabLaw». 195
Servizi pubblici locali • Giulio Napolitano
È arrivato il momento di decidere Si riparte. Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto per riformare il settore dei servizi pubblici. Il nodo, per Giulio Napolitano, è sempre lo stesso: «Anche il ministro più determinato e la maggioranza parlamentare più larga finiscono per essere fiaccati da un atteggiamento difensivo» di Federica Gieri
uattro riforme in otto anni. L’ultima, in ordine di tempo, con il decreto legge 135/2009, appena approvato dal Consiglio dei ministri e ora all’esame del parlamento. Servizi pubblici: si cambia ancora. Almeno si tenta di farlo per davvero. Perché la gestione di tanti servizi fondamentali per lo sviluppo economico e per il benessere dei cittadini è rimasta pressoché immutata nell’ultimo decennio, accumulando così gravi ritardi anche sul piano tecnologico. Molti i tentativi di riforma del settore, il cui insuccesso, analizza Giulio Napolitano, ordinario di Diritto pubblico nella facoltà di Scienze politiche all’ateneo di Roma Tre, «dipende dalla ripetizione di due errori: uno di tecnica legislativa, l’altro di strategia riformatrice». Purtroppo, non si discosta del tutto da questa tendenza neppure la norma appena varata. Nonostante, osserva Napolitano, essa «includa alcune coraggiose innovazioni e taluni apprezzabili miglioramenti sul piano del drafting normativo». Andiamo con ordine, analizziamo prima i problemi di tecnica legislativa. «Assistiamo all’illusione di poter sbaragliare, con un colpo solo, i meccanismi di gestione esistenti, che hanno performance diverse, alcune ottime, altre pessime, e che riguardano servizi profondamente differenti sul piano economico: gas, energia elettrica, trasporti, acqua oppure rifiuti. Oltretutto, la norma vale allo stesso modo in grandi città e nel più piccolo dei comuni». Difficile mettere nel mirino il cambiamento? «Sì, perché anche il ministro più determinato e la maggioranza parlamentare più larga finiscono per essere fiaccati da un atteg-
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C&P • GIUSTIZIA
Giulio Napolitano • Servizi pubblici locali Nella pagina accanto, Giulio Napolitano, docente di Diritto pubblico alla facoltà di Scienze politiche dell’Università Roma Tre
È giusto che, riprendendo una soluzione contenuta nel ddl Lanzillotta, si assegni all’Antitrust il compito di verificare la valenza effettiva delle condizioni economiche che giustificano il ricorso alla gestione pubblica in house giamento difensivo, tanto degli enti territoriali quanto delle loro aziende partecipate, ricompattati su un fronte comune. Alligna qui sia il fallimento dei disegni più organici di riforma, peraltro mai approvati dal parlamento, predisposti dai governi di centrosinistra nel 1999 e nel 2006, sia il fatto che le riforme certo meno ambiziose, ma comunque innovative, finalmente approvate nel 2001 e nel 2008, siano state subito “normalizzate”, come accaduto con la revisione del 2003, o rimaste lettera morta, come quella dello scorso anno». Decisiva, quindi, la conversione in legge del provvedimento appena votato in Consiglio dei ministri? «Sarà un importante banco di prova per verificare l’effettiva volontà riformatrice non solo del governo ma anche del parlamento, sia della maggioranza che dell’opposizione. Bisognerà in particolare verificare che non ci siano ulteriori proroghe e deroghe. Qualche speranza in più, tuttavia, questa volta proviene dal giudizio positivo sulla riforma espresso dal presidente dell’Anci Sergio Chiamparino». L’errore strategico, invece, da dove discende? «A mio avviso, dalla confusione fra i differenti obiettivi della riforma e dall’incapacità di perseguire ciascuno di essi fino in fondo». Cominciamo dal primo traguardo da tagliare. «L’obiettivo inizialmente perseguito dal legislatore fu la privatizzazione delle imprese pubbliche locali. Alla fine degli anni Novanta, si cominciò questo processo con la trasformazione delle vecchie municipalizzate in società di capitali e la loro quotazione in borsa». C&P • GIUSTIZIA
Dopodiché il nulla? «In effetti, da allora si è fatto molto poco, se si eccettuano alcune importanti fusioni societarie avvenute soprattutto nel Nord Italia. Negli ultimi anni, infatti, è venuta meno l’idea che la gestione privata sia, per efficienza, superiore. E poi sono prevalsi i veti degli enti locali. Così fiorisce il cosiddetto «socialismo municipale». L’attuale riforma sembra voler riprendere il processo di privatizzazione perché incentiva gli enti locali a scendere gradualmente sotto il 30% nelle società quotate. Almeno se vogliono mantenere gli affidamenti diretti esistenti in loro favore. Ciò potrà favorire l’innesto di nuovi capitali e di nuove capacità gestionali, limitando le interferenze improprie della politica. Allo stesso tempo, come dimostra quanto accade a livello nazionale con l’Eni e con l’Enel, gli enti locali potranno comunque mantenere una partecipazione di controllo e di garanzia, anche scendendo sotto il 30%». Secondo risultato da conseguire? «La liberalizzazione del settore. Sino ad ora non è mai stata coltivata l’idea di un effettivo sviluppo della concorrenza sul mercato, anche per alcune evidenti barriere tecnico-economiche difficilmente rimuovibili. A partire dalla legge del 2001 si è privilegiata, invece, la soluzione della concorrenza per il mercato, con l’indizione di gare che assegnino il servizio direttamente o la qualità di socio nelle società miste. Molto poco, però, si è fatto per rendere aperte e trasparenti queste gare. Troppo “comode” sono state le deroghe e troppo generosi i regimi transitori in favore degli affidamenti non concorsuali. Aver abbandonato la strategia della privatizzazione, pertanto, ha reso inevitabilmente più 201
Servizi pubblici locali • Giulio Napolitano
Bisognerebbe rafforzare la regolazione indipendente dei servizi pubblici locali
difficile incidere sui profitti di società pubbliche legate a doppio filo agli enti locali. Inoltre, il furbesco aggancio all’eccezione comunitaria in favore delle società in house ha paradossalmente incentivato la pubblicizzazione anche delle società miste, che erano state costituite a fine anni Novanta». Seppellendo così, di fatto, la gara come mezzo ordinario di affidamento del servizio e di selezione del socio privato responsabile della gestione. «Sì, almeno fino alla riforma dello scorso anno e ancora più chiaramente a quella appena varata dal governo. L’ultima norma, infatti, dice chiaramente che la modalità ordinaria di gestione del servizio è l’affidamento tramite gara. Naturalmente, ci possono essere circostanze eccezionali in cui il ricorso alla gestione pubblica in house è giustificata. Anche perché, come dicevo all’inizio, le realtà locali e i servizi sono molto diversi l’uno dall’altro. È bene, però, che il ricorrere di tali condizioni eccezionali sia vagliato da un organo tecnicamente qualificato ed estraneo alle logiche politiche locali. Per questa ragione, è giusto che, riprendendo una soluzione contenuta nel ddl Lanzillotta, si assegni all’Antitrust il compito di verificare caso per caso la valenza effettiva delle condizioni economiche che giustificano il ricorso alla gestione pubblica in house. L’Antitrust, per svolgere bene questo compito, deve dare prova di efficienza amministrativa e di rigore nelle valutazioni tecniche. Ritengo pertanto che l’Autorità non debba approvare o respingere la scelta che l’ente locale intende assumere. Deve invece indicare chiaramente le criticità che quest’ultima eventualmente presenta, con la conseguenza di 202
esporre l’ente locale che non ne tenga conto nelle sue decisioni finali alle proprie responsabilità politiche e giuridiche, ad esempio in caso di successivo contenzioso amministrativo. Terzo e ultimo scopo che una buona riforma dei servizi pubblici locali dovrebbe perseguire? «Quello di una reale soddisfazione e tutela dei cittadini-consumatori. La loro protezione non può essere affidata solo al funzionamento del processo politico locale. Come pure sono troppo deboli, nonostante le prescrizioni a loro favore previste nella Finanziaria, le clausole dei contratti di servizio stipulati tra enti locali e gestori. Contratti viziati dal conflitto di interessi del Comune regolatore e allo stesso tempo azionista». Quali sono le soluzioni? «Secondo me, bisognerebbe riprendere l’indicazione recentemente fornita anche dal Governatore della Banca d’Italia: rafforzare la regolazione indipendente dei servizi pubblici locali. A tal fine, si dovrebbe estendere il raggio di azione delle autorità indipendenti nazionali già oggi esistenti e procedere finalmente all’istituzione di quell’Autorità per i trasporti di cui si sente gran bisogno anche per assicurare un’adeguata regolazione del trasporto aereo e di quello ferroviario. Soltanto così diventerà possibile recidere i legami impropri tra enti locali e gestori dei servizi; fissare benchmark comparativi e standard minimi, naturalmente tenendo conto delle differenze esistenti settore per settore; garantire il corretto funzionamento delle gare sul territorio, ad esempio attraverso il coinvolgimento dell’Autorità per i contratti pubblici nella predisposizione dei bandi di gara». C&P • GIUSTIZIA
Amministrativo • Aldo Loiodice
I delicati equilibri della Pa Trasparenza ed efficienza delle amministrazioni non sono solo parole d’ordine, ma obiettivi concreti da perseguire. Che richiedono, in quanto tali, strumenti adeguati e un’attenta riflessione normativa. Il professore Aldo Loiodice illustra le tendenze della giurisprudenza in materia, dal project financing alle nuove procedure d’appalto di Paolo Nobilio 204
Italia è, da sempre, il Paese della burocrazia, delle procedure, dei bandi pubblici. E anche se nella Pubblica amministrazione “la rivoluzione della trasparenza” è ormai iniziata, è evidente che molta strada rimane ancora da fare. Di questo processo, assai delicato dal punto di vista giuridico, gli enti locali possono fare da cartina di tornasole. Tanto dei progressi fatti quanto degli aspetti ancora in stallo. Il professor Aldo Loiodice, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bari e uno dei più insigni esperti italiani in materia amministrativa, riflette sull’attuale scenario e sui mutati equilibri tra pubblico e privato. Il rapporto tra amministrazione locale e centrale è un tema sempre molto dibattuto. Ritiene adeguato il modello delineato dal nostro attuale ordinamento? «Il modello italiano, originariamente regionale e contenente nell’art. 5 della Costituzione sollecitazioni verso forme di elevata autonomia, si è evoluto con la legge costituzionale 3/2001 verso un sistema quasi federale, passando così al regionalismo compiuto. La novella del 2001 è stata approvata, però, rapidamente e senza adeguata riflessione. Sono sorti, pertanto, giudizi di costituzionalità e conflitti di attribuzione e la Corte Costituzionale ha dovuto rileggere tale testo, riscrivendo in certi casi il modello costituzionale federale. In questo quadro, l’adeguatezza del sistema potrà essere raggiunta, nel tempo, con alcuni correttivi anche alla luce dei nuovi problemi che traspaiono, ad esempio, in tema di diritti umani e organizzazione sanitaria».
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C&P • GIUSTIZIA
Aldo Loiodice • Amministrativo
Aldo Loiodice, avvocato amministrativista, è professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Bari e di Diritto amministrativo presso l’Università europea di Roma. Nella pagina a fianco, la facciata di Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, a Roma
Il project financing è uno strumento rapido ed efficace, se vi è la volontà di giungere a conclusione C&P • GIUSTIZIA
Quali conseguenze concrete avrà il federalismo fiscale sugli enti locali, soprattutto al Sud? «Il federalismo fiscale, se ben attuato, verrà a responsabilizzare gli amministratori e renderà più partecipi i cittadini. Per la sua effettiva realizzazione, tuttavia, occorreranno molti anni. Quanto al Mezzogiorno, in prospettiva lo sviluppo è favorevole, anche se all’inizio potrebbe creare disagi. In ogni caso, per evitare che le regioni del Sud vengano depauperate, i prelievi fiscali dovranno essere collegati al territorio dove i redditi sono stati prodotti e non alla sede fiscale dell’imprenditore o, comunque, del produttore di reddito». Trasparenza è una delle parole d’ordine per una sana gestione della Pa. Al di là delle dichiarazioni programmatiche, quanto questo principio è stato effettivamente applicato sinora? «La legge 241/90 sul procedimento amministrativo, riconoscendo il diritto di accesso agli atti amministrativi, ha senza dubbio accentuato la possibilità di trasparenza nella Pa. Questo principio fondamentale, derivante dall’art. 97 della Costituzione, non è stato tuttavia interamente assimilato nella cultura e nell’azione amministrativa, specie dove le rendite di posizione di funzionari e operatori inducono a creare una certa opacità nel rapporto con i destinatari L’informatica potrebbe agevolare questo processo, ma anche qui l’effettiva trasparenza dipende da una serie di fattori: i criteri adottati per l’accesso, le modalità di memorizzazione e reperibilità dei dati, senza dimenticare la controllabilità della nuova “casta” di tecnici e imprese tecnologiche, che si occupano delle reti 205
Amministrativo • Aldo Loiodice
PIÙ FIDUCIA NELL’AUTONOMIA ra i molti interventi normativi della Regione Puglia nei quali Aldo Loiodice ha partecipato come consulente, una delle più importanti è la legge urbanistica regionale. «Varata nel 2001 – spiega il professore – la novella intendeva correggere alcuni aspetti della precedente legge 56/80, che senza dubbio ha contribuito a salvare gran parte del territorio pugliese, ma ha anche fatto sì che i Comuni si sentissero spogliati della loro autonomia». L’approvazione regionale avveniva, infatti, con molto ritardo e con notevoli modifiche delle scelte comunali. «La legge attualmente in vigore – chiarisce Loiodice – ha modificato la logica di ripartizione dei po-
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teri urbanistici concentrando le responsabilità in capo al Comune». E tuttavia, la sua applicazione è ancora in fase di rodaggio, «a causa forse della non completa fiducia della Regione nelle capacità di autonomia dei Comuni, sulle cui scelte continua a inserirsi, orientandole in maniera difforme da quanto i singoli consigli hanno deciso». È per questo, spiega Loiodice, che continua a prodursi contenzioso, come è avvenuto «per alcuni piani regolatori stravolti dall’ingerenza del settore urbanistico regionale, nonostante le indicazioni normative su autonomia, perequazione e distinzione delle scelte urbanistiche in strutturali e programmatiche».
e dei softwares da cui dipende, in ultima analisi, l’utilizzabilità dei sistemi informatici. Le difficoltà e i malfunzionamenti nei giudizi elettorali, i pubblici concorsi, le procedure di finanziamento alle imprese mettono a dura prova la trasparenza, aprendo uno scenario diverso da quello che l’informatica lascerebbe intravedere». Le gare di appalto sono procedure sempre molto delicate, soprattutto nelle regioni del Sud dove è sempre in agguato l’ombra di ingerenze illegali. Quali progressi normativi sono stati fatti in questo senso? «Con la normativa più recente le gare sono diventate più garantiste. Permettono infatti di escludere, con ragionevole attenzione, le infiltrazioni mafiose o criminali, consentono l’accertamento dei requisiti tecnici e finanziari economici e riducono il rischio di eccessiva discrezionalità nella aggiudicazione. Soprattutto, evitano la criticabile tendenza del passato ad adottare i cosiddetti “bandi-fotografia”, che individuano a priori il vincitore con richieste di requisiti posseduti o acquisibili soltanto da un concorrente già determinato. Il giudice amministrativo interviene su tali aspetti con molta efficacia e preparazione, anche applicando direttamente i principi europei della libera concorrenza, del favor partecipationis, ed eliminando le clausole vessatorie utilizzate per ridurre il numero dei partecipanti alle gare». In questi anni è molto frequente il ricorso al project financing. A quali aspetti giuridici bisogna fare più attenzione nel definire queste forme di finanziamento? C&P • GIUSTIZIA
Aldo Loiodice • Amministrativo
Il federalismo fiscale, se ben attuato, renderà gli amministratori più responsabili e più partecipi i cittadini
«A Bari e provincia con tale metodo sono stati realizzati grandi parcheggi pubblici, generando un elevato contenzioso, a cui il mio studio ha avuto modo di partecipare direttamente come difensore di alcuni Comuni. Ho così potuto verificare il grado di innovazione della normativa e della giurisprudenza in materia. Sono state ad esempio affinate le tecniche di valutazione dell’offerta e della successiva gara. Il project financing diventa in questo modo un percorso rapido ed efficace, se vi è la volontà politica e amministrativa di giungere a conclusione. La remuneratività del progetto è un profilo fondamentale, che da economico si trasforma in giuridico, in quanto condizione di ammissibilità dell’aggiudicazione. L’obiettivo è quello di evitare che, iniziati i lavori e realizzata l’opera, questa non possa essere ultimata ovvero utilizzata a causa del dissesto dell’aggiudicatario». Secondo molti osservatori uno dei settori su cui si concentreranno gli investimenti del pubblico in futuro è l’energia. Qual è la sua opinione a riguardo? «La produzione di energia da fonti alternative rinnovabili, oltre che avvantaggiare l’ambiente e l’economia nazionale, costituisce un vero business da non trascurare. La Pa non può limitare la libera concorrenza in tale settore, né può usare poteri di concessione, come il Tar Puglia ha stabilito in una chiara giurisprudenza. L’amministrazione può solo stabilire limiti a tutela dell’ambiente, escludendo i siti inidonei. Si può, in tal modo, ipotizzare che, se le amministrazioni locali e regionali non appesantiscono le procedure di autorizzaC&P • GIUSTIZIA
Nell’altra pagina l’avvocato Loiodice con i partners e i collaboratori dello Studio associato, che, oltre a Bari, ha sedi anche a Roma, Lecce e Milano; sopra, l’interno della facoltà di Giurisprudenza di Bari, dove Loiodice insegna
zione all’ubicazione di impianti di produzione energetica, il settore potrebbe avere uno sviluppo notevole». Negli ultimi anni in tutta Italia grandi investimenti sono stati indirizzati al settore della grande distribuzione. Quali problemi comporta per le amministrazioni locali gestire gli interessi di un così alto numero di soggetti? «La grande distribuzione ha spesso trovato ostacoli a livello locale nell’opposizione dei piccoli e medi commercianti, sia attraverso pressioni politiche che campagne di stampa o giudizi amministrativi, durante i quali si è proceduto a verificare la compatibilità urbanistica e ambientale, oltre che l’impatto economico e commerciale dei grandi impianti distributivi. Le amministrazioni possono, tuttavia, mediare i conflitti tra i molti interessi in gioco con adeguata professionalità, ad esempio attraverso la nuova formula degli accordi di programma. Sintomatici in Puglia, per quanto riguarda gli ipermercati seguiti dal nostro studio, i casi di Auchan a Casamassima ed Emmezeta a Fasano. Il primo è stato realizzato, senza contenzioso, con un procedimento amministrativo puntuale e articolato in fasi di graduale e successiva identificazione degli aspetti che avrebbero prodotto maggior conflitto. Il secondo è stato, invece, osteggiato notevolmente. Nei due casi le due problematiche erano identiche, ma la conflittualità è stata molto diversa. Di fronte a tale varietà di reazioni, è evidente che i problemi vanno affrontati con il criterio di prevenire l’impatto con l’ostacolo giuridico e territoriale, scegliendo soluzioni adeguate e compositive». 207
Amministrativo• Indebitamento degli enti
Tempi più brevi per i pagamenti della Pa Il problema dei tempi e delle modalità di pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni è fortemente avvertito dal sistema economico e produttivo: spesso dà luogo a un vero e proprio finanziamento del pubblico da parte dei privati. Il professor Fabrizio Criscuolo, ordinario di diritto civile nell’Università della Calabria, fa il punto della situazione di Federico Massari
a situazione dei debiti delle Regioni, soprattutto in relazione ai conti della sanità, determina, secondo recenti indagini, tempi di pagamento delle forniture e dei debiti scaduti mediamente superiori all’anno dall’emissione delle fatture. La domanda che si pongono tantissimi italiani, a questo punto, è questa: com’è possibile essere arrivati a tutto ciò? Il professor Fabrizio Criscuolo, ordinario di diritto civile nell’Università della Calabria e avvocato del foro di Roma, spiega, senza usare mezzi termini, che le cause del disastro sono molteplici e non facilmente individuabili. «Molte Regioni – spiega Fabrizio Criscuolo – hanno esposizioni, non sempre chiaramente accertate, nell’ordine di miliardi di euro. Esposizioni che richiederebbero pianificazioni di interventi drastici prolungati nel tempo. L’attuale media dei tempi di pagamento dei debiti, nella sanità pubblica, è nell’ordine di un anno dall’emissione delle fatture da parte dei fornitori». Ciò sta ineluttabilmente a significare che, nel Belpaese, esistono aree geografiche dove l’attesa può prolungarsi anche per due lunghi anni. «Qualunque fornitore – continua – anche il più solido, in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, non è in condizioni di attendere tanto tempo. Le ricadute negative sul sistema sono evidenti. Cresce, ad esempio, l’indebitamento delle aziende, purché il sistema bancario accetti di “scontare” crediti verso amministrazioni il cui rating alle volte è molto basso». Ma c’è dell’altro: «Sono noti i casi nei quali banche primarie si sono rifiutate di fattorizzare crediti verso alcune Regioni,
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lasciando il fornitore a sopportare, da solo, oneri e rischi di una situazione ormai insostenibile». Non vi è dubbio che in questo momento di recessione, il prezzo più alto lo pagano, come spesso avviene, le piccole e medie imprese: «Anche perché il sistema bancario – puntualizza Criscuolo – laddove accetta la cessione dei crediti pro solvendo, ne considera tuttavia aggravata la posizione debitoria, con ogni conseguenza sulle difficoltà di accesso al credito. Tutto questo dovrebbe far riflettere coloro che manifestano facili entusiasmi per la c.d. “privatizzazione dei servizi pubblici C&P • GIUSTIZIA
Indebitamento degli enti • Amministrativo
Il Professor Fabrizio Criscuolo, ordinario di Diritto Civile nell’Università della Calabria e avvocato del foro di Roma
Il problema dell’indebitamento delle amministrazioni è maggiormente avvertito con riferimento alle aziende sanitarie, ospedaliere e ospedaliere universitarie C&P • GIUSTIZIA
locali”». I costi dei servizi per gli enti locali – conclude – «non sarebbero facilmente sopportabili né onorabili in tale contesto, e gli operatori rischierebbero di incontrare difficoltà insormontabili». Recentemente il governo ha varato una norma tesa a ridurre i tempi del pagamento di debiti scaduti delle pubbliche amministrazioni. Secondo lei questa legge snellirà veramente i tempi di pagamento dei debiti? «Si tratta di un primo passo per accelerare le procedure di pagamento, evidentemente condivisibile e lodevole, anche se non sufficientemente incisivo ove non fosse accompagnato da una pianificazione accurata delle risorse da assegnare in concreto alle Amministrazioni più indebitate. Nel luglio di quest’anno, nel quadro degli interventi anticrisi contenuti nel c.d. decreto Tremonti ter, convertito nella Legge n. 102 del 3 agosto 2009, all’art. 9 sono stati apprestati meccanismi volti a garantire il sollecito pagamento di quanto dovuto dalle pubbliche amministrazioni per somministrazioni, forniture e appalti, prevedendo che le amministrazioni adottino, entro il 31 dicembre, opportune misure organizzative e introducendo una specifica responsabilità di carattere disciplinare e amministrativo del funzionario chiamato ad adottare provvedimenti che comportino impegni di spesa. La norma dispone inoltre che, se per ragioni sopravvenute lo stanziamento di bilancio non consenta di far fronte all’obbligo contrattuale, l’amministrazione è chiamata ad adottare le opportune iniziative di tipo contabile, amministrativo e contrattuale finalizzate a evitare la formazione dei debiti pregressi». 209
Amministrativo• Indebitamento degli enti
IL PROFILO ACCADEMICO E PROFESSIONALE ato nel 1962, il Prof. Fabrizio Criscuolo è Avvocato civilista in Roma dal 1988. È Professore ordinario di Diritto civile nell’Università della Calabria dal 2001, dopo aver ricoperto numerosi incarichi di insegnamento sin dal 1990 e dopo essere stato nominato Professore associato nel 1998. È stato autore di numerosi lavori monografici e studi sul diritto dei contratti, tra i quali si segnalano: “Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto” (Napoli, 1995), “L’autodisciplina. Autonomia privata e sistema delle fonti” (Napoli, 2000), “Diritto dei contratti e sensibilità dell’interprete” (Napoli, 2003), “Autonomia negoziale e autonomia contrattuale” in Trattato di diritto civile del Consi-
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glio Nazionale del Notariato (Napoli, 2009). È titolare in Roma di uno studio legale che assiste alcuni tra i maggiori operatori nazionali ed internazionali e che ha seguito diverse operazioni di privatizzazione (Alitalia-Air One-CAI), di cartolarizzazione di crediti di enti pubblici e privati per conto di Banche d’affari italiane e straniere nonché importanti contenziosi, anche arbitrali. È Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università telematica E-campus ed ha ricoperto numerosi incarichi di consigliere di amministrazione in Gruppi bancari ed industriali. È considerato un esperto, in particolare, nel settore dell’energia e dei trasporti nonché di arbitrato, anche nelle opere pubbliche.
Dove, secondo lei, il problema dei tempi e delle modalità di pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni è maggiormente avvertito? «Il problema dell’indebitamento delle amministrazioni è maggiormente avvertito con riferimento alle aziende sanitarie, ospedaliere e ospedaliere universitarie. Purtroppo, proprio queste amministrazioni, sono esplicitamente escluse dall’applicazione della norma, anche perché ricadrebbero per lo più nell’ambito di competenza delle Regioni». Le norme sulla contabilità dello Stato e degli Enti pubblici spesso sono il pretesto per creare appesantimenti e una evidente disparità di trattamento tra il “debitore comune” e il “debitore ente pubblico”. È così? «Certamente. Non è infrequente, nell’ambito di controversie in ordine all’accertamento di crediti nei confronti di Enti pubblici, sentirsi eccepire da questi ultimi che l’esigibilità e, talora, perfino l’esistenza stessa del credito, dovrebbe essere subordinata al perfezionamento delle procedure amministrative, che mettono capo all’appostamento materiale delle risorse negli strumenti contabili degli Enti. Si tratta di un’evidente anomalia, quasi che un debito esista o meno soltanto a seconda che il debitore l’abbia o no iscritto nelle proprie scritture contabili. Di qui l’evidente disparità di trattamento tra il debitore comune, per il quale l’iscrizione di un debito nella contabilità è solo uno dei tanti meccanismi di prova dell’esistenza dell’obbligo, e il debitore Pubblica Amministrazione, per il quale si vorrebbe che l’esistenza stessa dell’obbligazione civile dipendesse dalla previsione di un apC&P • GIUSTIZIA
Indebitamento degli enti • Amministrativo
Perché mai al debitore comune si può intimare il pagamento nei 10 giorni dalla notifica del precetto mentre, alla Pa, la legge impone di attendere ben 120 giorni?
posito capitolo di bilancio finalizzato a quel pagamento e dalla copertura di esso». La carenza di risorse per le pubbliche amministrazioni determina, nonostante le norme di derivazione europea sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali, un’anomalia assai grave. È così? «È fuor di dubbio che la sempre crescente previsione di “tagli” alle risorse destinate alle pubbliche amministrazioni, rischia di compromettere definitivamente la capacità delle medesime di operare secondo le necessità. La oramai endemica carenza di risorse fa sì che il contraente con la Pubblica Amministrazione deve sapere che il corrispettivo che gli spetta per la fornitura di un bene o di un servizio non potrà essere erogato nei termini previsti dalla normativa comune. In particolare, il riferimento è al D. Lgs. n. 231 del 9 ottobre 2002, con il quale, recependo una direttiva comunitaria, il Legislatore italiano ha stabilito in 60 giorni il termine massimo per l’adempimento delle obbligazioni nei rapporti commerciali in senso ampio (anche con le Pubbliche Amministrazioni), definendo altresì un tasso di interessi di mora particolarmente oneroso in caso di ritardo. Come è facile arguire, il danno per il sistema nel suo complesso è ineludibile, o se ne fa carico il fornitore, rassegnandosi, per continuare a lavorare con il pubblico, a finanziare l’amministrazione: ovvero la finanza pubblica, costretta, nel caso il privato avviasse un contenzioso per il recupero delle sue spettanze, a pagare sopportando tassi di interesse elevatissimi, il più delle volte senza che si possa imputare un danno erariale risarcibile». Nel caso in cui i creditori decidessero di rinunC&P • GIUSTIZIA
ciare alle forniture e di mettere in esecuzione i loro titoli di pagamento: cosa dovrebbe fare il nostro ordinamento? «La cosa più urgente è quella di eliminare le disparità di trattamento, retaggio di privilegi anacronistici, oggi inspiegabili. Perché mai, ad esempio, al debitore comune si può intimare il pagamento nei dieci giorni dalla notifica del precetto, e avviare l’esecuzione a partire dall’undicesimo giorno, mentre se è obbligata una Pubblica Amministrazione, la legge impone di attendere ben 120 giorni per l’inizio delle attività esecutive? Né si dica, come ha fatto in passato la Corte Costituzionale, che il termine più lungo trova giustificazione nell’esigenza di apprestare i necessari strumenti contabili, giacché, dopo l’introduzione della Tremonti ter, la Pubblica amministrazione è tenuta a svolgere questa attività organizzativa anno per anno in via preventiva». Se non si apprestano risorse adeguate e i necessari strumenti contabili, si potrebbe correre il rischio che le norme varate rimangano inattuate? «Si tratta di un rischio reale e purtroppo facilmente prevedibile nella congiuntura di una crisi che va ad aggravare lo stato di dissesto dei conti pubblici. È fuor di dubbio che si tratta di un intervento ispirato da finalità condivisibili. Ma non è che un primo passo: fintantoché le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli Enti locali non saranno dotati di risorse adeguate e fintantoché non saranno apprestati ed esercitati strumenti di pianificazione e controllo sulla spesa, sarà difficile sperimentare la ricaduta positiva dell’intervento governativo». 211
Famiglia • Maretta Scoca
La politica accenda i riflettori sullafamiglia Nucleo fondamentale di tutte le società civilizzate, la famiglia oggi appare al centro di una grave crisi. Per aiutarla a trovare un nuovo equilibrio occorrono serie riforme del diritto che ne regola gli istituti. L’avvocato Maretta Scoca spiega come intervenire di Marilena Spataro
Maretta Scoca è avvocato civilista e specializzata nel diritto della persona e della famiglia. Volto televisivo noto al pubblico per la sua partecipazione come giudice alla trasmissione Forum è stata parlamentare e dal 98 al 99 ha ricoperto l’incarico di sottosegretario al ministero della Giustizia
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n questi ultimi anni l’attenzione da parte della politica sul tema del diritto di famiglia sembra essersi affievolita, non andando più in là delle mere dichiarazioni, mentre quesiti vecchi e nuovi in materia premono urgentemente per ottenere risposte. Se in passato, infatti, le famiglie si basavano su una struttura patriarcale, spesso chiusa in se stessa, ma comunque in grado di trovare al suo interno la soluzione alle problematiche familiari, oggi non è più così. In anni recenti per far fronte alle esigenze di una nuova tipologia familiare riferibile al mutato contesto delle moderne società, sono stati effettuati parecchi interventi nel sistema giuridico italiano. Quello che però è mancato è una riforma organica dei vari istituti di diritto di famiglia. Maretta Scoca, avvocato civilista, specializzata nel diritto della persona e della famiglia e noto volto televisivo della trasmissione Forum analizza questo complesso universo legislativo. Come mai secondo lei questa scarsa attenzione della politica nei confronti del diritto di famiglia? «Effettivamente dopo la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso, non vi sono stati più interventi legislativi in materia. Io penso che ciò sia dovuto al fatto che stiamo parlando di argomenti sensibili, sui quali il parlamento potrebbe anche spaccarsi. Pure si tratta di una delle branche del diritto che maggiormente interessa i cittadini, che si trovano nella necessità di dovervi fare ricorso, nel caso di separazione o di divorzio. In tali evenienze si debbono affrontare e risolvere non solo le questioni patrimoniali, che
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C&P • GIUSTIZIA
Maretta Scoca • Famiglia
Dopo la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso, non vi sono stati più interventi legislativi in materia pure hanno il loro peso, ma anche i rapporti affettivi e quelli tra i vari membri della famiglia, sia essa legittima che di fatto. Purtroppo le crisi famigliari sono in continuo aumento e investono ogni aspetto della vita delle persone coinvolte». Quali sono i campi in materia di diritto di famiglia che maggiormente necessitano di attenzione da parte della politica e sui quali oggi occorre intervenire con estrema urgenza? «È urgentissimo modificare l’articolo 258 del Codice civile che prevede che il riconoscimento dei figli naturali, quelli nati fuori dal matrimonio, produca effetti solo nei confronti dei o del genitore che ha fatto il riconoscimento, ma non nei confronti dei parenti di questo. Praticamente questi bambini possono avere un padre e una madre, ma non hanno nonni, zii, cugini e altri parenti. Secondo me questa norma è anche anticostituzionale e fortemente discriminatoria». Da più parti si cominciano a reclamare in Italia tempi più brevi per il divorzio, sull’esempio di molti altri Paesi europei. Qual è il suo parere? «Penso che i tempi debbano essere accorciati, poiché i coniugi che si separano hanno già valutato che il rapporto coniugale è venuto meno. La legge ha previsto che i tre anni debbano servire a ponderare bene le conseguenze di un divorzio. Ma è una finzione giuridica, perché la valutazione è già stata fatta». Le sue critiche riguardo al meccanismo degli aliC&P • GIUSTIZIA
menti e degli assegni di mantenimento nei casi di separazione sono note, avendo anche suscitato qualche polemica. Perché e come questo meccanismo andrebbe corretto? «In realtà, rispetto al meccanismo degli assegni di mantenimento o di contributo al mantenimento, i criteri sono giusti sulla carta. Quello che io dico è che spesso vengono applicati male. C’è poi un atteggiamento del coniuge economicamente più debole a cercare di spremere il più possibile dall’altro coniuge. Con la conseguenza che quest’ultimo spesso viene depauperato e messo in difficoltà economiche». Alla carriera forense lei ha alternato l’impegno in politica come parlamentare per alcune legislature, ricoprendo dal 98 al 99 anche l’incarico di sottosegretario al ministero della Giustizia. A suo parere la situazione della giustizia italiana da allora a oggi come si evoluta? «Come sottosegretario alla Giustizia ho presieduto una Commissione per la riforma del diritto di famiglia, alla quale hanno partecipato i più qualificati giuristi in materia. Purtroppo è rimasta chiusa in un cassetto. La situazione giustizia in generale in Italia è sotto gli occhi di tutti ed è eccessivamente lenta e imbrigliata in lacci e lacciuoli. Si dovrebbe snellire e renderla più aderente alla realtà». Come giudica le riforme del sistema giudiziario cui oggi si sta dando corso? «Bisogna aspettare per poterle giudicare seriamente». 233