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VISTI DA VICINO
PROFESSIONE AVVOCATO
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QUARANT’ANNI TRA LE AULE
Un penalista deve avere intuito. Sensibilità. E prestare grande attenzione a ogni particolare. Gaetano Pecorella ripercorre la sua carriera. Tra ricordi, riflessioni e scelte importanti di Giusi Brega
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«Non era nei miei propositi diventare avvocato. Il mio sogno era fare lo psichiatra». Parole che hanno un suono insolito se a pronunciarle è Gaetano Pecorella, deputato azzurro e penalista milanese il cui nome è legato ai grandi processi del nostro Paese: da Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din al caso di Patrizia Gucci, dalla difesa di Renato Squillante prima e di Silvio Berlusconi poi, passando per cause di uomini e donne che, nel bene e nel male, sono stati protagonisti della storia processuale degli ultimi quarant’anni. La voce narrante non è quella dell’avvocato i cui toni severi e perentori risuonano nelle aule di tribunale. Ma è la voce pacata e sincera dell’uomo che, guardandosi indietro, coglie l’occasione per riflettere sul suo ruolo professionale che non si perfeziona solo nell’applicazione sistematica delle leggi, ma che si alimenta anche di una forte componente emotiva. Il risultato di questo connubio è ciò che egli stesso definisce «intelligenza forense», caratteristica che individua nei grandi giuristi del secolo scorso, da Gian Domenico Pisapia, il “grande vecchio” della Procedura penale italiana, a Giacomo Delitala, riconosciuta icona di diverse generazioni di penalisti. «Maestri di vita e di pensiero – sottolinea Pecorella – cui devo tutto quello che ho imparato dal punto di vista professionale e umano». Quali sono le competenze che un bravo avvocato deve possedere? «La prima regola per essere un buon avvocato è lo studio. Ogni processo deve essere esaminato nei dettagli. Senza tralasciare nulla. È stato Gian Domenico Pisapia ad insegnarmelo. “Devi leggere anche la copertina” mi ripeteva sempre. Perché solo se hai una visione globale e completa dei fatti puoi svolgere al meglio il tuo lavoro. Un’altra dote importante è l’umiltà. E fin troppo spesso noto come alcuni avvocati, soprattutto penalisti, assumono in aula un atteggiamento arrogante. Ma quando si ha in mano il destino di un essere umano non ci si può permettere il lusso di pavoneggiarsi con la toga». Esistono anche delle caratteristiche innate? «Sì. Innanzitutto l’intuito. Inteso come la capacità di capire chi hai di fronte: il tuo cliente, il giudice, i testimoni. Poi viene la correttezza nei confronti del magistrato: perché un avvocato
corretto sarà rispettato e, con lui, saranno rispettate le sue tesi. Per quello che mi riguarda, curo molto il rapporto personale con coloro che assisto, perché sono consapevole che spesso i miei clienti non hanno semplicemente bisogno di una difesa tecnica ma anche, o soprattutto, di sostegno e comprensione in un momento così delicato della loro vita». Sembra riaffiorare il suo interesse per la psiche umana. Come mai ha deciso di dedicarsi all’avvocatura abbandonando la sua prima vocazione, quella di diventare psichiatra? «Terminato il liceo classico mi iscrissi alla Facoltà di Medicina. Avevo un’idea “romantica” di questa professione, idea che si è scontrata inesorabilmente con la realtà. Il mondo della Medicina implica un certo distacco nei confronti dell’essere umano, giustificabile con il fatto che un medico, per svolgere al meglio il suo lavoro, non deve essere emotivamente coinvolto. Ma questo atteggiamento era insopportabilmente lontano dal mio modo di essere. Per questo motivo abbandonai Medicina e mi iscrissi a Giurisprudenza. Una materia che mi avrebbe comunque consentito di restare in contatto con le problematiche dell’uomo». Il suo nome oggi è legato a cause di rilevanza nazionale. Eppure la sua carriera è iniziata in sordina. «Dopo la laurea a pieni voti in diritto penale nel 1963 decisi che, per un po’, il mio mondo sarebbe stato quello dell’università. Ho fatto il ricercatore per qualche anno e, nel 1970, sono diventato Professore di ruolo. Ho insegnato a Milano, sia all’interno della Facoltà di Giurisprudenza che in quella di Scienze Politiche». Come è avvenuto il passaggio dalle aule dell’università a quelle dei tribunali? «Iniziai l’attività professionale spinto da due episodi, entrambi di natura politica, che mi toccarono molto da vicino. Un mio amico avvocato si ritrovò erroneamente coinvolto nel processo che seguì la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Mi sentii in dovere di patrocinare la sua difesa e ottenni la piena assoluzione. L’altro avvenimento riguardava la vicenda di un mio studente colpito a morte durante una manifestazione.
A sinistra, Gaetano Pecorella. Classe 1938, l’avvocato milanese si è laureato a pieni voti in diritto penale nel 1963
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La sua famiglia mi chiese di occuparmi del caso. Così vestii la toga e iniziai la mia carriera da penalista». Una carriera molto intensa. «I primi anni mi dedicai soprattutto a processi legati a questioni di principio, reati politici, sulla libertà di stampa, sul diritto di contestazione. Poi arrivarono i grandi casi come quello di Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din. La difesa di Renato Squillante prima e di Silvio Berlusconi poi e, oggi, quella di Danilo Coppola. Ma ho anche preso parte a processi contro le cosche mafiose e a casi di sequestri di persona». Cosa ricorda con maggior soddisfazione di quei tempi? «La possibilità che ho avuto di confrontarmi con alcune persone protagoniste di gravi reati. Erano gli anni del terrorismo ed ebbi modo di aprire con loro una sorta di “dibattito costruttivo” sull’errore storico di queste forme di violenza fine a se stessa. E vedere che per alcuni di loro è stato possibile dissociarsene. Questo è stato il periodo più bello dal punto di vista umano». Cos’è cambiato da quando era un giovane
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avvocato? «A quei tempi difendevo studenti e, in generale, persone che si erano macchiate sì di reati odiosi, ma credendo in un ideale. Adesso i criminali operano con cinismo, con una crudeltà che non trova alcuna giustificazione, nemmeno nella loro mente. Non c’è più rispetto per l’essere umano». Qual è stato l’ultimo processo che le ha dato un’emozione forte? «La difesa di Patrizia Reggiani, accusata di essere la mandante dell’omicidio del marito Maurizio Gucci. Era un processo in Corte d’Assise e la tensione era palpabile. Minuto dopo minuto, si materializzava la possibilità di una condanna o dell’assoluzione, di un ergastolo o di una pena minore. Un altro processo davvero straordinario dal punto di vista emotivo è stato quello in cui difendevo Ovidio Bompressi accusato dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Lì ho avuto la piena consapevolezza di come un intervento giusto o sbagliato possa cambiare le sorti di un processo». Quest’ultima è una riflessione che si può estendere anche nei confronti di chi la
Foto di Augusto Casasoli/A3/Contrasto
giustizia la deve applicare? «Noto con rammarico che i magistrati, dimenticandosi che hanno nelle loro mani la vita di un uomo, non si preoccupano di andare oltre i fatti. Non cercano di capire chi hanno di fronte, di comprendere le motivazioni del gesto criminale, mostrando indifferenza. Lo stesso codice penale prevede che un magistrato approfondisca la personalità di un imputato, che gli chieda cosa facesse prima di commettere il reato, che racconti quali fossero i suoi rapporti con la famiglia, con gli amici. Un magistrato deve preoccuparsi di conoscere chi sta giudicando. Ma oggi questo atteggiamento è una rarità». Cosa la affascina maggiormente del lavoro della professione? «Capire. Capire per convincere e per vincere». Qual è, invece, l’aspetto che le piace meno? «Il momento in cui viene letta la sentenza. Ancora oggi quando arriva la lettura del verdetto, in modo un po’ vigliacco invento una scusa per abbandonare l’aula. Per me è un momento molto stressante. E la motivazione mi è molto chiara: in quel momento si decide la vita di un essere umano. Non si può restare indifferenti». C’è una difesa del passato che le sarebbe piaciuto assumere? «Tutti i grandi processi in Corte d’Assise, quelli che ormai non ci sono più. Negli anni ho avuto modo di prendere parte ai processi storici come
quello riguardante la strage di Piazza della Loggia o quella di Piazza Fontana. Una difesa che mi sarebbe piaciuto assumere? Sicuramente quella de L’Espresso accusato di aver incolpato il generale Giovanni De Lorenzo di tentato golpe. Una difesa assunta proprio da Gian Domenico Pisapia. Si trattava di un processo che esaminava a fondo i lati oscuri del nostro Paese e ne rimasi affascinato. Ma all’epoca ero solo un giovane neolaureato». Ci sono casi in cui si è rifiutato di difendere un cliente? «Ho una regola. Non assumo la difesa di una persona se non sono profondamente convinto della sua innocenza. Ci sono alcuni reati che mi ripugnano, soprattutto se coinvolgono donne e bambini. E se dovessi difendere una persona di cui dubito, non svolgerei bene il mio lavoro perché in fondo, una parte di me, vorrebbe che fosse condannata. In quei casi preferisco lasciare la difesa a un collega». Alla soglia dei 70 anni, guardandosi indietro, cambierebbe qualcosa nella sua vita professionale? «Se potessi tornare indietro, interverrei sulle cause alle quali non ho prestato sufficiente attenzione e su quelle in cui, al contrario, mi sono fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo. Ma questa è la vita. E, a ben guardare, non ho alcun rimpianto».
Nella pagina a sinistra, un’altra immagine di Gaetano Pecorella. Sopra, il penalista milanese in compagnia di Silvio Berlusconi
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