Gioacchino Sbacchi

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L’INCONTRO

STORIA & PROCESSI

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L’UNICA VERITÀ SI LEGGE NELLE CARTE


Cos’è la giustizia? Esiste un’oggettività, al di là delle aule di tribunale. E quali sarebbero le riforme necessarie al sistema? Una chiacchierata con Gioacchino Sbacchi di Elettra Bianchi

A

I grandi processi. Quelli che dalle aule di tribunale passano senza possibilità di appello alle corti televisive. Per prendere il largo, e sbarcare in qualsiasi oasi più o meno domestica, veleggiando sui fiumi di inchiostro dei quotidiani o finendo nelle maglie di internet. Ma quali e quante sono state le stagioni dei grandi processi, in Italia? E chi sarebbe in grado di ricordarne qualcosa al di là di condanne, opinioni e assoluzioni consegnate alla memoria collettiva attraverso pezzi di cronaca? Non si tratta degli infiniti dibattimenti condotti fuori dalle aule di giustizia, ma delle pretese disquisizioni sulla giustizia stessa. Magari, sulle sue forme processuali. Gioacchino Sbacchi, penalista palermitano iscritto dal 1987 all’Albo speciale degli avvocati annessi al patrocinio dinanzi alla Corte di Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori, con una lunga e densa carriera in molti processi eccellenti e come Presidente della Camera Penale di Palermo, proprio a questo proposito ha affermato ai microfoni: «Le verità processuali non sono le verità in assoluto». E non lo ha detto in un momento a caso: era l’indomani dell’ultima sentenza in Cassazione per Bruno Contrada. Avvocato Sbacchi, è possibile ricostruire la storia d’Italia a partire dai grandi processi? «È una bella pretesa volere riscrivere la storia del Paese attraverso i grandi processi come, per esempio, quello a Giulio Andreotti. Penso che sia un’idea sbagliata, meglio non farlo proprio. Ho avuto un impatto violento con un libro, La vera storia d’Italia, che è in effetti una sintesi del materiale raccolto sul processo a carico del senatore a vita. Ciò che mi sgomenta è che gli autori trattano la materia come se nell’aula bunker fosse stato possibile rintracciare tutta la trama e l’ordito di complotti, assassinii e collusioni tra i poteri forti di un certo periodo della Repubblica. Invece la trattazione non è completa, perché il materiale è unilaterale: il Procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli e i suoi Pm propongono una loro visione e una valutazione personale del materiale raccolto che è solo una

parte della storia. A monte di tutto questo c’è poi una tesi che considero molto fuorviante, quella che io chiamo l’idea del “grande vecchio” che muove le fila. La mafia non è questo ma un’organizzazione criminale il cui apparato tiene in scacco lo Stato. Lo sbaglio sta nella pretesa di uscirne dando un giudizio politico. È questo che io riassumo nell’errato concetto sincretico del grande vecchio». Come si è formato in lei il concetto di giustizia? «Io non ho una tradizione familiare nell’avvocatura. Mio padre era un commerciante che ha allevato quattro figli, insegnandomi il lavoro e la dedizione assoluta. Mi ha dato una scala di valori, sui quali ho costruito con entusiasmo giovanile il mito dell’uomo libero che tutela con ogni mezzo l’ideale di libertà di cui è portatore. E l’ho identificato con la figura dell’avvocato. Io non ho mai pensato di fare il magistrato. Attraverso l’ammirazione per le figure di incomparabili professionisti del secolo scorso, il mio entusiasmo ha continuato ad alimentarsi. Penso a Francesco Carnelutti e ad Alfredo De Marsico, impareggiabili personaggi che hanno onorato l’avvocatura in Italia, scrivendone la storia. Ecco, così è nata l’idealità giovanile del sistema di giustizia, coltivata attraverso le letture e lo studio universitario. Ma, già dal secondo anno di università, la teoria si è congiunta alla pratica: sono entrato nello Studio di Paolo Seminara, che posso considerare il mio maestro, per confrontarmi il prima possibile con la realtà». Quali sono state le difficoltà che ha incontrato nel lavorare a Palermo? «Inizio o fine carriera, a Palermo o a Torino, lo studio delle carte è alla base di tutto. Bisogna leggerle, dalla prima all’ultima. Quando ho iniziato, l’avvocato stava in cancelleria e schizzava appunti personali, apprendendo nell’immediato tutte le fasi del processo con le relative mancanze e storture. Il mio maestro mi ha insegnato a essere come lui: uno studioso rigoroso ed estremamente severo con se stesso. Sono arrivato co-

A sinistra, l’avvocato Gioacchino Sbacchi, penalista di Palermo. Con la difesa di Giulio Andreotti nel processo Pecorelli ha aperto la strada alla carriera dell’avvocato Giulia Bongiorno

«Tutta la strutturazione del processo penale andrebbe rivista. Posso dire che il caso Contrada ha rappresentato la somma algebrica delle nostre peggiori deformazioni processuali».

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L’INCONTRO Sotto, Sbacchi con il collega Franco Coppi. Con lui ha difeso il senatore Andreotti. Nell’altra pagina, l’avvocato durante un convegno a Palermo

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sì al mio primo processo». Ipotizzando un “punto di vista siciliano”, quale immagine di Palermo verrebbe fuori dalla storia processuale locale? «Siamo in una regione che non ha visto direttamente gli effetti del terrorismo e del Sessantotto. Gli anni Settanta segnano in Sicilia l’attenzione della magistratura inquirente per la Cosa pubblica, quindi sono i reati contro la Pubblica Amministrazione a essere all’ordine del giorno, sommando gli aspetti contingenti del “posticino garantito per il figlio” alle distorsioni vere e proprie, come il sacco di Palermo: migliaia di licenze concesse in pochi anni per costruire palazzoni al posto delle splendide ville Liberty del centro cittadino. Ma i processi nella sostanza non ebbero grossi risultati: qualche condanna per corruzione e basta. Mentre fu proprio da questo episodio che il fenomeno mafioso cominciò a crescere in modo spaventoso. Palermo ha conosciuto sindaci che facevano i propri affari, tanti processi e pochi risultati. Spesso si è confuso il giudizio

politico con quello penale, senza ottenere niente sul piano della giustizia». In tutto questo si intuisce una incrinatura di fondo. «In Sicilia si sono sempre pagate le spese della sottovalutazione della mafia e delle strutture inadeguate per combatterla: le commissioni antimafia non hanno risolto niente. Si riteneva, secondo una sconsiderata scelta di politica criminale, che i mafiosi si uccidessero tra loro. Quindi si rimaneva quasi a guardare. Poi nel 1969 la strage di viale Lazio ha svegliato tutti e i fatti degli anni Settanta e Ottanta hanno aperto il sipario sul vero palcoscenico siciliano. Nascono i primi processi di mafia, ma la risposta giudiziaria continuava a essere una lotta contro i mulini a vento: processi su prove articolate su rivelazioni di confidenti e sforzi inauditi da parte delle forze dell’ordine. Ho visto queste cose da vicino. Ho assunto la difesa nel processo alla strage di viale Lazio e ho fatto anche il cosiddetto processo ai 114, prima svolta epocale nei pro-


cessi di mafia. L’idea brillante venne però al giudice Falcone, durante gli anni Ottanta, quelli del delirio di onnipotenza mafiosa. Il denaro lascia traccia e allora si possono ottenere prove attraverso la ricostruzione dei rapporti fra i vari soggetti basati proprio sui passaggi di denaro individuati». Venendo alla professione, a che punto pensa possano spingersi le indagini dell’avvocato? «Le indagini difensive passano spesso attraverso i consulenti, in caso di necessità bisognerebbe quindi assicurarsi livelli di consulenza altissimi. L’imputato lo può sempre sostenere questo sforzo economico? Non si può guardare alle indagini difensive come al toccasana, il Pubblico ministero dispone di mezzi smisurati e può assicurarsi immediatezza di risposte a qualsiasi livello di qualità. Pensiamo poi che se il Pm convoca una persona informata sui fatti, questa è obbligata a rispondere, mentre può rifiutarsi di farlo nei confronti dell’avvocato. Nella pratica, non c’è comunque condizione di parità tra le parti. Io penso che il sistema giudiziario presenti delle distorsioni. Un’indagine preliminare, per come è congegnata oggi, è la visione particolare del Pm: una raccolta di carte che segue un determinato percorso, il quale di sovente si traduce in una richiesta di provvedimenti cautelari. Credo che occorra intervenire proprio sull’indagine preliminare, perché si assicuri la difesa al di là di quelli che sono gli atti cosiddetti assistiti, i soli a cui può partecipare il difensore. Il Pm può svolgere fino a due anni di indagini, senza che nessuno sappia niente e può chiedere l’arresto a seguito di un’attività svolta nel segreto più assoluto». Lei cosa modificherebbe? «Se il Pm conduce alcune indagini rispetto alle quali il giudice non conosce nulla o quasi, sarei dell’opinione che non sia il Gip a dover emette-

re il provvedimento cautelare, sommerso all’improvviso da un oceano di carte da vagliare in tempi brevi. Situazione ardua per effettuare un controllo a tutela del cittadino, spesso accusato di reati gravissimi che postulano interventi immediati. I Gip sono oltretutto in rapporto numerico di inferiorità, a Palermo sono una decina a fronte di più di settanta magistrati. È mia opinione che la materia della custodia cautelare debba essere riformata. Il provvedimento di restrizione della libertà a garanzia del cittadino indagato dovrebbe essere sottratto al Gip e affidato a un tribunale diverso da quello del riesame, cioè un organo collegiale non condizionato dalle tempistiche». E quali riforme proporrebbe? «Penso che sia necessaria una riforma per temperare i poteri assoluti del Pm e che vada anche rivisitata la materia delle prove. Nell’ordinamento processuale è stata introdotta una sorta di prova legale in materia di dichiarazioni rese da coimputati, collaboratori di giustizia nella quasi totalità dei casi. Questa si presta a valutazioni soggettive e illiberali con quanto ne consegue sul piano della giustizia sostanziale. Comunque è proprio tutta la strutturazione del processo penale che andrebbe rivista. Posso dire che il processo Contrada è stato proprio la somma algebrica delle peggiori deformazioni processuali. Se si creano regole di valutazione della prova per cui basta la somma di dichiarazioni inutili, inconsistenti, per determinare la colpevolezza di un cittadino, è chiaro che si possa soccombere. Penso che sia anche necessario dare attuazione ai principi fissati dall'articolo 111 della Costituzione, dalla tutela del contraddittorio alla garanzia del diritto alla prova, fino all’effettivo esercizio del diritto di difesa e della parità delle parti. Tutto questo è però rimasto lettera morta»

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