Gianpiero Samorì

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FINANAZA

PRIMO PIANO

LE NORME ESISTONO ORA APPLICHIAMOLE Il nostro diritto societario sta al passo con quello degli altri Paesi. Il problema è, quindi, di natura attuativa. L’analisi di Gianpiero Samorì, fondatore di Modena Capitale Holding di Daniela Panosetti

N Nella foto, Gianpiero Samorì, 50 anni, avvocato modenese e fondatore di Modena Capitale Holding

Negli ultimi anni, in Italia, il diritto societario ha subito evoluzioni talmente incisive da colmare ogni deficit nei confronti degli altri Stati. «È chiaro – spiega Gianpiero Samorì, avvocato modenese – che le linee di aggiornamento normativo sono in una certa misura dettate dai Paesi anglosassoni, più pronti dell’Italia a recepire i mutamenti in un quadro di capitalismo e terziario avanzato». Ma, nel nostro Paese, non è il livello di adeguamento a essere in questione. Il sistema tiene. È la sua applicazione pratica a creare qualche problema, a causa di una macchina della giustizia che nel complesso appare arcaica rispetto agli altri Paesi. «Basti pensare – spiega Samorì – che in Germania la Cancelleria è in grado, su richiesta del legale, di inviare direttamente allo Studio una copia stenotipata e fedele delle deposizioni. Un metodo sicuramente più efficace di una verbalizzazione stringata e magari filtrata dalla lettura del magistrato che l’ha redatta». La normativa italiana insomma è efficace, solo che scontiamo ancora un eccesso di burocratizzazione. «Esatto. Questo vale anche per il campo societario e finanziario. Si pensi solo alla quantità

di firme e agli allegati necessari alla stesura di un contratto con una banca: il rischio, paradossalmente, è che le troppe tutele rimangano solo ed esclusivamente cartacee. Meglio sarebbe per il cliente avere diritto a poche informazioni fondamentali, di immediata comprensione, invece di faldoni di pagine che poi nessuno legge davvero». Si tratta di un problema applicativo, dunque. «È senz’altro una questione pratico-attuativa a cui si aggiunge un problema in termini di professionalizzazione e formazione. Fino al 1994 circa, da un punto di vista prettamente sociologico, eravamo una nazione di BOT e CCT, con servizi finanziari davvero elementari e, di conseguenza, un numero molto ridotto di addetti. Oggi nel settore sono entrati decine di migliaia di operatori, spesso senza una preparazione sufficiente. Occorre poi considerare l’estrema varietà del territorio italiano, segnato da una diversa distribuzione di interessi che, com’è ovvio, influisce sulla formazione dei giuristi. Materie come il diritto societario sono trattate da un numero ristretto di legali. Sono materie di nicchia che, non a caso, non

compaiono mai come temi nei concorsi nazionali di abilitazione». Quanto ha influito invece la sua lunga esperienza legale nell’avvio di Modena Capitale Holding? «Molto. I profili legali sono fondamentali, oggi, nel promuovere iniziative di questo tipo, considerando che anche in Italia, da questo punto di vista, ci sono barriere d’ingresso piuttosto forti. Nel caso di una holding di partecipazioni, ad esempio, occorre l’autorizzazione dell’Ufficio Italiano Cambi. Per una compagnia di assicurazione, serve un processo autorizzativo all’Isvap, così come per istituire un fondo o una nuova banca. Ogni strumento operativo è retto da un proprio regime fiscale e di pubblicità, occorre dunque scegliere il più adeguato, capirne i pro e i contro: una serie di valutazioni giuridicofiscali che segnano in modo determinante il percorso dell’iniziativa». Come si presenta concretamente il programma di intervento? «La stessa scelta di un’articolazione in subholding operative spiega già qual è il programma di attività: intervenire nella realtà economica modenese e re-

«Nel mondo bancario si sono favorite fusioni verticali, ma è stato un errore storico: sarebbe stato preferibile invece promuovere fusioni orizzontali, con un allargamento del livello territoriale»

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FINANZA A destra, Samorì durante un convegno insieme a Emilio Fede, direttore del Tg4

gionale, ma in prospettiva anche nazionale, coprendo i vari settori tradizionali di investimento, senza tuttavia confonderli. Pur senza operare direttamente, la holding è in grado di finanziare attraverso un proprio patrimonio le iniziative sottostanti che poi si fanno carico dei singoli investimenti. Abbiamo una società che si occupa solo di investimenti nel campo assicurativo, proprietaria a sua volta di Assicuratrice Milanese e una società di stabili partecipazioni attiva nel settore bancario, con una grande partecipazione nella Banca Popolare dell’Emilia, in Veneto Banca e in Banca Modenese. A questo si affianca una sezione dedicata al real estate che può già

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contare su un significativo patrimonio immobiliare e infine una società che si occupa di investimenti industriali, orientata in particolare verso le energie alternative e rinnovabili. L’ultima subholding, Modena Capitale Finance, è volta invece all’ottimizzazione gestionale della finanza del Gruppo». Il settore bancario è sempre più caratterizzato da grandi fusioni e acquisizioni. Da un punto di vista giuridico, quali sono gli aspetti più interessanti di queste operazioni? «Innanzitutto, in questi casi è necessario un confronto costante con le Authority, come Banca d’Italia e Isvap. Per quanto riguarda le assicurazioni, dispongono di normative effi-

cienti ma anche di profili autorizzativi tecnicamente complessi e basati su concetti come quello di sana e prudente gestione che talora sfuggono agli avvocati i quali devono conferire loro un contenuto specifico. Se si considera poi l’elevatissima professionalità degli interlocutori, si capisce come tutto ciò rappresenti uno vero e proprio stimolo intellettuale, una forte spinta adrenalinica per la mente giuridica». A livello legale, quali sono le tappe necessarie per arrivare a una fusione virtuosa tra banche? «I passaggi critici sono di natura non tanto giuridica, quanto piuttosto giuridico-imprenditoriale. In primo luogo occor-


UNA HOLDING PER CREARE RICCHEZZA Modena Capitale Spa è nata come strumento di aggregazione delle migliori energie finanziarie e imprenditoriali di Modena e provincia. L’obiettivo è rendere possibile un’attiva partecipazione ai processi di redistribuzione della ricchezza e del potere economico. Si tratta di una holding costituita da cinque business unit, con forma di Spa, dedicate ai settori bancario, assicurativo, real estate, industriale e investimento finanziario. Partendo dalla salvaguardia delle aziende modenesi, la holding nel tempo punta ad assumere un ruolo di player significativo nel mondo economico-finanziario nazionale. E le risorse per raggiungere questi obiettivi non mancano. Nei primi mesi di attività, la holding ha già realizzato un aumento di capitale, cosicché al 30 giugno 2007 i mezzi patrimoniali ammontavano a oltre 149milioni di capitale sociale, oltre ad altri 10milioni di sovrapprezzo azioni e utili non distribuiti.

re un progetto industriale che trovi il gradimento di due Consigli di amministrazione e che, in secondo luogo, trovi l’adesione degli organi di vigilanza, in quanto effettivamente rispondente al principio di sana e prudente gestione. Terzo passaggio è che il progetto sia condiviso dalla base sociale, per evitare situazioni di recesso a cui ogni socio ha diritto e che, com’è ovvio, potrebbe impoverire il capitale della banca. Al di fuori di questi tre presupposti, l’iter procedimentale è abbastanza semplice: bisogna presentare domanda alla Banca d’Italia, i Consigli di amministrazione devono approvare il progetto di fusione, nell’ambito del quale sono previsti i conguagli, le va-

lutazioni delle azioni e i correlativi valori di concambio, per stabilire quante azioni a fusione avvenuta spetteranno a ciascuno dei soci e quindi, in sostanza, quanto “vale” ciascuna delle due banche interessate. Infine, dopo la convocazione dell’assemblea straordinaria, si attende l’autorizzazione definitiva di Bankitalia». Quali opportunità e quali problemi può prefigurare un’operazione del genere? «In Italia sembra non esserci spazio per le vie di mezzo. Anche per quanto riguarda il settore bancario, se si considera che siamo passati da un sistema piuttosto stretto e rigido, con una presenza sul territorio molto forte e innervata, a una realtà di aggregazione, se non addirittura di cannibalizzazione di aree geografiche. Una trasformazione che, allontanando i centri decisionali dalle aree locali, le ha impoverite. In altri termini, si sono favorite fusioni verticali verso i livelli più bassi. Ma è stato un errore storico: sarebbe stato preferibile promuovere fusioni orizzontali, con un allargamento del livello territoriale. Del resto, quello della banca regionale, efficiente ma limitata nel proprio spettro di attività,

è un modello vincente in tutto il mondo, soprattutto quando vi si sovrappone il modello della banca di nicchia, iperprofessionalizzata e iperspecializzata, capace di intercettare istanze specifiche nel proprio territorio». In Italia quali ricadute ha avuto questo processo? «Abbiamo assistito a una vera e propria desertificazione degli scenari locali. Quasi tutte le banche sono confluite in realtà nazionali, con la conseguente creazione di una fisionomia ambigua: troppo grandi per essere solo italiane, ma troppo piccole per imporsi come player internazionali. A questo si aggiunga che la ricerca di massa e operatività a tutto campo ha portato anche le banche intermedie a imitare quelle grandi nel voler ad esempio accompagnare i propri operatori all’estero, garantire loro un settore private e così via. Uno spreco di risorse, dal mio punto di vista. Più che tentare di inseguire i modelli nazionali, una banca regionale dovrebbe puntare su altri vantaggi competitivi. Questo è quello che vedo come modello vincente e che credo che sarà quello che tornerà ad esistere nel prossimo futuro». 41


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