PROTAGONISTI
TRA LE AULE
CORAGGIO A COSTO DELL’ IMPOPOLARITÀ Alfredo Biondi ha sempre avuto l’istinto alla difesa. Anche da ragazzo. Oggi riveste il ruolo di avvocato e di senatore. Con la sincerità, la determinazione e l’ironia che tutti conoscono di Lara Mariani
F Alfredo Biondi, 59 anni, è stato ministro della Giustizia del primo Governo Berlusconi. È avvocato penalista e senatore
Forse è l’unico segretario politico che ha vestito la toga per fare una causa contro la mafia. Forse un po’ per le sue idee politiche, un po’ per via del suo carattere e del coraggio professionale si è “guadagnato” la condanna a morte da parte delle Brigate Rosse. Ha cominciato molto presto a lottare per la giustizia: «Ero ancora un bambino». E oggi, la lista di tutti i casi di importanza nazionale seguiti dall’avvocato Alfredo Biondi è davvero infinita. L’aggiotaggio del Banco di Sicilia. Il processo contro le Brigate Rosse, in difesa del maresciallo Felice Maritano. La difesa dei figli del generale Dalla Chiesa, assunta quando era anche segretario nazionale del Partito Liberale. E poi ancora il processo di Piazza Fontana, dove difendeva due fratelli uccisi e un ragazzo che perse la gamba. Ma il suo caso più noto, forse, è quello della “Mantide” Gigliola Guerinoni, condannata per l’omicidio del suo ex amante Cesare Brin. «Quando i processi vanno male la sofferenza è enorme, quasi incomprensibile per chi non fa questo mestiere. Spesso gli av-
vocati sono considerati come dei jukebox: gli metti la moneta dentro e cantano. Ma non è affatto così». Alfredo Biondi è un uomo allegro, capace però di improvvise arrabbiature e rapidi silenzi. È stato ministro della prima repubblica e della seconda, vicepresidente della Camera e segretario del Pli. E dire che suo padre lo voleva prefetto o questore. Quando ha deciso che quello dell’avvocato sarebbe stato il suo mestiere? «Ho sempre avuto l’istinto alla difesa, anche quando ero ancora studente al liceo. Una volta, in classe, difesi un ragazzo che veniva espulso continuamente. Era il liceo di Torino, il grande Massimo D’Azeglio. Il professore mi disse che ero già un avvocato difensore! “Sì professore”, risposi. “Solo che, oltre agli avvocati, dovrebbero esserci dei giudici che sanno rispondere alla sensibilità degli avvocati”. Quindi, già adolescente, avevo deciso quale strada intraprendere». In famiglia erano contenti della sua decisione? «Mio padre, che era professo-
«L’avvocato di oggi è preso più dalle “beghe procedurali” che dalla discussione della causa vera e propria. Troppo spesso patteggia e diventa un negoziatore»
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re di matematica, voleva che facessi il prefetto o il questore. Aveva sempre sottomano l’elenco dei concorsi. Ma io non volevo essere un impiegato dello Stato, sognavo la libera professione». Com’è cambiata la professione da allora a oggi? «È cambiata col Codice. Ci siamo illusi di trasformare il processo inquisitorio italiano nel processo accusatorio americano o inglese. È venuto fuori un ibrido che mantiene le caratteristiche vessatorie del sistema inquisitorio e non ha saputo inserire bene le vocazioni garantiste del processo accusatorio. Qualcuno ha detto che abbiamo messo una tunica svedese in un corpo sudamericano. Il risultato è che l’avvocato oggi è più preso dalle “beghe procedurali” che dalla discussione della causa. Spesso si patteggia, l’avvocato diventa un negoziatore che discute sulla pena invece di battersi». E i grandi processi dove sono finiti? «Ci sono ancora. Basti pensare a quelli “mediatici”. Le macchiette. Le tragedie che diventano farse. I processi ai mostri». Cosa si richiede a un avvocato oggi? «Più che altro doti di tecnicità, a danno di quelle che un tempo erano le soddisfazioni della capacità oratoria, del rapporto un po’ più “eticosentimentale”, tanto con il