IL FUTURO È ADESSO LA VIA DEL RILANCIO
Maurizio Lupi
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MAURIZIO LUPI 49 anni di Milano, è vicepresidente della Camera dei deputati. È il fondatore dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà
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DA SEMPRE AL LAVORO PER IL BENE COMUNE Niente dialoghi astratti ma confronti su questioni concrete. Ecco su quali basi dovrebbe ripensarsi la politica. Per recuperare un dialogo tra maggioranza e opposizione che rimetta al centro il cittadino. A colloquio con Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera di Deputati GINEVRA CARDINALI
a sola cosa di cui non dobbiamo avere paura è la paura”. Le celebri parole pronunciate da Franklin Delano Roosevelt in occasione del lancio del New Deal, con cui portò gli Stati Uniti fuori dalla Grande Depressione del 1929, sono perfette per spiegare l’atteggiamento di Maurizio Lupi di fronte alla recessione che, a distanza di 80 anni, è tornata a colpire il mondo. Lo ha ben spiegato in un’intervista rilasciata a Il Giornale lo scorso 13 febbraio in cui ha detto: «Se i giornali e le televisioni continuano a ripetere “crisi” nella testa di ciascuno ci sarà soltanto la crisi tanto da spingerlo a comportarsi di conseguenza». Dipende tutto da noi, insomma. E non è un caso che Lupi guardi alla creatività del popolo italiano come a una delle possibili leve su cui puntare per far ripartire il sistema economico del Paese. Dobbiamo avere memoria, dice il vicepresidente della Camera e guardare a ciò che avvenne nel secondo Dopoguerra quando, «l’Italia fu capace di generare fiducia e speranza nel futuro sostenendo la capacità di intrapresa dei singoli. Credo che dovremmo ripartire da lì». Ma per farlo, maggioranza e opposizione devono lavorare insieme, come accade nell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Dialogo e fair play. In campagna elettorale erano sventolati come una bandiera, ora sembra che siano scomparsi. Secondo lei, al di là delle sterili posizioni ideologiche, la politica dovrebbe ripensarsi? «Paolo VI definiva la politica come “la forma più esigente di carità”. Sono le sue parole il mio punto di riferimento: consi-
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dero la politica un servizio ed è da questo concetto che parto per confrontarmi con chi non la pensa come me, nel rispetto del ruolo che gli elettori ci hanno affidato. Il dialogo non può mai essere astratto, ma deve partire da cose concrete, dalle risposte da dare ai bisogni dei cittadini, dalla volontà di lavorare per il bene comune. Mi sembra che maggioranza e opposizione riescano a fare alcuni pezzi di strada insieme, anche se raramente. Ma è chiaro che, quanto più la politica non si muove lungo questa direttrice, tanto più deve essere ripensata. Anche perché gli elettori non ne possono più dello scontro ideologico e della continua e insistente delegittimazione dell’avversario». L’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, però, è un esempio felice di organo bipartisan. «È una realtà che si muove da anni all’interno del Parlamento e che raccoglie quasi 300 depu-
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tati e senatori appartenenti a tutti gli schieramenti. Il motivo del successo è l’aver capito, con un certo anticipo e in un momento storico in cui la tutta la politica si giocava su una radicalizzazione dello scontro, che poteva esistere un’agenda con temi su cui maggioranza e opposizione dovevano lavorare insieme. Il punto di partenza è la sussidiarietà, cioè l’idea per cui al centro dell’azione politica deve essere messa la persona. Lo Stato deve, quindi, cercare di valorizzare ciò che c’è favorendo chi, in modo più efficiente, risponde ai bisogni dei cittadini. Si tratta di un principio che attraversa trasversalmente tutto e che ci ha permesso di introdurre importanti novità nel panorama politico nazionale. Basta pensare alla possibilità data ai cittadini di destinare il cinque per mille del proprio reddito a realtà che operano nel mondo dell’associazionismo. Il successo di questa iniziativa è davanti agli occhi di tutti».
La congiuntura negativa accomuna tutto il Paese e sia centrodestra che centrosinistra hanno interesse a proporre soluzioni concrete per fare ripartire l’economia italiana. Lei è favorevole alla creazione di una commissione bipartisan su questi temi? «Sono contrario alla duplicazione delle competenze, da sempre. Non credo che sia necessaria una commissione bipartisan. Basterebbe che, davanti alle proposte del governo, l’opposizione non si arroccasse su posizioni ideologiche. C’è un luogo, il Parlamento, in cui possiamo confrontarci, discutere, e migliorare, se necessario, le misure di sostegno all’economia pensate dall’esecutivo. Basta volerlo». Da quali valori e su quali fondamenta dovrebbe ripartire il nostro sistema economico? «Dobbiamo avere memoria. Nel nostro passato c’è la risposta a questa domanda. Quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia sconfitta si trovò a dover ricreare il proprio sistema economico, si affidò all’unica ricchezza che possedeva: la creatività del suo popolo. Non siamo mai stati un Paese con grandi risorse eppure siamo diventati una delle realtà più industrializzate del mondo. E tutto perché siamo stati in grado di sostenere la capacità di intrapresa dei singoli. Siamo stati capaci di non cedere alla paura, ma di generare fiducia e speranza nel futuro. Credo che dovremmo ripartire da qui». Quali sono stati gli errori, se ve ne sono stati, commessi dal mondo economico e finanziario italiano? «Fortunatamente si tratta di errori minori rispetto a quelli com-
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messi da altri Paesi. E questo perché il nostro sistema è fondato, in larga parte, su piccole e medie imprese. Realtà solide, economia reale. Il paradosso è che per anni all’estero ci hanno criticato, sostenendo che questo modello fosse una debolezza. Credo che ora il sistema bancario debba puntare su questo punto di forza senza cedere a paure che, vista la situazione mondiale, potrebbero spingerlo a chiudere le linee di credito per le Pmi. Quello sì che sarebbe un errore». Come giudica il pacchetto anticrisi varato dal governo? «Gli interventi del governo sono stati tempestivi e hanno puntato su quelli che io considero i pilastri su cui ricostruire il nostro sistema economico: infrastrutture, famiglie e Pmi. L’esempio concreto sono i Tremonti bond che non sono aiuti alle banche, come sostiene qualcuno. Il loro obiettivo è quello di rafforzare le banche affinché possano garantire il flusso di credito all’economia. Si tratta, quindi, di aiuti alle famiglie e alle imprese». Crede che questi interventi siano sufficienti o pensa che occorra rinforzare maggiormente il sostegno a famiglie e Pmi? «Dipende dall’entità della crisi che, come tutti sappiamo, non è ancora definita. È chiaro che, se la situazione dovesse peggiorare, occorrerà pensar ad altre soluzioni». La fiducia dei cittadini nelle istituzioni, nella politica e nella giustizia è stata messa a dura prova. Quali sono i passi per riconquistarla? «Mi sembra che la strada intrapresa dal governo sia quella giusta. I cittadini chiedono alla poDOSSIER | LOMBARDIA 2009
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litica di migliorare e semplificare la propria vita. Ciò può avvenire solamente se siamo in grado di dare risposte immediate ed efficienti ai loro bisogni. Credo che l’esecutivo in questo primo anno abbia fatto esattamente questo e non è un caso che il gradimento nei sondaggi sia ancora molto alto. C’è poi il lavoro che stiamo portando avanti a livello istituzionale per fare in modo che il cittadino smetta di percepire le istituzioni come luoghi chiusi e distanti o addirittura inutili, dato che non sanno cosa fanno. Stiamo cercando di superare questa percezione aprendo quanto più possibile le porte di Montecitorio al pubblico attraverso grandi eventi e, soprattutto, migliorando il nostro sistema di comunicazione. Lavoriamo insomma per favorire trasparenza e accessibilità e le risposte che arrivano dai cittadini ci incoraggiano a pensare che stiamo facendo la cosa giusta». Stato, libertà individuali, giustizia e magistratura. Quale dovrebbe essere il giusto equili-
«I CITTADINI CHIEDONO ALLA POLITICA DI MIGLIORARE E SEMPLIFICARE LA PROPRIA VITA. CIÒ PUÒ AVVENIRE SOLAMENTE SE SIAMO IN GRADO DI DARE RISPOSTE IMMEDIATE ED EFFICIENTI AI LORO BISOGNI» brio tra queste sfere? «L’equilibrio è dettato dalla nostra Costituzione. Ognuno ha il suo compito e se la magistratura si sostituisce allo Stato, o viceversa, è chiaro che qualcosa non va. Per questo credo che, volendo stilare una graduatoria, il principio cardine da cui partire sia quello della libertà individuale. Stato, giustizia e magistratura hanno il compito di tutelarla e servirla. Dopotutto un uomo è libero quando trova qualcosa che non corrisponde alle esigenze del proprio cuore che è anzitutto esigenza di bellezza, giustizia e verità».
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RIFLESSIONI Marcello Pera
PER UN CRISTIANESIMO EUROPEO E LIBERALE «Per i liberali i diritti sono dell’uomo, prima che del cittadino. Dunque innati, fondamentali, e non violabili». Così Marcello Pera riassume il principio fondamentale del liberalismo moderno. Da Locke a Croce, da Tocqueville a Popper. Una riflessione sul passato e il futuro della dottrina delle libertà. Con un’esortazione di fondo: recuperare le radici cristiane DANIELA PANOSETTI
a cultura liberale ha bisogno di più coraggio o di più cautela? Una domanda volutamente netta, polarizzata. La risposta del senatore Marcello Pera, però, lo è ancor di più. «Quale cautela? – rilancia –. Occorrono forza e convinzione e determinazione». Perché «la battaglia è giusta, anche nell’era Obama, che all’Europa appare come il nuovo Messia solo perché predica e pratica ricette socialiste». Una risposta che svela in poche battute quella che sembra essere, per Pera, la vera contrapposizione di fondo del pensiero politico moderno, costantemente diviso tra liberalismo e socialismo. Contrasto tra paradigmi, certo, ma soprattutto tra principi: quelli, rispettivamente, di un’uguaglianza imposta dall’alto e di una libertà non negoziabile, emergente dall’individuo in quanto uomo. Principio, quest’ultimo, che secondo il senatore, accomuna alla base liberalismo e cristianesimo. Correnti di pensiero che, come sostiene anche nel suo ultimo libro, Perché dobbiamo dirci cristiani, «sono fatte della stessa pasta, comunque si completano, e certamente la prima rimanda alla seconda. L’Europa dovrebbe saperlo, come dovrebbe ricordare cosa divenne quando da cristiana si fece
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pagana o materialista». Per questo, esorta, «recuperare il tema cristiano è un modo per salvare i nostri regimi liberali, l’Europa e un’etica pubblica della responsabilità». Non quella, però, «del piacere, del potere, della carriera e del successo, che invece e purtroppo è ancora tanto diffusa» Quali sono i principali numi tutelari del liberalismo, i grandi nomi storici che ne hanno tracciato i principi? «Il primo è John Locke. L’altro, un secolo dopo, è Immanuel Kant. Sono loro i grandi teorici che hanno posto le basi della dottrina: le libertà naturali, la proprietà, la divisione dei poteri, con il governo separato da una società civile indipendente, e naturalmente i diritti fondamentali. Si consideri del resto che l’essenza, il nucleo centrale del liberalismo è la tesi che tutti gli uomini, senza distinzione alcuna, hanno diritti indipendentemente e antecedentemente alla società, in particolare alla comunità politica e allo Stato. Una tesi affine al principio cristiano per cui gli uomini, tutti gli uomini, sono degni di rispetto in quanto creati a immagine di Dio. È per questo che ho parlato di “congenerità” di liberalismo e cristianesimo». Per quanto riguarda la sua perso-
nale visione del liberalismo, a quale pensatore si ispira, soprattutto? «Oltre ai due che ho appena ricordato, ad Alexis de Tocqueville e, per i moderni, a Karl Popper, i quali peraltro affrontano il medesimo problema: come conciliare la libertà con la democrazia, emergente in Europa ai tempi del primo e già perduta ai tempi del secondo. E la loro risposta è simile: salvaguardando il nucleo dei diritti fondamentali. La democrazia si basa sul consenso, sul dialogo, sull’argomentazione e persuasione, alla fine sul voto informato. “Conoscere per deliberare”, come diceva Einaudi. La democrazia è espansiva, nel duplice senso che in un regime democratico, fondato sull’uguaglianza, tutti devono partecipare alle deliberazioni che li riguardano, le quali a loro volta non hanno limiti, perché interessano ogni aspetto della vita associata. Per questo il liberalismo, che individua una sfera protetta di diritti indiscutibili, dunque non sottoponibili al voto, si trova a mal partito con la democrazia. Tocqueville e Popper, fra gli altri, hanno cercato di conciliare queste due dottrine. E tutti i nostri regimi, che non a caso si chiamano liberal-democratici, si basano su quei tentativi
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PENSATORE Marcello Pera, senatore del Pdl ed ex presidente del Senato. Il suo ultimo libro si intitola Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica
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di conciliazione, che però, come tutti possono vedere, è sempre precaria». Esiste, oggi, un nuovo pensiero liberale in Italia? «No, non vedo nulla di nuovo in questo senso. Ci sono eccellenti studiosi liberali, ma non mi sembra che elaborino teorie nuove. Come tutti, sono costretti ad aggiustare, a mettere toppe. Il fatto è che siamo ancora debitori dei padri, lavoriamo nella loro scia, immersi negli stessi problemi e le nostre società, sempre più interdipendenti e globalizzate, aggravano i problemi. Un conto è essere liberali in casa, dove l’unità di riferimento è il singolo Stato, un altro e ben più complicato è esserlo a livello internazionale. Eppure, se la democrazia è espansiva, il liberalismo è addirittura aggressivo, perché intende esportare i suoi diritti DOSSIER | LOMBARDIA 2009
ovunque non siano riconosciuti. Per questo i liberali sono cosmopoliti: il loro soggetto è l’umanità intera, la loro patria è l’intero pianeta». Storicamente, l’approccio italiano verso il liberalismo è stato quantomeno singolare, comunque diverso dal mainstream europeo. Oggi ci stiamo avvicinando al modello di pensiero dominante nella destra europea o le peculiarità della “via italiana” permangono? «Se si parla di dottrina è così. In Italia, a lungo, il liberalismo è stato quello idealistico di Benedetto Croce e della sua filosofia della libertà. Un’impostazione per cui essere libero significa in primo luogo partecipare alla vita dello Spirito e solo in secondo luogo non essere costretto. Per il liberalismo europeo, prevalentemente politico-giuridico,
libertà significa invece godere di una riserva di diritti non violabile. Mentre Croce parla della libertà al singolare e forse con la maiuscola, i liberali europei, perlomeno quelli che ho citato, parlano delle libertà, al plurale minuscolo. Se invece dalla dottrina si scende alla pratica, allora i liberali italiani non differiscono dagli altri. Purtroppo, hanno avuto sempre vita grama e, dopo la prima stagione, in epoca risorgimentale, sono stati quasi sempre sovrastati dai democratici, dai socialisti e infine dai fascisti, oppure hanno dovuto accettare compromessi poco digeribili per la loro cultura. Il documento di compromesso più alto, in cui il liberalismo si vede mescolato con la democrazia e il socialismo, è la Costituzione italiana. Basta leggerla con un minimo di attenzione per capire quale articolo
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o comma della prima parte risponde a una dottrina e quale a un’altra. Per questo direi che le “peculiarità” permangono. E purtroppo, aggiungerei. Perché ritengo che, se quelle continuano, se, insomma, siamo ancora succubi della cultura socialista, allora la crisi dell’Italia, che è una crisi storica, è destinata a continuare». A lungo, in Italia, è invalsa l’impressione che la cultura dominante fosse di centrosinistra. Cosa fare per modificare questo atteggiamento? «Bisogna rafforzare la cultura liberale, non avere sensi di soggezione, avere il coraggio di dire che la libertà degli individui è meglio della uguaglianza ottenuta e imposta con la forza dello Stato. Purtroppo, abbiamo memoria breve: la caduta del comunismo, nell'89, ci sembra remota, così come i primi anni Novanta, quando, sebbene non formalmente, cadde in Italia la cosiddetta “prima Repubblica”. Anche in questo caso ci si dimentica che la corruzione che la portò in rovina era in gran parte causata dall'invadenza della mano pubblica, dei partiti nella società civile, dello Stato nell’economia. Si dice che si impara a proprie spese. In Italia mi pare piuttosto che si spenda senza imparare troppo. Fra l’uguaglianza e la libertà, molti nostri intellettuali e politici preferiscono ancora l’uguaglianza. Anche quando è piena di storture, anche quando genera conflitti, anche quando costa un patrimonio di tasse». Cosa significa, oggi, fare cultura, non solo politica, in un contesto di centrodestra? «Intanto, prendere atto che il nostro centrodestra ospita tanti non liberali. In questo senso manca ancora di una cultura omogenea, e si può solo sperare che la nascita del Pdl fornisca un’occasione. Poi, occorre studiare e dibattere. La cultura liberale è certamente minoritaria, avversata com’è da quella della sinistra e poco apprezzata anche da quella cattolica. E però l’esigenza liberale è diffusa. Bisogna essere preparati a
«FRA L’UGUAGLIANZA E LA LIBERTÀ, MOLTI NOSTRI INTELLETTUALI E POLITICI PREFERISCONO ANCORA L’UGUAGLIANZA. ANCHE QUANDO È PIENA DI STORTURE, ANCHE QUANDO GENERA CONFLITTI, ANCHE QUANDO COSTA UN PATRIMONIO DI TASSE»
farsene interpreti». Spesso il liberalismo è andato a braccetto con il liberismo. Quest’ultimo, nella sua versione più selvaggia è caduto definitivamente con l’ultima crisi finanziaria mondiale. Su quali basi si ricreerà il mercato? «Il cortocircuito da evitare è già implicito nella domanda. Lo si sente dire da tante parti: il comunismo è fallito nell’89, il liberalismo nel 2008. Tra poco ci diranno che occorre un’altra “terza via”. Ma non è così: nel 2008 è accaduta una crisi dovuta a inosservanza o mancanza di regole, le stesse che sono necessarie per far funzionare un sistema liberale e capitalistico. Il liberismo selvaggio non è il liberalismo economico, proprio perché questo non può essere “selvaggio”. Occorrono regole, sempre. Ma non, come nel comunismo, per rendere uguali o
virtuosi gli uomini, bensì per evitare che essi abusino delle loro libertà. È un errore concettuale pensare che il mercato si autoregoli: lo fa se rispetta le regole e le virtù su cui si fonda». Quali sono, attualmente, i temi più caldi all’interno del dibattito culturale di centrodestra? «Oggi, mi sembrano quelli della bioetica, tema difficile per chiunque e che andrebbe trattato con un po’ di rispetto, senza creare divisioni come quella fra laici e credenti. Temo purtroppo che così non accada, con la conseguenza che, alla fine, i credenti diventano clericali e i laici mangiapreti. Più in generale, il tema che ci riguarda tutti e che è sulla bocca di tutti, anche se non è chiamato così, è il tema identitario: Chi siamo noi? Che cosa vogliamo? Per che cosa ci battiamo? Quali sono i nostri valori?» DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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POLITICA Romano Comincioli
L’INARRESTABILE AVANZATA AZZURRA La fondazione ufficiale del Pdl è alle porte. Mentre, dall’altra parte, l’opposizione appare ancora più in difficoltà dopo le dimissioni di Walter Veltroni. Il senatore Romano Comincioli traccia il bilancio di un anno di governo. E spiega i motivi che hanno reso possibile il trionfo azzurro FEDERICO MASSARI
a differenza tra noi e l’opposizione è sostanziale. Il Partito Democratico è il risultato, oggi, più che mai fallimentare, di un’alchimia della vecchia politica e una fusione a freddo di vecchie gerarchie partitocratriche». Usa toni al vetriolo Romano Comincioli nel descrivere e mettere in evidenza le attuali difficoltà del centrosinistra. Secondo il senatore azzurro, ex compagno di scuola e manager del premier Berlusconi, il Popolo della Libertà, al contrario del Pd, è nato dalla volontà di milioni di italiani, i quali hanno rivendicato a gran voce il superamento dei vecchi schemi della politica. «Noi lo abbiamo fatto con un grande leader riconosciuto dal popolo italiano come Silvio Berlusconi – sottolinea Comincioli –. Il Partito Democratico, invece, ha tentato un’operazione di facciata attraverso un uomo come Walter Veltroni, che gli italiani hanno bocciato senza appello». Ma non è finita. Romano Comincioli è un fiume in piena, difficile da arrestare: «Il Popolo della Libertà è riuscito a unire ideali e valori. Mentre il centrosinistra ha tentato, fallendo, di mettere insieme
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il diavolo e l’acqua santa. Un’opposizione letteralmente allo sbando e un Pd senza guida può essere un limite per il bipartitismo, ma noi andiamo avanti senza indugi. Sono gli italiani che ce lo chiedono». Cosa rappresenterà la nuova formazione per la politica italiana? «Rappresenterà il Popolo della Libertà. Il sogno progetto di Berlusconi è lo stesso della maggioranza degli italiani: un Paese fondato sulla libertà, nell’economia, nell’impresa, nella società, nell’informazione. E per la prima volta nel nostro Paese si va affermando un movimento che non sarà fondato su dogmi o ideologie, ma su ideali e valori. Siamo e saremo il movimento delle soluzioni concrete. Gli italiani ci chiedono concretezza, risposte ai problemi, non contrapposizioni sterili e anacronistiche. E questo progetto politico segnerà una svolta nel metodo e nella sostanza: l’ascolto sarà la regola, la libertà il pilastro dell’agire». Un’opposizione debole danneggia la vita democratica del Paese, indebolendo paradossalmente anche la coesione della
maggioranza e facendo emergere personalismi. Cosa ne pensa? «La vita democratica di un Paese non si rafforza con un’opposizione più o meno forte, ma con il rispetto delle regole. La maggioranza, il Popolo della Libertà, sono e saranno i primi garanti delle regole. Per quanto ci riguarda il confronto tra maggioranza e minoranza non è mai venuto meno quando l’opposizione ha messo da parte insulti e sterili polemiche: i personalismi lasciano il tempo che trovano. Il nostro Paese ha bisogno di condivisione e il Popolo della Libertà va in questa direzione». Qual è stato, secondo lei, l’errore più grave commesso dal centrosinistra? «Il centrosinistra ha fondato tutto il suo agire contro Silvio Berlusconi, senza strategia e senza lungimiranza, ha messo in campo un gruppo dirigente figlio del vecchio Pci pensando a un’operazione di laboratorio, in modo da mettere insieme di tutto e di più. L’errore che deve evitare il Popolo della Libertà è quello di non accettare la sfida al ribasso che gli propone l’opposizione. Dobbiamo rivolgere
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ROMANO COMINCIOLI Senatore del Popolo delle Libertà
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POLITICA Romano Comincioli
lo sguardo ai problemi veri del Paese, gli italiani ci giudicheranno su questo, non sullo scontro con l’opposizione. E poi, soprattutto, non dobbiamo cullarci sugli allori. La politica è come il calcio, quando si prende sottogamba la squadra avversaria si rischia di fare una pessima partita. L’Italia non si può permettere sottovalutazioni». In vista delle prossime Amministrative, sia Calderoli che Cicchitto hanno dichiarato la volontà di stringere alleanza con l’Udc. Lei cosa ne pensa? DOSSIER | LOMBARDIA 2009
«DOBBIAMO RIVOLGERE LO SGUARDO AI PROBLEMI VERI DEL PAESE, GLI ITALIANI CI GIUDICHERANNO SU QUESTO, NON SULLO SCONTRO CON L’OPPOSIZIONE. E POI, SOPRATTUTTO, NON DOBBIAMO CULLARCI SUGLI ALLORI»
«Ogni alleanza nasce con una volontà reciproca. Il matrimonio si fa sempre in due, l’esperienza della Sardegna dice che l’alleanza è utile se nasce su presupposti condivisi, ora, però, bisognerebbe passare da alleanze elettorali ad alleanze politiche e questo può avvenire solo nella chiarezza degli obiettivi e senza ambiguità». Qual è invece il rapporto tra Pdl e Lega? «Tre presupposti sono alla base del rapporto con la Lega: lealtà, franchezza e positiva sfida sulle
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ATTIVISMO A sinistra, un gazebo del Pdl. Sotto, il senatore Comincioli
soluzioni ai problemi territoriali. Vivo la Lega come uno stimolo e penso che ognuno di noi dovrebbe sentirsi italiano, europeo ed espressione del proprio territorio regionale. Anzi, sono convinto che dobbiamo sentirci sempre più partecipi di un progetto nazionale che unisce e nel contempo valorizza e rispetta le specificità locali». Come dimostrato dall’ultima tornata elettorale in Sardegna, il Pdl sta continuando a guadagnare consensi. Quanto è fon-
damentale per il successo la presenza del Cavaliere? «Berlusconi è decisivo, fondamentale. Un marchio di concretezza, l’unico che gli italiani riconoscono come tale. Quando si affrontano e risolvono problemi come i rifiuti di Napoli, come l’Alitalia, come il rilancio delle infrastrutture, come la crisi in Georgia, il riconoscimento è scontato. Il messaggio è chiaro: un uomo del fare con un solo interesse, il bene del suo Paese». Lei è da sempre un uomo di
impresa. Dovendo fare un paragone, quali sono i punti deboli dell’“impresa politica”? «L’impresa politica in genere parla troppo e produce poco. Bisogna invece introdurre anche in politica il principio della produttività. Bisogna misurare gli effetti delle leggi, degli atti di governo, bisogna avere la capacità di valutare i provvedimenti legislativi non per il numero delle norme che si promulgano o per i decreti che si emanano ma per la qualità degli effetti che producono». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA STAGIONE DELLA RIPRESA Santo Versace
IMPEGNATO Santo Versace è da questa legislatura deputato Pdl. Noto industriale della moda è anche presidente di Operation Smile Italia Onlus una Fondazione di volontariato internazionale nata nel 2000 e che opera nel campo della sanità infantile
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LA STAGIONE DELLA RIPRESA
LA NOSTRA SFIDA È RIGENERARE IL SISTEMA PAESE Ridurre burocrazia e pressione fiscale. E potenziare la formazione. Perché agli imprenditori del made in Italy è questo che occorre innanzitutto. Per mantenere alta la grande tradizione artigiana nazionale. E competere da protagonisti sui mercati internazionali. Sull’argomento interviene Santo Versace, deputato Pdl e imprenditore dell’eccellenza italiana MARILENA SPATARO
iore all’occhiello del prodotto italiano nel mondo e della tradizione artigiana del nostro Paese, oltre che rilevante risorsa per l’economia nazionale, il made in Italy della moda, in questo momento di crisi dei mercati internazionali, va tutelato con particolare attenzione. Ne va di mezzo, infatti, non solo l’immagine, ma anche il Pil nazionale. «La moda italiana è leader mondiale sia nella donna che nell’uomo che negli accessori. Una posizione di preminenza questa che può essere mantenuta a condizione che si riformi il sistema Paese» spiega Santo Versace, deputato del Pdl e imprenditore di uno dei più importanti Gruppi della moda. Che nel fare il punto dell’attuale situazione del settore, indica gli interventi necessari con cui intervenire a livello politico non solo per continuare a mantenere il primato italiano nel mondo, ma anche per rimettere in moto la macchina del sistema Paese e della sua economia, a partire dal Mezzogiorno. Da imprenditore, come vede la posizione competitiva del nostro Paese in questo settore nel difficile scenario dell’economia globale? «Abbiamo bisogno di un sistema Paese più leggero ovvero con minore imposizione fiscale, minore burocrazia, e con più
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formazione. Abbiamo creato in Italia un disprezzo sociale e culturale verso il lavoro manuale dimenticando che Giotto, Michelangelo, Raffaello, Bernini, Canova sono tutti lavoratori manuali come Salvatore Ferragamo e Gianni Versace. Esistono certamente buone possibilità di difesa e persino di crescita di competitività per il nostro Paese, e la moda è la manifestazione più bella, più visibile, più positiva della globalizzazione. Essa rappresenta un esempio di vera democrazia a disposizione di tutti e che si rigenera senza bisogno di interventi esterni». È opinione diffusa che la grave crisi che stiamo vivendo affondi le sue radici nella mancanza di valori etici condivisi, per cui le regole e le leggi servirebbero a ben poco in assenza di un comune sentire etico che le sostenga. Qual è il suo pensiero al riguardo? «La crisi di valori nella nostra società è indiscutibilmente imputabile all’imposizione di un modello di vita fondato sul consumismo, sulla ricerca a tutti i costi del successo e dei denari facili. Quella che è venuta a mancare è la fiducia nella forza della legge. Credo, però, che vi sia una generale condivisione di valori di fondo, intendo dire quelli contenuti nella prima parte della Costituzione, in cui la magDOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA STAGIONE DELLA RIPRESA Santo Versace
gioranza degli italiani ancora oggi si riconosce. Quello che occorre è un grande progetto riformatore che svecchi la nostra politica e la faccia tornare a essere quella grande palestra di democrazia con cui i talenti migliori del Paese vogliono misurarsi. Oggi la macchina legislativa non sa rispondere con la necessaria rapidità alle emergenze del Paese e non sa colmare i vuoti legislativi nei tempi richiesti da una società in rapida trasformazione. Per questo come parlamentare sto lavorando a un progetto di riforma complessiva dei regolamenti parlamentari che a giorni presenterò alla Camera, ispirato a due principi: la semplificazione delle procedure parlamentari e l’accorciamento drastico dei tempi dell’iter legislativo, due principi in cui credo da sempre innanzi tutto come imprenditore e poi come politico che sente l’urgenza di rispondere alle richieste che vengono dalla società». Recentemente lei è intervenuto sul Sole 24 Ore con un articolo sul tema del Mezzogiorno. A suo parere la grave crisi che il nostro Paese sta vivendo può diventare un momento di grandi opportunità per la rinascita del Sud, nell’ottica di un nuovo modello di sviluppo che abbia il Mediterraneo come protagonista? E quali sono le linee e i progetti per realizzare questa rinascita? «In epoca di gravi difficoltà del bilancio dello Stato e dell’economia, il primo passo da compiere è quello di reperire risorse attraverso il taglio delle voci di spesa ingiustificate che nel nostro bilancio sono tante. Il che è stato dimostrato dalla pessima distribuzione di contributi a fondo perduto fatta alle imprese del Sud. Intorno all’intervento pubblico e al cinquantennale fallimento del modello Cassa, sono cresciuti e si sono consolidati i potentati locali, la corruzione, la peggiore burocrazia e l’attitudine clientelare di tanti falsi imprenditori. Perciò innanzitutto occorre porre fine alla distribuzione a pioggia di fondi pubblici. I contributi alle imprese ammontano a circa 40 miliardi di euro. Quelli destinati a imprese del Sud sono circa DOSSIER | LOMBARDIA 2009
12 miliardi di euro. Questa somma enorme può essere adoperata per far recuperare alle regioni del Mezzogiorno il gap infrastrutturale di cui soffrono rispetto al resto d’Italia e che è una delle ragioni del mancato decollo dell’industria meridionale. Miliardi di euro destinati a un grande progetto di opere pubbliche da realizzarsi rigorosamente attraverso il project financing. Faccio un esempio: il passante di Mestre, primo risultato concreto della Legge Obiettivo, è stato realizzato in project financing con un costo complessivo di circa 1 miliardo di euro di cui solo 113 milioni a carico dello Stato e il resto a carico dei privati che si sono garantiti il loro profitto at-
traverso la concessione pluriennale della gestione del passante e dei relativi pedaggi. Tornando all’altra metà dei contributi risparmiati, questi potranno coprire il mancato gettito derivante dalla applicazione di quella proposta di detassazione Ires per le imprese che investono nel Sud e che io intendo chiamare No Tax Region nel progetto che proporrò in Parlamento insieme ad altri deputati e senatori e con il sostegno di una parte significativa di giovani imprenditori del Sud di Confindustria. La proposta, nei suoi contorni generali, è questa: una detassazione Ires per 10 anni e una riduzione al 50% per i successivi 5 anni per tutti coloro che apriranno uno stabili-
LA STAGIONE DELLA RIPRESA
mento produttivo nel sud. Oltre che una misura ragionevole e sostenibile per l’attuale bilancio dello Stato, essa favorirebbe un’imprenditoria sana che abbia i capitali e li sappia valorizzare e non quell’imprenditoria malata e foriera di corruzione conosciuta in questi anni, la quale si nutre solo del contributo a fondo perduto dello Stato, finito il quale sparisce lasciando i capannoni chiusi». Tra imprenditoria e politica, trova anche il tempo per occuparsi di volontariato. Come presidente della Fondazione Operation Smile, si sta impegnando per cercare di ridare il sorriso a tanti bambini nel mondo colpiti da malformazioni al viso. Quali le finalità, l’organizzazione i progetti di questa iniziativa? «Operation Smile Italia Onlus è una Fondazione nata nel 2000, costituita da volontari medici, infermieri e paramedici che realizzano missioni umanitarie in 51 Paesi del mondo, per correggere con interventi di chirurgia plastica ricostruttiva gravi malformazioni facciali come il labbro leporino e la palato schisi ed esiti di ustioni e traumi. L’obiettivo principale con cui operiamo è di creare lo sviluppo sostenibile delle proprie attività, attraverso il progressivo miglioramento delle infrastrutture sanitarie in quei Paesi nei quali si attuano i propri programmi medici, al fine di garantire a ogni bambino un più facile accesso a servizi chirurgici di qualità. L’intervento per correggere un labbro leporino richiede in media 45 minuti. Operation Smile è nata per donare la speranza di un sorriso e di una vita decorosa a tutti quei bambini che nascono affetti da tali malformazioni, nei Paesi più disagiati e poveri del mondo, e che difficilmente potrebbero avere accesso al trattamento chirurgico. Dal 1982, anno di costituzione di Operation Smile International negli Stati Uniti, sono stati operati gratuitamente nel mondo oltre 120mila bambini, formati migliaia di operatori sanitari e inaugurati sei centri di cura». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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COMUNICAZIONE E POLITICA Antonio Palmieri
LA NOSTRA VOCE È ANCHE LA VOSTRA Sono passati quasi quindici anni da quando i partiti politici italiani sono sbarcati sul Web. Forza Italia ha fatto da apripista sulla Rete e oggi, in vista della nascita del Pdl continua a seguirne con attenzione le evoluzioni. Per una comunicazione diretta, immediata, libera e approfondita con cittadini e sostenitori. Come assicura Antonio Palmieri, responsabile della comunicazione elettorale e Internet di Forza Italia SOFIA SASSI
in dall’inizio abbiamo proposto agli italiani un programma di cambiamento con un leader come Silvio Berlusconi che ne è al tempo stesso il garante e il testimone in forza della sua vita, dapprima imprenditoriale e poi politica». Antonio Palmieri è l’uomo che sta dietro alle campagne elettorali nazionali di Forza Italia, che ha seguito sin dal 94. Milanese, deputato del Pdl, Palmieri è anche il creatore del sito www.forzaitalia.it oltre che il responsabile nazionale della comunicazione elettorale e Internet. «Abbiamo sempre usato un linguaggio immediato, semplice, diretto e concreto, adoperando tutti gli strumenti della moderna comunicazione ammessi dalle leggi – ricorda Antonio Palmieri –. Leggi che il centrosinistra ha modificato prima nel 1995 e poi nel 2000 per impedire che noi potessimo parlare agli italiani. L’obiettivo della nostra comunicazione, infatti, è quello di parlare direttamente con la gente, superando la mediazione dei mass media, che di solito ci sono ostili. Il rapporto diretto con la gente è e resta la caratteristica di un grande movimento popolare come è stato Forza Italia e come sarà anche il nascente Popolo della Libertà. Le caratteristiche di fondo della nostra comunicazione e del nostro marke-
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ting politico rimarranno invariate anche con il Pdl.». Proprio in quest’ottica, quanto si è rivelata importante per voi la comunicazione politica ed elettorale sul web? «Da sempre siamo stati attenti a Internet, basti pensare che siamo on line dal 14 febbraio 1995 con il sito di Forza Italia, siamo stati la seconda forza politica italiana subito dopo i Radicali a sbarcare sul web. Oggi sono cambiate molte cose, perché è evidente che il peso di Internet nel 2009 è molto superiore a quello che aveva, per esempio, nel 1999. Ci sono tuttavia alcuni elementi che restano immutati: informare direttamente i nostri elettori e supporter, senza mediazioni; poter approfondire i temi con documentazione e discorsi integrali; mobilitare i nostri supporter per iniziative sul territorio, grandi manifestazioni oppure per azioni virali in Internet; ascoltare ciò che pensa la nostra gente, come avviene attraverso Spazio Azzurro, il forum del sito meta ogni giorno di migliaia di persone che in 168 caratteri dicono la loro in assoluta libertà. In questo abbiamo anticipato la tendenza del cosiddetto “microblogging”, di Facebook e Twitter che hanno un numero limitato di caratteri a disposizione. Il microblogging noi l’abbiamo iniziato già 5 anni fa.
COMUNICAZIONE E POLITICA ANTONIO PALMIERI responsabile della comunicazione elettorale e Internet di Forza Italia
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COMUNICAZIONE E POLITICA Antonio Palmieri
Credo però che l’aspetto più importante sia la mobilitazione che svolgiamo on line. Abbiamo tutta una serie di iniziative di questo tipo che sfruttano la facilità d’uso di Internet per attivare le persone». Come stanno cambiando la comunicazione e il modo di fare politica con il sempre crescente utilizzo di strumenti come blog e social network? «Abbiamo sempre monitorato tutte le novità emerse in Internet e scelto di volta in volta di utilizzare quelle che potevano essere più proficue in termini di impatto informativo e di mobilitazione dei nostri elettori. Non abbiamo mai seguito le mode, perché in molti casi rappresentavano uno sforzo sproporzionato rispetto all’effettivo vantaggio comunicativo che poteva derivarne. Oggi siamo su Facebook, come si può vedere dalla homepage del sito nazionale, con la pagina dedicata a governoberlusconi.it, la versione per Facebook del sito www.governoberlusconi.it . DOSSIER | LOMBARDIA 2009
Questo sito è complementare a quello del partito e lo adoperiamo per seguire l’attività del governo, raccontandola in modo comprensibile e sintetico e spiegando le motivazioni politiche che guidano le scelte governative. Su Facebook siamo presenti anche grazie a decine di gruppi spontanei e con la pagina dedicata a Silvio Berlusconi che è di gran lunga il politico italiano con più sostenitori. Vi sono, inoltre, molti parlamentari Pdl che magari non hanno un sito personale, ma hanno una loro pagina su Facebook. Siamo presenti anche su Twitter e Youtube dove abbiamo creato una sezione che comprende una serie di clip tratte dalle conferenze stampa di Silvio Berlusconi e dei ministri del governo, che abbiamo creato per meglio sintetizzare le iniziative di questo esecutivo. Cerchiamo di essere presenti dappertutto, ma sempre seguendo il criterio di aprire siti e servizi che possiamo aggiornare con continuità e che giudichiamo
funzionali al nostro progetto comunicativo». Il sito del Pdl www.ilpopolodellaliberta.it è attivo già da un anno, ed è stato lanciato in occasione della campagna elettorale del 2008. Da quali idee è necessario partire per creare il sito di un nuovo partito politico? «Non esiste un modello standard. Il Pdl, come già Forza Italia, è caratterizzato da una leadership forte e attorno all’azione politica di Silvio Berlusconi abbiamo costruito e impostato anche il nuovo sito. A questo abbiamo aggiunto l’importanza del contributo dei nostri sostenitori e la possibilità di avere accesso all’attività dei nostri eletti, in primis i parlamentari. I tre capisaldi sono dunque l’attività del leader, quella degli eletti e le opinioni dei nostri sostenitori espresse in “Spazio Azzurro”, il forum del sito più una serie di altri servizi: l’agenda di appuntamenti sul territorio, le news, le campagne virali e di mobilitazione on
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line, la Carta dei Valori del Pdl e molto altro. Tutti strumenti utili, che contribuiscono a diffondere anche l’identità culturale del nuovo partito». Sa già anticiparci come seguirete sul sito del Popolo della Libertà l’imminente primo congresso nazionale del partito? «Ci comporteremo come abbiamo sempre fatto, ovvero seguendo il grande congresso nazionale del 27-29 marzo con una diretta streaming on line di tre giorni. Per chi non potrà essere presente a Milano ci sarà dunque la possibilità di seguire il congresso in continuità e di poterne poi rivedere tutte le fasi in differita sul sito www.ilpopolodellaliberta.it». Il Pd ha creato la televisione on line Youdem.tv. Anche il centrodestra si è dimostrato sensibile alla veicolazione di comunicazioni istituzionali video via Internet come ha dimostrato di recente il ministro Gelmini.
Avete mai pensato alla creazione di un canale Tv on line anche per il Pdl oppure non lo ritenete una priorità? «Giudico una Web Tv uno spreco di risorse. Noi diamo la diretta streaming dei grandi eventi sul sito di Forza Italia e continueremo con il Pdl. Siamo stati i primi, nel 1998, con la diretta on line di tre giorni del primo congresso nazionale di Forza Italia, compresa la manifestazione finale di Piazza Duomo a Milano. Preferiamo focalizzare l’attenzione di chi viene nel nostro sito sui grandi eventi invece che disperdere risorse ed energie in una Web Tv, perché la maggior parte delle persone cerca una comunicazione televisiva altrove, sulle Tv “vere”. Noi puntiamo all’efficacia, non ad essere à la page». Un’altra novità recente in ambito di moderna comunicazione politica e presenza sul territorio l’ha portata il Pd inaugurando in Italia la stagione delle primarie. Il
centrodestra, invece, ha scelto la strada dei gazebo nelle piazze. Quali sono le differenze sostanziali fra queste due forme di partecipazione e di radicamento sul territorio? «Fermo restando il rispetto per chi si è speso come volontario fra i nostri gazebo e le loro primarie, ci sono parecchie differenze fra i due modelli di partecipazione e presenza sul territorio. Nel caso del Partito Democratico, le primarie nazionali rappresentavano un puro fatto di comunicazione, “l’elezione” di un leader già definito. Le primarie per il Pd sono servite a riunire una militanza e una base elettorale confusa e parzialmente dispersa dopo gli impacci e gli impicci del Governo Prodi. Nel nostro caso, invece, c’era l’intento di ascoltare le persone. Ad esempio nei gazebo della campagna elettorale delle politiche 2008 ogni settimana noi sottoponevamo un tema del nostro programma con cinque punti specifici chiedendo ai cittadini di indicare la loro preferenza in termini di priorità. Per noi i gazebo sono stati un’occasione di divulgazione, informazione e ascolto. E oltre ai gazebo fisici avevamo anche il supergazebo on line, con le stesse finalità e funzioni, attivo 24 ore su 24 e 7 giorni su 7». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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FILOSOFIA D’IMPRESA Bernhard Scholz
CONCRETO Bernhard Scholz è il presidente generale della Compagnia delle Opere
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FILOSOFIA D’IMPRESA
ALL’INSEGNA DELL’UOMO E DEL LIBERO MERCATO Imprese basate sulla sussidiarietà e sulla libera iniziativa. Uno Stato chiamato a intervenire per rimuovere gli ostacoli burocratici che ne impediscono l’espansione. E dove ciascuno, dall’imprenditore al lavoratore, è responsabile del proprio ruolo. Sono questi i principi cardine su cui si fonda la Cdo. Come spiega il presidente generale Bernhard Scholz MARILENA SPATARO
ra la fine degli anni 80 quando nel solco della presenza dei cattolici nella società italiana, Monsignor Luigi Giussani ispirò ad alcuni giovani imprenditori e professionisti l’idea di dar vita a un’associazione imprenditoriale basata sui valori della mutua collaborazione e assistenza tra i consociati e di cui facessero parte soprattutto attività inerenti la piccola e media impresa. Nasce così la Compagnia delle Opere che agli occhi dell’imprenditoria del tempo, in buona parte basata su criteri di massimizzazione dei profitti, sarà apparsa utopistica o addirittura velleitaria. Ma oggi quell’intuizione e quella formula economiche si rivelano di grande attualità e interesse diffuso. Le falle apertesi all’interno dei moderni sistemi economici mondiali in seguito alla crisi dei mercati finanziari spingono, infatti, il mondo imprenditoriale a ripensare i modelli della propria attività. Sull’esperienza e sul modello d’impresa praticati in oltre venti anni dalla Compagnia delle Opere interviene il presidente generale di questa associazione, Bernhard Scholz. Molti economisti sostengono che il liberismo sia tramontato. C’è
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qualcosa di questo modello economico che può essere salvato? «Da tanto tempo sosteniamo i limiti del liberismo, anche se in Italia non si è mai presentato in modo selvaggio. Siamo invece per un libero mercato con quel minimo di regole necessarie per garantire che esso sia veramente libero e non condizionato da pochi poteri finanziari o economici. Al contempo, occorre evitare una intromissione esagerata dello Stato. Realizzare questo equilibrio è un impegno continuo che comunque nei Paesi dell’Unione europea è sempre stato presente. La questione principale è quella di trovare una strada che dia la priorità all’economia reale senza far prevalere la finanza o addirittura la speculazione finanziaria. Questo non dipende solo da regole o leggi, ma anche da una responsabilità personale degli attori finanziari». In quale misura e in quali ambiti è giusto che lo Stato ora intervenga? «Lo Stato deve aiutare l’economia e le imprese creando le condizioni perché si possa riprendere fiducia per investire nello sviluppo. Creare o favorire queste condizioni significa defiscalizzare per lasciare alle imprese le
risorse di cui hanno bisogno per innovare e crescere, significa sburocratizzare per togliere pesi e limiti amministrativi inutili, significa impostare un sistema giuridico che possa tutelare in tempi adeguati i diritti di chi subisce dei danni, significa in questo momento di crisi dare delle garanzie che permettano alle banche di svolgere quello che dovrebbe essere il compito principale, cioè sostenere l’economia. Come espresso bene dall’indagine contenuta nel rapporto “Sussidiarietà e piccola e media impresa”, a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, il mondo delle Pmi non chiede favoritismi e scorciatoie, ma chiede soprattutto una semplificazione amministrativa e una riduzione della pressione fiscale in modo da poter liberare le proprie energie». Da questo terremoto uscirà un nuovo modello di economia e finanza? «Ci auguriamo che possa uscire un’economia basata sul principio di sussidiarietà. Lo Stato deve garantire spazi e condizioni per la libera iniziativa all’interno della società, non deve sostituirsi agli imprenditori o pretendere di ammaestrarli. Per questa ragione, penso che il principio di DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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FILOSOFIA D’IMPRESA Bernhard Scholz
OCCASIONI DI CONFRONTO Un evento finalizzato a creare una rete tra imprese per sviluppare la loro crescita attraverso nuove opportunità di lavoro. Nasce con questo intento Matching un evento promosso da Compagnia delle Opere giunto quest’anno alla sua quinta edizione. Il direttore di CdO, Enrico Biscaglia, ne illustra i contorni
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ENRICO BISCAGLIA Direttore della Compagnia delle Opere
sussidiarietà sia la vera risposta al problema liberismo-statalismo. Esso si basa su una libertà che si assume le sue responsabilità, anche di fronte al bene comune. All’interno di un sistema sussidiario le regole hanno quindi lo scopo di tutelare la libertà della persona e le libere aggregazioni fra le persone e di prevedere interventi “dall’alto” solo quando la libera iniziativa delle persone non riesce a rispondere ai propri bisogni vitali o quando si arriva ad abusare della libertà. La priorità sta quindi nella persona, non nello Stato o nel potere finanziario o economico. Questo non è un modello schematico da
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avorire le relazioni di business tra imprenditori come strada maestra per la crescita delle imprese. È questa, in sintesi, la ricetta di Matching: l’evento promosso da Compagnia delle Opere che giunge quest’anno alla sua quinta edizione e che negli anni scorsi ha registrato un crescente successo di adesioni. Dai 500 partecipanti della prima edizione (nel 2005) si è passati a 1.100, poi a 1.600, sino ai 2.000 che nello scorso novembre si sono dati ap-
applicare ma un principio da introdurre passo per passo perché richiede una crescente assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori sociali». Etica di impresa. Quale significato assume oggi questo valore? «Troppe volte l’etica d’impresa è stata la foglia di fico dietro cui si sono nascosti interessi di parte perseguiti senza scrupoli. Si è pensato di affidare questa preoccupazione a protocolli o a Carte delle regole che però alla prova dei fatti si sono rivelate spesso velleitarie. L’etica dell’impresa si realizza se l’impresa segue la propria dinamica: realizzare e vendere dei beni e dei servizi che hanno un valore reale di scambio attraverso una innovazione e un miglioramento continuo, coinvolgendo i collaboratori nel rispetto della loro libertà e dignità, rispettando le regole di mercato necessarie perché lo scambio possa avvenire alle migliori condizioni per tutti e tenendo conto degli impatti ambientali e sociali della propria attività imprenditoriale. Se chiamiamo “etica d’impresa” la codificazione di questi comporta-
puntamento nei padiglioni della fiera milanese di Rho Pero: nei tre giorni della manifestazione si sono svolti circa 35mila appuntamenti di business. «Contrariamente a quello che si pensa – spiega il direttore generale di CdO, Enrico Biscaglia – la piccola impresa italiana è abituata a concepirsi all’interno di un tessuto di relazioni con altre imprese con cui condivide il settore di attività o il territorio. E questa è una chiave del successo delle nostre Pmi. Matching si
menti va bene. Occorre però sapere che tutto ciò non può essere garantito da una imposizione doveristica ma dal convincimento di ognuno all’interno dell’impresa che un tale orientamento sia espressione del nesso profondo che esiste fra il bene proprio, il bene dell’impresa e il bene comune. Personalmente cercherei di rendere evidente questo nesso originante più che insistere su dei comportamenti etici che sono sempre conseguenza di una concezione antropologica». Spesso l’etica di impresa e la valorizzazione del capitale umano sono considerati antitetici al profitto. Perché non è così? «I soldi non sono l’obiettivo né della nostra vita né della nostra attività economica ma sono uno strumento necessario e indispensabile per poter attingere ai beni e per svolgere le nostre attività. Anche il profitto è quindi uno strumento e non un obiettivo nel senso materiale, anche se come indicatore importante di business può essere chiamato tale. La ricerca del profitto, soprattutto a breve termine, non corrisponde in-
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propone di alimentare, di sostenere e di favorire questa capacità di relazioni». A Matching gli incontri vengono organizzati nei mesi precedenti la manifestazione: per ogni impresa partecipante viene realizzata un’agenda con appuntamenti mirati e prefissati, in modo da far incontrare gli interessi reciproci, facilitare la ricerca di fornitori, clienti e partner. «La cosa che mi ha colpito di più alla fine dello scorso Matching – aggiunge Biscaglia – è stata quella di aver assistito a tre giorni di lavoro fattivo tra gli imprenditori, proprio in un periodo in cui, a metà novembre, molti fatti avevano già manifestato la gravità della crisi. Lì c’erano imprenditori che lavoravano e guardavano con fiducia le prospettive della propria attività co-
fatti a una giusta impostazione dell’impresa nel rispetto della sua dinamica naturale. Per un’impresa che vuole durare nel tempo e contribuire veramente al bene di chi ci lavora e al territorio nel quale opera è più importante avere un posizionamento forte sul mercato, avere la fiducia dei suoi clienti, avere una patrimonializzazione adeguata, avere delle competenze capaci di creare innovazione. Tutto questo porterà un profitto continuo; forse non sempre elevato, ma continuativo, in grado di garantire il proseguimento dell’impresa stessa. La ricerca del profitto in quanto tale invece rischia di snaturare l’impresa con tutte le conseguenze drammatiche, facilmente immaginabili. Ma visto che tutto questo dipende da chi lavora nell’impresa possiamo anche invertire la domanda: come potrebbe un’impresa avere un buon risultato senza partire dal capitale umano?». Le Pmi rappresentano l’ossatura dell’economia. Quali sono i loro punti di forza inespressi e le maggiori difficoltà che devono affrontare?
struendo investimenti e partnership. Sembrava che la crisi fosse rimasta fuori dai padiglioni». Titolo della prossima edizione di Matching, che si svolgerà dal 23 al 25 novembre, è “Internazionalizzare, innovare”. «Stiamo puntando su questi due temi – sottolinea il direttore generale di CdO – perché pensiamo siano decisivi in momenti difficili come questi. Occorre guadagnare maggiori capacità di stare sul mercato attraverso l’innovazione, di prodotto e organizzativa; e poi portare questo valore su nuovi mercati, incrementare la presenza sui mercati». «Chi saprà mettere in campo queste leve potrà cogliere la crisi come un’opportunità. Matching 2009 vuole aiutare le imprese a giocare queste carte».
«I punti di forza stanno soprattutto nelle persone, nella loro creatività, nella loro energia e flessibilità. Sono tutti fattori che hanno permesso all’Italia di superare diverse crisi e posizionarsi fra le prime economie mondiali. Oltre alle difficoltà “esterne”create dal fisco, dall’amministrazione pubblica, dal sistema giudiziario e dalla mancanza di infrastrutture, sono spesso questioni di metodo a livello gestionale e organizzativo che impediscono una ulteriore espressione del potenziale delle nostre imprese. E sempre di più si evidenzia la necessità di cooperare, di fare rete, per creare sinergie ad esempio nella commercializzazione o nella internazionalizzazione». Quali sono le misure da mettere in atto con più urgenza per sostenere le imprese? «Ho già parlato della semplificazione amministrativa e della riduzione della pressione fiscale. Vorrei però sottolineare ancora quello che rappresenta il principale scoglio di questa fase di crisi: la liquidità e la stretta creditizia. Le banche, se necessario anche con garanzie di terzi o dello
Stato, devono urgentemente sostenere le imprese, anche nell’interesse delle banche stesse. Un altro fattore gravissimo sono i ritardi nei pagamenti che molte volte rendono impossibile la vita alle imprese. In una fase così critica, lo Stato dovrebbe fare di tutto per agevolare i pagamenti della pubblica amministrazione che spesso hanno dei ritardi notevoli. Come già accennato, proprio in questa crisi ci si rende conto quanto pesi l’inefficienza della giustizia civile: di fronte a un cliente che non paga, un’azienda è priva di una tutela efficace e tempestiva». Scarsità di investimenti in R&S e difficoltà ad aprirsi a un management esterno sono alcuni dei limiti che affliggono l’imprenditoria italiana. Qual è, dal suo osservatorio privilegiato, il suo vero stato di salute? «Sembra che anche in queste circostanze l’imprenditoria italiana reagisca meglio di altre realtà. Per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo le nostre Pmi sono molto più attive di quanto sembri. Negli anni scorsi, ad esempio, hanno dimostrato di sapersi riposizionare strategicamente grazie a una capacità innovativa che le ha collocate più in alto sull’asse del valore rispetto alla concorrenza asiatica. Sarebbe auspicabile che le imprese che spesso non possono investire in R&S utilizzino di più le possibilità offerte dalle università o altri istituti. Più difficile è invece la questione del management; è un problema normalmente molto “umano”: può succedere che l’imprenditore faccia fatica a riconoscere i suoi limiti manageriali e che il giovane manager laureato non riesca a comprendere il valore della creatività di un imprenditore che si è costruito da sé. Si supera questa empasse solo se si mette al centro il bene dell’impresa e non le proprie convinzioni o le proprie abitudini. Diffondere conoscenze e costruire un’educazione che possano favorire l’ingresso di nuove generazioni nelle piccole imprese, potrebbe essere una risorsa formidabile per il futuro dell’azienda italiana». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA Pierluigi Bernasconi
PIERLUIGI BERNASCONI amministratore delegato e direttore generale della societĂ Mediamarket
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SI DIVENTA LEADER ANTICIPANDO IL MERCATO Relazione di fiducia con i clienti. Una formazione tecnica specializzata di alto livello per le proprie risorse umane. E un’estensione della tipologia dei prodotti, senza escludere alcuna possibilità. Pierluigi Bernasconi spiega come Mediamarket affronta le contrazioni dei consumi, mettendosi in gioco a trecentosessanta gradi MARIALIVIA SCIACCA
n un momento di recessione, le aziende devono muoversi in direzione dei clienti, dovunque si trovino e non aspettare che siano loro a recarsi a comprare. Molte sono le possibili strategie, dalle più nuove, come il Web, a quelle più tradizionali, che arrivano dirette alle persone, come il volantino. L’amministratore delegato di Mediamarket, Pierluigi Bernasconi, spiega quali vie intraprendere per salvaguardare il rapporto con i consumatori. Mediamarket è la prima azienda italiana nell’ambito della distribuzione non alimentare. Quali sono le strategie per sostenere questo primato? «Mediamarket è riuscita a conquistare la leadership nella grande distribuzione per la capacità di anticipare le tendenze di mercato, di proporre un modello di business innovativo e di ideare un format distributivo unico per tutti i negozi, con ampiezza e profondità di assortimento a prezzi concorrenziali, individuando le migliori location sul territorio. La nostra filosofia del
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cliente al centro è un tratto distintivo, riconosciuto come sinonimo di affidabilità. In questo periodo di crisi vendere significa avere molto più rispetto del denaro dei consumatori con un migliore rapporto tra prezzo e qualità». I punti vendita Media World hanno fatto della riconoscibilità della propria immagine la loro forza. Questa strategia sarà valida anche in un’ottica di lungo periodo? «La forza di Media World risiede soprattutto nel proporre format innovativi capaci di distinguersi nettamente. Sperimentare è una nostra priorità per migliorare le nostre prestazioni ma una volta trovata una strategia appropriata tendiamo a mantenerla su tutti i punti vendita. Quello su cui si può puntare per differenziarsi sono multicanalità, multispecializzazione e una diversificazione dei prodotti e servizi. Multicanalità significa incontrare il cliente ovunque sia e offrirgli programmi di fidelizzazione attraverso carte multivantaggi, possibilità di acquistare online e telefonicamente DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA Pierluigi Bernasconi
e infine un’assistenza capillare. La multispecializzazione invece facilita le scelte del consumatore mediante strutture espositive dedicate in ogni settore merceologico e offrendo una consulenza di vendita globale e specialistica per interpretare i bisogni del cliente in modo diretto e distintivo. Per diversificazione, infine, intendiamo l’offerta di prodotti o servizi non strettamente legati al core business Mediamarket come libri, viaggi o biglietti di eventi». In che modo la distribuzione del settore elettronico ha risentito della contrazione economica? «È necessario conciliare l’operatività con le esigenze di una visione strategica a lungo termine. Per la diDOSSIER | LOMBARDIA 2009
stribuzione il lavoro non è facile perché a fronte di un fenomeno deflattivo non è semplice mantenere i risultati. Le quantità di prodotti venduti ora non sono diminuite, ma è sceso notevolmente il prezzo medio delle grandi famiglie di prodotti. Per affrontare la crisi diventa necessario continuare a migliorare il margine di vendita, tenendo presente che un aumento dei prezzi al consumatore non è possibile. Benché oggi la pubblicità su volantino possa apparire un canale un po’ datato resta per noi ancora il miglior mezzo d’interazione con il cliente. Siamo stati i primi a elaborare un volantino che non fosse solo una vetrina ma anche uno strumento di consultazione tecnica, insieme al
magazine». In che modo si stanno evolvendo le abitudini di acquisto degli italiani oggi? «Stiamo assistendo a un crollo delle vendite del prodotto di fascia media a vantaggio del low cost e del bene di lusso. Il potere d’acquisto è diminuito, i consumatori sono più attenti nelle scelte e nel momento in cui decidono di comprare tendono a preferire il prodotto migliore nell’ottica di una maggiore durata nel tempo. Le vendite sono positive per tutti i prodotti migliorano la qualità del tempo che si passa in casa, ossia i piccoli elettrodomestici, l’elettronica ludica, i netbook di ultima generazione, i notebook e i televisori a schermo piatto. Particolarmente
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significativa è la crescita del mercato Internet. La sempre minore disponibilità di tempo, la diffusione di sistemi di sicurezza per i pagamenti come carte di credito ricaricabili e la sempre più frequente apertura di siti e-commerce hanno aperto nuovi orizzonti». Quanto incidono i prodotti d’avanguardia sul mercato complessivo dell’elettronica? «La competitività dei prezzi e la presenza sul territorio appaiono soluzioni oggi insufficienti a controbattere la crisi economica. Per questo la ricerca di prodotti nuovi e a valore aggiunto e la capacità di trovare nuovi modi di comunicazione con il consumatore diventano leve fondamentali per differenziarsi dai
competitor e creare fedeltà all’insegna. Siamo stati, per esempio, i primi in Italia a commercializzare i netbook tramite il nostro sito. Ne abbiamo venduti circa mille ancora prima di averli in punto vendita». In un momento in cui molte aziende licenziano, Media World ha chiuso il 2008 con l’apertura di nuovi punti vendita. Come si prospettano i prossimi mesi? «Non ci siamo fatti cogliere impreparati dall’attuale fase recessiva. Non potendo più contare su una crescita generale del mercato dobbiamo essere molto più selettivi nella progettazione dei nostri punti vendita ma abbiamo in programma di aprire altri negozi e di assumere circa quattrocento nuovi addetti,
giovani e appassionati di elettronica. Continuiamo anche ad investire in capitale umano perché siamo convinti che nel raggiungimento dell'eccellenza del servizio, sono le persone che rappresentano il brand. Da alcuni anni Mediamarket è diventato sinonimo di formazione grazie alla Mcu Mediamarket Corporate University, la prima business school nell’ambito del retail italiano nata in collaborazione con il Politecnico di Milano. È stata concepita come una scuola di formazione e qualificazione permanente progettata ad hoc sulla realtà dell’azienda. La scuola porta al conseguimento di un master in retail management legalmente riconosciuto; è rivolta a tutto il personale Mediamarket e, a oggi, coinvolge 200 persone». Quanto incide nel settore dell’elettronica il canale di vendita online? «Le vendite ottenute attraverso il nostro sito sono in crescita. Molto utilizzati sono anche i servizi, come la stampa delle foto e i download di film. Il nostro approccio è comunque di gestire il sito come un canale integrativo nella nostra strategia. Nei negozi sono disponibili delle card utilizzabili per il download di brani musicali o di film sul sito. In una corretta strategia multicanale quindi il punto vendita e il sito ecommerce permettono di disporre di percorsi complementari per arrivare al consumatore finale». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA Matteo Marzotto
MATTEO MARZOTTO Presidente dell’ENIT - Agenzia Nazionale del Turismo
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LA RETE VINCENTE PER IL RILANCIO DEL TURISMO ITALIANO Un vigoroso potenziamento delle infrastrutture. Una comunicazione unitaria del brand Italia all’estero. E un’adeguata sistematizzazione dell’offerta. Questi i punti chiave per valorizzare il turismo italiano secondo Matteo Marzotto, presidente dell’ENIT-Agenzia Nazionale del Turismo. Che esorta gli operatori: «Bisogna unire le forze e fare sistema» GIUSI BREGA
er far ripartire l’Italia turistica è fondamentale mettere in atto un programma di rilancio del nostro Paese all’estero. Via libera dunque agli interventi volti ad agevolare la riqualificazione e la crescita del comparto, e a rendere più incisive le azioni di comunicazione e promozione del Paese all’estero. Per questo il presidente dell’ENIT-Agenzia Nazionale del Turismo, Matteo Marzotto, esorta gli operatori del turismo incoming a intensificare l’impegno e gli sforzi «sul fronte della qualità e della competitività». Senza farsi tentare da facili allarmismi o speranze illusorie, Marzotto illustra il suo punto di vista sullo stato di salute del turismo italiano. «Sono convinto - afferma - che la fortissima frammentazione del settore non aiuti a fare sistema e causi una forte dispersione di forze e di risorse». Per questo chiede uno «sforzo ulteriore per ampliare e coordinare l’offerta turistica» e auspica «che i problemi strutturali del settore, come quelli congiunturali, trovino finalmente una sintesi efficace in una politica nazionale e regionale che consolidi le prospettive del-
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l’industria di cui il Paese non può fare a meno, utilizzando al meglio la forza del brand Italia». Presidente Marzotto, in un momento di difficoltà come quello che stiamo attraversando, quanto il turismo può essere considerato volano per la nostra economia? «Il turismo contribuisce per circa l’11,5% al Pil nazionale. Credo di poter tranquillamente affermare che si tratti dell’industria più importante di cui il Paese dispone. Si deve prendere coscienza che il turismo è una componente fondamentale per l’economia del Paese e agire di conseguenza». A suo avviso, si fa abbastanza per promuoverlo e sostenerlo? «Non si sta facendo abbastanza, poiché manca una strategia di promocomunicazione concertata. Di contro, ci troviamo in una situazione caratterizzata dalla frammentazione della comunicazione che va a discapito del brand Italia: il nostro Paese viene promosso seguendo una logica di suddivisione in aree geografiche che non arrivano al potenziale consumatore in modo organico e comprensibile». Dunque è auspicabile la creazione DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA Matteo Marzotto
di un brand unitario che coordini gli sforzi delle diverse Regioni. «Il brand unitario esiste già. Non a caso il nostro è uno dei cinque Paesi in assoluto più conosciuti al mondo come meta turistica. Vi è tuttavia una scarsa propensione ad anteporre il brand Italia a qualsiasi altra comunicazione. E questo è penalizzante, poiché solo sfruttando appieno le potenzialità derivanti dall’utilizzo di un marchio unico è possibile trainare di volta in volta l’attenzione sulle varie eccellenze che si vogliono via via promuovere». La prevista creazione di un ministero del Turismo è senza dubbio un segnale positivo da parte della politica. Qual è la sua posizione in merito? «La creazione del ministero del Turismo è stata solo ipotizzata, ma non ancora annunciata. È indubbiamente auspicabile la sua istituzione poiché non è opportuno che un’industria di questa portata non abbia chi la rappresenti in modo unitario». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
Qual è, a suo avviso, il modo migliore di promuovere l’immagine del Paese? «È necessaria un’azione sinergica e coerente. Le risorse per promuovere al meglio il nostro brand ci sono, ma meritano di essere gestite centralmente. La modifica del Titolo V della Costituzione ha sancito in qualche modo che il turismo diventasse materia esclusiva delle Regioni. A mio avviso, però, almeno per quanto riguarda la promozione e la pubblicità della destinazione Italia, non credo sia efficace che le Regioni abbiano questa autonomia. Sarebbe più opportuno, in modo non competitivo ma collaborativo, almeno discutere riguardo a ciò che riguarda la promozione del territorio. Auspico, tuttavia, il ritorno ad una struttura di gestione centrale». Quanto hanno influito negativamente la questione rifiuti a Napoli o la risonanza internazionale di Gomorra sull’immagine dell’Italia all’estero?
«Napoli e la Campania, e di riflesso l’Italia, hanno subito un colpo drammatico. Bisogna risalire la china e questo può avvenire solo con la messa in atto di azioni concertate. Per quanto riguarda Gomorra, pur considerandola un’opera d’arte, non credo abbia fatto pubblicità positiva all’Italia. Al di là di tutto, però, non si può immaginare che si ritorni semplicemente alla normalità solo perché passa il tempo e la gente dimentica. Perché la gente non dimentica. Specialmente se il rapporto tra qualità e prezzo dell’offerta turistica non migliora. Occorre offrire dei pacchetti di eccellenza ambientale, culturale ed enogastronomica, motivando le persone a visitare le nostre bellezze che rimangono straordinarie e dalle quali si può ripartire». Recentemente sono state avviate diverse attività di partnership, nel settore del turismo, con Paesi come gli Emirati Arabi. Quali sono le possibilità in questo
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Strategie condivise per il comparto Valorizzare le eccellenze. Investire in promozione. Garantire una qualità globale dell’offerta. In un’ottica di ottimizzazione del brand Italia, meglio se in sinergia con altri Paesi europei. Michela Vittoria Brambilla traccia le linee guida per lo sviluppo
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presentare maggiori vantaggi. Il che vuol dire a inizio una nuova strategia proporre itinerari che non solo siano particolardi promozione per il turismo mente attrattivi sotto il profilo culturale e paesagitaliano. Lo scorso 19 febgistico ma diano anche garanzie per quanto braio, in occasione della Bit riguarda affidabilità di servizi e di reti di tradi Milano, Michela Vittoria Brambilla, sporto». insieme a Joan Mesquida Ferrando, segretario di Stato al turismo spagnolo, e Hervé Novelli, mini- Dove serve intervenire con più urgenza? «Gli obiettivi sono diversi. Una stro francese del Turismo, ha firpromozione più aggressiva e semmato il Protocollo d’Intesa tra pre di più ancorata a un sistema Italia, Francia e Spagna, tre Paesi d’offerta che, per qualità e prezzi, concorrenti “storici”, in tema di sia il più possibile vantaggiosa; poi politiche turistiche. Tre Paesi eurouna maggiore attenzione al settore pei decisi a fare squadra in virtù crocieristico, l’unico che oggi non della forza data dalla loro storia, sembra risentire della crisi; infine dalla loro cultura e dal patrimonio pressanti interventi sul sistema ambientale e paesaggistico e, probancario perché, in questa fase di prio per questo, in grado di intercrisi, non faccia mancare sufficettare gran parte di flussi turistici cienti linee di credito alle centiinternazionali. Un risultato connaia di migliaia di piccole e medie creto e condiviso che coincide con imprese che operano in questo il beneaugurante piazzamento settore e che, anzi, costituiscono il dell’Italia al quarto posto nella top fulcro del nostro sistema». ten del Country Brand Index Dove invece il nostro turismo 2008, lo studio internazionale continua a mantenere livelli di sull’immagine di oltre quaranta eccellenza assoluta? Paesi nel mondo, condotta da Fu«Le città d’arte e le nostre coste tureBrand e Weber Shandwick e rappresentano senza dubbio i nopresentato a Londra, in occasione stri settori di eccellenza. Il prodel World Travel Market 2008. MICHELA VITTORIA BRAMBILLA Sottosegretario al Turismo blema semmai è quello di Quali sono le strategie vincenti programmare meglio, facendo leva per esportare insieme al nostro su più adeguate sinergie, il nostro made in Italy anche il marchio sistema d’offerta in modo che i Italia? nostri musei possano praticare una politica di «Occorre una più efficace programmazione di prezzi che vada maggiormente incontro alle esitutto il nostro sistema d’offerta ed è importante che, per la realizzazione di questo obiettivo, Stato genze dei giovani come degli anziani. Ad esempio, penso che sarebbe utile, come si fa sulle e Regioni oggi abbiano cominciato a operare in nostre montagne con lo skipass, ideare una card stretto coordinamento. Sia per la domanda inche consentisse al turista che soggiorna in una deterna che per quella estera occorre mettere mano terminata città di visitare un gran numero di a pacchetti integrati che diano modo al singolo turista come a quei tour operator che gestiscono i musei e di aree culturali a prezzi ridotti. E il nostro ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi, grandi flussi, di poter valutare un tipo di offerta sta già assumendo importanti iniziative». che, proprio perché onnicomprensiva, può rapDOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LE RISORSE PER PROMUOVERE AL MEGLIO IL NOSTRO BRAND CI SONO, MA MERITANO DI ESSERE GESTITE CENTRALMENTE
senso? «Il recente viaggio istituzionale che ha toccato il Qatar e gli Emirati Arabi ha un potenziale molto elevato. Si tratta di una regione che sta attivando enormi investimenti dal punto di vista culturale per attrarre eccellenze e ha promosso la creazione e il consolidamento delle infrastrutture con lo scopo di realizzare il proprio hub aereo. In particolare, l’India e il sud est asiatico stanno potenziando i propri voli diretti in Italia e questo si tradurrà con l’opportunità per il nostro Paese di utilizzarli come ponte per il transito DOSSIER | LOMBARDIA 2009
di masse di turisti qualificati. Non dimentichiamo che l’Italia esercita sempre un grande fascino culturale e attirare visitatori dalle grandi capacità di investimento, sia per potere di spesa sia per i grandi numeri coinvolti, è un obiettivo che dobbiamo perseguire con impegno e determinazione». Considerando anche la situazione finanziaria internazionale, quali sono i Paesi su cui occorre concentrare la promozione del brand Italia? «Vi sono Paesi che possono essere considerati i nostri clienti migliori,
verso i quali bisogna mantenere la massima attenzione. Si tratta della Germania, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, della Francia, della Spagna e degli Stati frontalieri. Accanto a questi, il cui rapporto è ormai consolidato e maturo, esistono Paesi ad alto potenziale di opportunità, come l’India, la Cina, le Filippine e la Corea del Sud che garantiscono delle cifre esponenziali in termini di potenziali turisti. È su questi Paesi che l’ENIT-Agenzia Nazionale del Turismo, crisi economica a parte, vorrebbe puntare i propri investimenti».
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CULTURA E AFFARI Mario Resca
IL MANAGEMENT ENTRA NEL MUSEO Meno quantità, più qualità e migliore comunicazione. Sono queste, secondo Mario Resca, neo-direttore dei Musei italiani, la parole chiave del rilancio del sistema culturale nazionale. Per valorizzare un patrimonio «che è di tutti, non solo dello Stato». Ma che se non viene valorizzato e comunicato nel modo giusto, non può esprimere il suo incredibile potenziale attrattivo AGATA BANDINI
o scorso dicembre, con l’approvazione del nuovo regolamento attuativo del ministero dei Beni culturali, è stato chiamato a ricoprire la carica di direttore dei Musei italiani. E per Mario Resca, manager di lunghissimo corso, a capo di Mc Donald’s Italia negli ultimi quindici anni, è stata subito polemica. Il segnale deciso di un cambio di rotta voluto dal ministro Sandro Bondi, con l’adozione di un approccio fortemente manageriale in un campo come la cultura, ha sollevato dubbi e critiche, sfociate in un appello di protesta siglato da settemila firmatari. Ma Resca, di questa reazione, sembra non preoccuparsi affatto. Anzi: «Le polemiche sono, in fondo, il segnale che a molta gente importa dei nostri beni culturali», fa notare. E aggiunge: «L’importante è che si comprenda la necessità di agire, per recuperare una situazione di fatto in declino. Per mancanza di mezzi, certamente, ma forse anche di idee». La sua nomina, lo scorso novembre, ha sollevato diverse critiche. Come risponde? «Come ho detto già in altre occasioni, una tale reazione per me è positiva. Intanto perché 7mila firme sono comunque segno di un grande interesse per le sorti
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del nostro patrimonio artistico. In secondo luogo, perché questa alzata di scudi ha permesso alla questione culturale di lasciare le terze pagine per saltare in primo piano sui giornali di mezzo mondo: dal New York Times al Der Spiegel, dall’Est Europa al Medio Oriente, tutti hanno parlato, in un modo o nell’altro, di questa reazione un po’ atipica del mondo culturale italiano di fronte alla possibilità di affidare la gestione dei beni culturali a un non “addetto ai lavori”». Da dove è nata la polemica, secondo lei? «Ovviamente, il fatto che sia stato in Mc Donald’s per 15 anni è stato preso come spunto per sollevare un presunto “scandalo”. Ma in trent’anni di lavoro, sono stato in molte aziende, tra cui Rizzoli e Mondadori, solo per citarne un paio relative all’industria culturale. C’è stato però un fraintendimento di fondo: l’idea del ministro è di separare la tutela dei beni culturali, campo in cui abbiamo grandissime eccellenze e professionalità, dalla loro valorizzazione, che è un
fatto di marketing, di organizzazione, di strategie. Ecco, il mio compito è di valorizzare la cultura italiana. E quindi anche e soprattutto tutti coloro che sono impegnati a tutelarla e che lavorano a tempo pieno in questo settore». Come cambiano le strategie di valorizzazione quando il bene in oggetto è culturale? «Alla base sono molto simili. Perché è vero che abbiamo un patrimonio culturale tra i più importanti del mondo, sia per qualità che per quantità. Ma come per qualsiasi
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© Augusto Casasoli A3 / CONTRASTO
MARIO RESCA Dallo scorso dicembre è direttore generale dei Musei italiani. In attesa che entri in vigore il nuovo regolamento attuativo dei Beni culturali, opera come consulente del ministero
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CULTURA E AFFARI Mario Resca
bene, rimane invisibile, se non sappiamo valorizzarlo. Del resto, basta osservare i dati del turismo mondiale: ovunque è in crescita, mentre da noi è in calo, in particolare quello culturale. È evidente, insomma, una perdita di competitività, che si traduce in quote di visitatori molto più basse rispetto al resto dei Paesi europei». In effetti, tra i primi dieci musei più visitati al mondo, nessuno è italiano. Come si spiega un dato simile a fronte dell’indubbio valore del nostro patrimonio? «È vero che abbiamo moltissimi musei sparsi sul territorio. E tuttavia, alla fine sono pochi quelli che vengono visitati, e anche questi spesso non sono sufficientemente attrezzati ad accogliere il loro pubblico potenziale. Si pensi solo alla concentrazione di opere presenti presso gli Uffizi, la pinacoteca di Brera, l’archeologico di Napoli, Galleria Borghese. In altri Paesi, con molto meno, riescono
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«SE GLI UFFIZI FANNO UN MILIONE CIRCA DI VISITATORI L’ANNO, IL LOUVRE NE FA OTTO. FORSE SAREBBE PREFERIBILE AVERE MENO MUSEI, MA DI MAGGIORI DIMENSIONI, MAGGIORE QUALITÀ E PIÙ FORTE RICHIAMO»
ad attrarre molte più presenze. Se gli Uffizi fanno un milione circa di visitatori l’anno, il Louvre ne fa otto. Forse sarebbe preferibile avere meno musei, ma di maggiori dimensioni, maggiore qualità e più forte richiamo. Le attuali celebrazioni del Futurismo, ad esempio, hanno frammentato il potenziale attrattivo in singole iniziative locali, con poca disponibilità di risorse e potere contrattuale. Se si fossero concentrati gli eventi su una sola realtà, gli investimenti sarebbero stati probabilmente maggiori. Cosa bisognerebbe fare, allora? «Occorre, prima di tutto, un vero
e proprio turnaround nella valorizzazione, un cambio di rotta, investendo con decisione su comunicazione e pubblicità. Il che non significa voler mercificare la cultura, ma solo rendere questo nostro incredibile patrimonio attraente per un flusso di turisti maggiore e più frequente. E per fare questo, bisogna rendere l’esperienza museale in sé piacevole e attraente, migliorandone ogni aspetto, dall’accoglienza al rapporto qualità-prezzo fino agli orari, troppo spesso penalizzanti soprattutto per gli stranieri. Bisogna poi migliorare tutto ciò che circonda l’offerta culturale in sé: infrastrut-
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ture, ricettività, trasporti. Coinvolgere, insomma, i diversi attori del territorio, enti, associazioni, tour operator, ma anche fondazioni e privati, in uno sforzo comune, una strategia globale». Da un punto di vista prettamente comunicativo, che linea va adottata? «Il piano triennale che stiamo elaborando prevede, sotto questo aspetto, una strategia integrata, basata sul marketing mix, ma incentrata su un messaggio semplice e chiaro, che dice al cittadino “ti aspettiamo, siamo pronti ad accoglierti”. Perché le alternative, oggi, sono moltissime, dalla televisione a Internet, e per farvi fronte serve una campagna pluriennale, unica e chiara. Anche perché solo il 5% dei frequentatori di musei sono specialisti: la maggior parte sono persone desiderose di apprezzare l’arte, ammirare il bello. Consapevoli che la cultura è un elemento di elevazione culturale, per il singolo e per il Paese».
Queste, dunque, le principali urgenze e quali sono, invece, le punte di eccellenza? «La verità è che, come contenuto, il nostro patrimonio museale è ovunque eccellente, invidiabile addirittura. Il problema è organizzativo e gestionale. Un esempio positivo in questo senso viene dal Museo Egizio di Torino, dove l’organizzazione è stata delegata a una fondazione costituita ad hoc dal ministero, ma realizzata responsabilizzando il territorio, cercando risorse economiche in loco e dando maggiore autonomia decisionale, e dunque più motivazione, al management, passando così una situazione difficile a esempio virtuoso per numero di visitatori, organizzazione interna, qualità dell’allestimento». La questione del finanziamento rimane, quindi, un nodo cruciale. Da un punto di vista manageriale, quali soluzioni sarebbero auspicabili? «Vanno fatte due considerazioni.
La prima è che è vero, purtroppo i tagli ci sono stati e hanno toccato anche la cultura. Ed è un peccato, perché è proprio lì che risiede l’identità del Paese. Questo però deve stimolare a essere più convincenti, a non rallentare gli investimenti in un settore che, non bisogna dimenticarlo, crea grande ricchezza, anche in termini di indotto. La seconda è che in Italia il contributo dei privati alla cultura non è incoraggiato dai forti sgravi fiscali previsti invece negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, dove ormai la maggior parte delle necessità finanziarie dei musei è in mano al privato e alle fondazioni, oltre che ai visitatori stessi, tramite i cosiddetti “servizi aggiuntivi”: merchandising, bookstore, ristorazione e così via. È su questo che bisogna puntare anche in Italia. Perché, lo ripeto, il problema dei nostri musei non è la qualità, che è indubitabile. È l’esperienza museale in sé che deve essere rinnovata». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECCELLENZE ITALIANE Michele Tronconi
MICHELE TRONCONI Presidente di Sistema Moda Italia, una delle pi첫 grandi organizzazioni mondiali di rappresentanza degli industriali del tessile e moda
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ECCELLENZE ITALIANE
LA STRADA VIRTUOSA DELLA COLLABORAZIONE La caduta generalizzata dei consumi e la fase recessiva rischiano di far uscire centinaia di aziende del settore tessile moda dalla filiera produttiva. Per Michele Tronconi, presidente di Sistema Moda Italia, serve una terapia d’urto con misure tempestive e mirate. Che non possono prescindere dall’intervento del governo. E dalla determinazione degli imprenditori ANNA NEI
industria tessile-abbigliamento-moda rappresenta, rispetto al complessivo settore manifatturiero in Italia, il 25% dell’attivo della bilancia commerciale, l’11% dell’occupazione e il 7% del valore aggiunto. La crisi in atto rischia pertanto di pregiudicare irrimediabilmente una filiera produttiva che costituisce uno dei punti di forza del made in Italy e, quindi, dell’intera economia del Paese. Al termine del 2008, Sistema Moda Italia e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle altre associazioni del comparto moda-persona, comprendente i segmenti del tessile-abbigliamento, pelli, cuoio, calzature e occhiali, hanno presentato al governo un documento congiunto di politica economica convinti, come spiega il presidente di Smi Michele Tronconi, che «la gravissima crisi che si stava profilando, e dalla quale siamo stati poi investiti, potesse essere affrontata solo attraverso una forte collaborazione tra Stato e mercato». Per Tronconi occorrono con urgenza misure di sostegno ai consumi e alla capacità produttiva delle imprese del sistema moda, impegnandosi a potenziare, anche temporaneamente, gli ammortizzatori sociali e la for-
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ECCELLENZE ITALIANE Michele Tronconi
mazione professionale. Incassata la disponibilità del ministro Claudio Scajola a discutere quanto prima delle proposte avanzate dal settore tessile-moda, si guarda ora al feedback delle istituzioni. «Ci attendiamo risposte adeguate all’importanza che il nostro settore riveste per l’economia del Paese, a partire dal suo contributo alla bilancia commerciale che compensa buona parte del deficit energetico italiano». A livello regionale o locale, si segnalano tavoli di trattative o misure di appoggio straordinarie al vostro settore particolarmente efficaci? «Registriamo grande attenzione e solidarietà da parte delle amministrazioni locali e, in particolare, da quelle dei distretti più importanti per la nostra industria. Ma le difficoltà che dobbiamo incontrare non possono che essere affrontate in modo coordinato, partendo da una dimensione nazionale, per arrivare a quella regionale e poi distrettuale, pena l’inefficacia delle singole iniziative. Non si possono, infatti, soDOSSIER | LOMBARDIA 2009
stenere le imprese tessili se poi quelle dell’abbigliamento rimangono incapaci di fare ordini. Allo stesso modo, non si può pensare di mantenere l’abbigliamento perdendo la rete di fornitura tessile. In entrambi i casi, si comprometterebbero quella capacità propositiva, quella flessibilità e quella velocità di risposta ai mercati, che costituiscono le principali caratteristiche del vero made in Italy». Dove è partito l’effetto domino che ha coinvolto l’intero comparto produttivo e distributivo nazionale? «L’effetto domino è iniziato nell’ultimo trimestre del 2008, con la caduta libera dei consumi nel tessile-abbigliamento in gran parte del mondo. Una tendenza che, in un comparto come il nostro, il cui fatturato dipende mediamente per oltre il 50% dalle esportazioni, sta determinando il sostanziale blocco degli ordinativi lungo la filiera produttiva interna. Il discorso vale soprattutto per le aziende a monte, come le filature, le tessiture e quelle di nobilitazione».
Oggi imprenditori e sindacati stanno muovendosi nella stessa direzione oppure esistono alcune divergenze? «C’è una lunga tradizione di relazioni industriali nel nostro settore, basate sul confronto costruttivo e sulle scelte condivise, che ci ha già portato ad affrontare altre drammatiche crisi, pur nel rispetto dei differenti e legittimi interessi. E anche in quest’occasione, non è venuta meno la collaborazione con il sindacato e da qui è scaturito il documento di politica industriale congiunto che abbiamo poi inviato al governo». Ha la sensazione che la moda e il tessile made in Italy siano stati dimenticati e che, quindi, vi sia stata una sottovalutazione della crisi in atto? «Il tessile-abbigliamento, a differenza di qualche altro settore, ha sempre saputo superare le criticità congiunturali con le proprie forze, innovando nei processi di produzione e nei prodotti, alimentando costantemente i processi di internazionalizzazione. Tale orienta-
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IN VIRTÙ DELLE CARATTERISTICHE GLOBALI DELLA CRISI, ABBIAMO NECESSITÀ DI UNA COLLABORAZIONE INEDITA PER IL NOSTRO COMPARTO TRA STATO E MERCATO
mento può aver contribuito non tanto a sottovalutare il nostro ruolo, quanto a pensare che anche questa volta avremmo potuto farcela da soli. Ma il contesto in cui operiamo adesso è profondamente diverso. Proprio per le caratteristiche globali della crisi, abbiamo la necessità di mettere in campo una collaborazione inedita, per il nostro comparto, tra Stato e mercato. Ciò per impedire che, alla fine, ci si ritrovi senza parti fondamentali della filiera del tessile-abbigliamento-moda, la cui multiforme ma completa articolazione, dalla fibra all’abito, individua l’essenza del valore del made in Italy». Il segmento del lusso sta tenendo come da previsione oppure si è
trattata di una prospettiva errata, almeno per quanto riguarda il vostro comparto? «Per quanto riguarda le previsioni sul futuro, in questo momento nessuno è in grado di compierne di veramente attendibili. Quello che possiamo e dobbiamo fare è lavorare con grande collaborazione per innescare, anche solo parzialmente, un circolo virtuoso che impedisca la cessazione delle attività, la chiusura delle aziende e la dispersione della professionalità. Di fronte a una così ampia incertezza, abbiamo solo due opzioni riguardo al nostro futuro: o lo costruiamo, insieme, o lo subiamo». Quali sono le realtà produttive che stanno reagendo meglio alla
situazione? «La situazione è complessivamente problematica e tutte le realtà produttive, sia piccole che grandi, stanno soffrendo, pur con qualche differenza. Senz’altro le aziende più internazionalizzate hanno maggiori elementi di bilanciamento. Ciò, tuttavia, non elimina il nodo cruciale: anche le aziende più grandi e internazionalizzate, finirebbero con il perdere gran parte della loro capacità propositiva, qualora venisse meno la loro rete di fornitura nazionale. Non bisogna poi trascurare il fatto che le esportazioni sono in generale frenata». Si è mai registrata una situazione analoga per il settore moda o appare senza precedenti? «Il settore tessile-moda ha nel passato subìto diverse crisi, determinate dall’evoluzione tecnologica, dall’apparire sui mercati di nuovi, agguerriti competitor, da fasi congiunturali critiche in alcuni mercati chiave, ma dal secondo Dopoguerra in poi non si era mai affrontato un calo così generalizzato dei consumi, al quale si sovrappone una pesantissima crisi finanziaria che impedisce, di fatto, l’accesso al credito a gran parte delle aziende. Riscontro però negli imprenditori del settore la volontà di non desistere e tale determinazione, unita alle politiche pubbliche che mi auguro verranno messe in campo, mi porta a dire che, anche questa volta, sapremo uscire dal tunnel». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese MARCO MARIO MILANESE deputato del Gruppo Pdl alla Camera e consigliere politico di Giulio Tremonti di cui ha guidato la segreteria e il Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio
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ECONOMIA E FINANZA
IL SISTEMA NE USCIRÀ RINFORZATO Più norme e più controlli condivisi. Occorre questo per uscire dalla crisi finanziaria internazionale secondo Marco Mario Milanese, consigliere di Giulio Tremonti. Una ricetta che il ministro dell’Economia propone al gotha economico del pianeta. E che in Italia sarà affiancata da altri provvedimenti GIUSI BREGA
l’uomo di fiducia di Giulio Tremonti. È lui che da dieci anni lavora accanto al ministro dell’Economia, dapprima come aiutante di campo quando era tenente colonnello della Guardia di Finanza, poi come capo segreteria di Tremonti nel suo incarico di vicepresidente del Consiglio. Oggi Marco Mario Milanese è parlamentare del Pdl e commissario straordinario di Forza Italia in Irpinia, ma continua a essere consigliere politico d’eccezione del titolare del dicastero dell’economia. Milanese è un personaggio che non avverte il bisogno di mettersi
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in mostra. Per lui, del resto, parlano i fatti e gli anni di collaborazione continuativa con Giulio Tremonti che ha seguito nei suoi diversi incarichi. Professore ordinario di diritto tributario alla Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze, Milanese è titolare di una cattedra che riveste una particolare importanza in un periodo della storia della Repubblica in cui si annunciano importanti cambiamenti tributari alle porte. Laureato in scienza della sicurezza economica finanziaria, può analizzare gli effetti della congiuntura economica in corso con rea-
lismo: «L’Italia è sicuramente un Paese più al sicuro degli altri dai contraccolpi della congiuntura – spiega –. Ciò è dovuto a una legislazione nazionale puntuale e precisa, ma anche alla propensione delle nostre banche a essere meno internazionali. Ma un grande merito va anche al basso debito privato delle famiglie italiane». Ritiene che il collasso della finanza statunitense e poi internazionale sia avvenuto anche per carenze legislative che tutelassero investitori e risparmiatori in ambito finanziario? «Assolutamente sì. Oramai possiamo dire senza essere smentiti DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese
che la crisi è prima di tutto finanziaria e poi economica. Perché questa difficile situazione è una diretta conseguenza della crisi finanziaria. Ed è una crisi che è nata dalla mancanza di regole e dall’assenza di controlli». Su quali aspetti bisognerebbe lavorare maggiormente in ambito normativo per tutelare l’economia e la finanza italiane mettendole così al riparo da ulteriori tracolli internazionali? «La proposta del Governo Berlusconi che il ministro Tremonti ha presentato a Roma in occasione di un G7 dei ministri economici e finanziari va proprio in questa direzione. Puntiamo alla messa a punto di regolamentazioni attra-
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«PUNTIAMO ALLA MESSA A PUNTO DI REGOLAMENTAZIONI ATTRAVERSO UN “LEGAL STANDARD”, OVVERO UN QUADRO DI REGOLE CONDIVISO PER L’INTERO SETTORE FINANZIARIO E CAPITALISTICO»
verso un “legal standard”, ovvero un quadro di regole condiviso per l’intero settore finanziario e capitalistico». Maggiori controlli e più trasparenza potrebbero dunque rendere più sicuro il sistema? «Questa crisi è nata soprattutto per mancanza di regole comuni e condivise. Oggi per uscirne le soluzioni sono più regole, più coordinate e, quindi, più controlli».
Da esperto di diritto tributario internazionale, come guarda all’introduzione del federalismo fiscale? «Il federalismo fiscale oramai è un processo non rinviabile e non più eludibile. Si tratta di un passaggio voluto oramai da tutti, primo fra gli altri dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’introduzione di questa misura permetterà di responsabi-
ECONOMIA E FINANZA
UNA CARRIERA AL FIANCO DI GIULIO TREMONTI Marco Mario Milanese è consigliere politico di Giulio Tremonti. Ha conosciuto l’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze dieci anni fa, mentre ricopriva il ruolo di tenente colonnello della Guardia di Finanza. In seguito, Milanese ha rivestito gli incarichi di capo della segreteria del ministro Tremonti e poi di Capo di Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio durante il Governo Berlusconi ter. Oggi, Milanese è deputato del Gruppo Pdl alla
lizzare le Regioni e gli enti locali. Con il federalismo fiscale finirà, inoltre, il sistema di finanza derivata basata sulla spesa storica e si passerà all’autonomia impositiva sul territorio e al criterio dei costi standard di una nuova e buona amministrazione. Questa sarà la vera rivoluzione per un risparmio di spesa virtuoso. Ma il federalismo fiscale dovrà anche essere solidale, prevedendo misure di fiscalità di sviluppo a favore delle aree svantaggiate». Il federalismo consentirà anche una sburocratizzazione
Camera dopo essere stato eletto nella circoscrizione Campania 2. All’incarico parlamentare, Milanese affianca quello di commissario straordinario di Forza Italia in Irpinia. Laureato in giurisprudenza e in scienza della sicurezza economico-finanziaria, Milanese è anche avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze
del sistema? «I benefici saranno notevoli. La diretta responsabilizzazione degli enti locali porterà in automatico a una efficienza dei servizi e una maggiore razionalizzazione delle risorse». Uno dei progetti su cui il ministero sta lavorando è il progetto Banca del Sud. Di cosa si tratta? «Sarà una banca che avrà lo scopo di canalizzare al meglio l’enorme risparmio del Mezzogiorno verso investimenti produttivi che possano aumentarne
la ricchezza. Sarà, inoltre, uno strumento per garantire le imprese che vorranno investire, nonché di tutela dei risparmiatori, con una buona remunerazione degli interessi, e delle aziende che sul credito ricevuto avranno interessi passivi agevolati. È già pronto lo slogan che accompagnerà la nascita di questo nuovo istituto di credito: “Sarà una banca che non parlerà inglese” in quanto nasce sul territorio, lavora per il territorio e sviluppa il territorio. Un territorio, chiaramente, meridionale». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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REGOLE E MERCATO Giulio Napolitano
AL LAVORO PER RISCRIVERE LE REGOLE DEL GIOCO Un vuoto normativo decennale. Mancanza di controlli e di trasparenza. Il mercato globale deve essere ricostruito su nuove e più solide fondamenta. Giulio Napolitano, professore di diritto pubblico, spiega le cause che hanno portato alla crisi e indica la strada per uscirne FEDERICO MASSARI
a crisi finanziaria americana ha messo in evidenza i tanti, troppi, limiti della regolamentazione economica. Almeno un decennio di lacune giuridiche e di globalizzazione selvaggia che hanno portato al crash i mercati mondiali. Per colmare questo vuoto, in vista del prossimo G8 alla Maddalena, il ministro Giulio Tremonti ha messo in piedi una commissione ad hoc. Una squadra di giuristi con il compito di avanzare proposte e riscrivere le regole del gioco che vedrà protagonisti, tra gli altri, Giulio Napolitano, ordinario di istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma Tre. Secondo Napolitano, le cause scatenanti della crisi sono almeno quattro: «Eccessiva fiducia nella capacità di autoregolazione dei privati, mancanza di trasparenza dei mercati, “cattura” dei regolatori da parte dei regolati e intervento distorsivo da parte della politica». Si è così generata una bolla speculativa nella quale la copiosa disponibilità di capitale a costo ridotto ha incoraggiato il prestito a tassi di interesse vantaggiosi e un’offerta di mutui immobiliari particolarmente aggressiva. Da ciò è derivata la nascita di nuovi strumenti
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finanziari al fine di ridurre i rischi del prestito. «Ma il valore di questi strumenti – spiega – è stato spazzato via dall’incertezza circa l’entità e la durata della bolla e dal suo progressivo sgonfiarsi». Per il professore, l’ultimo fattore della destabilizzazione dei mercati è stato il mancato funzionamento dei controlli societari all’interno degli intermediari finanziari, travolti dal miraggio di facili guadagni ad appannaggio di manager e azionisti. «Fortunatamente, in Italia – puntualizza Napolitano – diversamente da quanto accaduto nei Paesi anglosassoni, gli operatori creditizi hanno perseguito strategie di business più prudenti e la vigilanza delle autorità pubbliche è stata più severa». Cartelli, monopoli, mancanza di concorrenza reale. Quanto questi fenomeni bloccano e hanno bloccato lo sviluppo strutturale del Paese? «L’Italia soffre tradizionalmente di un difetto di concorrenzialità e di competitività del suo sistema economico. Ciò è dovuto storicamente all’assetto corporativo della nostra società, al ruolo centrale di imprese e monopoli pubblici, alla protezione statale di molti settori industriali privati. Dall’inizio de-
gli anni Novanta, però, abbiamo cominciato a invertire la rotta: ci siamo dotati di una moderna legge antitrust, abbiamo istituito forti autorità indipendenti, privatizzato molte imprese pubbliche e, infine, liberalizzato diversi mercati, anche più di quanto abbiano fatto altri Paesi europei. In alcuni settori, come ad esempio le telecomunicazioni, si sono innescate dinamiche tecnologiche e competitive virtuose, di cui hanno beneficiato cittadini e consumatori. Ma lo sviluppo del Paese rimane ancora oggi frenato dalla ricerca di rendite e posizioni privilegiate, dai ritardi infrastrutturali, dall’incertezza del quadro legislativo e regolamentare. A ciò si aggiunga un dato ancora più di fondo: la scarsa mobilità della società italiana, i cui effetti negativi si ripercuotono sia sull’economia, sia sulla politica». Crede che l’Europa dovrebbe dotarsi di un corpus di leggi comuni per disciplinare le attività del settore bancario e creditizio, visto anche il proliferare di istituti di credito transnazionali presenti in diversi Paesi dell’Unione? «L’esigenza di una maggiore armonizzazione normativa è avvertita in molti settori dell’economia.
REGOLE E MERCATO
GIULIO NAPOLITANO Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Roma Tre, è entrato nel team di giuristi voluto dal ministro Giulio Tremonti per riscrivere le regole del mercato globale
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REGOLE E MERCATO Giulio Napolitano
«LO SVILUPPO DEL PAESE RIMANE ANCORA OGGI FRENATO DALLA RICERCA DI RENDITE E POSIZIONI PRIVILEGIATE, DAI RITARDI INFRASTRUTTURALI, DALL’INCERTEZZA DEL QUADRO LEGISLATIVO E REGOLAMENTARE» Nel caso dei servizi finanziari si sono fatti notevoli progressi, ma bisogna omogeneizzare anche i controlli. Servono forme più efficaci di coordinamento tra le autorità nazionali di vigilanza, anche attraverso la loro confederazione in un’unica Autorità europea o l’attribuzione di specifici compiti alla Banca centrale europea. Ma analoghi passi avanti vanno fatti anche in altri settori strategici, come le telecomunicazioni e l’energia, per superare le barriere nazionali ancora oggi esistenti nel mercato interno, favorire lo sviluppo della concorrenza e dell’innovazione, garantire un elevato livello di protezione di utenti e consumatori. Un maggior grado di armonizzazione della disciplina e di coordinamento dei controlli a livello europeo rappresenterebbe DOSSIER | LOMBARDIA 2009
anche un prezioso antidoto all’adozione di misure protezioniste da parte degli Stati nazionali in risposta alla crisi». Si è parlato di fine del liberismo e della necessità di maggiori interventi pubblici in economia. Secondo lei è questa la strada da imboccare? «Sta ormai emergendo un diffuso riconoscimento sia dell’impossibilità di fare integrale affidamento sulla capacità del mercato di autoregolarsi sia della necessità di risorse e investimenti pubblici per immettere liquidità e ridare fiducia al mercato nel breve termine. Ma il ruolo di quello che in un recente saggio ho chiamato lo “Stato salvatore” non va mitizzato. Lo Stato non è onnipotente. Anzi, se non si agisce con prudenza, anch’esso può fallire. Inol-
tre, i suoi interventi nel capitale delle banche e sulle transazioni finanziarie devono essere temporanei e svolgersi all’interno di un ben preciso quadro di controlli istituzionali». Il capitalismo selvaggio è ormai tramontato. Su che basi e quali norme si ricostruirà, a suo parere, un nuovo sistema? «Per evitare altre crisi sono necessarie nuove regole e più efficaci controlli, sia a livello nazionale, sia a livello europeo. Vanno rafforzati i poteri dei “guardiani” dell’economia e i loro strumenti di intervento e di coordinamento. Infine, il commercio internazionale, come ha recentemente proposto il nostro ministro dell’Economia, deve rispettare alcuni standard legali globali, che garantiscano il rispetto di principi di trasparenza, correttezza e concorrenza. Ciò richiede un ruolo più attivo dell’Unione europea sulla scena mondiale e la creazione di istituzioni sovranazionali di governo dell’economia, anche se naturalmente non sarà un processo facile».
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FINANZA E MERCATI Corrado Faissola
CORRADO FAISSOLA Dal 2006 è presidente dell’Abi
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FINANZA E MERCATI
IL SOSTEGNO REALE ALL’ECONOMIA Le banche italiane hanno reagito bene alla crisi economica grazie alla loro robustezza patrimoniale e all’aver evitato speculazioni finanziarie e strumenti creditizi rischiosi. «Ciò non ci esime però da una presa di responsabilità» afferma Corrado Faissola, presidente dell’Abi. Ecco come superare la congiuntura negativa CONCETTA S. GAGGIANO
n annus horribilis per l’economia mondiale. È stato questo il 2008, e per la profonda crisi economica sarà ricordato a lungo da addetti ai lavori e comuni cittadini. Non è però il tempo di stare alla finestra, bensì quello dell’azione e dei provvedimenti urgenti da prendere affinché gli effetti negativi della difficile situazione economico-finanziaria siano il meno pesanti possibile. Dal crollo delle borse di settembre, la crisi si è trasformata in sofferenza per l’economia reale con la perdita di posti di lavoro, mancanza di liquidità sul mercato e restrizioni sulla concessione di crediti da parte delle banche. Ed è proprio questo il tema caldo all’ordine del giorno nelle agende di governo, imprenditori e banche: il rapporto tra istituti di credito, imprese e cittadini. Perché da qui, dalla concessione di denaro, passa l’unica strada utile per uscire dal guado della crisi. «Le banche sono preparate e in grado di sostenere famiglie e imprese – assicura Corrado Faissola, presidente dell’Abi –. Il nostro obiettivo è, anche attraverso il piano del governo, fare in modo che non manchi il credito ed evitare che la recessione duri a lungo e penetri nella struttura delle nostre famiglie e imprese». Un monito che arriva anche dal governatore di Bankitalia Mario Draghi,
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che ha segnato la via della ripresa nella garanzia dell’accesso al credito per imprese e famiglie. Per il numero uno dell’Abi le banche italiane stanno continuando a svolgere la loro funzione, raccogliendo il risparmio dei cittadini e finanziando le imprese, quindi l’essenza dell’economia reale. Quindi, presidente, nessun allarme. «Le banche italiane hanno risposto alla crisi internazionale con un buon livello di solidità e stabilità. Il rischio paventato è che si interrompa drasticamente il dialogo tra i diversi attori economici, con conseguente paralisi del credito. Da parte delle banche si riconferma però tutto l’impegno a sostenere le famiglie e le imprese per evitare reazioni a catena che danneggerebbero gli stessi istituti in primo luogo, e il sistema economico nel suo complesso. Certo è che ci aspettano tempi difficili e ora più che mai si dovrà agire con prudenza per limitare l’impatto sui bilanci». Anche dai dati di Bankitalia, il sistema creditizio italiano non appare in una situazione di emergenza. Esistono però rischi di inadempienza da parte sia di imprese che di privati, riguardo al mercato dei mutui? «La diminuzione del costo del denaro ha inciso sul peso delle rate LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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FINANZA E MERCATI Corrado Faissola
«CI SONO IMPRESE CHE SI STANNO RIVELANDO INCAPACI DI FAR FRONTE ALLA SITUAZIONE. SE CI SARANNO REALTÀ NON IN GRADO DI ADEMPIERE ALLE LORO OBBLIGAZIONI LE ACCOMPAGNEREMO, PURCHÉ ABBIANO UN MERITO DI CREDITO COMPATIBILE E LE DIFFICOLTÀ SIANO TEMPORANEE»
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FINANZA E MERCATI
«LE BANCHE ITALIANE HANNO RISPOSTO ALLA CRISI INTERNAZIONALE CON UN BUON LIVELLO DI STABILITÀ. ORA IL RISCHIO E DI INTERROMPERE IL DIALOGO TRA I DIVERSI ATTORI ECONOMICI»
del mutuo. Sul mercato, grazie agli effetti della concorrenza tra banche, a iniziative di autoregolamentazione, alla convenzione sulla rinegoziazione con il ministero dell’Economia, e per ultimo alle misure a sostegno dei mutuatari introdotte dal decreto anti-crisi, le famiglie potranno trovare le soluzioni più adatte alle loro esigenze. È comunque innegabile che, come sempre in tutte le crisi, la qualità del credito sta peggiorando. In particolare, ci sono imprese che si stanno rivelando non in grado di far fronte alla situazione. Se ci saranno realtà non in grado di adempiere alle loro obbligazioni le accompagneremo, purché abbiano un merito di credito compatibile e le difficoltà siano temporanee». Il sistema creditizio italiano ha retto all’onda d’urto grazie al suo essere “arretrato”. È condivisibile questa affermazione? «Se per arretratezza si intende la capacità di gestire i rischi e tenersi lontano da prodotti troppo remunerativi, siamo orgogliosi di essere “arretrati”. Negli ultimi quindici anni il settore bancario italiano si è concentrato su una profonda riorganizzazione, mediante un processo di fusioni e acquisizioni che di recente ha avuto nuovi importanti capitoli con la nascita di gruppi bancari tra i più grandi d’Europa. Le nostre banche in questi anni si sono quindi concentrate su un progetto industriale di crescita e di consolidamento piuttosto che sulla redditività dei nuovi strumenti». Abi e Confindustria dialogano costantemente. Quali sono i punti su cui convergono gli interessi? «Per favorire la ricapitalizzazione delle imprese sosteniamo la detassazione degli utili reinvestiti e degli
apporti di capitale nonché la rivalutazione del patrimonio immobiliare delle Pmi; il rafforzamento patrimoniale delle aziende con un intervento del Fondo di Garanzia delle Pmi in operazioni di capitale di rischio; l’individuazione di strumenti che rendano più facile lo smobilizzo dei crediti che le imprese hanno nei confronti della pubblica amministrazione; inoltre, per favorirne l’accesso al credito, il potenziamento del ruolo dei confidi e dello stesso Fondo di Garanzia». E su quali aspetti, invece, è ancora necessario lavorare? «In tema di rating è stato concordato un protocollo in cui saranno definite le modalità con cui le banche dovranno informare le aziende dei fattori rilevanti, suscettibili di influenzare la valutazione, e i principi del processo del rating che saranno applicati. La priorità attuale è mantenere la reciproca fiducia». Come dovrebbero reagire e muoversi in questo momento gli imprenditori? «Piuttosto che dare consigli vorrei riuscire a trasmettere loro la fiducia nel ruolo di sostegno all’economia cui le banche stanno partecipando. Inviterei inoltre a fare una riflessione comune: la crisi, oltre ai rischi, porta in sé delle opportunità. Si presenta, infatti, come occasione per l’avvio di un confronto nuovo tra tutti i soggetti coinvolti. È ora più che mai necessario il dialogo e un monitoraggio costante su prodotti e servizi offerti, da parte di soggetti indipendenti tradizionalmente critici verso il sistema bancario». Come giudica il piano anti-crisi varato dal governo? È sufficiente per sostenere il sistema?
«Per le misure che riguardano il sistema creditizio, il piano del governo è finalizzato a dare alle banche italiane maggiore forza per sostenere l’economia italiana, in particolare Pmi e famiglie. In questa prospettiva, il sistema bancario è favorevole a valutare l’opportunità di eventuali ricapitalizzazioni attraverso gli strumenti messi a disposizione. Nelle circostanze anomale che si sono oggi determinate è indubbio che l'intervento dello Stato, e quindi l’eventuale ulteriore opportunità di rafforzamento del patrimonio, sarà valutato dai singoli gruppi bancari in relazione alle singole esigenze». Si è detto che il capitalismo selvaggio è ormai tramontato. Su che basi si ricostruirà il sistema? «Bisognerà avere il coraggio di ripensarsi, di creare una forma mentis che consenta di essere autocritici prima ancora che critici. Il mondo bancario oggi non può limitarsi a migliorare le sue performance, ma ha la necessità di rivedere e continuare ad approfondire tutto ciò che ha costruito finora col sistema produttivo. Sono assolutamente convinto che le banche non restringeranno il credito, ma si impegneranno a fondo a sostenere soprattutto le piccole realtà imprenditoriali. Ciò è fondamentale per la tenuta del sistema economico italiano». Quale sarà il compito degli istituti di credito italiani in questo 2009? «I nostri istituti dovranno affiancare alla valutazione sulla base dei rating di Basilea2, la conoscenza diretta del cliente, forti di una presenza così capillare sul territorio e di un rapporto altrettanto forte con i cittadini». LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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ETICA DELLA FINANZA Ettore Gotti Tedeschi
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ETTORE GOTTI TEDESCHI Presidente per l’Italia del Santander Consumer Bank Spa e del Board of Trustees del Centro Studi Tocqueville-Acton. Insegna etica della finanza presso l’Università Cattolica di Milano
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ETICA DELLA FINANZA
INAUGURIAMO L’ERA DELLA RESPONSABILITÀ Il concetto di etica finanziaria negli Stati Uniti si è rivelato in molti casi un ossimoro. Ettore Gotti Tedeschi, presidente per l’Italia del Banco Santander, ribalta le carte in tavola. E spiega come possa e debba diventare pilastro di una nuova fase MICHELE CAMERANI
a parecchi anni la finanza internazionale neppure si pone il problema etico». Ettore Gotti Tedeschi, presidente per l’Italia del Santander Consumer Bank Spa e del Board of Trustees del Centro Studi Tocqueville-Acton ha una visione molto critica della deontologia professionale degli operatori finanziari. Professore di etica della finanza all’Università Cattolica di Milano, Gotti Tedeschi non è dunque sorpreso più di tanto dalle cause e dai motivi che hanno scatenato l’effetto domino sul mercato finanziario globale. Una serie di cause che ha innescato una crisi le cui ripercussioni stanno ancora manifestandosi e che ha portato economisti e operatori del mercato a interrogarsi sul collasso di un intero sistema. Un sistema basato su uno sganciamento della finanza dall’economia reale, ma anche su uno smarrimento per troppi anni sottovalutato dell’etica da parte degli operatori finanziari, soprattutto statunitensi. «Le ragioni di questa assenza di etica nel settore sono almeno quattro – afferma Ettore Gotti Tedeschi –. In primo luogo, dai tempi di Keynes in poi, il mondo dell’economia e quello della finanza hanno assunto una loro propria autonomia morale. Inoltre, con il relativismo crescente sarà difficile
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ETICA DELLA FINANZA Ettore Gotti Tedeschi
avere risposte coerenti su cosa sia “etico” o meno. Terzo, va tenuto conto anche come la mentalità americana, che deriva dalla cultura protestante, abbia sempre sostenuto un atteggiamento piuttosto disinvolto da parte di chi doveva prendere decisioni. Quarto, non sono solo vasti settori della finanza che hanno perso etica, ma anche vasti settori della politica e delle istituzioni preposte ai controlli». Quali sono state, invece, le responsabilità dirette e indirette di quelle società di rating e di quegli organismi di controllo super partes che avrebbero dovuto assicurare il rispetto dell’etica finanziaria? «Sono responsabilità superiori a quelle dei controllati. Il problema è lo stesso: se non si sa DOSSIER | LOMBARDIA 2009
cosa sia etico, se si suppone che non ci sia comportamento lecito da parte dei controllati, come si può supporre che sia etico quello dei controllanti? Si tratta di un intero modello culturale che prescinde dal problema etico già da molti decenni. Il principio di molti banchieri statunitensi è che sia etico produrre profitto senza chiedersi a quali condizioni. E questo si è visto». La crisi finanziaria mondiale ha fatto tabula rasa di alcune fra le più importanti banche e società finanziarie e assicurative mondiali. Questa drammatica situazione può o potrebbe rappresentare una buona base su cui ripartire reimpostando il sistema e dandogli regole certe e condivise? «Ciò che produrrà una buona
base su cui ripartire è il modello di risanamento che verrà scelto. Banche e istituzioni finanziarie sono solo strumenti. Oltre a ciò, non si dimentichi che l’etica e la capacità sono doti individuali non attribuibili a strutture e tantomeno a strumenti. Se va ricostruita una classe professionale intera di banchieri non sarà un gioco facile». Su quali basi si dovrà reimpostare la finanza internazionale per non incorrere in altri tracolli simili a quello scoppiato nel 2008? «È facile: la banca deve tornare a fare la banca e la finanza la finanza. Il problema è che ciò non è si è avverato negli ultimi anni. Questo è un punto cruciale. Faccio un esempio: dal 2000 le banche, soprattutto quelle statuni-
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ETICA DELLA FINANZA
tensi, hanno trasferito il rischio, cedendolo. Da allora non si è capito dove fosse finito il rischio, chi lo gestisse e se erano stati fatti adeguati fondi rischi. Questo non spiega forse l’origine della scarsa patrimonializzazione delle banche e l’esigenza di ricapitalizzazione? Ma ciò spiega anche i grandi risultati che per anni le banche hanno evidenziato a bilancio, espandevano il credito senza produrre adeguati fondi rischi». Quando ritiene che potrà essere recuperata la fiducia da parte dell’opinione pubblica e dei contribuenti nella finanza internazionale? «La fiducia tornerà quando finirà la paura. E quando succederà, tutti dimenticheranno ciò che è accaduto e si tornerà a pensare
che il buon fine giustifica i cattivi mezzi. In fondo l’uomo è e resta peccatore». Crede che, al di là delle innegabili ripercussioni della crisi finanziaria sull’economia reale, la produzione concreta e il commercio di beni tornerà al centro dell’economia mondiale a scapito dei prodotti e dei derivati finanziari? «Su questo non ho dubbi e accadrà per un po’ di tempo. Tutto ciò potrebbe rivelarsi un errore. Il disastro, infatti, non è stato fatto dalla finanza o dai derivati, ma è stato prodotto dal cattivo uso di quegli stessi prodotti finanziari. Un uso scorretto deciso e perpetrato da uomini senza etica, appunto. Lo strumento non ha alcuna colpa. Anzi, lo strumento serve a creare più ricchezza e a
farlo meglio e prima, a patto di utilizzarlo bene». Ritiene che un intervento diretto dei governi nazionali a sostegno del settore finanziario e speculativo possa rappresentare un corto circuito del liberismo economico, legato a interessi privati e non pubblici per sua stessa natura e definizione? «A produrre questa situazione è stato un governo, quello statunitense, che preoccupato della scarsa crescita del prodotto interno lordo ha autorizzato e supportato pratiche di camuffamento dello stesso. Come si può pensare che un esecutivo resosi responsabile di questo non si assuma le sue responsabilità? Il problema è se esista o meno una soluzione alternativa oggi per rimediare all’accaduto». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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IL PUNTO Lorenzo Stanca
REALISTA Lorenzo Stanca, presidente del Gruppo Economisti d’Impresa. Ha alle spalle 20 anni di esperienza ad alto livello presso importantissime realtà bancarie Italiane, è uno dei partner di Mandarin Capital Partners
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IL PUNTO
LA SELEZIONE NATURALE PREMIERÀ LA QUALITÀ Un Paese che ha tutti i numeri per ridare slancio al suo sistema economico. E che, nonostante il rallentamento internazionale di portata epocale, può continuare a essere competitivo. Lorenzo Stanca, presidente del Gruppo Economisti d’Impresa, spiega come da questo momento usciranno rinforzate le imprese che avranno saputo rinnovarsi NINO POZZA
alla crisi le imprese italiane possono uscire solo continuando a lavorare sulla qualità, investire in tecnologia e guardare senza timori ai mercati esteri. «L’errore più grave in questo momento è tirarsi indietro». Lorenzo Stanca, presidente del Gruppo Economisti d’Impresa e partner di Mandarin Capital Partners, sottolinea come, per uscire dalla crisi, serva innanzitutto non farsi prendere dal panico. Anche se non vuole cadere in un semplicistico ottimismo. «La situazione economica è grave e le difficoltà che il si-
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stema produttivo ha davanti sono tante e complesse» spiega con lucidità. «Però – continua – le nostre Pmi, soprattutto quelle che hanno saputo rinnovarsi negli scorsi anni, hanno ottime possibilità per uscire ancora più forti da questo periodo». Sono molti quelli che continuano a vedere in questa crisi un momento in cui cogliere opportunità di crescita e di sviluppo. «Sì, è un genere di riflessione che si sente spesso. Ma io sono abbastanza scettico a questo tipo di approccio al problema. Le imprese italiane hanno già vissuto un periodo di difficoltà nei primi tre anni del 2000. È stato il momento in cui sono arrivati sul mercato i concorrenti asiatici, mentre noi dovevamo fare i conti con l’introduzione dell’euro e il suo cambio forte. In quel momento il nostro sistema produttivo ha subito pressioni competitive molto forti, anche in settori dove storicamente era abituato a primeggiare. Quella crisi fece sparire molte aziende, per lo più quelle incapaci di reagire. Ma la maggior parte delle nostre Pmi ha saputo resistere sfruttando veramente quel momento come
opportunità di crescita e rafforzamento, specializzandosi su fasce di mercato di maggiore qualità. Adesso però la situazione che viviamo è diversa. Questa crisi è potenzialmente più devastante. Assistiamo a un rallentamento senza precedenti della domanda che riguarda tutte le aree geografiche e pressoché quasi tutti i settori produttivi. Quindi parlare di potenziali opportunità, più che fotografare la realtà, sembra voler essere un richiamo all’ottimismo». E lei non è ottimista? «È indubbio che chi sopravvivrà, resistendo alla selezione naturale della crisi, sarà più forte, perché scompariranno tanti concorrenti. Ma la vera selezione positiva, come dicevo, c’è già stata. Da quella fase di cambiamento il sistema industriale italiano è uscito potenziato, tant’è che le imprese che oggi soffrono meno sono quelle allora hanno capito che dovevano rinnovarsi e cambiare, soprattutto puntando sulla qualità». Ma allora che lettura devono dare a questa crisi le imprese? «Stiamo vivendo un momento complesso e difficile. Il rallentamento economico è globale e non si riesce a capire come e quando assisteremo a una ripresa. La valutazione che possiamo fare ora è che si sta avviano una riaccumulazione DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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IL PUNTO Lorenzo Stanca
di scorte di beni e prodotti intermedi, essendo stati i magazzini azzerati durante l’ultimo trimestre dello scorso anno, quando c’è stata una fase di de-stoccaggio molto forte. Adesso la domanda potrebbe rimbalzare un po’ e avviare una fase di recupero scorte capace di dare maggiore vivacità ai mercati, almeno nel secondo trimestre dell’anno». Le aziende chiedono maggiori aiuti, soprattutto sul fronte del credito. «Sulla stretta del credito come problema centrale nel rallentamento dell’attività delle imprese ho qualche perplessità, se non altro per quanto riguarda l’Italia. Certamente le banche hanno un atteggiamento più guardingo e prudente rispetto al passato, ma non è vero che stanno negando il credito alle imprese. Almeno non ancora. Questo inceppamento nel rapporto tra banche e tessuto produttivo credo sia più presente all’estero che nel nostro Paese. Io non lo vedo». Si continua a ripetere che quella che stiamo vivendo è la fase transitoria di un cambio epocale. Questo vale soprattutto per la fi-
erogato il credito. Veniamo da una fase in cui era troppo allegro e a buon mercato. Adesso costerà un po’ di più, e si farà molta più attenzione a concederlo. Nel complesso, però, non penso che la crisi rivoluzionerà i paradigmi del fare impresa» In questa fase, soffrono maggiormente le aziende che lavorano prevalentemente sui mercati stranieri o quelle che concentrano il business sul territorio nazionale? «Sicuramente chi ha una elevata quota di fatturato legata alle esportazioni non sta passando un buon momento. La frenata della domanda estera è infatti molto marcata. Ma è indubbio che questa poi si riflette anche nella domanda interna, e quindi alla fine ne risente tutta l’economia italiana. Però è vero che chi lavora con l’estero oggi soffre più degli altri». Che caratteristiche hanno le imprese che riusciranno a reagire meglio alla crisi? «Credo che l’elemento centrale rimanga la qualità del prodotto e del processo produttivo. Hanno infatti molte più chance di sopravvivere
«NON POSSIAMO PIÙ PENSARE DI COMPETERE SUI PREZZI, COME QUANDO ERAVAMO I CINESI D’EUROPA. QUEL TIPO DI MODELLO NON ESISTE PIÙ. SOLO CHI PUNTERÀ SULL’INNOVAZIONE DEL PRODOTTO, SULLA QUALITÀ E SUI MERCATI ESTERI PUÒ AVERE QUALCHE SPERANZA DI USCIRE VIVO DALLA CRISI» nanza. Ma cambierà qualcosa anche nel modo di fare impresa? «Non credo che assisteremo a cambiamenti drastici nel mondo produttivo. Il cambio epocale riguarderà il sistema finanziario in sé, di cui bisognerà ripensare le regole. Le banche si sono assunte rischi sbagliati e adesso ne paghiamo tutti le conseguenze. Sicuramente muteranno le modalità con cui viene DOSSIER | LOMBARDIA 2009
quelle imprese che in questi anni sono riuscite a posizionarsi su quella fascia di mercato alta, di elevato contenuto e valore del prodotto. Oggi è fondamentale puntare su un prodotto di qualità, sia esso legato ai beni di consumi oppure a settori come la meccanica e la chimica, più che sui costi bassi. Perché se quello che produco è buono, i clienti lo acquistano indi-
pendentemente dal prezzo. Un altro fattore determinante per non rimanere schiacciati da questa congiuntura economica negativa è anche non aver accumulato troppo debito. Si tratta di un elemento discriminante molto importante. Purtroppo chi si è indebitato, ma-
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gari anche per investire, oggi soffre molto. Questo vale anche per aziende che sulla carta sono molto forti e che fabbricano prodotti di alta fascia». Le parole d’ordine per aggredire questo momento negativo per il mondo industriale rimangono
sempre le stesse: qualità, innovazione, internazionalizzazione. «Esatto. Non possiamo più pensare di competere sui prezzi, come quando eravamo i cinesi d’Europa. Quel tipo di modello non esiste più. Solo chi punterà sull’innovazione del prodotto, sulla qualità e sui mercati esteri può avere qualche speranza di uscire vivo dalla crisi». Tornando a parlare di mercati stranieri. A suo parere oggi le nostre imprese devono continuare a guardare a Oriente? «Assolutamente sì, e gli imprenditori italiani lo sanno benissimo. Anzi, mercati come Cina, India, il Far East diventeranno ancora più importanti. Da questa crisi, poi, si capisce con chiarezza che la ripresa dell’economia internazionale sarà trainata proprio da questi Paesi. E il nostro deve continuare a puntare in quei mercati, non solo perché lì ci sono i competitor, ma anche e soprattutto perché ci sono nuovi potenziali clienti. Più in generale, gli imprenditori devono evitare di cadere nell’errore di
smettere di puntare sui mercati lontani. Anche se è un momento difficile, internazionalizzarsi garantisce maggiore sopravvivenza alla crisi. E non è vero, come spesso si dice, che solo le imprese di grandi dimensioni possono farlo. Con la globalizzazione anche l’aziendina di 50 dipendenti può portare i suoi prodotti dappertutto». Gli Stati Uniti, indeboliti dalla crisi, potrebbero essere un buon territorio dove investire? «Dipende dai settori, anche se vero che gli Usa hanno ancora un dollaro debole, ma si sta rinforzando. In alcune nicchie particolari investire in America può essere una mossa vincente. Molte aziende italiane stanno già facendo acquisizioni in settori come la chimica e la meccanica. Ha meno senso puntare sui beni di consumo. C’è anche chi, come Luxottica, è riuscito in questa operazione, ottenendo ottimi successi. Ma, se non si è attenti e fortunati, acquisizioni di questo genere possono rivelarsi salti nel buio». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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GRANDI OPERE Mario Valducci
PRESIDENTE Mario Valducci, deputato del Pdl, è presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera
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GRANDI OPERE
APRIAMO UN CANTIERE DI MODERNIZZAZIONE
Portare a termine grandi opere come la Tav. Potenziare il sistema viario, anche per dare ossigeno alle imprese del settore. Rivedere il sistema aeroportuale. Dotare il Paese di un sistema Internet ad alta velocità. Queste le priorità per Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti alla Camera MARIELLA CORAZZA
uello delle infrastrutture è un settore che, nel nostro Paese più che altrove, sconta un forte ritardo: molto resta ancora da fare, ma qualcosa si sta muovendo. Rete autostradale e ferroviaria, mobilità urbana e grandi opere: le infrastrutture sono indispensabili per lo sviluppo economico e sociale di qualsiasi Paese moderno. «Non bisogna dimenticare, però, l’importanza delle infrastrutture immateriali. Anche dal punto di vista del digital divide, questo governo si sta muovendo per recuperare i ritardi accumulati». È Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera, a ricordare che non sono solo ponti e strade le infrastrutture indispensabili allo sviluppo dell’Italia. Dalle grandi opere alla viabilità ordinaria, dalla sicurezza stradale al rilancio del settore edile, il deputato ricorda che quello che fa la differenza in tema di infrastrutture – come altrove – è sempre «pragmatismo». Quali sono i temi caldi su cui la Commissione da lei presieduta sta lavorando in questo momento? «Sono diversi. Innanzitutto la sicurezza stradale. Stiamo predisponendo alcune modifiche al codice della strada per rendere più efficace il concetto di sicurezza stra-
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dale, dalla formazione alla prevenzione, alla repressione, partendo dal concetto di “tolleranza zero”, che tanto ha fatto parlare i media. Infatti, per i neopatentati e per i guidatori professionali adibiti al trasporto di persone e cose è prevista una soglia di tolleranza all’alcol dello 0 contro lo 0,5 previsto per gli altri. Ma ci sono anche fondi destinati alla sicurezza stradale attraverso l’utilizzo di una quota delle multe pagate dai cittadini e una delega al governo sulla riforma e semplificazione del codice della strada. C’è poi il problema del digital divide e della necessità di dotare il Paese di una rete Internet ad alta velocità. Dopo aver concluso un’importante indagine conoscitiva sullo stato e le prospettive delle reti di telecomunicazioni, ho promosso un tavolo di confronto con le maggiori aziende del settore per un’azione più efficace. Sul fronte del trasporto aereo, a breve partirà un’indagine conoscitiva sul settore aeroportuale, che vuole dare finalmente un quadro d’insieme a un ambito che in questi anni è cresciuto in maniera disordinata». Proprio quello aeroportuale è un settore che attraversa un momento di difficoltà, acuito anche dalla situazione innescatasi con Alitalia. A suo avviso, il sistema degli aeroporti italiani andrebbe ripensato?
«Credo che tutto il sistema vada rivisto e armonizzato. È presto per trarre conclusioni, ovviamente, ma vorrei ricordare che tra Torino e Venezia, in linea d’aria, ci sono 360 chilometri e ben otto aeroporti. Ho poi dei dubbi sulla validità di scali come quello che si sta apprestando ad aprire nella piana di Sibari, in provincia di Cosenza: la Calabria ha già gli aeroporti di Reggio Calabria, Crotone e Lamezia e tra questi solo il terzo ha un utile minimo: tutti gli altri bilanci sono in rosso, regolarmente ripianati dagli enti locali, dunque dai cittadini. Secondo i dati di Assoaeroporti i suoi 38 aeroporti associati hanno avuto tutti un 2008 peggiore del 2007. È evidente che c’è qualcosa che non va». Il Governo Berlusconi ha stilato un elenco delle opere necessarie per il Paese. Come sono state individuate e quali sono i criteri per deciderne le priorità? «L’Italia, purtroppo, sconta ritardi infrastrutturali vecchi di diversi anni. Non è stato dunque difficile individuare le priorità. Lo è la Tav o il Passante di Mestre, finalmente concluso. Ci sono state poi veri e propri problemi che sono la punta di un iceberg: mi riferisco all’emergenza rifiuti in Campania. Quello dei rifiuti è un problema che, se non viene affrontato nel resto d’Italia, rischia di ripetersi. Infine l’Italia sconta una plurienDOSSIER | LOMBARDIA 2009
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GRANDI OPERE Mario Valducci
nale dipendenza energetica dall’estero con ripercussioni in termini economici e in termini di sicurezza nazionale, visto che spesso i Paesi dai quali ci approvvigioniamo hanno democrazie non sempre chiare. In questo senso l’avvio della collaborazione con la Francia per la costruzione di centrali nucleari va nella giusta direzione». Qual è, a suo avviso, la differenza sostanziale nell’approccio di questo governo al tema delle infrastrutture, rispetto a quello che l’ha preceduto? «Sicuramente il pragmatismo applicato a tutti i livelli. Il governo precedente era bloccato da veti incrociati che impedivano ogni azione riformatrice e operativa. La DOSSIER | LOMBARDIA 2009
mancata coesione e la presenza di forze altamente conservatrici hanno limitato qualsiasi impatto positivo del governo sulle infrastrutture. Il Governo Berlusconi, invece, ha visto il problema e lo ha affrontato di petto. E mi riferisco ancora al caso di Napoli, ma vorrei anche citare gli oltre 17 miliardi di euro stanziati per le grandi opere e l’edilizia scolastica e il miliardo e mezzo stanziato per il ponte sullo Stretto. O anche il forte impulso dato alla Tav, soprattutto nel tratto Torino-Lione. Anche la disciplina degli scioperi nei trasporti va in questa direzione: a cosa servono le infrastrutture se non si possono usare perché qualcuno si mette di traverso?».
Cosa ha impedito che per anni in Italia si rispettassero costi e scadenze non solo di grandi opere infrastrutturali, ma anche di semplici interventi viari? «Sicuramente una responsabilità importante ce l’ha avuta e ce l’ha il sistema decisionale italiano nel suo complesso, molto farraginoso e macchinoso. C’è poi la questione dei veti: non è possibile che ogni singolo ente possa bloccare opere ritenute di importanza addirittura sopranazionale, come nel caso della Tav bloccata da alcuni sindaci dei paesi interessati dal percorso. In questo quadro anche la politica nel suo complesso ha notevoli responsabilità: non è riuscita a stare al passo con i tempi e le necessità. Per questo motivo ho
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DA FORZA ITALIA AL POPOLO DELLA LIBERTÀ Mario Valducci, dottore commercialista laureato in economia aziendale e marketing all’università Bocconi, il 18 gennaio 1994 è protagonista, assieme a Silvio Berlusconi, Antonio Martino, Antonio Tajani e Luigi Caligaris, della fondazione di Forza Italia. Nel partito ha assunto sin dal principio incarichi dirigenziali: fino al 1995 è stato segretario amministrativo, incarico che ha poi lasciato per divenire, per due anni, vicecoordinatore nazionale di Forza Italia assieme a Giuliano Urbani. Successivamente è stato responsabile enti locali del partito. È componente della Costituente del Popolo della Libertà.
proposto la figura del Commissario straordinario per le opere, dotato di poteri straordinari per un periodo limitato nel tempo, per sveltire opere ritenute di rilevanza nazionale. Un po’ come accaduto a Napoli con l’emergenza rifiuti: l’intervento di Bertolaso, dotato di poteri eccezionali, è stato risolutivo». Quanto è importante a suo avviso il ruolo dello Stato come committente di grandi opere infrastrutturali in un momento non facile per le imprese che operano nel settore dell’edilizia e delle costruzioni? «Ovviamente è fondamentale e Keynes con le sue dottrine è sempre lì a ricordacelo. Il piano di oltre 17 miliardi di euro varato dal
governo va in questa direzione: in una fase di grande contrazione economica è ossigeno puro per le aziende, anche per l’enorme indotto che le grandi opere determinano, non solo nei settori dell’edilizia e delle costruzioni. In più il piano risponde alla necessità di modernizzare le infrastrutture del Paese, e tra queste intendo anche le infrastrutture tecnologiche come la banda larga, che va considerata una vera e propria infrastruttura, sebbene immateriale, ma non meno importante per il futuro dell’Italia rispetto a ponti o a strade. A questo proposito è stato appena approvato uno stanziamento di 800 milioni per la banda larga». Uno degli appuntamenti più attesi, che porterà nuovo impulso
al settore dell’edilizia, è l’Expo 2015 di Milano. Secondo lei ci si muove efficacemente per far sì che tutti i progetti previsti vengano completati in tempo, soprattutto dal punto di vista delle opere viarie? «Come in ogni iniziativa, nelle fasi iniziali va predisposta la squadra migliore e questo può generare qualche dibattito, che a sua volta genera lentezze e lungaggini. Ma questa matassa si sta dipanando e, credo a brevissimo Expo 2015 sarà in grado di partire nel migliore dei modi e senza altre interruzioni. Sul fatto che rappresenti un’eccellente opportunità mi sembra ci sia una convergenza da parte di tutti i settori e i partiti. E questo fa ben sperare per il risultato finale». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA CULTURA D’IMPRESA TRA CREATIVITÀ E REGOLE Affrontare una realtà più liquida, di cui l’imprevedibilità è l’ingrediente principale. Questo è il compito dei nuovi, giovani manager. A condizione, però, che siano formati adeguatamente, in modo ravvicinato e continuativo. L’esperienza di Giorgio Parisotto ANNA NEI
iorgio Parisotto si occupa di comunicazione a tutto tondo da trent’anni. L’esperienza di una propria agenzia di pubblicità e una profonda conoscenza del campo lo portano a comprendere ogni sfaccettatura del complesso lavoro d’immagine e relazione d’impresa, e di come stia mutando nel tempo. Una fascia giovane si sta inserendo a vari livelli nella realtà aziendale. Parisotto, consulente e tutor di marketing e comunicazione, illustra dinamiche, limiti e possibilità del cambiamento nella compagine dell’impresa italiana. Un cambiamento generazionale in un’impresa non è sempre semplice e lineare. Quali sono i rischi da non trascurare? «Sicuramente il punto centrale da tenere ben presente è il passaggio di responsabilità. È necessario un trasferimento adeguato, con modi e tempi ben consapevoli, del know-how e dell’esperienza. Si dovrebbe riuscire a formare la persona così che sia completamente autonoma nel momento in cui assumerà il ruolo assegnatole». Si parla molto di rinnovamento attraverso il lavoro dei giovani, ma ancora, in Italia, sembra es-
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TUTOR Giorgio Parisotto, esperto in strategie di marketing e comunicazione
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serci una forte resistenza a passare il testimone. Qual è la strada migliore, per uscire da un’empasse di questo tipo? «Mettere al centro la formazione. È importante, anzi fondamentale, un tutoring articolato e completo per i giovani. L’approccio conforme al tipo di lavoro e la fase di conoscenza di contenuti e strutture deve essere seguito per un lungo periodo da esperti che evitino al neo assunto di disperdere le proprie abilità. Lo scopo è di aiutarlo a valorizzarle per il ruolo che si accinge a ricoprire». A suo parere, la crisi attuale può tramutarsi in un’opportunità di rinnovamento generazionale? «Sicuramente sì. Può essere solo pericoloso fare, o dover fare, un percorso accidentato con scarpe da ballo, ossia, per uscire dalla metafora, attualmente occorre ancora più attenzione e cautela nei movimenti». Quali sono le principali differenze tra lo stile manageriale tradizionale e quello delle nuove generazioni? «Lo stile tradizionale era abituato a poche e relativamente immaginabili modifiche; quello attuale è chiamato ad affrontare una realtà più liquida, di cui l’imprevedibiDOSSIER | LOMBARDIA 2009
«LA CREATIVITÀ È SICURAMENTE LA PIÙ AUTENTICA LEVA PER LO SVILUPPO DELLA CULTURA D’IMPRESA»
lità è l’ingrediente principale. Utilissima è un’analisi delle caratteristiche della gestione d’impresa sino ad ora, così da formare i giovani segnalandone lacune e passi falsi. Lo stile sarà comunque il loro, e posso già anticipare che consterà di creatività e rapidità decisionali unite a una conoscenza approfondita delle regole fondamentali della cultura d’impresa». Crede che il fatto di dare più spazio ai giovani possa contribuire a rinnovare la cultura d’impresa italiana? «Certamente, a condizione che i giovani siano formati adeguatamente sul modo di lavorare di chi
li ha preceduti. Devono essere abbastanza motivati da essere il vero fattore di cambiamento e non soggetti trascinati dai repentini e bruschi mutamenti in corso». Qual è il modello formativo alla base del progetto tutoring? «È un modello molto semplice che nei paesi anglosassoni ha dimostrato la sua efficacia. Si tratta di affiancare nella realtà operativa il giovane manager in modo ravvicinato e continuativo, in modo da trasmettergli non solo il knowhow ma anche il senso del lavoro, cosa che solo l’esperienza diretta può offrire». Il tutor fornisce al giovane esperienza e professionalità. Cosa
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invece il giovane può insegnargli? «In un’impresa è fondamentale il rinnovamento attraverso la formazione perché i giovani restituiscono all’azienda la volontà di cambiamento e l’energia per ottenerlo. L’esperienza senza la conoscenza sarebbe solo mera anzianità, e così è essenziale che attraverso le nuove generazioni quelle precedenti acquisiscano consapevolezza del proprio agire, per rinnovarsi ancora». Qual è la sua idea di creatività? «Non è eccentricità. Nel mio campo la creatività è sicuramente l'autentica leva strategica per lo sviluppo. Per definirla meglio
parto da una descrizione delle famose quattro fasi di Wallas: preparazione, incubazione, illuminazione o insight, verifiche. La creatività è uno stile di pensiero che si esprime in processi mentali caratteristici della persona che li formula e procede per associazioni di idee portando a concetti totalmente inaspettati». Nella comunicazione come agisce la creatività? «Sono due campi strettamente connessi. La capacità di produrre pensiero creativo, infatti, è una metacompetenza, così come quella di comunicare o di apprendere. Sono abilità trasversali, ossia applicabili a qualunque
campo del sapere e non. Perché un’idea possa essere considerata creativa, deve essere di rottura rispetto ad una regola esistente, ma anche capace di originare una regola nuova. La creatività crea regole nuove, che funzionano, e che sono evolutive rispetto alle precedenti. Lo stesso succede con le strategie di comunicazione, che si rinnovano per risultare sempre comprensibili ed efficaci. È un lavoro pieno di incognite, bisogna essere coraggiosi e molto costanti». Potrebbe fare qualche esempio pratico di applicazioni della creatività negli ambiti in cui lavora, quindi nel tutoring e nella comunicazione? «Rispondo con una risata, anzi con più d’una e riporto alcune citazioni illustri, più o meno condivisibili, che riguardano questo quesito. Non esiste grande genio senza una dose di follia. Le regole sono ciò che i creativi rompono. Ciò che è memorabile non è mai nato da una formula. La creatività è l'arte di sommare due e due ottenendo cinque. Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione. La vera scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel vederli con nuovi occhi». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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RIDURRE I TEMPI PER OSSIGENARE L’ECONOMIA La lentezza della giustizia civile sottrae competitività al Paese. E la riforma Alfano rimane ancora un’incognita tutta da scoprire. L’avvocato Stefano Previti fa il punto della situazione. E spiega cosa sarebbe utile per garantire slancio alle nostre imprese e al sistema economico GIUSI BREGA he la lentezza della giustizia civile sottragga competitività al Paese mi sembra un dato certo e condiviso. A mio avviso però le misure proposte dal governo non sono sufficienti rispetto alla finalità di accelerare in modo significativo i tempi di esaurimento delle controversie civili». A parlare è Stefano Previti, preoccupato per la lentezza della giustizia in Italia. Secondo l’avvocato, la riforma appare più che altro incentrata sulla ulteriore responsabilizzazione degli avvocati, già gravati notevolmente, ai quali verrebbero imposti termini ancora più stringenti e preclusioni processuali ulteriori rispetto a quanto avviene oggi. «Tuttavia – continua l’avvocato Previti – la lentezza della giustizia civile non dipende certo solo dai termini processuali imposti agli avvocati. Se in primo grado tra un’udienza civile e l’altra intercorrono da sei mesi a un anno e se tra la prima udienza in appello e la seconda e ultima intercorrono tre quattro anni e, ancora, se tra la proposizione di un ricorso per cassazione e l’udienza di discussione passano normalmente altri quattro anni: cosa c’entrano gli avvocati?». Quali riforme e in quali altri
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settori del civile occorrerebbero allora per ottenere risultati soddisfacenti su tutti i fronti? «Dinanzi a una situazione grave come quella della giustizia civile italiana, ritengo che il punto di partenza dovrebbe essere una drastica riduzione dei riti processuali, che oggi sono ben ventisette. Gli avvocati ringrazierebbero sentitamente e, credo, anche i giudici. In tutti i sistemi processuali avanzati la giustizia civile ha un solo rito o al massimo due. Da noi c’è un rito che ha già dimostrato di funzionare meglio degli altri e sul quale si è stratificata un’importante elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, che è quello del lavoro: si potrebbe partire da lì, apportando gli aggiustamenti necessari. In secondo luogo, dato che il collo di bottiglia sono oggi i ruoli pieni e i conseguenti inevitabili sforamenti dei tempi di giustizia, si dovrebbe limitare il più possibile l’intervento del giudice esonerandolo, come spesso avviene nella prassi, da compiti istruttori per far sì che possa concentrare la propria attività sulle decisioni. Assumendo le testimonianze fuori udienza, responsabilizzando gli avvocati o magari con l’intervento di altri
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pubblici ufficiali, si possono risparmiare interi anni di causa, dato che oggi un’udienza consente di regola l’assunzione di un paio di testimonianze e si conclude con l’immancabile rinvio di mesi per la prosecuzione. Insomma, sentire dieci testimoni, oggi, costa almeno tre o quattro anni di causa che potrebbero essere risparmiati portando al giudice direttamente i risultati istruttori: è ciò che generalmente avviene negli ordinamenti anglosassoni. Infine, una volta adottato un rito unico ed efficiente, occorrerebbe garantire una transizione rapida dall’attuale sistema al nuovo, prestando particolare attenzione alla qualità di eventuali organismi transitori». Cosa pensa della proposta di ricorrere maggiormente allo stragiudiziale per alleggerire la giustizia civile? DOSSIER | LOMBARDIA 2009
«Va bene incoraggiare le scelte di soluzione delle controversie esterne al sistema giudiziario, in particolare gli arbitrati, purché alla base ci sia sempre una libera scelta del cittadino che non può essere privato a priori della facoltà di adire la giustizia. Da questo punto di vista, ad esempio, trovo che siano inutili tutti i tentativi di conciliazione obbligatoria, in udienza o fuori, che alla fine si risolvono soltanto in mero impedimento procedurale e quindi ulteriore perdita di tempo. Tutti gli avvocati sanno che le transazioni si fanno quando le parti sono mature per transigere e praticamente mai dinanzi a organismi a ciò deputati e meno che mai per imposizione di legge». Cosa sarebbe necessario secondo lei per garantire slancio alle nostre imprese e al sistema
economico? «Tornando al punto da cui siamo partiti, direi una giustizia civile rapida ed efficace. Oggi il creditore è costretto a tutelarsi a monte del rapporto, assumendo le dovute garanzie dal debitore, altrimenti sono dolori. Ma le nostre imprese si gioverebbero anche di una semplificazione del sistema: fare riferimento a poche regole chiare anziché a moltissime regole confuse. Mi riferisco in particolare ai rapporti con la pubblica amministrazione, connotati dalla presenza di numerosissimi enti di riferimento e da una molteplicità di regole da seguire, che sono causa di eccessiva discrezionalità, a volte confinante con l’arbitrarietà. Ciò significa, per le imprese, non soltanto tempi biblici, ma anche una totale incertezza sulla forza dei rapporti giuridici sottostanti, che si
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traduce nell’impossibilità di programmare. Come si può fare un piano economico e finanziario in relazione a un progetto il cui iter non si sa quanto durerà? Nei Paesi più avanzati da questo punto di vista, l’impresa interpella la pubblica amministrazione, non tanti enti diversi; ed è la Pa a doversi preoccupare di raccogliere tutti i pareri e i contributi necessari, essendo tenuta a dare risposta motivata in tempi brevi. Altrimenti la richiesta si considera approvata». Per ciò che riguarda il fallimentare, qual è la situazione normativa italiana rispetto a quella di altri Paesi? «Credo che la nostra situazione normativa, anche a seguito delle recenti riforme, non sia affatto da buttare. Il problema resta quello dei tempi di chiusura delle procedure, che si collega inevitabilmente ai tempi della giustizia civile, dato che la chiusura di una procedura concorsuale dipende spessissimo dalla chiusura delle controversie a essa connesse. Di recente ho assistito alla dichiarazione di fallimento di una società mia cliente che vanta, nei confronti della pubblica amministrazione, un credito dieci volte superiore all’esposizione debito-
ria, ma che è oggetto di contenzioso. Un fallimento causato direttamente dai tempi della giustizia civile e dalla mancanza di chiarezza circa gli obblighi della Pa». C’è un sistema straniero che potrebbe essere preso a modello dal punto di vista normativo? «Per quanto ne so direi di no. Tuttavia per rispondere occorrerebbe svolgere uno studio approfondito di diritto comparato, dato che le procedure concorsuali non sono isole ma parti di un sistema giudiziario». Crede che le misure previste per punire i manager siano sufficienti in Italia? «Certamente sì. Il nostro sistema prevede sanzioni penali molto gravi per moltissimi reati che astrattamente potrebbero essere commessi da un manager: penso alla bancarotta, alla responsabilità connessa agli infortuni sul lavoro, ai reati ambientali, al falso in bilancio, all’aggiotaggio e a tanti altri. Tutti questi reati sono severamente puniti, almeno stando alle previsioni edittali. Se, poi, il manager sbaglia in buona fede, non deve essere punito penalmente, ma resta comunque soggetto alle azioni civilistiche, in primis nei confronti del datore
di lavoro e degli eventuali azionisti, ma anche nei confronti dei consumatori. Aumentare ulteriormente la pressione sui manager servirebbe soltanto a disincentivare le persone ad assumere questo ruolo fondamentale. Credo invece ci sia un enorme bisogno di manager bravi, preparati e coraggiosi, perché le capacità manageriali sono alla base della crescita aziendale, a sua volta presupposto per la creazione di posti di lavoro e ricchezza». Si è tanto parlato della cosiddetta salva-manager. Lei cosa ne pensa? Sarebbe utile? «A mio avviso no. Come ho detto, c’è un sistema di responsabilità chiaro: chi ha dolosamente violato le regole, è giusto che paghi penalmente. Chi ha commesso gravi errori in buona fede potrà essere chiamato a risarcire i danni. Insomma, serve equilibrio: non sono favorevole né alla caccia alle streghe, né all’impunità». Quali sono i rischi nei quali gli imprenditori possono incorrere più frequentemente? «L’imprenditore è abituato a rischiare. Tanti fattori imprevedibili possono contribuire a modificare le previsioni di successo di un’iniziativa imprenditoriale. Purtroppo in Italia l’imprenditore deve fare i conti con i fattori di rischio impropri sopra ricordati: incertezza delle regole e tempi lunghissimi di giustizia». Come commenta da legale i recenti crack statunitensi? «Sinceramente non mi ritengo in grado di valutarne le cause in modo compiuto, ma la sensazione è che siano mancati organi di controllo efficienti sulle banche, che fermassero per tempo il vortice nel quale le banche si erano infilate con politiche commerciali estreme. Visti i risultati, e visto che il conto lo sta pagando tutto il mondo, per una volta, possiamo forse dire di stare meglio noi, con la Banca d’Italia e la Consob, organismi di controllo di norma efficienti». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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MAESTRO Mario Cervi, 88 anni, è una delle penne piÚ brillanti del giornalismo italiano. Ex direttore de Il Giornale, che con Indro Montanelli ha contribuito a fondare, ha iniziato la sua carriera nel 45 come cronista del Corriere della Sera
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IL MAESTRO
IL GIORNALISMO DI OGGI MERITA LA PROMOZIONE In Italia l’informazione è libera e di buona qualità. Anche se la strapotenza televisiva rischia di stravolgere le gerarchie dei valori della società. Una società alla quale Mario Cervi, ex direttore de Il Giornale e giornalista di profonda fede liberale, non risparmia critiche, a partire dal rimprovero di una cronica assenza di senso civico MARILENA SPATARO
Italia del Dopoguerra, una nazione prostrata, divisa e con innumerevoli ferite da rimarginare. Un Paese da ricostruire fin dalle fondamenta, nella società, nella politica e nell’economia. A raccontare le angosce di quel tempo, ma anche a condividere le speranze e la voglia di voltare pagina degli italiani, uno stuolo di giovani cronisti, di cui molti tornati dal fronte. Tra loro alcuni nomi, come quello di Mario Cervi, che diverranno famosi, segnando la storia del giornalismo e della cultura italiani. «Il giornalismo di allora confinava da una parte con la bohème, rappresentata da quei colleghi che facevano notte per il giro in questura e dove era possibile trovare la notizia, e dall’altra con la letteratura, di cui facevano parte importanti figure della cultura del tempo. In mezzo a queste due sponde c’erano poi i giornalisti più normali, quelli che concretamente facevano il giornale» ricorda, con un pizzico di nostalgia, l’ex cronista del Corriere della Sera, che quel mondo lo ha vissuto dall’interno e fino in fondo. È nella redazione della prestigiosa testata di via Solferino, che, infatti, Mario Cervi inizia la
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sua carriera. Successivamente si occuperà di cronaca giudiziaria, seguendo i grandi processi. Mentre, come inviato speciale, assisterà a eventi internazionali che segneranno la storia. Legato da profonda amicizia con un’altra grande firma del giornalismo italiano, Indro Montanelli, con cui condivide oltre che la professione, anche un comune credo negli ideali liberali, nel 74 Cervi lascia il Corriere e insieme a Montanelli fonda Il Giornale dove ricoprirà incarichi di editorialista e inviato, poi anche di vicedirettore. Dopo una breve parentesi alla Voce, torna in via Negri da direttore. Ecco come nel racconto dei suoi cinquant’anni di carriera giornalistica Mario Cervi descrive l’Italia e gli italiani, indicandone vizi e virtù. Come vede, oggi, il nostro Paese, in due parole? «Sono molto pessimista, ma non da adesso. Ho sempre condiviso il giudizio di Montanelli, che sul suo ultimo libro L’Italia dell’Ulivo, scriveva: “Io non mi riconosco in questo Paese e questo Paese non si riconosce in me”. L’Italia, infatti, porta in sé da tempo immemorabile una grande tara che è la totale mancanza di senso civico. Un deDOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ficit che si ripercuote dappertutto, sia nella vita pubblica che in quella privata, determinando quelle situazioni non edificanti cui purtroppo assistiamo quotidianamente. Certo la corruzione esiste dappertutto come anche le disfunzioni amministrative, ma il carattere di sistematicità e cronicità presenti nel nostro Paese sono difficilmente eguagliabili in altre parti del mondo. Ovviamente tutto ciò non esclude che da noi ci siano altre qualità eccellenti, non ultime quelle di sopravvivere e di galleggiare. Ma, si sa, una nave che galleggia soltanto non riesce a trovare la rotta corretta per andare verso il porto giusto». Il Giornale nacque come uno spazio riservato all’espressione dei diversi volti della cultura liberale. Che significa, oggi, essere liberali? «Innanzitutto significa essere in pochi. I liberali sono sempre stati pochi, adesso sono pochissimi. Oggi predominano movimenti e slanci di massa, che magari sono anche apprezzabili e nobili, ma non hanno niente a che fare con quel senso delle Stato, delle istituzioni e della libertà e quindi del rispetto per il diritto degli altri oltre che per la rivendicazione dei proDOSSIER | LOMBARDIA 2009
pri diritti, che distingue il liberale. Ogni parte politica ha avuto nel tempo l’ambizione di tracciare e di dare indicazioni definitive e perfette, ma giammai quella di cercare faticosamente quel percorso che nasce dall’ascolto degli altri e da cui può scaturire una vera proposta politica». Insieme a Montanelli lei ha rappresentato una stagione d’eccezione del giornalismo italiano che oggi sembra inimitabile. Oggi cosa è rimasto di quella scuola? «La tendenza dei vecchi è di esaltare i tempi passati e di deprecare il presente. Penso che, tutto sommato, il giornalismo italiano sia di buona qualità e che nella categoria dei giornalisti, così tanto vituperata, in realtà si registrino meno casi di avidità di denaro, meno corruzione e meno sbandamenti rispetto ad altre categorie. Il giornalismo certo è cambiato. Oggi sia lo spazio della bohème che quello della letteratura, le due sponde che caratterizzavano una volta buona parte del mestiere, si sono molto assottigliati, mentre si è allargato quello della normalità e quindi i giornalisti sono molto più normali». Quando ha capito che diventare
giornalista sarebbe stata la sua strada? «Non l’ho mai capito, non ho avuto mai il sacro fuoco del mestiere o la vocazione, credo, infatti, che sarei potuto diventare anche un buon avvocato, notaio o altro. In realtà tornavo dalla guerra ed ero in cerca di lavoro, sono entrato al Corriere della Sera in seguito a una raccomandazione, come avviene spesso in Italia, da parte di un amico di mio padre che lì era stenografo. In quei momenti di convulsione, quando ormai la vecchia nomenclatura del Corriere era stata accantonata, si cercavano dei giovani ai quali affidare i lavori più modesti del giornalismo. Fu così, quasi per caso, che entrai a far parte di quel grande giornale». Nell’epoca della comunicazione istantanea, personalizzata e a portata di mano, che ruolo ricopre la carta stampata? «Stiamo ritornando alla situazione ottocentesca, quando la maggioranza era analfabeta, mentre solo la minoranza alfabetizzata leggeva giornali, faceva dibattiti e orientava anche l’opinione pubblica. Anche adesso la maggioranza è analfabeta, nel senso che il suo alimento quasi esclusivo di informa-
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zione e di cultura è la televisione, mentre poi, come nell’Ottocento, c’è una minoranza che legge libri, giornali e si dedica alla cultura». Il sistema dell’informazione italiana ha luci e ombre. Quali sono oggi, ai suoi occhi, i suoi maggiori meriti e demeriti? «Mi pare incontestabile che l’informazione italiana sia libera, anche con tutte le colpe che gli imputiamo. Il panorama che emerge dalle varie testate giornalistiche è un panorama molto variegato e molto esauriente. Poi certamente l’informazione della carta stampata ha i difetti che ha anche lo spettacolo: una deformazione generalizzata che nasce dalla strapotenza televisiva. Ma questo fa parte dello stravolgimento delle gerarchie dei valori della società attuale». Italiani brava gente. Un modo di dire che oggi sottoscriverebbe? «Brava gente lo sottoscriverei. Ci sono popoli come quello inglese o il giapponese molto più crudeli, i quali, come faceva notare lo stesso Montanelli, si sono dati regole di comportamento ferree e un galateo molto severo per tenere a freno quegli istinti che potrebbero in alcuni momenti emergere. L’italiano è meno pericoloso perché è più ac-
comodante, più indulgente e più compromissorio: una virtù e un difetto insieme. Certo in qualunque popolo si trovano persone disposte a commettere le peggiori efferatezze in tutti i campi, ma, complessivamente gli italiani sono meno violenti e feroci di altri popoli, tuttavia meno disciplinati, e quindi meno feroci forse perché meno disciplinati. Se agli italiani viene dato un ordine di commettere azioni tremende riescono sempre a trovare una via d’uscita per evitarlo, in fondo la nostra aspirazione è di essere brava gente. L’essere brava gente, però, non va sopravvalutato, perché anche noi abbiamo commesso a suo tempo azioni orrende in guerra, solo che essendo propensi ad autoassolverci tendiamo a non ricordarle». Cosa la indigna di più e cosa la rende ancora orgoglioso dell’italianità? «Il talento degli italiani è grande, anche nelle cose minori. Nella creatività individuale credo che il nostro popolo sia migliore rispetto ad altri cui mancano le nostre qualità di fantasia e anche di duttilità e adattabilità. Quello che mi da fastidio è il rovescio di queste qualità, la duttilità e l’adattabilità spesso coincidono con la man-
canza di principi ovvero con la simulazione di principi che in realtà non si hanno. Una forma di ipocrisia che non condivido e che ritengo sia un brutto difetto anche se capisco che a volte aiuta a vivere più tranquillamente e a risolvere parecchi problemi». Di tutte le storie e vicende che ha seguito, e di cui ha fornito testimonianza sulle pagine del Corriere, prima, e del Giornale, poi, quale ricorda con maggiore emozione? «Il contatto con il pubblico quando seguivo la cronaca giudiziaria. Allora la gente partecipava e seguiva i grandi processi come poi ha seguito Dinasty o Dallas, dal punto di vista professionale questo procurava grande emozione e soddisfazione. Una scena struggente, e che ripensandola mi suscita ancora una grande tristezza, è quella cui ho assistito nel 70 durante l’alluvione in Bangladesh che in una delle isole del delta del Gange aveva provocato più di 100mila vittime. Oltre che dal diffuso senso di morte, rimasi profondamente colpito dallo sguardo terrorizzato e insieme rassegnato degli animali che premevano contro la staccionata tentando disperatamente di scappare». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA VOCE Michele Brambilla
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LA VOCE
CROCI E DELIZIE DELL’ITALIANITÀ Una denuncia a mezzo sorriso. Che prende di mira «le esagerazioni grottesche del nuovo conformismo». O meglio, le mette alla berlina. Michele Brambilla dipinge un ritratto agrodolce dell’Italia di oggi. Tra spirito di cronaca e riflessioni sociologiche, per sfatare il mito del politically correct AGATA BANDINI oraggio, il meglio è passato. Un titolo, quello dell’ultimo libro del giornalista Michele Brambilla, che strizza l’occhio al sonnacchioso cinismo di Ennio Flaiano, a uno dei suoi fulminanti aforismi. E come Flaiano, Michele Brambilla ha voluto infondere, in questa sua carrellata sul volto quotidiano del Belpaese, tra tentazioni di rivolgimento e la sua secolare, nemmeno troppo sotterranea, tendenza all’immutabilità, uno sguardo disincantato ma acuto, una critica tanto più forte quanto bonariamente, amorevolmente impartita. Per «mettere alla berlina» quello che il vicedirettore de Il Giornale definisce «il nostro nuovo conformismo»: tic sociali, ipocrisie più o meno celate, abitudini culturali magari inveterate e rispolverate sotto una nuova veste. Quella, non sempre pagante tuttavia, del politicamente corretto, nuovo mantra del proverbiale perbenismo “all’italiana”, troppo spesso abusato, portato allegramente in parata come una bandiera. La cui stoffa, però, non sempre basta a coprire la realtà. Diversa, magari, ma forse anche più interessante. Nel suo ultimo libro lei analizza come sono cambiate la società e la cultura italiane negli
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MICHELE BRAMBILLA Giornalista e saggista, dal 2006 è vicedirettore de Il Giornale
ultimi decenni. Quali sono le cause profonde di questo stravolgimento? «Sono tante, ovviamente. Tutte le società cambiano, del resto, e sono soggette a rinnovarsi, nei pregi come nei difetti. Quello che ho cercato di fare, personalmente, è una specie di cronaca della vita quotidiana della gente comune per ricavarne un “come siamo”, e mettere un po’ alla berlina i nostri nuovi conformismi, i nuovi vizi, i nuovi tic, le nuove ipocrisie. Parlo di come stiamo in famiglia, sul lavoro, in vacanza, nel tempo libero. Ho voluto far emergere, in un certo senso, il lato grottesco dei nostri comportamenti, che crediamo più “progrediti” ma che spesso sono solo la riproposizione in forma politically correct delle fragilità e delle meschinità di sempre». Non si corre il rischio di appoggiarsi al detto “si stava meglio quando si stava peggio”? «Sì, certo. Infatti chiudo il libro con un capitolo autoironico che s’intitola “Non c’è più la nostalgia di una volta”, proprio per denunciare il passatismo che affiora qua e là nelle pagine precedenti. Mi prendo un po’ in giro, insomma. Perché così come è infantile il mito progressista secondo il quale più si va avanti e DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA VOCE Michele Brambilla
più si è illuminati, è sbagliato anche pensare il contrario, e cioè che il passato è sempre meglio del presente. Però, capitolo finale a parte, ho voluto prendere in giro le mode di oggi perché sono quelle che attualmente godono del consenso del nuovo perbenismo». C’è qualcosa, secondo lei, che invece è effettivamente migliorato e su cui servirebbe investire maggiormente nel nostro Paese? «Ma certo che siamo migliorati, e sotto molti aspetti. Nel primo capitolo, ad esempio, denuncio l’abbattimento del totem dell’autorità. Oggi nessuno si fida più di nessuno. Chiunque eserciti un potere è visto con sospetto: dal professore al politico, dal poliziotto al prete, dal giudice all’arbitro che fischia un rigore, dalla giuria del premio letterario a quella di miss Cesenatico: li conDOSSIER | LOMBARDIA 2009
sideriamo tutti e sempre in malafede. Una volta erano figure sacre, oggi quasi dei banditi. Questa diffidenza, alla fine, diventa paralizzante. Ma, detto questo, vedo anche gli aspetti positivi di un approccio non più fideistico, com’era una volta, nei confronti del potere costituito. Quello che denuncio nel libro sono piuttosto le esagerazioni grottesche del nuovo conformismo. Ad esempio, è certamente un bene che oggi si sia più disponibili ad accogliere gli stranieri: ma abolire la festa di Natale nelle scuole e negli asili in segno di “rispetto” di uno o due bambini musulmani, è ridicolo oltre che ingiusto. Così come accolgo come una benedizione la fine degli insulti e dell’emarginazione ai danni degli omosessuali. Ma che nelle scuole, come è successo in Inghilterra, venga vietato ai bambini di pronunciare le parole “mamma” e “papà” per non
“discriminare” i bambini adottati da coppie gay è un’idiozia che si commenta da sola». Quali tinte ha il nuovo conformismo italiano e quali tratti distintivi del dna italico si sono, invece, mantenuti inalterati? «La tinta è quella che ho già definito “politicamente corretto”. Un conformismo vagamente progressista in materia di usi e costumi, ma che conserva alcuni tabù. Ad esempio, in un mondo dove tutto è lecito, dove si può abortire quando si vuole e fare figli in provetta programmando sesso e colore degli occhi, i nuovi appestati sono i fumatori. E guai anche a chi va a caccia». In una recensione al suo lavoro è stato fatto notare come le tinte “scialbe” con cui descrive l’Italia possano ricordare quelle di Luciano Bianciardi. Si ritrova in questo accostamento? «Bianciardi era un genio e l’acco-
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IRONIA E AMAREZZA Nel suo ultimo libro, Coraggio, il meglio è passato (in basso, la copertina), Brambilla riflette sulla vita e lo spirito dell’Italia di oggi. Nell’altra pagina, il giornalista insieme al figlio Martino
stamento mi fa arrossire. Quando ho scritto, però, non ho pensato a lui, ma semmai a un grande giornalista che è stato tra i miei maestri, Luca Goldoni. Però
è vero che La vita agra di Bianciardi era una denuncia dei conformismi dell’Italia degli anni Sessanta. La differenza? È quella che c’è fra l’Italia di allora,
ancora bigotta e conservatrice, e quella di oggi, che è, o almeno si crede, progressista. Il fattore comune è, appunto, il conformismo: si tende tutti ad accodarsi al pensiero e alla morale dominante». Chiesa e famiglia: due pilastri della società italiana a quanto pare alla deriva. Quanto pesa la perdita di “ancestrali” punti di riferimento? «Entrambe le istituzioni risentono in modo diverso della perdita del senso del sacro. La famiglia, in particolare, è in crisi perché non abbiamo più voglia di far fatica per nulla. E tenere insieme una famiglia è anche sacrificio e fatica. Impegni che nessuno intende più contemplare nel proprio orizzonte». E come possono essere sostituiti, se è possibile farlo?
«Domanda da un milione di dollari. Non saprei. Mi pare che i nuovi modelli non funzionino come qualcuno sperava. Né la mitica “etica laica”, né tantomeno la “famiglia allargata”, osannata anche da tante fiction Tv, ma nella realtà fonte di grandi sofferenze, soprattutto per i figli». Eppure molti lamentano un’influenza troppo pesante proprio della Chiesa nella politica e nella società italiane. Secondo lei è davvero così? «La Chiesa propone, ma non impone. La gente, di fatto, in gran parte se ne frega delle indicazioni del Magistero in materia di morale. Ma nel libro non risparmio qualche critica pure al clero, che secondo me parla troppo di etica e di solidarietà e pochissimo di Dio e di vita eterna. Le uniche cose che invece interessano a tutti. Anche a quelli che fanno finta di poter vivere senza». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ANCORA ALLA RICERCA DELL’IDENTITÀ PERDUTA L’architettura va rifondata. Partendo dalla rielaborazione del suo pensiero teorico. Per arrivare a una prassi che la affranchi dall’attuale sudditanza dalle altre arti che rischia di dissolverla. A lanciare l’appello è Vittorio Gregotti. Che si schiera contro spettacolarizzazione e archistar MARA NICOLÒ
na riflessione ad alta voce». Così Vittorio Gregotti definisce il suo ultimo libro, Contro la fine dell’architettura, minimizzando in parte la polemica suscitata alla sua uscita. Ma il mondo dell’architettura, e non solo, è in subbuglio, perché le tesi sostenute, e supportate da un pensiero forte e da una profonda conoscenza del progettare, da questo ottantenne professionista piemontese, sul suo scritto, suonano come uno spietato quanto lucido j’accuse nei confronti di una parte di suoi colleghi famosi: gli archistar. «Modaioli – dice Gregotti – che hanno ridotto l’architettura a scandalo, a trovata mediatica, decretandone la dissoluzione». Secondo Gregotti sono proprio loro i maggiori responsabili della «liquefazione» dell’antica disciplina del progettare. Ed è a loro che nel suo pamphlet dirige con mira infallibile e con sottigliezza d’analisi gli strali più acuminati della sua polemica. Lei ha attraversato mezzo secolo di storia dell’architettura da protagonista. Cosa l’ha spinta a scrivere un testo di severa critica del modo di fare architettura nel contemporaneo, anche a rischio di attirarsi antipatie? «È da quasi cinquant’anni che scrivo libri, non lo faccio con la pretesa di essere un teorico, ma di chiarirmi con me stesso prima che con gli altri. Il mio intento è sempre stato quello di interrogarmi su dove si stia
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andando nel mondo dell’architettura e anche nelle arti figurative. Magari qualche critica, qualche antipatia me la sarò pure attirata, ma da parte di una minoranza. Ritengo che gli architetti con cui concordo al mondo ci siano, e che siano anche tanti». Lei, però, evidenzia come l’architettura oggi manchi di qualsiasi fondamento proprio, sia a livello teorico, che sociale, etico ed estetico. A tal fine insiste sulla necessità di rifondarne le basi. Quali sono le cause che hanno determinato questa situazione? «Nel Settecento con l’Illuminismo, con la Rivoluzione industriale e con la Rivoluzione francese, le arti hanno assunto una certa responsabilità nei confronti della società e dei singoli soggetti politici, stabilendo, però, al contempo rispetto allo stato reale delle cose una diversità, una distanza critica. Negli ultimi 30 anni tutto ciò ha ceduto il posto a una forma di strano realismo, una specie di realismo capitalista. Ne è derivato, oltre che un disprezzo per il contesto storico e fisico dentro il quale ci si muove, una tendenza a conferire un eccessivo valore all’originalità, anche quando non è necessaria, alla bizzarria, alla grandezza fisica delle opere come dimostrazione di forza e di capacità che porta a un progresso visto secondo parametri di positività iper-liberali. Non è un caso che tutto questo sia avvenuto proprio nel periodo thatche-
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PER IL DIALOGO E IL CONFRONTO L’architetto Vittorio Gregotti. Nella foto Grand Théatre De Provence, Aix-en-Provence, 2003-2007
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INTERNAZIONALE Sopra lo stadio olimpico di Barcellona. A destra la nuova città di Pujiang, Shanghai. Nella pagina a fianco il centro culturale di Belém a Lisbona
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riano, cioè quando anche la convinzione complessiva del capitalismo globalizzato è diventata una forma di potenza che sembrava non avere più limiti. Dal punto di vista delle arti questo ha prodotto una specie di comunione tra le diverse discipline artistiche, avente al centro l’idea della multimedialità, intesa, però, come preminenza della comunicazione in relazione al consumo delle cose, il che ha generato un mondo statico, dove quello che conta è lo stile e dove tutto è diventato design e forma. Insomma apparenza e spettacolarizzazione. La mia critica vuole essere una reazione a questo stato di cose, che indica la necessità di ristabilire una differenza tra le diverse identità disciplinari. L’interdisciplinarità è un elemento fondamentale, è ed è stato un elemento di progresso, ma deve implicare che le discipline siano diverse tra loro, altrimenti non esiste possibilità di relazione». Nel suo libro parla di “liquefazione” dell’architettura. Cosa intende esprimere con questo termine? «La liquefazione o dissoluzione dell’architettura deriva soprattutto dalla tendenza di mettere insieme le diverse arti, come se l’arte fosse un’unità al di sopra di ciascuna di queste. Invece ognuna ha una propria specificità, i propri strumenti, le proprie pratiche tecniche e artistiche. E quindi anche una propria identità attraverso cui dialogare con
le altre. Il rapporto tra l’architettura e la pittura, per esempio, è sempre stato un rapporto importantissimo nella storia dell’Europa in questi ultimi mille anni. Ma naturalmente nessuna delle due ha tentato di diventare l’altra, invadendone il campo, ognuna ha cercato di lavorare all’interno della propria condizione del fare. Che è quanto oggi non accade. Un altro aspetto negativo è questo appellarsi continuamente alla creatività, che così diventa più che altro una citazione. E nulla più. Invece, io ritengo che nessuno si inventi le cose da zero, questo compito lo lascerei solo al buon Dio. Tutti noi modifichiamo, trasformiamo, cambiamo, aggiungiamo, proponiamo. È questo il ruolo che abbiamo sulla terra. Ovviamente l’opera ha sempre la pretesa di durare, di significare anche al di là dello stesso autore, e in effetti, i lavori artistici detengono questa qualità, parlandoci delle cose anche al di là delle ragioni per cui sono state costruite. Ecco secondo me, fare architettura, significa soprattutto questo». Lei sostiene che l’aspetto mediatico di dover stupire a tutti i costi ha contagiato il mondo dell’architettura, diventando l’obiettivo ultimo per molti architetti. Cosa intende dire? «Sì, credo che ci sia una grande confusione tra i monumenti e l’immagine di marca, le invenzioni linguistiche che si appiattiscono fino
a coincidere con i desideri di sorpresa del mercato. Ci diamo tante arie parlando delle tecnologie, ma l’architettura non è un miracolo tecnologico. Quando oggi penso a un miracolo tecnologico penso alle possibilità di allungare la vita o di andar sulla luna, ma non certamente alla tecnologia dell’architettura, che è molto mista e molto complessa. Invece per i gotici era un grande sfida tecnica costruire una cattedrale». L’assenza di progettualità di cui soffre l’architettura pare allora essere una vera e propria ideologia del personalismo, dove il progetto sociale stesso consiste nell’affermazione della sua frantumazione. Con questo ha forse voluto aprire un dibattito che coinvolge anche l’assetto della società e delle sue istituzioni? «Sì, infatti non possiamo evitare di confrontarci con i problemi della società e di riflesso della politica, in un giudizio che coinvolge anche il fare arte o architettura. Questo confronto con la società costituisce, oserei dire, il contenuto politico dell’architettura. Tutto ciò è invitabile, è qualcosa da cui non si può sfuggire e nei cui confronti bisogna in qualche modo, attraverso le opere naturalmente, non attraverso le parole, prendere posizione». Quanto influirà sul futuro dell’architettura l’utilizzo delle tecnoscienze? «La tecnoscienza certamente ha un’importanza colossale all’interno del mondo contemporaneo. Ma non si può confondere il suo fine con i fini della produzione delle pratiche artistiche. Sono due cose diverse. Bisogna evitare di pensare che il senso del possibile in architettura sia il suo mezzo. Questa è una differenza fondamentale su cui si deve aprire una discussione». In tema di architettura cosa c’è dietro l’angolo? «Sono piuttosto pessimista. Personalmente mi sembra di avere troppo poco tempo per fare questa battaglia che ho intrapreso, speriamo che qualcuno la raccolga e la porti avanti». LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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DIAMO CENTRALITÀ AL PROCESSO Basta parlare solo di sè. Basta apparire nei salotti televisivi. Basta evitare i veri dibattimenti. Con lo stesso metodo scientifico con cui vorrebbe veder affrontati i processi in tribunale, Grazia Volo compone la sua accusa all’avvocatura italiana SARAH SAGRIPANTI
orte, credibile e autorevole. Questa è l’essenza dell’avvocatura per Grazia Volo. Anzi, dovrebbe essere. Perché da vent’anni a questa parte in Italia si è perso di vista il senso profondo della professione. L’avvocatura, che dovrebbe rivestire, come è stato in passato, un ruolo da protagonista nel rinnovamento delle fondamenta del sistema giudiziario e contribuire a orientare la giurisprudenza, si trova invece dispersa e incapace di reagire. Su più fronti è chiara questa crisi. Una magistratura che ha usurpato il ruolo alla politica e oscurato quello dell’avvocatura. Ma anche avvocati troppo concentrati ad apparire sui mass media, poco attenti alle grandi questioni e incapaci di gestire con metodo le strategie di difesa nei processi. Un sistema di accesso alla professione, infine, troppo permissivo, che ha creato giovani impazienti di affermarsi, bruciando le tappe. Questa la condizione in cui versa il sistema, secondo Grazia Volo. La soluzione è solo una: «Rifondare la centralità del processo. Perché è questo il terreno dell’avvocato». Avvocato Volo, quali cambiamenti vede nella professione, da quando lei ha iniziato a oggi? «Oggi l’avvocatura affronta una profonda crisi, che è una crisi di assenza di pensiero. Sono circa trent’anni che arranca, a seguito delle iniziative che sono state prese dalla
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GRAZIA VOLO Avvocato penalista
magistratura. Negli anni 70, quando ho iniziato io, in ogni città d’Italia c’erano due o tre avvocati famosi e autorevoli, molto più noti dei magistrati». Quando parla di iniziative della magistratura a cosa si riferisce? «Da trent’anni a questa parte la magistratura è stata delegata dalla politica alla risoluzione dei grandi problemi, esercitando un’attività di supplenza politica. E nella sostanza si è determinato il fatto che i pubblici ministeri sono diventati i gestori delle questioni più importanti che hanno riguardato la vita del Paese: il terrorismo, la grande criminalità organizzata, i rapporti complessi tra politica e imprenditoria e tra politica e criminalità. Fino ad arrivare oggi a toccare i santuari della finanza, le banche, e a incriminarne le scelte strategiche. Mi riferisco alle ultime indagini sulle
scalate. La centralità delle procure ha determinato la crisi della fase dibattimentale del processo, perché ormai tutto si concentra nella fase delle indagini preliminari. E gli avvocati non sono stati capaci, anzi non siamo stati capaci, di sviluppare un’efficace resistenza. A conseguenza di tutto ciò si è determinata la tendenza a risolvere i processi prima della fase dibattimentale, con una difesa debole e quindi con accordi come patteggiamenti e riti abbreviati. Questo ha determinato in via definitiva la perdita di prestigio dell’avvocatura». Da dove inizierebbe per invertire questa tendenza? «Intanto bisogna trovare il modo di far emergere forti opinioni da parte degli avvocati, che non si limitino a proporre in maniera strumentale e aggressiva la separazione delle carriere, un conflitto tra l’altro
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di modesta rilevanza. Occorre andare ai grandi temi. Sono convinta che uno di questi riguardi una grande degenerazione che è avvenuta nel nostro Paese: il giustizialismo, che è diventato di destra e di sinistra, e ha eliminato lo spazio del garantismo, che invece è profondamente liberale, legato alla centralità dei diritti dell’uomo. Su questo purtroppo c’è poca attenzione». Ma secondo lei dove risiedono le motivazioni principali di questo disinteresse? «Purtroppo nell’avvocatura si è inserito un vizio, quello del desiderio di protagonismo personale. Avvocati che si pongono e si propongono come artefici di piccoli o grandi interventi su processi più o meno rilevanti: in questo si mostra un protagonismo secondo me gravemente criticabile, che combacia con l’interesse mediatico. Questo atteggiamento ha contribuito a determinare la perdita di centralità del processo: la sede propria del processo, le aule giudiziarie, è scomparsa dall’interesse mediatico perché questo si celebra, invece, nel teatrino televisivo». Esiste quindi anche una responsabilità da parte della stessa avvocatura? «Su questo noi avvocati dovremmo fare una severa autocritica. Se nei confronti dei mass media ci ponessimo tutti con un atteggiamento più riservato, non arriveremmo a certi eccessi. Sono convinta che si possa effettuare una critica profonda ed efficace nei confronti degli atteggiamenti sbagliati altrui, solo quando si è in condizione di farla su se stessi. È quindi sicuro che ci siano guasti nella magistratura troppo protagonista, ma guardando con attenzione quante interviste vengono rilasciate da magistrati e quante da avvocati, purtroppo queste ultime sono molte di più». Un avvocato non dovrebbe esporsi mai sui mass media? «Non voglio dire che in assoluto non si debba andare in televisione, ma comparire per spalancare l’archivio del proprio studio è una cosa che trovo agghiacciante. Sono fermamente convinta che il processo penale sia un trauma grave, e che
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«OGGI L’AVVOCATURA AFFRONTA UNA PROFONDA CRISI, CHE È UNA CRISI DI ASSENZA DI PENSIERO. SONO CIRCA TRENT’ANNI CHE ARRANCA, A SEGUITO DELLE INIZIATIVE CHE SONO STATE PRESE DALLA MAGISTRATURA»
chiunque lo subisca abbia diritto a essere “non esposto”. Figuriamoci quindi se può essere tradito dal suo avvocato, che va a raccontare i dettagli urbi et orbi. C’è una straordinaria intimità che deve essere tutelata: quella del rapporto tra avvocato e assistito e, dall’altra parte, quella tra avvocato e magistrato. Un criterio di riservatezza che è totalmente ignorato nei rapporti moderni, perché si pensa che tutto debba essere raccontato, preferibilmente alla televisione». Talvolta, però, è lo stesso assistito che cerca visibilità. «Posso dire per esperienza che più visibilità ha un soggetto inserito in un processo penale, peggio andrà il processo. All’interno delle aule di tribunale, applicando un metodo scientifico, le questioni di diritto processuale e di diritto sostanziale si
possono risolvere, e si risolvono. Se invece si propone un elemento esterno, come l’aula televisiva, che fa da catalizzatore, il punto principale della questione penale perde rilevanza. In questo modo in tribunale vengono riproposti solo temi rimasticati dai mass media e l’opinione che il pubblico si forma sul fatto delittuoso influisce negativamente sull’andamento del processo. L’accanimento mediatico su casi come quello di Cogne o di Perugia, incentrati tra l’altro su fatti criminali che per me non sono nemmeno molto appassionanti, fanno sì che quando il processo ritorna nella sua sede naturale, sia già completamente massacrato». Se non la appassionano i casi di Perugia o Cogne, quali casi risvegliano il suo interesse? «Dopo anni di esperienza, ciò che
mi appassiona sono le questioni di diritto, quelle che possono arrivare davanti alle alte corti e nelle quali, attraverso lo studio, si può riuscire a dare un contributo per orientare la giurisprudenza, in un senso o nell’altro. Questo è il fine di un avvocato: dare un contributo per orientare la giurisprudenza e introdurre delle innovazioni nel metodo di analisi». Secondo lei le nuove generazioni di giovani avvocati sono capaci di farlo? «Purtroppo mi sembra che oggi i giovani vogliano tutto e subito. E in questo devo ammettere che sono stati agevolati dal legislatore, ma anche dai nostri Ordini, che hanno consentito che con due anni di pratica si possa acquisire il titolo di avvocato ed esercitare, meno che in Cassazione, in tutti gradi del processo. Invece la professione si impara attraverso l’esperienza, che per quanto riguarda l’avvocatura è lunga e prevede la rigorosa e paziente applicazione di un metodo, preferibilmente scientifico. E questo contrasta con l’ansia e l’urgenza che hanno i giovani di trovare un’immediata affermazione». Quale dovrebbe essere, invece, l’approccio migliore alla professione? «Quello che vorrei vedere nei giovani è una reale curiosità e una reale voglia di approfondire. Per raggiungere quella che è la vera caratteristica dell’avvocato: la capacità di “guardare oltre”. A un avvocato non è richiesto, come al giudice o come soprattutto al pm, l’analisi di un fatto criminale. All’avvocato è richiesto di più: capire chi lo ha commesso e perché, cercare le ragioni. E andare oltre. Questo si raggiunge con la capacità di concentrarsi e con lo sforzo quotidiano, costruendosi una struttura di nervi capace di reggere la tensione. E soprattutto con la cultura, giuridica e generale, che mi sembra purtroppo ormai da tutti trascurata. Occorre ricordarsi che il punto d’arrivo di un avvocato non è la televisione, ma sono le sezioni unite della Cassazione, è la Corte Costituzionale. A questo devono puntare i giovani». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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ORESTE DOMINIONI Avvocato e presidente nazionale dell’Unione delle Camere Penali italiane DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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LA GIUSTA RIFORMA È ORGANICA E CONDIVISA Una riforma organica. Che ricomprenda tutti gli ambiti della giustizia penale su cui oggi si dibatte. Dallo snellimento del processo alla separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri, fino a una maggiore autonomia della polizia giudiziaria. Su tutti questi temi caldi e sul contributo che in merito potrebbe arrivare dall’avvocatura, si confronta Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane MARA NICOLÒ
n profondo attaccamento alle istituzioni democratiche e ai principi della legalità. È in nome di questi valori che il presidente nazionale dell’Unione Camere Penali italiane, Oreste Dominioni, molto probabilmente, ha ritenuto opportuno denunciare per vilipendio al Capo dello Stato l’onorevole Antonio Di Pietro, per le frasi pronunciate su Giorgio Napolitano durante un recente comizio a piazza Farnese. Ma, al di là di questo episodio di cronaca, l’avvocato Dominioni è da tempo conosciuto e stimato negli ambienti forensi per la sua grande professionalità e per lo slancio con cui si è sempre battuto, e continua a battersi, a favore di un’avvocatura altamente qualificata e capace d’imporsi in termini di maggiore partecipazione rispetto alle decisioni prese dalla politica in materia di giustizia, particolarmente in quelle sedi dove si trattano materie inerenti progetti di riforma in campo penale. A riguardo, proprio lo scorso anno, l’Ucpi ha messo a punto un progetto complessivo per la riforma organica della giustizia, traducendo suoi passaggi particolarmente delicati, quali la separa-
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zione delle carriere e la riforma del Csm, con precisi articoli di legge. «Molti di questi temi sono confluiti nell’agenda politica e nel dibattito. Confidiamo ora che il nostro contributo sia considerato indispensabile» sottolinea il presidente Dominioni, che di recente è stato rieletto alla guida dell’importante organismo rappresentativo dell’avvocatura penale. Nell’agenda dei prossimi anni, come evidenziato dallo stesso tema “La ragionevole qualità del processo – un cantiere per la riforma della giustizia nel segno della Costituzione”, cui è stato dedicato l’ultimo congresso dell’Ucpi, figura un’ampia rosa di temi che richiederanno da parte dell’associazione un ulteriore impegno a riflettere e confrontarsi sulle varie criticità che da tempo affliggono la giustizia penale individuando e promuovendo le soluzioni più efficaci per arrivare a una innovativa e moderna formulazione di norme in materia di diritto penale in sintonia con le mutate esigenze di una società sempre più complessa. Per ottenere un simile risultato, secondo l’Ucpi appare indispensabile riuscire, finalmente, a varare un nuovo Codice penale e con esso una DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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riforma organica del Codice di procedura penale. Presidente, come giudica nel complesso le misure proposte dalla riforma Alfano, in particolare, quelle che riguardano il processo penale? «Non è possibile oggi esprimere un giudizio in quanto, al di là di generiche anticipazioni, non si conoscono ancora i testi. È da confidare che non si ripercorra la strada delle norme processuali varate nell’ambito del tema “sicurezza”, le quali non hanno giovato a una maggiore efficienza del processo e, per di più, ne hanno abbassato la qualità». I lavori parlamentari sembrano essersi rallentati. A chi vanno attribuite le responsabilità? «Mi sembra che siano in gioco responsabilità complessive, ma le principali sono del governo e della maggioranza. Una riforma organica della giustizia esige certamente tempi non DOSSIER | LOMBARDIA 2009
brevi di elaborazione e di decisione. Oggi però non si è ancora dato inizio a una concreta discussione. Da molti mesi ormai, quasi un anno, si svolge un dibattito generico, spesso sfilacciato, per lo più settoriale che, oltre a dilatare i tempi, rischia di logorare la stessa riforma. I continui rinvii non giovano di certo, ma deresponsabilizzano gli stessi soggetti politici che hanno il compito doveroso di lavorare con grande impegno a un serrato confronto senza pregiudiziali. Su ciò vi è anche una responsabilità dell’opposizione che antepone posizioni precostituite piuttosto che aprirsi alla più ampia discussione. Anche questo crea difficoltà serie all’avvio dei lavori di riforma». Quali sono le fasi dell’attuale procedimento che provocano i maggiori rallentamenti nei tempi della giustizia penale? «Sono innanzitutto i tempi morti
del procedimento, lunghi periodi temporali in cui l’attività si arresta. Le cause di questo dipendono, in buona parte, dalle inadeguatezze delle risorse, ma anche dalla loro gestione poco razionale». Secondo lei gli avvocati dovrebbero essere presi maggiormente in considerazione nel momento di affrontare la riforma? «È fondamentale che al dibattito preparatorio siano fatte partecipare tutte le componenti del mondo della giustizia, e quindi anche l’avvocatura. L’Unione delle Camere Penali da sempre chiede un maggiore coinvolgimento e a tal fine ha costantemente elaborato proprie proposte, che in alcuni casi sono state determinanti, si pensi al nuovo articolo 111 della Costituzione o alle norme sulle indagini difensive. In generale dobbiamo dire che un nostro maggiore coinvolgimento sarebbe stato di grande utilità per definire le solu-
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«IL PUBBLICO MINISTERO NON DEVE AVERE IL POTERE DI SVOLGERE INDAGINI PER RICERCARE NOTIZIE DI REATO. CIOÈ NON PUÒ CONTROLLARE L’ATTIVITÀ DI ORGANI POLITICI E AMMINISTRATIVI PER VERIFICARE SE VI SIA DA ACQUISIRE UNA NOTIZIA DI REATO» zioni più appropriate dei problemi, non lasciando il campo aperto alla preponderante presenza della magistratura associata». Riqualificazione dell’avvocatura, verifica del merito, formazione continua, istituzione delle specializzazioni forensi, elevazione della deontologia. Sono alcuni degli obiettivi che vi siete prefissati. Come intendete muovervi come associazione? «Dal 2006 abbiamo lavorato a un progetto di nuova legge di ordinamento forense, assieme alle altre associazioni della categoria. Questo progetto, che ha come elementi portanti appunto la riqualificazione dell’avvocatura, la verifica del merito, la formazione continua, l’istituzione delle specializzazioni forensi, l’elevazione della deontologia è stato fatto proprio da parlamentari di entrambi gli schieramenti ed è oggi pendente in Parlamento come disegno di legge. Abbiamo anche lavorato all’iniziativa promossa dal Consiglio Nazionale Forense e c’è da sperare che il testo ormai definito in questo ambito, e che raccoglie i punti qualificanti del nostro testo,
superi rapidamente le ultime divergenze che si registrano tra alcuni Ordini e possa essere anch’esso presentato alla politica, dalla quale ci attendiamo una forte spinta alla riforma forense». Come giudica il principio di discrezionalità libera oggi alla base dell’azione penale? «È essenziale affrontare la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Risorse inevitabilmente limitate, negli ordinamenti di tutti i Paesi, anche fuori da situazioni incongrue come quelle oggi denunciate rispetto alla domanda di giustizia, richiedono criteri di selezione fra le notizie di reato da perseguire e quelle da pretermettere. La situazione attuale, nell’assenza di criteri di legge, è contrassegnata dalla discrezionalità libera, cioè dall’arbitrio, delle singole procure, che seguono criteri propri, talvolta dichiarati, come nel caso della Circolare Maddalena, ma generalmente taciuti. Questa situazione non solo viola l’articolo 112 della Costituzione, ma lo annulla. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, nel significato con cui è asserito dalla Costituzione, non
richiede che per ogni notizia di reato corrisponda un procedimento, bensì che, in base al principio di legalità, quella selezione avvenga in base a criteri stabiliti dalla legge. Di ciò si deve far carico la riforma, a cominciare dalla generalizzazione della regola della irrilevanza sociale del fatto già prevista per il procedimento minorile e per quello del giudice di pace. La determinazione per legge di questi criteri non significa una limitazione dell’indipendenza funzionale esterna del pubblico ministero. Essa infatti riconduce la disciplina dell’esercizio dell’azione penale entro la sfera della legalità, secondo la categoria della discrezionalità vincolata: una situazione di dovere che è determinata, in parte, da valutazioni che in concreto il pubblico ministero deve svolgere sulla base di criteri di legge». Cosa pensa della proposta di rendere più autonoma la polizia giudiziaria dai pm? «Il tema è controverso e ancora da calibrare in modo accorto. C’è però un punto essenziale da stabilire. Il pubblico ministero non deve avere il potere di svolgere indagini per ricercare notizie di reato. Cioè non può controllare l’attività di organi politici e amministrativi per verificare se vi sia da acquisire una notizia di reato. Questa è una funzione che deve appartenere agli organi di controllo del sistema politico-amministrativo. Non è neppure un compito di polizia giudiziaria, ma di polizia amministrativa. Che è del tutto estranea al ruolo istituzionale del pubblico ministero». Ritiene che la flessibilità consentita dai mezzi di impugnazione straordinari di una sentenza passata in giudicato penale sia oggi regolamentata in maniera chiara e condivisibile? «È tutto il sistema delle impugnazioni che va ricostruito. In quello attuale vi sono scompensi, disorganicità, inefficienze e irragionevolezze. Questa è una materia di riforma di primaria importanza, che va affrontata con una forte visione innovativa e organica». DOSSIER | LOMBARDIA 2009
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DIETRO LE QUINTE DELL’ECCELLENZA Istituzioni e medici a confronto: due voci concordi nel fare il punto sul sistema sanitario lombardo. Roberto Formigoni e Umberto Veronesi si confrontano sui (tanti) pregi e i (pochi) difetti di uno dei sistemi sanitari più all’avanguardia d’Italia. Dove anche i casi di malasanità sono espressione di un rischio che, nel tempo, può essere sempre più tenuto sotto controllo SARAH SAGRIPANTI
tenti pienamente soddisfatti, parità di bilancio, efficienti partnership pubblico-privato. Sono queste le caratteristiche del sistema sanitario lombardo. Un sistema che a detta di tutti rappresenta sicuramente un’eccellenza nel panorama italiano ed europeo, nonostante alcune criticità fisiologiche da risolvere. Sia per Roberto Formigoni, presidente della Regione, sia per Umberto Veronesi, medico, ex ministro della Sanità e creatore della fondazione che porta il suo nome, il cammino fin qui segnato è quello buono. E occorre continuare su questa strada. Come giudica il livello qualitativo del servizio sanitario erogato in Lombardia? Roberto Formigoni: «Gli ultimi dati rivelano che il 92% degli utenti del nostro servizio sanitario è soddisfatto: un numero decisamente considerevole, perché sono oltre nove milioni i cittadini che ogni anno affidano la propria salute alle nostre cure. Inoltre, in Lombardia abbiamo assistito a una progressiva diminuzione della mortalità e al forte incremento del tasso di aspettativa di vita, che si conferma il più elevato d’Italia:
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78,3% per gli uomini e 84,2% per le donne». Umberto Veronesi: «Altissimo. La Lombardia dal punto di vista sanitario è un modello sia per l’Italia che per l’Europa. Anche a livello nazionale il nostro sistema sanitario è fra i migliori del mondo, con un tasso di mortalità bassissimo e una durata della vita media in linea con i più elevati standard internazionali. In questo quadro il sistema lombardo, che mette in competizione la sanità pubblica e quella privata per offrire al malato l’assistenza migliore, rimane quello che, cifre alla mano, ha generato quell’eccellenza nei servizi sanitari che tutti riconoscono». Dal 1998 al 2009. Quale bilancio si sente di fare di questi dodici anni di applicazione del modello sanitario lombardo e su quali aspetti è ancora necessario lavorare? RF: «Per riconoscere la validità di un modello sanitario si deve guardare al suo essere universale, per quanto riguarda i possibili scenari applicativi, e alla sua flessibilità, intesa come capacità di evolversi insieme alla società. Per costruire una sanità dalla parte del citta-
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LO SCIENZIATO E IL PRESIDENTE Dall’alto: Umberto Veronesi, medico chirurgo, ex ministro della Sanità e creatore della fondazione Umberto Veronesi per la ricerca nel settore delle scienze; Roberto Formigoni, dal 1995 è presidente della Regione Lombardia
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dino ritengo che vada generalizzato a livello nazionale un modello culturale nuovo, fondato su principi irrinunciabili: la libertà di scelta, i controlli e la sicurezza del sistema. In un contesto di crescita costante della spesa e scarsità di risorse, però, dobbiamo lavorare su due fronti: nell’immediato, agire in modo efficace sulla razionalità del sistema e, per il medio-lungo periodo lavorare allo studio di modalità innovative di reperimento delle risorse. Ecco perché ci siamo posti precisi obiettivi: elevare la qualità umanizzando i servizi; ottimizzare i costi; raggiungere il livello di “zero errori” in sanità». UV: «Il bilancio è positivo: il livello di assistenza ai cittadini è ottimo e questo rimane il fattore più importante. Certamente in questi anni sono emersi anche i punti deboli da migliorare. Ad esempio, i Drg, ovvero il sistema di classificazione dei pazienti ospedalieri. Il sistema fu pensato per far fronte a una domanda di salute in costante aumento e per assicurare che ogni intervento DOSSIER | LOMBARDIA 2009
venga effettuato nel minor tempo e modo possibile. Se in linea di principio risponde a questa logica, il metodo si è rivelato inadeguato nel modo in cui i Drg sono creati e aggiornati dalle commissioni. Nel gruppo che decide le tabelle di rimborso a prestazione c’è infatti una forte componente medica, che può non trattenersi dall’influenzare le decisioni a favore della propria disciplina. Ecco il rischio dei Drg “gonfiati” o “poveri”. La soluzione è di rendere le commissioni più oggettive possibile, includendo esperti indipendenti. Altro punto debole: dal punto di vista della cultura medica, il processo di “aziendalizzazione” nel suo complesso è criticabile. Definire azienda un ospedale vuol dire dare priorità agli aspetti budgetari e non a quelli medicoscientifici». I casi del Santa Rita e, recentemente, del Galeazzi sono solo gli ultimi due di una serie che hanno interessato il sistema negli ultimi anni. Falle deontologiche o sintomi che il modello
deve in qualche modo essere corretto? RF: «Sappiamo benissimo che anche solo una mela marcia può incrinare la fiducia dei cittadini, conquistata con sudore attraverso l’ottimo lavoro svolto dai nostri medici e infermieri. Voglio però sottolineare che questi casi, molto gravi, sono emersi grazie alla nostra attività di controllo, che ha prontamente segnalato quanto di dovere alla magistratura o alla Guardia di Finanza. Inoltre proprio pochi mesi fa abbiamo approvato una delibera, assolutamente innovativa in Italia, che perfeziona i sistemi di controllo sulle prestazioni sanitarie. Piuttosto manifesterei preoccupazione per le altre Regioni che mantengono livelli di controllo inferiori ai nostri e poi si trovano a dover sanare bilanci per miliardi». UV: «I due casi hanno fatto emergere il rischio che si annida nelle crepe del sistema dei Drg. Poiché esistono tabelle di riferimento ben precise per i rimborsi, può accadere che gli ospedali decidano i trattamenti per il paziente più
CONFRONTI
sulla base di ciò che conviene economicamente che su quello che conviene alla guarigione del malato. L’aggravante è che qualche chirurgo può sentirsi tentato a eseguire interventi non strettamente necessari per includere la prestazione nelle fatidiche tabelle. Tre raccomandazioni sono a questo punto indispensabili: la revisione periodica e sistematica delle tabelle dei Drg; l’aggiornamento delle linee guida, in modo che obblighino il chirurgo a osservare i limiti all’intervento medico imposti dal rispetto della dignità e della globalità del malato; la formazione medica continua». L’indice di soddisfazione degli utenti è un criterio corretto per valutare se un sistema funziona o meno? RF: «Certamente chi fruisce di un servizio è il primo e più titolato a poter valutare se quel servizio funziona. È altresì vero che questo non è l’unico riferimento per un sistema complesso e articolato come quello della sanità, con risvolti economici importanti. Un servizio che soddisfa nell’imme-
diato un cittadino, ma che non rispetta un equilibrio economico generale, fa pesare su tutti la sua inefficienza. La soddisfazione degli utenti è da intendersi in un senso più generale, ovvero della buona gestione della cosa pubblica, che assicura un uso appropriato ed efficiente delle risorse». UV: «È senza dubbio un criterio fondamentale, anche se gli utenti in sanità sono persone che vanno ben distinti dai clienti, perché sono uomini e donne in situazione di debolezza e fragilità. Va detto però che la misura della soddisfazione del malato è utile per valutare la qualità del servizio ma non la sua efficienza. Non tiene conto infatti del criterio costobeneficio, che invece deve far parte della valutazione di un sistema, perché purtroppo, in tutto il mondo, le risorse riservate alla sanità sono limitate». Come può un cittadino capire se una prestazione è realmente necessaria e se viene erogata in modo corretto? RF: «A meno che non sia un medico, credo onestamente sia im-
possibile. I medici devono essere il punto di riferimento di ogni paziente perché il sistema si deve sorreggere su un rapporto medico/paziente fondato sulla fiducia, sulla competenza e sulla correttezza. Ogni medico è legato alla fedeltà al giuramento di Ippocrate, anche se mai come oggi è utile un richiamo al risveglio delle coscienze perché nella coscienza di ciascuno, prima ancora che nelle leggi, è scritto il rispetto per la vita». UV: «Il cittadino non dovrebbe sobbarcarsi questa responsabilità. Può informarsi sulla sua malattia, capire quali sono le cure possibili, ma è il medico che deve analizzare il caso, e proporre, secondo scienza e coscienza, le prestazioni necessarie e utili. Il cittadino dovrà poi dare il suo consenso, o dissenso, alle terapie proposte. La volontà del paziente e la sua determinazione entrano in gioco solo di fronte a opzioni di cura, o di noncura, spiegate e proposte dal medico. Altrimenti si passa all’autocura, che però non è il fine del servizio sanitario pubblico». LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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TRADIZIONE ASSISTENZIALE Nella foto, lo storico ingresso del Pio Albergo Trivulzio. Nella pagina a fianco, Emilio Trabucchi presidente del Pio Albergo Trivulzio e professore ordinario di chirurgia generale
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STRUTTURE D’ECCELLENZA
DA SECOLI ACCOGLIENZA, CURA E DEDIZIONE SONO LA NOSTRA MISSIONE Una struttura all’avanguardia in Europa. Per offrire agli anziani cura e assistenza. Nel rispetto dei valori cristiani e dell’importanza di ogni singolo individuo. Il Pio Albergo Trivulzio nelle parole del suo presidente, Emilio Trabucchi LORENZO BERARDI
ono passati più di due secoli da quando il principe Tolomeo Trivulzio destinava tutti i suoi averi alla fondazione di un “ospizio per poveri vecchi” da realizzarsi nel suo palazzo milanese. Da allora, quel ricovero nato per iniziativa filantropica è divenuto una delle prime strutture gerontologiche in
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Italia e in Europa. Oggi il Pio Albergo Trivulzio è divenuto un’Azienda di Servizi alla Persona e mantiene di fatto inalterata quell’autonomia gestionale che l’ha caratterizzato. Un’autonomia che si appoggia anche e soprattutto sui lasciti testamentari e sulle donazioni di singoli, associazioni e fondazioni che continuano a sostenere l’hospice milanese. Fra questi benefattori vi è anche il premier Silvio Berlusconi che il 20 gennaio scorso ha presenziato all’inaugurazione del nuovo reparto del Pio Albergo Trivulzio. «La Fondazione Berlusconi ci ha donato 500mila euro e altri 500mila ci sono arrivati nella giornata stessa dell’inaugurazione – ricorda il professor Emilio Trabucchi, presidente del Pat – Il nuovo reparto “Mamma Rosa” è estremamente moderno e d’avanguardia in Europa con una visione completamente nuova degli spazi dai colori alla possibilità di disporre di una cucina comune per le persone ancora autosufficienti. Una situazione completamente diversa rispetto alle modalità di ricovero di una volta». Il Pio Albergo Trivulzio nasce nel 1766 per volere di un privato. Già allora la necessità di
fornire assistenza agli anziani era molto sentita a Milano. E oggi continuate a ricevere donazioni sufficienti? «Il problema degli anziani c’è sempre stato, ma a Milano era più sentito che in altre città italiane. Qui i “vecioni” erano rispettati e chi veniva ricoverato al Pio Albergo non stava con le mani in mano, ma doveva occuparsi di qualche attività. Gli anziani del Pio Albergo Trivulzio dovevano rendere alla società qualcosa, mantenendo attivo non solo il fisico, ma anche la mente. Devo dire che in passato l’aristocrazia e la ricca borghesia milanese facevano donazioni più volentieri che ora. Oggi si fanno in modo più mirato. Devo dire che, da quando sono presidente, di donazioni importanti non ce ne sono state molte. Una, molto grossa, provenne da una signora che era ricoverata e quando è morta ci ha lasciato 10 milioni di euro in eredità destinati a chi non aveva la possibilità di pagare la retta». Nel 2003 è stata istituita l’Azienda di Servizi alla Persona Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio. Cosa è cambiato per il Pat? LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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«È cambiato moltissimo. Nel 2003, infatti, potevamo diventare azienda o Fondazione. Abbiamo scelto la prima possibilità perché questo ci dava una maggiore libertà di movimento. Ora abbiamo un’autonomia gestionale che ci ha permesso di ristrutturare quasi completamente la struttura vendendo una parte del nostro vasto patrimonio immobiliare che è fra i primi in Italia. Abbiamo avuto la possibilità di vendere senza chiedere autorizzazioni né al Comune, né alla Regione grazie al nostro status di azienda per i servizi alla persona. Se fossimo divenuti fondazione saremmo stati molto più legati a vincoli burocratici esterni, rientrando nel campo del pubblico e non del privato». Vi inserite all’interno del sistema lombardo, uno fra i più efficienti d’Italia. Quanto crede che l’efficace integrazione fra pubblico e privato si sia rivelata decisiva per fare della vostra struttura e della sanità lombarda un modello da seguire? «Al Pio Albergo Trivulzio non si viene più soltanto a morire, ma anche per riuscire a tornare a casa. Oggi siamo l’hospice più importante della Lombardia e basta entrare nella nostra struttura per accorgersi della pulizia e della tecnologia che ci contraddistin-
que, all’avanguardia sia nel sociale che nel sanitario. Tutta la parte sanitaria che offriamo, come radiologia e farmacia, non viene rimborsata dalla Regione ed è ciò che fa la differenza in termini di qualità. Abbiamo cercato di portare fuori da queste mura il nome del Pio Albergo Trivulzio. La qualità e la bontà della riabilitazione che offriamo è dimostrata da una lista d’attesa molto lunga. Parte del merito va anche alla legge 31/97 sul riordino del Servizio Sanitario regionale che ha dato agli ospiti la libertà di scegliere la struttura a cui rivolgersi. Non appena abbiamo fatto conoscere la nostra qualità all’esterno, attraverso congressi e incontri, siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo di accreditarci come azienda di qualità». Quanto sono ancora importanti le radici cristiane e assistenziali su cui è nata e tuttora si fonda la vostra struttura? «Le radici cristiane restano fondamentali, ma non sono le sole. E chi viene qui si accorge subito del nostro valore e dei nostri valori. Basti pensare che ci sono 700 volontari che lavorano presso il Pio Albergo occupandosi delle persone anziane con spirito di sacrificio e dedizione. Anche questo è significativo: abbiamo trasferito nel volontariato il
«AL PIO ALBERGO TRIVULZIO NON SI VIENE PIÙ SOLTANTO A MORIRE, MA ANCHE PER RIUSCIRE A TORNARE A CASA. OGGI SIAMO L’HOSPICE PIÙ IMPORTANTE DELLA LOMBARDIA E BASTA ENTRARE NELLA NOSTRA STRUTTURA PER ACCORGERSENE» guono. Resta il fatto che abbiamo 1.500 posti letto e quindi qualcosa che non funziona può sempre capitare. Restiamo, comunDOSSIER | LOMBARDIA 2009
desiderio di fare del bene ed è uno spirito condiviso anche dal nostro personale che è per il 60% soddisfatto del lavoro che svolge.
Non credo esistano molte altre aziende in cui il personale possa esprimere, in maniera anonima, un tale indice di soddisfazione». La società e la famiglia italiane sono cambiate e ora gli anziani sono considerati più un peso che una risorsa. Qual è la reale situazione vista dal vostro osservatorio? «L’Italia e il mondo invecchiano. Ci sono sempre più anziani e di età sempre più avanzata che hanno bisogno di cure. Ritengo la situazione degli anziani ancora sottostimata da tutti i governi. In Italia i vecchi sono tanti e i posti sono pochi. Occorre perciò che lo Stato e gli enti locali portino il medico a casa del paziente, attraverso un’assistenza domiciliare che, a mio avviso, deve essere
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maggiormente sviluppata in futuro. Noi siamo stati gli antesignani in questo campo, che resta comunque una soluzione costosa in termini di costi, personale e formazione. Ma è solo attraverso un incremento dell’assistenza domiciliare che si può migliorare la situazione perché i posti per le persone anziane in strutture come la nostra non saranno mai adeguati al loro numero. È un problema che non riguarda soltanto i vecchi, ma anche tutta quelle serie di demenze senili, prima fra tutte l’Alzheimer, che sconvolgono completamente la routine familiare. Sono malattie ancora poco conosciute e per cui è difficile ricevere le informazioni di cui le famiglie hanno bisogno. Si creano così delle situazioni dif-
ficili da gestire perché purtroppo non siamo ancora preparati alla gestione del fenomeno su vasta scala. Questa è una vera e propria emergenza non solo sanitaria, ma anche sociale: occorre dedicare molto tempo agli anziani malati che in molti casi cambiano personalità e diventano difficili da accudire». Negli anni 90 il nome del Pio Albergo Trivulzio è stato associato allo scandalo e alle inchieste di Tangentopoli. Come siete usciti da quel periodo tempestoso? «Io e il consiglio di amministrazione abbiamo cercato di cancellare questa etichetta negativa che ci deriva dallo scoppio di Tangentopoli. Ma purtroppo restiamo nell’occhio del ciclone
perché basta una minuscola notizia collegata al Pio Albergo Trivulzio per farci finire sulle prime pagine dei giornali. Temo che l’etichetta di Pio Albergo Trivulzio uguale Tangentopoli non ci sarà mai tolta del tutto. Oggi siamo l’unica azienda dei servizi per la persona certificata Iso 9000 in tutta Italia, tuttavia non si perde mai occasione di parlare male della nostra struttura. Sono un primario chirurgo e so bene come siano gli altri ospedali di Milano, ma il piccolo disservizio, che nelle aziende ospedaliere è una quisquilia, se si verifica da noi diventa subito catastrofico. Purtroppo Tangentopoli è cominciata qui e qui ogni volta c’è la tendenza dei mass media a farla tornare». LOMBARDIA 2009 | DOSSIER
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