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GESTIONI VIRTUOSE L’ITALIA RESPONSABILE
Ferruccio Fazio
IL NUOVO VOLTO DELLA SANITÀ ITALIANA Il 2009 porterà importanti novità nel campo della sanità italiana. Riduzione dei posti letto da 4,5 a 4 per mille abitanti, maggior spazio alla ricerca, meno liste d’attesa e, per la prima volta, i ministeri del Welfare e dell’Università si siederanno a un tavolo unico per avvallare la ricerca biomedica. Il professor Ferruccio Fazio traccia le linee guida per lo sviluppo del settore sanitario e svela i suoi progetti futuri FEDERICO MASSARI
on mi ritengo un politico, ma un tecnico. Con questa mentalità cercherò di affrontare i problemi sanitari dell’Italia». Secondo il professor Ferruccio Fazio, il nuovo anno appena cominciato porterà molte novità. Tra queste è d’obbligo citare la chiusura dei piccoli ospedali, la riduzione dei posti letto, e la creazione di strutture sperimentali aperte 24 ore su 24 che snelliranno le attese per i codici bianchi e verdi nei pronto soccorso. Tra le difficoltà maggiori, invece, che il professor Fazio si troverà ad affrontare, vi sarà la problematica legata alle liste d’attesa che pesa notevolmente sulla vita dei pazienti. Per questo, «l’idea è quella di arrivare a liste d’attesa differenziate secondo le urgenze». In questo modo i malati più gravi potranno godere del diritto di precedenza e, sempre secondo Fazio, il ministero stenderà un elenco di patologie e relativi esami che beneficeranno di una corsia preferenziale. Professore, qual è la reale situazione della sanità italiana?
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PROPOSITIVO Il professor Ferruccio Fazio con la sua equipe medica in occasione della presentazione del nuovo macchinario utilizzato per la tomoterapia (tomo therapy), la nuova tecnologia per il trattamento radioterapico dei tumori
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«IL PROBLEMA FONDAMENTALE DELLA RICERCA SONO I FONDI. FORSE QUESTI SONO ATTUALMENTE ANCHE SCARSI A CAUSA DI INGIUSTIFICATE O MENO ACCUSE SULLA TRASPARENZA CON CUI SONO STATI FINORA PRESENTATI I BANDI»
«La sanità italiana è strutturata bene, ma non benissimo. Il sistema centralizzato funziona, ma presenta problemi di staticità. Il federalismo fiscale lo renderà più agile. Il problema attuale è quello di una disomogeneità importante, poiché esistono regioni più virtuose e regioni che lo sono meno. La virtuosità va di pari passo con l’economia strutturale. E le aree in cui la sanità funziona meglio sono sempre quelle dove la sanità costa meno. Attualmente il problema è abbastanza limitato poiché l’80 per cento del passivo rispetto a quello che dovrebbe essere la spesa ottimale, è concentrato fondamentalmente in Lazio, Campania e Sicilia. A queste tre regioni si aggiungono poi l’Abruzzo, la Calabria ed il Molise. Attraverso i piani di rientro che abbiamo attuato, confidiamo, entro un paio d’anni, di riportarci in pari». Quali le maggiori criticità e quali, invece, i punti di forza? «Per quanto riguarda la criticità, penso che si debba ristabilire un percorso territoriale che si amalgami, dal medico di base all’assistenza sul territorio fino all’ospedale. Il che significa andare incontro a un ritorno sul territorio della continuità assistenziale. Questo è il punto più importante da sottolineare dal punto di vista della criticità, insieme al problema delle liste d’attesa. Come punto di forza, possiamo vantarci di possedere un’ottima specialistica, con punte avanzatissime in alcune Regioni. In poche parole, mi sento di affermare che il sistema sanitario italiano è buono e, inoltre, esiste un ottimo rapporto tra medico e paziente». Il nostro sistema pubblico può essere considerato, facendo un confronto per esempio con gli Usa, un efficace “ammortizzatore” sociale. Come è possibile potenziarlo? «Occorre fare una considerazione iniziale. Negli Stati Uniti esistono quaranta milioni di americani che non sono coperti da assicurazione. Di questi, almeno DOSSIER | PIEMONTE 2009
dieci milioni sono bambini. Questo deve fare meditare. Detto questo, sicuramente il nostro sistema pubblico può essere potenziato rendendo maggiormente virtuoso il rapporto pubblico e privato. La governance deve rimanere pubblica. I privati, dal canto loro, possono collaborare apportando nuove forze». Dove è necessario intervenire con più urgenza per abbattere gli sprechi? «In Italia spendiamo quindici miliardi di euro all’anno in medicina “difensiva” prestazioni inappropriate e cioè eseguite al fine di proteggersi da eventuali “azioni legali”. Il discorso sull’appropriatezza è fondamentale e noi pensiamo di migliorarla. Questo vuole dire ridurre le prestazioni non necessarie e rendere virtuosi i percorsi diagnostico-assistenziali, con particolare riferimento alle Regioni del Sud del Paese e quelle che lavorano sui piani di rientro. Fondamentale sarà anche la verifica dei manager sulle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali, circa i beni e i servizi e sulle attività dei medici e del personale. Per far sì che queste non restino solo parole, abbiamo affidato all’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, il compito di mettere a punto i meccanismi di controllo assieme alle regioni soprattutto sui risultati di manager e medici». Cosa ne pensa dei modelli misti pubblico-privato proposti dalla Regione Lombardia? «La Regione Lombardia possiede un modello tale per cui disaccoppia l’Asl dall’ospedale. Questo può andare bene in Regioni in cui la presenza privata è forte». Cosa potrebbe cambiare in concreto con l’attuazione del federalismo fiscale per quanto riguarda la sanità? «Penso che il federalismo fiscale sarà la ciliegina sulla torta. Sarà la normativa che ci consentirà di mandare a casa quegli amministratori che non riescono a gestire la sanità nelle Regioni. Siamo assolutamente fa-
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«PENSO CHE IL FEDERALISMO FISCALE CI CONSENTIRÀ DI MANDARE A CASA QUEGLI AMMINISTRATORI CHE NON RIESCONO A GESTIRE LA SANITÀ NELLE REGIONI. PER QUESTO SIAMO SIAMO ASSOLUTAMENTE FAVOREVOLI ALLA SUA INTRODUZIONE»
vorevoli alla sua introduzione, e siamo sicuri che porterà all’Italia grandi vantaggi e servirà a migliorare di molto il servizio sanitario a favore dei cittadini». Non sussiste il rischio di accrescere il gap tra le diverse Regioni, aumentando le “emigrazioni” sanitarie da Sud, per esempio, al Nord? «Questo non succederà mai se esiste una governance e se esistono dei livelli essenziali di assistenza che sono concordati a livello nazionale». Un altro nodo cruciale è la ricerca. Com’è possibile potenziare questo settore e bloccare il fenomeno della fuga dei cervelli? «Il problema fondamentale della ricerca sono i fondi. Questi sono attualmente forse anche scarsi a causa di ingiustificate o meno accuse sulla trasparenza con cui sono stati finora presentati i bandi sui fondi della ri-
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cerca. Dal 2009 avremo un meccanismo totalmente trasparente e finanzieremo anche i contratti degli under 40. Deve essere chiara una cosa: la manovra del governo non prevede tagli ma, anzi, un aumento delle risorse. Abbiamo appena avviato, ed è la prima volta che accade, un tavolo per la ricerca biomedica tra il ministero del Welfare e quello dell’Università. Per arrivare alla gestione di un fondo unico, verificare insieme progetti e ipotesi, fare in modo che gli enti non ricevano sostegni economici doppi. I fondi verranno erogati secondo il bisogno di salute dei cittadini. Per quanto concerne la fuga dei cervelli, visto che tanti nostri compatrioti occupano posizioni di rilievo al di fuori dei nostri confini, creeremo una sorta di rete tra gli italiani all’estero che potrà essere molto utile al Paese».
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L’ITALIA CHE SI IMPEGNA Daniela Santanchè
COMBATTIVA Daniela Santanchè, leader del Movimento per l’Italia
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L’ITALIA CHE SI IMPEGNA
LA NOSTRA BANDIERA È LA VOCE DELLA GENTE Avvicinare la politica ai cittadini. Offrire risposte concrete per restituire fiducia e sicurezza. Senza perdersi in «sterili massimalismi e demagogie». Daniela Santanchè illustra le linee guida «solide, certe e funzionali» che il Movimento per l’Italia vuole tradurre in fatti per contribuire al rinnovamento del Paese GIUSI BREGA
cegliere, decidere, risolvere. Queste le parole d’ordine cui si ispira il Movimento per l’Italia, fondato lo scorso novembre da Daniela Santanchè e deciso più che mai a «recuperare il gap che separa la politica dalla gente comune» come sottolinea il suo stesso leader, una donna che da sempre ha ben presenti i doveri che un politico ha nei confronti della comunità che la supporta e che ogni giorno, dati alla mano, le conferma il suo sostegno e la sua approvazione. Il Movimento per l’Italia rappresenta «un pezzo di società» che si mobilita attivamente per portare il suo contributo di idee, energie e risorse al grande progetto di trasformazione del Paese. Un Movimento che «non agita bandiere», ma sostiene che valori importanti quali la democrazia e il rispetto delle regole «debbano collocarsi sopra qualsiasi ideologia per ricostruire una comunità nazionale all’altezza dei nuovi tempi». Lo scorso 22 novembre è nato il Movimento per l’Italia. Quale
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spirito pervade questo progetto? «Siamo e vogliamo restare un’anomalia nel panorama politico italiano. Perché siamo nati e vogliamo crescere sull’onda della proposta, non della protesta. Per questo il nostro motto è: scegliere, decidere, risolvere. La cosa più bella, per me e per chi ha aderito al Movimento per l’Italia, è donare tempo, esperienza, passione, competenza al servizio degli altri. In poche parole, siamo tutto l’opposto del movimento di Di Pietro, il quale basa la propria ragion d’essere sull’opposizione a qualunque cosa faccia o non faccia non soltanto il governo, cosa che entro certi limiti è naturale, ma addirittura l’opposizione, di cui l’Italia dei Valori fa parte. Noi vogliamo costruire, non distruggere». Qual è l’humus culturale e politico in cui il Movimento per l’Italia affonda le sue radici? «Le nostre radici affondano nella nostra storia, nei valori democratici, nel sentire della comunità nazionale. Una comunità che spesso non è stata rappresentata dai mo-
vimenti politici che, anzi, hanno creato forti contrapposizioni, mettendo il popolo contro se stesso. Oggi non è più tempo di ideologie, ma di concretezza e di valori. Ogni ideologia taglia la realtà con l’accetta e spesso butta via il bambino con l’acqua sporca, impedendo di cogliere il buono che c’è anche dall’altra parte e non vedendo l’errore che talvolta alberga anche in chi “lotta” dalla nostra stessa parte della barricata. Invece noi puntiamo sui valori e cioè, in estrema sintesi, sulla necessità di recuperare il nesso indissolubile tra diritti e doveri, che esistono solo l’uno in relazione all’altro. Da questo nesso discendono poi i concetti di responsabilità, cioè libertà consapevole delle conseguenze; di merito, cioè di riconoscimento dell’impegno e dei risultati. E poi, parlo per me anche se avverto che il mio è un sentimento largamente condiviso da chi mi affianca e da tanta parte di italiani, sento il bisogno di recuperare il rapporto dell’uomo con Dio, un rapporto basato sulla li-
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bertà, sul libero arbitrio e svincolato dai dogmi e dal fanatismo che producono, da sempre e ovunque, per qualsiasi credo, intolleranza e violenza». Cosa porta della sua esperienza con La Destra in questo nuovo movimento? «Porto tutta me stessa, con la mia passione, i miei pregi e i miei difetti. Insieme ai miei compagni di viaggio portiamo proposte: proposte articolate, credibili, realizzabili concretamente. Portiamo le istanze del buonsenso, i problemi dei cittadini comuni e dei nuovi deboli, che ancora oggi sono i bambini, le donne, gli anziani, i portatori di handicap, gli ammalati. Vogliamo combattere le nostre battaglie a viso aperto, senza cadere nel politicamente corretto che salva la forma ma disintegra la sostanza dei problemi. Trovo insopportabile un certo “politically correct”, soprattutto quello di matrice veltroniana, che usa parole corrette e gentili per nascondere i problemi, senza risolverli. Che senso ha chiamare i portatori di handicap come persone “diversamente abili” se questo poi spinge a non risolvere i problemi?». Non è un segreto che il Movimento per l’Italia appoggerà il Governo Berlusconi. Cosa le piace di questo esecutivo? «Di questo governo apprezzo lo spirito fattivo, riformista e orientato al cambiamento che caratterizza l’azione di moltissimi ministri: penso a Brunetta e al suo impegno per un’amministrazione pubblica di qualità. Apprezzo il ministro dell’Istruzione Gelmini e la sua ostinazione nel cercare il dialogo senza perdere di vista gli obiettivi di una riforma diretta a concentrare le risorse dove si crea innovazione e sviluppo. Apprezzo Tremonti, perché sa che solo salvando i conti dello Stato ed evitando gli sprechi si protegge anche il portafoglio delle famiglie. Poi, come sempre, nel merito di ciascun provvedimento ci sono cose da cambiare, da cancellare, da miDOSSIER | PIEMONTE 2009
PROTAGONISTI Daniela Santanchè con Denis Verdini, coordinatore nazionale di Forza Italia
gliorare. Farlo sarebbe il compito dell’opposizione che purtroppo oggi in Italia è ridotta a brandelli e non è in grado di svolgere il proprio ruolo». Quale valore aggiunto porterà il Mpi? «Il valore aggiunto che pensiamo di poter portare è chiaro: la novità delle proposte, l’entusiasmo dei nostri militanti, le tante relazioni che abbiamo costruito con l’associazionismo, il volontariato, il ter-
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ritorio. E che traduciamo in petizioni che presenteremo in Parlamento, sulla giustizia e sulla casta ad esempio. Il nostro è l’unico movimento presieduto da una donna e diretto da un under 30, Diego Zarneri». Il vostro impegno in questo momento si sta concentrando sulla sicurezza, con le petizioni sulla certezza della pena e la lotta alla clandestinità, e sull’abbattimento dei costi della politica.
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Quali sarebbero le riforme più urgenti in questi campi? «Al momento è la riforma della giustizia, in quanto non esiste libertà senza giustizia. Ma la riforma a cui pensiamo non si limita a quella a cui si sta applicando la maggioranza, una riforma cioè mirata a riequilibrare i poteri tra corpi dello Stato. Si tratta di un passaggio necessario, ma noi desideriamo anche introdurre, nell’ambito di questa riforma, tutta una serie di misure finalizzate a difendere il cittadino dai soprusi e a garantire una maggiore protezione per le vittime, soprattutto le donne. Il delitto d’onore non esiste più nel codice penale, ma ancora oggi le donne che subiscono violenza, in famiglia o per strada, sono considerate figlie di un Dio Minore. Stupratori e assassini sono trattati coi guanti bianchi e ricevono pene troppo miti rispetto alla gravità del crimine commesso. Il caso Delfino, condannato a sedici anni per omicidio, è esemplare. Stiamo studiando una riforma che abolisca DOSSIER | PIEMONTE 2009
ogni tipo di scorciatoia procedurale di fronte ad alcuni tipi di delitti efferati». Sull’eliminazione delle Province la Lega si sta dimostrando fortemente contraria. A suo parere si troverà un accordo in questo senso? «Credo di sì, ma non nel breve periodo. Quello dell’abolizione delle Province è un tema importante, perché creerebbe notevoli risparmi e semplificazioni, e darebbe quel segnale di cambiamento che il Paese si aspetta da questo governo. Però dobbiamo essere realisti: non è certo questo il problema che preoccupa gli italiani oggi. Le emergenze del presente come la crisi economica, la sicurezza, il lavoro, richiedono risposte immediate». C’è chi vede la forte leadership di Berlusconi all’interno del governo e del Pdl come un limite, altri come uno dei punti di forza. Lei da che parte sta? «Berlusconi è come il mozzo della ruota, da cui si dipartono tutti i raggi. Se crolla lui si sfascia tutto.
La sua leadership però è un fatto positivo in quanto di lui si sa ogni cosa. È stato radiografato dai media, dalla magistratura, dagli interlocutori internazionali centinaia di volte e ha sempre superato gli esami. In lui è tutto alla luce del sole, per questo ci si può fidare. Lo stesso non si può dire di nessun altro politico. E con la nascita del Popolo della Libertà Berlusconi sta lavorando proprio alla costruzione di una grande casa dei moderati capace di affrontare il futuro». La nascita ufficiale del Pdl è alle porte. Quale sarà il minimo comune denominatore che unirà le diverse anime che lo popolano? «Innanzitutto, a differenza della sinistra, unita solo contro Berlusconi e divisa su tutto il resto, il Pdl sta nascendo su un’idea del Paese, un’idea del futuro che mette al centro la volontà di riscatto, di rinascita, di sviluppo fondato sulla fiducia nell’individuo e sul pilastro della famiglia. E noi siamo già loro alleati organici in Abruzzo e ora anche in Sardegna».
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ISTRUZIONE Roberto Cota
ROBERTO COTA Novarese, classe 68, è entrato nella Lega Nord a soli 22 anni. È stato sottosegretario alle attività produttive dei governi Berlusconi bis e ter. Oggi è coordinatore regionale della Lega in Piemonte e capogruppo alla Camera del Carroccio DOSSIER | PIEMONTE 2009
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MENO SPRECONA E DI QUALITÀ ECCO LA NUOVA SCUOLA La società italiana sta cambiando. E con essa la scuola. Un processo di rinnovamento che deve puntare a migliorare la qualità senza lasciare indietro nessuno. Il parlamentare leghista Roberto Cota ha già lanciato la sua proposta per facilitare l’inserimento degli studenti stranieri e guarda al federalismo come un’opportunità di crescita per il sistema scolastico nazionale LORENZO BERARDI
a scuola subirà un cambiamento importante grazie alla riforma federale. Sarà possibile arrivare ad avere un’istruzione più vicina al territorio e alle istanze della nostra gente». Roberto Cota è sicuro che l’introduzione del federalismo porterà numerosi vantaggi al sistema scolastico italiano. «Un modello dove la competenza dell’organizzazione scolastica sia interamente devoluta alle Regioni e con una regionalizzazione delle procedure di concorso – precisa Cota –. In questo modo si potrà garantire più qualità di insegnamento, maggiore equità e minori sprechi». Novarese, già avvocato penalista, attuale coordinatore piemontese della Lega Nord e capogruppo del Carroccio alla Camera, Cota è salito agli onori delle cronache per una proposta che ha lasciato il segno e provocato alcune
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levate di scudi. L’idea è quella di introdurre apposite “classi di inserimento” per facilitare l’ingresso e l’integrazione degli alunni stranieri nella scuola dell’obbligo. Un testo approvato a Montecitorio lo scorso ottobre e che impegna il governo a “rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso, previo superamento di test e specifiche prove di valutazione”. Un cambiamento che secondo Cota porterà nelle future classi d’inserimento «tutti quegli alunni stranieri che non supereranno un apposito test linguistico e che quindi non hanno quelle competenze minime per poter frequentare la classe normale». Eppure alcuni hanno parlato di “classi separate” criticando la sua proposta. «Il termine classi separate non è ap-
propriato. Il termine corretto è “classi d’inserimento”, ovvero classi che prevedono un corso intensivo per quegli studenti che non sono in grado di seguire le normali lezioni. Questo problema educativo è in continuo aumento ed è inutile fare finta del contrario. Osservo inoltre che chi frequenta una classe senza riuscire a capire le lezioni pregiudica in molti casi l’apprendimento di tutti». Perché la sua proposta di istituire classi d’inserimento per alcuni alunni stranieri è stata osteggiata da una parte del personale docente? «Questa nostra iniziativa è stata osteggiata dalla parte politicizzata del personale docente, da chi si fa strumentalizzare a fini ideologici. Nei molti dibattiti fatti su questo tema mi sono accorto che la maggior parte dei critici nei confronti
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della nostra proposta in realtà non l’hanno neanche letta, oppure l’hanno voluta leggere a senso unico. Quello che so, è che la gente e le famiglie sanno esattamente di cosa parliamo e sono dalla nostra parte». Quali proposte alternative giungono oggi dal centrosinistra per migliorare la situazione della scuola italiana sul tema dell’integrazione degli alunni stranieri?
«IN TANTI PAESI EUROPEI LE CLASSI D’INSERIMENTO SONO GIÀ STATE ISTITUITE. QUESTO TIPO DI CLASSI ESISTE DA TEMPO IN VARIE NAZIONI EUROPEE, DALLA FRANCIA ALLA GERMANIA»
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«Di proposte alternative su questo argomento da parte dell’opposizione, francamente, non ne ho viste. Questo la dice lunga sulla mera strumentalizzazione fatta finora da coloro che si oppongono alla nostra proposta». E allargando il campo all’Europa, esiste un Paese di riferimento per quanto riguarda la riforma del sistema scolastico italiano, soprattutto sul tema di
una efficace e proficua integrazione degli studenti stranieri? «Io non penso che si debbano seguire in modo pedissequo modelli altrui, ma occorra semmai costruire un nostro modello che si riveli positivo ed efficace. E dico che uno dei problemi più pressanti da affrontare oggi riguarda proprio la mancata integrazione di tutti quei bambini e ragazzi stranieri che frequentano la scuola italiana senza cono-
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scere una parola della nostra lingua. In tanti Paesi, comunque, le classi d’inserimento sono già state istituite. E questo è avvenuto anche in realtà governate dalla sinistra, come la regione autonoma della Catalogna. Questo tipo di classi, lo ribadisco, esiste da tempo in varie nazioni europee, dalla Francia alla Germania». Riguardo la riforma Gelmini, cosa secondo lei non è stato compreso oppure travisato? «La verità è che abbiamo assistito a
una strumentalizzazione politica su tutta la linea: il sogno di qualcuno era forse quello di creare un nuovo 68. Ma l’operazione non è riuscita. Basti dire che la riforma è stata strumentalizzata soprattutto sulla razionalizzazione dei plessi scolastici. Stiamo parlando di un intervento che non è una novità di questo governo, ma è invece un provvedimento già previsto dalla riforma Berlinguer e proveniente dunque dal centrosinistra. A ogni modo, fortunatamente oggi il clima non è quello
di quarant’anni fa e la gente capisce che la scuola così come è non va: ci sono troppi sprechi, gli insegnanti sono mal pagati e gli studenti non ricevono un servizio adeguato». Si è anche detto che più di un tentativo di riforma dell’istruzione si è trattato di una conseguenza dei tagli economici effettuati. Cosa risponde? «Purtroppo quando un Paese vive al di sopra delle proprie possibilità, spendendo più di quello che può permettersi, prima o poi dei tagli vanno fatti. Quello che la Lega intende fare è evitare che continuino a pagare sempre i soliti per colpa di chi vive a sbafo grazie all’assistenzialismo. Chi lavora e produce ha il sacrosanto diritto di non essere fregato». A suo avviso, quali saranno dunque i principali risvolti positivi dell’introduzione del federalismo nel sistema scolastico italiano? «Come premessa occorre dire che la riforma in senso federale richiede due passaggi. Con il primo, ovvero il federalismo fiscale, si realizzerà un sistema fiscale diverso, che consentirà di mantenere le risorse sul territorio e di responsabilizzare dal punto di vista della spesa gli amministratori locali, consentendo alla gente un controllo più diretto sulla bontà di tutti i servizi. Il secondo passaggio, il federalismo istituzionale, permetterà un cambiamento radicale dal punto di vista delle competenze e sarà quindi possibile un’organizzazione scolastica di competenza esclusiva delle Regioni. Ma dico di più: la cosa più importante da fare, a mio parere, è arrivare il prima possibile anche alla regionalizzazione dei concorsi: oggi assistiamo a un vero e proprio pellegrinaggio degli insegnanti da ogni parte del Paese. Il risultato è che per gli insegnanti piemontesi trovare un posto di lavoro vicino a casa è praticamente impossibile».
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FOCUS CITTÀ
INNOVAZIONE E QUALITÀ SONO LE NOSTRE ARMI «È importante guardare al futuro con la massima consapevolezza delle proprie capacità». Soprattutto in una fase di contrazione come quella attuale. Mariella Enoc, presidente degli Industriali novaresi e piemontesi lancia un appello a imprenditori e istituzioni: «Lavoriamo insieme con spirito costruttivo» FRANCESCA DRUIDI
a politica economica deve dimostrarsi all’altezza delle sfide attuali. Possiamo vincere la crisi solo adottando quelle profonde riforme strutturali che noi industriali chiediamo da almeno vent’anni». È un invito a reagire quello di Mariella Enoc, presidente dell’Associazione Industriali di Novara e guida di Confindustria Piemonte, di fronte alle previsioni congiunturali elaborate dall’associazione territoriale che, per il primo trimestre del 2009, disegnano un quadro particolarmente fosco. «L’industria novarese si trova in una situazione di profonda incertezza – conferma Mariella Enoc -. Mi preoccupano le aspettative di produzione, che mostrano un saldo tra ottimisti e pessimisti di -40,3 punti, ma anche le attese di ordini, totali ed esteri. Per un territorio fortemente vocato all’export, come il Novarese, si tratta di un problema molto serio. Uno scenario così negativo non si registrava da oltre un decennio. Al momento, si naviga a vista». Cresce la percentuale di aziende che dichiara di ricorrere alla cassa integrazione. Ciò costituisce un fattore discriminante tra le grandi aziende e le Pmi? «Lo è senza dubbio, ma il quadro attualmente si configura in questo modo: il vantaggio delle Pmi è però quello di poter contare su una flessi-
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CALO ASPETTATIVE PRODUZIONE Il saldo tra ottimisti e pessimisti è a -40,3 punti, contro i -2,7 punti del quarto trimestre 2008
bilità organizzativa decisamente superiore. Il motore dello sviluppo, una volta usciti dalla nebbia, continuerà a essere rappresentato dalle piccole imprese. Ne sono certa». Quali settori del sistema novarese soffriranno maggiormente la congiuntura negativa? «L’analisi della produzione registrata nei singoli comparti rivela previsioni negative nel metalmeccanico, con un -51,5 punti di saldo tra ottimisti e pessimisti, nell'alimentare, -33,3, nel tessile, -33,4 e nell’abbigliamento, -57,1, mentre il settore chimico continua a resistere, mettendo a segno un +7,7 punti percentuali. Oltre la metà delle aziende meccani-
che, inoltre, segnala cali di ordini, soprattutto dall’estero. Solo il chimico mantiene un’intonazione moderatamente positiva, nonostante anche in questo caso gli ordinativi siano stimati in diminuzione. Eventuali nodi verranno però al pettine nei prossimi mesi, a prescindere dalla tipologia settoriale. Esistono, infatti, produzioni difendibili solo attraverso una continua innovazione tecnologica, mentre altre, unanimemente considerate mature, perché ad alto assorbimento di manodopera o caratterizzato da lavorazioni più povere, sono destinate a cedere il passo». Come si può arginare la crisi, sostenendo le imprese in difficoltà?
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MARIELLA ENOC Presidente dell’Associazione Industriali di Novara e di Confindustria Piemonte
«A livello nazionale, la corretta leva da adoperare si traduce nell’indirizzare la spesa pubblica verso investimenti e ammortizzatori sociali. Tra le priorità da avanzare, la modernizzazione delle infrastrutture, l’aumento dell’efficienza dell’amministrazione pubblica e la maggiore liberalizzazione dei mercati, raggiungendo l’obiettivo di una politica meno invasiva, con sindacati non ideologizzati, e un’istruzione in grado di formare realmente capitale umano. Un merito della crisi è quello di far comprendere le carenze del Welfare italiano e del mercato del lavoro, la cui flessibilità è tuttora parziale. Il nostro stato sociale è ancora troppo incentrato sulla previdenza e lesina risorse alle famiglie, ai disoccupati, ai giovani e alle donne. L’equità, inoltre, non sarà mai realizzata in mezzo al dilagare dell’evasione fiscale, fonte inesauribile di distorsioni e di concorrenza sleale». Potrebbe individuare quegli elementi positivi che, invece, lasciano sperare in una futura ripresa? «Al di là della crisi, la tendenza procede verso una crescente esternalizzazione delle fasi del processo produttivo, contraddistinte da un
minore contenuto tecnologico e qualitativo. Si deve quindi puntare, come sempre, su qualità e innovazione, di processo e di prodotto. Da questo punto di vista, registriamo con favore una flessione meno marcata degli indicatori relativi alle intenzioni dei nostri associati di investire per l’ammodernamento o l’ampliamento degli impianti: i primi, infatti, sono previsti dal 30,3% delle aziende, mentre quelli finalizzati a un incremento della capacità produttiva coinvolgono il 22,1% del campione, il 40,8% e 28,2% erano i valori della precedente rilevazione. Si tratta di un segnale confortante, perché denota la volontà dell’imprenditoria novarese di continuare a contribuire per quanto possibile, pur all'interno di un contesto congiunturale negativo, alla crescita economica del territorio. È infatti importante, in questa fase, guardare al futuro con la massima consapevolezza nelle proprie capacità, che sono notevoli, senza farsi prendere dal panico». Quale ruolo dovrebbero, secondo lei, assumere le banche oggi? «Di fronte a un forte e generalizzato peggioramento dell’andamento degli incassi rispetto ai tempi di paga-
mento pattuiti, segnalato dal 61% delle nostre imprese, a fronte del precedente 45,8%, con il conseguente aggravamento dei problemi di liquidità per le aziende, non possiamo che chiedere al sistema bancario di evitare di acuire quella stretta creditizia che è oggettivamente in atto già da alcuni mesi. Se non si blocca il “credit crunch” e le banche non ricominciano a fare il loro mestiere di partner del sistema produttivo, sostenendo investimenti e sviluppo, non si va da nessuna parte». Come valuta l’attuale rapporto con le istituzioni? «I rapporti sono positivi, anche se sui grandi progetti registriamo grandi dichiarazioni di intenti, ma una certa lentezza dal punto di vista delle decisioni operative. Come associazione stiamo lavorando per favorire la realizzazione di nuove aree industriali “ecologicamente attrezzate” e per valorizzare la logistica, in modo da renderla un concreto supporto all'espansione delle attività produttive». Ci sono interventi infrastrutturali che reputa particolarmente urgenti? «Il Novarese ha una funzione di “baricentro logistico” sulla direttrice dei traffici Est-Ovest e Nord-Sud dell’Europa che costituisce un notevole punto di forza per l’economia locale. La nostra dotazione infrastrutturale vanta un indice di 119,2 punti contro una media nazionale pari a 100. Nonostante questo, però, finché non verranno completate le grandi opere che ci interessano direttamente, come la Torino-Lione o il terzo valico dei Giovi, agiremo ancora a livello di potenzialità inespresse». Quanto vede lontana l’effettiva uscita dal tunnel? «È difficile dirlo oggi. Di sicuro ci attendono almeno due trimestri di grande instabilità. Di effettiva ripresa si potrà parlare solo nel 2010, ma è un traguardo raggiungibile solo se tutti riusciremo a reagire alla crisi lavorando insieme, con spirito costruttivo e una rinnovata fiducia nelle nostre risorse». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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DIBATTITO Riforma federale
IL PIEMONTE DI DOMANI? COMPETITIVO E VIRTUOSO Le prossime elezioni. Il federalismo fiscale. Che in Piemonte piace a maggioranza e opposizione. Con alcuni distinguo. La presidente Mercedes Bresso del Pd e il suo predecessore Enzo Ghigo del Pdl discutono sul futuro della Regione e sugli effetti che potrebbe portare la riforma LORENZO BERARDI
empo di bilanci e decisioni per il Piemonte. Manca più di un anno alle elezioni regionali 2010, ma solo cinque mesi alle comunali e provinciali che a giugno riguarderanno 800 comuni e sei Province piemontesi. Una tornata elettorale che sarà preceduta dalle Europee. Il senatore Pdl ed ex presidente regionale Enzo Ghigo non nasconde l’attesa per le imminenti consultazioni: «Abbiamo dalla nostra sondaggi favorevoli, che ci danno un distacco di circa 11 punti come coalizione sul centrosinistra». Indicazioni e sensazioni favorevoli che non sempre però si traducono in voti in ambito comunale e provinciale. «Alle urne si presenterà il Pdl, frutto della convergenza di Fi, An e degli altri movimenti che hanno aderito all’appello di Berlusconi e Fini – ricorda Ghigo –. Il nuovo soggetto politico nascerà anche in Piemonte sotto i migliori auspici, sarà forte e su di esso faranno perno le alleanze, grazie al rapporto proficuo con la Lega Nord».
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IN CARICA L’attuale presidente regionale del Piemonte, Mercedes Bresso. È stata eletta nel 2005
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Niente candidature separate nello schieramento di centrodestra, dunque, a differenza di quanto accaduto nel 2004. «Per questo puntiamo a risolvere la maggior parte delle sfide al primo turno – afferma – evitando di ricorrere al ballottaggio del 21 giugno». Le elezioni saranno precedute dal primo congresso nazionale del Pdl. Una nuova casa dei popolari e dei liberali italiani che l’ex presidente regionale vorrebbe inaugurare in Pie-
PREDECESSORE Enzo Ghigo, presidente della Regione per due mandati consecutivi: dal 1995 al 2005
monte. «Credo che Torino sarebbe la sede giusta per ospitare il congresso – conferma – perché questa città è da sempre un laboratorio, un centro dell’innovazione, la porta dell’Italia verso l’Europa, il luogo dove si affacciano tendenze che troveranno poi riscontro a livello nazionale». Un’importanza dimostrata dal fatto che anche il Pd, partito di cui è esponente l’attuale presidente Bresso, è nato sulle rive torinesi del Po.
SÌ ALLA RIFORMA Nuovi partiti e nuovi scenari. L’introduzione del federalismo fiscale è uno dei cavalli di battaglia non solo di Enzo Ghigo, ma anche di Mercedes Bresso. «Sono assolutamente favorevole alla sua introduzione – conferma –, ma attenzione all’applicazione. In Italia manca un tassello fondamentale perché il federalismo fiscale possa davvero funzionare: non si dice con chiarezza dove verranno prese le risorse, con il rischio di protrarre all’infinito la trattativa tra Regioni e governo. Il federalismo funziona se funziona il rapporto fra imposte e territorio e su questo punto il governo è partito male, ad esempio con l’Ici, dirottando su una spesa corrente risorse destinate agli investimenti». La presidente della Regione individua nell’introduzione di un sistema federalista in Italia «una delle chiavi per cogliere la sfida della competitività, tanto che l’Ue riconosce le Regioni quali soggetti più adeguati a sollecitare ricerca e sviluppo e a far dialogare industria, ricerca e finanza». Una direzione su cui il Piemonte si sta già muovendo da qualche anno e che consentirebbe agli amministratori locali di poter decidere autonomamente dove e come investire, potendo contare su risorse certe e non dipendenti dalle spesso estenuanti trattative con lo Stato. «Grazie al federalismo fiscale – prosegue Bresso – sarà più semplice garantire efficienza, incidere sugli sprechi, decidere dove e quando tagliare senza penalizzare l’offerta di servizi a cittadini». Il Piemonte vanta oggi crediti verso lo Stato per circa tre miliardi di euro: una situazione che si traduce in ritardi nei pagamenti e costi ulteriori per interessi. Con il federalismo fiscale a regime la situazione dovrebbe cambiare o comunque semplificarsi. Ogni Regione ha inoltre la possibilità di chiedere competenze aggiuntive su PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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DIBATTITO Riforma federale
«IN ITALIA MANCA UN TASSELLO FONDAMENTALE PERCHÉ IL FEDERALISMO FISCALE POSSA DAVVERO FUNZIONARE: NON SI DICE CON CHIAREZZA DOVE VERRANNO PRESE LE RISORSE, CON IL RISCHIO DI PROTRARRE ALL’INFINITO LA TRATTATIVA TRA REGIONI E GOVERNO»
materie ritenute strategiche per lo sviluppo e la crescita di determinate aree e su alcune materie di legislazione esclusiva: lo dice la Costituzione. «Sulla base di questo dettato – ricorda Bresso – lo scorso luglio abbiamo presentato al governo il testo sul federalismo differenziato per il Piemonte, chiedendo maggiori competenze in tema di beni paesaggistici e culturali, infrastrutture, università e ricerca scientifica, ambiente, organizzazione sanitaria e previdenza integrativa per le persone non autosufficienti». SANITÀ Uno dei settori chiave in cui lo spostamento di competenze da Roma a Torino è parzialmente già avvenuto è appunto la sanità. Tuttavia, al momento, restano di competenza esclusiva dello Stato diversi aspetti. Dalla profilassi internazionale a produzione, registrazione, ricerca e commercio dei farmaci, passando per la fissazione dei requisiti
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per determinare i profili professionali degli operatori sanitari. Continuano a dipendere da Roma anche le disposizioni generali per la durata e la conclusione dei corsi, la determinazione dei requisiti necessari per l’ammissione alle scuole e di quelli per l’esercizio delle professioni mediche e sanitarie ausiliarie. La Regione Piemonte può contare oggi su circa 8 miliardi di euro che vengono trasferiti ad Asl e Aso per la gestione della sanità regionale. «Ogni Azienda ha un proprio bilancio che gestisce in autonomia, ma secondo indirizzi emanati dalla Regione Piemonte – spiega la presidente Bresso –. La Regione integra il trasferimento di tali risorse, provenienti dal Fondo Sanitario Nazionale, con altre proprie». Risorse che potrebbero aumentare nel caso di una futura attuazione del federalismo fiscale in Regione, a patto di essere virtuosi e puntare all’individuazione e alla riduzione degli sprechi. Su questo Ghigo e
Bresso concordano. «Con l’introduzione del federalismo fiscale aumenterebbe senz’altro la responsabilizzazione degli amministratori regionali, con l’impossibilità per le “Regioni canaglia” di contare su ripiani del deficit a piè di lista – afferma il senatore – Sarebbero i cittadini a doversi far carico, con le tasse, degli sforamenti in sanità e lo ritengo un fatto positivo». E l’attuale presidente regionale rilancia: «Avere da subito la liquidità è il punto chiave: in questo modo si potrebbero accelerare tutti i pagamenti e ottenere efficienza, migliorando l’economia del settore e trattando sugli acquisti senza avere il peso di interessi sui debiti». Il federalismo fiscale potrebbe giovare a un Piemonte che «finora non ha mai beneficiato di finanziamenti supplementari, riuscendo a coprire con proprie risorse o facendosi carico di mutuare le somme mancanti» come sottolinea Enzo Ghigo. Senza contare che la possibilità di
DIBATTITO
«CON L’INTRODUZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE AUMENTEREBBE SENZ’ALTRO LA RESPONSABILIZZAZIONE DEGLI AMMINISTRATORI REGIONALI. SAREBBERO I CITTADINI A DOVERSI FAR CARICO, CON LE TASSE, DEGLI SFORAMENTI IN SANITÀ E QUESTO È POSITIVO».
usufruire di risorse proprie senza dover dipendere costantemente da fondi statali esalterebbe le Regioni virtuose e finirebbe per responsabilizzare quelle sinora spendaccione. In questo senso, il presidente Bresso è convinta di aver fatto un buon lavoro: «Il Piemonte ha ripianato i debiti provenienti dalla gestione sanitaria fino al 2005, che ammontavano a circa un miliardo di euro, senza maturare ulteriori debiti nel settore. Oggi – prosegue – copriamo tutti i costi con i fondi provenienti dallo Stato e nostre risorse». Di diverso avviso è invece il senatore Ghigo secondo cui la Giunta Bresso «dopo quasi 4 anni di governo, non è riuscita né ad azzerare il deficit, né a ridurre le liste d’attesa, né a migliorare i servizi sanitari piemontesi. Anzi – insiste – rispetto alla precedente legislatura, la spesa sanitaria è aumentata di un miliardo di euro, senza che vi siano riscontri sul corrispondente aumento della qualità».
ECCELLENZE Le divergenze di opinioni riguardano anche l’individuazione di nuovi poli sanitari su cui puntare. Se Bresso e Ghigo concordano sul fatto che in Piemonte esistano strutture di cura d’eccellenza, i futuri interventi a cui destinare risorse li separano. «Siamo convinti che, con la nascita della Città della Salute a Novara e Torino, uniremo cura, ricerca, alta formazione e insediamenti economici legati alla sanità –afferma Mercedes Bresso –. Con la piena applicazione del nostro Piano socio-sanitario, potremo crescere ancora e offrire ai cittadini servizi sempre migliori, in qualità e quantità». Un’analisi che non convince Enzo Ghigo: «La Giunta da me presieduta aveva avviato il progetto Molinette 2 – ricorda –, la Giunta Bresso non ha voluto portare avanti quell’iniziativa, puntando su una Città della Salute, da realizzare a Grugliasco-Collegno, in un’area molto decentrata e addi-
rittura fuori dai confini comunali. Attualmente il progetto non risulta ancora finanziato, se non in minima parte, né si conoscono i tempi e le prospettive concrete di realizzazione». Un altro tema centrale per il futuro della sanità in Piemonte è rappresentato dalle possibilità di integrazione fra pubblico e privato, sul modello di quanto già accade in Veneto e Lombardia. «Le nostre caratteristiche sono quelle di una presenza assai modesta del privato afferma Bresso - . Abbiamo una storica e ampia serie di convenzioni siglate con la Valle d’Aosta e di recente abbiamo stipulato anche con la Liguria accordi bilaterali per il contenimento della mobilità sanitaria». Ghigo, che accusa la Giunta Bresso di «statalizzazione di alcune attività sanitarie», crede invece in un rafforzamento del coordinamento fra cura e ricerca «anche coinvolgendo i privati, per mantenere livelli elevati di assistenza per i residenti». Non solo. L’ex presidente regionale vede nella sanità «un settore in grado di produrre reddito e occupazione, facendo leva sulla mobilità verso le strutture piemontesi e riducendo quella in uscita». Interventi da ridefinire in attesa di capire chi sarà a gestire la Regione quando nel 2011 si celebreranno i 150 anni dell’Unità d’Italia. Di un’Italia che ebbe come prima capitale proprio Torino.
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CONTROCANTO Sergio Chiamparino
QUESTIONE MORALE? SERVE CHIAREZZA Soluzioni bipartisan, concordia istituzionale e collaborazione tra i partiti. La strategia di Sergio Chiamparino porta risultati concreti e riscuote successo in entrambi gli schieramenti politici. E l’esperienza positiva come sindaco di Torino lo lancia come futuro leader del Pd. Un partito già troppo diviso da malumori e dissidi interni FRANCESCA DRUIDI
l Partito Democratico è sempre più in crisi. Ora anche a livello locale. E se prima i problemi potevano essere facilmente riconducibili alla linea politica della leadership, ora ci si è messa anche la questione morale, che da mesi irrompe nei palazzi comunali e regionali amministrati dal centrosinistra. Le vicende napoletane degli ultimi giorni rappresentano soltanto il tassello più recente di una lunga catena di eventi, in cui la magistratura è sembrata porsi come un vero e proprio antagonista nei confronti del partito di Veltroni e D’Alema. I tentativi di rinascita sono in atto da tempo e indicano tutti una sola priorità politica: riconquistare gli elettori del Nord. Un obiettivo abbracciato recentemente anche dalla segreteria nazionale, ma portato avanti in tempi non sospetti da alcuni rappresentanti autorevoli. Tra questi, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, da più parti indicato come possibile futuro leader del Pd, insieme ad altri protagonisti della politica locale. Un uomo di cultura, capace
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di parlare con estrema chiarezza alle persone, un politico determinato in grado, secondo molti, di scuotere il partito dalle sue fondamenta. Questo rappresenta oggi Chiamparino, che vede crescere i suoi consensi anche grazie alle sue posizioni bipartisan. Dal federalismo “sostenibile”, capace di coniugare esigenze e differenze tra Sud e Nord, fino alla creazione di un programma di riforme strutturali. Quella di Chiamparino è una politica concreta, distante dalle ideologie del passato, ma ancora in grado «di ispirare sogni e passioni», a partire da una buona amministrazione comunale. Il terreno, del resto, in cui il sindaco Chiamparino ha costruito in questi anni la sua credibilità, dimostrando capacità di fronte a situazioni spesso non facilissime. Amministrare una città significa cercare soluzioni concrete che rispondano ai bisogni della gente al di là degli schieramenti politici. E lei ci sta riuscendo. Quanto di tutto ciò sta avvenendo anche a livello nazionale? «Non sono io a dire se ci sto riu-
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CONCRETO Sergio Chiamparino, nato a Moncalieri, è sindaco di Torino dal 2001 PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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CONTROCANTO Sergio Chiamparino
scendo. Certamente la città è migliorata, è cambiata. In questi anni abbiamo lavorato in un clima di concordia istituzionale e la collaborazione ha portato risultati». Quanto sono necessari il dialogo e il confronto, soprattutto in questo momento? «Molto, direi. Qualche giorno fa, per spiegare questo concetto, ho voluto usare una terminologia forte, e ho parlato di una “giunta di salute pubblica”. Significa che chi amministra una città deve avere priorità diver-
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se rispetto a chi fa politica in senso tradizionale». Perché, a livello nazionale, non si riesce ad avere un confronto costruttivo tra centrodestra e centrosinistra? «Il dialogo c’è, tuttavia non si riesce a farne una modalità strutturata come in altri Paesi, perché si ferma a casi individuali. Credo che questo accada perché non abbiamo ancora accettato completamente l’idea che sia finito, per così dire, un certo tipo di politica
basata solo sulle ideologie. Il mondo è cambiato in fretta, esponenzialmente rispetto al tempo trascorso dalle battaglie della politica degli ultimi decenni. La politica deve ancora fare questo salto, e deve farlo mantenendo una ragion d’essere profonda e capace di ispirare sogni e passioni». Chi, nel centrodestra, oggi le sembra più aperto al dialogo? «Sicuramente Fini. Ma anche Calderoli per le materie di cui mi occupo».
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Qualcuno sostiene che nel nostro Paese sia ancora presente la sindrome dell’8 settembre 1943. Una divisione ideologica che contagia molti giovani. Non crede che un certo tipo di ideologia, a destra come a sinistra, abbia segnato il passo? «La storia ha tempi lunghi e per un Paese come l’Italia quella dell’8 settembre è ancora cronaca. Ma, come dicevo poco fa, è la politica che deve cambiare strumenti e modalità, mantenendo fermi i valori. La sinistra avrà un senso finché esisterà anche una sola persona debole, oppressa, svantaggiata. Ma i modi di difenderla, quelli devono cambiare. E non possono più basarsi sulla divisione». Le sue posizioni bipartisan hanno sollevato le critiche di Idv e della sinistra. E, insieme, la curiosità di Berlusconi. Dove sta l’anomalia e dove la normalità? «Non so se ho posizioni definibili con questo termine. Cerco di avere posizioni concrete, in cui prevalga il buon senso». Parlando del suo partito, oggi il Pd appare sfilacciato, diviso in correnti, spesso indeciso sulla linea da tenere. Cosa c’è di reale in questa percezione? «Il Pd è in una fase di sofferenza, di confusione, questo è evidente e, come ho detto in altre occasioni, le correnti sono pericolose. Ma si tratta di una fase naturale, visto che è un partito che esiste da un anno e sta affrontando ora la vera fusione». Visto il calo di consensi, sono in discussione la leadership di Veltroni e dei vertici del partito? «Non esiste un problema di leadership. Esiste la necessità di trasformare queste correnti. Dobbiamo passare dalla attuale “federazione di correnti”, a una federazione di territori, giusto per tornare sul tema del Nord. Però
occorre una sintesi delle posizioni che trovi soluzioni reali». Si è parlato molto della nascita di un Partito del Nord all’interno del Pd. Nel dibattito che ne è nato quanto c’è di vero e quanto invece è stato amplificato dai media? «Il Partito del Nord è una semplificazione dei giornali. Io ho solo ricordato che esiste un articolo nello Statuto nazionale del Pd che sancisce l’autonomia politica organizzativa e finanziaria delle unioni macroregionali. Mi sembra chiaro, quindi, che non ho mai proposto un partito sul modello della Lega». Per il momento avete creato il coordinamento del Nord. Quali sono gli obiettivi prioritari? «Il primo tema di cui si occuperà il nuovo organismo è la crisi, in tutte le sue forme. Per i dettagli dovrete aspettare la fine di gennaio». Si sostiene da tempo che i partiti siano lontani dagli elettori. L’idea del coordinamento è nata anche per colmare questa lacuna? «Anche a questo potrà servire, ma qui sarà il federalismo a dover portare novità. Avvicinare il luogo delle decisioni ai cittadini che ne sono investiti sarà fondamentale per ricucire un dialogo che oggi è vivo con gli amministratori, cioè con le persone vicine, raggiungibili, individuabili come coloro che si assumono delle responsabilità e poi ne rendono conto». Recentemente alcuni amministratori del Pd sono stati attaccati sulla questione morale. Lei cosa ne pensa? «Che bisogna fare chiarezza subito, senza polverone mediatico e con rigore». Quale sarà la vera grande sfida del partito per il 2009? «Assestarsi. Risolvere la propria questione di moralità interna. Riorganizzarsi, partendo dai territori».
«IL DIALOGO C’È, TUTTAVIA IN ITALIA NON SI RIESCE A FARNE UNA MODALITÀ STRUTTURATA COME IN ALTRI PAESI, PERCHÉ CI SI FERMA A CASI INDIVIDUALI. CREDO CHE QUESTO ACCADA PERCHÉ NON ABBIAMO ANCORA ACCETTATO COMPLETAMENTE L’IDEA CHE SIA FINITO, PER COSÌ DIRE, UN CERTO TIPO DI POLITICA BASATA SOLO SULLE IDEOLOGIE»
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PENSIERI LIBERALI Raffaele Costa
LIBERALE Raffaele Costa, 72 anni, nato a Mondovì, è stato segretario del Pli e co-fondatore dell’Unione liberale di Centro
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PENSIERI LIBERALI
LIBERIAMOCI DAL PESO DELLA BUROCRAZIA Sburocratizzazione. Per liberare cittadini, imprese e gli stessi enti pubblici. È questo l’obiettivo di Raffaele Costa, ex segretario del Pli e co-fondatore dell’Unione liberale di Centro. E, dalla Provincia di Cuneo di cui è presidente, guarda con interesse all’azione dei ministri Brunetta e Calderoli LAURA PASOTTI
l costo della pubblica amministrazione, tra salari e costi intermedi, secondo le stime del ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta è di circa 300 miliardi di euro l’anno. Il programma del suo ministero prevede un risparmio di circa 15-30 miliardi di euro l’anno che, alla fine della legislatura, dovrebbe arrivare a 200 miliardi. Qualcuno l’ha definita una “missione impossibile”, ma sono in molti a credere che il ministro “più amato dagli italiani”. Tra questi c’è Raffaele Costa, storica voce liberale italiana, che ben conosce la storia della nostra Repubblica. Costa, oltre a essere stato segretario del Pli, ha ricoperto più volte l’incarico di sottosegretario (tra cui quello agli Esteri) tra il 1979 e il 1989, di ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie e gli affari regionali nel primo Governo Ama-
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to, di ministro dei Trasporti nel Governo Ciampi e della Sanità nel primo Governo Berlusconi. Co-fondatore dell’Unione liberale di Centro, Costa è stato eletto presidente della Provincia di Cuneo nel 2004 nelle liste di Forza Italia. Durante la sua carriera politica si è fatto più volte promotore di iniziative volte alla delegificazione con l’obiettivo di rendere più snello l’ordinamento italiano. È per questo che guarda con interesse all’azione sburocrattizante del Governo. Che, non ha caso, ha recentemente eliminato 29mila leggi dal nostro ordinamento. «Un cospicuo risparmio di risorse che vanno accolte con la soddisfazione di tutte le forze politiche» sottolinea convinto. Lei da tempo sta conducendo una battaglia per abbattere l’eccesso di burocrazia che soffoca
i cittadini e lo sviluppo del nostro Paese. «Confermo il mio impegno a ridurre decisamente la burocrazia, ovvero l’aspetto legislativo cresciuto a dismisura negli ultimi cinquant’anni, condizionando pesantemente la vita di cittadini, aziende, enti pubblici. La burocrazia ha imposto costi e impegni ben poco condivisibili, e sovente inutili, se non dannosi. Con il termine “burocrazia eccessiva” mi riferisco anche alle strutture pubbliche enfatizzate oltre misura e, per di più, costose. Ritengo estremamente positiva l’azione sostenuta da questo governo, soprattutto per ciò che riguarda la delegificazione avviata dal ministro Roberto Calderoli». Burocrazia significa spesso tempi lunghi e spreco di energie e di risorse. Il ministro Renato Brunetta ha dichiarato che
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PENSIERI LIBERALI Raffaele Costa
ha intenzione di far risparmiare alla pubblica amministrazione circa 220 miliardi in cinque anni. Molti l’hanno già definita una “missione impossibile”. Secondo lei ci riuscirà? «È difficile fare una previsione numerica e quantitativa. Certo è che i programmi del ministro Brunetta fanno ben sperare» Quali sono, a suo parere, i maggiori ostacoli al cambiamento? «Ci sono ostacoli di diversa natura: politici, amministrativi, legislativi. Quando parlo di ostacoli politici mi riferisco all’orientamento di chi vuole condizionare la società attraverso organismi destinati a favorire meramente scelte, appunto, politiche attraverso leggi destinate a essere realizzate tramite organi amministrativi». A chiedere con forza una sburocratizzazione è soprattutto il tessuto produttivo. Quali maDOSSIER | PIEMONTE 2009
novre prioritarie si sentirebbe di suggerire? «Bisgnerebbe liberare l’impresa da vincoli, leggi e pratiche. Come farlo? Riducendo in primo luogo le strutture di controllo, semplificando le forme attraverso le quali le aziende possono lecitamente esprimersi e realizzarsi». Quali sono state le cause che hanno portato l’Italia ad avere un’amministrazione pubblica con questo grado di inefficienza? «In primo luogo, la volontà di consentire al potere politico una presenza in settori che dovrebbero restargli estranei. La causa risiede nella volontà di realizzare, ovviamente senza renderlo manifesto, un sistema partitocratico con i benefici che ne conseguono per gli esponenti politici e, talvolta, anche amministrativi, nonché per le correnti e i partiti stessi».
A essere messa sotto accusa è anche la “mentalità” che spesso esiste tra gli operatori del pubblico impiego, che nei peggiori dei casi si comportano come la pubblica amministrazione fosse uno “stipendificio”. Qual è la ricetta per invertire questa rotta? «C’è una sola ricetta, la meritocrazia». Dove trova maggiore forza la “resistenza” a questo cambiamento? «Nell’inerzia di molti enti e dei loro esponenti. Inerzia dovuta soprattutto a interessi estranei ai rapporti fra ente pubblico e privato». A suo parere quanta strada c’è ancora da percorrere per sviluppare una vera sussidiarietà tra cittadinanza e istituzioni? «Mi sembra che le istituzioni stiano già lavorando per il cittadino, ma lo fanno in maniera pesante e
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«RITENGO ESTREMAMENTE POSITIVA L’AZIONE SOSTENUTA DA QUESTO GOVERNO, SOPRATTUTTO PER CIÒ CHE RIGUARDA LA DELEGIFICAZIONE AVVIATA DAL MINISTRO ROBERTO CALDEROLI» costosa. Spesso in modo improduttivo. Quello di cui ci sarebbe bisogno è un processo di semplificazione, di aggregazione fra enti, di doveri bilaterali». La riforma che introdurrà nell’ordinamento italiano il federalismo fiscale è alle porte. Crede che sia un ulteriore incentivo per abbattere gli sprechi della pubblica amministrazione? «In teoria, la risposta dovrebbe essere positiva. Bisognerà essere molto attenti a fare in modo che non creino nuovamente, a livello locale, situazioni simili a quelle oggi vigenti e vincenti a livello nazionale». Una delle ipotesi che è entrata
nel dibattito politico è quella dell’eliminazione delle Province. Qual è la sua opinione in merito? «Quindici anni fa, quando le Province avevano scarse competenze, anche io ero favorevole alla loro soppressione. La situazione da allora è cambiata e le competenze attribuite a questi enti sono cresciute in modo rilevantissimo. Credo che sia necessario aggregare, e nel caso unificare, strutture che oggi sono distanti tra loro e in qualche caso parallele. Ci vorrà un atto di coraggio, ma se l’obiettivo è semplificare, e non demolire solamente, occorrerà creare una struttura che unisca Province, Prefetture, Camere di Commercio e altri enti». La Lega si è schierata contro la loro abolizione. Potrebbe essere una causa di incrinatura all’interno della maggioranza? «La diversa posizione della Lega è
comprensibile. Potrà essere condivisa o condizionata da modifiche strutturali relative ai rapporti fra la Provincia e gli altri enti paralleli a livello locale». Nel taglio agli sprechi e nella lotta per l’efficienza, non si può non pensare anche a una riforma che vada a diminuire parlamentari e senatori e che permetta all’esecutivo di decidere in tempi veloci. A suo parere questo governo ci riuscirà? «Non credo vi saranno grandi difficoltà da opporre alla riduzione del numero dei parlamentari, anche se ciò richiederà una riforma costituzionale che si realizzerà in tempi non brevissimi. Il punto non è rendere più veloci le decisioni del governo, che già oggi sono rapide, ma dare a queste decisioni efficacia attraverso un iter parlamentare il più possibile approfondito e, allo stesso tempo, snello». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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MELTING POT ALLA PIEMONTESE Quando si parla di Nord Italia si tende sempre più spesso a discutere solamente di Lombardia e Nord Est. Sembra quasi che il Piemonte, che ha rappresentato per anni il massimo esempio nazionale di modello industriale, abbia perso peso in campo politico ed economico. Quali strategie sono in atto sotto la Mole per superare questa crisi di identità? Risponde Fulvio Basteris, direttore del Giornale del Piemonte FEDERICO MASSARI he il Piemonte abbia perso peso non è una sensazione, ma una realtà. Basta guardare al ruolo del suo capoluogo. Del glorioso triangolo economico d’un tempo che aveva i suoi vertici in Milano, Torino e Genova, solo la prima città continua a rappresentare un riferimento per l’economia del nord». Fulvio Basteris, direttore de Il Giornale del Piemonte, spiega così l’attuale situazione della regione. «Torino – continua – annaspa dietro a un destino che la vede ancora orfana del ruolo trainante e leaderistico che possedeva, anche per l’economia dell’intera Regione, l’attività della Fiat dei tempi d’oro. E non è senza motivo che nel Governo Berlusconi, dov’è forte l’asse del nord, non siano stati inseriti ministri piemontesi». Nonostante ciò, e nonostante la crisi che sta attanagliando il Paese e l’azienda creata dalla famiglia Agnelli, ancora oggi Torino sembrerebbe far rima con Fiat. «Più che rima – puntualizza il direttore – la parola Fiat significa dissonanza. Se non ci fossero state le grandi banche, sarebbe già fallita». Direttore, quanto deve il territorio piemontese alla Fiat? «La Fiat ha cambiato Torino e il Piemonte. Dalle valli e dalle cam-
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pagne piemontesi, oltre che da quelle venete, arrivò la prima ondata di immigrati che mutarono il volto della città. Per non dire di quella dal Sud che la fece terza città meridionale d’Italia. Ma l’ha anche condizionata in maniera eccessiva. Se la culla della tecnologia ferroviaria ha da pochi anni una striminzita metropolitana che fatica a raddoppiarsi di linea, lo si deve a un modello facile di trasporto su gomma che l’enorme massa dei fiatini, i quali, ogni tot mesi, cambiavano l’auto lucrandoci un pochino, aveva indubbiamente accolto con entusiasmo, in ciò favorita da sindaci alla Novelli che misero il pollice verso al trasporto sottoterra. Oggi il centro urbano è inquinato e per badare alla salute dei poveri abitanti occorrerebbe chiuderlo del tutto al traffico automobilistico. Una beffa, una nemesi storica per l’ex capitale dell’auto». Quali sono i punti di forza e quali le debolezze del modello Nord Ovest? «Nonostante le criticità del capoluogo e del suo hinterland il resto del Piemonte sta reggendo, sia pure a fatica, all’onda d’urto della fine dell’egemonia della Fiat, che condizionava tanta parte del modello imprenditoriale sabaudo, e a
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CRITICO Fulvio Basteris è il direttore de Il Giornale del Piemonte PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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quella ben più alta e minacciosa della recessione mondiale in atto da qualche mese. Il modello Nord Ovest, a differenza di quello del Nord Est, era legato a un capitalismo più antico, meno affaristico e disinvolto, con il volano della produzione automobilistica e, attorno, una miriade di attività spesso innovative e originate su esperienze artigianali precedenti. Ovviamente non c’era, e non c’è, solo la grande industria, oggi in via d’estinzione. Oltre a Fiat, e all’auto, in Piemonte è nato il polo dell’elettronica e dell’informatica. Si chiamava Olivetti. Un patrimonio anch’esso sperperato, benché oggi tutte quelle maestranze qualificate abbiano dato vita a un distretto informatico di prim’ordine, fatto però di tantissime microaziende in continua trasformazione. In Piemonte sono nate l’elettricità, la telefonia, il settore della gomma, le grandi stamperie, la televisione. Tutto finito o emigrato altrove. Non so se è mai esistito un modello Nord
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Ovest oppure se non sia stato anch’esso un’invenzione dei sociologi, razza che all’ombra della Mole alligna assai e che emerge nei tanti progetti, studi, modelli, utopie urbanistiche e intellettuali propinate da stuoli di “maître à penser” quasi sempre di sinistra a una classe amministrativa dello stesso colore ideologico che oramai non appare più all’altezza della modernità. Che smacco per il sindaco Sergio Chiamparino, così rappresentativo della torinesità politica, tollerante e un po’ grigia, avvezza e propensa all’assorbimento degli extracomunitari, di fronte alla recente classifica del Sole 24Ore che vede la “real Torino” maglia nera per la microcriminalità». Lei invece come s’immagina il Piemonte del futuro? «Chi, come me non è più un ragazzino, è portato a idealizzare il Piemonte del buon tempo andato. Che però è, appunto, andato. Irripetibile. Massimamente in questo periodo è difficile immaginare un
futuro. I dati e le proiezioni demografiche, ad esempio, danno per il 2030 un grafico a forma d’albero: molti anziani, cioè le fronde, pochi giovani che sono il tronco e le radici. Saranno forse i tanti, per alcuni troppi, immigrati comunitari ed extracomunitari a travasare in quelle radici una linfa nuova e vitale che non siamo neppure in grado di immaginare? Il Piemonte ridiventerà un “melting pot” all’americana, un crogiolo come fu negli anni Sessanta con l’immigrazione dal Sud? Chi lo sa». Quali sono oggi gli uomini e le aziende che rappresentano il nuovo volto del territorio? «Più che di singoli, che esistono sia nel mondo produttivo che in quello politico-amministrativo, rifletterei sui gruppi sociali e politici. Fra le sirene che tornano ad ammaliare i piemontesi ci sono ad esempio i leghisti. Ma per certuni essi sono troppo legati alla tradizione e da loro, al di là dell’insi-
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stenza sul federalismo fiscale al quale molte altre forze politiche si sono convertite, non vengono modelli in grado di far navigare nei marosi della globalizzazione. Le sinistre, oramai suddivise in partitini litigiosi e puniti dagli elettori per via dei loro vaneggiamenti da talebani antimodernisti, boccheggiano come pesci gettati sulla riva. Forse, come dicevo prima, arriverà da nuovi cittadini il “make up” per il Piemonte. Ma è difficile prevederlo». Cambiando tema, lei è uno dei membri del Consiglio di amministrazione del Comitato Celebrazioni per il Centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Quanto questo avvenimento sarà importante per il Piemonte? «Non so se sarà importante quanto quello del 1961, che si verificò in un momento di boom economico e rappresentò la concretizzazione della modernità avanzante: la monorotaia, l’impressionante Palazzo Nervi, il Palavela, il Circorama, i
padiglioni nei quali le regioni d’Italia misero in mostra il meglio di sé. Il clima del Centenario dell’Unità d’Italia fu euforico così come accadeva in un Paese che usciva dal baratro della guerra, che lavorava sodo, che sperava in un futuro migliore, un Paese nel quale per costruire l’autostrada del Sole da Milano a Napoli si impiegavano meno di nove anni, mentre adesso per fare una qualsiasi tangenziale si discute per decenni e non si viene a capo di nulla. Non mi pare di cogliere lo stesso spirito d’allora. Forse le giovani generazioni non sono più interessate a guardare al passato perché abbiamo loro precluso il futuro. Se non ci si può fondare su un minimo di speranza, infatti, diventa arduo sognare e investire fatica ed esistenza su progetti per l’avvenire». Quali sono gli obiettivi del Comitato? «Ci sono parecchi e ambiziosi progetti e opere per celebrare, in maggior parte di nuovo a Torino,
l’evento del Centocinquantenario sia in questo biennio preparatorio sia, soprattutto, nel 2011 dal 17 marzo in poi. Ma per adesso mancano i soldi dello Stato. Sono stati promessi per le opere, quelle che resteranno e che riguardano a Torino il Parco Dora, il Valentino, la Galleria Sabauda, l’Egizio e, ovviamente, il Museo del Risorgimento, una cinquantina di milioni che ne attivano più della metà da parte di enti e altri soggetti pubblici locali. Il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, nonostante l’entusiasmo e il lavoro ai fianchi del collega alla Cultura Sandro Bondi, per adesso nicchia e tiene stretti i cordoni della borsa. E mancano fin qui pure gli impegni dei privati. Forse stanno aspettando. C’è anche uno strano gioco politico delle parti. Da un lato le amministrazioni della Regione, della Provincia e della città di Torino, tutte rigorosamente di sinistra, si augurano ovviamente che i fondi del Governo di centrodestra, compresi quelli per il Comitato in aggiunta ai loro, già cospicui, arrivino, come accadde per le Olimpiadi invernali, altrimenti le celebrazioni ne risentirebbero assai e il Piemonte ne avrebbe uno svantaggio; dall’altro magari non dispiacerebbe politicamente il contrario, tanto più che a giugno prossimo si vota». L’appuntamento è per il 2011. A suo parere, per essere pronto a sfruttare appieno questo evento, come dovrà cambiare il Piemonte nel corso di questi prossimi anni? «Per cambiare è difficile che bastino questi due anni o poco più che ci separano dal Centocinquantenario. Basterebbe comunque che anche a livello amministrativo i piemontesi e soprattutto i torinesi scegliessero di voltar pagina affidandosi a governi locali di centrodestra. In fondo sarebbe un ritorno alla metà dell’Ottocento, quando essi fecero l’Italia. E diciamo poco».
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IL GUSTO IRRESISTIBILE DELL’ITALIANITÀ Un secolo di storia aziendale e una leadership consolidata sul mercato italiano. Lavazza è da sempre sinonimo di caffè espresso. Un segmento che oggi sta conoscendo un’espansione particolarmente interessante. Gaetano Mele, ad del gruppo Lavazza, traccia scenario attuale e tendenze future di un prodotto assolutamente italiano, ma sempre più internazionale DANIELA PANOSETTI
olubile, americano ed espresso. Sono i tre segmenti in cui normalmente viene suddiviso il mercato mondiale del caffè. Ma dire espresso, di fatto, significa dire caffè italiano. E da ormai decenni, l’azienda leader in questo campo è la Lavazza. Ovvio quindi che la crescita generale del segmento su tutto il mercato mondiale si traduca, per l’azienda piemontese, in nuove opportunità internazionali. In termini sia commerciali che produttivi. «La crescita media dell’azienda nell’ultimo biennio è stata intorno all’8% – spiega Gaetano Mele, ad dallo scorso giugno – risultato che contiamo di mantenere anche nei prossimi tre anni, nonostante i cupi tempi che l’economia mondiale sta attraversando». E se verranno realizzate altre acquisizioni, è addirittura possibile che il tasso di crescita acceleri ulteriormente. «Una possibilità più che concreta – aggiunge Mele – dato che, fortunatamente, l’azienda gode di una buona liquidità, che le per-
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mette di pensare a questa e altre operazioni senza necessità di contrarre debiti e ricorrere agli istituti di credito». Il mercato dell’espresso sta attraversando una fase positiva senza precedenti. Quali sono i ritmi di questo aumento? «In effetti, si tratta di un mercato in crescita, per quanto a tassi diversi a seconda dell’ampiezza del segmento nei vari Paesi. In generale, comunque, fatta ovviamente eccezione per l’Italia, rispetto al segmento del solubile e del caffè americano quello dell’espresso è sicuramente il più piccolo, ma è anche quello che cresce col ritmo più interessante. E anche se dalle statistiche sembra che il solubile cresca più velocemente, non bisogna lasciarsi ingannare. Perché il solubile, soprattutto nei Paesi asiatici e in Europa orientale, dove prevale la cultura del tè, rappresenta il primo approccio al consumo del caffè, che fa da apripista al successivo passaggio all’espresso». Quali sono le ragioni di questa
crescita? «Sostanzialmente tre. In primo luogo la proliferazione dei coffee shops genere Starbucks, che forniscono un prodotto all’italiana. In secondo luogo, la grande innovazione portata avanti dai sistemi che funzionano con il cosiddetto porzionato. Grazie alle capsule predosate, le “cialde”, è possibile infatti preparare con relativa semplicità un espresso di eccellente qualità anche in Paesi in cui la cultura dell’espresso è molto recente. E questo con una costanza qualitativa che solo vent’anni fa era impensabile. La terza considerazione, più personale, ovvero la convinzione che l’espresso sia effettivamente un caffè migliore.» Da un punto di vista concorrenziale, qual è lo scenario attuale? «Sul mercato italiano, essendo di gran lunga da quasi un secolo l’azienda leader del settore, di fatto non abbiamo concorrenti, ma una serie di competitor che insieme costituiscono uno scenario concorrenziale peculiare. A li-
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GAETANO MELE Direttore generale della Lavazza e, dallo scorso giugno, amministratore delegato
vello internazionale, invece, è evidente che ad esempio la Nestlè, già leader nel solubile, con Nespresso si stia mostrando molto interessata a sfruttare le potenzialità commerciali dell’espresso. Di certo, quando si tratta di competere con aziende di tali dimensioni, occorre fare prima di tutto appello alla pazienza, dote da costruirsi anche, se non la sia ha, e in secondo luogo, alla qualità del prodotto e alla forza della tradi-
zione, nella convinzione che, a lungo termine, sia questo il fattore determinante». Quali opportunità si aprono per Lavazza in questo quadro? «In generale, è nostra intenzione restare fortemente nel segmento dell’espresso. Del resto caffè Lavazza è di fatto sinonimo di caffè all’italiana. Ed è proprio la consolidata esperienza, insieme alla passione e alla fiducia nel prodotto, a rappresentare il nostro
maggiore vantaggio competitivo. D’altra parte, se abbiamo scelto di agire soltanto in questo segmento, è perché riteniamo di avere sufficiente autorevolezza per poterlo fare. L’espresso, insomma, è “il nostro prodotto”. E a ben guardare sta ai nostri competitor cercare aspetti di differenziazione nei nostri confronti, e non il contrario». Quali passi sono stati fatti, sinora, in termini di espansione PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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«CHE L’ITALIANITÀ SIA UN NOTEVOLE PUNTO DI FORZA È FUORI DUBBIO. PROVA NE SIA LA FREQUENZA CON CUI VIENE “SBANDIERATA” ANCHE DA COLORO CHE ITALIANI NON SONO AFFATTO. A MAGGIOR RAGIONE, CREDO CHE UN’AZIENDA ITALIANA DEBBA FAR LEVA SU QUESTO VALORE, COME UN PILASTRO SU CUI ERIGERE UNA FORTE IMMAGINE DI PRODOTTO»
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sui mercati internazionali? «Essendo da tempo leader nel settore, crescere, per Lavazza, significa necessariamente farlo all’estero. Negli ultimi anni questa è stata una priorità, e finora i risultati ci hanno dato ragione, a partire dalla crescita all’estero, che negli ultimi anni è stata mediamente del 20% l’anno. Ritmo che contiamo di mantenere anche nel prossimo triennio, soprattutto grazie alla crescita interna sul porzionato, settore in cui siamo da oltre 15 anni e dove quindi possiamo ormai contare su una significativa esperienza. Basti pensare che il nostro stabilimento di Gattinara è il più grande al mondo come produzione di cialde. Inoltre, stiamo pensando di realizzare alcune acquisizioni, che seguiranno quelle già compiute in India e in Brasile. Piccole unità, che però possono costituire in prospettiva una piattaforma per sostenere una sempre maggiore presenza del nostro marchio all’estero, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, dall’economia fortemente in crescita. Il che significa, più in particolare, tutti i cosiddetti Paesi del Bric, ma anche tutta l’area dell’Asia e, in parte, l’America latina e l’Europa dell’Est». Nell’immaginario dei consumatori, il marchio Lavazza è sempre stato molto legato all’italianità. Come è possibile conservare questo vantaggio pur perseguendo una strategia di posizionamento internazionale? «Che l’italianità costituisca un considerevole punto di forza per l’espansione interna è fuori dubbio. Prova ne sia la frequenza con cui l’italianità viene “sbandierata”, per aumentare le vendite, anche da coloro che italiani non sono affatto. A maggior ragione, credo che un’azienda italiana possa e debba far leva su questo valore, considerandolo un vero e proprio pilastro su cui erigere una forte
immagine di prodotto. Negli ultimissimi tempi, tuttavia, l’immagine generale del made in Italy appare purtroppo un po’ appannato, e questo a causa di alcune vicende non propriamente edificanti. Fortunatamente, però, può contare su rendite di posizione tanto elevate, che continuano a mantenerlo vivo e vitale. Certo è che non bisogna abusare di tale “riserva” di vitalità. Non bisogna esagerare nello “schiaffeggiare” questo concetto, perché altrimenti l’immagine del Paese, in generale, corre il rischio di deteriorarsi in maniera irreparabile. L’importante è che le aziende titolari di un brand continuino ad agire onestamente, evitando soprattutto pericolosi compromessi che possano influire negativamente sul prodotto e soprattutto sulla sua qualità». L’azienda ha più di un secolo. In termini di immagine e di filosofia aziendale, quanto contano gli aspetti tradizionali del marchio e quanto, invece, le esigenze di rinnovamento? «Fino a oggi, quello del caffè è stato un settore piuttosto semplice sotto il profilo tecnologico. A lungo la maggiore difficoltà è stata quella di ottenere una certa costanza qualitativa attraverso le opportune miscele. E su questo Lavazza ha sempre continuato a lavorare e a investire. La situazione è radicalmente cambiata con il boom dei sistemi a cialda, che esistono da circa quindici anni, ma solo ultimamente hanno iniziato a diffondersi in modo significativo. Una vera e propria rivoluzione, quella del porzionato, perché di preparare un prodotto molto simile, da un punto di vista organolettico, a quello che in passato si beveva solo al bar. Tutto ciò, però, implica ovviamente un grande sforzo tecnologico. Per trovare la combinazione ottimale tra quantità di caffè, pressione e temperatura – cosa tutt’altro che semplice – e per mettere a punto sistemi sempre più perfezionati, è
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QUADRO DI FAMIGLIA La famiglia Lavazza. Seduti, da sinistra: Francesca, direttore Corporate Image, accanto al padre Emilio, presidente onorario. In piedi, da sinistra, l’altro figlio di Emilio, Giuseppe, vicepresidente con responsabilità di marketing, e il presidente Alberto Lavazza, fratello di Emilio, accanto ai figli Marco, Development & Acquisitions manager, Antonella, che opera all’interno del Coffee Shop business
necessario investire notevoli risorse. Cosa che abbiamo fatto e continuiamo a fare, anche attraverso accordi con importanti istituti di ricerca». Si parla sempre più spesso di responsabilità sociale delle aziende, soprattutto quando si opera su un contesto internazionale. Come si sta muovendo, in questo senso, la Lavazza? «Date le circostanze e il tipo di prodotto di cui ci occupiamo, e soprattutto in seguito alle recenti
acquisizioni concluse in alcuni Paesi in via di sviluppo, per certi versi siamo stati costretti, ovviamente nel senso positivo del termine, a riflettere su questo aspetto e a porre in essere iniziative specifiche. Di qui è nato il progetto “¡Tierra!”, un programma di sviluppo sostenibile, capace di conciliare crescita economica, equilibrio sociale e rispetto dell’ambiente, in tre Paesi della America latina: Honduras, Colombia e Perù. Totalmente fi-
nanziato da Lavazza, il progetto risponde a una serie di parametri validati da Rainforest Alliance, una delle più autorevoli Ong. Oltre a questo, nella prossima ristrutturazione delle unità produttive appena acquistate in Brasile e India abbiamo fin da subito deciso di seguire una serie di criteri etico-ambientali. A partire dalle energie rinnovabili, di cui faremo ampio ricorso e alle quali verrà dunque destinata gran parte degli investimenti in programma». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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QUANDO IL SUCCESSO HA UN SAPORE DOLCE Nel giro di 12 anni ha portato uno storico laboratorio artigianale a diventare una delle imprese più competitive nel mercato de cioccolato. Coniugando tradizione, sapere manageriale e innovazione tecnica. Daniele Ferrero, ad di Venchi, racconta quali sono state le tappe del suo successo NINO POZZA
DANIELE VENCHI Amministratore delegato di Venchi Spa, 39 anni. Dal 1997 a oggi ha portato l’azienda cuneese a diventare uno dei marchi più competitivi nel mercato del cioccolato
hi ha detto la cronica mancanza di ricambio generazionale impedisce alle nuove generazioni di manager di ritagliarsi un posto importante nella classe dirigente del nostro Paese? L’esempio di Daniele Ferrero, classe 1970, insegna il contrario. Dopo un inizio carriera presso l’americana McKinsey, storica società di consulenza manageriale e di strategia organizzativa, nel 1997, a soli 26 anni, Ferrero decide di acquisire a Cuneo un antico laboratorio artigianale di cioccolato, la Venchi, per farlo diventare una
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vera e propria industria in grado di competere con i grandi del mercato. A distanza di 12 anni i risultati dimostrano senza ombra di dubbio che a Ferrero l’impresa è riuscita. Venchi fattura oggi circa 30 milioni euro, esportando gran parte dei suoi prodotti in Europa, Stati Uniti, Giappone, Australia e Paesi Arabi. Un risultato non scontato, soprattutto perché è stato raggiunto in un settore maturo come quello del mercato del cioccolato. Ma quali sono stati gli elementi vincenti dietro il successo di Ferrero? L’amministratore delegato di
Venchi risponde deciso: «Volontà di fare impresa, di provare ad applicare al mondo delle Pmi dei concetti di management “stato dell’arte”. Voglia di diffondere prodotti profondamente italiani nel mondo. Soprattutto desiderio di intraprendere un’avventura in un campo di grande passione, quale per me è sempre stato il cioccolato». Cosa l’ha sorpresa, in positivo e negativo, di questo lavoro? «Pensando al lavoro nel campo del cioccolato la parte positiva è il fatto che la gente si diverta all’idea che
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qualcuno produca cioccolato. L’aspetto negativo è, invece, la scoperta di quanto sia difficile esportare questo prodotto all’estero. Infatti, anche se l’Italia ha un’antica tradizione cioccolatiera, questo non le viene riconosciuto fuori dal Paese. Pensiamo alla Ferrero che, seppure sia una delle più grandi aziende del settore, non viene considerata un’azienda di cioccolato vera e propria, ma più un’azienda dolciaria in senso lato». Lei ha acquisito un’azienda storica. Quali sono state le novità
gestionali più importanti che ha apportato? «La verità è che la Venchi raggiungeva un fatturato di meno di 3 miliardi di lire, quindi si trattava più di un laboratorio di pasticceria che di un’azienda storica. Se si considera che per il 2009 si prevede un fatturato di 30 milioni di euro le innovazioni sono state totali. Passare da un fatturato di 1,5 a 6 milioni di euro comporta un’impostazione manageriale di un certo tipo. Da 6 a 18 milioni un’altra ancora e una ulteriormente diversa se si su-
perano i 25 milioni di euro. È stata portata avanti, quindi, una rivisitazione a più tappe: con la crescita le complessità organizzative aumentano e i relativi strumenti per la gestione evolvono». Quali sono le difficoltà maggiori che deve affrontare un giovane che sceglie di diventare imprenditore? «Le maggiori difficoltà che si incontrano sono di tipo burocratico, fiscale e amministrativo. L’imprenditore deve rivolgersi a una moltitudine di enti ai quali è necessario PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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presentare le pratiche per ottenere tutte le autorizzazioni necessarie per intraprendere nuove attività. Questi Enti non sono collegati tra di loro e molte volte ognuno di essi richiede in parte la stessa documentazione. La devolution ha, inoltre, incrementato queste difficoltà». Per quale motivo? «Perché varia in modo radicale da regione a regione l’interpretazione delle norme urbanistiche, sanitarie e commerciali. Questo rende così non standardizzabile l’iter da seguire nell’apertura di un negozio di cioccolato a Torino rispetto che a Bologna.Una vera assurdità. Tale inefficienza nella possibilità di creare servizio, elemento essenziale per la crescita di un’azienda in un settore maturo qual è il nostro, aggiunge difficoltà a quella che è già un’impresa ardua. La commercializzazione di un prodotto consolidato come il cioccolato, a differenza dei prodotti innovativi, comporta una sfida nella crescita difficoltosa e violenta. In questo
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sito dalla Lindt nel 1997». Qualità, quantità, comunicazione, idee nuove. Quale deve essere l’armonia vincente tra questi elementi per mantenere un’azienda come la sua competitiva sul mercato? «LA COMMERCIALIZZAZIONE «La ricetta è la seguente: nessun compromesso di qualsiasi tipo DI UN PRODOTTO COME sulla qualità, mai. Innovazione a IL CIOCCOLATO, A ritmo forsennato e continuo. CoDIFFERENZA DEI PRODOTTI municazione e quantità vanno di pari passo. La Venchi non è INNOVATIVI, COMPORTA un’azienda di quantità ma di quaUNA SFIDA NELLA lità che non può né vuole comuCRESCITA DIFFICOLTOSA nicare con i mezzi di massa, ma E VIOLENTA» conta sul passaparola». Parlando di mercati, quali sono le nuove frontiere per le aziende dolciarie? senta un competitor per l’Italia «Sicuramente il mondo del nutraper quanto riguarda il settore ceutico, nel quale il prodotto dolagroalimentare, in particola per ciario racchiude in sé l’alimentazione sana e quella funzionale. Su le aziende dolciarie? «Per noi è il cioccolato Lindt, che questo tema stiamo partecipando lavora con i marchi Lindt e Caffa- a un bando del ministero delle Atrel. Il marchio Caffarel, storico tività Produttive in collaborazione marchio piemontese, è stato acqui- con un’università ed un istituto settore si cresce, infatti, acquisendo quote di mercato che fino a ieri appartenevano ai concorrenti». Parlando proprio di concorrenza, chi in questo momento rappre-
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INNOVAZIONE E TRADIZIONE Due momenti di lavorazione del cioccolato nello stabilimento Venchi. La fase di produzione coniuga in sé fasi prettamente artigianali ad altre che appartengono al modello classico di struttura industriale
di ricerca». Vi definite una realtà artigianale a struttura industriale. Può approfondire questo concetto? «È molto semplice. Ci sono dei momenti dell’attività produttiva che possono essere gestiti solo dall’uomo. Altri vengono invece automatizzati e gestiti attraverso il controllo elettronico. Per esempio, essendo ogni partita di nocciole leggermente diversa dall’altra in quanto si tratta di un frutto agricolo, per avere un grado di qualità organolettica costantemente elevato bisogna assaggiarla. Questo non lo può fare una macchina ma lo deve fare qualcuno che abbia le capacità sensoriali e gustative per distinguere le caratteristiche olfattive di una nocciola da un’altra. Nessuna macchina può sostituirsi all’uomo. In questo, quindi, l’azienda rimane una realtà artigianale. Invece, quando si deve portare una partita di cioccolato a una temperatura idonea alla corretta cristallizzazione del
burro di cacao, parametro oggettivo, solo sonde estremamente sofisticate, abbinate al controllo automatico delle impostazioni della macchina, permettono di gestire in modo efficace tale fase. In questo aspetto l’azienda rispecchia la struttura industriale». Ricerca e nuove tecnologie hanno letteralmente rivoluzionato il mercato e il mondo dell’impresa. Per quanto riguarda Venchi qual è lo stato di sviluppo in questo senso? «La profonda conoscenza dei processi produttivi e il dominio dei parametri chimico-fisici che li regolano, uniti alla volontà di Venchi di non limitarsi a quanto richiesto dalla legge in termini di sicurezza alimentare, ma di proiettarsi in avanti nella conquista di un rapporto di fiducia sempre più esclusivo con i propri consumatori, non sarebbero possibili senza l’ausilio delle tecnologie più recenti e innovative. La positiva deriva del settore alimentare verso
standard qualitativi equivalenti a quelli applicati nel settore farmaceutico obbliga i produttori a un costante aggiornamento tecnico scientifico e, nello stesso tempo, offre la possibilità, a chi sappia utilizzare al meglio i nuovi ausili, di presentarsi sul mercato con una marcia in più. L’equilibrio, ricercato con assiduità e fatica, giorno per giorno, fra rigore produttivo e voglia di creare con passione del buon cioccolato, caratterizza la Venchi oggi come in passato». Un settore come il suo quanto sta risentendo della crisi finanziaria globale? «Crediamo ne risentirà molto poco, per fortuna. Il cioccolato di alta gamma è una spesa contenuta nel bilancio familiare e vi compare comunque anche in tempo di crisi. I dati attuali ci rendono fiduciosi; ci auguriamo che le persone invece di acquistare champagne preferiscano comprare i cioccolatini, che oltretutto sono più salubri».
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IL MADE IN ITALY CHE FA SOGNARE Innovazione, qualità, raffinatezza, esclusività. Sono i capisaldi che hanno proiettato Crisfer, con i marchi Fisico e Fisichino, nella fascia alta del settore beach wear. Anche grazie a una produzione totalmente made in Italy. «Perché è stato recepito il nostro concetto di tendenza e lusso anche in spiaggia». Mario Bergamini, amministratore delegato dell’azienda, analizza i progetti di espansione, con un occhio attento all’evoluzione del mercato CONCETTA S. GAGGIANO
l salto di qualità a livello internazionale è avvenuto nel 2007 quando il marchio è stato acquistato al 50% dalla holding della famiglia Burani, la Burani Designer Holding, che detiene anche la maggioranza di Mariella Burani Fashion Group. Il brand in questione è Fisico, che insieme a Fisichino è sotto il cappello del gruppo Crisfer, acrononimo della torinese d’adozione Cristina Ferrari, mente creativa dell’azienda. L’acquisizione ha permesso a Fisico di espandersi a livello nazionale e internazionale e di diversificare il prodotto, che da semplice beachwear è passato a un total look di lusso. Alla prima boutique di via Montenapoleone a Milano, si sono aggiunte quelle di Roma, Portorotondo, Capri e, all’estero, tra gli altri, il brand si trova a St. Barth e Zanzibar. L’80% del fatturato è in Italia ma il Gruppo piemontese guarda sempre più oltreconfine. Alla Costa Azzurra in particolare, dove c’è un monomarca a Saint Tropez. Alle Mauritius, alle Maldive e nel-
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l’isola caraibica di Canouan. Agli Emirati Arabi, con la prossima apertura di uno “shop in shop” all’interno delle Gallerie Lafayette nel Dubai Mall. «Fisico è commercializzato nelle località balneari più prestigiose del mondo. Su tutti, però, la Russia e gli Emirati Arabi rappresentano gli obiettivi di maggior sviluppo previsti in termini di fatturato, e l’attenzione è dunque sicuramente indirizzata verso questi due Paesi, dove esistono già diversi e avanzati contatti per ulteriori sbocchi distributivi» afferma Mario Bergamini, amministratore delegato della Crisfer e marito di cristina Ferrari. Come nascono le vostre creazioni? Vi avvalete anche della collaborazione di designer stranieri o il processo creativo è rigorosamente made in Italy? «Fisico è made in Italy al 100%. Cristina Ferrari, mia moglie, è la creativa. È lei ad avere l’ispirazione iniziale che poi sviluppa e trasforma nella collezione vera e propria insieme al suo team creativo». All’inizio erano i costumi da ba-
gno, poi una linea di pret-à-porter e l’abbigliamento sportivo. Adesso cosa vi aspetta? «La creazione e il lancio del profumo FISICO: sarà una fragranza realizzata in modo artigianale, un’espressione simbolica del corpo e quindi del nostro marchio. Al profumo sarà affiancata una vera e propria linea di cosmetici per il mare: un nuovo progetto ma sempre in piena sintonia con l’immagine del nostro marchio». Qual è il vostro target di riferimento e come riuscite ad anticipare i gusti dei consumatori e a seguirne le tendenze? «Il nostro prodotto si posiziona nella fascia di mercato medio-alta; il prezzo più basso di un bikini si attesta attorno a 130 euro, per arrivare a un tetto di oltre 1.000 euro per il bikini tempestato di cristalli Swarovski. I prezzi elevati sono giustificati dalla scelta dei materiali, microfibra, raso e seta, dall’attenzione alla modellistica e alla facon, nonché dall’arricchimento dei costumi con accessori quali paillettes, guarnizioni me-
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MARIO BERGAMINI Amministratore delegato di Crisfer. Sopra, due modelli del brand piemontese
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«IL SUCCESSO DEL NOSTRO PRODOTTO È DOVUTO AL VALORE DATO ALL’ESTETICA E AL GUSTO, ALL’AMORE PER IL BELLO E IL RAFFINATO, INSIEME ALLA PASSIONE E ALLA CREATIVITÀ DELLE PERSONE CHE COMPONGONO IL NOSTRO GRUPPO E CHE RENDONO ESCLUSIVI I NOSTRI PRODOTTI»
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talliche in smalti colorati, o decorazioni con cristalli Swarovski. La nostra linea beachwear, che si propone oramai come un total look e come un vero e proprio modo di vestire d’estate, si rivolge a un target di consumatrici interessate alla moda e alle nuove tendenze oltre alle peculiarità del prodotto. È un cocktail, all’apparenza abbastanza semplice, che abbinato alla massima attenzione delle esigenze delle nostre consumatrici e al corretto rapporto qualità-prezzo, ci consente di essere vissuti oramai dal pubblico come un marchio “first-mover” al quale rivolgersi con fiducia». Quanto investite in comunicazione? «Noi diamo maggior importanza a fattori quali il prodotto, la distribuzione e l’immagine complessiva del marchio. Detto questo, la comunicazione è sicuramente un elemento importante perché, nel nostro settore in particolare, l’esclusività del prodotto riguarda anche le modalità con cui esso è presentato, pubblicizzato e venduto. È quindi necessario saper posizionare il prodotto, sia attraverso le proprie caratteristiche, sia mediante campagne pubblicitarie e la definizione di una buona strategia di comunicazione. Per noi questo tipo di comunicazione è fondamentale, perché solo in questo modo si riescono a trasmettere i valori e l’identità del marchio raggiungendo così il tuo target di riferimento». Cosa significa oggi fare impresa nel vostro settore? «Nello scenario economico attuale fare impresa significa essere in grado di sfruttare il proprio know how, far leva sulla specializzazione perché ormai il consumatore è sempre più consapevole e meno impulsivo, più attento a ciò che
acquista e disposto a pagare un prezzo elevato per uno stesso prodotto». Quali sono i punti deboli e quali i punti di forza del fashion? «I punti di forza sono la costante ricerca e l’innovazione di prodotto, la qualità, la specializzazione e la creatività. I punti di debolezza, invece, sono un basso livello di integrazione e di cooperazione a livello di filiera, oggi si opera definendo un modello di distretto basato soprattutto sulla vicinanza territoriale. La mancanza di strumenti e progetti capaci di incrementare la produttività delle relazioni fra imprese. La difficile integrazione tra esigenze aziendali e creatività». Tra i vostri plus indicate innovazione, qualità, raffinatezza, esclusività. Come si declinano questi elementi nelle vostre creazioni? «Fisico è stato il precursore di due innovazioni successivamente adottate da tutte le più grandi griffe: l’adozione di materiali morbidi, elasticizzati e di lunga tenuta con la conseguente eliminazione di elastici e cuciture fonte di inestetismi, soprattutto nel costume da bagno e nel bikini; l’introduzione del “bicolore” creando un unico capo reversibile e quindi utilizzabile nei due colori proposti; per quanto riguarda la qualità, oltre che nei materiali utilizzati, l’elevata qualità si riscontra nella lavorazione con applicazione di paillettes, guarnizioni metalliche in smalti colorati, decorazioni con cristalli Swarovski. Infine, il successo del nostro prodotto è dovuto al valore dato all’estetica e al gusto, all’amore per il bello e il raffinato, insieme alla passione e alla creatività delle persone che compongono il nostro gruppo e
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GIOCO DI SQUADRA Bergamini insieme a Cristina Ferrari, sua moglie e mente creativa del marchio
che rendono esclusivi i nostri prodotti». Lo stile italiano è un valore che ha ancora molto da dire oppure questa crisi rischia di farlo capitolare? «Il progressivo peggioramento dello scenario economico mondiale pone in evidenza, per contrasto, le positive performance delle imprese del made in Italy ed è quindi proprio su questo valore che le aziende devono insistere per cercare di limitare, in questa fase, i potenziali danni della recessione. Pronti a ripartire e crescere ancora non appena la situazione lo consentirà. I valori della tradizione e della creatività italiana, hanno ancora grandissimo appeal in tutto il mondo, e dobbiamo quindi cercare di mantenerli, va-
lorizzandoli ulteriormente, e trasmetterli alle nuove generazioni». Quali carte deve giocare il made in Italy per restare competitivo? «I fattori premianti sono il design e l’innovazione di prodotto finalizzati al miglioramento della sua qualità e alla sua caratterizzazione competitiva; la strategia del brand, al fine di associare qualità del prodotto e immagine dell’azienda; la specificità del sistema produttivo e tutte le caratteristiche dell’essere italiani. Sono questi gli aspetti su cui investire sempre per restare competitivi sul mercato». Secondo lei si fa a sufficienza per promuoverlo? «Il made in Italy non ha bisogno di essere promosso: la parola stessa è da sempre sinonimo di eccel-
lenza in tutto il mondo. Sta a noi non adagiarsi, dimenticando che per competere sui mercati internazionali dobbiamo sempre rimanere competitivi». Quali sono le prospettive di crescita per il 2009? «Abbiamo chiuso il 2008 con un incremento del 18% circa sul fatturato dell’esercizio precedente e conteremmo di poter mantenere questo trend positivo anche nel 2009, compatibilmente agli scenari economici che si prospettano assai poco favorevoli. Nonostante ciò, a marzo ci prepariamo all’apertura di un negozio monomarca a Forte Dei Marmi, e nel corso dell’anno ci dedicheremo con particolare attenzione alla possibilità di un secondo negozio a Roma». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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UNA NUOVA LUCE SUL LINGOTTO Maggiore cooperazione con il territorio e con i protagonisti del mercato. Tra bilanci e progetti, Andrea Varnier, direttore generale di Lingotto Fiere, traccia il disegno di una nuova era fieristica per il capoluogo piemontese ANDREA MOSCARIELLO
l mercato fieristico italiano è sotto la lente di ingrandimento. Le strategie attraverso cui un Paese valorizza e promuove i suoi settori merceologici di punta sono un tramite per valutarne il potenziale esistente utile per risollevarsi dall’attuale crisi economica. Anche per questa ragione dalla città di Torino, metropoli centrale nelle pianificazioni economiche del Paese, ci si aspetta una performance trainante per l’intera nazione. Significativo è il fatto, unico per l’Italia, che il suo quartiere fieristico vive grazie a una gestione e a una proprietà immobiliare totalmente privata. E, in particolare, il 2008 ha rappresentato il primo anno interamente gestito dalla società Gl Events. «Un traguardo importante» sostiene Andrea Varnier, direttore generale di Lingotto Fiere, che riflette sulle prospettive di sviluppo di una realtà, quella torinese, «rimasta troppo a lungo nell’ombra rispetto agli altri poli fieristici italiani». Qual è il bilancio relativo all’anno appena terminato? «Per noi, il 2008 è stato un anno
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strategico, di analisi. Posso affermare di essere complessivamente soddisfatto dei risultati ottenuti. Tutti i nostri indicatori principali presentano un trend positivo. Sono cresciuti il numero di espositori, di visitatori e di metri quadrati occupati. Abbiamo, però, gettato solamente le basi per quello che è il nostro progetto legato a un nuovo Lingotto». L’attuale crisi economica ha influito sul giro d’affari della fiera? «Certamente non siamo immuni alla crisi. Per questo dobbiamo confrontarci quotidianamente con un mercato che presenta instabilità e sfide più difficili rispetto al passato. Nonostante questo, gli ultimi mesi hanno dimostrato che la strategia attuata dal Lingotto si è rivelata un valido antidoto a una congiuntura economica tutt’altro che favorevole». Questo confronto ha implicato una nuova messa in discussione del valore legato al polo fieristico torinese? «Il punto principale da cui siamo partiti è che la nostra piazza non è mai stata sufficientemente sviluppata negli anni passati. Il che, ov-
ANDREA VARNIER Come direttore generale di Lingotto Fiere, ha intenzione di aumentare il numero di eventi e iniziative anche non fieristiche
viamente, rappresenta un paradosso. Una metropoli come Torino non può avere una fiera di serie B. Deve dimostrarsi competitiva, propositiva rispetto alle richieste del mercato e pronta a offrire spazi comunicativi moderni. Torino si merita una fiera migliore». La gestione da parte di un gruppo internazionale come Gl
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Events cosa ha significato? «Abbiamo migliorato la nostra proposta sul mercato internazionale. Potendo confrontarci con i nostri colleghi in giro per il mondo è stato possibile attuare un benchmarking sulle modalità di gestione». Quello torinese è un caso unico in Italia. Il Lingotto è un quartiere fieristico a gestione interamente privata. Questo significa anche una minore interazione con le istituzioni? «L’elemento privato non porta a
un distacco dalle istituzioni cittadine, deve invece rappresentare un dato virtuoso. Nel caso del capoluogo piemontese equivale a un valore aggiunto. Da parte del Lingotto vi è una grande attenzione riposta verso il tessuto economico che, chiaramente, costituisce il nostro bacino di utenza. Proprio perché si tratta di un’azienda privata, l’inefficienza non è ammessa». Ciò che contraddistingue il Lingotto è anche la sua posizione all’interno del tessuto urbano. «La collocazione della fiera ci con-
sente di essere fisicamente vicini a tutta quella cittadinanza che generalmente non è interessata alle nostre esposizioni. Per questo abbiamo iniziato a ospitare anche eventi non necessariamente di natura fieristica. Un punto di vantaggio sia per la nostra società, sia per la cultura torinese». Quali interventi servono per valorizzare al massimo il quartiere? «Torino, per la sua importanza come area metropolitana e per il suo bacino, necessita di un tasso di sviluppo fieristico molto più avanPIEMONTE 2009 | DOSSIER
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FIERE & BUSINESS Andrea Varnier
zato rispetto a quello riscontrato fino a oggi. La direzione da intraprendere deve rafforzare gli eventi di punta e, al tempo stesso, trovare nuove soluzioni per quelle aree di mercato che ancora non sono state esplorate. Questo è attuabile soltanto con la massima collaborazione da parte degli enti locali. È necessario quindi anche un intervento pubblico, purché sia costruttivo e razionalizzato». Quanta attenzione ripone la città nel mercato fieristico? «In questo momento abbiamo un ottimo rapporto con le istituzioni. Il momento è difficile ma tutti sono consapevoli del fatto che la crescita del mercato fieristico è una grande occasione di sviluppo per la città e non solo. Torino ha beneficiato in termini di notorietà complessiva grazie alle Olimpiadi invernali del 2006. Culturalmente, un elemento importante perché ha reso tutti gli attori del tessuto locale più consapevoli dei vantaggi portati da una buona promozione del
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«I POLI FIERISTICI DEVONO RAPPRESENTARE DELLE VERE E PROPRIE PIATTAFORME COMUNICATIVE LEGATE IL PIÙ POSSIBILE ALLE ESIGENZE DEL MERCATO».
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PROGETTI Per il 2009, il Lingotto ospiterà un nuovo salone dedicato all’agricoltura. “Campus” si terrà alla fine del mese di marzo
territorio. Auspico quindi di raccogliere i frutti di questa nuova presa di coscienza, ovvero maggiori investimenti e cooperazione». L’accesa competizione tra le fiere italiane rappresenta un punto di forza per il sistema nazionale? «Credo che la concorrenza, se corretta, costituisca sempre un vantaggio per tutti. Essendo la nostra una realtà in crescita e decisamente più ridotta rispetto agli altri principali poli fieristici nazionali, mi risulta difficile offrire un’analisi esauriente riferita al mercato italiano. Mi auguro, nei prossimi anni, di poter trasformare la città di Torino in un punto di riferimento per l’intero Paese. Solo allora potremo porci come osservatori attendibili per l’Italia e l’Europa».
È corretto affermare che questa competizione, oggi, non si basa più esclusivamente sui dati numerici? «Certamente. Oggi le fiere non sono più degli spazi vuoti offerti al mercato. Il valore aggiunto si riconosce in un know how, in un’abilità strategica che non si improvvisa. I poli fieristici devono rappresentare delle vere e proprie piattaforme comunicative legate il più possibile alle esigenze del mercato. Per cui la comprensione di questo fenomeno e la volontà di rendersi flessibili nei confronti di organizzatori ed espositori, sono la chiave di volta. Credo che, se per le altre fiere possono essere le istituzioni, con i loro mezzi e le loro competenze, a rappresentare il punto di forza, per il
Lingotto potranno essere la dimensione e la varietà di esperienza di Lg Events, a garantire competitività». Quali sono i progetti principali per il 2009? «Stiamo partecipando a una gara indetta dal comune di Torino per la gestione di una struttura costruita in occasione delle Olimpiadi 2006, l’Oval, che si trova a ridosso del nostro quartiere. Sarebbe un grande supporto per aumentare l’offerta espositiva. Inoltre stiamo organizzando nuove iniziative. La prima avrà luogo alla fine di marzo e si chiamerà “Campus”. Si tratta di un salone dedicato alle innovazioni agricole, che andrà a rafforzare l’offerta fieristica legata al settore enogastronomico di cui Torino sta diventando la capitale». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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L’ESTETICA VESTE LA QUOTIDIANITÀ Stile e funzionalità. Dai soli rubinetti degli inizi all’arredo bagno completo degli ultimi anni. Elena Zucchetti, amministratore delegato e direttore marketing e sviluppo prodotto del Gruppo di famiglia, spiega il successo dovuto alla qualità e alla ricerca di soluzioni all’avanguardia CONCETTA S. GAGGIANO
viluppo, innovazione e progettazione, tutto rigorosamente made in Italy. Da Zetamix 6000, il primo miscelatore monocomando prodotto in Italia nel 1975, Zucchetti è arrivata fino a Isy, il primo miscelatore con cartuccia a scomparsa sulle cui basi, comuni per tutti gli articoli della serie, si può inserire un numero quasi infinito di leve e bocche. Da ottant’anni la storica azienda produttrice di rubinetti fa tutto in Italia, attraverso cinque stabilimenti dislocati tra Gozzano e Antegnate, 450 dipendenti, una produzione annua che supera i 5 milioni di articoli esportati in più di cento paesi, dall’Europa all’Estremo Oriente. La gamma di prodotti Zucchetti spazia in tutte le versioni della rubinetteria cromata, dai modelli più tradizionali ai monocomandi, dagli elettronici ai termostatici. Fino all’arredo bagno. Grazie all’ultima arrivata, Kos, azienda produttrice di vasche da bagno e box doccia di design, con sede a Pordenone. Non solo rubinetti quindi, perché in un mercato dinamico e sempre alla ricerca di nuove soluzioni, a Gozzano hanno pensato che non si può stare fermi e che alla tradizionale qualità della rubinetteria si poteva aggiungere un total look firmato Zucchetti. «Oggi con i nostri prodotti possiamo arredare completamente un ambiente bagno, la nostra rubinetteria e i nostri accessori si completano con le vasche da bagno, i box doccia e i lavabi di KOS, icona di eleganza e alta qualità» spiega Elena Zucchetti, amministratore delegato e direttore marketing e sviluppo prodotto, che fa parte della terza genera-
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ELENA ZUCCHETTI Amministratore delegato e direttore marketing e sviluppo prodotto del Gruppo di famiglia
Elena Zucchetti
zione. E con il fratello Carlo, presidente della società, ha il compito di continuare la storia dei rubinetti Zucchetti tra innovazione e tradizione. Zucchetti è un marchio storico che esiste da 75 anni. Quando avete cominciato a puntare sul design applicato alla rubinetteria? «Zucchetti è stata fondata nel 1929, festeggiamo quindi ormai gli 80 anni e la nostra produzione è sempre stata dedicata alla rubinetteria. I primi approcci con il design risalgono agli anni 70 quando mio padre Mario si rivolse allo Studio Nizzoli per il progetto di Zetamix 6000, il primo miscelatore monocomando prodotto in Italia, un prodotto che ha segnato davvero una rivoluzione, sia dal punto di vi-
sta tecnologico che da quello formale. La strada era aperta e Zucchetti ha proseguito le collaborazioni con noti architetti del panorama internazionale fino a oggi». Come siete riusciti a raggiungere quella “vocazione estetica” che è alla base della vostra filosofia d’azienda? «Sono convinta che fosse nel nostro Dna, la naturale evoluzione di un percorso che ha radici lontane. L’azienda ha sentito la necessità di emergere non solo per l’indiscussa qualità del prodotto, ma anche per una costante coerenza estetica, attraverso la collaborazione con i designer, l’attenzione ai gusti contemporanei, l’estrema cura per ogni particolare, l’ap-
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partenenza di ciascun prodotto a un suo mondo». Come si individuano oggi i talenti emergenti nel campo del design con cui collaborate? «Più che rintracciare talenti emergenti, cerchiamo di individuare il progettista che, per la sua personalità ed esperienza, appare il più idoneo a interpretare l’obiettivo che in quel momento l’azienda vuole raggiungere. Il nostro focus è quindi in prima battuta sul progetto che in quel preciso periodo può suscitare i desideri del mercato e così sono nate le nostre collaborazioni con Matteo Thun, Ludovica+Roberto Palomba o William Sawaya, solo per citarne alcuni». Gusto e praticità. Oggetti scultorei creati non solo per essere contemplati, ma anche toccati, sentiti, vissuti ogni giorno. «Crediamo che il segreto sia dedicare la stessa attenzione progettuale a ogni ambiente della casa e quindi a ogni singolo oggetto. Ogni nostro prodotto suggerisce una specifica scelta di gusto, ma è anche dedicato a una particolare funzione, che quindi va sperimentato e utilizzato ogni giorno». Il design italiano ha ancora caratteristiche riconoscibili? «Sì, penso che il design italiano abbia ancora delle caratteristiche ben riconoscibili e sia universalmente apprezzato». In quale maniera si riesce a sposare efficacemente il design con la funzionalità e l’utilizzo dei nuovi materiali? «Design nel nostro modo di vedere non è un semplice esercizio di stile. È piuttosto design industriale cioè un insieme di attività che possono realizzarsi solo attraverso la collaborazione di un gruppo di persone, che raccolga le varie competenze necessarie alla realizzazione del progetto. È quindi naturale che i vari ambiti di ricerca, formale, funzionale, materico, vengano sviluppati insieme e si integrino perfettamente». Ricerca, innovazione, design. Come si riesce a essere al tempo stesso innovativi e riconoscibili raggiungendo una propria cifra stilistica nel campo della rubinetteria? «Zucchetti è nel tempo coerente con la propria filoDOSSIER | PIEMONTE 2009
sofia e la propria visione, che si possono sintetizzare in 3 parole Water, Wellness, World. Water perché il rubinetto è un prodotto per la gestione dell’acqua, elemento quanto mai prezioso di cui va fatto un uso conscio e consapevole. Wellness perché il benessere è valore essenziale, connaturato al potere rigenerante e taumaturgico dei prodotti per bagno. World perché Il mondo è primaria fonte di ispirazione ed il destinatario ultimo. Lo stile Zucchetti si identifica con la contemporaneità, ogni collezione pur nella sua individualità, rientra in un progetto globale che, mantenendo l’identità del brand, è in grado di comprendere le complessità della società internazionale e di dialogare con culture diverse». Quando è che la rubinetteria da elemento di arredo funzionale e indispensabile riesce a divenire anche elemento di architettura? «Oggi un rubinetto di design è anche elemento architettonico e non solo funzionale. Questa valenza del prodotto si è maturata grazie allo “sdoganamento” del bagno, non più stanza di servizio ma ambiente della casa con pari dignità rispetto agli altri. Tale evoluzione ha portato a un nuovo interesse per tutti gli oggetti del mondo bagno e in particolare per la rubinetteria, prodotto che più di altri, per la sua complessità, ha consentito una evoluzione formale e tecnologica. Sono state individuate nuove tipologie di prodotto che consentono una maggior libertà progettuale: rubinetteria a muro, o free standing, colonne doccia o grandi soffioni a pioggia. Dal punto di vista formale sono emerse diverse correnti di gusto dalla minimalista alla scultorea, dalla eclettica alla organica, tutte ugualmente attuali». Come riuscite a seguire le tendenze del design o ad anticiparle nel vostro settore? «Siamo calati in una realtà globale e multiculturale, che ci fornisce molteplici spunti di riflessione e idee da sviluppare: da qui partiamo per i nostri progetti, con l’obiettivo di regalare un sogno, di suscitare i desideri e suggerire le nuove tendenze». Qual è la ricetta della competitività del made in Italy? «Le aziende italiane si distinguono per la capacità di innovare, di comunicare il brand, di garantire un
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servizio impeccabile, di fornire un prodotto di design in cui l’attenzione ai dettagli e la qualità sono ai massimi livelli. Sono infine aziende a misura d’uomo dove il rapporto umano ricopre ancora un valore molto alto. Tutto questo consente di essere competitivi in un mercato globale sempre più spersonalizzato». E quali sono nel vostro settore le caratteristiche e le qualità associate all’idea di made in Italy? «Nel mondo della rubinetteria made in Italy è sinonimo di prodotto di qualità e design. Per noi vuol dire affidarsi alla competenza e al know how di maestranze italiane, da sempre complici del nostro successo». Il settore ha subito i contraccolpi della congiuntura economica?
«In generale anche il settore bagno ha subito contraccolpi negativi per la congiuntura economica sfavorevole. Per quel che ci riguarda abbiamo ottenuto comunque buoni risultati anche nel 2008, perché vendiamo principalmente un prodotto di alta gamma, destinato a una fascia di mercato che ha risentito molto marginalmente della crisi internazionale». Quali strategie occorre mettere in campo per combattere il calo dei consumi? «È essenziale presidiare i mercati, far sentire il supporto della azienda ai clienti e ai punti vendita a 360 gradi, fornendo consulenza e materiali per l’esposizione, investendo in comunicazione e sapendo mantenere la fiducia che i nostri partner commerciali ci hanno finora dimostrato».
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IL PUNTO Claudio Siciliotti
LE RISORSE DEL PAESE NON VANNO DISPERSE Evitare di accrescere il debito pubblico. Con provvedimenti poco incisivi. Tra questi anche il “bonus famiglia”. Che è dispersivo. Non aiuta più di tanto i consumi. E presenta alcune anomalie dal punto di vista fiscale. Secondo Claudio Siciliotti, per superare la crisi sarebbe più utile sostenere economicamente e finanziariamente le Pmi MARILENA SPATARO
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IL PUNTO
CLAUDIO SICILIOTTI Presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili con mandato dal 2008 al 2012
ono vari e apprezzabili i tentativi che il governo, attraverso una serie di provvedimenti, sta cercando di mettere in atto per affrontare l’attuale crisi. «Ma nel complesso non si tratta di interventi sufficientemente incisivi» sottolinea Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. Secondo Siciliotti, infatti, la sensazione che in merito si ricava, specialmente dopo l’abrogazione dell’Ici sulle prime case e la scelta o necessità di farsi carico delle passività di Alitalia, è che il nuovo esecutivo abbia davvero poche risorse da mettere sul piatto «salvo naturalmente ricorrere a un tangibile aumento del debito pubblico». «Da più parti è stata rimproverata al ministro Giulio Tremonti proprio questa chiusura rispetto all’ipotesi
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di sfruttare la maggiore flessibilità sul debito e sugli aiuti di Stato che l’Europa sembra incline a riconoscere agli Stati membri per meglio fronteggiare la crisi» sottolinea il presidente, che nell’analizzare le misure in atto, illustra il suo punto di vista su come muoversi per trovare soluzioni «anticrisi» efficaci e durature. Qual è il suo giudizio sugli attuali provvedimenti adottati dal governo per combattere la crisi, con particolare riferimento a quelle di natura fiscale? «Non vorrei alimentare equivoci. Le misure adottate sono forse insufficienti, ma trovo condivisibile che, nonostante il via libera europeo, il governo non abbia voluto prendere in considerazione l’ipotesi di intervenire in modo più consistente a prezzo di un aumento significativo del debito pubblico. La flessibilità europea,
infatti, non ci regala nuove risorse, ma soltanto la possibilità di spendere oggi le risorse di domani. In una situazione di straordinaria difficoltà come quella attuale, una simile eventualità può senz’altro essere presa in considerazione, soprattutto ora che è possibile metterla in atto senza entrare in conflitto con l’Europa, ma deve esserne chiara la finalità: spendere oggi le risorse di domani appunto per garantirsi un domani, non semplicemente per alleviare i problemi contingenti e immediati del presente, arrivando al paradosso di rendere ancor più incerto il suo futuro. Bene fa dunque il governo a voler riflettere a fondo prima di “allentare i cordoni della borsa”». Quindi si può ricorrere all’indebitamento come extrema ratio e comunque solo nell’ottica di ottenere risultati sul medio e PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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IL PUNTO Claudio Siciliotti
IL TEAM Siciliotti e il consiglio dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili al completo
lungo periodo, senza cedere alla tentazione di supportare esclusivamente la spesa corrente? «Esatto. Abbiamo tutti giustamente stigmatizzato in questi mesi i comportamenti di molti top manager di banche d’affari che, per massimizzare i rendimenti delle proprie aziende nel breve periodo, e portarsi così a casa incentivi milionari, hanno portato le medesime sull’orlo del baratro, se non nel baratro stesso. Sarebbe suicida vedere questo schema comportamentale replicato su scala politica e sindacale. Proprio perché apprezziamo la scelta del governo di non voler percorrere con adeguata ponderazione la via dell’incremento del debito pubblico, come strumento mediante il quale aumentare le risorse disponibili per fronteggiare la crisi, dobbiamo però maDOSSIER | PIEMONTE 2009
nifestare un po’ di delusione a fronte della eccessiva dispersione delle limitate risorse che si è inteso rendere disponibili con i cosiddetti provvedimenti anti-crisi». Che cosa intende con “eccessiva dispersione”? «Significa che, quando le risorse non abbondano, bisognerebbe cercare di privilegiare interventi mirati, così da non determinare effetti di dispersione che, alla fine dei conti, tendono ad azzerare l’effettiva idoneità di un intervento a raggiungere gli obiettivi dichiarati». Si riferisce agli obiettivi dichiarati di sostenere i consumi delle famiglie e l’operatività delle imprese? «Come più volte detto e scritto in recenti occasioni, dove si fosse dovuto scegliere e, conti alla mano, si sarebbe davvero dovuto
scegliere, sarebbe stato preferibile privilegiare il sostegno all’impresa, specie quella piccola e media. Non per un interesse di parte, poiché siamo noi stessi lavoratori e non imprese, ma perché siamo consapevoli della centralità della piccola e media impresa nel tessuto economico di questo Paese, almeno quanto siamo consapevoli della nostra centralità nel rapporto che lega questo mondo con il resto del Paese. Io sono friulano e ricordo che quando ci fu il tragico terremoto del Friuli il motto di tutti i friulani era: prima ricostruiamo le imprese e dopo le case. Non perché in Friuli ci piaccia dormire all’addiaccio, ma semplicemente perché, se non c’è il lavoro, la casa non ce la si può permettere e, se anche te la regalano, non si riesce a mantenerla. Questione di
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filosofia di vita, oserei dire». Eppure anche gli aiuti alle famiglie mediante i cosiddetti “bonus” possono essere letti nell’ottica di un indiretto supporto alle imprese, posto che, senza i consumi delle famiglie, le imprese chiudono. «È indubbio che le imprese, per sopravvivere, abbisognano che non si verifichi un crollo nei consumi, ma se non vi sono le risorse che consentono di impostare un adeguato piano di sostegno ai consumi, allora sarebbe meglio concentrare quelle poche risorse direttamente sul sostegno finanziario ed economico delle imprese. Il cosiddetto “bonus famiglie”, dato il suo ammontare, può qualificarsi come un sostegno alla sopravvivenza, piuttosto che ai consumi». Ritiene il “bonus famiglie” sia un provvedimento che, in ragione della sua entità, sia utile? «Assolutamente no. Il “bonus famiglie” rappresenta un apprezzabile sostegno alla sopravvivenza elementare di destinatari per i quali anche somme sostanzialmente modeste possono fare la differenza. Resta il fatto però che si tratta di un intervento che ha poco a che vedere con la fiscalità anti-crisi e che semmai attiene alla diversa questione del sostegno al reddito dei ceti più deboli: problematica senz’altro merite-
vole della massima attenzione, ma che in larga parte prescinde dal fatto che sia in corso una fase di recessione economica. Un lavoratore dipendente con familiari a carico che guadagna 15mila euro e non arriva a fine mese, non è che non ci arriva perché c’è la crisi, bensì appunto perché guadagna 15mila euro e ha familiari a carico. Il peggioramento della sua condizione che può derivargli dalla crisi è che, per effetto di essa, l’azienda in cui lavora sia costretta a chiudere ed egli si ritrovi senza nemmeno il suo stipendio». Sulla questione della discriminazione che viene operata tra coloro che hanno sottoscritto mutui per la casa a tasso fisso e coloro che li hanno invece sottoscritti a tasso variabile, qual è il suo punto di vista? «Il tema mi appassiona relativa-
mente, anche perché, se di provvedimenti discriminatori bisogna parlare, allora è proprio sul “bonus famiglie” che bisogna soffermarsi. Infatti, nell’istante in cui, tra i requisiti per poterne fruire, si prevede che nel reddito del nucleo familiare non devono confluire redditi di lavoro autonomo e di impresa, si lancia il seguente messaggio subliminale: la povertà di chi dichiara redditi di un certo tipo sarebbe vera, quella di chi dichiara redditi di altro tipo no. Non è difficile immaginare da dove siano arrivate le pressioni sul governo per la costruzione di una norma che, seppur in via implicita, sostituisce il principio di perequazione fiscale con quello della discriminazione fiscale, nel nome di un’inaccettabile presunzione implicita di evasione, senza per altro possibilità di prova contraria da parte del cittadino». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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UNA CATEGORIA IN EVOLUZIONE Il notaio svolge, da sempre, una funzione fondamentale per l’equilibrio sociale e civile. Ma deve essere in grado di stare al passo coi tempi, se non addirittura anticiparli. Così Paolo Piccoli, presidente del Consiglio nazionale del notariato, ha portato la professione nel secondo millennio, conservando il valore di una tradizione secolare DANIELA PANOSETTI
odernizzazione. Seguendo questa parola d’ordine, nell’ultimo decennio il notariato italiano ha letteralmente cambiato volto. Nuovo regolamento deontologico, che ha precorso molte innovazioni professionali in seguito accolte dal legislatore. Modifica graduale delle modalità di accesso e di formazione professionale. E una rete telematica all’avanguardia, che collega in tempo reale i 5mila notai italiani con gli archivi pubblici più importanti. Una realtà lontanissima dall’immagine stereotipata del notaio sepolto da timbri e polverose scartoffie. Il notaio di oggi è immerso attivamente ed efficacemente nella realtà sociale ed economica del nuovo millennio. La funzione sociale rimane quella, fondamentale, di sempre: garantire, sotto la propria personale responsabilità, la certezza del diritto, diminuendo i rischi di lite e di incomprensioni tra le parti. Ma gli strumenti con cui il notaio persegue tale funzione sono cambiati moltissimo. Paolo Piccoli, al secondo mandato come presidente del Consiglio nazionale del notariato, spiega come e perché questa professione rappresenti, come recita il titolo dell’ultimo congresso nazionale dell’Ordine, una “istituzione essenziale per il Paese”. Come dimostra, peraltro, il protocollo d’intesa
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PAOLO PICCOLI Presidente del Consiglio nazionale del notariato dal 2004, è stato riconfermato per il triennio 2007-2010. Tra le riforme di categoria realizzate durante il suo mandato, la costituzione della rete telematica Notartel
Professione Notaio
firmato a dicembre, nell’ambito del progetto “Reti Amiche”, dal presidente Piccoli e dal ministro della pubblica amministrazione e l’innovazione Renato Brunetta, che prevede già da questo mese la possibilità di visionare e ritirare certificati anagrafici e di stato civile direttamente presso lo studio notarile. «Riducendo ulteriormente costi e tempi – ha dichiarato Piccoli durante l’incontro – e aumentando, di conseguenza, la soddisfazione del cliente e del cittadino».
Lei fa parte del Consiglio nazionale dal 1995 e dal 2004 ne è presidente. Come è cambiata la professione in questo lasso di tempo? «In questi anni il notariato ha intrapreso una serie di riforme che lo hanno portato a una vera e propria svolta, che per molti aspetti lo pone decisamente all’avanguardia rispetto alle altre professioni. Sono state ripensati, tra l’altro, il controllo sulla qualità della prestazione, il livello di informatizzazione, l’efficienza e la rapidità delle
prestazioni. Nel 2006 sono state modificate le modalità di accesso alla professione e l’anno dopo è diventata legge l’assicurazione obbligatoria, di cui il nostro ordine si era volontariamente dotato già nel 1997. Per i rarissimi casi dolosi, inoltre, il notariato ha istituito un fondo di garanzia, anch’esso ora previsto dalla legge». A livello normativo, ci sono state riforme che hanno influito in modo particolare sull’attività notarile negli ultimi anni? «Molte delle norme sulle liberalizza-
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zioni delle professioni, in realtà, le abbiamo anticipate. Già nel 2005, ad esempio, abbiamo introdotto la pubblicità, anche se solo di tipo informativo e non certo per attirare nuovi clienti: una pratica scorretta per qualsiasi professionista e a maggior ragione per il notaio, in quanto pubblico ufficiale». Eppure, il ruolo del notaio in Italia è ancora circondato da molti preconcetti: lo si accusa di immobilismo e di rappresentare una casta. Come rispondere a queste accuse? «Con i numeri e i fatti, che dimostrano quanto tali luoghi comuni siano lontani dalla realtà attuale. L’opinione comune è che i notai siano tutti “figli d’arte”, ad esempio. In realtà, tra gli iscritti, la percentuale dei figli di notai è solo del 17,5%. Questo a causa della forte
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selettività del concorso, superato in media solo dal 6% dei partecipanti, che sono migliaia. Un altro elemento interessante è la presenza femminile che, nella fascia d’età fino ai 50 anni, arriva al 40%, con una media assoluta del 27%, mentre l’età media di accesso alla categoria, in base ai nostri dati, è tra i 27 e i 30 anni. Inoltre, a differenza dell’immagine comune “tutta carte e bolli”, i notai sono professionisti fortemente tecnologici: ogni atto è trasmesso, modificato e aggiornato in via telematica ai pubblici registri dell’Agenzia delle entrate, del territorio e delle Camere di Commercio». Nell’era dei servizi telematici, delle firme digitali e della semplificazione burocratica, come può sopravvivere una professione come quella del notaio? «Il notariato, ormai dieci anni fa,
ha avuto l’intuizione di investire sulle tecnologie informatiche. Così, nel 1997, è nata Notartel, la società che senza alcuna spesa per lo Stato realizza e gestisce Run, la rete telematica che collega i 5mila notai italiani e fornisce, a cittadini, imprese e pubblica amministrazione una serie di servizi online come l’accesso in tempo reale agli archivi pubblici, al Catasto, ai registri immobiliari e delle imprese. Il notariato, in questo modo, è riuscito a porsi come un partner affidabile dello Stato nella decongestione dei costi pubblici, senza tuttavia abbassare il livello né della protezione dei soggetti più deboli, né della certezza dei pubblici registri». Qualche cifra che possa rendere l’idea di questa innovazione tecnologica?
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«Dal 2003 all’agosto 2008 sono stati registrati per via telematica più di 11mila atti, per i quali sono stati versati allo Stato tributi per quasi 28 miliardi di euro a costo zero per la collettività, dato che i notai non percepiscono aggio per l’esazione, pur essendone pienamente responsabili. Nel 2007 sono state realizzate online 10 milioni di visure catastali e 7 milioni di visure ipotecarie. Con questo sistema, inoltre, oggi servono 4 giorni, anziché 150, per la costituzione e l’iscrizione al registro delle imprese di una nuova società». Come valuta l’attuale modalità di accesso alla professione? «Il numero programmato, come per i magistrati, nasce dalla necessità di avere un corpo di pubblici ufficiali fortemente competenti, nonché dai rilevanti controlli cui siamo sottopo-
sti dall’amministrazione della Giustizia e della Finanza. In Olanda, dove la riforma del 99 ha abolito il numero chiuso, l’aumento dei notai è stato del 12%. Noi, invece, abbiamo chiesto un aumento del 20% dei posti, a cui si aggiunge la riduzione della pratica da 24 a 18 mesi. Ciò mostra chiaramente la volontà del notariato di favorire concretamente l’ingresso dei giovani, sostenendoli anche economicamente grazie a un programma triennale di borse di studio, che ha coinvolto come membri della commissione figure di primo piano come Ferruccio De Bortoli, Gianni Letta e Alberto Quadrio Curzio». Il titolo dell’ultimo congresso nazionale fa riferimento esplicito all’importanza dell’istituzione notarile per il Paese. In cosa risiede soprattutto questa
funzione sociale? «Prima di tutto nel suo ruolo di garante della certezza dei diritti, fondamento della pace sociale e della serenità personale. Non bisogna dimenticare che la sicurezza giuridica preventiva è un elemento irrinunciabile per lo sviluppo civile ed economico del Paese. Quello che il cittadino deve temere sono proprio le false semplificazioni, che nascondono in realtà biechi tentativi di accaparrarsi fette di mercato, senza controlli né garanzie. Non a caso da noi è sconosciuta la figura del real estate litigator, l’avvocato americano specializzato in controversie sulla proprietà degli immobili. E non a caso il grande avvocato italiano Francesco Carnelutti ebbe a dire: “Tanto più notaio, tanto meno giudice”».
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ANTONIO MARIA COSTA Direttore esecutivo dell’Ufficio Onu contro droga e crimine
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FACCIAMOLI FINIRE IN BANCAROTTA Un giro d’affari enorme. Un fenomeno di proporzioni mondiali che si fonde con il terrorismo e il riciclaggio di ingenti capitali illeciti. Per contrastare il narcotraffico servono nuove strategie, e un lavoro di cooperazione più efficace. La linea dura di Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Ufficio Onu contro Droga e Crimine STEFANO RUSSELLO
ell’epoca della globalizzazione, anche la lotta alla droga si fa più complicata. L’evoluzione del fenomeno ha scatenato una sorta di mondializzazione del traffico illecito, con una diffusione capillare che oggi colpisce anche l’Africa e il Medio Oriente. Svanisce l’antica distinzione tra Paesi fornitori e Paesi di transito, si abbassa l’età media dei consumatori e si allarga rapidamente la diffusione delle nuove droghe di sintesi, più economiche e più facili da produrre. Logico, quindi, che per combattere il fenomeno, anche le istituzioni internazionali debbano innovarsi e aggiornarsi costantemente, trovando nuove strategie per ostacolare il narcotraffico mondiale. Un compito difficile e complesso, «un serio lavoro di prevenzione, terapia e repressione». È questa la strategia di Antonio Maria Costa, che dal 2002 ricopre l’importante ruolo di direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, agenzia leader nel contrasto a droga, crimine internazionale e terrorismo. Operativo dal 1971, l’Unodc ha attraversato un lungo processo di ristrutturazione, per arrivare oggi a un approccio integrato nella lotta a
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questi tre fenomeni. Che parte dalla fase di ricerca e analisi e arriva fino al lavoro normativo dei trattati internazionali. Senza dimenticare la cooperazione tecnica sul campo. Il mercato mondiale della droga continua a rappresentare uno dei business più importanti della malavita organizzata. Come si è evoluta la situazione negli ultimi 10 anni? «Il giro d’affari è enorme. Nel 2005 il nostro Ufficio lo ha stimato intorno ai 322 miliardi di dollari, una cifra pari al Pil della Svezia, che è la 19° economia mondiale. La parte più importante è generata dalla marijuana, 32%, poi dagli oppiacei e dalla cocaina, 20-22% ognuno, il resto dalle droghe sintetiche, estasi e anfetamine». La presenza di un mercato così forte e così duraturo dimostra che la domanda non cessa di esistere nonostante leggi proibizioniste e l’azione costante delle polizie. Cosa si potrebbe fare di più? «Negli ultimi anni il mercato mondiale della droga si è stabilizzato, nella domanda quanto nell’offerta. Alcune aree di produzione, parlo della coca in Colombia e della can-
nabis in Marocco, mostrano una diminuzione, mentre altre sono in crescita, come l’oppio in Afganistan. In generale la tendenza rimane stabile. L’uso della cocaina cala negli Usa, ma aumenta nel Vecchio Continente. Parallelamente assistiamo a un calo dell’eroina in Europa occidentale, ma un aumento all’Est. È chiaro che dobbiamo fare di più. E una maggiore politica di prevenzione rappresenta sicuramente la migliore terapia. Ovviamente l’opera di contrasto va coordinata internazionalmente». Qual è la situazione della cooperazione tra le polizie? «Il coordinamento è discreto, almeno in Europa, anche se rimangono problemi nella lotta al riciclaggio. Abbiamo vari accordi internazionali, ma in confronto al giro d’affari generato dal narcotraffico, la loro efficacia è modesta. Perché ci si concentra troppo sui flussi di capitali del sistema bancario e finanziario, senza comprendere fino in fondo che esistono molte altre aree in cui le mafie internazionali possono bonificare le loro enormi somme. Basti pensare al settore edilizio, a quello turi-
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stico o al gioco d’azzardo. Poi c’è la mafia borghese e dei colletti bianchi, numerosi centri finanziari che collaborano con la criminalità organizzata, offrendo servizio ed esperienza in cambio di lauti profitti, con rendimenti annuali anche del 25%». C’è chi continua a sostenere che l’unica soluzione possibile sia l’antiproibizionismo. Qual è la sua posizione? «Le Convenzioni delle Nazioni Unite hanno stabilito una precisa politica di controllo delle droghe illecite nel mondo intero. E sicuramente hanno avuto un risultato positivo, dal momento che hanno contenuto la tossicodipendenza a livelli molto più bassi rispetto a quelli dei consumi di tabacco e alcool, le cosiddette droghe legali. Il tabacco è consumato dal 30% della popolazione mondiale e uccide 5 milioni di persone all’anno, mentre l’alcool ne uccide 2.5 milioni. Le droghe illecite, invece, sono consumate dal 5% della popolazione mondiale, i tossicodipendenti cronici rappresentano lo 0,5% e muoiono solo 200mila persone all’anno. Quindi posso affermare con certezza che il proibizionismo funziona». E proprio seguendo queste indicazioni, l’Olanda restringe mese dopo mese le sue politiche antiproibizioniste. «Abbiamo esaminato attentamente l’esperienza olandese e siamo d’accordo con quelle politiche. Si tratta di un serio lavoro di prevenzione, terapia e repressione. Il numero dei coffee shop dove si vende marijuana legalmente è in forte declino e le restrizioni imposte sono in aumento. Finiranno in bancarotta progressivamente. Un’azione coraggiosa portata avanti dall’amministrazione municipale, che prevede misure egualmente severe contro lo sfruttamento dei minori, la prostituzione in vetrina e i bordelli dove si pratica la tratta delle donne».
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«LE CONVENZIONI DELLE NAZIONI UNITE HANNO STABILITO UNA PRECISA POLITICA DI CONTROLLO DELLE DROGHE ILLECITE NEL MONDO INTERO. E SICURAMENTE HANNO AVUTO UN RISULTATO POSITIVO» Parlando di informazione e prevenzione, qual è secondo lei lo Stato che ha organizzato la campagna più efficace? «Senza esitazione segnalo la Svezia, il Paese modello in questo campo, con forti investimenti finanziari e politici nella prevenzione, nella terapia e nella severità della pena per i trasgressori. C’è una ragione dietro a tutto questo: la Svezia ha sofferto molto a causa della droga negli anni 60, per questo ha introdotto da tempo strumenti mo-
derni ed efficaci». In Italia, invece, le norme restrittive e preventive oggi in atto sono sufficienti? «L’Italia ha bisogno di riconoscere che la tossicodipendenza è una malattia che può essere prevenuta, deve essere curata e va confrontata con tutti gli strumenti sanitari necessari per contenerne la diffusione. Esami nelle scuole, come si fa per la Tbc, test nelle strade, come si fa per l’alcool, e tante altre soluzioni. La politica sanitaria
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GIRO D’AFFARI Il mercato della droga muove oltre 320 miliardi di dollari l’anno. Il 50% è in mano alle organizzazioni mafiose internazionali
deve smettere di discriminare i tossicodipendenti, e renderli invece partecipi dei programmi sviluppati per le altre malattie. All’opposizione consiglio di abbassare i toni della politica ideologica: la droga è una minaccia, individuale e collettiva, troppo seria per essere gestita dalle segreterie dei partiti politici, o essere usata come strumento di campagna elettorale. Non ci deve essere una politica di destra o di sinistra nella terapia della droga, tantomeno dettata da ideologie. Negli ultimi 15 anni la politica anti droga in Italia è cambiata diametralmente almeno 5 volte e l’opinione pubblica è confusa. Oggi il Paese è ben avviato verso una politica di prevenzione, terapia e repressione, bilanciata ed efficace». Torniamo alla criminalità internazionale. Oggi quali sono “le capitali” della produzione di stupefacenti? «L’Afganistan per oppio ed eroina, 95% del mercato mondiale, la Colombia per la cocaina, che rappresenta il 70% del mercato, e il Ma-
rocco per l’hashish, anche se qui la percentuale è difficile da stabilire con precisione». In termini puramente numerici, che giro d’affari muove questo mercato? «Oltre 320 miliardi di dollari. Il 5% di questo reddito immenso è ricavato dai contadini che coltivano droga, il 50% è in mano alle organizzazioni mafiose internazionali. Il resto è generato dalla vendita al dettaglio». Spesso si tende a creare l’assioma produzione di droga – terrorismo. Quanto c’è di vero? «Tantissimo. Ovviamente giocano un ruolo importante anche le altre forme di criminalità, come rapine, assalti e sequestri. Ma la forma di finanziamento presente in tutti i gruppi terroristici, dall’Europa, con Ira ed Eta, all’America Latina, con Sentiero Luminoso e Farc, dall’Asia, Talebani e Tamil, fino al Medio Oriente e all’Africa è proprio il traffico di droga». In alcuni Paesi l’indotto della produzione di droghe è uno dei principali mezzi di sostenta-
mento delle fasce più povere della popolazione. Come sarà possibile eliminarne il commercio evitando pesanti ricadute? «La povertà non può essere una giustificazione per le attività illecite. Coltivare droga è come assaltare una banca. La coltivazione, certo, avviene dove prevale la miseria, ma anche dove c’è un deficit di buon governo, regioni in cui la criminalità organizzata prevale facilmente, imponendo o proteggendo le coltivazioni illecite. Per combatterle occorre esportare sviluppo e istituzioni sane». Quanto pesano le mafie italiane nel commercio mondiale degli stupefacenti? «La mafia è una invenzione tutta italiana. Le nostre cosche hanno dominato il mondo per decenni, anche se ora le cose stanno cambiando. La nostra criminalità organizzata si sta spostando verso attività dal valore aggiunto più alto, lasciando spazio alle narcomafie orientali, africane e latine, più violente e meno politiche. E il mondo continua a soffrire».
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TUTELA DELLA PRIVACY Francesco Pizzetti
COSÌ PROTEGGEREMO LA VOSTRA IDENTITÀ “Metta una firma per la privacy”. Una frase sentita spesso. Ma quanto è tutelata nella realtà la sfera di riservatezza del cittadino? Francesco Pizzetti, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, fa il punto sulla situazione italiana. E ricorda che «il primo protettore dei propri dati è il cittadino stesso” LAURA PASOTTI
urti di identità, telefonate indesiderate, frodi creditizie sugli acquisti online o sulla telefonia attraverso addebiti non richiesti. Nella società dell’informazione (e dell’informatizzazione) sono aumentate a dismisura la trasmissione e lo scambio di dati personali e, di conseguenza, gli illeciti che possono essere perpetrati attraverso un uso non giustificato degli stessi. Tutelare la privacy e, allo stesso tempo, tutelare i dati richiesti al cittadino a questo scopo è il doppio problema che si presenta sempre più spesso all’Autorità garante per la protezione dei dati personali. Da questo punto di vista, l’Italia può vantare una normativa e un’Autorità tra le più sofisticate a livello europeo, come conferma il presidente Francesco Pizzetti, che però precisa: «La privacy non è solo un fatto burocratico. I cittadini, per primi devono sapere che esiste un problema di protezione dei propri dati e agire di conseguenza». La tutela della privacy è, sempre
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più spesso, un problema di controlli a carico del Garante e del cittadino stesso. «Assolutamente sì. È un problema di consapevolezza, coscienza e conoscenza perché il primo protettore dei propri dati deve il cittadino. Non possiamo mettere un poliziotto a disposizione di ogni cittadino per impedire i furti. La gente deve sapere che deve tenere la mano sulla borsa se viaggia in un autobus affollato, che deve chiudere la porta quando esce di casa e che se lascia l’automobile incustodita rischia il furto. In una parola, i cittadini devono difendersi da soli. Dall’altra parte, c’è un problema di controlli, verifiche e misure che spettano all’Autorità. È questo il nostro impegno quotidiano. E i risultati iniziano a vedersi». Cresce quindi la consapevolezza nel cittadino rispetto alla necessità di proteggere i propri dati. Crede che ci sia stata una svolta culturale da questo punto di vista? «La volta culturale è in corso. In alcuni casi, come nelle intercettazio-
ni telefoniche, l’informazione è così esasperante da essere diventata quasi una sindrome di paura: tutti si sentono intercettati, tutti pensano che i propri dati possano essere rubati, tutti pensano di subire una violenza quando vengono chiamati a casa per un’informazione pubblicitaria a cui non hanno dato il consenso. Cresce la consapevolezza, ma rischia di diffondersi un nuovo atteggiamento. Se fino a poco tempo fa, la privacy era vista come un fatto burocratico, che veniva liquidato con un semplice “metta una firma”, oggi si è capito che c’è qualcosa in più oltre la firma, ma si resta scettici sulla protezione effettiva dei dati. Il vero problema è, quindi, dimostrare alle persone che non è così e che se il cittadino fa la propria parte, se l’autorità funziona e la società è attenta, la situazione può cambiare radicalmente». Come giudica la normativa italiana in tema di tutela della privacy? «Minuziosa. In alcuni casi eccessi-
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COMPETENTE Francesco Pizzetti, 62 anni di Alessandria, è presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali dall’aprile del 2005
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TUTELA DELLA PRIVACY Francesco Pizzetti
vamente dettagliata. Ciò che mancava fino a poco tempo fa era un apparato di sanzioni adeguato, una situazione che è stata risolta grazie al decreto Mille proroghe 2008 che ha attribuito maggiori poteri sanzionatori all’Autorità garante. Ora tocca a noi dimostrare di saperli utilizzare con prudenza, sapienza e saggezza, evitando provvedimenti avventati contro chi abbia commesso involontariamente un illecito di minore rilevanza. Allo stesso tempo, dobbiamo essere determinati a far valere i poteri che ci sono stati dati». E, invece, come vanno le cose negli altri Paesi europei? «La situazione varia da Paese a Paese, sia per quanto riguarda le leggi che per le autorità. Francia, Italia, Spagna e parte della Germania, ad esempio, hanno autorità più forti. Belgio, Olanda, Austria, Svezia e, malgrado il diverso regime giuridico, Gran Bretagna, hanno autorità di tutto rispetto. I nuovi “entrati” stanno compiendo sforzi apprezzabili per avere autorità più strutturate, anche se non sempre il personale è in grado di resistere alle pressioni causate da sistemi politici che sono cambiati molto, ma che conservano al loro interno parte della cultura del passato, una cultura in cui, bisogna ricordarlo, il cittadino era spiato e i suoi dati erano utilizzati per finalità politiche». Si potrà arrivare, in futuro, a una normativa europea comune? «Esiste già una Direttiva comunitaria che ha fissato principi comuni e regole uguali per tutti. La nostra Autorità ha un forte orientamento europeo, tant’è che lavoriamo in gruppo e ci riuniamo con una certa frequenza con le nostre omonime di altri Paesi. Da qui ad arrivare a una di-
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sciplina comune il percorso è ancora lungo. Per ora dovremo accontentarci di questa situazione di armonizzazione, principi comuni e leggi diverse, con la consapevolezza però della necessità di avvicinare il più rapidamente possibile le leggi nazionali e la realtà a un modello uniforme». Internet ha cambiato notevolmente la situazione. In che modo si è adeguata la normativa? «Le nuove tecnologie hanno posto sfide rilevantissime rispetto alla protezione dei dati. In una società virtuale tutto è dato e tutto ciò che vediamo, facciamo o ascoltiamo arriva a noi grazie alla trasmissione di dati attraverso reti telematiche. È ovvio che servano nuove regole condivise a livello globale perché una tutela a livello nazionale si rivela debole nel caso in cui, ad esempio, il server di trasmissione dei dati si trova negli Stati Uniti o se il trattamento dei dati avviene fuori dalle frontiere nazionali». Crede che l’introduzione del federalismo fiscale nel nostro ordinamento cambierà la gestione delle banche dati? «Il disegno di legge Calderoli prevede nuove forme di raccordo tra i diversi livelli di governo per ciò che riguarda l’attività impositiva, la riscossione dei tributi e lo scambio di dati necessario a far funzionare il complesso sistema del federalismo fiscale. È prevista, inoltre, la creazione di nuove banche dati che porranno una serie di problematiche nuove nell’oggetto, ad esempio nuove misure di sicurezza, e nella tipologia, perché aumentando la necessità di scambiarsi informazioni relative ai contribuenti o alle posizioni tributarie
«IN UNA SOCIETÀ VIRTUALE TUTTO È DATO E TUTTO CIÒ CHE VEDIAMO, FACCIAMO O ASCOLTIAMO ARRIVA A NOI GRAZIE ALLA TRASMISSIONE DI DATI ATTRAVERSO RETI TELEMATICHE»
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dei cittadini, occorrerà adottare misure che evitino il furto dei dati, la loro perdita ola cancellazione da parte di soggetti terzi interessati». Se ben attuata, la nuova gestione potrebbe rivelarsi più efficiente ed efficace. «Dovrà essere più efficace per definizione e, ovviamente, lo deve essere anche rispetto al trattamento dei dati. È anche per questa ragione che stiamo lavorando alla creazione di un’anagrafe tributaria, stiamo mettendo in sicurezza le banche dati nazionali di cui si serve l’agenzia e le reti attraverso le quali avviene lo scambio di dati fra l’agenzia tributaria e le sue filiali sul territorio». Lei ha parlato di un “federalismo della sicurezza” per le di-
sposizioni di videosorveglianza previste dal decreto Maroni. Com’è possibile tutelare allo stesso tempo il cittadino e la sua privacy? «Non solo è possibile, ma è necessario. La violazione della privacy del cittadino obbliga a usare i suoi dati personali per proteggerlo. La risposta sta nella necessità di tutelare i dati che si raccolgono per tutelare il cittadino. È inevitabile che, se voglio maggiore protezione, la polizia debba conoscere i miei dati personali. Come cittadino ho però diritto alla sicurezza che la polizia si adoperi allo stesso tempo per proteggere i miei dati in suo possesso. Banalizzando, è evidente che, se ho bisogno di una protezione specifica perché sono una personalità o un
pentito di mafia, gradirei che la guardia del corpo che mi viene assegnata non fosse la stessa persona che mi rapisce. È quindi necessario proteggere i dati raccolti per migliorare la protezione dei cittadini, altrimenti si potrebbe verificare l’assurda situazione per cui i dati raccolti per proteggermi, non essendo protetti, vengono in realtà utilizzati contro di me. Il federalismo della sicurezza amplifica questa situazione perché comporta una grande trasmissione di dati tra polizia locale, i vigili urbani per intenderci, e grandi banche dati della polizia a livello nazionale. Utilizzare queste nuove forme di conoscibilità da parte della polizia locale può evitare che si verifichino inserimenti illeciti o furti di dati personali».
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MAESTRI DEL DIRITTO Carlo Federico Grosso
CARLO FEDERICO GROSSO Docente universitario e avvocato. Tra le tematiche di cui si è occupato bioetica, pedofilia, corruzione
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MAESTRI DEL DIRITTO
DIAMO SPAZIO ALLE NUOVE LEVE Carlo Federico Grosso rilegge le tappe della sua vita professionale. Dai processi che l’hanno visto protagonista agli incarichi istituzionali ricoperti. Ma la passione più grande resta una: l’insegnamento AZZURRA D’AGOSTINO
l mondo del diritto visto dall’interno. La carriera universitaria come docente di diritto penale. E uno studio legale che si è occupato di alcuni tra i casi che più hanno coinvolto l’opinione pubblica. Per fare solo due esempi: l’iniziale difesa di Anna Maria Franzoni e la partecipazione al caso del crack Parmalat. Carlo Federico Grosso non è solo un grande avvocato. Ma anche un cittadino, fedele alla sua Torino, tanto da aver ricoperto anche cariche istituzionali per la città: consigliere comunale dal 1980 al 1990, vicesindaco dal 1984. Avvocato Grosso, qual è stato il percorso che l’ha portata dalla laurea alla carriera universitaria? «Un tempo la carriera universitaria implicava una grande preparazione e dava una posizione sociale di un certo rilievo. Gli studi di legge mi piacevano e nel corso dell’università ho trovato un pro-
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fessore di grande spessore, Marcello Gallo, con cui mi sono laureato in diritto penale. A quel punto per me fu naturale proseguire su quella strada». La sua attività universitaria copre un arco di tempo piuttosto lungo. «Questo perché ho avuto la fortuna di iniziare prestissimo a fare il professore, nel 1963, quando c’era ancora la libera docenza. In quell’anno ho avuto il primo incarico all’Università di Urbino in diritto penale. E sempre a quegli anni risale la mia prima pubblicazione: uno studio dal titolo “L’errore sui discriminanti”». Lei è già andato in pensione. Che progetti ha per il futuro? «Intendo continuare a scrivere e ad insegnare, anche se non da ordinario. Effettivamente il primo novembre 2007 sono andato in pensione a 70 anni. Non ho richiesto la proroga a settantadue, anche per permettere all’Univer-
sità di chiamare professori più giovani. Credo sia giusto lasciare spazio alle nuove generazioni. Continuo però una collaborazione». Una passione, quindi, che negli anni non si è affievolita. «Anzi. A questo punto della mia carriera sono ancora più motivato, perché faccio l’unica cosa che mi interessa davvero all’interno dell’università: avere un rapporto con gli studenti. L’università è diventata un crogiuolo di burocrazia, tra consigli di facoltà e di laurea. Io invece sono fortunatissimo perché continuo a insegnare, e posso studiare incondizionatamente senza gli obblighi degli impegni burocratici». Come vede i nuovi laureati in giurisprudenza, i futuri avvocati? «Oggi, tra i ragazzi, c’è una grande voglia di fare, forse perché il numero di iscritti è così elevato da comportare una dura concorPIEMONTE 2009 | DOSSIER
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MAESTRI DEL DIRITTO Carlo Federico Grosso
renza. Per quanto riguarda la professione, il problema principale è che non è stato ancora istituito in facoltà il numero chiuso. Ciò significa ogni anno un aumento spropositato di laureati rispetto alle possibilità di lavoro. Gli avvocati oggi sono troppi e molti non hanno sufficiente lavoro perché questo si concentra nelle mani di professionisti affermati. Anche la deontologia soffre dell’enorme concorrenza, perché quando molti giovani entrano nella professione sono poi costretti ad arrangiarsi in qualunque modo per riuscire a sopravvivere o a sfondare». Durante la sua carriera si è occupato anche di bioetica e in questo momento il dibattito è più che mai aperto. «Ho cominciato a occuparmi di questo tema circa venti anni fa. Gli studenti erano molto interessati, così ho affrontato con loro una serie di questioni in seminari che intitolavo “Le nuove frontiere del diritto penale”. Qui venivano sviscerate problematiche relative ai trapianti, alla maternità assistita, all’eutanasia, all’accanimento terapeutico: tutti problemi molto rilevanti che il nostro diritto ha tralasciato per anni. Molte di queste problematiche non sono state affrontate perché le forze politiche del nostro Paese non hanno posizioni sufficientemente condivise per approvare leggi in questo senso. E tutto è affidato ad una normativa che è stata prevista per altre problematiche». Lei è stato anche vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Cosa ricorda di quegli anni? «Quella fu solo una parentesi nella mia vita: ho avuto impegni come consigliere comunale, vicesindaco e quindi consigliere regionale, senza mai lasciare però la professione di avvocato e di professore. Questo ha fatto sì che
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«OGGI, TRA I RAGAZZI, C’È UNA GRANDE VOGLIA DI FARE, FORSE PERCHÉ IL NUMERO DI ISCRITTI È COSÌ ELEVATO DA COMPORTARE UNA DURA CONCORRENZA. PER QUANTO RIGUARDA LA PROFESSIONE, IL PROBLEMA PRINCIPALE È CHE NON È STATO ANCORA ISTITUITO IN FACOLTÀ IL NUMERO CHIUSO»
fossi sempre visto come un professionista, un professore universitario indirizzato verso la politica, più che un uomo politico». Quali sono i processi a cui è rimasto più legato? «Alcuni processi mi hanno impegnato e mi hanno fatto soffrire in maniera particolare. Soprattutto quelli legati alla pedofilia. Si tratta di processi terrificanti, terribili, perché il testimone è un bambino e giudicarne l’attendibilità non è facile. E si ha dunque a che fare con difensori che, in questi casi, sono sempre particolarmente agguerriti. Questi processi lasciano il segno, ma vanno sempre affrontati con molta grinta». Ci sono stati, invece, dibatti-
menti che hanno avuto risvolti inaspettati? «Sicuramente quelli che ho seguito all’epoca di Tangentopoli. Ad esempio, si rivolse a me un funzionario di provincia molto agitato che, rischiando di essere arrestato, iniziò a collaborare e soprattutto ad accusare un gran numero di persone. Tanto che a un certo punto dovetti fermarlo. L’idea che una persona per evitare il carcere coinvolgesse degli innocenti mi ha fatto toccare con mano quelle che noi chiamiamo “chiamate di correità”: un imputato accusa altri per avere uno sconto di pena. È qualcosa di molto frequente nei processi di mafia, una questione che può
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mettere anche in seria difficoltà l’avvocato». La sua città cosa ha dovuto affrontare in ambito giudiziario in quel periodo? «Torino ha avuto pochi grandi processi, ad esempio legati a Tangentopoli, ma alcuni grossi scandali come quelli ospedalieri. Sono stato consigliere comunale per dieci anni a partire dal 1980, e vicesindaco nel 1984, ma si trattava di una situazione completamente diversa. Fu l’epilogo di una serie di terribili fenomeni, come il terrorismo. L’aria che si respirava era allora del tutto particolare: le rivolte studentesca e operaia del 68 ancora vicine, l’inadeguatezza dei servizi rispetto all’aumento della
popolazione. Non era niente di paragonabile a quella che si respira adesso». Che aria si respira adesso? «Un tempo Torino era l’industria, la Fiat. In seguito e per un lungo periodo, non ha più goduto di quella attrattiva occupazionale e ciò ha comportato una grande trasformazione. Interi quartieri hanno cambiato volto, le vecchie fabbriche sono state abbattute e al loro posto sono sorte case e quartieri residenziali. Senza contare i grandi rinnovamenti avvenuti prima e durante le Olimpiadi. Dal punto di vista culturale la città è diventata molto vivace: dalla letteratura, al cinema, all’arte. Ora è importante che l’economia continui a girare».
E come vede la Torino del futuro? «Torino e il Piemonte hanno sempre avuto il problema di essere relegate “nell’angolo”, a ridosso delle Alpi, lontano sia dalle altre città d’Italia che dall’Europa. Ho sempre pensato che la salvezza di Torino fossero le infrastrutture. Il tunnel dell’Alta Velocità ferroviaria ad esempio è assolutamente basilare per avvicinare Torino a Lione, a Parigi, alla Spagna: a quel traffico di genti e di correnti che sono indispensabili per il Piemonte. Non credo che Torino diventerà mai una città turistica, però mi auguro che in futuro sarà una città all’avanguardia nei servizi e altamente tecnologica».
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DONNE DI LEGGE Paola Savio LA VIA DELLA RIFORMA
ATTENZIONE AGLI ABUSI DEL QUARTO POTERE Sì alle riforme che puntano a garantire più efficacemente le libertà individuali. E anche ai provvedimenti che stabiliscono nuove regole sia per il processo penale che per quello civile. Ma senza una maggiore disponibilità finanziaria e una diversa organizzazione degli uffici giudiziari, la riforma della giustizia rischia di non sortire gli effetti desiderati. Questa l’analisi di Paola Savio MARILENA SPATARO
a riforma della giustizia del Governo Berlusconi prevede, tra gli altri provvedimenti, un freno all’uso delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura, e che, in questi ultimi tempi, ha suscitato tante polemiche, occupando le pagine dei giornali e, soprattutto, dividendo maggioranza e opposizione. La ratio della nuova normativa in materia d’intercettazioni nasce non solo dalla necessità di tutelare le libertà individuali, troppo spesso violate da un utilizzo improprio di questo mezzo d’indagine, ma anche per evitare l’incivile prassi che a queste spesso segue, e cioè la pubblicazione sulla stampa dei contenuti, mettendo così in atto, di volta in volta, pericolosi, quanto antidemocratici, processi mediatici che trasformano gli intercettati in imputati esposti alla gogna della curiosità, talvolta persino della morbosità, dell’opinione pubblica. «Più che di limitazioni delle intercettazioni si dovrebbe pensare a regolamentare il loro utilizzo. In ogni caso è importante che vi sia
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un’attenta valutazione di queste da parte del magistrato. È, inoltre, indispensabile evitare che finiscano sui quotidiani e in trasmissioni televisive prima della celebrazione del processo. Il loro ambito è, e dovrebbe rimanere, il procedimento, se si è ancora in fase di indagini, e poi eventualmente l’aula» afferma Paola Savio, avvocato penalista di Torino e difensore di Annamaria Franzoni, che proprio in questa occasione ha potuto verificare quanto «la spettacolarizzazione non aiuti il soggetto sottoposto al procedimento penale». La lentezza dei processi penali quanto incide nel determinare un clima di sfiducia tra i cittadini? «Può incidere molto, soprattutto quando a pagarne le conseguenze sono le persone offese». Quali sono le conseguenze più eclatanti? «La denegata giustizia. A volte addirittura la scelta da parte dei cittadini di non rivolgersi alla giustizia». Pensa che la riforma che si sta
per varare inciderà positivamente sul processo penale? «Credo che una riforma possa considerarsi tale solo se coinvolge tutto il sistema: non deve riguardare solo le modifiche dei codici e delle leggi speciali, ma anche le questioni delle risorse finanziarie e degli organici. Il problema vero è quello della carenza di uomini e mezzi. Se si affronta questo prioritariamente allora potrà parlare anche del resto». Quali sono secondo lei i provvedimenti che maggiormente contribuiranno a snellire il settore? «Se non sappiamo quali provvedimenti effettivamente entreranno in vigore non è possibile dare una risposta. In ogni caso saranno molto importanti quelli in grado di incidere non tanto sulle pene e sulle nuove qualificazioni di reato, quanto piuttosto sull’amministrazione e sull’organizzazione delle risorse. Anche modifiche in questi ambiti sono infatti in grado di influire positivamente sull’adeguamento del processo penale all’articolo 111 Costitu-
DONNE DI LEGGE
PAOLA SAVIO Avvocato penalista, è stata legale di Annamaria Franzoni nel processo di Cogne
zione. Si pensi al numero dei cancellieri. I processi dipendono infatti non solo dall’audizione dei testi e dalla redazione delle sentenze, ma anche dalle formalità delle notifiche, delle citazioni, di tutti quegli incombenti che spettano appunto alle cancellerie. Un’interessante fotografia di quanto incidano i diversi aspetti sul processo penale in Italia è data dalla recente ricerca Eurispes condotta su commissione delle camere Penali e titolata “Rapporto sul processo penale”. È ovvio allora come una riforma che possa definirsi tale non possa non tenere in conto molti aspetti che,
ancorché meno conosciuti, concorrono ad incidere sulla macchina giudiziaria». L’informazione e i media che ruolo rivestono nei processi penali più complessi? «L’informazione è una conquista della democrazia. Ma l’eccesso, e soprattutto la parzialità della notizia, possono nuocere alle persone coinvolte nelle vicende giudiziarie. Occorre molta prudenza. Sia da parte del giornalista, sia da parte di coloro che vogliono far conoscere la loro posizione. Il diritto di difesa e di difendersi deve essere esercitato in aula. E non bisogna dimenticare che ogni persona ha il diritto a non essere ritenuto responsabile fino a quando non intervenga una pronuncia da parte del suo giudice». Sulla base della sua esperienza di legale di Annamaria Franzoni nel processo di Cogne, pensa che i media facciano del giustizialismo? «L’esperienza maturata nell’ambito del processo di Cogne mi porta a dire che in effetti questo a volte capita. Ma non è l’unico
caso. Molti sono gli esempi in cui, a mio parere, vi è stata un’eccessiva attenzione mediatica che non ha certamente giocato a favore dei veri protagonisti. Ciò che è più grave è che ciò accade quando ancora deve celebrarsi il processo. A questo si aggiunga che non sempre viene utilizzata la terminologia corretta, non sempre vengono spiegate le regole processuali che fondano certe scelte e certe decisioni. Si tende a semplificare regole che non sono semplici neanche per gli addetti ai lavori. A discapito dell’esattezza della notizia che l’opinione pubblica recepisce». Ritiene che su questo caso vi sia stata in qualche modo una spettacolarizzazione che abbia distorto o nuociuto alla verità? «Sappiamo tutti che la verità processuale è spesso diversa dalla verità fattuale. Certamente la spettacolarizzazione non aiuta: né il soggetto sottoposto al procedimento penale, né le persone offese e nemmeno coloro che sono chiamati a decidere secondo la loro coscienza». PIEMONTE 2009 | DOSSIER
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