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COPERTINA
AL VERTICE Emma Marcegaglia, 42 anni, nata a Mantova, presidente di Confindustria fino al 2012, detiene due record: è l’unica donna e l’imprenditore più giovane ad avere scalato l’ultimo piano di viale dell’Astronomia DOSSIER | LOMBARDIA 2008
COPERTINA LA PAROLA ALL’IMPRESA
Emma Marcegaglia
LA RINASCITA NON PUÒ ATTENDERE La crisi internazionale sta mettendo a dura prova l’economia. Per questo serve agire. E subito. Concertando misure e politiche finalmente efficaci. Produttività, energia, occupazione femminile, giovani e riforme sono alcuni dei temi che devono guadagnare la priorità. La presidente di Confindustria indica la strada per rilanciare l’impresa italiana. Perché la responsabilità nei confronti del futuro è un dovere FRANCESCA BUONFIGLIOLI
rodurre, produrre, produrre. Per crescere e guadagnare competitività sui mercati. È questo ciò che è mancato, nell’ultimo periodo, al sistema economico italiano. Va da sé che solo «con un forte recupero in questo senso sarà possibile conciliare crescita e occupazione, competitività e incremento dei salari». Obiettivi che Emma Marcegaglia, durante la Relazione all’Assemblea pubblica di Confindustria, ha posto come prioritari. «Mentre negli ultimi dieci anni – ha ricordato la presidente – il costo del lavoro è salito in Italia in linea con la media europea, non si può dire lo
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stesso della produttività. Abbiamo perso competitività: meno 10 punti rispetto alla media dell’Area euro e meno 18 nei confronti della Germania». Come dire, l’economia italiana deve ingranare un’altra marcia. Ormai sono anni, infatti, che i ritardi e i limiti nazionali vengono borbottati come un mantra negativo da imprenditori, professori e commentatori. Sia nei loro eccessi: della burocrazia, della spesa pubblica, della pressione fiscale. Che nelle insufficienze: degli investimenti in Ricerca e Sviluppo, dell’innovazione, della formazione. A questa lista, ciclicamente, si aggiungono poi le mancate riforme istituzionali e la man-
cata legge elettorale. Ma sono “maledizioni” solo italiane? A dire il vero no. Basterebbe sfogliare le pagine economiche di alcuni quotidiani stranieri. Calo di esportazioni evidente per la Francia, che per di più soffre di una machine bureaucratique più pesante di quella italiana, anzi. E il sentimento imprenditoriale della Germania, che negli ultimi due anni si è riguadagnata sul campo il ruolo di locomotiva d’Europa, non è esattamente dei più rosei. È un dato, quindi, che dal terzo trimestre del 2007 fino ad arrivare all’inizio del 2008, l’intera situazione internazionale è peggiorata. «Le prospettive per quest’anno e per il prossimo – con-
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COPERTINA «PER NON COMPROMETTERE IL FUTURO DELL’ITALIA NON È PIÙ POSSIBILE RINVIARE L’AMMODERNAMENTO DEL SISTEMA PAESE. SERVONO AL PIÙ PRESTO RIFORME, ANCHE SE DIFFICILI E IMPOPOLARI»
ferma Marcegaglia – restano incerte. La crisi finanziaria, la quasi recessione americana, il rialzo dei prezzi del petrolio e di molte materie prime fanno rallentare fortemente la crescita economica mondiale». Davanti a un quadro del genere, nemmeno la storica e tradizionale vitalità delle imprese italiane «è sufficiente ad assicurare lo sviluppo e a compensare la scarsa competitività del Paese». La crisi internazionale ha, secondo la numero uno di viale dell’Astronomia, «messo drammaticamente a nudo tutte le debolezze del sistema. Per non compromettere il futuro non è più possibile quindi rinviare o rimandare scelte, anche difficili e impopolari». L’allerta deve restare alta. «Il rischio – ha ribadito Marcegaglia a margine dell’assemblea Anie 2008 – è infatti che la crisi finanziaria allunghi le mani sull’economia reale. L’ultimo trimestre sarà problematico, ma mi auguro che nel 2009 si possa avere un po’ di ripresa». Un augurio che deve essere accompagnato a uno sforzo preciso dell’Unione Europea che «deve trovare la leadership a livello internazionale per contrastare le pulsioni protezionistiche che, ciclicamente, emergono come risposta a una globaliz-
© Paolo Tre / A3 / CONTRASTO
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zazione non sufficientemente governata». Le imprese italiane hanno le carte in regola per affrontare queste tempeste. «In un decennio – invita a ricordare la presidente – sono stati creati più di due milioni e 700mila nuovi posti di lavoro dipendente, di cui oltre due milioni a tempo indeterminato». Bilancio positivo anche per le esportazioni, cresciute a ritmi sostenuti anche fuori dall’Area euro, malgrado l’erosione dei margini d’imposta dovuta a una rivalutazione eccessiva del tasso di cambio. È possibile, quindi, essere cautamente ottimisti. Un atteggiamento giustificato anche dalla rinnovata atmosfera politica, come conferma la presidente. «C’è un nuovo governo – spiega – sostenuto da una forte maggioranza parlamentare. E c’è una consapevolezza diffusa della gravità della situazione». Marcegaglia pone, infatti, sul tavolo la necessità di un «confronto concreto, non formale ma sostanziale» anche su temi come federalismo fiscale, che non deve significare, sia ben chiaro, «neostatalismo». E chiede che la detassazione degli straordinari sui premi variabili sia confermata. «È un segnale importante – ha commentato al momento dell’approvazione del decreto –. Un’indicazione precisa ai lavoratori e alle imprese sulla strada da prendere per gli assetti contrattuali». Una politica che, per la First Lady dell’economia, se vuole mantenere il suo primato, «deve meritarlo e giustificarlo con i risultati. Gli elettori hanno fortemente penalizzato i partiti portatori di una cultura anti-industriale. E per la prima volta tutte le formazioni politiche presenti alle Camere condividono i valori del mercato e dell’impresa». La crescita economica è il bene comune e l’obiettivo a cui tendere. Deve essere questa la consapevolezza con cui mettersi all’opera. «Sento il dovere – ammette sicura – di essere, malgrado tutto, ottimista. Possiamo chiudere una lunga stagione di antagonismo, pensare in maniera nuova il confronto con i sindacati e il modello di relazioni industriali». Non sono tutte rose e fiori, naturalmente, ma per l’imprenditrice si sono finalmente create le condizioni per cominciare il confronto, «per cambiare le regole del gioco e modernizzare il sistema». È su queste basi che Marcegaglia lancia un appello ai sindacati affinché si superino le ideologie e non si condanni il Paese a una perdita di competitività e di benessere. Oltre alla riforma della contrattazione vanno riviste, poi, le regole del mercato del lavoro e del welfare, attraverso l’aggiornamento dei diritti dei lavoratori e l’adozione di modelli di flexicurity. «Non è il posto di lavoro che deve essere garantito – precisa la Lady d’acciaio – ma un reddito e una formazione adeguati, come
Foto di Studio Franceschin
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LA CARRIERA Marcegaglia ha percorso tutte le tappe ai vertici di Confindustria. Ăˆ stata, infatti, presidente dei Giovani Imprenditori italiani e europei, e due volte vicepresidente, sotto la presidenza D’Amato e quella Montezemolo
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Foto di AFP
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L’AZIENDA Secondogenita di Steno Marcegaglia, la presidente di Confindustria è ad della Società Marcegaglia Spa, leader nella lavorazione dell’acciaio, e di tutte le società controllate
accade nei Paesi dotati di sistemi di sicurezza solidale più moderni e attivi». Un’urgenza, visto che in Italia viene destinato appena il 2% della spesa sociale al sostegno del reddito di chi ha perso il posto di lavoro, che equivale a un terzo della media Ue. La stessa scarsità colpisce i sostegni alla famiglia con gravi ripercussioni sulla natalità e sull’occupazione femminile. Non si tratta però di una battaglia dal sapore neo-femminista né tantomeno di una pretesa egualitaristica. Il nodo della questione è solo economico e, verrebbe da dire, matematico. Nell’ultimo decennio l’incremento del lavoro femminile nei Paesi sviluppati ha, infatti, contribuito alla crescita mondiale come l’intera economia cinese. «In Italia – continua Marcegaglia – è attivo solo il 47% delle donne in età lavorativa. Si scende al 31% nel Mezzogiorno. Con un’occupazione femminile allineata ai tassi medi europei, il nostro Pil sarebbe più alto del 7%». Più donne al lavoro, quindi. Ma anche più giovani. Perché l’Italia, stravolgendo il titolo di un romanzo di Cormac McCarty, purtroppo “è un Paese per vecchi”. Per dare una sterzata a questa tendenza è necessaria una presa di coscienza generale. Da parte della politica e delle classi dirigenti, certo. Ma soprattutto anche da chi dovrebbe essere la parte attiva di questo cambiamento, ossia i giovani. Per costruire una società che sia finalmente aperta, meritocratica, in cui a tutti siano garantite uguali opportunità di partenza, con un’economia che non tema la mobilità sociale, l’impegno non può essere unilaterale. «Compete anche a noi – è chiara l’asDOSSIER | LOMBARDIA 2008
sunzione di responsabilità – costruire una società più trasparente, che non sia preda dei privilegi corporativi. Ma ai giovani dico con altrettanta chiarezza: guardate alla competizione e al merito come a valori positivi, pretendeteli nelle scuole e nelle università, non fatevi sedurre dai cattivi maestri dell’egualitarismo al ribasso che toglie opportunità a chi ha talento, a chi si vuole impegnare e vuole farsi valere. Non lasciatevi strumentalizzare da chi vi chiede di sostenere interessi e privilegi, dalle pensioni alle rigidità del mercato del lavoro, che sono rivolti contro di voi». Il Paese per crescere deve pensare al futuro. E passare all’azione. La presidente degli Industriali su questo non è disposta a cedere ad «attendismi e tatticismi». Meno tasse, uno Stato più leggero, lotta all’illegalità, all’evasione e maggiori investimenti in innovazione e ricerca devono diventare priorità. Insieme a una politica energetica che contempli il ritorno al nucleare, senza lasciarsi andare a «decisioni emotive e poco meditate» che vent’anni fa posero una pesante ipoteca sullo sviluppo economico italiano. Gli imprenditori, in questa battaglia, non possono non essere in prima linea. «Il dovere verso il futuro – conclude Marcegaglia – è nel nostro codice genetico. Una tensione continua a cambiare, a inventare, a rimodernarci: è il nostro “marchio di fabbrica” da difendere e diffondere sui mercati, nel confronto con le istituzioni e con le parti sociali». Del resto, chi è troppo curioso delle cose del passato rischia di diventare molto ignorante di quelle presenti. Lo diceva Cartesio.
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DIALOGHI Marcello Dell'Utri
IL BUON GOVERNO NON DEVE ESSERE UN'UTOPIA «La vera Politica è passione». Marcello Dell'Utri, senatore della Repubblica e fondatore dei Circoli del Buon Governo, fa una lucida analisi del momento storico che sta attraversando il Paese. E confermandosi punto di riferimento di chi vuole avvicinarsi all'impegno pubblico e civile, sottolinea l'importanza di ripensare la politica a partire dall'uomo e, soprattutto, dai giovani. Dal talento, dal sapere e dalla voglia di fare. Doti che può riconoscere solo chi le possiede FRANCESCA BUONFIGLIOLI
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© Eligio Paoni / CONTRASTO
DIALOGHI
SENATORE Marcello Dell’Utri, classe 1941, è nato a Palermo. Tra i fondatori di Forza Italia, alle scorse Politiche è stato riconfermato a Palazzo Madama LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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DIALOGHI Marcello Dell'Utri
IL CIRCOLO Dell’Utri ha fondato nel 1999 i Circoli del Buon Governo, associazione culturale che si pone l’obiettivo di sviluppare una relazione virtuosa tra cultura e politica
© Soriano Borgioli / LAPRESSE
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erità e Libertà. Le uniche passioni autentiche ed essenziali. Ne era ben consapevole Montaigne che nei suoi Essays riesce a sfiorare e a scandagliare l'essere umano nella sua meravigliosa complessità. Ma non si tratta solo di un classico della filosofia. È piuttosto una guida che mantiene, sorte comune agli autentici capolavori, tutta la sua attualità. «Perché insegna a vivere e a governare e perché, qualsiasi pagina si apra, questo libro consiglia una via da seguire, dice ciò che si deve fare». Per questi motivi, il senatore Marcello Dell'Utri lo indica come uno strumento indispensabile, un vademecum efficace e in grado di illuminare questo momento della vita politica del Paese. «Sarebbe difficile, se non quasi impossibile - sorride - trovare invece un libro in grado di rispecchiare fedelmente il periodo che stiamo vivendo». Un tempo, sottolinea il
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senatore, «sicuramente di grande cambiamento ma anche di grande confusione. E Montaigne può essere una fonte di ispirazione perché grande letterato e grande uomo politico». Verità e Libertà tornano così a essere principi necessari e fondanti di cui il Paese, oggi più che mai, ha bisogno. E per descrivere la politica, o meglio, cosa essa debba tornare a essere, Dell'Utri ricomincia da zero, dalle fondamenta. Dall'uomo e dalla sua volontà. Un approccio che, da anni, il senatore traduce in pratica, con impegno e passione. A partire dall'intuizione di fondare nel 1999 i Circoli del Buon Governo. «La loro finalità - spiega Dell'Utri - è individuare talenti, formarli e metterli in campo». Sfida non facile in Italia visto che «di talenti ce ne sono pochi e la possibilità di metterli in campo è quasi pari a zero». Senatore, però lei continua a lavorare in questa direzione e a
rappresentare il solido punto di riferimento, l'unico faro per i moltissimi ragazzi che si vogliono avvicinare alla politica. «La situazione che ho descritto purtroppo è reale. Ma io ci provo, insisto e continuo. Dò ai ragazzi solo la possibilità di esprimersi, nient'altro. E intanto favorisco la nascita di circoli in tutta Italia e all'estero. Tra poco inaugureremo un circolo a Mosca, poi ci aspettano Dubai, Miami e Bruxelles. Nascono spontaneamente. Avverto una grande voglia di partecipazione, dei giovani soprattutto, che sono i primi ad animarli e a rappresentare la caratteristica precipua dei circoli. Tant'è che sono proprio loro a organizzare il nostro convegno di Montecatini che si terrà il 14, il 15 e il 16 novembre prossimo e avrà come titolo Utopia e Buon Governo». Quali sono secondo lei gli ostacoli per la realizzazione di un autentico Buon Governo?
© Vittorio Zunino Celotto /AGF
DIALOGHI
«PER FARE POLITICA SERIAMENTE È NECESSARIO ESSERE MOSSI DA UNA PASSIONE ESAGERATA, VIBRANTE. ALTRIMENTI TUTTO SI IMPOVERISCE, DIVENTA UN AFFARE PER MESTIERANTI E PER SPECULATORI»
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DIALOGHI Marcello Dell'Utri
© Alberto Conti / CONTRASTO
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«I limiti sono esclusivamente nelle persone, nella capacità dei governanti. Se i politici hanno capacità, volontà e talento allora è possibile realizzare un Buon Governo. Quello che un tempo era definito popolo non vuole altro. Aspetta e si auspica che ci sia qualcuno illuminato che sappia governare». E questi limiti umani possono essere superati? «Certamente. Vale sempre la massima secondo cui se l'uomo vuole può diventare ciò che desidera». Molti sostengono che si siano perse la fiducia e l'interesse nella politica, che si sia persa la passione. È davvero così? «È impossibile che in politica si perda la passione. Anzi. Direi che per fare politica seriamente è necessario essere mossi da una passione esagerata, vibrante. Altrimenti tutto si impoverisce, diventa un affare per mestieranti e per speculatori alla ricerca solo del proprio tornaconto e dei propri interessi». La politica è quindi passione. DOSSIER | LOMBARDIA 2008
«Direi che è qualcosa di più. È la più importante delle attività umane in quanto ha un primato assoluto. Non fosse altro perché regola e condiziona ogni cosa». E l'ideologia? Esiste ancora? «Le ideologie sono morte e sepolte. Ne dovranno rinascere di nuove. Ora credo che il Buon Governo sia l'unica aspirazione che si possa idealizzare. E l'appartenenza politica in questo caso non conta. È fondamentale solo lavorare per un Buon Governo». A proposito di schieramenti, durante la scorsa campagna elettorale si sono imposti con forza i due leader, Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Berlusconi è presidente del Consiglio. Veltroni che fine ha fatto? «Veltroni è prigioniero in casa sua. È bersaglio di un'opposizione interna. Forse il suo partito continua a rimproverargli il fatto di essere stato battuto. Questo, a dire il vero, accade solo in Italia. Negli Stati Uniti, per esempio, dopo le elezioni, il Paese va avanti nor-
malmente. E chi perde resta un personaggio di tutto rispetto. Invece da noi, chi vince sale alla gloria degli altari, mentre chi perde sprofonda all'inferno». Molti commentatori hanno spiegato il crollo della sinistra con la conquista di molti voti dei lavoratori da parte della Lega e del Pdl in generale. Cosa ne pensa? «È una falsità. Se la Lega ha rosicchiato voti, è stato a Forza Italia e non certo al centrosinistra. La perdita di consensi è stata causata piuttosto dall'astensione». Restando all'opposizione, sembra che oggi abbia perso la propria funzione. «Si tratta di un discorso generale. In Italia esiste un'opposizione becera, al di là delle parti politiche. Invece di essere costruttiva preferisce gettare fango su quello che fa la maggioranza di turno. Questo atteggiamento è profondamente sbagliato e dannoso. Anche se il governo lastricasse le strade d'oro, la minoranza direbbe che è oro
© Paolo Tre / A3 / CONTRASTO
DIALOGHI
falso, oro rubato. Purtroppo in Italia è da quasi vent'anni che non esiste una cultura dell'opposizione che aiuti il Paese a crescere e a migliorare. Si è inaugurata una stagione in cui il ruolo naturale di critica costruttiva si è trasformato in contrasto, in odio indicibile, in un muro contro muro. Sono posizioni sterili e fanatiche. Una situazione a dir poco inguardabile, che fa addirittura passare la voglia di leggere i giornali». E il dialogo di cui in questi mesi tanto si è parlato? «Un'utopia assoluta». L'unica voce che in questo momento si fa sentire resta quella di Antonio Di Pietro. La sua è opposizione? «Assolutamente no. Quella di Di Pietro è bieca contrapposizione dai modi selvaggi. Non costruisce nulla. Le critiche sono necessarie, ma quando sono realmente tali. E quella di Di Pietro non è una critica che possa minimamente essere considerata saggia. È impensabile anche solo conversare con lui». Non è nemmeno anti-politica? «È anti-nulla. E questo perché la vera politica non può avere un “anti”. Così come non esiste un anti-vita non ci può essere l'antipolitica. Si tratta solo di un ossimoro al contrario». Niente dialogo, muro contro muro, polemiche. Senatore, sarà un autunno caldo? «È stata un'estate caldissima. L'autunno spero che sarà più fresco». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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CONFRONTI la cultura liberale
© Alberto e Carlotta Guareschi
Foto Fondo Longanesi Biblioteca di Bagnacavallo
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UNA GENERAZIONE POST-IDEOLOGICA La riscossa culturale del centrodestra ha un’anima liberale. Che guarda al passato, senza timore di “andare oltre”. L’opinione di Angelo Crespi e Alberto Mingardi DANIELA PANOSETTI a cultura come agente provocatore. O come reagente, se si preferisce. Capace di riattivare formule di pensiero troppo a lungo rimaste inerti. È questo che viene in mente quando si cerca di cogliere il nesso tra due linee di pensiero molto diverse, ma anche molto vicine. Quella di Alberto Mingardi, classe 1981, giornalista, scrittore e
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dal 2003 a capo dell’Istituto Bruno Leoni. E quella di Angelo Crespi, quarantenne direttore del settimanale di cultura Il Domenicale, tra i casi editoriali più interessanti e (volutamente) controversi degli ultimi anni. Due figure, quelle di Crespi e Mingardi, che hanno in comune molto più della fascia anagrafica e della regione d’origine. Entrambi,
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ICONE LIBERALI Nella pagina accanto, Leo Longanesi, Giovannino Guareschi e nei riquadri, da sinistra, Alberto Mingardi e Angelo Crespi. A sinistra, il giurista milanese Bruno Leoni
prima di tutto, rappresentano volti nuovi nello scenario di una Lombardia che riscopre sempre più le proprie radici liberali, anche solo per estirparle e innestarle su altri terreni. Entrambi giornalisti e scrittori. Ed entrambi, soprattutto, “nodi” attivi di una vera e propria rete che sta ridisegnando la geografia del pensiero di centrodestra. Basti pensare alle molte fondazioni di cultura politica sorte negli ultimi anni – Magna Carta, Nova Res Publica, FareFuturo, solo per citare le principali – e alle diverse testate che ne condividono, in modo più o meno diretto, intenti e programmi. «Esperienze con le quali in molti casi – spiega Crespi – ci lega innanzitutto un sentimento di amicizia. Oltre alla volontà di far parte di un percorso alternativo all’establishment culturale». Progetto arduo, aggiunge, perché «se stai nel centrodestra resti escluso da tutti i salotti buoni delle patrie lettere». Oltre i pregiudizi Che in Italia l’opinione prevalente assegni alla sinistra il dominio della cultura è circostanza nota, del resto. La questione, semmai, sta nel modo di interpretarla e motivarla. «è evidente che la cultura dominante resta su quei lidi – ammette Mingardi –. Ma con buona ragione. Perché mentre la Dc gestiva il potere “oggi-per-oggi”, la sinistra costruiva un avvenire, mettendo in campo formidabili corazzate di politica culturale». Ben più netto Crespi, che nella presunta superiorità culturale della sinistra vede nulla più che un mero preconcetto ideologico. «Una stupidata immane – ribadisce – ma difficile da contestare, perché il centrodestra ha fatto
di tutto per non valorizzare i propri pensatori che pure ci furono, e furono grandi». Colpa del mondo accademico «che preferisce ancora Marx a Popper» e delle case editrici, incapaci di un vero interesse, «in parte per omissione, in parte per sottomissione alle leggi del politicamente corretto». Sarà anche per questo che lo stile del Domenicale è programmaticamente tarato sul ciglio opposto, quello di una “scorrettezza” impertinente, perfettamente in linea, sotto questo aspetto, con i precedenti illustri a cui esplicitamente occhieggia, a partire dalle storiche riviste novecentesche come Omnibus e il Candido – argute e controcorrente come il loro ideatori, Leo Longanesi e Giovannino Guareschi – per arrivare ai Sunday Paper anglosassoni. «Un modello – commenta Crespi – che nel nostro mercato editoriale asfittico, assuefatto di svago e gossip, rappresenta una sfida: fare cultura, anche alta, in modo talvolta tracotante, ma in totale libertà». Il che significa, anche, ospitare firme di ispirazione politica assai diversa, all’insegna di quello che al Domenicale amano chiamare “fusionismo”». Per Mingardi, invece, il nume tutelare ha la saggezza caparbia del giurista milanese Bruno Leoni. «Un faro, per la nostra attività, sotto ogni punto di vista. Per la sua comprensione della natura evolutiva del diritto. Per il suo coraggio intellettuale. E per la straordinaria capacità umana di “tener duro”, su posizioni coerenti e giuste, negli anni più bui del conformismo». Una visione sobria e determinata, che si traduce, oggi, nell’impegno a «seminare” dove possibile i germi di un pensiero liberale». Anche perché, precisa Mingardi, il vero problema sta soprattutto in una diffusa miopia culturale, che si riflette prima di tutto «nel “rincoglionimento” della società, ormai diffidente e poco propensa al rischio. Ma anche nello “shortermismo” di una politica incapace di guardare al lungo periodo e nell’ansia semplificatrice dei media, a cui si dovrebbe rammentare che, come diceva un saggio, “esiste una soluzione semplice per ogni problema, solo che probabilmente è sbagliata”». È questo, del resto, il compito che è stato assunto dai molti “pensatoi”, o think tank in chiave italiana, fioriti negli ultimi anni. Che però, avverte Mingardi, rischiano di diventare «un fenomeno inflazionato, se non una vera e propria moda, che fotografa un grande entusiasmo, senza però consentire di andare, finalmente, oltre». Un liberalismo rinnovato Ed è proprio questo voler “andare oltre” ad accoLOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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CONFRONTI la cultura liberale
CULTURA ATTIVA Sopra, Mises Seminar 2007, organizzato dall’Istituto Bruno Leoni. A destra, Angelo Crespi con Vittorio Sgarbi
pore progressista come Bauman, McLuhuan e addimunare davvero Angelo Crespi e Alberto Mingardi. rittura Pasolini. Respinti Evola, Nietzsche e il Duce, Diffusori di idee, suggerisce il secondo. Ovvero rapmentre restano sospesi in bilico, tra condanna e presentanti, secondo modi e formule diverse, di un plauso, alcuni insospettabili, dall’irrinunciabile Céprogetto culturale che del mutamento in corso vuole line all’onnipresente Battisti. Ma anche, e sopratessere non più il semplice sfondo, ma il fattore scatutto, un Gramsci «noioso» ma innegabilmente scaltenante. Il tutto, pur con i necessari distinguo, altro. E sbaglia chi si stupisce, aspettandosi una l’insegna di un nuovo liberalismo. O meglio, di un bocciatura senza appello. Perché uno degli auspici soliberalismo rinnovato, in grado di preservare il proprio storico pluralismo, ridimensionando al conALBERTO MINGARDI 27 anni, giornalista tempo le forme di e direttore dell’Istituto ingerenza di uno Stato orBruno Leoni, think tank mai arrancante. Di fronte al di ispirazione liberale quale, ammonisce Mincon sedi a Torino e a Milano gardi, «non esistono scorciatoie: o si responsabilizzano gli individui, spingendoli a mettersi in gioco, o si continuano a cercare surrogati di dubbia vente espressi da Crespi è efficacia». «Non esiste un proprio che emerga, finalpensiero liberale nuovo e mente, una sorta di “gramuno vecchio – afferma inscismo di destra”. Perché vece Crespi –. La vera noanche se «alla fine gli intelvità è che i liberali hanno filettuali engagé hanno pronalmente deciso di contare dotto ben poco», l’elaborain politica, abbandonando «L’influenza del ‘68 sulla società le torri d’avorio in cui civile è stata radicale. Non ha senso zione di una “strategia del consenso” rimane una via s’erano arroccati nel secolo chiedersi cosa tenere e cosa buttare: auspicabile anche per il censcorso per un pensiero non ormai questo siamo» trodestra, che già nei due più elitario, ma finalmente anni di “purgatorio”, assiadeguato all’ingresso delle cura Crespi, ha fatto grandi masse in politica». E di progressi in questo senso. questo liberalismo riveduto e Si comprende, allora, anche la necessità da più parti corretto Crespi ha persino ridisegnato il Pantheon, invocata di rimescolare la tradizionale “ricetta” della facendo passare sotto le forche caudine del Domecultura liberale italiana. Ancora ben poco “di massa”, nicale miti e icone un tempo intoccabili. Dentro al momento, e dominata da figure di estrazione giuHeidegger, quindi, e fuori Croce. Promossi anche ridica ed economica. «Certo – ammette Mingardi – Borges, Camus, Leopardi e, a sorpresa, nomi di saDOSSIER | LOMBARDIA 2008
CONFRONTI
nistra». Occorre allora uno “scatto culturale”, che riesarebbe più divertente se ci fosse qualche pittore, sca anche a riavvicinare società e politica. Come sta cantante d’opera e ballerina classica, ma è evidente avvenendo, ad esempio, proprio in Lombardia. come quando si parla di questioni “concettose” vi sia Dove, secondo il direttore dell’Istituto Leoni, «la foruna grande selezione alla fonte». Così, anche per bice tra cittadino e istituzioni è meno ampia che alCrespi, «spiace non ci siano poeti e romanzieri libetrove, grazie a una forte tradizione di associazionismo rali. Ma è la stessa parola liberale che non ama essere e di intervento sociale». E dove, sottolinea Crespi, si spesa come un’etichetta. Mentre è lecito dire “un avverte con sempre più forza che «l’antipolitica è depoeta comunista”, “uno scrittore cattolico”, fa ridere clinata e che nei momenti difficili la gente seria si ridire un “romanziere liberale”». E comunque, precisa, volge alle istituzioni». Nel quarantennale del ’68, dic’è una grande differenza tra «gli intellettuali che venta allora possibile, se non auspicabile, riflettere su amano la libertà e quelli che solo si definiscono liquanto e come le forme di mobilitazione siano camberali». Anche perché un liberalismo autentico non rimane fermo ai principi, ma deve tradursi in un fare ANGELO CRESPI 40 anni, giornalista positivo e consapevole. «Ale direttore de Il Domenicale, trimenti – commenta Minsettimanale di cultura gardi – diventa aria fritta, o fondato nel 2002 il bizzarro sincretismo ideodal senatore Marcello Dell’Utri logico di chi vuole solo cucire il vestito buono addosso al proprio opportunismo». Scindere cultura e politica, del resto, è pura utopia.«Impossibile biate. «L’influenza di quegli separarle – ribadisce Crespi anni sulla società civile – –. Come l’arte, la cultura è afferma Mingardi – è stata sempre frutto di un penradicale. Non ha senso siero che vuole incidere sul chiedersi cosa tenere e cosa mondo, e che dunque è di buttare: ormai questo natura politica». E citando siamo. Non si può ricoManzoni, aggiunge: «La struire il principio di autocultura senza politica è «Nel nostro mercato editoriale rità per come era e per come un uomo senza asfittico, il Domenicale rappresenta come, ora, lo vagheggiano i gambe, mentre la politica una sfida: fare cultura in modo picconatori di ieri». Più sesenza cultura è un uomo vero il giudizio di Crespi: cieco». talvolta tracotante, ma in libertà» «In nome di una parità a Il gioco delle parti tutti i costi, il ’68 ci ha fatto Ma attenzione: la consapedimenticare il merito, penalizzando proprio quelle volezza della natura inevitabilmente politica di ogni classi meno abbienti che credeva di tutelare». Non atto culturale non implica, di per sé, il dover indulsolo: «Fu allora che passò l’idea marxista che tutto gere in rigide divisioni di parte. «Non occorre essere fosse politica, cioè partito. E così non è. Oggi le d’accordo con Marx – sottolinea Mingardi – per canuove leve al potere, i quarantenni nati allora e crepirne l’importanza nella storia del pensiero e figurarsi sciuti negli anni del cosiddetto “riflusso”, sono una se bisogna condividere le speranze o le disillusioni di generazione post-ideologica. Ed è un bene. Perché di Beethoven su Napoleone, per restare ammaliati dal fronte alla crisi economica, meglio soluzioni razioquinto concerto per pianoforte o dall’Eroica». Dello nali che ideologiche». Ma che sia la politica a volgere stesso tenore Crespi: «Che la cultura debba apparun nuovo sguardo al cittadino o viceversa, il protenere a un dato schieramento è una bestialità tutta blema di fondo rimane lo stesso: rinnovamento. novecentesca, in seguito esaltata dai mass media. Tanto che alla domanda su cosa abbia più bisogno, Come il penoso giochino di catalogare le cose in deoggi, la cultura liberale, nessuno dei due mostra la stra o sinistra». Un vezzo tutto italiano, del resto, minima esitazione. Coraggio, senza dubbio. Ma anquello di applicare etichette, in modo spesso arbiche, aggiunge Mingardi, un pizzico di cautela. Pertrario. «Siamo un Paese – aggiunge ancora Minché, conclude, «dipendiamo da un venerabile catagardi – dove si parla solo di calcio e politica, con la logo di principi. E chi, dicendosi liberale propone di stessa logica partigiana. Ci piace dividerci. Salvo poi abbandonarli al primo stormir di foglie, manca di constatare, andando a spulciare le rispettive policies, prospettiva e non difetta di opportunismo». che sono ben poche le differenze reali tra destra e siLOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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POLITICA Giorgio La Malfa
© Gerald Bruneau / GRAZIA NERI
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REPUBBLICANO Giorgio La Malfa, eletto alla Camera nelle fila del Pdl è uno storico esponente del Pri DOSSIER | LOMBARDIA 2008
POLITICA
È IL MOMENTO DI DARCI UN TAGLIO Meno tasse, federalismo fiscale, riorganizzazione della pubblica amministrazione. Il deputato repubblicano del Pdl Giorgio La Malfa fissa le linee guida per lo sviluppo del Paese. E ammonisce: «Serve uno scatto in più» GIUSI BREGA
alutata positivamente la manovra triennale proposta dal ministro Giulio Tremonti che assicura il pareggio di bilancio nel 2011 adesso «occorre un piano pluriennale per favorire lo sviluppo». E il criterio più adeguato ed efficiente per realizzare questo obiettivo è «allentare la pressione fiscale con un corrispondente piano di riduzione della spesa corrente». Questa è la proposta di Giorgo La Malfa, repubblicano eletto alla Camera dei Deputati nelle file del Popolo della Libertà, che chiede un gesto deciso per ridare vitalità all’economia italiana. In tal senso, l’abbattimento della pressione fiscale rappresenta «l’unico strumento che è possibile mettere in campo visto che la politica monetaria è slegata dalla politica nazionale». E il disegno di legge sul federalismo fiscale, annunciato dal governo per settembre, secondo l’ex presidente della Commissione Finanze della Camera «potrebbe essere l’occasione per modulare le entrate dello Stato e delle Regioni e riorganizzare la struttura a livello centrale». Lei, esponente storico del Pri, recentemente si è iscritto al gruppo del Pdl alla Camera. Quali sono state le motivazioni alla base di questa decisione? «Il Pdl è un gruppo che riunisce persone elette all’interno delle sue liste, ma che fanno ancora parte dei
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propri rispettivi partiti. Da repubblicano quale sono, ho scelto il Popolo della Libertà come segno di coerenza per l’alleanza strettasi nel 2001 tra Forza Italia e il Partito Repubblicano Italiano. Sebbene vi siano alcune posizioni non pienamente coincidenti, a mio avviso era opportuno esplorare la possibilità di entrare a far parte di un partito unico, quale diverrà il Pdl, che tiene conto dei valori nei quali credo». Quindi conferma che è prevista una confluenza del Pri all’interno del Pdl? «È una questione che si dovrà affrontare al termine della procedura che vedrà il Pdl trasformarsi in un partito. Alla fine del processo costituente, quando sapremo qual è il programma e le impostazioni di fondo di questa nuova realtà politica, indiremo un congresso per interrogare i repubblicani su questa possibilità. Non sarà facile decidere: il nostro è un partito di vecchia tradizione politica, ci sarà una forte resistenza». L’onorevole Francesco Nucara e gli altri suoi compagni di partito sono rimasti all’interno del Gruppo misto. Questo significa che vi sono divisioni all’interno del Pri? «Assolutamente sì. E riguardano proprio la confluenza nel Pdl. Con il segretario Nucara vi è poi una divisione netta e profonda a tal proposito. Lui considera la questione
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POLITICA Giorgio La Malfa
già conclusa negativamente». La lotta agli sprechi, l’abolizione delle Province, la riorganizzazione della pubblica amministrazione sono temi molto cari al Partito repubblicano. Come giudica l’operato dell’attuale governo su queste questioni? «Innanzitutto ci tengo a sottolineare che mi ha colpito molto favorevolmente la soluzione pratica e in tempi brevi della crisi dei rifiuti in Campania. È stato un atto molto significativo da parte del Governo Berlusconi. Per quanto riguarda, invece, la questione dell’abolizione delle Province, tengo a ricordare che la proposta originaria della loro abolizione fu fatta proprio dal Partito Repubblicano Italiano negli anni ’70. A quel tempo, proponemmo che nel momento in cui si dava vita all’istituto regionale si dovessero eliminare le Province, in modo tale da non aggiungere un nuovo livello di burocrazia pubblica. Le Regioni rappresentavano un istituto più efficace e adeguato al fine di una migliore e più razionale gestione del territorio nazionale». Come fu accolta la proposta? «Fu respinta da tutte le grandi forze politiche che esaltarono l’assoluta necessità dell’esistenza delle Province. In seguito, il governo di centrosinistra che fu attivo dal 1996 al 2001 ebbe l’infelice idea di intervenire con una riforma introducendo nella Costituzione un esplicito riferimento alle Province, cosicché l’iter di un’eventuale loro abolizione presenta oggi anche la necessità di una revisione costituzionale. Rendendo il percorso ovviamente più lungo e articolato. Per quanto riguarda gli altri temi presentati dall’attuale presidenza del Consiglio, devo ammettere che si tratta di propositi molto buoni seppur di difficile attuazione. Soprattutto per quanto riguarda il ridimensionamento della spesa pubblica corrente che considero il capitolo principale dell’azione di questo governo». A tal proposito, lei ha affermato che la manovra triennale per l’agDOSSIER | LOMBARDIA 2008
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giustamento dei conti studiata dal ministro Giulio Tremonti al fine di garantire il pareggio di bilancio nel 2011 non è sufficiente. «Sono fermamente convinto che la decisione di Tremonti di realizzare il pareggio del bilancio dello Stato nel 2011 e di anticipare il prima possibile l’avvio della manovra finanziaria sia più che giusta e meriti un sostegno senza riserve. Dopo più di 30 anni consecutivi di deficit che hanno prodotto un debito pubblico che, da solo, rappresenta più di un quarto di quello dei 27 Paesi dell’Ue messi assieme, i propositi del ministro Tremonti sono più che auspicabili. Ma occorrerebbe un piano che favorisse lo sviluppo e lo slancio strutturale dell'economia italiana. Il problema è che si vuole affrontare seriamente l’annoso problema della crescita economica italiana, ferma da 15 anni, i tagli richiesti dal ministro Tremonti rappresentano solo l’inizio. Bisognerà incidere ancora sulla spesa corrente e in maniera ancor più consistente. Quella delineata finora rappresenta soltanto la prima metà della politica economica del Governo. L’altra metà, quella indispensabile, dovrà essere
prospettata in autunno». Lei ha detto che «per ridare vitalità all’economia italiana ci vuole uno scatto in più». Qual è lo scatto che auspica da parte del governo? «Data la politica dell’euro che condanna l’industria europea e italiana a una scarsa competitività, dati gli alti tassi di interesse che rendono difficili gli investimenti, abbiamo un solo modo di aiutare consumi e investimenti che è quello di ridurre il peso fiscale». In che modo? «La pressione fiscale, oggi assestata al 43%, è destinata secondo i calcoli del Dpef, il documento di programmazione economica e finanziaria, a restare a quel livello almeno fino al 2013. La seconda parte della politica del governo cui accennavo prima, è dunque quella della riduzione della pressione fiscale senza però modificare l’obiettivo del pareggio del bilancio. Se si vuole uno stimolo alla crescita degli investimenti e dei consumi bisogna ipotizzare una riduzione che porti l’attuale 43% almeno al 35%». Non le sembra un intervento di portata molto elevata?
Foto di Piero Oliosi / GRAZIA NERI
POLITICA
AFFINITÀ ELETTIVE Nella pagina accanto Giorgio La Malfa insieme al premier Silvio Berlusconi. La Malfa ha scelto il Pdl in virtù dell'alleanza strettasi nel 2001 tra Forza Italia e il Pri
«Può darsi. Ma è anche vero che altri Paesi europei come l’Irlanda, la Svezia e la Danimarca hanno realizzato interventi sulla spesa pubblica di questo ordine di grandezza. E le loro economie adesso procedono al meglio. Per l’Italia, si tratta di considerare i grandi settori di spesa: Sanità, pubblico impiego, previdenza, trasferimenti agli enti locali. Bisogna poi proporsi di ridurre la loro incidenza sul Pil di circa il 2% l’anno. Se questi interventi vengono studiati e predisposti per tempo, serviranno a fare funzionare di più i servizi. Come accade del resto in qualunque programma di risanamento delle imprese, dove si comincia con il taglio delle spese e si finisce col migliorare il prodotto». Qual è la sua posizione sul disegno di legge sul federalismo fiscale? «Il federalismo fiscale rappresenta un’opportunità da non sottovalutare. Innanzitutto, bisogna definire se si tratterà di un federalismo solidale oppure no: poiché il nostro Paese conta regioni ricche e altre meno, bisognerà decidere se ciascuna regione potrà tenere per sé le proprie risorse e utilizzarle come meglio ritiene opportuno a favore del proprio territorio, cosa che andrebbe totalmente a svantaggio del Mezzogiorno, oppure se si terrà conto della necessità di una solidarietà fra le regioni. Una volta definito questo, ci si troverà davanti una questione alquanto delicata e, a mio avviso, complicata da gestire. Se si vuole lasciare alle Regioni una parte delle risorse che oggi lo Stato raccoglie e con cui finanzia la propria spesa sarà inevitabile rivedere compiti e funzioni dello Stato e quelli degli enti locali. Il Governo Berlusconi dispone di un’ampia maggioranza in Parlamento e di un forte consenso tra l’opinione pubblica. Dunque, a mio avviso, è nelle condizioni di formulare e realizzare un programma di legislatura capace di cambiare il volto dell’Italia. Vedremo questo autunno se avrà la risolutezza di farlo».
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SERVONO AZIONI MULTILATERALI Terrorismo. Povertà. Immigrazione. Problematiche che richiedono un’azione congiunta. In cui l’Italia confermerà il proprio ruolo di mediatore internazionale. La senatrice Barbara Contini spiega gli indirizzi della nostra futura politica estera LEONARDO TESTI
i sento più a casa in Medio Oriente e in Asia che non in Italia». Balcani, Darfur, Iraq. Sono alcuni dei Paesi in cui Barbara Contini, senatrice, attuale responsabile degli italiani nel mondo per il Popolo della Libertà e membro della commissione permanente della Difesa, ha svolto missioni di peacekeeping. Aree di crisi internazionali lacerate da conflitti violenti e duraturi, le cui vicende belliche, politiche e religiose hanno scritto, e sono ancora destinate a scrivere, pagine decisive della storia contemporanea. Le esperienze vissute in qualità di funzionaria dell’Onu, di governatrice della provincia irachena del Dhi Qar e di rappresentante in Darfur hanno fatto maturare in Barbara Contini la convinzione che esista «una “via italiana” per capire i popoli. La democrazia è una parola troppo seria da spiegare in tanti Paesi che non l’hanno mai vista. Né vissuta». Ed è in questi delicati processi di ripristino della stabilità e dell’equilibrio geopolitico nelle zone a rischio, post belliche o in via di sviluppo, che l’Italia è chiamata a giocare in una posizione sempre più strategica. Perché, come sottolinea Contini,
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«l’Italia ha un grandissimo ruolo da svolgere come mediatore internazionale in Occidente». Con il nuovo governo in carica, come cambierà la politica estera italiana? «Durante la precedente legislatura non si è instaurato un rapporto forte, a livello di amicizia, con i presidenti dei principali Paesi interlocutori dell’Italia. La corrente più estremistica del governo che ci ha preceduto ha compromesso molte relazioni internazionali e reso meno efficace un compito che la sinistra più moderata magari avrebbe voluto portare avanti diversamente. Questo approccio si è rivelato un danno enorme, che ha contribuito a far arretrare il nostro Paese, bloccandolo su temi chiave. Scopo del nuovo esecutivo è, quindi, agire nell’emergenza e continuare a lavorare sugli obiettivi prefissati. Con il presidente Silvio Berlusconi, abbiamo riacquistato quell’autorevolezza in campo internazionale che avevamo perduto in questi ultimi due anni. L’Italia è attualmente riconosciuta come un efficace mediatore, in grado di dare un importante contributo soprattutto ora che la situazione a livello mondiale vive una profonda
crisi e una frammentazione evidente in particolar modo in Medio Oriente, nel sub continente indiano e in Africa. Le grandi potenze devono rivolgersi, infatti, a Paesi dotati di questa vocazione per garantire la stabilizzazione e l’Italia nel Mediterraneo può svolgere buon lavoro». Quali caratteristiche rendono l’Italia un efficace mediatore internazionale? «La nostra diplomazia e il nostro esercito possono vantare una capacità di dialogo e una disponibilità all’ascolto che non tutti possiedono. Sappiamo trovare il consenso tra le parti in causa e raggiungere così un punto d’accordo. Mediamo più efficacemente rispetto ad altri Paesi, guidati da linee politiche magari più incisive, ma che soffrono di una superiore rigidità. La nostra abilità di adattarci e la nostra flessibilità sono caratteristiche oggi più che mai ricercate. Credo che per l’Italia il buon momento di credibilità internazionale sia solo agli inizi». Si è discusso spesso della possibilità di rivedere le regole d’ingaggio dei contingenti italiani all’estero. Cosa ne pensa? «È una garanzia contare su regole omogenee, uguali per tutti. Le no-
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Foto di Ramella Alberto / GRAZIA NERI
BARBARA CONTINI La senatrice Barbara Contini è responsabile degli italiani nel mondo per il Popolo della Libertà e membro della commissione permanente della Difesa
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© Foto di Cristiano Laruffa / LA PRESSE
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stre azioni non sono unilaterali, ma sono concordate intorno ai tavoli internazionali più importanti come la Nato e le Nazioni Unite. Se l’Italia vuole farne parte, deve adeguarsi. È importante però sottolineare il fatto che, in ogni teatro d’azione, mettiamo sempre in primo piano la salvezza delle vite umane, insieme alla realizzazione degli obiettivi prefissati». In base alla sua esperienza di governatrice, come viene vista l’Italia dagli iracheni? «La gente irachena ha avuto modo di vederci lavorare e sa come ci siamo comportati una volta finita la guerra. Siamo stati loro vicini a livello civile, militare e anche amministrativo. Questa popolazione vede negli italiani un’affinità. L’Iraq è un grande Paese. Si parla soltanto del Nord dilaniato dagli attentati, ma nel frattempo il Sud sta conoscendo un’avanzata fase di ricostruzione. È un lavoro notevole quello che prendendo DOSSIER | LOMBARDIA 2008
forma, anche se non viene sufficientemente evidenziato. Sarà riconosciuto solo dai fatti». Qual è l’approccio giusto, secondo lei, per una missione in un Paese straniero? «È importante non generalizzare mai. Ogni regione e ogni Paese che hanno vissuto una guerra e, successivamente, un periodo di trasformazione cruciale, devono essere guardati con occhi particolari. Bisogna porre attenzione alle culture e alle tradizioni esistenti e radicate per fornire gli aiuti più adeguati. Se interveniamo in un territorio con l’esclusiva intenzione di dettare legge, allora partiamo con il piede sbagliato». Se dovesse elencare le peggiori minacce per l’ordine internazionale, quale avrebbe la priorità? «Sono molte le minacce incombenti: la guerra, la concorrenza con i Paesi emergenti, la questione energetica. Tutte però caratterizzate, anche se in modo asimmetrico, dal
terrorismo fondamentalista, che è imprevedibile. Si tratta di un network criminale altamente organizzato, frutto di conflitti interstatali, che impedisce di fatto lo sviluppo dei Paesi in cui agisce e prolifera. A mantenere l’illegalità, intervengono poi l’ignoranza e la povertà delle fasce di popolazione arruolate dai terroristi. Perché, quando non esiste sviluppo, diventa inutile parlare di democrazia. È un serpente che si morde la coda». Al terrorismo è legato, quindi, anche il tema dell’immigrazione clandestina? «Questa multinazionale del terrore si alimenta dai flussi immigratori clandestini su cui si innesta il network criminale, che non esita a ridurre in schiavitù le persone, generando un vero e proprio traffico di esseri umani. Questa estesa multinazionale può essere distrutta soltanto se la si conosce fino in fondo. Instaurare sinergie a livello internazionale
Foto di OLYCOM
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COOPERAZIONE Contini è esperta di politica internazionale. Ha lavorato in molte aree calde del mondo ed è stata governatrice in Iraq della provincia di Dhi Qar con sede a Nassiriya
rappresenta l’unico antidoto efficace. Le realtà terroristiche di questa portata non vanno interpretate come nuclei sporadici. Dobbiamo essere più preparati di loro. Anticiparle». Come è possibile intervenire? «Le aree relative a sicurezza, libertà e giustizia devono essere sviluppate da politiche comunitarie dell’Ue. Se non lavoriamo uniti, infatti, non potremmo mai sconfiggere questo tipo di criminalità internazionale. Il semestre che ci accingiamo a vivere sotto la presidenza francese di Sarkozy sarà dedicato, in gran parte, alla risoluzione di queste tematiche. La Francia adotterà un ottimo approccio e noi, successivamente saremo pronti a raccoglierne il testimone. Perché l’impegno per affrontare l’immigrazione deve essere fortemente condiviso». Tra le situazioni di politica estera, quale la preoccupa maggiormente? «In Medio Oriente, l’Iran può costituire un problema, ma in realtà penso che anche se il presidente Ahmadinejad procedesse con i suoi piani nucleari, dal punto di vista scientifico servirebbero anni per una loro fattiva concretizzazione. Mi preoccuperei piuttosto dell’Afghanistan e del Pakistan che, non dimentichiamocelo, la bomba già la possiede. Di questo non se ne parla abbastanza». Il terrorismo ha la precedenza nell’agenda europea e internazionale? «La risoluzione di tutte le possibili minacce, dalla povertà all’inquinamento, deve essere portata avanti di pari passo, senza ordini di precedenza. È cruciale far fronte simultaneamente a ogni tematica, poiché si tratta di una catena di fenomeni tra loro interconnessi. Libertà, diritti umani, democrazia. Sono tutti beni che riconoscono come minimo comune denominatore la stabilità internazionale. Senza il ripristino della sicurezza, è impossibile fornire aiuti umanitari». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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IDEE VINCENTI Simone Crolla
UN THINK TANK PER IL FUTURO La formazione politica dei giovani. La creazione della futura classe dirigente. Simone Crolla, presidente del Circolo di via Marina a Milano, ribadisce l'obiettivo primario dei Buon Governo. «Coinvolgere i giovani nella costruzione delle idee di domani» GIUSI BREGA
romuovere la partecipazione all'attività politica, sociale e culturale del cittadino al fine di alimentare una viva corrente di opinioni capace di indirizzare la vita artistica, culturale, economica e morale del Paese. Così recita l'articolo 3 dello statuto dei Circoli del Buon Governo, nati nel 1999 per volontà del senatore Marcello Dell'Utri che ebbe l'idea di puntare su un contenitore culturale per elaborare contenuti politici nel senso più alto del termine. Un obiettivo raggiunto. «Una conferma in tal senso
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ci è venuta dalla scorsa convention di Montecatini, dove il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha riconosciuto i meriti del Senatore Marcello Dell'Utri e il lavoro dei Circoli affermando che anche noi saremo una componente del Popolo della Libertà». A sottolinearlo è Simone Crolla, presidente del Circolo di via Marina a Milano che storicamente ha avuto un ruolo primario e di guida degli altri Circoli. «L'idea alla base di queste realtà - prosegue Crolla che è anche membro del Consiglio Nazionale, l'organo che insieme a
Dell'Utri indica le linee d'azione dell'Associazione Nazionale del Buongoverno - è appunto quella di partire da un punto di vista culturale per esaminare la realtà e proporre soluzioni innovative, frutto di un'analisi meno di parte ma di più ampio respiro». Il coinvolgimento dei giovani è un altro dei punti cardine di questo progetto, una componente della società dalla quale non si può prescindere. In Italia ci sono 4.500 circoli, il cui 70% è composto da giovani al di sotto dei 35 anni. Quanto ha premiato il fatto di aver pun-
IDEE VINCENTI
PRESIDENTE Simone Crolla, amministratore delegato del settimanale di cultura Il Domenicale LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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IDEE VINCENTI
«PENSO CHE IL BUON GOVERNO DEBBA ESSERE LA MASSIMA ASPIRAZIONE PER CHIUNQUE SIA COINVOLTO NELLA GESTIONE DELLA COSA PUBBLICA»
tato sulle nuove generazioni? «Credo che al giorno d'oggi la vera sfida sia coinvolgere i giovani nella costruzione delle idee di domani, da questo punto di vista il successo del Circolo è evidente. Tutti i ragazzi che partecipano danno il loro contributo, non sono semplici spettatori ma attori di questo progetto, e credo che questo coinvolgimento sia uno dei punti qualificanti del Buongoverno». Ogni giorno giungono nuove richieste di costituzione. Qual è il segreto di tanto consenso? «Il consenso è una conseguenza del coinvolgimento. Il Circolo garantisce la possibilità di far sentire la propria voce; i nostri iscritti concorrono attivamente alla formulazione delle proposte. E credo che questa sia una cosa non da poco in un'associazione di rilievo nazionale». Quali sono i progetti a lungo termine dei Circoli?
«Il nostro obiettivo è e resta quello della produzione di idee, solo che ora abbiamo l'opportunità di far sentire ancora di più la nostra voce, vista la collocazione all'interno del Popolo della Libertà». Alla base dei Circoli vi è il concetto di formazione, al fine di creare una nuova classe dirigente basata su merito e competenza. «Consideriamo i giovani una risorsa fondamentale. Il nostro corso di informazione politica mira proprio a loro, con una serie di conferenze focalizzate su argomenti che possano coniugare formazione e informazione. Poi capita che i ragazzi che si avvicinano al Circolo per seguire le conferenze si fermino e inizino a collaborare con noi. Oggi la stragrande maggioranza di chi lavora all'interno del Circolo di via Marina è arrivato così». Qual è il rapporto esistente tra i Circoli del Buon Governo e il mondo delle università?
«Con l'Università non può esserci concorrenza, ma certamente un rapporto di piena collaborazione. Dal punto di vista dell'offerta formativa, una parte consistente dei relatori delle nostre conferenze è anche docente universitario o comunque proviene da un'esperienza universitaria, mentre per quanto riguarda i giovani è naturale che i nostri “obiettivi” privilegiati siano gli studenti. In sostanza, ci avvaliamo delle esperienze universitarie per dare una formazione mirata alla creazione della futura classe dirigente, pronta e preparata ad assumere responsabilità pubbliche». Al di là del discorso meramente politico, qual è il suo personale concetto di “buon governo”? «Penso che il buon governo debba essere la massima aspirazione per chiunque sia coinvolto nella gestione della cosa pubblica, ma prima ancora il “buon governo” deve essere un metodo di lavoro che pone al primo posto l'interesse generale». Qual è il suo rapporto con il senatore Marcello Dell'Utri? «L'incontro con il senatore Dell'Utri nel 1999 è stato decisivo. Lavorare fianco a fianco con lui per tutti questi anni mi ha dato la possibilità di crescere ma soprattutto di capire il mondo, politico e non solo, che ci circonda. È una persona dalla quale ho imparato e continuo a imparare tanto. E di questo gliene sono grato». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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PERSONAGGI Viviana Beccalossi
LIBERIAMO LA POLITICA DALLE LITURGIE Rieletta alla Camera, questa volta Viviana Beccalossi ha scelto Roma. In Parlamento porterà il suo pragmatismo bresciano e una lunga esperienza politica. Per attuare un federalismo che sia solidale CLAUDIA GRISANTI
na delle sue ultime battaglie, prima della pausa estiva della politica italiana, è stata la difesa del “Vittoriale degli italiani”, la fondazione che valorizza il patrimonio storico lasciato da Gabriele D’Annunzio nella sua residenza di Gardone Riviera, sulla sponda lombarda del Garda, finita sotto la minaccia della norma taglia enti,
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la numero 140. Viviana Beccalossi, eletta alla Camera per il Popolo della Libertà nella circoscrizione Lombardia, non poteva contrassegnare meglio la sua esperienza di politica bresciana. «Il mio impegno e la mia attenzione nei confronti del Vittoriale e delle memorie di Gabriele D’Annunzio trovano le loro radici nella mia passione per la politica e, ancor
più, nella mia storia personale» ha confermato sul Tempo Beccalossi. La deputata bresciana ha sempre presenti le sue origini politiche. Ha cominciato la sua formazione politica nel Movimento sociale italiano, aderendo poi ad Alleanza Nazionale. Ha percorso le varie tappe dell’amministrazione locale, dalle circoscrizioni al Comune fino alla Regione dove, ancora
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BRESCIANA Viviana Beccalossi è stata eletta alla Camera nella circoscrizione Lombardia 2 per il Popolo della Libertà. Nella foto centrale, Beccalossi con Santo Versace, stilista e deputato Pdl
giovanissima, ha ricoperto il ruolo di vicepresidente del Consiglio regionale, e poi di vicepresidente della Regione e di assessore all’Agricoltura, ruolo chiave in una regione leader in molti settori del primario. Sottolineando il suo essere lombarda, schietta e pragmatica, ricorda gli anni spesi al Pirellone come «un’esperienza estremamente positiva, un’esperienza del fare». È la seconda volta che Beccalossi viene eletta in Parlamento. Nel 2001 si era dimessa e aveva proseguito l’impegno nella sua regione. Ora che ha varcato la soglia di Montecitorio dice che «è stata un’emozione molto forte». Anche se i meccanismi e i tempi della politica di Palazzo non calzano perfettamente con il suo pragmatismo bresciano. Onorevole, che idea si è fatta del Parlamento in questi primi giorni del suo mandato?
«Faccio politica da 23 anni, ero stata già eletta nel 2001 e mi sono dimessa. Ma quando ho varcato la soglia di Montecitorio è stata un’emozione molto forte». C’era stato un accenno a un suo ritorno eventuale a Milano. Come mai? «Resto a Roma, anche se rimpiango per vari motivi la Regione. Lì ero molto operativa: avevo l’incarico della vicepresidenza e dell’assessorato all’Agricoltura. Qui in Parlamento ho l’impressione che conti invece più la liturgia che la sostanza. E poi ci dettano i tempi, non siamo noi a deciderli. In Regione era diverso». Che bagaglio di conoscenze porta a Montecitorio dopo gli anni passati al Pirellone? «Gli anni in Regione Lombardia sono stati estremamente positivi, perché sono stati contrassegnati dal fare. La mia esperienza al Pi-
rellone è maturata con una maggioranza molto forte, quella del presidente Formigoni: con la giunta abbiamo lanciato tante riforme, in Sanità e altri campi». Proprio nel settore Sanità recentemente in Lombardia c’è stato lo scandalo della Clinica Santa Rita, con risonanza nazionale. Il modello sanitario lombardo è da rivedere? «Dove ci sono tanti denari, ci sono anche tanti disonesti, ma la Sanità lombarda è diversa da ciò che è stato scoperto alla Santa Rita. Questo vale in termini sia di ricerca medica, sia di assistenza ai pazienti. Si pensi a questo: la Sanità lombarda è un punto di riferimento per molti italiani. Infatti, quando i pazienti decidono di farsi curare fuori regione, vengono in Lombardia. È questo il vero giudizio sul sistema». Lei è capogruppo del Popolo LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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PERSONAGGI Viviana Beccalossi
AL PIRELLONE Dal 2000 al 2008 Viviana Beccalossi ha fatto parte della giunta del presidente Roberto Formigoni
della Libertà in Commissione Agricoltura. Quali compiti prevede che l’aspetteranno nei prossimi mesi? «Il programma ovviamente spetta al governo, il mio impegno sarà quello di seguire con attenzione il comparto, che è stato troppo spesso la cenerentola dell’economia. Seguiremo le emergenze sanitarie e alimentari che in passato si sono sviluppate, l’evoluzione della discussione sulla riforma della Politica agricola comune e sulle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Perché gli agricoltori sono imprenditori e hanno quindi bisogno di un quadro normativo certo per le loro attività». Quali sono le sfide internazionali per gli agricoltori italiani? «Negli ultimi anni il quadro europeo è mutato perché l’Unione europea si è allargata, ma questo cambiamento è già stato affrontato dagli agricoltori. La situazione è in trasformazione anche perché ci sono concorrenti mondiali che vogliono entrare sul merDOSSIER | LOMBARDIA 2008
cato italiano: rischiamo di avere sulle nostre tavole pomodori cinesi, a costi bassi ma con altrettanta scarsa sicurezza alimentare. Noi invece dobbiamo puntare sulla promozione forte delle nostre eccellenze, perché il made in Italy non è solo moda, abbigliamento, grandi firme, ma anche agroalimentare». I negoziati Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra, si sono conclusi con un nulla di fatto. Cosa ne pensa? «Da un certo punto non ci si può lamentare di questo esito. Per altri versi al Wto si poteva fare di più per l’Italia. Penso alla tutela delle denominazioni d’origine, come l’Igp o la Dop. Il riconoscimento mondiale sarebbe stato un’importante forma di tutela per molti prodotti, come per esempio il Grana Padano». Concretamente quali saranno gli impegni della Commissione da settembre in poi? «Da questo mese la Commissione Agricoltura lavorerà sui provvedi-
menti del Parlamento. Si ragionerà su caccia, apicoltura e pesca, tema sul quale le regioni hanno problematiche ed esigenze molto diverse tra loro. Bisognerà trovare le risorse economiche per sostenere il comparto latte, in vista dell’abolizione delle quote nel 2015. Resta inteso che non ci sarà alcuna sanatoria delle multe latte occorse nel passato, perché non è corretto premiare chi non ha rispettato la legge. In Commissione ci occuperemo anche di promozione del made in Italy, dicendo no a società di promozione autoreferenziali. Su questo tema si dovrà lavorare insieme alle Regioni e ad altri enti». Lei è anche membro della Commissione parlamentare per la semplificazione della legislazione. Inoltre, viene da un’esperienza importante in un ente locale. Come dovrebbe orientarsi il rapporto tra Stato e Regioni? «Appartengo ad Alleanza Nazionale e per noi il federalismo va raggiunto. Un federalismo solidale, certamente, ma comunque
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LE RADICI: Brescia e l’impegno politico Nata a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, nel 1971, Viviana Beccalossi è stata eletta lo scorso aprile nella circoscrizione Lombardia 2 per il Popolo della Libertà. È capogruppo Pdl in Commissione Agricoltura e membro della Commissione parlamentare per la semplificazione della legislazione. Attualmente fa parte dell’esecutivo politico di Alleanza Nazionale. L’onorevole Beccalossi ha una lunga esperienza politica e amministrativa tra le fila del Movimento sociale italiano, cominciata prima ancora di conseguire il diploma di liceo linguistico. Consigliere di circoscrizione a Brescia dal 1989 al 1991, nei dieci anni successivi è stata consigliere comunale, sempre a Brescia, facendo parte delle commissioni Assistenza e Sanità, Commercio e Vigilanza, Urbanistica,
federalismo, in modo da rendere l’amministrazione pubblica più efficiente. Le riforme istituzionali sono uno dei nostri tre temi fondamentali. Gli altri due sono la sicurezza e il sostegno alle fasce più deboli della popolazione». Dopo le modifiche al Titolo V della Costituzione sono stati presentati numerosi ricorsi alla Corte Costituzionale. Come si può evitare che succeda lo stesso anche con la nuova riforma? «La riforma federalista deve essere realizzata con il coinvolgimento delle Regioni stesse. È possibile aprire un confronto schietto in sede di Conferenza Stato-Regione, che di fatto è un tavolo semipermanente, dato che si riunisce più volte al mese. Spero che si possa dialogare anche con l’opposizione, ma sta a loro mostrarsi pronti». Riguardo alla sicurezza, come giudica la decisione di inviare l’esercito a pattugliare le strade? «Sono pienamente d’accordo con la decisione di mandare i militari nelle città. Perché la criminalità colpisce i più deboli, come gli an-
Patrimonio. Nel 1995, quando Roberto Formigoni diventa presidente della Regione, è eletta al Consiglio della Regione Lombardia per Alleanza Nazionale, diventandone vicepresidente, oltre a far parte della Commissione Cultura, Formazione professionale, Sport, Informazione e della Commissione speciale per le riforme istituzionali. Nel 2000 è nuovamente rieletta consigliere regionale, ancora per la Provincia di Brescia e, oltre all’incarico della vicepresidenza della Regione, assume quello dell’assessorato all’Agricoltura nella Giunta Formigoni. Nel 2001 viene eletta alla Camera dei Deputati, ma rinuncia e viene sostituita da Daniela Santanchè. Nell’aprile 2005 è rieletta consigliere regionale. Poi il definitivo salto a livello nazionale, nell’aprile di quest’anno.
ziani. Basti pensare a cosa significa per un anziano essere scippato della pensione, un evento che, fatte le proporzioni, è molto più grave dell’essere derubato della propria auto di lusso per chi può permettersela. È stato un errore della sinistra non aver considerato seriamente questo tema». Cosa ne pensa dell’associazione che viene fatta tra stranieri e criminalità? «Il tipo di criminalità varia di regione in regione. Bisogna però ricordare che, se è vero che i clandestini sbarcano al Sud, poi si trasferiscono al Nord. Anche in Lombardia, dove i commerci illeciti sono stati divisi secondo le etnie, che per esempio si spartiscono il traffico di droga o il racket della prostituzione. C’è una forte sensazione di insicurezza nel Paese. Ed è innegabile che alcuni tipi di reato siano legati per la maggior parte agli stranieri». Quindi l’attività su questo fronte continua? «Contro la criminalità è stato assunto un impegno in campagna
elettorale. E ci sarà bisogno di altri provvedimenti in autunno». E riguardo alla tutela delle fasce più deboli quali provvedimenti dovrebbero essere presi? «Dobbiamo pensare a sgravi fiscali per tutti i cittadini. Se l’Italia ha la natalità più bassa d’Europa, un motivo ci sarà. Mancano i servizi alle famiglie, e poi gli asili nido comunali e aziendali non sono ancora sufficienti. Occorrono pure sgravi fiscali per i libri scolastici. E facilitazioni per le donne che troppo spesso sono costrette a scegliere tra la maternità e il lavoro». E quali sono le cause di questa situazione ? «Gli stipendi delle donne sono spesso più bassi di quelli dei colleghi uomini, in alcuni casi pari alla retta di un asilo nido. A quel punto la donna non ha scelta ed è costretta a rinunciare e rimanere a casa. In altre parole, il nostro obiettivo è immaginare forme di sostegno per quel ceto medio che in Italia si sta assottigliando sempre di più». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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GIUSTIZIA Gaetano Pecorella
© Augusto Casasoli / A3 / CONTRASTO
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TRA LE AULE Gaetano Pecorella, 70 anni, milanese. È avvocato penalista e professore associato di discipline giuridiche
l Lodo Alfano, che prevede l'immunità per le alte cariche dello Stato, è legge. I magistrati protestano dicendo che questo causerà un “danno irreparabile allo stato di diritto”. C'è da chiedersi se è vero. D'altronde le legislazioni di Francia, Spagna, Germania e altri stati dell'Ue prevedono tutte una qualche forma di immunità. E così era anche in Italia, prima che la
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legge fosse abolita nel 1993 nel mezzo di Tangentopoli. Quindi perché tutto questo allarmismo? Non sono più preoccupanti il proliferare di intercettazioni a orologeria, le spettacolarizzazioni di processi e indagini ancora in corso, le intromissioni nella vita privata dei cittadini che rischiano di distruggere persone e carriere, senza che siano evidenziabili responsabilità
di natura né politica né penale? Addirittura, un inaspettato editoriale del Financial Times intitolato “L'Italia ha ragione a frenare i suoi giudici” si è schierato a favore della tutela del potere esecutivo nei confronti di quello giudiziario. Un sostegno inatteso visto che la stampa economico-finanziaria anglosassone si era dimostrata severa in passato nei confronti dei provve-
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LA MAGISTRATURA? È ORDINE, NON POTERE Il conflitto tra politici e giudici. L'uso politico della funzione giudiziaria. La frattura istituzionale generata dallo squilibrio tra poteri. «Sono mali che minano la fiducia nella Giustizia». Lo sottolinea Gaetano Pecorella, avvocato penalista e uomo politico GIUSI BREGA
dimenti, e non solo, del presidente Silvio Berlusconi. Dunque è lecito chiedersi se la magistratura italiana sia o meno troppo politicizzata. A fare chiarezza è Gaetano Pecorella, avvocato e politico. Che denuncia: «Una magistratura politicizzata è sintomo di una democrazia malata». Il Financial Times è sempre stato severo nei giudizi verso Silvio
Berlusconi. Cosa ha determinato a suo avviso questo cambio di rotta? «La prima ipotesi, la più banale, è che essendoci un processo in cui è coinvolto l'avvocato David Mills, che è cittadino britannico, ed è il marito di un ex-ministro, la stampa abbia voluto dargli un sostegno. Ma è poco probabile, visto che i quotidiani inglesi hanno spesso, e duramente, attaccato lui e la moglie. Un'altra ipotesi, più consistente, è che ci si stia accorgendo che la magistratura non è più un problema solo italiano e, tutt'al più, francese: la magistratura, da tempo, si sta organizzando a livello europeo, sia attraverso coordinamenti determinati dall'unità europea, sia attraverso associazioni che riproducono la nostra Anm. Infine, ed è forse l'ipotesi più attendibile, anche in Inghilterra ci si è resi conto che un Paese importante come l'Italia, per il buon funzionamento dell'Europa, è privo di stabilità politica perché tutti i governi, di centrodestra o di centrosinistra, vengono aggrediti da un qualche Pubblico ministero che ne provoca una crisi, se non la ca-
duta, com'è avvenuto per il Governo Prodi. Si sta passando dalla tesi che la classe politica italiana sia corrotta, cara a chi voleva colpire il nostro Paese negli scorsi anni, alla constatazione che gli attacchi di certi magistrati sono sempre diretti contro coloro che, in quel momento, stanno governando». Sempre per il quotidiano economico è un dato di fatto che in Italia, da oltre 15 anni, “i giudici godono di un livello di potere unico in Occidente” e questo causerebbe “sfiducia nella Giustizia”. Cosa ne pensa? «Se la magistratura, da “ordine”, com'è scritto nella Costituzione, si trasforma in “potere”, perde inevitabilmente quelle che devono essere le sue prerogative fondamentali, e cioè la terzietà, la mancanza di fini, il ruolo di risolutrice di conflitti. In altre parole: l'essere al di sopra delle parti. È ovvio che non tutti i processi coinvolgono interessi tali da far temere, da chi è giudicato, di non avere un magistrato imparziale. Ma l'idea che la magistratura sia, in qualche modo, schierata e che stia con una piuttosto che con un'altra parte poliLOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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tica, con i lavoratori piuttosto che con gli imprenditori, fa perdere fiducia nel sistema giudiziario, e quindi anche nel singolo giudice che deve decidere nel singolo processo». Quali sono i danni concreti che un eventuale uso politico della funzione giudiziaria potrebbe causare? «Sono i danni che, in concreto, ha già causato. È dall'inizio degli anni '90 che l'Italia non ha più una classe dirigente perché tanto in politica quanto in economia, e persino nel mondo dello spettacolo, la magistratura ha preso di mira ora quel ministro, ora quell'imprenditore, togliendo ogni credibilità a chi ha la responsabilità di governare e di assumere decisioni. Sono più di quindici anni che c'è un permanente “tintinnar di manette”, come ebbe a dire il Presidente Scalfaro, il cui rumore arriva anche al di là delle frontiere, togliendo all'Italia la posizione quanto meno di parità con le altre nazioni che le spetterebbe. Ricordo, perché ero presente come Presidente dell'Ucpi, la mattina in cui, a Napoli, il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina la notizia dell'informazione di garanzia a Silvio Berlusconi che, come presidente del Consiglio, presiedeva il Congresso mondiale sulla criminalità. Mi vergognai come italiano. L'informazione di garanzia fu spedita da Antonio Di Pietro, lo stesso che dovendo interrogare Berlusconi confidò al procuratore Francesco Saverio Borrelli “io quello lo stronco”». Ma Berlusconi fu poi assolto. «È vero, ma il danno fu irreparabile. In compenso Di Pietro è diventato ministro con il centrosinistra, e ora è il solo alleato di Veltroni. Ma la verità è che, se le Procure hanno attaccato Berlusconi quando apparve sulla scena politica, risparmiando la sinistra, con il tempo l'attacco si è allarDOSSIER | LOMBARDIA 2008
© Alberto Cristofari / A3 / CONTRASTO
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gato all'intera classe politica. Delegittimata la politica, intimiditi gli industriali, la magistratura si propone ora come l'unico, vero potere in questo Paese». Come commenta la minaccia dell'Anm di astenersi alle prossime elezioni per il rinnovo del Csm? «Sono convinto che i magistrati non abbiano diritto di “non assolvere ai propri doveri istituzionali”. E, se anche si volesse riconoscere all'Anm il diritto a scioperare, questo non potrebbe e non dovrebbe mai avere carattere politico, e cioè non dovrebbe riguardare le prerogative del Parlamento di fare leggi secondo la volontà di una maggioranza democraticamente eletta». Perché nel nostro Paese il Lodo Alfano ha suscitato così tante polemiche? «La separazione dei poteri ha come fondamento l'indipendenza della magistratura e una forma di autotutela del potere politico. Questo è il principio a cui si ispirano tutte le democrazie occidentali, con strumenti anche molto diversi. Esistono ordinamenti che non prevedono particolari forme di immunità, ma, come contrappeso, il
Procuratore generale o è di nomina politica, o è soggetto alle direttive del ministro della Giustizia. In altri sistemi giuridici il parlamentare non può essere sottoposto a giudizio senza l'autorizzazione delle Camere di apparenza, com'era in Italia sino al 1993. I Padri costituenti, scrivendo l'articolo 68, si ispirarono ai principi liberali, consolidatisi con la dottrina di Locke e Montesquieu». Perché l'articolo fu abrogato? «Perché la classe politica era sotto tiro ai tempi di Tangentopoli e ritenne così di riacquistare credibilità di fronte all'opinione pubblica. E invece si consegnò mani e piedi alla magistratura creando una situazione di instabilità politica che ancora permane. Se la Democrazia Cristiana ha potuto governare per quasi cinquant'anni è stato anche per l'effetto dell'articolo 68. Il che non impedì che per i più gravi reati i parlamentari fossero processati essendo data l'autorizzazione. E che, in ogni caso, fossero processati al termine del mandato. Il buon senso avrebbe voluto che l'immunità fosse reintrodotta con una norma costituzionale, visto il buon risultato che aveva dato per
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POLITICO Gaetano Pecorella è deputato del Pdl. Nella foto in alto, insieme al collega e senatore Niccolò Ghedini
anni, e che tutti i Paesi europei ne erano dotati. Ma il centrosinistra aveva ricevuto troppi vantaggi da quei magistrati che poi ha premiato facendoli eleggere in Parlamento, o dando loro importanti incarichi nella società civile. Perciò non ha mai dato il suo contributo di voti per reintrodurre l'immunità. A tutela non di una parte politica, ma della politica, si è dovuti ricorrere alla legge ordinaria che già una volta la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima. Sono state apportate le correzioni che la Corte aveva indicato. C'è da sperare che ora, questa nuova legge, regga a un prossimo, eventuale giudizio della Corte». Da Tangentopoli in poi sembra che il conflitto tra politica e magistratura non riesca a trovare un finale. In questo muro contro muro quali sono state le responsabilità della politica e quali quelle della magistratura? «La politica ha una grande responsabilità: quella di non aver fatto le riforme di sistema che facessero meglio funzionare la giustizia e, nello stesso tempo, limitassero gli eccessi di una certa magistratura. Basterebbe pensare che non esiste, in concreto, nessuna effettiva responsabilità per il magistrato che sbaglia. Ma la politica ha un altro torto: non ha saputo rinnovarsi, non ha saputo riconquistare la fiducia dei cittadini. Almeno fino a ora. Sembra però che il clima stia cambiando tant'è che, di fronte ai primi risultati e a una politica efficiente, i magistrati stanno perdendo molto del consenso sociale che avevano. Lo dicono i sondaggi. La magistratura ha la responsabilità di aver scelto la strada della contrapposizione, sempre e nei confronti dell'intera classe politica. Le aperture al dialogo, tante volte dichiarate, sono rimaste nient'altro che parole». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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COMMENTI Filippo Facci
IL POPOLO CONTRO NON FA PAURA PROPRIO A NESSUNO Anti-politica, una realtà o uno slogan? In Italia si respira la stessa atmosfera degli anni di Tangentopoli? E com’è cambiata la figura di Antonio Di Pietro, oggi come allora, voce contro? I raduni di piazza organizzati da Beppe Grillo e il cosiddetto fenomeno del “travaglismo” sono destinati a cambiare gli equilibri politici del Paese? Filippo Facci, osservatore pungente e mai banale, dice (come al solito) la sua ANDREA PIETROBELLI
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COMMENTI
PUNGENTE Filippo Facci, 41 anni, nato a Monza è editorialista per Il Giornale e tiene rubriche su Grazia e Il Riformista
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COMMENTI Filippo Facci
Foto di StudioFranceschin / GRAZIA NERI
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osa rappresenta oggi Antonio Di Pietro? «I voti che ha preso alle elezioni. Ma è lui la vera antipolitica». E Marco Travaglio? «Un caso ambiguo, non è chiaro il mestiere che faccia». Per non citare Beppe Grillo, «solo un mercante, qualunquismo misto a una politica allo stato larvale». Certo è che le definizioni non mancano a Filippo Facci, tra le penne più affilate del giornalismo italiano. Uno che, si sa, non le manda a dire. Anzi. Del resto quella che ha intrecciato con l’ex regista di Mani Pulite è una vicenda lunga. Tanto che proprio alcune sue inchieste contribuirono alle dimissioni di Di Pietro, allora ministro alle Infrastrutture. Una marcatura a uomo che, con la dichiarazione di voto di Marco Travaglio per Italia dei Valori e i raduni di piazza come il tanto discusso No-Cav Day organizzati da Beppe Grillo, sembra aver trovato nuova linfa. Tanto che alla domanda “Ma chi è veramente Di Pietro?” risponde asciutto e caustico: «Passo. Ci ho scritto migliaia di articoli e un libro. Diciamo che non è una bella persona, e che non è in grado di fare niente per nessuno se non a se stesso. Berlusconi disse che Di Pietro gli faceva orrore dopo che avevo scritto la stessa cosa in un articolo». Craxiano convinto, Facci ha sempre cercato di fare chiarezza e di fare sentire la propria voce, meglio se fuori dal coro. Una coerenza che ha pagato a caro prezzo. Dopo un’intercettazione compromettente tra Hammamet e Milano, fu infatti costretto a rinunciare a un contratto Rai. Ma non ha mai abiurato. Mantenendosi sempre fedele alla
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LE INCHIESTE Facci ha firmato alcuni servizi che riguardavano l’allora ex ministro delle Infrastrutture Antonio di Pietro che contribuirono alle dimissioni dell'ex magistrato dalla carica
sua linea anche in questo caso controcorrente. Nonostante i tempi siano cambiati e lo spirito anti-politico dei cittadini sembri avere gli stessi connotati, Facci invita a non fare di tutta l’erba un fascio. «Lo spirito dei VDay è solo in parte simile a quello del lancio di monetine davanti all’hotel Raphael. Vanno fatte le debite proporzioni: Craxi era Craxi e aveva un Paese rivoltato contro che lui ha fatto bene a lasciare. Questi qui non fanno paura a nessuno». Restano comunque assonanze tra la lotta alla casta oggi e Tangentopoli 16 anni fa. Cosa è diventata la politica e che idea se ne sono fatti gli italiani? «Nella concezione di questi ultimi non è cambiato niente, ma non hanno più l'acqua in cui nuotare. Il Paese è stufo e scoglionato: vuole provare questo Silvio Berlu-
sconi per vedere se le cose possono migliorare. Non sono più disposti a credere che la soluzione possa celarsi dietro un'inchiesta di De Magistris, o che il caso Mills possa nascondere l'inganno che ha prosciugato i loro salari». Eppure l’anti-berlusconismo continua a imperversare. L’ultimo caso è stato quello del NoCav Day, per non citare tutti gli eventi di piazza a firma di Grillo, Travaglio e Di Pietro. «La folla di Piazza Navona non era granché: ma è da lustri che i fenomeni non si misurano più dalle piazze. Quella folla non è un termometro che segna una nuova temperatura. Si tratta di categorie che ci sono sempre state e tra queste abbondano qualunquisti, scontenti, emarginati, frustrati e sottoacculturati. Oggi questi hanno trovato un altro termometro per misurarsi al-
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Foto di OLYCOM
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«IL PAESE È STUFO, VUOLE PROVARE QUESTO SILVIO BERLUSCONI PER VEDERE SE LE COSE POSSONO MIGLIORARE»
l'unisono. Si chiama Internet». Ma c’è almeno una denuncia “grillina” che dovrebbe essere presa in considerazione? «Ce ne sono diverse. Ma Grillo rende caricaturali e irriconoscibili persino le questioni che hanno fondamento. Per questo è un danno». Di Pietro intanto sta cercando di fagocitare l’elettorato più vicino alle battaglie proprio di Grillo, Travaglio e in parte della sinistra radicale. Per moltissimi rappresenta oggi l'unica vera opposizione. Se si andasse alle urne in questo momento quanti voti prenderebbe l’Idv? «Attorno al 9/10 per cento. Ma forse neanche. I voti di Grillo del resto li ha già presi e potrebbe rosicchiare ancora qualcosa al Pd: ma più per colpa dei media che per merito suo. Giornali e televisioni lodano la moderazione di Veltroni, poi però cercano il sensazionalismo dell'antipolitica». DOSSIER | LOMBARDIA 2008
L’ex magistrato sembra sfruttare una credibilità risalente ai tempi di Tangentopoli. Eppure la sua carriera non è del tutto limpida. Perché Travaglio, suo sostenitore, sembra ignorare questo aspetto come del resto tutti coloro che lo continuano a votare? «Me lo spiego semplicemente con il fatto che Travaglio è fazioso e che ha votato, come ha ammesso, Italia dei valori». Tra portaborse e savonarola, veri o presunti, come vede il rapporto tra il giornalismo italiano e la politica? «È un momentaccio. La politica si sta modernizzando e questo, per alcuni aspetti, equivale a una sua caduta di ruolo: più che politici si cercano amministratori o, in Parlamento, spingitori di bottoni. Non abbiamo mai avuto un Parlamento così squalificato e, paradossalmente, borghese e antipolitico». Ritornando su Travaglio, mai
come in questo ultimo periodo è stato nel mirino. Come giudica il voltafaccia di molti giornalisti che, fino a qualche tempo fa, cavalcavano tutte le sue battaglie e ora invece lo accusano nel metodo e nelle intenzioni? «Giudicare i voltafaccia è inutile in questo Paese. Ma a dire il vero tutti questi voltagabbana non li ho visti». Proviamo ad andare controcorrente e a sfatare il mito del suo antagonismo nei confronti di Travaglio. Facci, ci dica qualcosa di positivo su di lui. «Travaglio è pessimo, ma perlomeno, diversamente dalla nostra classe giornalistica, non è una pecora e non è un ignavo. Non sempre, assolutamente non sempre: ma spesso sa di quel che parla, dunque è nelle condizioni di raccontare le cose a modo suo senza la possibilità altrui di essere contraddetto. Non è particolarmente preparato: sono gli altri che non lo sono».
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IL FUTURO Sopra, un render dei padiglioni che saranno costruiti per l'Expo 2015. Nella pagina a fianco, Diana Bracco, presidente del progetto speciale Ricerca e Innovazione e Expo 2015 di Confindustria
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PROSPETTIVE
EFFETTO EXPO PER LE IMPRESE Opportunità per tutti i settori produttivi. Rilancio del made in Italy nel mondo. Promozione della cultura. Diana Bracco analizza quali saranno le ricadute più importanti dell'Esposizione universale sul mondo imprenditoriale della Lombardia. E dell'intero Paese SARAH SAGRIPANTI
Esposizione Universale di Milano del 2015 sarà un grande trionfo internazionale e un paradigma di buona gestione. Se la pubblica amministrazione sarà in grado di interagire e confrontarsi con il mondo delle imprese private, in un grande “gioco di squadra”. È questo quello che emerge dalle parole di Diana Bracco, presidente di Assolombarda e delegato di Confindustria per l'Expo, che sottolinea il ruolo fondamentale che dovranno rivestire le imprese in tutte le fasi di gestione del progetto. «Un aspetto davvero cruciale, perché per la riuscita delle manifestazioni, come dimostrano anche le esperienze internazionali passate, è essenziale il coinvolgimento dei privati». Ma è importante coinvolgere non solo i grandi gruppi industriali, che sicuramente avranno modo di giocare le loro carte negli appalti e negli eventi di maggiori dimensioni, ma soprattutto le piccole e
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medie imprese, che potranno contare su molteplici opportunità di coinvolgimento: nel settore alimentare, ma anche nel turismo, nella logistica, nella comunicazione. E, in sintesi, anche in tutto il manifatturiero, perché le produzioni del made in Italy potranno avvantaggiarsi dell'“effetto Expo” per conquistare nuovi spazi sui mercati internazionali. Nonostante le non confortanti notizie sull'andamento economico nazionale e internazionale, e le lacune ancora da colmare, prime fra tutte le infrastrutture, Diana Bracco è convinta che si sia già sulla strada giusta, perché le imprese hanno finalmente cominciato a guardare al futuro con ottimismo. E un'indagine della Camera di Commercio di Milano, commissionata a Iri-Infoscan nello scorso mese di maggio, sembra darle ragione: tre imprese su quattro sono pronte a investire in nuovi dipendenti o collaboratori, in vista delLOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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PROSPETTIVE Esposizione Universale
l'appuntamento del 2015. L'Expo, quindi, è riuscita a innescare un circolo virtuoso di ottimismo nel mondo delle imprese. «Sono convinta che tutta la città di Milano grazie all'Expo abbia ricominciato a guardare al futuro con ottimismo e nuova fiducia e abbia già recuperato moltissimo prestigio internazionale. Ormai tutti hanno capito che questo appuntamento è un grande strumento per diffondere in tutti i continenti conoscenze italiane legate all'alimentazione, alla Sanità, alla formazione e all'uso sostenibile dell'energia, e che è anche un'opportunità straordinaria per recuperare competitività e attrarre investimenti». Lei ha dichiarato di voler fare dell'Expo un'opportunità per tutte le imprese italiane, «mettendo in rete le idee, le proposte e le capacità realizzative». Come realizzerà questo obiettivo? «Il mio lavoro andrà nella direzione di costruire una rete di focal point attraverso i quali far crescere il progetto Expo sull'intero territorio nazionale, valorizzandone le eccellenze. È chiaro che Milano rimarrà città capofila, ma ritengo che in ogni parte della Lombardia e dell'Italia si possano costruire, ad esempio, pacchetti per coinvolgere i 29 milioni di visitatori con proposte turistiche e culturali di qualità. In generale, intendo poi sviluppare nessi tra sistema produttivo DOSSIER | LOMBARDIA 2008
e Università, e tra questa e la città. Legami e collaborazioni tra le diverse attività nei settori di ricerca all'avanguardia, fra attività produttive e servizi alle imprese. E nessi, infine, fra imprese e pubblica amministrazione. Quest'ultimo è un aspetto davvero cruciale, perché per la riuscita delle grandi manifestazioni, come dimostrano anche le esperienze internazionali passate, è essenziale il coinvolgimento dei privati, il ruolo che essi sono chiamati a svolgere, le possibilità che hanno di confrontarsi con il pubblico nelle diverse fasi di gestione del progetto». Come si muoveranno le imprese di Assolombarda? «Assolombarda, che associa seimila imprese di ogni settore, offrirà certamente un grosso contributo alla realizzazione e al successo dell'Expo. Le nostre aziende alimentari hanno già molti progetti, così come quelle del settore dei servizi, del turismo, della Sanità, della comunicazione». Quali saranno secondo lei i settori economici che trarranno maggiore beneficio dall'Expo? «A mio avviso ciascun comparto produttivo potrà trovare un proprio file rouge da portare avanti con la consapevolezza che poi andrà integrato nel grande progetto complessivo. L'Expo sarà infatti un'occasione di visibilità per i prodotti del made in Italy e per le imprese
italiane, a partire dalle Pmi che sono il vessillo del nostro sistema produttivo. Un fattore di promozione che ci farà raggiungere nuovi Paesi e aprire nuovi mercati». Ma le aziende sono pronte a cogliere tutte le possibilità che si presenteranno? «Le imprese, Milano e la Lombardia sono prontissimi. Tutti insieme vogliamo trasmettere un segnale forte al Paese, perché siamo fermamente convinti che l'Italia possa e debba rimettersi presto sulla via della crescita». Si tratta di una grande occasione per il rilancio economico dell'Italia, dunque. «Sì, ma non solo. È necessario tener presente che l'Expo è un'occasione unica per dare visibilità non soltanto alle imprese ma anche all'intero patrimonio culturale e artistico italiano. Come per la mobilità, anche per la cultura pensiamo a un “Corridoio V” che unisca i musei di Torino alla Biennale di Venezia intersecandosi con l'asse Nord-Sud delle città d'arte. Anche in questa prospettiva, mi auguro che l'Expo possa essere ricordata per la capacità di Milano di ripensare la propria vocazione in termini di sviluppo diffuso, duraturo e sostenibile». Ma per lo sviluppo, sono indispensabili le infrastrutture. Come giudica l'impegno del governo per la realizzazione di opere tanto attese come la Brebemi, la Tem e
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PROGETTI Qui sopra ancora un render panoramico dei padiglioni previsti per l'Expo. A lato, due momenti dell'assemblea di Assolombarda: sopra, da sinistra Emma Marcegaglia, Altero Matteoli, Diana Bracco e Letizia Moratti. Sotto, un momento della relazione di Diana Bracco
la Pedemontana? «Molto positivamente, infatti sono stati fatti importanti passi avanti. Il problema, però, è che qui viviamo un livello di congestione e di mancanza di moderne reti di collegamenti che non ha pari in Europa. Dobbiamo recuperare un ritardo drammatico: basta pensare all'Alta velocità ferroviaria che da noi è bloccata e che in Spagna e Francia è un asset dello sviluppo economico di quei Paesi». E per quanto riguarda invece il sistema aeroportuale lombardo? «Il sistema aeroportuale, con al centro Malpensa, è un asset strategico per i cittadini e le imprese italiane che vanno all'estero, ma soprattutto per far arrivare nel nostro Paese operatori e investimenti stranieri. Non si può pensare che il nostro territorio non abbia adeguati collegamenti diretti con il resto del mondo che conta o, cosa ancora più grave, con quello che conterà. E non voglio neppure immaginare cosa accadrebbe nel 2015, senza un'offerta di mobilità
aerea adeguata. Il rilancio di Malpensa deve essere l'impegno del governo per l'Expo». Crede che in vista dell'Expo, possa essere utile un coordinamento nazionale degli aeroporti italiani per ottimizzare le opportunità di sviluppo che verranno? «Un piano del trasporto aereo nazionale è una necessità assoluta per qualsiasi Paese moderno, anche a prescindere dai singoli eventi. La mancanza di chiare linee guida strategiche da parte dell'autorità di governo, negli anni passati, ha ad esempio provocato quel proliferare di aeroporti l'uno in concorrenza con gli altri che tanti danni hanno fatto all'Italia». Parlando di governance per la manifestazione, a quali criteri dovrebbe essere ispirata? «Una governance forte è molto importante, altrimenti sarà difficile riuscire a gestire tutti i progetti da realizzare nei sette anni che ci separano dall'evento. Per questo la nomina del sindaco Letizia Moratti a Commissario è stata im-
portantissima, così come lo è stata l'attribuzione di poteri speciali per bypassare ogni tipo di lungaggine. Una governance forte, però, va accompagnata da un grande sforzo di condivisione delle decisioni e di ascolto dei diversi attori coinvolti. Il territorio, le imprese, le associazioni e i cittadini devono essere messi in condizioni di poter proporre idee e dire la loro opinione. Credo che anche questo aspetto contribuirà notevolmente al successo dell'Expo». Che cosa si aspetta, quindi, per i prossimi anni? «L'imperativo per i prossimi anni sarà “fare squadra”. Già in passato, del resto, il nostro territorio è riuscito grazie all'impegno di tutti a raggiungere risultati straordinari con tempi “europei”. Penso al nuovo Polo fieristico di Rho Pero o al caso della Scala. Chi avrebbe scommesso per una sua riapertura dopo il restauro il 7 dicembre? Invece ci si è riusciti perché si è puntato tutto sul raggiungimento del risultato». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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L’ITALIA CORRE VERSO IL FUTURO Il ponte sullo Stretto. La Tav. L'informatizzazione della Pubblica amministrazione. La questione Alitalia. Infrastrutture energetiche e logistiche. Secondo Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti e Tlc, sono queste le «priorità per il rilancio del Paese» GIUSI BREGA
e moderne sfide di un Paese che intende giocare un ruolo da protagonista non possono prescindere da infrastrutture e telecomunicazioni, due settori che rappresentano al contempo croce e delizia dell'Italia. «In un momento di difficoltà economica del contesto internazionale come quello attuale, le infrastrutture possono essere un volano per lo sviluppo economico» mette in chiaro Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti Poste e Telecomunicazioni alla Camera. «Molti studi internazionali, infatti, testimoniano come gli investimenti in tecnologia possano determinare leve che decuplicano i capitali investiti». Parliamo di infrastrutture energetiche come le centrali di terza generazione che permetterebbero di raggiungere in poco più di 5 anni una dipendenza dal petrolio notevolmente infe-
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riore. Sempre sul versante delle infrastrutture energetiche va considerato anche l'utilizzo dei rigassificatori. Tutte iniziative che creano un notevole indotto economico a breve termine per la realizzazione, e un ingente risparmio sulla bolletta energetica. «Fondamentale è portare avanti con rapidità le scelte, senza che i veti di pochi possano bloccare le necessità di molti» continua Valducci. Terminare dunque la Firenze-Bologna, accelerare gli eterni lavori della Salerno-Reggio Calabria. C'è poi il ponte sullo Stretto, da costruire «compatibilmente con il reperimento delle risorse finanziarie». Sul fronte ferroviario la priorità è, invece, la realizzazione dell'alta velocità tra Torino e Venezia, «possibilmente senza assistere a quelle strumentali manifestazioni di blocco dei cantieri». Per quanto riguarda le Tlc bisogna accelerare la
diffusione della banda larga per poter rientrare nella media dell'Unione europea (attualmente il tasso di penetrazione della banda larga in Italia è del 17.8% contro una media Ue del 23.3%), con la consapevolezza che con la fibra ottica su banda larga corre non solo la voce, ma anche il video. E poi lo switch off analogico digitale. Un'opportunità tecnologica importante. Un ponte verso l'Europa. A breve partirà un'indagine conoscitiva sulle telecomunicazioni in Italia. Come si strutturerà e quali saranno gli obiettivi principali? «L'indagine ha lo scopo di realizzare uno sguardo d'insieme sull'intera industria di rete fissa, mobile e dei contenuti che sappia evidenziare i principali parametri economici e andamenti di mercato, lo stato della concorrenza e i principali nodi regolamentari, gli
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PROPOSITIVO Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera. Ha annunciato che farĂ un'indagine conoscitiva sullo stato del settore in Italia e sulle prospettive delle nuove reti LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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aspetti di maggior rilievo in tema di legacy di Telecom sulla rete di accesso e dello scorporo della rete. Inoltre l'indagine si propone di indagare sullo status e sui piani anche di lungo periodo relativi allo sviluppo delle reti a banda larga, alle possibili soluzioni al fenomeno del digital divide, allo sviluppo delle reti di nuova generazione fisse e mobili, oltre che gli aspetti più importanti in tema di mercato dei contenuti e sviluppo di nuove piattaforme. Ci confronteremo con i principali attori pubblici e privati del settore, oltre che con i soggetti istituzionali». Potenziare l'informatizzazione ha una ricaduta positiva anche sullo snellimento della macchina burocratico-amministrativa, vero fardello del Paese. Quali sono i vostri obiettivi primari in questo senso? «Bisogna rendere obbligatorio l'utilizzo del computer e di internet. L'uso dell'e-mail risolverebbe molte incombenze burocratiche. Mail e computer sono diffusi nella pubblica amministrazione, ma a essere diffuso è soprattutto la presenza, non l'utilizzo». Cambiando argomento, tra scioperi e disservizi, i trasporti restano un tema caldo. Come risolvere queste criticità? «Andrebbe diffuso il concetto della sussidiarietà orizzontale. La privatizzazione di alcuni dei servizi pubblici potrebbe aiutare in questo senso. Bisognerebbe avere il coraggio di stabilire se le cosiddette tratte sociali, che pur essendo in perdita vanno mantenute dallo Stato, debbano essere eliminate e gestite senza l'ausilio della società Autostrade, cercando di evitare gli sprechi. In Italia, sul fronte dei trasporti e della viabilità, abbiamo un sistema venoso eccessivo a fronte di poche arterie». Spesso si sente parlare di un gap infrastrutturale tra Nord e Sud. È possibile recuperarlo? DOSSIER | LOMBARDIA 2008
«Le infrastrutture soffrono di insufficienze in tutta Italia, ma in modo diverso. Pensiamo al Nord Est, un'area a fortissimo sviluppo che non ha infrastrutture adeguate. Al Sud c'è anche il problema delle organizzazione criminali che frenano lo sviluppo. La Commissione che presiedo si impegnerà per ridurre i vincoli che dilatano i tempi di realizzazione delle infrastrutture all'infinito. La Milano-Napoli venne realizzata in 8 anni negli anni '60 con le tecnologie dell'epoca che non sono quelle attuali. La Siena-Bettolle sono 20 anni che deve essere completata. Credo che quest'esempio sia calzante». Tra le priorità del governo resta Alitalia. Quale prevede saranno le soluzioni? «È fondamentale che il piano di rilancio passi attraverso tre tappe. La prima è la fusione. Alitalia dovrebbe unirsi a Air One e magari anche a Meridiana in un'unica grande compagnia di bandiera. Questo permetterebbe di mettere al servizio del nuovo soggetto il meglio delle due aziende di origine: da un lato, Air One porterebbe in dote i suoi apparecchi, nettamente più moderni di quelli con cui continua a volare Alitalia. Dall'altro, la compagnia di Via della Magliana metterebbe a disposizione la grande esperienza nel settore acquisita in decenni di attività. Non solo. La fusione è il passaggio necessario per arrivare al secondo step, cioè il predominio, netto, della nuova, grande compagnia di bandiera sul mercato dei voli interni. Puntare sulle tratte a maggior traffico aiuterà l'advisor a trovare imprenditori seri
«MOLTI STUDI INTERNAZIONALI TESTIMONIANO COME GLI INVESTIMENTI IN TECNOLOGIA POSSANO DETERMINARE LEVE CHE DECUPLICANO I
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che formeranno la tanto sospirata cordata. E bisogna fare in fretta, perché tra qualche tempo arriverà la concorrenza, durissima, dei treni ad alta velocità, capaci di collegare Roma a Milano in tre ore e mezza. Una volta consolidata la leadership nel campo dei voli nazionali, la nuova Alitalia potrà avere finalmente la forza di compiere l'ultimo e definitivo salto: scegliersi, trattando alla pari, un partner per competere anche sul mercato dei voli internazionali». Catalizzata l'opinione pubblica su Malpensa, si dimentica che l'Italia soffre di un'eccessiva frammentazione di scali aeroportuali con scarse possibilità di sviluppo a scapito di economie di scala. Come intervenire? «Per conformazione fisica, l'Italia
non si presta ad avere un numero elevato di scali. Fra Torino-Caselle e Venezia-Tessera ci sono 8 aeroporti in una distanza in linea d'aria di 370 chilometri. Un'esagerazione, soprattutto considerando lo sviluppo della Tav. Andrebbero individuati scali di interesse nazionale su cui concentrare gli investimenti e attuare una politica mirata, come lo sviluppo dei servizi accessori e attivare collegamenti intermodali». Il costo del petrolio ha un'evidente ricaduta su quello della benzina. Come mettere freno a questa escalation? «Il Governo Berlusconi si è già mosso in questa direzione diminuendo le accise quando sale il prezzo, così da renderlo modulabile. Altro si può fare sul fronte
della liberalizzazione della rete distributiva, come accade già in vari Paesi europei che beneficiano di prezzi alla pompa più bassi all'interno di grandi centri commerciali». Molti Paesi europei, ma non l'Italia, hanno dato priorità al trasporto su rotaia per le merci. Quando questa scelta sarà adottata anche dall'Italia? «È auspicabile che avvenga il prima possibile, ma è tutto legato alla costituzione di poli intermodali e alla diffusione dell'alta velocità. Bisogna ricordare che deve essere sviluppato il trasporto delle merci via mare, non adeguatamente sfruttato: oggi è appena al 5% del totale e il suo sviluppo è legato, anche in questo caso, all'intermodalità». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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DA SEMPRE LA VOCE DELLA MODA Un argomento difficile da afferrare nella sua sostanziale imprendibilità. La curiosità tipica della cronista che si accosta alla creatività italiana sul filo di una passione capace di scrutarne le sfaccettature più sottili e impercettibili. La parola a Giusi Ferrè CONCETTA S. GAGGIANO
a moda è lo specchio più efficace del tempo e della società in cui si vive. In questo momento certi voli creativi non sono accettati e forse nemmeno richiesti». Inizia così il viaggio attraverso la moda italiana con Giusi Ferrè, una delle più autorevoli giornaliste di moda. Passato, presente, e quello che sarà di un settore strategico per l’economia del nostro Paese, che cerca nei giovani il ritorno dei tempi d’oro. Cos’è la moda oggi e che ruolo ha nella società? «Oggi la moda ha un ruolo più che mai importante. L’arte, la cultura, la filosofia risentono dell’influenza della moda. Al tempo stesso, però, ha meno importanza di quanta ne avesse negli anni Ottanta, quando le firme italiane erano all’apice della loro espressività. Intanto il mercato si è esteso, di conseguenza ha perso in creatività e forse anche in eccentricità. L'arrivo in Italia delle catene d’abbigliamento low price ha cambiato totalmente l’aspetto della
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moda, anche se gli stilisti fingono che non sia vero. Si è fatto strada un consumo trasversale, che tende a unire grandi firme e low cost. Oggi si può vedere una signora molto elegante che indossa pantaloni H&M sotto a una giacca Chanel. Forse questa situazione dipende dal momento particolare che stiamo vivendo. Magari tra non molto la moda riprenderà a correre sulle ali leggere della fantasia, ma per ora mi sembra molto più di buon senso, con i piedi per terra». Questa tendenza ha trascinato in basso le grandi maison? «Intanto ha dato chiarezza al mercato e costretto le grandi firme a lavorare bene sulle loro seconde linee come fossero le prime. L'ha fatto Armani per Emporio Armani, Dolce&Gabbana per D&G, Prada per Miu Miu. L'arrivo sul mercato italiano delle marche low cost evidentemente va a colmare una richiesta di abiti alla moda ma di poco prezzo. Si è allargata la base del mercato certo, ma è anche vero che ha reso le
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IPSE DIXIT
GIUSI FERRÈ Scrittrice e giornalista, ha iniziato giovanissima al settimanale Epoca, poi è stata inviata di cultura per l'Europeo. Adesso, tra le altre cose, conduce Mode à Porter su Radio Montecarlo LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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tendenze un po’ più banali». Il ricambio creativo ai vertici delle grandi firme italiane a cui stiamo assistendo ha dato un’iniezione di vitalità a tutto il settore? «In Italia non mancano i giovani talenti, piuttosto mancano imprenditori che credano in loro e capaci di portarli avanti. Questi giovani creativi, intanto, hanno tutti superato i 30 anni e poi non sono sconosciuti, anzi. Frida Giannini, prima di arrivare a Gucci si è fatta le ossa da Fendi, ma più che essere una creativa ha un grande intuito nel marketing. È riuscita a dare un’identità all'uomo Gucci. Alessandra Facchinetti è passata da Miu Miu a Gucci prima del grande salto nella maison Valentino. La cosa sorprendente è che molto spesso i creativi italiani raggiungono il successo all’estero. Ne sono uno splendido esempio Riccardo Tisci, talentuoso direttore artistico di Givenchy, Antonio Marras che disegna la donna Kenzo, Roberto Menichetti a capo dello storico marchio inglese Burberry, Italo Zucchelli direttore creativo della linea uomo di Calvin Klein. La nostra immagine è quella di un Paese che ha avuto un successo straordinario alla fine degli anni Settanta con Armani, Versace, Ferré, dopodiché si è fermato tutto. Lanciare un talento ha un costo enorme per cui è difficile trovare chi è disposto a farsi carico di costi e rischi. Più un settore diventa economicamente importante e meno i suoi attori sono disposti a rischiare». Qual è oggi il ruolo di Milano sul palcoscenico della moda internazionale? «Penso che per quanto riguarda il prêt-à-porter, Milano abbia un ruolo fondamentale sia dal punto DOSSIER | LOMBARDIA 2008
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di vista economico che da quello organizzativo. Non c'è maison che voglia realizzarsi economicamente che non abbia una sede a Milano. Soprattutto grazie alla creatività aziendale, un elemento importante dello stile italiano. Il successo dell'italian style è dato dalla flessibilità di poter creare i propri tessuti, le proprie stampe, di poter avere degli accessori in linea con lo stile della collezione, grazie al fatto che dal filato alla tessitura, dalla tintura al taglio, fino alla confezione e a tutto il mondo degli accessori, il prodotto è made in Italy. Quell'insieme di conoscenze, competenze, rapporti che le imprese hanno sviluppato e creato nel tempo, quel connubio tra creatività e tecnologia che altri mercati non posseggono costituiscono il vero patrimonio dell'impresa. Un
sistema che tutto il mondo ci invidia e capace di resistere anche agli attacchi di Cina e India. Dal punto di vista della creatività, invece, la città non vive anni felici. L’incapacità di riconoscere nuovi talenti e la mancanza di scelte coraggiose rende Milano uguale alla Parigi degli anni Ottanta, quando la capitale francese, alle prese con il ricambio generazionale, mostrò il fianco agli emergenti couturier italiani. Ecco credo che Milano stia vivendo queste difficoltà». E l’alta moda? «Purtroppo è soltanto un dolce ricordo. Penso che ormai sia stata delegata completamente ai francesi. Valentino ha deciso già da anni di sfilare a Parigi perché lì si trovano i clienti e la stampa internazionale che ormai hanno lasciato Roma. I costi sono esorbi-
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«PENSO CHE PER QUANTO RIGUARDA IL PRÊT-ÀPORTER, MILANO ABBIA UN RUOLO FONDAMENTALE »
PRÊT À PORTER A fianco, Giusi Ferrè. Sopra, la donna Versace in passerella alla Milano Fashion Week dello scorso febbraio
tanti e il mercato, se si pensa che negli anni Ottanta era intorno ai duemila clienti e adesso forse anche meno, è quasi nullo. Mercato che, per altro, è ad appannaggio quasi esclusivo delle grandi case francesi. L’alta moda rappresenta il sogno ed è la massima espressione della creatività ma ha un senso se sostiene il grande business commerciale dato dai settori dei profumi, del make up e degli accessori. La presenza dei cinque instancabili romantici che sfilano a Roma servirebbe se inserita in un parterre di giovani, perché potrebbe simboleggiare la tradizione e l'esperienza della manifattura italiana rispetto alla freschezza dei giovani designer, ma purtroppo non è così. Il fatto di essere cucito a mano non rende automaticamente un abito, seppur bello, de-
gno dell'alta moda. Allora io penso che hanno ragione di esistere i meravigliosi abiti di John Galliano, che rappresentano grandi sogni come l’Oriente o la principessa in fuga. Non importa chi li compra perché servono a costruire l'immagine della maison, a sostenere il prêt-à-porter e gli accessori». Lei ha raccontato la moda attraverso la carta stampata, la televisione e la radio. Quale medium è il più adatto? «Penso che la penna sia lo strumento attraverso cui si possa raccontare meglio la moda. Il video, al contrario di ciò che si può pensare, è forse il modo peggiore perché nella televisione molto spesso scompare l'incantevole leggerezza della moda che le sfilate regalano. La televisione tende a incidere sugli aspetti caricaturali delle cose. Mi piace molto la radio, perché è fresca, immediata, permette una fruizione più ampia e leggera». Quali personaggi le hanno lasciato un segno? «Gianni Versace e Gianfranco Ferrè. Le prime interviste importanti le ho fatte a loro e si è creato da subito un rapporto abbastanza forte, che è poi uno degli aspetti più affascinanti del lavoro giornalistico. Due talenti straordinari che mancano tantissimo al mondo della moda perché con la loro presenza e con il loro lavoro rendevano più bravi anche gli altri. Io dico sempre che Armani era più Armani e più bravo quando c'era anche Versace. Ho una grande stima dei professionisti che fanno parte di questo mondo perché si impegnano moltissimo, a dispetto dell'opinione comune, e sono legatissimi al proprio lavoro, da cui dipende il loro modo di ragionare e vedere la realtà. Nel corso della
mia carriera ho conosciuto scrittori, poeti e artisti e trovo che i talenti eccezionali della moda reggano molto bene il confronto con i primi. Ho avuto la fortuna di intervistare due volte John Galliano e devo dire di essere rimasta colpita dal suo modo di comportarsi e di ragionare. È una persona che affascina. Valentino, invece, è un uomo che mi diverte molto perché vive in un mondo suo. È l'ultimo dei principi e vive come tale». Se dovesse indicare un colore, un tessuto e un accessorio che identifichi la moda di oggi quali sceglierebbe? «Il colore dominante sicuramente è il nero, perché riassume in un colpo solo tutti i colori possibili e poi perché non è mai assente per più di una stagione. È un colore che in parte deriva dalle atmosfere punk, uno dei movimenti che più ha influenzato la moda. E poi penso che una parte del nostro senso estetico derivi da Blade Runner, in cui il concetto del nero, del gotico, degli anni Quaranta e del futuro, ha influenzato il nostro concetto di bellezza. Per il tessuto, invece, penso al satin, ma anche a materiali importanti come la microfibra e il poliestere, che esprimono prestazione e performance. Per l'accessorio direi che il must sono una collana molto forte o un grande anello, che siano allo stesso tempo contemporanei ed etnici. Oppure oggetti dal design molto forte che rappresentino un taglio e forse anche la durezza del presente. Quando ci si veste si decide di esprimere qualcos'altro oltre se stessi, di mettere in scena qualcosa. Anche perché ci si racconta attraverso i vestiti e gli accessori che si indossano». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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AVVENIRISTICA Due immagini del nuovo quartiere espositivo Fieramilano a Rho. Nella pagina accanto, Luigi Roth, presidente di Fondazione Fiera Milano DOSSIER | LOMBARDIA 2008
TERRITORIO Architettura2007 ©Archivio Federico Brunetti
TRA IL MERCATO E LE IMPRESE Una società per azioni senza soci che produce utili da reinvestire. Nell’interesse della collettività. È la Fondazione Fiera Milano che, dopo Rho, guarda all’Expo. Il presidente Luigi Roth spiega obiettivi e prospettive LAURA PASOTTI
i presenta come “fondazione di sviluppo” e soggetto economico al confine tra istituzione e mercato. Dopo aver partecipato alla costruzione dell’avveniristico quartiere espositivo di Fieramilano a Rho e alla riqualificazione del luogo che per 80 anni ha ospitato la Fiera al centro della città, Fondazione Fiera Milano si rivolge al “contenuto”. In che modo? «Sviluppando iniziative e attività rivolte allo sviluppo economico, culturale e scientifico del territorio — spiega Luigi Roth, presidente della Fondazione — e al potenziamento delle infrastrutture necessarie alle imprese e alla loro capacità di operare sul mercato globale». E, portando il mondo alla portata delle imprese e del territorio, per realizzare l’obiettivo di
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scambio economico e culturale previsto nel suo statuto. Nel 2005 lei ha detto che Fondazione Fiera Milano si trovava in una “terra di mezzo tra il consolidamento della propria posizione e il futuro”. A tre anni di distanza, dove si trova? «La Fondazione oggi sviluppa due fronti di attività. Da un lato, il core business fieristico attraverso il sostegno alla controllata Fiera Milano Spa. Ne sono esempi, la riqualificazione del Portello per creare il più grande centro congressi d’Europa, il bilancio sociale di gruppo, la formazione e gli studi. Dall’altro, c’è l’Expo. Ci siamo impegnati, insieme agli altri attori, per la candidatura di Milano e, oggi, siamo a disposizione per realizzare le opere necessarie». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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TERRITORIO Fondazione Fiera di Milano
Fondazione Fiera Milano si definisce fondazione di sviluppo. Che cosa significa? «Essere al fianco delle istituzioni e operare nell’interesse collettivo ma con logiche privatistiche. Siamo una Spa senza soci che produce utili da reinvestire e non da distribuire. Una vera e propria impresa. Un soggetto privato che trae profitto dal proprio operato e intraprende progetti che ne garantiscano la sopravvivenza e la crescita. Siamo un soggetto economico al confine tra istituzione e mercato con il compito di realizzare progetti utili alla società attraverso le proprie risorse». Qual era l’idea di sviluppo della Fondazione prima della trasformazione di Fieramilano e come si è trasformata? «La nuova sede era necessaria per rendere più competitiva l’attività espositiva e congressuale di Milano. Ma è stata solo il punto di partenza. Poi abbiamo avviato riflesDOSSIER | LOMBARDIA 2008
sioni sul software, sull’innovazione del concetto di fiera e di esposizione. Non a caso abbiamo aperto lo scorso anno fieristico sull’economia dell’esperienza e apriremo il prossimo sull’economia vista dalla Fiera. L’idea di sviluppo è la stessa. È diverso l’approccio alla realizzazione di una grande infrastruttura e all’attività quotidiana, fatta di tanti progetti imprenditoriali sul territorio». Formazione. In che modo si muove la Fondazione sotto questo punto di vista? «La formazione per noi è un aspetto importante, un’attività che svolgiamo per responsabilità sociale in sinergia con la ricerca. Abbiamo una business unit chiamata Accademia che forma persone già al lavoro o desiderose di entrare nel settore fieristico e attraverso la quale colmiamo i vuoti di conoscenza ai diversi livelli di professionalità grazie a percorsi post laurea in mana-
gement e progettazione di allestimenti. Ma realizziamo anche corsi post diploma per giovani attraverso i Poli formativi della Regione e formazione per le aziende che desiderano esporre alle manifestazioni in modo pensato e consapevole e vogliono massimizzare l’investimento fieristico». Sviluppo continuo del territorio. Quanto è importante? «È fondamentale. La nostra visione di responsabilità sociale non è solo redazione di bilanci sociali e di sostenibilità e non consiste certo in beneficenza. Quanto più il territorio si qualifica, non solo per gli espositori e i visitatori della Fiera ma anche per chi lo abita tutto l’anno, tanto più la Fiera potrà radicarsi e avere successo. Non vogliamo snaturare l’identità locale dei comuni in cui ci siamo insediati ma auspichiamo che questi metabolizzino la Fiera e propongano ai clienti un territorio unico e diverso
TERRITORIO
INTEGRATA NEL TERRITORIO La vela e i padiglioni di Fieramilano con le montagne sullo sfondo. A destra, in alto, Luigi Roth insieme al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e, sotto, la folla all’ingresso di Fieramilano in occasione del Salone del Mobile
da quello che possono trovare in Germania, in Cina o negli Usa. L’Expo, da questo punto di vista, sarà un’importantissima chance per accelerare il processo di osmosi tra Fiera e territorio». Come mai avete scelto di realizzare il nuovo polo in autofinanziamento con ricorso al metodo del General Contractor? «È stata una scelta strategica. Non c’è stata una gara d’appalto tradizionale ma una gara internazionale con la formula “chiavi in mano”. Il General Contractor permette di avere un unico interlocutore ed evitare la dispersione di energie o risorse che un’opera di queste dimensioni avrebbe potuto provocare. Una sfida e molte certezze, trenta mesi per avere una fiera funzionante con la certezza del prezzo e rispettando le garanzie di qualità. Aver trovato il consenso dei comuni interessati ha facilitato tutto».
In che modo secondo lei le Fondazioni possono comunicare il loro impatto sul territorio? «Non è il nostro caso ma, è vero, in genere le fondazioni comunicano poco. Sono soggetti in grado di “fare politica” in senso lato perché agiscono sul proprio territorio con la stretta interdipendenza e con il ruolo di stimolo alle attività che la politica in teoria dovrebbe avere. E lo fanno in modo sussidiario, senza sostituirsi ai soggetti che dominano la scena politica ma stando al loro fianco. La comunicazione pertanto è fondamentale per parlare non tanto della propria attività quanto delle finalità che governano l’esistenza di una fondazione e il peso che ha come organismo sussidiario alle istituzioni». Che impatto avrà secondo lei l’Expo sul territorio di Milano? E
quale ruolo avrà la Fondazione? «Se saremo capaci fin da subito di dar vita al progetto che ha consentito a Milano di conquistarlo, la sfida alla fame nel mondo e dell’alimentazione, l’Expo sarà un evento di portata mondiale. Ma dobbiamo guardare a esso nella sua complessità e non fermarci ai padiglioni e alle infrastrutture. Dall’Expo mi aspetto un generale impegno sociale per aiutare intere popolazioni a uscire dal sottosviluppo. Questa è anche l’occasione per avviare un percorso di sviluppo sostenibile che permetta ai nostri figli di disporre domani delle stesse risorse di cui disponiamo noi oggi. Per Milano, la Lombardia e l’Italia, l’Expo sarà una bellissima sfida di civiltà». LOMBARDIA 2008 | DOSSIER
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