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OBIETTIVO GIUSTIZIA IUS & LEX
Mauro Pizzigati
INCARICHI Mauro Pizzigati già presidente dell’Ordine degli avvocati di Venezia è oggi alla guida dell’Unione Triveneta degli Ordini Forensi
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OBIETTIVO GIUSTIZIA
L’AVVOCATURA DEL TRIVENETO VERSO IL FUTURO L’avvocatura del Nord Est è da anni all’avanguardia nel fare proposte concrete nel campo delle riforme in tema di giustizia e la sua attività è apprezzata all’unanimità in tutto il Paese e tra gli addetti al settore. Questo è avvenuto anche per quanto riguarda la nuova legge fallimentare. Il procedimento è adesso più snello e tendenzialmente molto più breve. L’avvocato Mauro Pizzigati fa il bilancio della situazione MARILENA SPATARO
n un momento di crisi economica globale, come quello che stiamo attraversando, e che ha messo in ginocchio anche grandi colossi dell’imprenditoria, dell’industria e del credito, la riforma in materia fallimentare del 2005, intervenendo in vari ambiti per ammodernare e per snellire le procedure, appare oggi più che mai un provvedimento di grande utilità. Nell’illustrare, in una riflessione ad ampio raggio, l’attuale panorama della giustizia italiana, l’avvocato Mauro Pizzigati, presidente dell’Unione Triveneta degli Ordini Forensi, fa il punto sulle nuove disposizioni in campo fallimentare, indicando i vantaggi più evidenti che da questa riforma sono derivati alla giustizia e all’economia del nostro Paese. Quali sono i problemi della giustizia nel Triveneto? «Il funzionamento di alcuni uffici giudiziari, la carenza di giudici rispetto alle reali esigenze e rispetto a quelle che sono le previsioni delle specifiche piante organiche e, ancora, la carenza di personale amministrativo. Tutte queste situazioni fanno rallentare, assai spesso, i processi civili e penali, contribuendo a rendere del tutto irragionevole la durata media di un processo». La lentezza della giustizia nel nostro Paese è, infatti, una questione che appassiona tutti. Come affronta la questione l’Unione che presiede?
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L’IMPEGNO Favorire il dialogo per rendere più efficiente il sistema L’Unione Triveneta degli Ordini Forensi è la voce dell’avvocatura del Nord Est. Ha il compito di esprimere il pensiero unitario della categoria in ambito nazionale. Mauro Pizzigati, avvocato e docente universitario all’Università Ca’ Foscari giunge in questi giorni al termine del primo anno di mandato come presidente dell’Unione. Dopo essere stato a lungo alla guida dell’Ordine degli avvocati di Venezia, affronta anche questa sfida in linea con le prerogative che orientano da sempre il suo operato: rappresentare l’eccellenza culturale e professionale del Nord Est, illuminarne l’immagine in ambito nazionale e stimolarne lo sviluppo. E, in particolare, rispondere al primo compito che contraddistingue l’Unione degli Ordini Forensi del Triveneto: alimentare il dialogo con le Istituzioni nazionali su tutte le tematiche che riguardano il migliore funzionamento della giustizia e dell’avvocatura.
«ERA NECESSARIO PROCEDERE A UNA RIFORMA DELLA LEGGE FALLIMENTARE PERCHÉ QUESTA NON ERA PIÙ ADEGUATA RISPETTO ALLA SITUAZIONE ECONOMICA ATTUALE»
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«Stiamo lavorando, a livello nazionale e territoriale, per ottenere che vi siano più giudici e più personale amministrativo e inoltre stiamo cercando di dare un contributo affinché, con alcune riforme e con l’introduzione di prassi comuni, si possa pervenire ad un processo più giusto e più rapido, atteso che il tempo costituisce un elemento essenziale e una sentenza che giunge troppo tardi rappresenta, certamente, un caso specifico di denegata giustizia». In una situazione di crisi economico finanziaria come quella attuale che importanza assume rispetto all’economia del no-
stro Paese l’aggiornamento al decreto del 1942 da parte della legge fallimentare del 2005? «Era necessario procedere a una riforma della legge fallimentare perché questa non era più adeguata rispetto alla situazione economica attuale. Se si pensa che il modello paradigmatico dell’imprenditore che poteva fallire, nella precedente normativa del 1942, era quello dell’imprenditore individuale, mentre è pacifico che il modello di riferimento attuale è quello dell’imprenditore-società, l’utilità di questa riforma appare evidente. A parte ciò, a indurre il legislatore a modificare la precedente normativa ha contribuito la necessità di realizzare un processo fallimentare più giusto e più rapido, cercando di risolvere, anche a livello legislativo, numerose problematiche sorte nella vigenza della vecchia
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disciplina. Ciò che dispiace, però, è che si sia persa un’occasione per attuare una riforma di vero respiro europeo, dal momento che si è ritenuto, secondo me sbagliando, di mantenere il vecchio impianto normativo, sul quale si è cercato di lavorare per ottenere gli obiettivi sopra indicati, ma, così facendo, sono sorti vari problemi di coordinamento tra norme vecchie e norme nuove, che sta già facendo faticare non poco gli addetti ai lavori». Cosa è cambiato all’interno del diritto fallimentare? «La riforma della legge fallimentare ha modificato, soprattutto, il ruolo degli organi della procedura, valorizzando maggiormente la funzione gestoria del curatore e del comitato dei creditori. Al giudice delegato è stato attribuito, per contro, un ruolo di controllo sulla regolarità della procedura,
mentre i compiti del Tribunale fallimentare rimangono sostanzialmente invariati rispetto a prima». Quando “conviene” oggi a un’impresa dichiarare fallimento? «È evidente che anche ora si deve provvedere a dichiarare il fallimento quando un imprenditore commerciale non è più in grado di mantenere i propri impegni e anzi, spesso, tale situazione può generare, a cascata, gravi difficoltà anche ad altri imprenditori. Ovviamente, se ne ricorrono le condizioni bisogna, però, cercare di evitare il fallimento, ricorrendo ad altre soluzioni previste dalla Legge fallimentare e che possono in qualche modo conservare l’attività: mi riferisco al Concordato preventivo e agli Accordi di ristrutturazione dei debiti. Il fatto è, per altro, che i soggetti interessati non vogliono fallire e cercano
fino all’ultimo una salvezza, molte volte impossibile, determinando anche un aggravamento del dissesto finanziario, rischiando di compromettere soluzioni alternative meno traumatiche, come quelle sopra citate ed attuando condotte spesso imprudenti, se non addirittura dissennate». Quali sono i rischi che gli imprenditori devono evitare? «Gli imprenditori soggetti a fallimento debbono cercare, più che mai, di mantenere sempre una condotta gestionalmente corretta, accettando l’alea d’impresa, che è fisiologicamente connessa all’esercizio dell’attività, ma debbono evitare, non di meno, scelte azzardate ed illogiche. Diversamente possono scattare imputazioni anche molto pesanti ed azioni di responsabilità che possono compromettere seriamente il patrimonio personale».
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CONFINDUSTRIA Andrea Tomat
SE AGGREDIAMO LA CRISI NE USCIREMO PIÙ FORTI Adattarsi e saper cambiare. Ripensare la finanza, perché ritorni al servizio delle imprese. Senza aver paura di investire. Il presidente di Confindustria Veneto indica la strada vincente per uscire dalla crisi ANDREA PIETROBELLI
n questo momento l’errore più grande sarebbe chiudersi e rinunciare a operare e a investire». Non ha dubbi Andrea Tomat, neo-presidente di Confindustria Veneto. Il modo migliore per affrontare la crisi è attaccarla, senza cedere alla paura. «Sicuramente è necessaria maggiore attenzione sulle scelte da fare – chiarisce il patron di Lotto –, evitando per il momento passi troppo rischiosi. Ma non per questo dobbiamo smettere di lavorare per creare nuove opportunità di prodotto ed esplorare nuove aree di potenziale sviluppo». Il sistema imprenditoriale deve continuare, quindi, quel processo di sviluppo avviato con decisione nel recente passato. «Credo sia il momento di riprendere con decisione il percorso della modernizzazione, dell’internazionalizzazione e dell’innovazione – continua il presidente –. Bisogna riposizionare il livello di attività di quei settori che sono cresciuti oltre misura, focalizzando le aree cruciali per lo sviluppo come ad esempio l’energia, l’ambiente e le infrastrutture. Da sempre le crisi sono un’occasione per rivedere il proprio modello di business, per prepararsi al dopo nel modo migliore». Presidente, ma quali sono nel concreto, queste opportunità? «Innanzitutto la crisi deve essere
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utilizzata per porre fondamenta più solide nel settore del credito. È necessario introdurre e rendere effettiva un’azione di supervisione e governo che prevenga le situazioni aberranti che si sono verificate. Per quanto riguarda l’immediato, onde evitare che gli effetti di un uso sconsiderato dei prodotti finanziari finisca per incidere anche sulla parte sana del sistema economico, è indispensabile procedere celermente a una ristrutturazione. Bisogna liberare gli istituti finanziari dagli “asset tossici”, disponendo la regolazione delle posizioni in perdita a tempi successivi. Le banche devono poter ripristinare una normale erogazione del credito e le imprese devono poter contare su un sistema creditizio che le sostenga in questa fase di grave rallentamento dell’economia». Come dovrebbe cambiare la cultura d’impresa italiana per non farsi cogliere impreparata? «Bisogna sottolineare che l’Italia non è l’unico Paese ad essere colpito dalla crisi, e che nessuno si aspettava una simile situazione. Anzi, l’Italia forse è stata una delle nazioni che ha subito al momento, un minor contraccolpo. Detto questo, però, anche il nostro Paese ha molta strada da fare. È importante perseguire rapidamente e con coraggio nel processo di riforme che sono state
avviate dal governo: federalismo fiscale, riforma della pubblica amministrazione, della sanità, più efficace controllo della spesa pubblica, nell’uso e nella destinazione delle risorse. Per ciò che riguarda l’industria, è necessario mantenere alta l’attenzione ai processi di ricerca e innovazione, esprimere maggiore propensione a operare sui mercati esteri, in particolar modo verso quelli in via di sviluppo che da molti anni riescono a garantire alle nostre aziende importanti prospettive economiche». E quali sono le vostre priorità per affrontare col passo giusto il 2009? «Nel breve periodo, sarà fondamentale garantire il credito alle imprese che sono coinvolte in una crisi di portata mondiale. In questo momento il sistema bancario deve garantire la liquidità necessaria alle imprese che stanno cercando di uscire da una serie di difficoltà giunte inattese proprio mentre era in corso un formidabile processo di riposizionamento in termini di nuovi prodotti e di nuovi mercati. Per dirla con chiarezza, chiediamo con forza che non ci siano improvvise e ingiustificate richieste di rientri, di garanzie aggiuntive, e che i costi delle operazioni siano tenuti ai livelli più bassi possibili. Noi per primi come Confindustria Ve-
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DETERMINATO Andrea Tomat, presidente della Federazione regionale degli Industriali del Veneto e presidente e direttore generale di Lotto Sport Italia Spa
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neto abbiamo avviato un fondo di garanzia con 3,5 milioni di euro allo scopo di dare una risposta immediata alla stretta finanziaria, ma le banche devono essere gestite con lo spirito di chi fa dell’essere banchiere una funzione essenziale nella vita di un sistema economico, di chi conosce la rilevanza del sistema del credito in una fase cruciale per il sistema industriale». E per quanto riguarda il cambiamento di lungo periodo? «Con l’ingresso della Cina nel Wto, nel 2002, ha avuto inizio una nuova era. Una sfida che le nostre imprese hanno affrontato puntando su alcuni grandi processi: innovazione a 360 gradi, internazionalizzazione, crescita delle filiere e dei distretti produttivi, legando questi processi alla valorizzazione del capitale umano. Adesso, questo modello che stava portando i primi frutti, è stato pesantemente frenato dagli effetti della recessione. Per riprendere il percorso e guardare avanti ab-
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biamo la necessità di continuare a lavorare su questi progetti e per farlo abbiamo bisogno delle risorse finanziare come normalmente avviene». Parlando del Veneto, quali sono i punti di forza che la regione può mettere in campo in questo momento difficile? «Anche se le cause delle difficoltà provengono per larga misura da fattori esogeni, organizzare il miglior sistema difensivo possibile è l’unica cosa che oggi dobbiamo attuare sul territorio. Il Veneto da sempre ha dimostrato di saper affrontare e vincere sfide impegnative, con forte spirito d’iniziativa e grande dedizione, riuscendo a caratterizzarsi per una continua capacità di adattamento e di rivisitazione dei propri elementi di successo, in chiave innovatrice. Dobbiamo continuare a credere nelle nostre capacità, nello spirito di sacrificio nostro e dei nostri collaboratori, delle istituzioni pubbliche e di tutta la società. Sarà necessario un grande sforzo
comune ma sono certo che ce la faremo a superare anche questo difficile momento». Recentemente lei ha appoggiato l’invito del direttore del Gazzettino, Roberto Papetti, al governo per tenere un Consiglio dei ministri nel Nord Est in modo da farne conoscere il modello economico e sfatare ogni stereotipo. A quali luoghi comuni si riferisce esattamente? «Ho appoggiato l’iniziativa perché condivido l’opportunità di avere, nella nostra regione, un Consiglio dei ministri, nella speranza che iniziative come questa possano aiutare il Veneto a farsi conoscere meglio. È un territorio “laborioso” e “produttivo” che riceve ancora poca attenzione da parte dei politici e dei media nazionali. C’è bisogno di un forte segnale d’incoraggiamento perché la situazione è complessa e difficile e additare un esempio virtuoso fa bene anche al Paese». Come giudica il pacchetto anticrisi del governo? «Bisogna riconoscere al governo di essersi mosso complessivamente nella giusta direzione, ma è necessario proseguire con ancora più coraggio e determinazione. Ben vengano gli aiuti ai consumi, alle banche e l’uso degli ammortizzatori sociali per i lavoratori. Molto tuttavia può essere fatto ancora e senza dover intervenire con nuovi strumenti economici. Uno su tutti: i debiti che la pubblica amministrazione estingue in tempi lunghissimi, devono, e sottolineo, devono, essere accorciati. Penso poi alla riduzione dei costi della burocrazia. È fondamentale puntare sulle Pmi che di fatto costituiscono buona parte del tessuto produttivo non soltanto della nostra regione, ma dell’intero Paese. A queste si deve pensare propo-
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nendo misure di sostegno efficaci che permettano di superare la crisi e le mettano in condizione di ripartire con il dinamismo che le contraddistingue». Recentemente ha stretto un patto di consultazione con i sindacati. Quanto è importante ora lavorare in sinergia con le controparti? «L’incontro con i sindacati veneti dei primi di febbraio ha rappresentato sicuramente un buon punto di partenza, una risposta positiva e tempestiva ai problemi della regione. In quell’occasione ho ribadito che la concertazione è importante ed è la base di un sistema di relazioni industriali. La crisi non ha bisogno di conflittualità, ma di convergenza. La Cgil era presente e ha fornito un prezioso contributo al pari delle altre sigle sindacali presenti. Ho trovato rappresentanze sindacali pragmatiche, puntuali, attente e consapevoli della gravità del momento e dotate di grande realismo nel battersi per salvaguardare le capacità di reddito delle famiglie, lasciando alle imprese i necessari margini di movimento per mettere in atto, laddove occorrano, le operazioni di ristrutturazione. Posso affermare che è una stagione positiva, almeno per ciò che sta accadendo in Veneto». Per tutelare il capitale umano e le competenze sono necessari maggiori ammortizzatori sociali. Secondo lei è possibile garantirli senza aggravare il debito pubblico? «Gli ammortizzatori sociali devono rimanere uno strumento pubblico e per questo le istituzioni pubbliche devono recuperare i fondi necessari che si aggiungono a quelli che le imprese hanno costituito con i propri verDOSSIER | VENETO 2009
samenti. Certamente le aziende possono dare il loro contributo e adottare forme di sostegno e venire incontro ai propri dipendenti, ma non può essere chiesto loro di aggiungere consistenti oneri alle già elevate tasse che sono chiamate a pagare e ai fondi già versati». Parliamo di mercati. Quali sono, a suo avviso, le politiche da attuare verso le diverse aree di sbocco dei prodotti italiani? «Credito, internazionalizzazione, innovazione, semplificazione, questi sono i temi che ci interessano. Occorre allo stesso tempo evitare politiche protezionistiche provocate da reazioni emotive. Il protezionismo non solo non funziona, come la storia ha insegnato, ma provoca un danno ulteriore ai prodotti di un’area a
forte vocazione export come il Veneto. La valorizzazione dei prodotti di un territorio passa per altre strade». Le imprese, come i cittadini, devono avere fiducia e continuare a investire. Per quanto riguarda le imprese, cosa potrebbe coadiuvare il senso di fiducia? «Segnali da parte del sistema politico e dal mondo delle banche. Da parte delle imprese ci vuole sicuramente più fiducia e intraprendenza. Se ben sostenuti dalla politica, dalle banche, gli imprenditori hanno grande capacità di innovare, investire per crescere e creare occupazione. Sono sicuro che quando l’economia riprenderà a muoversi le nostre aziende si faranno trovare pronte com’è sempre accaduto».
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GIANNI DE MICHELIS Gianni De Michelis, ex ministro degli esteri, segretario del Nuovo Psi
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©Stefano Meluni/LaPresse
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QUANDO IL MONDO ERA DIVISO IN DUE Italia ed Europa tra passato e presente. Gli anni del socialismo e della parabola di Bettino Craxi. Quale eredità è rimasta di quella identità politica? Una riflessione con Gianni De Michelis, segretario del Nuovo Psi, il partito ricostruito per raccogliere l’eredità del leader degli anni Ottanta DANIELA ROCCA
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ITALIA-EUROPA Gianni De Michelis
a storia non va in prescrizione e i conti con il passato, anche quello recente, se non si fanno al momento giusto inevitabilmente ritornano. È strano come l’eredità di un grande movimento che ha dato un contributo fondamentale alla storia d’Italia sia oggi contesa, quando solo pochi anni fa era ancora denigrata. Una parentesi unica e irripetibile quella del partito socialista di Bettino Craxi, con la sua figura molto controversa, ma anche molto amata. «Sono passati quasi vent’anni da Tangentopoli e solo ora si tende a valutare in modo pieno e corretto la figura di Craxi che è stata quella di un grande politico, di un grande statista. Oggi si tende a una lettura più distaccata di quegli anni, mettendo sullo sfondo i problemi relativi alle vicende giudiziarie, che erano tutto sommato connesse a una situazione strutturale dell’Italia durante la Guerra Fredda – afferma Gianni De Michelis –. È necessario capire che i nostri problemi sono simili a quelli di altri Paesi. Difficoltà che si riscontrano in tutte le democrazie del mondo relative al funzionamento della pubblica amministrazione, della politica, della corruzione». Quale aspetto del leader del partito socialista è stato sottovalutato e quale sopravvalutato? «Secondo me l’aspetto più sottovalutato è stato quello di uomo di governo che aveva a cuore il ruolo
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©Mauro Scrobogna / Lapresse
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«IL RUOLO DELL’ITALIA DURANTE IL NEGOZIATO DI MAASTRICHT È FIGLIO DELL’AUTOREVOLEZZA CHE LA GUIDA DI CRAXI AVEVA IN QUEGLI ANNI»
internazionale del proprio Paese. Quello che si tende ancora adesso a non riconoscere è stata la qualità del governo dell’Italia negli anni 80, che è stato uno dei Paesi che ha avuto, grazie soprattutto a Craxi, uno dei governi migliori in una fase molto importante per l’Europa. Sono stati gli anni in cui l’Europa occidentale ha vinto la sua sfida con l’altra parte, quella che apparteneva al blocco
comunista. Non dimentichiamoci che la Guerra Fredda in Europa è finita con il Trattato di Maastricht, della cui importanza solo oggi ci rendiamo conto. Naturalmente il ruolo dell’Italia durante il negoziato è figlio dell’autorevolezza che soprattutto la guida di Craxi aveva in quegli anni». Un’autorevolezza che ha portato l’Italia, in quegli anni, a un’auto-
© Roberto Monaldo / LaPresse
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nomia anche rispetto agli Stati Uniti. «Ci avrebbe messo nella direzione giusta per riuscire a superare meglio gli anni 90. Invece, Mani Pulite ha stroncato questa direzione di marcia autonoma dell’Italia che il declino dell’Italia di quasi venti anni». Eredità socialista, riformismo e laicismo sono scritte nel dna del partito. Il Governo Berlusconi sta portando avanti alcune riforme, ma sul laicismo la politica sembra arenarsi. Sembra un’eredità che non piace né a uno schieramento né all’altro. «Il tutto va di pari passo con l’autonomia dell’Italia e la sua capacità di svolgere la partita, sia pure in ambito europeo, a livello internazionale. Un’Italia meno autonoma è, inevitabilmente, un’Italia meno laica. In realtà, minore autonomia significa una maggior subordina-
zione al centro del potere spirituale che è sempre stato, per ragioni geografiche e storiche, molto importante in Italia: il Vaticano». Rapporto tra giustizia e politica, cosa pensa della magistratura troppo politicizzata? «È una delle conseguenze di cui si avvertono ancora gli effetti. Negli anni di Mani Pulite vi sono stati settori della magistratura che in qualche modo si sono fatti partecipi di un disegno di manipolazione politica. Questo ha ovviamente introdotto una cattiva abitudine che è dura a morire». Le Europee sono alle porte. Quali saranno le sfide di questa nuova legislatura europea? «Sarà una sfida alla crisi sistemica che il mondo sta attraversando. La sorte vuole che questa crisi esploda nel 2009 in concomitanza con l’elezione di Obama e con l’elezione del Parlamento eu-
ropeo. Sarà la svolta politica dell’Europa, soprattutto se, entro l’anno, verrà approvato il trattato di Lisbona. La sfida dovrà indicare la direzione di marcia per uscire dalla crisi». In questi mesi di difficoltà l’Europa ha reagito nel modo giusto? Quale sarà la priorità? «L’Europa dovrebbe diventare decisiva nel momento delle ristrettezze altrui, e penso alle ristrettezze della Cina e degli Stati Uniti. Così potrebbe dettare l’agenda che dovrebbe avere, come primo punto, quello di ristabilire un ordine monetario: riorganizzare secondo nuove regole il funzionamento del sistema monetario globale. Se non si farà questo, sarà molto difficile risolvere tutti gli altri problemi che sono sul tappeto, a partire dal commercio e da quello del clima». VENETO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA Marina Salomon
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ECONOMIA
LA FORMULA GIUSTA È INNOVAZIONE TOTALE Prudenza. Rigore sino al dettaglio. Buon senso. Sono i tratti delle donne quando decidono di farsi strada in settori prima esclusivamente maschili. Le aziende subiscono la crisi, ma l’imprenditoria femminile è in espansione. Le parole di Marina Salomon dimostrano il valore di questo potenziale ANNA NEI
Italia deve puntare sulle peculiarità delle sue aziende, in primis quella di essere imprese giovani, per non farsi trascinare dalla crisi. Ma se non dovesse bastare, allora la formula è breve e chiarissima: “Innovazione totale”. A offrirla è un’imprenditrice che concepisce il proprio lavoro in modo totalizzante, servendosi in azienda degli stessi valori e parametri con cui si muove nella vita privata e familiare. E lo fa da sempre, da quando da ragazzina studiava e lavorava allo stesso tempo. Una discussione con Marina Salomon, amministratrice unica di Altana Spa, apre una prospettiva su cosa significhi oggi poter vantare un bilancio sano e una prospettiva di sviluppo. In un momento di difficoltà economica e finanziaria come questo, come si stanno muovendo gli imprenditori italiani? «A livello individuale li vedo reagire bene, molto meno spaventati di quello che mi sarei aspettata. Forse questo è dovuto al fatto che molti hanno fondato le aziende che ora guidano. L’impresa italiana non è fatta di gente alla quarta generazione che vive di rendita, ma di persone che vivono il lavoro a trecentosessanta gradi. In questo momento si possono addirittura cogliere opportunità di crescita, di investimento, di co-
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CONCRETA Marina Salomon ha fondato Altana Spa e ha acquistato la Doxa, una delle maggiori società italiane nel settore delle ricerche di mercato
struzione di nuove aziende, progetti e posti di lavoro. È più difficile per coloro che sono stretti dalle banche: un conto è lo spirito e un altro è la concreta possibilità finanziaria di andare avanti. Ho visto aziende magnifiche, mandate avanti da persone competenti, ma il mondo è cambiato all’improvviso, nel momento in cui le banche hanno ritratto la propria disponibilità». Oggi si parla di etica d’impresa e di capitale umano. Come trovano applicazione questi concetti nella realtà della sua azienda? «Per me sono più che importanti e da molto tempo mi ci confronto. Quando ero piccola leggevo le biografie di Adriano Olivetti, poi ho capito che le aziende avevano problemi e mi sono interrogata sui confini dell’applicabilità di un sogno. Io sono una persona che vive molto semplicemente, uso l’utilitaria che spesso acquisto usata. Su questo sono stata molto criticata, soprattutto all’inizio. Ho vissuto Confindustria come un campus, dove le donne sono trattate alla pari e sono arrivate a certe posizioni per la loro bravura e non per l’appartenenza ad un gruppo o a un altro. Ma torniamo all’etica. Ho stabilito una regola matematica per cui ogni anno avrei dato una cifra per vivere e una più alta VENETO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA Marina Salomon
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«NON SONO PER LE INGERENZE POLITICHE IN ECONOMIA E, COMUNQUE, HO FIDUCIA NEL PENSIERO DEL MINISTRO TREMONTI PERCHÉ CONOSCO LA SUA PREPARAZIONE, ERA PESSIMISTA SULLA FINANZA QUANDO NESSUNO LA PENSAVA COME LUI»
per progetti benefici». Quali sono le condizioni da applicare all’interno di un’azienda perché si lavori al meglio? «Voglio che tutte le aziende, da Altana a Doxa a Methodos, parti del nostro gruppo, seguano regole rigidissime di bilancio, assolute, cosa che ha avuto un ritorno perché i nostri bilanci sono tutti sani. Per quanto riguarda le risorse umane, le persone chiedono di venire a lavorare da noi, e questo è buono, è una ricchezza enorme per l’azienda. Va detto però che non mi vergogno a portare avanti una causa di licenziamento se l’interessato ne approfitta, perché su questo non cedo al buonismo». Una via d’uscita alla crisi può essere la ricerca. Che spazio ha nelle sue imprese? «Credo alla ricerca ma ho fortissimi dubbi su quella pubblica. Secondo me, nella maggior parte dei casi, va dispersa perché non è applicativa all’economia. Credo che andrebbe incanalata in modo migliore. Nelle mie aziende la ri-
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cerca ha un posto privilegiato. Sono partita dall’abbigliamento e se Altana è diventata la seconda ditta europea per l’abbigliamento di lusso da bambini è perché abbiamo il 25% del personale dedicato alla ricerca dello stile del prodotto. Questo è stato visto da molti come un errore, un costo inutile, ma ci ha permesso invece di preparare bellissime collezioni. Purtroppo le scuole di moda italiana sono ancora carenti». È opportuno che siano le risorse umane più giovani a essere impiegate nei progetti di ricerca? «Assolutamente sì. Faccio subito un esempio. Sono anche azionista di una banca, in cui siamo partiti con i conti online. Abbiamo raccolto moltissimo in due mesi, investendo su un software nuovo e su giovani che fanno ricerca economica in rete. Questo ci ha permesso di mettere a punto un modello bancario di raccolta di denaro molto diverso da quello degli sportelli bancari tradizionali che ha costi altissimi. Ecco
perché parlo di innovazione totale. Doxa, leader della ricerca di mercato, è stata comprata da me; negli ultimi anni abbiamo investito moltissimo sulle metodologie di ricerca. Il tutto passa da una formula per cui i più meritevoli vengono coinvolti come azionisti, ai quali affido Tornando alla crisi, quali settori lavorano meglio e quali necessitano di interventi urgenti? «A grandi linee sono convinta che la situazione italiana sia più pulita di quella inglese o americana. Avevo una grande considerazione della finanza anglosassone finché non ho visto da vicino alcune cose. Lo scorso maggio ho incontrato a Siena Elie Wiesel, premio Nobel per l’economia, che mi ha descritto alcuni aspetti che non conoscevo. Io stessa comunque ho sentito manager americani dirmi una cosa il venerdì e il lunedì avere a che fare con conseguenze che neanche loro immaginavano. Harvard, ad esempio, fucina di cervelli, ha messo il proprio denaro sotto la tutela di Ma-
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doff. Non è che volessero speculare, ma anche una fondazione così enorme non aveva capito chi aveva davanti. Non si chiedevano come facevano ad avere sempre costantemente rendimenti così alti. Le banche italiane sono pulite, gli italiani stanno piuttosto bene ma sono penalizzati da quello che sta succedendo a livello internazionale. C’è un clima di angoscia illimitato, senza confini. Si è innestata la psicosi. In finanza conta anche l’atteggiamento psicologico. E così conta nei consumi». In Europa e Stati Uniti da una parte si respira un clima di protezionismo economico dall’altra di nazionalizzazione, ossia di partecipazione dello Stato al sistema bancario e in parte finanziario. Come giudica questa tendenza? «Sono molto serena per quanto riguarda l’estero. Sono più preoccupata, invece, per l’Italia e le conseguenze economiche dei flussi della
nostra politica. Non sono per le ingerenze politiche e, comunque, ho fiducia nel pensiero del ministro Tremonti perché conosco la sua preparazione, era pessimista sulla finanza quando nessuno la pensava come lui». Proprio Tremonti ha recentemente affermato che la crisi dei mercati finanziari creerà la fine di quel mondo che pensava di accumular ricchezza col debito, perché la ricchezza si crea invece col lavoro. È d’accordo? «Sono completamente d’accordo per quanto riguarda il versante privato. Ho passato anni a farmi insultare perché non mi indebitavo abbastanza per far crescere le aziende. Io dicevo che avevo paura, ero cresciuta studiando e lavorando e non me la sentivo di indebitarmi. Sul pubblico sarà molto più complicato. Faccio un esempio: in questi giorni erIn finanza conta anche l’atteggiamento psicologico. E così conta nei consumi». VENETO 2009 | DOSSIER
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COMMERCIO ESTERO Adolfo Urso
ADOLFO URSO Sottosegretario del ministero dello Sviluppo Economico
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COMMERCIO ESTERO
IL PROTEZIONISMO È UN OSTACOLO Puntare su un export ancora forte nonostante la crisi globale. Valorizzare le differenze regionali e allo stesso tempo superarne i confini. Un osservatorio sulle misure protezionistiche internazionali può essere un aiuto ulteriore secondo il sottosegretario al Ministero per lo sviluppo economico Adolfo Urso. Perché l’impresa italiana può davvero resistere alle gelate impreviste della crisi MARIALIVIA SCIACCA
e imprese italiane puntano da sempre sull’esportazione, godendo all’estero del prestigio del marchio made in Italy nonché di un’ampissima gamma di prodotti, differenziati nelle diverse regioni e province. La crisi internazionale, soprattutto quella statunitense, sta minacciando una produzione che ancora è salda in virtù della sua intrinseca peculiarità, che la porta a resistere meglio che in altri Paesi europei e non solo. Il governo ha creato un osservatorio sul protezionismo per studiare e salvaguardare l’impresa italiana, oltre a impegnarsi per offrire un coordinamento organico tra tutte le regioni. Le parole del sottosegretario al ministero per lo Sviluppo Economico Adolfo Urso forniscono il quadro di una situazione che sta chiedendo sempre più un’apertura e un’attenzione alle dinamiche internazionali. Qual è l’andamento del commercio estero italiano in questo momento? «Se si osservano i numeri del 2008, le nostre esportazioni
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hanno continuato a crescere con un ritmo del 2%; siamo secondi solo alla Germania e certamente l’andamento è migliore che in altri Paesi che hanno concluso l’anno con un segno negativo. Mi riferisco a Spagna, Grecia, Irlanda per non parlare di altre economie come quella giapponese che hanno perso oltre il 10%. Ciò significa che l’Italia resiste meglio dei suoi partner commerciali e ne subisce invece la crisi dei consumi. Nel corso dell’intero anno 2008, rispetto al 2007, fra i Paesi partner le maggiori flessioni delle esportazioni si sono registrate nei confronti di Spagna, Regno Unito e Belgio. Sono aumentate verso Polonia, Grecia, Paesi Bassi, Austria e Germania. Sono pressoché stabili, infine, quelle verso la Francia. Quanto ai settori più o meno intaccati dalla crisi, si può dire che le maggiori contrazioni si sono avute per legno, mobili, articoli in gomma e in materie plastiche, mezzi di trasporto e prodotti dell’industria tessile e dell’abbigliamento. Incrementi si sono registrati nei settori dei prodotti petroliferi raffinati, pro-
dotti alimentari, bevande, tabacco, prodotti dell’agricoltura, silvicoltura e pesca». È chiaro e deciso l’impegno dell’Italia nel combattere il rischio di un ritorno al protezionismo, tanto che è stato istituito un osservatorio ad hoc. Quali sono esattamente i compiti di questo organismo? «Abbiamo attivato un osservatorio sul protezionismo presso il ministero dello Sviluppo Economico per monitorare ogni azione realizzata in sede internazionale che possa essere definita protezionistica. Mi riferisco all’aumento dei dazi o delle tariffe, la creazione di norme surrettizie e artificiose come certificazioni di qualità o doganali create per rendere più difficile l’esportazione dei prodotti. L’osservatorio ci consentirà di esaminare le situazioni, fornire informazioni e chiedere eventuali contromisure in sede europea e internazionale per evitare che il mondo abbracci tout court la pericolosa strada del protezionismo». Anche se il made in Italy è un marchio ancora forte sulle piazze internazionali si avverte VENETO 2009 | DOSSIER
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COMMERCIO ESTERO Adolfo Urso
CREDIAMO NELL’EXPORT ITALIANO
di Umberto Vattani*
Un piano anti-crisi vero e proprio per supportare l’export delle imprese nazionali. Facendo attenzione a scommettere sui mercati “giusti” La conoscenza dei mercati internazionali è uno strumento importante per le imprese che si internazionalizzano. In una situazione delicata come quella attuale questo patrimonio di conoscenze diventa fondamentale per poter competere. L’Ice mette a disposizione delle imprese le informazioni che raccoglie sui mercati di tutto il mondo. Abbiamo appena presentato due indagini sul commercio estero, Italia Multinazionale e Prometeia, e stiamo lavorando alla realizzazione di un Osservatorio delle materie prime. Lo scopo ultimo di queste analisi è orientare le imprese verso i mercati “giusti”, più
promettenti e allo stesso tempo indicare loro le modalità più idonee per operare. Per quanto concerne la promozione del made in Italy, mission dell’Ice, il governo ha stanziato fondi significativi. Nel 2009 sono stati previsti 185 milioni di euro tra finanziamenti pubblici e contributi dei privati. Ai fondi del piano promozionale, pari a 105 milioni, si aggiungeranno le somme di quello straordinario e delle commesse privatistiche per 57 milioni che insieme ai 23 di finanziamento autonomo dei partner degli accordi supereranno i 179 milioni spesi nel 2008. Sarà un vero e proprio piano anti-crisi che dovrebbe per-
mettere alle imprese italiane di resistere e rilanciarsi all’estero nonostante la congiuntura sfavorevole. Il 2009 sarà un anno difficile e dobbiamo reagire. Anche se gli ultimi dati del 2008 sull'export dicono che l'Italia resiste meglio di Usa, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania e di Paesi emergenti come la Cina, non ci si può permettere di abbassare la guardia. La ricetta per l’internazionalizzazione prevede più soldi per la promozione da impiegare in pochi ma selezionati obiettivi. Il piano è stato rivisto alla luce della congiuntura internazionale per consentire al sistema produttivo italiano di
spesso la sensazione che a livello organizzativo manchi un coordinamento nazionale organico e si proceda per regioni. «Già lo scorso anno il ministero aveva percepito la necessità di un maggiore coordinamento per rafforzare all’estero l’immagine del made in Italy e del Sistema Italia. Per questo a luglio ho incontrato i rappresentanti delle Regioni e insieme abbiamo deciso di creare una cabina di regia per l’internazionalizzazione delle imprese con l’obiettivo di mettere a sistema le risorse, razionalizzare le spese e promuovere missioni di sistema congiunte. Assieme abbiamo dato il via al Piano Africa e Balcani, per una maggiore ed efficace penetrazione nelle aree suddette e per lo sfruttamento delle risorse energetiche, infrastrutturali e logistiche qui presenti». DOSSIER | VENETO 2009
COMMERCIO ESTERO
reagire. Per questo il programma concentra le risorse e razionalizza l’azione: meno iniziative, ma migliori e meno Paesi, ma con più sforzi. Così, il budget aumenta e le iniziative diminuiscono, saranno 411 dalle 475 del 2008, e si punta su Paesi e settori che possono dare riscontri imme-
Le missioni governative, per esempio quella prevista in Russia, segnano un superamento di questa strategia? «La missione in Russia è solo uno dei risultati della collaborazione tra governo e Regioni avviata lo scorso luglio. Ricordo infatti che in novembre sono stato in missione negli Emirati Arabi con 493 imprese, ottenendo un ottimo risultato. Anche la rimodulazione degli sportelli regionali Sprint, la riforma del quadro normativo di riferimento del commercio internazionale e il riassetto dell’Ice fanno parte del programma di creazione di un Sistema Italia più forte». A parte Cina e Russia, quali sono oggi i mercati appetibili per le nostre imprese e come le imprese devono organizzarsi per affrontare al meglio la sfida? «I mercati più interessanti sono quelli che offrono ancora mar-
diati, come gli Stati Uniti, in cui è presumibile che i consumi interni ripartano prima che altrove, già nella seconda metà dell'anno. Per le iniziative negli States ci saranno 15 milioni di euro, 5 dal piano ordinario e 10 da quello straordinario. Forti investimenti ci saranno anche per la Russia e per alcune realtà emergenti come India, Cina, Brasile, Messico, e Paesi del Golfo. Nuove iniziative sono previste nelle aree in più forte sviluppo del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e anche dell’Africa. Quanto ai settori, i fondi saranno concentrati su quelli a più alto valore aggiunto come l’alta tecnologia, ma continueremo a presidiare alcuni comparti manifatturieri a rischio, come sistema moda, abitare e beni strumentali. Per favorire le imprese, l’Ice, per tutto il 2009, praticherà sconti fino al 50% sui
servizi a pagamento e fino a un terzo sui servizi fieristici. L’Istituto si è dotato da poco di un nuovo organigramma che prevede nuovi strumenti di valutazione dell’efficacia delle singole azioni intraprese e che consentirà una maggiore sinergia con gli altri attori dell’internazionalizzazione. Già oggi l’Ice svolge molti compiti, non solo di promozione del prodotto italiano: abbiamo collaborazioni con Invitalia, Simest e Buonitalia, siamo paladini, con i desk presenti presso i nostri uffici all’estero, della lotta alla contraffazione del made in Italy. L’Istituto sta diventando una vera e propria piattaforma integrata per offrire alle imprese tutto il sostegno di cui hanno bisogno. *Presidente dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero
gini di crescita, come la parte meridionale del mondo arabo e il bacino del Mediterraneo. Le imprese devono sfruttare tutta la loro creatività e offrire prodotti sempre più innovativi e unici, irripetibili. Solo l’innovazione permette di restare sul mercato. Per questo, per esempio, nell’assicurare fondi alle aziende del comparto auto il Governo ha ribadito la necessità di creare prodotti ecologici e innovativi sul fronte del rispetto dell’ambiente». Sono sempre più necessarie regole chiare, condivise e una governance a livello europeo su questioni economiche e finanziarie. «Molto dipenderà dal G20 di Londra il prossimo aprile e dal G8, a presidenza italiana, con sede in Sardegna, alla Maddalena. Sui principi ideali da attuare siamo tutti d’accordo, adesso bisogna passare alla fase operativa, ossia scrivere insieme le regole di
un nuovo ordine globale». La Federal Reserve ha fatto sapere, intanto, che le stime di crescita statunitense saranno più basse del previsto anche nel 2010. Cosa comportano dati come questi per la nostra economia? «Gli Stati Uniti rappresentano ancora il 25% del prodotto interno lordo mondiale, per cui ogni azione americana ha una cassa di risonanza estesa e intensa nel resto del mondo. Ora anche gli Stati Uniti stanno risentendo di forti difficoltà economiche e finanziarie, che influenzano il resto del mondo, inclusa l’Europa. La recessione statunitense non può evitare di espandere i suoi effetti: ne aspettiamo la conclusione il prima possibile. Non è da dimenticare, inoltre, che la nostra economia si basa in larga parte sulle esportazioni e risente quindi degli effetti a catena della crisi nordamericana». VENETO 2009 | DOSSIER
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FINANZA Gianni Zonin
VINCONO LE REALTÀ LEGATE AL TERRITORIO Tornare a fare banca in modo tradizionale. Raccogliere risparmio e metterlo a disposizione di chi voglia intraprendere e produrre allo sviluppo complessivo. È il difficile compito che attende gli istituti di credito in questo momento. Ed è il solo che consenta di ricostruire il sistema creditizio e sostenere l’economia. Parola di Gianni Zonin, presidente della Banca Popolare di Vicenza MARIA FRANCA AZARA
n Italia, a differenza di altri Paesi, non ci sono stati casi di fallimento o nazionalizzazione di istituti di credito. Segno che il sistema bancario sta reagendo abbastanza bene alla crisi». Queste parole arrivano da Gianni Zonin, presidente della Banca Popolare di Vicenza, istituto che continua a supportare le famiglie, le aziende e i territori in cui opera. «Per il 2009 abbiamo deliberato un ulteriore aumento degli impieghi – spiega Zonin – rendendo disponibili 2,5 miliardi di credito in più». Certo, la Popolare di Vicenza se lo può permettere, perché i suoi indicatori
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GIANNI ZONIN Presidente della Banca Popolare di Vicenza dal 1996
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sono tra i più alti del sistema, core tier 1 ratio al 7% e total capital ratio all’11%, e come ricorda il suo presidente è «solida e ben patrimonializzata». Senza dimenticare la disponibilità di liquidità. Ma la Popolare di Vicenza, così come le altre banche popolari e cooperativistiche che caratterizzano il tessuto creditizio veneto, hanno dalla loro parte un altro vantaggio: saper fare banca in modo “tradizionale”. «Tornare alla tradizione – afferma Zonin – è la base su cui dovrà essere ricostruito il sistema bancario italiano». Come giudica gli aiuti governa-
tivi predisposti da molti governi europei a sostegno degli istituti di credito maggiormente coinvolti dalla congiuntura in atto? «Mi sembra che le banche centrali e molti governi europei abbiano adottato misure significative a sostegno dell’economica e del sistema finanziario, contribuendo a migliorare il clima di fiducia. È un segnale positivo». Crede che anche il governo italiano dovrebbe intervenire sensibilmente in questo campo? «Sarebbe certamente utile, anche se nessun governo ha la bacchetta magica per farci uscire da una crisi come quella che stiamo vivendo, tantomeno nel giro di poche settimane o mesi. La crisi attuale ha dimensioni globali e va affrontata a livello globale. I singoli governi nazionali hanno strumenti limitati. È per questo che ognuno deve fare la sua parte: politica, banche, imprenditori, lavoratori e sindacati». Diversi esperti e analisti di mercato hanno sostenuto che il sistema creditizio italiano abbia retto agli scossoni finanziari internazionali grazie alla sua arretratezza ovvero alla minore esposizione sui mercati globali. Condivide questa analisi? «Più che di arretratezza, preferirei parlare di prudenza. Quanto accaduto ha messo in luce la validità
FINANZA
«QUANTO ACCADUTO HA MESSO IN LUCE LA VALIDITÀ DEL MODELLO DI BUSINESS DELLE BANCHE FORTEMENTE LEGATE AL TERRITORIO, COME APPUNTO LA POPOLARE DI VICENZA»
del modello di business delle banche fortemente legate al territorio, come appunto la Popolare di Vicenza. La nostra vocazione specifica è il sostegno alle aziende, alle famiglie e all’economia reale. Siamo una banca “al servizio dell’economia reale” che non fa mancare i finanziamenti al territorio in cui opera. Questo non significa essere “arretrati”, ma fedeli alla propria vocazione e a un modo di fare banca “tradizionale”». Lei ha voluto una Banca Popolare di Vicenza lontana dal listino borsistico. Quanto questa decisione ha aiutato il vostro istituto di credito a reggere i
contraccolpi della congiuntura? «Aver resistito, in tempi di mercati euforici, alle lusinghe di una quotazione del nostro titolo in Borsa, è stata una scelta non solo avveduta e prudente, ma anche coerente con la nostra natura di banca popolare e cooperativistica». Il 2009 è stato indicato da analisti ed economisti come l’annus horribilis. Quale crede che debba essere, in generale, il computo degli istituti di credito per superarlo? «Il compito delle banche deve essere quello di sostenere il più possibile l’economia reale e le im-
prese, che costituiscono l’asse portante di ogni crescita economica e sono la garanzia per il mantenimento dell’occupazione e del tenore di vita dei lavoratori e delle loro famiglie». Sembra che il capitalismo sia ormai tramontato. Su quali basi, a suo parere, si potrà ricostruire il sistema economico e finanziario internazionale? «Ci vogliono regole nuove e sanzioni efficaci. Credo anche che si assisterà a un ritorno alla tradizione, al fare banca in maniera tradizionale. Che cosa significa? Raccogliere risparmio e metterlo a disposizione di coloro che Luigi Einaudi chiamava “persone probe”, coloro che vogliono intraprendere, produrre e crescere, contribuendo allo sviluppo economico complessivo».
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VIABILITÀ Renato Chisso
DOPO IL PASSANTE SI LAVORA ALL’A28 A poche settimane dalla sua apertura, il Passante di Mestre ha dato riprova ai tanti che in questi anni avevano lottato per la sua realizzazione. L’assessore veneto alla Mobilità, Renato Chisso, fa il punto sulle prossime priorità MARIELLA CORAZZA
l Passante di Mestre ha un significato per l’Italia, prima ancora che per il Veneto. È la prima grande opera prevista dalla Legge Obiettivo che viene realizzata, ma, per dirla in parole assolutamente semplici, per il Veneto e i suoi cittadini, è la fine di un incubo». Con toni schietti, Renato Chisso commenta così la tanto attesa inaugurazione del Passante di Mestre, avvenuta a inizio febbraio. Un’opera che dà respiro a un nodo infrastrutturale sul quale passa il 30 per cento circa di tutto il traffico su gomma diretto verso l’Europa e che dà soprattutto respiro alla terraferma di Venezia e ai suoi abitanti. Un risultato importante, salutato con entusiasmo da tutte le parti politiche, che segna un successo per l’amministrazione Galan. E anche l’occasione, per l’assessore alle Politiche della mobilità e infrastrutture Chisso, per fare il punto sulle prossime priorità. A qualche settimana dalla sua inaugurazione, quali sono secondo lei gli effetti positivi più importanti che il Passante ha portato al territorio? «Gli effetti immediati, visibili sin dal lunedì seguente all’inaugurazione, sono stati la tranquilla transitabilità della tangenziale di Mestre e la velocizzazione del traffico di transito. Questo è di un’evidenza così limpida che anche i profeti di sventura non riescono a trovare
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motivi di contestazione. Più complessa, al momento, è la situazione all’esterno del Passante, ancora privo di molti dei caselli previsti e di non poche opere complementari. Stiamo in ogni caso monitorando la situazione. Aggiungo che la Cgia di Mestre ha calcolato che per ogni tir in transito da Vicenza a Trieste ci sia un risparmio di circa 30 euro al giorno: in meno di quattro anni il sistema economico trarrà un beneficio superiore al costo dell’opera. E in questo caso è un beneficio anche sociale diffuso». Quali sono le previsioni di traffico sulla nuova infrastruttura? «Un calcolo di massima fatto in sede di progetto ci dice che sul Passante transiterà oltre la metà del traffico che in precedenza attraversava la barriera di Villabona. Complessivamente sulla tangenziale nell’ultimo biennio transitavano circa 145mila veicoli al giorno, dei quali circa il 30 per cento autotreni. Le previsioni statistiche ci dicono che il traffico sul nodo di Mestre si è mediamente incrementato del 3-4 per cento l’anno nell’ultimo lustro; la crisi ha determinato delle riduzioni, che stiamo valutando ma che non dovrebbero incidere sul piano di rientro dell’investimento. In ogni caso quest’opera ci fa guardare con tranquillità al dopo crisi. Nei primi giorni di esercizio del Passante abbiamo trovato riscontro delle previsioni di traffico, con
RENATO CHISSO Assessore alle Politiche della mobilità e infrastrutture della Regione Veneto
transiti nell’ordine dei 50mila veicoli al giorno». A che punto sono le opere complementari al Passante? «Attualmente è già aperto il casello intermedio di Preganziol. Il programma prevede entro maggio l’apertura dell’interconnessione con l’A27 e, entro giugno, del secondo casello intermedio a Spinea. È previsto anche un terzo casello intermedio fra Scorzè e Martellago, per il quale però deve essere ripetuta la procedura di approvazione: i tempi
VIABILITÀ
OPERA Il nuovissimo Passante di Mestre, inaugurato lo scorso febbraio
«LA CGIA HA CALCOLATO CHE PER OGNI TIR IN TRANSITO DA VICENZA A TRIESTE CI SIA UN RISPARMIO DI CIRCA 30 EURO AL GIORNO: IN MENO DI QUATTRO ANNI IL SISTEMA ECONOMICO TRARRÀ UN BENEFICIO SUPERIORE AL COSTO DELL’OPERA»
di realizzazione in questo caso slittano al 2010. Il sistema infrastrutturale verrà completato con interventi complementari a servizio del territorio, già finanziati con circa 120 milioni di euro dalla Regione. Lo scopo è liberare i centri urbani dall’attuale traffico di transito e consentire un migliore accesso alle grandi infrastrutture». Quale sarà la prossima grande opera a essere inaugurata in Veneto? «Sarà il completamento dell’A28, cioè dell’Autostrada ConeglianoPordenone-Portogruaro. È un caso emblematico, purtroppo: progettata negli anni 70, realizzata per la sua gran parte e rimasta monca per un quarto di secolo del suo tratto terminale verso Conegliano. Dovremmo inaugurarlo entro quest’anno. Poi sarà la volta della Valdastico Sud, entro il 2012, anno entro il quale sarà pronta anche la terza corsia A4 nel tratto veneto. Poi sarà la volta della Pedemon-
tana, per la quale sono previsti circa 5 anni di lavori, e della NogaraMare. Ma un cambiamento significativo nella mobilità veneta, io spero epocale, lo avremo con l’inaugurazione del Sistema ferroviario metropolitano regionale». A che punto sono i lavori? «Il primo lotto del Sistema è ormai pronto, siamo in arretrato con le opere gravitanti nel territorio del Comune di Venezia dove abbiamo chiuso la localizzazione delle nuove stazioni circa quattro anni dopo l’individuazione delle iniziative con le altre amministrazioni. Stiamo definendo il bando di gara europeo per l’assegnazione del servizio, che sarà unitario, e riguarderà trasporto locale su ferro e su gomma. Sarà un’autentica rivoluzione in una regione di residenzialità diffusa come la nostra, dove il servizio pubblico lungo avverrà su ferro con treni cadenzati e moderni, per i quali abbiamo avviato una gara di acquisto di nuovo materiale rotabile».
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COSTRUTTORI DI VALORE Massimo Ponzellini
COSÌ ABBIAMO SCIOLTO IL NODO DI MESTRE La prima autostrada realizzata in Veneto da 30 anni a oggi. Un’infrastruttura fondamentale per risolvere l’annoso problema del traffico nel Nord Est. Il Passante di Mestre oggi esiste e funziona grazie a Impregilo, il gruppo presieduto da Massimo Ponzellini LORENZO BERARDI
all’8 febbraio scorso il Passante di Mestre è divenuto realtà. Trentadue chilometri e mezzo di autostrada a tre corsie fondamentali per tutto il Nord Est. Un’opera di cui si è parlato a lungo e che è finalmente divenuta realtà, passando dalla carta all’asfalto, dalle idee ai fatti. Un’infrastruttura necessaria che consente di alleggerire dal traffico la tangenziale di Mestre, un imbuto da cui transitavano 130mila veicoli al giorno. Un nodo di Gordio sciolto metaforicamente dalle forbici del presidente del Consiglio che ha tagliato il nastro inaugurale di un’opera i cui lavori erano partiti quattro anni prima: 968 milioni e 400mila euro hanno consentito di realizzare quella che è la prima autostrada realizzata in Veneto negli ultimi 30 anni, firmata dal gruppo di imprese Passante di Mestre Spa guidate da Impregilo, il principale attore italiano nel settore delle costruzioni. «Siamo molto soddisfatti del Passante – afferma Massimo Ponzellini, presi-
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MASSIMO PONZELLINI Presidente di Impregilo, il Gruppo che ha costruito il Passante di Mestre
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dente del Gruppo –. Costi e scadenze dell’opera sono stati rispettati. E i rapporti con tutte le aziende subfornitrici che hanno lavorato assieme a noi nella fase di realizzazione sono stati sempre tranquilli e sereni». Presidente, quanto è importante la realizzazione del Passante di Mestre per lo sviluppo e l’economia del territorio? «Credo che le parole più belle le abbia pronunciate il Governatore Galan, quando ha detto: “È la fine di un incubo: è caduto il muro del tristemente famoso Valico di Mestre”. E quello che si prova passando oggi da Mestre è proprio che sia caduta una barriera che separava il Veneto dal Friuli Venezia Giulia, ma soprattutto l’Italia dai Paesi dell’Europa dell’Est. Ritengo perciò il Passante una di quelle opere pubbliche che dà un immediato senso di soddisfazione e di obiettivo sociale allargato raggiunto e questo è molto gratificante. Il caso del Passante di Mestre ha anche dimostrato che se la figura del Commissario viene scelta adeguatamente e si dimostra onesta e di buon senso, come si è rivelato l’ingegner Silvano Vernizzi, non solo si riesce a garantire la realizzazione nei tempi previsti, ma si crea anche maggiore consenso, accontentando tutte le parti in causa». Nei giorni dell’inaugurazione, il vostro titolo in Borsa è schizzato
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verso l’alto. È la dimostrazione che la ripresa deve appoggiarsi su opere concrete e che la loro realizzazione è fondamentale per il settore produttivo nazionale? «Oggi nell’economia e nella finanza internazionale le cose sono cambiate. Esiste un atteggiamento più cosciente e di buon senso. I mercati azionari si appoggiano maggiormente a ciò che è concreto e hanno adottato un atteggiamento più realista. Non è un caso che i titoli le-
gati all’economia reale stiano perdendo meno di quelli legati all’economia finanziaria. Una tendenza evidente soprattutto per quei titoli che riguardano aziende che hanno una grande trasparenza nei costi di gestione e di contabilità. Credo che la trasparenza di bilancio paghi, a maggior ragione nell’economia reale». Quali sono le principali opere e realizzazioni in cui è attualmente impegnata Impregilo in Italia e
nel mondo? «Abbiamo scelto di concentrarci sui settori tradizionali delle infrastrutture e delle grandi opere. In questo momento stiamo realizzando importanti opere nel campo autostradale, ferroviario e idroelettrico in Sud America. Su quel mercato siamo oggi uno dei principali attori a dispetto della crisi anche perché si tratta di una situazione per certi versi simile a quella italiana. Di recente, inoltre, abbiamo vinto importanti gare d’appalto negli Stati Uniti, in particolare a Las Vegas, e in Svizzera. Stiamo contemporaneamente crescendo in Nord Africa, in particolare in Libia dove stiamo realizzando tre centri universitari e intendiamo rafforzare molto la nostra presenza». Il Gruppo Impregilo è attivo anche nel settore dello smaltimento dei rifiuti e delle opere di ingegneria ambientale per il territorio. «Attraverso aziende come Fisia Italimpianti e Babcock, siamo tra i primi realizzatori al mondo di impianti di dissalazione, così come siamo ai vertici nel settore del trattamento dei rifiuti con recupero energetico e dei fumi industriali». VENETO 2009 | DOSSIER
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IL LUSSO CAVALCA LA CRISI Renè Caovilla
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IL LUSSO CAVALCA LA CRISI
ECCELLENZA E BELLEZZA SONO LA NOSTRA FORZA L’arte veneziana e tanta passione. Esclusivamente hand made. Molte ore di lavorazione per ottenere una sola scarpa. Ricami, brillanti, strass, zaffiri e ogni tipo di pietre, purché preziosissime. E poi i migliori pellami e le stoffe più pregiate. Renè Caovilla spiega come e dove nascono le sue sculture CONCETTA S. GAGGIANO
uando si pensa al douceur de vivre e al rococò veneziano, si materializzano due immagini: lo storico carnevale e le scarpe di Renè Caovilla. Due orgogli della città lagunare che, ognuno a suo modo, hanno esportato nel mondo l’essere veneziano. Renè Caovilla è il creatore delle calzature femminili tra le più originali e lussuose al mondo. Raffinate scarpe da sera, interamente fatte a mano i cui motivi dominanti sono l’arte della sua città o qualsiasi altro oggetto che susciti emozione. La storia dell’azienda comincia nel distretto del Brenta con Edoardo Caovilla. Negli anni 60, dato il successo dei modelli d’avanguardia René Caovilla crea una linea con il suo nome e diventa uno dei numeri uno nella produzione calzaturiera esclusiva. Nel 75 inizia la collaborazione con grandi stilisti tra cui Valentino, Dior e Chanel. Nel 2000 vengono abbandonate tutte le licenze e inizia la produzione esclusiva a marchio proprio. Seguono le aperture di monomarca in Italia e all’estero e alla fine saranno dieci: Venezia, Milano, Roma, Parigi, Londra, Tokyo, Dubai, Beverly Hills, Palm Beach e Porto Cervo. Nel 2009 è previsto l’ingresso in India con tre monomarca a New Delhi, Mumbai e Bangalore. I mercati di riferimento sono quelli esteri,
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per il 30% Usa, 65% il resto del mondo, solo il 15% l’Italia. La René Caovilla registra un tasso di crescita annuale del 20%, conta circa 100 i dipendenti tra cui gli artigiani che trasformano le idee in scarpe. Più di 50 anni di scarpe. Dove trova ancora ispirazioni così originali per le sue collezioni? «Qualsiasi spunto è valido. Quando si ha una grande passione nel cuore e ci si innamora di un particolare è inevitabile trasferirla nelle proprie creazioni. In tanti anni ho imparato a non pormi dei limiti, qualsiasi cosa io veda che mi possa ispirare la porto con me». Quanto lavoro c'è dietro il primo schizzo e quanto impiega a immaginare una nuova scarpa? «In azienda tutto nasce dal team. Con me lavorano cinque collaboratori e quando nasce un’idea ne parliamo tutti insieme. Lo stadio successivo è lo schizzo: dal disegno comprendiamo se quell’idea può trasformarsi in una scarpa oppure no. Facciamo delle prove per vedere come calza, in seguito procediamo alla realizzazione vera e propria a opera dei nostri maestri artigiani. Da un’idea può risultare un’opera d’arte se è realizzata bene, o un oggetto senza cuore se chi la realizza non ci mette passione. Alla base di tutto c’è comunque il divertimento di fare un
RENÈ CAOVILLA Presidente e designer dell’omonima azienda, crea scarpe considerate opere d’arte e esposte nei musei
lavoro di squadra». Lusso e bellezza da sempre contraddistinguono le raffinate creazioni della maison. Ma in tempi di ristrettezze economiche l’idea di lusso è cambiata? «Il lusso si rivolge a una categoria che difficilmente sente le crisi, anche se è vero che in questo periodo piove per tutti. È cambiato l’umore che si respira nell’aria, c’è più austerità e anVENETO 2009 | DOSSIER
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IL LUSSO CAVALCA LA CRISI Renè Caovilla
MAESTRIA ARTIGIANA Alcune immagini delle fasi di produzione di una scarpa Renè Caovilla, interamente fatte a mano
che se si può spendere magari ci si limita perché non si vuole urtare la sensibilità di chi in questo momento non si può permettere di spendere. Noto una tristezza, un imbarazzo che di conseguenza attenua i consumi anche sulla fascia alta. L’obiettivo costante di un creativo è riuscire a dare emozione, allora si cerca il capriccio e di regalare sogni. In tanti anni ho imparato che non c’è mai un punto d’arrivo, si è sempre alla ricerca di emozioni e fantasie da donare a chi acquista le mie creazioni. C’è bisogno di spirito d’osservazione e passione per il proprio lavoro». Lei ha saputo tracciare una strada a metà tra l’artigianalità e la couture, elevando la scarpa a oggetto di culto, a cui poi sono seguite borse, bijoux e cinture. Cosa cerca la donna di oggi? «Oggi la donna cerca l’accessorio perché dà un senso e una particolarità anche a un look semplice. Sicu-
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ramente l’accessorio, che sia una scarpa, una borsa, una sciarpa ha trovato più spazio rispetto al passato perché oggi la donna è disposta a osare di più grazie ad abbinamenti inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Spesso le mie clienti mi confessano che la gente guarda più le scarpe che il vestito che indossano». Perché all’estero vincono le scarpe italiane? Tutto merito della capacità di trasferire e consolidare una percezione di lusso e di esclusività? «Perché noi italiani si distinguiamo per la nostra innata creatività, per la ricerca del bello, l’amore per l’eleganza, la passione. L’italiano è un essere indipendente a cui bisogna lasciare spazio perché si esprima al meglio. Oggi con questi mercati instabili vince chi dimostra di avere talento. E noi italiani ne possediamo tanto e siamo richiesti perché lo esprimiamo al meglio». Made in Italy come ancora di sal-
vezza per il Paese. È davvero così? «La nostra forza è la piccola e media impresa su cui gira l’economia. Le carte vincenti sono l’alta qualità e la possibilità di distinguersi attraverso la creatività. La somma di questi due valori costituisce quello che in tutto il mondo è conosciuto come made in Italy, che si distinguerà sempre sul mercato e si qualificherà sempre di più grazie al lavoro continuo di ricerca e innovazione sul prodotto e sui materiali». Quali sono le strategie per promuovere il made in Italy e rimanere sul mercato? «Nel mercato delle calzature ci sono fasce di mercato ben distinte, si passa dal segmento base a quello extralusso, ognuno con proprie strategie e peculiarità. Se analizziamo le fasce basse, caratterizzate dalla produzione industriale, si capisce subito che qui non è possibile esprimere talento e creatività. Valori che insieme alla manifattura artigianale e all’altissima
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«LA NOSTRA FORZA È LA PICCOLA E MEDIA IMPRESA SU CUI GIRA L’ECONOMIA. LE CARTE VINCENTI SONO L’ALTA QUALITÀ E LA POSSIBILITÀ DI DISTINGUERSI ATTRAVERSO LA CREATIVITÀ. LA SOMMA DI QUESTI DUE VALORI COSTITUISCE QUELLO CHE IN TUTTO IL MONDO È CONOSCIUTO COME MADE IN ITALY»
qualità sono le uniche armi che il made in Italy ha a disposizione». Passiamo alla distribuzione, che negli ultimi anni, tra showroom e punti vendita si è concentrata maggiormente all’estero. Perché questa scelta? «Il nostro prodotto deve essere conosciuto in tutto il mondo, non possiamo fermarci in Italia perché non è possibile pensare di produrre e vendere tutto all’interno dei nostri confini. La nostra vocazione è quella dell’esportare nel mondo il nostro saper fare, quindi la nostra strategia è stata sempre quella della ricerca di mercati in cui il marchio Caovilla non è ancora presente. Gli Stati Uniti abbracciano il 20-30% della nostra produzione, ma la crisi che ha pesantemente colpito l’economia degli States ci ha portati a guardare la carta geografica del mondo alla ricerca di mercati nuovi e ad alto tasso di crescita cercando di approdare su mercati che prima non potevamo servire».
Tra le tante vetrine da lei aperte c’è quella virtuale di Second Life. Perché la scelta di uno spazio interattivo? «Nonostante i nostri cinquant’anni noi teniamo molto a essere sempre aggiornati e tra i primi a verificare nuove esperienze. Vogliamo sperimentare tutto ciò che è nuovo, bello e, può permetterci di raggiungere nuovi target. Internet, e Second Life, rappresentano, comunque, un nuovo strumento di comunicazione». Come vede il futuro dell’azienda? «Continueremo per la nostra strada che, in cinquant’anni di lavoro e tre generazioni, ci ha sempre dato grandi soddisfazioni. Non perderemo ciò che ci ha reso grandi e famosi in tutto il mondo: l’anima, il cuore, la passione e il talento. Renè Caovilla opererà nella sua nicchia di mercato evitando le grandi produzioni e rimanendo fedeli alla nostra tradizione».
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IN OGNI CREAZIONE UN RIFLESSO DI QUALITÀ Estro, eleganza, creatività, eccellenza, innovazione, dinamismo e diversificazione sono gli ingredienti del successo di Roberto Coin. Che definisce la crisi «una nuova malattia, per la quale gli esperti non riescono a trovare in tempi brevi la medicina adatta» RAFFAELLA CARRARO
l settore orafo è uno dei più rappresentativi di quel modello italiano che tanto ha contribuito allo sviluppo economico del nostro Paese, portandolo alla ribalta dei mercati internazionali. Un modello che si fonda sulla vitalità di imprese piccole e medie al cui successo contribuiscono virtù tipicamente italiane quali l’imprenditoria, l’estro artistico e il “saper fare”. L’attività orafa è un mix di questi elementi che il pubblico internazionale associa all’immagine dell’Italia. Un mix ancor più radicato grazie a sinergie che si uniscono nella fortunata formula dei distretti, tra cui spiccano quello aretino e vicentino. L’Italia mantiene da sempre le prime posizioni sui mercati mondiali per la perizia, l’originalità e la fantasia dei disegnatori, l’accuratezza e l’eleganza dei modelli assicurate da una tradizione artigianale importantissima. E tanti sono i nomi d’oro dell’oreficeria italiana, figli d’arte o capitani coraggiosi che si sono avventurati in un settore difficile ma con un forte appeal. Uno di loro è Roberto Coin, vicentino e fondatore di uno dei brand più importanti del settore. L’azienda si pone sul mercato mondiale del gioiello come ambasciatrice del design e dell’italian style suggerendo valori
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ROBERTO COIN Veneziano, ma vicentino d’adozione, è il designer dell’omonimo brand di gioielli
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IL LUSSO CAVALCA LA CRISI
RICERCA E TRADIZIONE Due modelli della collezione Magic, caratterizzata dalla ricerca e dall’unione di materiali diversi
e identità precisi. Per soddisfare i diversi gusti e tendenze dei mercati europei, americani, orientali e medio orientali, Roberto Coin crea ogni anno più di cinquecento nuovi modelli. Estro, passione e creatività che si accompagnano alla qualità del lavoro del suo team, e che offrono una produzione che unisce le tecniche della tradizione orafa alle innovazioni richieste dal mercato. «La creatività italiana è speciale perché i nostri gioielli sono fatti da mani esperte. La creatività e l’innovazione ancora oggi, per fortuna, nascono in Italia. Fare bei gioielli è nel nostro dna, quindi i maestri italiani sono capaci ancora
di creare oggetti preziosi non pensati né sognati da nessun altro al mondo». Creatività, dunque, e maestria artigianale che fanno dei gioielli made in Italy un sogno e oggetti di culto per i clienti di tutto il mondo. Un’onda che gli imprenditori sanno cavalcare perché consci che l’atmosfera che le proprie creazioni trasmettono e ciò che fa la differenza. Ma il valore di un marchio non è puramente economico. Dipende dal rapporto che instaura con i consumatori, attraverso emozioni e immagini. E la visibilità, come la sua rivisitazione, ha a disposizione molti strumenti per fare centro. Creatività, innovazione, servi-
zio, qualità. Cosa lega questi quattro elementi? «Per noi ognuno di questi valori è imprescindibile per affrontare le sfide che ci aspettano. Sono valori sui quali si fonda la nostra azienda. Il design è nella nostra storia, ha anticipato molto spesso la moda e ha avuto la forza di creare nuovi stili per nuovi sentimenti. L’innovazione è sempre stata continua e imperativa e la qualità la nostra religione. Il servizio fa parte del nostro modo di essere, all’insegna di cortesia e professionalità». Può un gioiello racchiudere forma, colore, emozione e, allo stesso tempo, sprigionarli? «Questa è veramente una do-
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IL LUSSO CAVALCA LA CRISI Roberto Coin
Da Vicenza a New York Poco più di trent’anni di attività, due sedi e numerosi punti vendita L’azienda Roberto Coin nasce a Vicenza nel 1977. All’inizio produce per conto di alcuni tra i più famosi marchi dell’alta gioielleria internazionale, ma nel 1996 Roberto Coin lancia il marchio che porterà il suo stesso nome, creando e producendo gioielli di alta gamma. Il successo non tarda ad arrivare e a soli pochi anni dalla sua nascita il brand scala le classifiche delle griffe più note di gioielleria prima negli Stati Uniti, poi in Europa, e in Italia è ai primissimi posti. Oggi il quartier generale è rimasto a Vicenza, affiancato da sedi estere e da Roberto Coin Inc. a New York, e i punti vendita sparsi nel mondo sono mille. Il brand è diventato un’icona dell’italian style nel mondo e in trent’anni di esperienza ha ottenuto e consolidato una prestigiosa fama. Ogni anno Roberto Coin produce dai quattrocento ai seicento nuovi modelli per soddisfare le diverse esigenze dei mercati europei, asiatici, del Nord e Sud degli Stati Uniti. I monobrand nel mondo sono cinque: a Roma, a Macao, in Cina; a Baku, in Azerbaijan; ad Atlanta, negli Stati Uniti e a Dubai, negli Emirati Arabi. Si è appena chiuso a Milano nella Galleria d’Arte Sacerdoti in via Sant’Andrea il primo temporary shop, diventato in pochi giorni un vero luogo di culto dove ci si lascia inebriare dalla lucentezza del Diamante Cento, dalla Magic collection che mixa i materiali più insoliti e la limited edition Synthèse, per lui e per lei, creata in occasione di questa apertura e ispirata a Picasso.
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manda interessante. Credo di sì, che possa racchiudere una storia e, in effetti, tutto nasce dal perché si crea questo gioiello. Io vivo di emozioni e quindi devo sempre avere una vera storia per poter creare il prossimo nuovo gioiello. La forma, intesa come disegno, è importantissima. Il colore esprime la felicità. E l’emozione decisamente sì, la racchiude e la sprigiona, specialmente se il gioiello ci è stato donato da qualcuno per noi importante». Quali sono gli elementi a cui non rinuncia mai? «Creo gioielli che vorrei sempre
IL LUSSO CAVALCA LA CRISI
«HO SEMPRE MESSO L’AZIENDA IN PRIMA LINEA, SIA PER QUELLO CHE RAPPRESENTA SIA PER QUELLO CHE FACCIAMO, SEMPRE ORGOGLIOSI DI ESSERE ITALIANI»
diversi uno dall’altro, purché dimostrino un grande stile e abbiano come comune denominatore la qualità. Amo vestire la donna con look differenti, rendendo riconoscibile il fatto che si tratta di gioielli Roberto Coin: dall’innovazione nel design e nelle tecniche, nonché dal mio piccolo rubino incassato all’interno di ogni gioiello». Considerati i venti sfavorevoli di questo periodo, che significato dà al termine lusso? «Penso che ci sia bisogno di ridefinire questo concetto. Ognuno di noi ha una personale idea del lusso. Personalmente ne sono innamorato e sono pronto ad accettare la sfida, purché essa rappresenti sempre un forte stimolo e una nuova energia. In azienda abbiamo speso molte risorse per avere il miglior management, la migliore qualità possibile sul prodotto, il miglior design presentando sempre ai nostri clienti nuovi concetti per dare loro il miglior servizio possibile, ma soprattutto abbiamo investito su di loro e questo oggi ci fa dire che è proprio questo il successo del lusso».
In periodi di difficoltà si respira un’aria austera, lei invece per la sua ultima collezione ha realizzato e lanciato nel mondo l’unico taglio di diamante con cento sfaccettature. Una scelta dettata più dalla voglia di evasione o esercizio di stile? «In realtà si tratta di ricerca continua di essere differente e di ottenere risultati che migliorino la qualità. In questo caso, nessuno aveva mai pensato un diamante tagliato perfettamente con 100 sfaccettature, che creano all’interno della pietra un disegno floreale e producono uno scintillio di luce decisamente superiore». Con una congiuntura mondiale difficile, l’apertura internazionale è necessaria per acquisire nuove quote di mercato nei Paesi ad alto tasso di crescita. La vostra rotta qual è? «Non ci sono nuovi mercati, bisogna assolutamente consolidare i vecchi, ovviamente sperando nella crescita di India e Cina». Made in Italy: oggi il punto è comunicarlo e promuoverlo. Sugli strumenti c’è ancora un dibattito aperto. Da ambasciatore
dell’alta oreficeria italiana, lei cosa propone? «Ho sempre messo l’azienda in prima linea, sia per quello che rappresenta sia per quello che facciamo, sempre orgogliosi di essere italiani». C’è differenza tra il made in Italy e il made by Italy? «Sinceramente non l’ho ancora ben capita. Sono assolutamente convinto dell’eccellenza e della creatività italiane e non è importante il luogo in cui un oggetto è stato fatto quanto piuttosto da chi è stato fatto». Oggi lei vende più in Italia o all’estero? «Al 99,9% senz’altro all’estero, pochissimo in Italia. Comunque a dicembre 2007 abbiamo aperto il nostro primo negozio monomarca a Roma, in via Vittoria. Nel maggio del 2008 abbiamo aperto un negozio in piazza San Marco a Venezia, in collaborazione con la ditta Boncompagni. Infine, si è da poco conclusa la nostra prima esperienza di un temporary store, dallo scorso 10 febbraio fino al 10 marzo, a Milano presso la Galleria Sacerdoti in Via Sant’Andrea». VENETO 2009 | DOSSIER
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LEZIONI DI IMPRESA Le Fablier
MICHELA BARONA Amministratore unico di Le Fablier Spa, azienda leader nell’arredamento di lusso
UNA FIRMA UNICA SU OGNI CREAZIONE Se l’ottica delle aziende continua a essere quella di una produzione standardizzata non ci sarà modo di aprirsi un varco tra le insidie della crisi. Aggiungere invece alle proprie creazioni valori differenti, vicini alla vita e alle abitudini dei propri clienti, può essere un’alternativa concreta per non perdere fasce importanti di mercato. Le Fablier avvolge i propri mobili di favola. E Michela Barona spiega come MARTA GALATI
a prudenza degli italiani nel comprare un immobile cresce di giorno in giorno, trascinando con sé tutti i beni e prodotti che alla casa si legano, dalla sua struttura ai suoi utilizzi. Primo tra tutti vi è il settore dell’arredamento, che ancora non sta
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conoscendo una fase di crisi irreversibile come in altri Paesi, dove si arrivati alla chiusura di molte imprese. La recessione però si avverte e sta portando gli imprenditori da una parte a essere cauti negli investimenti, dall’altra a inventare strategie per restare
competitivi. Le Fablier è un’impresa veneta che opera nell’arredamento di lusso e ha sempre puntato sull’offerta di un prodotto realmente vicino a quello che la propria fascia di mercato necessita. Michela Barona ne è la fondatrice e titolare e non ha dubbi su
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quale sia la strada perché la crisi diffusa non subissi la sua impresa: differenziare la produzione, ampliandola e adattandola ai sogni e desideri dei propri clienti. Il settore del legno arredo italiano è stato colpito dalla crisi. Di quali contraccolpi sta risentendo la vostra impresa? «Non credo che il Lombardo-Veneto, l’area in cui Le Fablier ha sede, sia una delle zone più colpite. So che in Paesi come la Spagna le conseguenze nel nostro settore sono state deleterie, alcune ditte produttrici del mobile classico iberico hanno addirittura chiuso. La crisi ha colpito prima il settore immobiliare, e il nostro l’ha seguito subito dopo. La paura è andata a incidere molto su quella che è stata la volontà di crescita delle imprese italiane, in particolare sulle cautele che ogni consumatore ha prima di effettuare ogni tipo di spesa. Noi l’anno scorso abbiamo chiuso, nonostante una contrazione nella crescita, con un segno positivo. C’è da considerare ce ci rivolgiamo a un target molto giovane. Si tratta spesso di coppie che si sposano e decidono di comprare qualcosa di alta qualità. Vorremmo che i nostri clienti si sentissero fieri della casa in cui abitano». I prodotti Le Fablier si collocano nella fascia alta del mercato. Quanto questo aspetto ha inciso sul bilancio del 2008? «Noi abbiamo chiuso il 2008 con un piccolo incremento. Questo significa che quello che abbiamo costruito ha una valenza rilevante e anche che possiamo tenere una fascia nel mercato senza particolari problemi, soprattutto se ci confrontiamo con quello che sta accadendo intorno a noi. Sicuramente il fatto di avere creato qualcosa
che non è solo un bene, ma una favola a tutti gli effetti non è secondario: Le Fablier è fatta nella sua essenza di favole e non di pezzi di legno. Desideriamo che chi acquista un mobile abbia un qualcosa di valore in mano. Stiamo osservando le dinamiche economiche attorno a noi e di conseguenza ci muoviamo, non si può stare fermi aspettando semplicemente che le cose succedano. Ci siamo avvicinati ad esempio a settori affini, per cercare di salvaguardare l’azienda allargando la gamma di prodotti disponibili. Ci auguriamo di non dover abdicare alla nostra intenzione di offrire anche emozioni insieme ai nostri prodotti. Il nostro desiderio è di essere nelle case offrendo ai clienti un ambiente bello e confortevole in cui vivere. Puntare su aspetti qualificanti per lo stile di vita delle persone è un modo di arginare il rischio della crisi». Su quali mercati internazionali il vostro marchio è maggiormente presente e quali guardate con maggiore interesse? «Ci siamo mossi soprattutto in Europa. Con la Spagna, anche se in questo momento sta vivendo una crisi molto forte. Lavoriamo con Svizzera, Germania, Grecia, i Paesi dell’Est Europa, Ucraina, Polonia e Russia. Operiamo anche molto più lontano, in Corea ad esempio. Lì sentiamo meno la crisi. Quest’anno, e faremo una fiera ad hoc per presentarci, andremo a puntare sull’India, un mercato completamente differente dal nostro ma con grandi possibilità di espansione. Il mio sogno rimangono sempre gli Stati Uniti, ma avvicinarsi è un progetto che sicuramente quest’anno non riusciremo a raggiungere. La crisi ci ha un po’ frenato, tutti sono più
prudenti per cui bisognerà aspettare gli anni a venire per progetti di ampio respiro». Su cosa state puntando nel 2009 per rinforzarvi sul mercato nazionale e internazionale? «Bisogna investire su una diversificazione dell’offerta di prodotti prima di tutto. Abbiamo mantenuto le nostre linee più caratterizzate ma abbiamo creato anche prodotti classici, molto puliti e lineari, per poterci avvicinare a un pubblico vario senza perdere le i nostri valori, che vogliamo continuare a trasmettere. Abbiamo creato una linea parallela, nuova, più semplice, per poter essere apprezzati da un pubblico giovane. Questo auspichiamo che possa essere apprezzato anche all’estero». Molte aziende del legno-arredo che operano in una fascia medio bassa di prodotto si propongono di puntare alla qualità. Temete la concorrenza di queste new entry? «Io continuo a rivendicare quelli che sono i valori di una marca. Non credo che l’arrivo di altre aziende incrini la nostra posizione in una certa fascia di mercato. Il libero mercato si chiama così ed è giusto perché ognuno si può collocare dove vuole. Detto questo, trovo illogico che in questo momento chi è in una fascia media o medio bassa si voglia spostare. Le grandi realtà dai prezzi relativamente bassi stanno infatti risentendo meno della crisi rispetto ai prodotti di alto prezzo, non vedo perché dovrebbero desiderare di spostarsi in una fascia superiore. È difficile tra l’altro muoversi da una fascia all’altra, ricrearsi una credibilità ex novo, perché ciò comporta la perdita della propria clientela».
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VISIONI Sergio Romano
LE TANTE TESTE DELL’EUROPA Lo si è sempre saputo, ma la crisi lo ha reso ancora più evidente. Basta guardare alle reazioni dei principali Paesi europei. Che hanno guardato ai propri interessi prima che a quelli dell’Unione. Ma il mercato unico ci ha salvati e non possiamo buttarlo via. A colloquio con Sergio Romano LAURA PASOTTI
on cedere alle tentazioni protezioniste. E non chiudersi su se stessi. È l’unica strada che l’Europa può percorrere. Anche se, quando cresce il malumore dell’opinione pubblica e la gente teme per il proprio futuro, chi è al governo tende a tenerne conto. Ha le idee chiare Sergio Romano sulle reazioni dei diversi Stati all’attuale crisi dei mercati, un po’ meno sulla sua portata, visto che come sottolinea lui stesso, «l’attuale stato di incertezza comporta ancora numerosi punti interrogativi». Del resto, di “crisi” Sergio Romano se ne intende. L’ex ambasciatore era, infatti, presente in Inghilterra nel 1956 durante quella che ha coinvolto il Canale di Suez, era a Parigi nel 1968 e a Mosca durante gli anni cruciali della Perestrojka. E oggi guarda con l’occhio diplomatico, abituato alle “scaramucce” delle relazioni internazionali, i movimenti dei principali Paesi europei, soprattutto di quelli dove le elezioni sono imminenti. Come in Germania dove, anche se non si può arrivare a parlare di azioni protezioniste, il governo ha «guardato ai propri interessi» o in Gran Bretagna dove si dovrà votare a breve e «le condizioni del Governo Brown non possono certo dirsi brillanti». A cinquant’anni dalla costituzione della Comunità europea, la sua unità viene dunque messa a dura prova da questa crisi dai connotati glo-
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bali. Anche se c’è qualcuno che, nonostante la fortissima tentazione a risolvere i problemi in chiave nazionale, pende sempre dalla parte dell’Europa. Ed è Sarkozy, secondo Romano, a cui conviene fare una politica europea «perché la Francia potrebbe assumere il ruolo di Paese guida». Un comportamento che l’ex ambasciatore giudica «rassicurante» e che prima o poi anche gli altri Paesi dovranno rassegnarsi a seguire. L’Europa è attrezzata per affrontare questa crisi? «L’euro è stato straordinariamente utile in questa vicenda perché ha protetto i Paesi più deboli da ondate speculative che avrebbero potuto mettere in crisi la loro finanza, come già era accaduto nel 1992. La Banca Centrale Europea ha fatto un lavoro ammirevole, soprattutto all’inizio. Naturalmente, ci siamo accorti che il mercato unico rimane una realizzazione incompleta perché abbiamo sì una moneta sola, ma anche regolamenti finanziari che variano da Paese a Paese, rendendo difficile un controllo uniforme. L’Europa dovrebbe trarre dalla crisi le conclusioni giuste per arrivare a un sistema di regolamenti, se non totalmente omogeneo, quantomeno coordinato». Come giudica i piani anti-crisi varati dai diversi governi? «Si tratta di piani che, ovviamente, non possono essere molto diversi da quello varato dagli Stati
Uniti. Anche se, nel complesso, l’Europa, soprattutto quella centro-occidentale, è stata meno colpita rispetto all’America e, avendo la moneta unica, non può ricorrere ai mezzi finanziari sui quali ha puntato Obama. E ha dovuto porsi delle regole di bilancio, che possono essere corrette, ma non stravolte. In altre parole, noi non avremmo potuto prevedere il raddoppio del debito pubblico, come sembra stia accadendo negli Stati Uniti. Possiamo arrivare al 4% di disavanzo, ma certamente non oltre. Ci siamo in qualche modo legati le mani per costringere noi stessi a comportarci bene. L’America non ha questi vincoli, ma è anche vero che noi abbiamo maggiori paracadute economici e sociali. È per questo che ho l’impressione che dovremmo cavarcela un po’ meglio». Nonostante l’apertura verso una politica comune, quanto stanno pesando le divergenze tra gli interessi nazionali sull’avvio di un piano di rilancio europeo condiviso? «Credo che la classe politica europea oggi sia perfettamente consapevole della necessità di non cedere alle tentazioni protezioniste. Anche se in vicende politiche e sociali con tassi di disoccupazione in forte aumento, risulta evidente ciò che abbiamo sempre saputo: che la democrazia in Europa ha ancora una dimensione nazionale. Certo esiste il Parlamento di Strasburgo, si vota per le Euro-
OLYCOM / CANIO ROMANIELLO
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OCCHIO DIPLOMATICO Sergio Romano, 79 anni di Vicenza, è stato direttore per gli Affari generali al Ministero degli Esteri alla fine degli anni Settanta, rappresentante Nato negli anni Ottanta e Ambasciatore a Mosca tra l’85 e l’89. Oggi è commentatore per numerosi quotidiani e riviste, tra cui La Stampa, Il Corriere della Sera, Panorama, Limes, Il Mulino
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VISIONI Sergio Romano
pee, ma la classe dirigente dei singoli Paesi governa sulla base di una legittimità nazionale e in quanto votata dai propri elettori. È chiaro che quando cresce il malumore nell’opinione pubblica e la gente teme per il proprio futuro, gli uomini politici che governano, soprattutto se sono alla vigilia di nuove elezioni, tendono a tenerne conto, anche quando questi non sono corretti e ortodossi dal punto di vista europeo. Abbiamo assistito a qualcosa del genere in Gran Bretagna, in Germania e nella stessa Francia, dove però Sarkozy, nonostante qualche tentazione protezionista, finisce sempre per pendere dal lato
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«L’EUROPA SOFFRE DI IMPORTANTI PROGRESSI CHE NON SONO STATI COMPLETATI DALLE DECISIONI COMPLEMENTARI CHE AVREBBE DOVUTO ADOTTARE»
dell’Europa. Un comportamento che a lui conviene visto che la Francia potrebbe assumere il ruolo di “Paese guida”, per noi è rassicurante e che gli altri dovranno seguire. Perché il mercato unico esiste, è utile per tutti e non lo si può buttare via. Oggi
sentiamo solo le voci di coloro che sono in difficoltà e che si fanno sentire con maggiore vigore perché soffrono più degli altri. Ma se eliminassimo i vantaggi economici del mercato unico e delle frontiere aperte, saranno molti di più a strillare». Condivide le critiche di chi giudica in questo momento l’Unione Europea come un organismo immobile o limitante? «Come si può non condividerle. Abbiamo sempre saputo che il processo di integrazione è ancora incompleto. Ogni volta che si compie un passo decisivo verso l’integrazione si creano nuovi problemi che andranno inevita-
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bilmente risolti. Se oggi creiamo la moneta unica, domani dovremmo istituire il ministro dell’Economia unico. Ma questo non è stato fatto. Soffriamo di importanti progressi che non sono stati completati dalle decisioni complementari che avremmo dovuto adottare. E finché le cose stanno in questi termini è inevitabile che le esigenze nazionali si facciano strada. Sì, è vero, alla fine i compromessi si trovano, ma sempre con grande fatica. Basta pensare a ciò che sta succedendo a Bruxelles per l’utilizzo come incentivi comunitari di 5 miliardi di euro che appartengono al bilancio della
Commissione europea. I fondi devono essere versati dai Paesi membri i quali, nel momento in cui li versano, vogliono essere certi che saranno utilizzati secondo i loro criteri o interessi. Questa è una delle grandi difficoltà dell’Europa. Spero che questa crisi metta l’Europa di fronte alla necessità di completare il processo di integrazione». Non c’è il rischio di trovare un’Europa più debole al termine di questa crisi? «Il rischio c’è sempre. Se noi, per esempio, cedessimo alla tentazione di adottare misure protezionistiche, finiremmo per provocare degli inconvenienti che
pagherebbero tutti. Ma credo che quel pericolo sia stato scongiurato e che, al contrario, si sia fatta strada la convinzione che chiudersi in se stessi è la strada sbagliata. Purtroppo, però, non stiamo parlando di una crisi di cui conosciamo tutte le caratteristiche, i sintomi e le cause. Siamo di fronte a una crisi che scoppia a singhiozzo, tanto che non siamo ancora riusciti a identificare e quantificare la massa dei “prodotti tossici”. Ma cosa succederà se domani un’altra grande azienda mondiale o un’altra grande banca dovessero saltare? Viviamo ancora in uno stato di incertezza che, come tale, comporta numerosi VENETO 2009 | DOSSIER
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LA VOCE Stefano Lorenzetto
L’ECCEZIONALITÀ CHE FA NOTIZIA Secondo quale criterio si scelgono le “persone giuste” da intervistare? Come mai in Italia si tende a parlare tanto e ad ascoltare poco? In che cosa si differenzia la stampa italiana da quella estera? Risponde Stefano Lorenzetto FEDERICO MASSARI
a anni le mie interviste più interessanti diventano libri per Marsilio». A parlare è Stefano Lorenzetto, scrittore e penna de Il Giornale. La sua rubrica, “Tipi italiani”, sul quotidiano diretto da Mario Giordano, ha ormai tagliato il traguardo delle 400 puntate, il che significa, 400 interviste. A tal proposito, la domanda che più frequentemente rimbalza tra i corridoi della redazione di via Negri, è sempre stata: come Lorenzetto sceglie le “persone normali” da intervistare? Considerato da tutti gli addetti ai lavori “il principe” delle interviste di qualità, la sua selezione nel vagliare le persone con cui confrontarsi, ha come unico e solo criterio il gusto personale. «Talvolta – spiega Lorenzetto – individuo un tema e poi vado in cerca di un esperto che su quel tema abbia qualcosa di originale da dire, o più spesso qualcosa di definitivo. Se mi passa il termine». Altre volte, invece, allo scrittore veronese basta una citazione nascosta fra le righe di un giornale, un nome al quale vengono associate dichiarazioni, un’attività o una storia
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interessante, per carpire spunti in modo da dare vita alla sua arte: l’intervista perfetta. Sono state innumerevoli le occasioni in cui Stefano Lorenzetto si è chiesto come mai che alcuni colleghi non si siano accorti delle potenzialità dei personaggi che avevano tra le mani. La risposta è semplice: «In Italia tutti parlano e nessuno ascolta». Oggi in Italia va ancora di moda ascoltare la gente comune? «Il mio amico Sergio Saviane mi diceva che siamo rimasti in tre ad ascoltare le persone: Luciano Benetton, Eugenio Scalfari e io. Saviane ascoltava soprattutto i contadini. Uno di questi, incontrato in mezzo ai campi, gli disse: «Quando more un vecio, xe come se brusasse ’na biblioteca». Ecco, mi piace tenere memoria di queste biblioteche prima che l’incendio se le porti via». In Italiani per bene, lei sostiene che “gli italiani che fanno il bene per il bene”. Ma chi sono gli italiani per bene per Stefano Lorenzetto? «Sono quelli che seguono il consiglio dell’anonimo dei Promessi Sposi: si dovrebbe pensare più a
STEFANO LORENZETTO Giornalista e scrittore, lavora, tra le altre testate, per Il Giornale e Panorama
LA VOCE
«IL BUON SENSO È IL VOLTO UMILE, QUOTIDIANO, DI UNA RAGIONE CHE RIESCE ANCORA A DISTINGUERE IL BENE DAL MALE»
far bene, che a star bene, e così si finirebbe anche per star meglio». Chi lavora nei giornali forse si è certamente sentito dire che “il bene non fa notizia”. Lei ha ribaltato questa convinzione. Come ci è riuscito? «C’era di mezzo una tacita sfida con Enzo Biagi, che mi ripeteva spesso che nel bene non c’è romanzo. Anche se poi, nella prefazione del mio primo libro, Fatti in casa, dovette invece riconoscere che non è mica così, che
nelle mie storie c’era il profumo delle favole vere. Raccontare il bene è l’esercizio più difficile, per un giornalista. Richiede una particolare predisposizione dell’anima. È un esercizio di cuore, più che di testa. Saint-Exupéry nel Piccolo principe ci ricorda che non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi. Il bene è nascosto nella quotidianità. Cercherò di spiegarglielo con un apologo yiddish che a me piace molto. I fedeli VENETO 2009 | DOSSIER
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LA VOCE Stefano Lorenzetto
erano incuriositi dal fatto che tutte le settimane il loro rabbino sparisse per alcune ore prima dell’inizio del sabato. Pensavano che s’incontrasse con l’Onnipotente. Dobbiamo scoprire quale segreto nasconde, si dissero. Così gli misero una spia alle calcagna. La spia notò che il rabbino si travestiva da contadino, poi usciva furtivamente di casa. Lo seguì e vide che si recava da una donna paralizzata: le rassettava la casa e le cucinava il pranzo per il sabato. Al ritorno, i fedeli chiesero alla spia: “Dov’è andato il rabbino? È forse salito al cielo per incontrare Dio?”. “No – rispose la spia – è andato molto più su”». Lei ha scritto un libro sulla morte, Vita morte e miracoli. Perché, secondo lei, nella società contemporanea si tende a dimenticare la morte? «La rimozione della morte è figlia del materialismo, dello scientismo, del nichilismo, dell’ateismo, i quattro cavalieri dell’Apocalisse sulla groppa della civiltà contemporanea. Giuliano Ferrara mi ha confessato che il mio libro, del quale ha scritto la prefazione, gli ha offerto lo spunto degli Appunti per il dopo pubblicati sul Foglio per parecchi mesi proprio in coincidenza con l’uscita di Vita morte miracoli. Giuliano dice che il dopo è semplicemente immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia, teologia, science fiction, perché la scienza esatta ne sa nulla. Offre inquietudine, che è una buona
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cosa, oppure l’idea del riposo, che è un’altra buona cosa. Ferrara non ha il dono della fede, eppure si è posto il problema del dopo e a me piace pensare che l’enciclica Spe salvi, uscita appena conclusa quella serie di articoli, sia stata la risposta di un vecchio teologo tedesco a questa domanda: che cosa ci aspetta dopo? Un professore che è diventato Papa ci ha tenuto una lezione sulla speranza che salva, ci ha spiegato come molte persone rifiutino la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile e ci ha messo in guardia circa il fatto che vivere sempre, senza un termine, tutto sommato può
essere solo noioso e alla fine insopportabile». Nel suo Dizionario del buon senso lei ha colto le contraddizioni dell’Italia, Paese afflitto dalla mancanza di buon senso. Dove vanno cercate le ragioni di questa mancanza? «Secondo Giambattista Vico, il filosofo dei corsi e dei ricorsi storici, il buon senso è un giudizio formulato senza riflettere, condiviso da una classe intera, da una nazione intera, dall’umanità intera. Il buon senso è il volto umile, quotidiano, di una ragione che riesce ancora a distinguere il bene dal male. Quindi il buon senso ha a che vedere con
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l’etica, con la morale. Ma poiché la società contemporanea ormai scambia il bene per il male e il male per il bene, ecco la simmetrica caduta verticale del buon senso. A questa dissoluzione delle nazioni Vico riteneva che ogni tanto ponesse rimedio la Provvidenza, donde il periodico superamento delle crisi e l’inizio di nuovi corsi storici. Mi auguro che avesse ragione». Lei è stato definito da Claudio Sabelli Fioretti “l’intervistatore principe”. È davvero così difficile fare una bella intervista? «Ma no, basta solo andare dall’intervistato a farsi confermare quello che già si sa sul suo conto. Comunque, sempre meglio intervistare che essere intervistati». Maria Giovanna Maglie invece di lei ha detto che “sembra un giornalista americano”. In che cosa si differenzia la stampa italiana da quella americana? «L’imprenditore genovese Rinaldo Piaggio diceva che in Italia, a chi possiede un giornale, in realtà servono al massimo tre co-
pie: una per sé, una per la moglie, ammesso ce l’abbia, e una, quella più importante, da mandare a Roma. Ecco, negli Stati Uniti, e nel mondo anglosassone in genere, gli editori stampano i giornali per mandarli in edicola, non a Washington». E quali sono i mali che affliggono la nostra? «L’approssimazione, la reticenza, la mancanza di fantasia. Ma su tutti metterei il “luogocomunismo”. Il giornalismo italiano pro-
cede per stereotipi, è l’unico al mondo che riesca a trasformare i fatti in tormentoni: la mucca pazza cede il posto all’influenza aviaria, l’influenza aviaria agli incidenti sul lavoro, gli incidenti sul lavoro agli stupri, gli stupri alle ronde e così via. Un carosello nevrotico che diventa parodia della realtà. Apri il giornale e sai già che cosa ci troverai dentro. E poi abbiamo il coraggio di lamentarci perché i lettori non ci comprano? Eroi, sono!» VENETO 2009 | DOSSIER
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ARCHITETTURA Santiago Calatrava
UN PONTE SOSPESO TRA PRESENTE E FUTURO Le sue opere svelano la complessità della statica e dell’ingegneria. Un equilibrio che appare sempre al limite del movimento, per ponti che sono metafore della vita e del cambiamento. Perché ogni opera di Santiago Calatrava non è fatta per il presente. Ma si appoggia sui pilastri dell’oggi per raggiungere le generazioni di domani SARAH SAGRIPANTI a sua architettura è immediatamente riconoscibile dallo sforzo statico che la materia svolge per convertirsi in qualcosa di utilizzabile: un ponte, un edificio, un’installazione. Strutture apparentemente utopiche, dietro le quali si ravvisano equilibri di forze e sollecitazioni disciplinate dalle leggi della fisica, le stesse che permettono a ogni corpo di sorreggersi. Come fu per Leonardo da Vinci, è il corpo umano che ispira il genio di Santiago Calatrava. Partendo dalla decodificazione dei modelli di funzionamento degli organismi, Calatrava crea architetture che assumono forme e movimenti degli esseri viventi. Lo si capisce dai suoi disegni e dalle sue sculture, perché Calatrava, architetto e ingegnere di fama mondiale, è anche pittore e scultore. Lui stesso ha dichiarato che alla base delle sue sculture, quelle in ceramica ma anche quelle in calcestruzzo, c’è la domanda che nasce dall’osservare un bambino che impara a camminare: perché un corpo sta in piedi? L’opera di questo artista poliedrico, uomo nuovo del Rinascimento del terzo millennio, è sottoposta a continue critiche, nel bene e nel male. Ma lui rifugge qualsiasi polemica. «Sono solo un architetto e in quanto tale cerco sempre di fare del mio meglio». Mentre a Reggio Emilia sta partendo il cantiere per la sua stazione dell’Alta Velocità e sono a buon punto
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QUARTO PONTE L’architetto Santiago Calatrava, 58 anni, di fronte al Ponte della Costituzione sul Canal Grande a Venezia, inaugurato lo scorso settembre. Sopra, una veduta dall’alto del ponte
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i lavori per il nuovo complesso sportivo universitario di Tor Vergata, la purezza di forme e la bellezza del ponte di Venezia spengono, a poco a poco, tutte le polemiche. Architetto, il Quarto Ponte sul Canal Grande di Venezia è stato finalmente inaugurato. Ne è soddisfatto? «Amo molto quel ponte. La cartolina di auguri che il mio studio ha inviato in occasione dello scorso Natale aveva la sua immagine. Ricevo molti commenti da persone che lo hanno visitato e ne sono rimaste affascinate. Per me è stato un grande onore lavorare per una città come Venezia, una grande sfida per un contesto storico urbano unico e difficile». Prendendo ad esempio questa esperienza, come si dovrebbe risolvere secondo lei il rapporto tra antico e moderno in architettura? «Occorre ricercare un’armonia, ma non tanto nelle forme o nei colori, quanto nella qualità del costruito. Ne sono un esempio tante straordinarie città italiane, dove si mescolano stili architettonici di diverse epoche e il complesso ne risulta comunque armonioso. Questo non avviene per una somiglianza formale o materiale tra i diversi stili, ma perché si tratta di testimonianze architettoniche realizzate tutte con grande cura, che il trascorrere dei secoli ha armonizzato. Ciò che risolve il contrasto tra contemporaneo e antico è quindi la qualità del costruito, perché l’architettura va oltre il presente e resta alle generaVENETO 2009 | DOSSIER
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ARCHITETTURA Santiago Calatrava
IN CORSO A destra, render del progetto di Calatrava per il Centro trasporti del World Trade Center a New York. Nella pagina accanto, render della Città dello Sport a Tor Vergata, Roma, attualmente in costruzione
zioni future». Cosa rappresenta per lei un ponte, dal punto di vista delle sfide progettuali che può offrire? «Trovo che un ponte sia un soggetto molto importante per la funzione che svolge di unire due parti di un territorio o di una città, con tutti i significati simbolici che questo comporta. Quando cominciai, nell’ambito della progettazione architettonica, il ponte veniva considerato semplicemente come un’infrastruttura funzionale. Io provai a intervenire in quel contesto, cercando di rivalutare l’oggetto in sé, ricercando nuove tecnologie e altre tipologie strutturali, dando importanza a parametri fino ad allora non considerati, come l’inserimento nel contesto, l’illuminazione o il colore». In questo modo, col tempo, ha sviluppato un vocabolario altamente innovativo. «Se paragona il mio lavoro a ciò che hanno rappresentato alcune opere, ad esempio di epoca romana, per la storia dell’architettura dei ponti, vedrà che il mio contributo è molto modesto. Ma in questo settore c’è ancora molto da fare e anch’io mi stupisco delle possibilità che esistono di innovare le metodologie costruttive dei ponti. Sogno, ad esempio, di realizzare un ponte che possa trarre il fabbisogno energetico necessario per la sua illuminazione da cellule fotoelettriche». Quanto contribuiscono anche le possibilità offerte dai nuovi ma-
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teriali? «I ponti sono oggetti altamente tecnici e tecnologici e qualsiasi innovazione influisce sulla loro costruzione. Ci sono materiali, come la fibra di carbonio, che ancora non sono stati molto sviluppati e credo che avranno certamente un futuro. Io prediligo materiali tradi-
zionali, come acciaio e calcestruzzo, ma anche la pietra o il vetro, poco utilizzati quando cominciai». Tra i tanti lavori svolti in questi anni, di quale va più fiero? «Nei miei venticinque anni di lavoro, il numero di oggetti che ho realizzato non è poi così elevato,
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perché molti sono rimasti progetti o studi. Quelli costruiti, li guardo tutti come fossero figli. Ma il progetto che amo di più è il prossimo che farò. La virtù dell’architetto è il pellegrinaggio, muoversi da un progetto all’altro, cui dedicare sempre, allo stesso modo, tutto se stesso». Come nasce un progetto nello studio di Calatrava? «Mentre parlo, dipingo. C’è una prima fase, puramente creativa, legata alle prime impressioni sul progetto, in cui nascono schizzi fatti a mano, a matita, ad acquerello. È un momento personale e introverso, dove gioco un ruolo fondamentale. Qui intervengono pochi fidati collaboratori, che trasformano gli schizzi in piani e tavole, poi i plastici, mentre partono i conteggi strutturali. Non è certamente un processo lineare, si va avanti o se necessario si ricomincia. E ogni cambiamento serve affinché il progetto si rafforzi. Ne è un esempio il progetto per il Centro trasporti del World Trade Center,
molto complesso. Lì la fase dei bozzetti non si chiude mai». Nel corso di questo processo, è mai arrivato a un punto in cui ha dovuto abbandonare un progetto perché infattibile? «Ho ideato una copertura in acciaio ultraleggera, con parti mobili, di quasi mille metri di portata: sono convinto che sia fattibile, ma non ci siamo ancora arrivati. Come ingegnere, sono molto legato alla fattibilità del progetto fin dal momento dell’ideazione, ma credo sia fondamentale spingersi sempre a sfiorare i limiti della fattibilità». Come nel progetto del ponte sullo Stretto di Messina? «Sì, quello è un esempio bellissimo di un progetto al limite. Una campata di tremila metri che ci conduce su terreni dove nessuno è ancora stato. I progettisti si siano confrontati con situazioni completamente nuove. Sono progetti enormemente suggestivi e interessanti, che si muovono in terra incognita». Tra tanti Paesi nei quali ha vis-
suto e lavorato, a quale si sente più legato? «Per l’Italia ho una gratitudine enorme, per ciò che mi ha insegnato nella cultura e nell’arte. Alla Francia sono legato perché lì ho iniziato seriamente a dipingere. Degli Usa, invece, dove oggi vivo, amo il fatto di essere un Paese contemporaneo, fatto di contrasti, come è fatta di contrasti la modernità. Amo anche evidentemente il mio Paese, la Spagna, dove sono nato e ho vissuto fino a 22 anni». Cosa porta della Spagna nel suo lavoro? «La Spagna mi ha dato molto, ma ciò che più ha influito sulla mia architettura è il Mediterraneo. Nella casa dove sono cresciuto, oltre i terrazzi della città di Valencia, si vedeva il mare. Quando l’ho lasciata, ho sempre continuato a viaggiare verso Sud, l’Italia, la Grecia, il Nord Africa, alla ricerca di stimoli per la mia architettura. Credo che il Mediterraneo, con la sua luce e le sue architetture, abbia influito molto sul mio lavoro». VENETO 2009 | DOSSIER
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VENEZIA ASPETTA UN NUOVO MECENATISMO Meno soldi, più creatività e minori sprechi». Così la cultura può trarre giovamento dalla crisi. È la visione di Franca Coin, presidente dell’associazione no-profit Venice International Foundation. Moderna ambasciatrice di Venezia e della sua arte nel mondo, la fondazione propone un’innovativa formula per la promozione e la difesa dei beni culturali FRANCESCA DRUIDI
n’impresa epica. Così Franca Coin, presidente di Venice Foundation, associazione senza scopo di lucro che fa parte dei Comitati Unesco per la Salvaguardia di Venezia, definisce la tutela del patrimonio artistico. Non solo per la consistenza dei beni in questione, ma anche e soprattutto per le difficoltà finanziarie, tecniche, temporali e burocratiche che tale impegno comporta. In questo contesto la fondazione, creata nel 1996 con l’obiettivo di sostenere e finanziare l’attività dei Musei Civici Veneziani, rappresenta un esempio di grande successo di «una struttura privata capace di interagire con il pubblico, raccogliendo risorse economiche da destinare al no-profit culturale e proponendo nuovi modi di concepire e vivere il museo». Quali sono i principi cardine di Venice Foundation? «È un modello in continua evoluzione. Ma, fin dalla sua costituzione, le regole sono state poche e chiare. Prima di tutto, la passione. Fondamentale poi è il metodo di gestione dei fondi: i finanziamenti sono sempre diretti tra noi e chi realizza i restauri, con un costante controllo della qualità dei lavori eseguiti. E il nostro intervento, specialmente nel recupero del patrimonio storico-
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artistico, non si conclude con la fine del restauro. L’opera viene costantemente comunicata e tenuta viva nella memoria». Come si associano filantropia e cultura? «Formare un gruppo aperto di associati, ricco di ideali, di tensione etica e di costruttiva collaborazione, è stata la base di partenza per arrivare alla collaudata formula del micro mecenatismo, in cui ogni singola persona può partecipare e avere l’orgoglio di contribuire alla salvaguardia di un’opera d’arte. Il tutto in una rete internazionale di rapporti volta alla conoscenza e valorizzazione del nostro
Archivio fotografico Venice Foundation, foto Michele Crosera
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patrimonio artistico». Quale bilancio può trarre dell’attività della Fondazione? «Senza dubbio positivo. In dodici anni, abbiamo raccolto e investito in cultura quasi sei milioni di euro, grazie alla generosità di circa 150 soci, che costituiscono la solida base dei nostri mecenati, e di una rete di oltre settemila amici, in incessante evoluzione. Attraverso il loro sostegno, le attività variano dal restauro all’acquisizione e alla commissione di opere, dai programmi culturali nei musei destinati a scuole, famiglie e adulti fino a progetti espositivi e musicali. Abbiamo, inoltre, restaurato oltre
© Gianmarco Chieregato / Photomovie
LA CULTURA DEGLI AFFARI
FRANCA COIN La presidente di Venice Foundation al Museo del Settecento Veneziano di Ca’ Rezzonico davanti a Pulcinella e i saltimbanchi, uno degli affreschi di Giandomenico Tiepolo restaurato dalla fondazione nel 2000. Nella pagina a fianco, la tela La Nobiltà e la Virtù abbattono l’Ignoranza di Giambattista Tiepolo restaurata sempre da Venice Foundation nel 2002
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LA CULTURA DEGLI AFFARI Franca Coin
PALAZZO DUCALE A lato, la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia (Archivio fotografico Venice Foundation). Sotto, il soffitto della Sala nelle riprese fotografiche e nel montaggio digitale di Massimiliano Cadamuro della Fondazione Musei Civici di Venezia
cento opere d’arte, per lo più conservate a Ca’ Rezzonico Museo del Settecento Veneziano, tra cui i 60 affreschi di Giandomenico Tiepolo. Ora stiamo restaurando il mosaico della Cupola della Creazione nella Basilica di San Marco grazie al progetto “Sulle Ali degli Angeli” e le dorature del soffitto della Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale con il progetto di micro mecenatismo “Gleam Team”. Due progetti che, da soli, comportano un finanziamento di oltre mezzo milione di euro». Investimenti privati e finanziamenti pubblici: come vede attualmente la relazione tra risorse e cultura? «Gli investimenti sono di fondamentale importanza, soprattutto quelli privati, ma bisogna saperli gestire bene, perché il rischio è quello di svendere miseramente il nostro patrimonio se non addirittura di ridicolizzarlo, trasformando gli edifici storici in meri supporti di slogan pubblicitari, a volte anche di cattivo gusto». È possibile incentivare le sponsorizzazioni e la partecipazione dei privati al processo di fund raising? «Sponsorizzazione è un termine che noi abbiamo abolito. Venice Foundation cerca esclusivamente piccoli o grandi mecenati e finanziatori da coinvolgere nei progetti: vogliamo che sappiano a cosa stanno partecipando e che si sentano orgogliosi di farlo. Coinvolgimento è la chiave di tutto. Guardiamo agli imprenditori. Alcuni sono illuminati, altri forse un po’ spenti ma anche questi, se coinvolti in maniera corretta, possono diventare una forza determinante. DOSSIER | VENETO 2009
È il modo che fa la differenza». Cosa manca all’Italia per creare una vera e propria industria culturale? «Siamo i migliori al mondo nella conservazione, ma gli ultimi nell’innovazione. Ciò che manca è forse un progetto globale di ampio respiro e una visione che prescinda dai singoli interessi». Quali interventi ritiene più urgenti per Venezia? «La priorità è la difesa della città dalle acque alte e la soluzione è il sistema Mose. Torino ospita in questi giorni una suggestiva mostra di tesori appartenuti alle antiche città egizie che sprofondarono nel mare.
Cerchiamo di evitare il ripetersi di un simile destino per Venezia». Che 2009 sarà per la cultura? «Per assurdo, la congiuntura negativa che il mondo sta vivendo farà un gran bene alla cultura. È la storia che ce lo insegna. Basta guardare al Seicento spagnolo che, in piena crisi economica e politica, vede nascere i capolavori di Cervantes o di Velázquez. Meno soldi, più creatività e minori sprechi. Ora forse è giunto il momento di cambiare e di produrre poche cose, ma di qualità e soprattutto di recuperare e valorizzare il grande patrimonio dei nostri musei, magari quello dimenticato da anni nei depositi».
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DONNE E LEGGE Elisabetta Casellati
DOBBIAMO RECUPERARE EFFICIENZA, CREDIBILITÀ E FIDUCIA NELLA GIUSTIZIA Assimilare milioni di cause arretrate. Decurtare riti in eccesso. Così come tempi vuoti e documentazioni formali. Si può davvero pensare a un sistema di processi efficace e funzionale, dove la giustizia arrivi nel momento in cui è necessaria? Le parole della senatrice Elisabetta Casellati, sottosegretario alla Giustizia, sembrano indicare la reale possibilità di un sistema differente ANNA NEI
ilioni di cause arretrate. Riti in eccesso. Tempi biblici. Lungaggini rituali. Si può pensare ad un processo efficiente e razionale, dove la giustizia torni ad essere un servizio per il cittadino? Le parole della Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati, Sottosegretario alla Giustizia, sembrano indicare la possibilità di invertire la tendenza attraverso incisivi interventi riformatori del sistema giudiziario. La giustizia italiana è in affanno: cinque milioni di cause civili pendenti e tre milioni e mezzo di cause penali pendenti. L’organico dei magistrati composto negli anni ’60 non è stato adeguato alle trasformazioni del tessuto economico e sociale che hanno investito le varie aree del Paese. Maria Elisabetta Alberti Casellati spiega quali sono i punti qualificanti della riforma in atto. In tema di sicurezza, con il decreto anti-stupri il governo ha dato un segnale forte. Quali passi sono ancora necessari perché in Italia sia garantita la certezza della pena? E, ancora, non c’è il rischio di una deriva xenofoba?
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«Con il decreto anti-stupri il Governo ha anticipato una nuova linea di fermezza per garantire ai cittadini una maggiore tutela della sicurezza a fronte di un crescente allarme sociale, determinato da reati odiosi come la violenza sessuale. L’esecutivo ha stabilito infatti l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere e l’esclusione di misure premiali. Stiamo varando un pacchetto di norme che possa assicurare la certezza della pena
«ABBIAMO ADOTTATO UNA SERIE DI MISURE CHE HANNO COME OBIETTIVO QUELLO DI RENDERE GIUSTIZIA AI CITTADINI IN TEMPI BREVI NELLA CONSAPEVOLEZZA CHE UNA GIUSTIZIA LENTA È UNA GIUSTIZIA DENEGATA»
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ELISABETTA CASELLATI Sottosegretario alla Giustizia
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DONNE E LEGGE Elisabetta Casellati
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per eliminare un’anomalia del nostro sistema giudiziario che, a fronte di carcerazioni preventive troppo spesso lunghe e odiose, permette scarcerazioni inspiegabili, che suscitano sfiducia nelle istituzioni. Ciò ingenera la convinzione che se lo Stato non risponde ad un torto subito i cittadini possano seguire tracciati alternativi rispetto alla legalità o peggio possano ricorrere alla “giustizia fai da te”. Io non credo che il nostro Paese rischi una deriva xenofoba. Un conto è la cultura dell’accoglienza che è nel nostro Dna, che ha favorito l’integrazione di comunitari e non, arrivati nel nostro Paese per lavorare onestamente. Un conto è la repressione dei reati che deve essere dura nei confronti di tutti, perchè anche attraverso il rispetto delle regole e dei principi di una comunità si favoriscono le relazioni sociali e la possibilità stessa di una convivenza serena». Lei si è occupata principalmente della riforma del pro-
cesso civile. Quale è oggi la situazione in Italia? «Il nostro sistema giudiziario è al collasso. Con cinque milioni e mezzo di cause civili pendenti e una durata media dei processi dagli otto ai dieci anni, l’Italia è al 150° posto nella graduatoria mondiale di efficienza nel giudizio civile dopo l’Angola ed il Gabon. C’è una consapevolezza ormai diffusa che i rapporti economici e sociali e perfino i rapporti famigliari non possano svolgersi serenamente e dare i loro frutti in termini di benessere, ricchezza e sviluppo se l’apparato giudiziario non assicura le necessarie garanzie di tutela rispetto al danno, al sopruso e all’inadempimento. Un sistema che dispensi certezza giudiziaria ai cittadini è conveniente, perché promuove lo sviluppo ed il benessere economico. Una giustizia civile veloce fa girare velocemente l’economia. Quali sono le misure contenute nella vostra riforma?
“Abbiamo adottato una serie di misure che hanno come obiettivo quello di rendere giustizia ai cittadini in tempi brevi nella consapevolezza che una giustizia lenta è una giustizia denegata, che una giustizia lenta non è equanime, perché danneggia i più deboli; una giustizia inefficiente diventa una risorsa ed un alleato del malaffare. Una riforma che introduce, da una lato, la mediazione come possibilità di comporre le controversie fuori dall’aula del Tribunale, dall’altro, all’interno del processo, il filtro della cassazione, per cui non tutte la cause arriveranno al terzo grado, la prova testimoniale scritta, la semplificazione dei riti processuali (saranno tre o quattro invece di trenta), una sentenza più snella e un complesso di sanzioni economiche per chi allunga i tempi di durata del giudizio in mala fede. In questo modo si creerà un sistema processuale rapido ed efficiente che potrà restituire credibilità e fiducia
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IPSE DIXIT Niccolò Ghedini NICCOLÒ GHEDINI avvocato penalista. Già coordinatore di Forza Italia in Veneto, nelle due precedenti legislature è stato senatore. Oggi siede a Montecitorio tra le file del Pdl
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GLI ITALIANI VOGLIONO CERTEZZE Nuove carceri, sempre più sicure. Ma anche differenziate. Per evitare pericolose commistioni tra diverse tipologie di detenuti. Parte da qui, con concretezza e senza facili clemenzialismi, la ricetta di Niccolò Ghedini per dare risposte alle gravi criticità del nostro sistema carcerario MARILENA SPATARO
guadagnargli la stima del governo e dello stesso Presidente del Consiglio, rendendolo un personaggio di primo piano di questa legislatura, oltre che l’acume politico e una visione lucida dei problemi, anche nelle situazioni più delicate, sono le sue doti di giurista, profondamente competente in materia di diritto penale. Avvocato penalista di lunga esperienza e deputato del Pdl, Niccolò Ghedini, ha, infatti, portato con sé sugli scranni di Montecitorio la passione e la professionalità che da sempre lo animano nell’esercizio della professione forense. E in un momento in cui l’attenzione della politica e l’azione del governo sono concentrate sulla riforma della giustizia, il suo contributo, sia come esperto in materia di diritto penale, che come politico appare più prezioso che mai. Un settore in cui, secondo Ghedini, occorre intervenire con misure urgenti e contestuali ai provvedimenti di riforma in ambito penale, è quello carcerario, ormai in stato di emergenza permanente. «Il primo provvedimento da prendere, e che è già nell’agenda del ministro Alfano, è la creazione di un circuito carcerario
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differenziato» spiega il parlamentare. Che fa notare come questa misura contribuirà a limitare la pericolosa commistione all’interno degli istituti di pena tra detenuti già dichiarati colpevoli con sentenza definitiva e detenuti in attesa di giudizio, e, perciò, considerati presunti innocenti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Per questi soggetti – sottolinea il deputato azzurro – le strutture carcerarie, sebbene dotate della necessaria sicurezza, dovranno essere più leggere, perché per loro vi è una presunzione di minore pericolosità» e questo vale soprattutto per quei circa 15.000 detenuti annui che transitano nelle carceri italiane per una media di 7 giorni. Depenalizzare i reati minori potrebbe essere una delle possibili soluzioni all’emergenza carceraria? «Per molti anni si è pensato che la depenalizzazione fosse una strada corretta. In realtà essa comporta semplicemente un trasferimento di competenze da un giudice a un altro giudice. Inoltre la depenalizzazione di comportamenti che magari in astratto possono sembrare poca cosa a volte può creare forti disagi sociali, perché la cosiddetta VENETO 2009 | DOSSIER
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microcriminalità genera un senso di straordinaria insicurezza nella popolazione; la tolleranza zero, che non è uno slogan, ma una filosofia di approccio al problema criminale, in alcuni Stati ha funzionato molto bene proprio sui piccoli reati. Partendo dalle piccole cose spesso si riesce a riportare l’ordine. Questo, però, non significa che tutto debba essere ricondotto alla disciplina penale, quindi occorre procedere a una seria analisi per individuare le fattispecie superate». Periodicamente si torna a discutere dell’efficacia del 41bis. Qual è la sua opinione al riguardo? «Il 41bis, se da un lato prevede un trattamento che appare contrario ai principi più elementari di socializzazione, quale la limitazione per alcuni detenuti del contatto con il mondo esterno e del rapporto con i propri familiari, per cui è amaro doverla applicare, dall’altro si configura come necessaria laddove si tratta di reprimere il grave fenomeno della criminalità organizzata, particolarmente diffuso in alcune zone del nostro Paese. Perciò, tra il 2001 e 2006, l’allora Governo Berlusconi aveva istituzionalizzato il 41bis, privandolo delle precedenti caratteristiche di provvisorietà. Anche se si tratta di un provvedimento di cui si vorrebbe fare a meno, esso appare indispensabile per spezzare quei legami che purtroppo vengono mantenuti in alcuni casi attraverso i contatti con i familiari». Altro nodo cruciale è il reinserimento sociale degli ex-detenuti. Cosa si può fare da un punto di vista giuridico per favorirlo? «Questa è una questione di grandissimo respiro che va affrontata, innanzitutto, attraverso la costruzione di nuove carceri e anche attraverso il miglioramento dello status di vita del detenuto, che si dovrà riuscire ad avviare al lavoro e a una migliore qualificazione professionale, in modo da consentirgli d’intrapren-
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dere percorsi di reinserimento sociale. Nel nuovo pacchetto giustizia, appunto, si prevedono i cosiddetti lavori socialmente utili: colui che è stato condannato e che vuole ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali o ad altri benefici, dovrà lavorare a favore della collettività». In Italia sembra che il senso dell’espressione “certezza della pena” sia relativo. Quali sono le ragioni storiche e sociali di questa anomalia? «Intanto, vorrei precisare che da noi, dal Dopoguerra fino al 1990, abbiamo avuto una quarantina di condoni e di amnistie. Il che ha creato una sorta di aspettativa a una pena condonata o a un reato amnistiato. Da questo è derivato un senso della non antigiuridicità della condotta da illecito penale e la convin-
zione che comunque lo Stato non avrebbe mai preteso l’effettiva espiazione della pena. Con le modifiche in corso d’approvazione da parte del governo, si arriverà, di fronte a una sentenza definitiva in cui la pena si sia ormai cristallizzata, a scontare fino in fondo la condanna. Ed è qui che si rivela l’utilità dei lavori socialmente utili, che ripagano in qualche modo la società del comportamento antigiuridico». Dopo il caso dello stupro di Capodanno si è acceso il dibattito sulla discrezionalità del giudice, soprattutto riguardo alle misure di custodia cautelare. Come commenta? «Anche se comprendo il dolore e la rabbia, assolutamente giustificati, di coloro che subiscono questo genere di reati, su questo tema sono sempre molto prudente, perché la mi-
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sura cautelare in carcere deve essere sempre l’extrema ratio. Lo Stato non persegue la vendetta come fine, per cui ricorrere a questo istituto prima di una sentenza di condanna definitiva è un qualcosa da farsi solo in via eccezionale. In merito risulta piuttosto difficile negare ai giudici di procedere a una valutazione sulla effettiva pericolosità sociale di un soggetto e sulla possibilità di fuga o di reiterazione del reato. Ritengo, perciò, importante applicare quanto già previsto da un provvedimento del governo, secondo cui nei casi di conclamata responsabilità, i magistrati, invece di tenere l’imputato in attesa di giudizio, seguano il codice facendo il processo per direttissima. Ricorrendo alla direttissima, ci sarebbe già una sentenza di primo grado, per cui anche la custodia cautelare avrebbe una diversa ragion d’essere». Quindi una revisione del processo penale potrebbe contribuire a migliorare questo aspetto? «Oggi il direttissimo dovrebbe essere la regola per vicende come questa, ed è incomprensibile perché i magistrati non utilizzino questi strumenti. Piuttosto che applicare la legge, invece, una certa parte della magistratura sembra preferire lamentarsi per ogni provvedimento dei governi di centrodestra. Questo comportamento contribuisce a creare una situazione in cui, di fronte a un elevatissimo numero di magistrati pro-capite e a una delle più elevate spese di giustizia d’Europa, parallelamente ci ritroviamo con una delle giustizie più lente d’Europa». Sulle proposte di Violante circa la riforma del Csm, sembra essersi aperto uno spiraglio di dialogo tra maggioranza e opposizione. È così? «Certamente le proposte del presidente Violante sono interessanti e in parte coincidono con la nostre. Le riforme condivise sono sempre auspicabili in materia di giustizia, visto che questa non è né di destra né di sinistra. L’auspicio è che ciò consenta l’avvio di un dialogo proficuo». VENETO 2009 | DOSSIER
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