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LA FORZA DELLA VERITÀ LA VOCE DELL’ITALIA
Bruno Vespa
L’AUTOREVOLEZZA APRE OGNI PORTA Attraverso le sue trasmissioni televisive e i suoi libri ha raccontato trent’anni di storia italiana. Testimoniando i mutamenti della società e della politica nazionale. Che, secondo Bruno Vespa, giornalista e conduttore del fortunato programma Porta a Porta, hanno subito una svolta il giorno in cui Silvio Berlusconi è sceso in campo MARILENA SPATARO
na carriera di giornalista e di scrittore costellata di successi, quella di Bruno Vespa, tra i volti più famosi del giornalismo televisivo, dall’89 al 92 direttore del Tg1, e dal 96 conduttore del fortunato programma di approfondimento politico, culturale e di attualità Porta a Porta, in onda in seconda serata su Rai Uno. Uno stile di comunicazione comprensibile a tutti, una formula semplice, da intrattenimento, quasi da salotto buono, dove ospiti famosi del mondo della politica, dello spettacolo e della cultura, abilmente guidati dal conduttore approfondiscono i più svariati temi di attualità. sono questi gli ingredienti che hanno portato al successo la trasmissione di Vespa, facendola diventare una delle sedi più impor-
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tanti del dibattito politico e culturale italiano. Non è un caso che nel corso di parecchie puntate personaggi di alto profilo istituzionale, sentendosi in qualche modo chiamati in causa, abbiano telefonato in diretta per intervenire al dibattito. Un esempio per tutti: nel 98 durante una trasmissione dedicata al ventesimo anno di pontificato di Giovanni Paolo II, il pontefice intervenne spontaneamente con un collegamento telefonico. A questo stesso Papa, peraltro, molti anni prima, ai tempi in cui questi era ancora il cardinale Karol Wojtyla, Bruno Vespa, allora inviato Rai, con il fiuto giornalistico che lo contraddistingue, aveva fatto un’intervista che poi sarebbe passata alla storia. Profondo conoscitore dei meccanismi della politica italiana e abile commentatore politico dotato di una notevole capa-
LA FORZA DELLA VERITÀ
FIRMA STORICA Bruno Vespa, già direttore del TG1, ha ideato e conduce il programma televisivo Porta a Porta, trasmesso dai canali RAI a partire dal 1996
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LA FORZA DELLA VERITÀ
«CREDO CHE L’UNIFICAZIONE DEI PRINCIPALI PARTITI DI CENTRODESTRA SIA POSITIVA COME LO FU QUELLA DEI PRINCIPALI PARTITI DI CENTROSINISTRA. A CALDO DIREI CHE LA DIFFERENZA TRA LE ANIME DI FORZA ITALIA E DI ALLEANZA NAZIONALE È MINORE DI QUELLA CHE STORICAMENTE DIVIDE GLI EX DEMOCRISTIANI DAGLI EX COMUNISTI»
cità di mediazione l’ex direttore del Tg1 ha un vero e proprio feeling con gli appuntamenti storici sia di livello internazionale che, ovviamente, nazionale. Giusto per fermarsi a questi ultimi, chi non ricorda nel maggio del 2001 la storica puntata in cui in occasione delle elezioni politiche nazionali, l’attuale premier Silvio Berlusconi pronunciò il suo celebre impegno programmatico con gli elettori, il cosiddetto “Contratto con gli italiani”. Altro evento di grande portata politica fu il dibattito moderato da Vespa nell’infuocata campagna elettorale del 2006, in regime di par condicio, tra l’allora leader del centrosinistra Romano Prodi e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Attento osservatore e sottile interprete dei mutamenti del costume e della politica italiana di ieri e di oggi, ecco come Bruno Vespa qui traccia i passaggi più significativi della sua carriera. Porta a Porta è un appuntamento fisso del palinsesto televisivo da diversi anni. Se dovesse creare un nuovo programma su quali ingredienti punterebbe oggi? «Porta a Porta è tuttora un programma di successo perché ha saputo aggiornarsi costantemente. La nuova versione estiva sugli amori è più breve e più fresca. L’anno scorso ha avuto molto successo e perciò la ripeteremo la prossima estate». Attraverso i suoi libri e i suoi programmi televisivi, ha raccontato i mutamenti della politica e della società italiane degli ultimi 30 anni. Cosa l’ha colpita di più della trasformazione del Paese? «Nel 94 il segretario del Partito popolare, Mino Martinazzoli, offrì a Silvio Berlusconi un seggio da senatore. Qualche settimana dopo se lo trovò a Palazzo Chigi. Nessuno poteva immaginare un esito del genere e nessuno si sarebbe aspettato il Cavaliere ancora a palazzo Chigi quindici anni dopo. I casi precedenti di un plebiscito così forte? De Gasperi nel 48 e, purtroppo, Mussolini nel 22». Esiste un giornalismo”alla Bruno Vespa” dotato di una cifra stilistica distintiva? «Non so se ci sia. In ogni caso, se qualcuno mi sta a sentire, è perché parlo con chiarezza e non ho mai imbrogliato nessuno dei miei ospiti. E, di riflesso, nessuno spettatore». DOSSIER | LAZIO 2009
Lei ha scritto: “Cerco di far emergere dalle persone quello che hanno dentro. Il mestiere è bello per questo: mi ha consentito di incontrare tutti, dai politici ai terremotati, dai cantanti agli sportivi”. Potrebbe essere questa una definizione calzante della professione? «Penso proprio di sì». Gli italiani invece, dai suoi esordi a oggi, secondo lei sono cambiati o rimangono in fondo sempre uguali a loro stessi? «Gli italiani sono sempre gli stessi. Stessi difetti, ma per fortuna anche stesso buonsenso e capacità di reagire nelle situazioni difficili». Qual è la critica sul piano professionale ricevuta in passato che l’ha fatta crescere maggiormente e quale quella che più l´ha fatta più arrabbiare? «Qualche errore di presunzione giovanile mi è stato utilissimo. Il continuo richiamo al controllo delle fonti da parte di Emilio Rossi, mio indimenticabile direttore, è stato decisivo. Mi fa arrabbiare la malafede, quando si riportano in maniera scorretta cose dette in trasmissione in altro modo». È d’obbligo un commento sull’attualità politica. Si aspettava le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Pd e crede che questa crisi di leadership possa minare il bipartitismo che si sta venendo a creare in Italia? «No, non mi aspettavo affatto le dimissioni di Veltroni anche se a mente fredda credo che abbia fatto bene a darle. Tra le elezioni in Sardegna e le Europee l’avrebbero massacrato». Come valuta, invece, il processo di formazione che ha portato alla nascita del Pdl anche in confronto a quello che ha determinato la creazione del Pd. Quali le principali differenze fra i due modelli? «Per correttezza storica, occorre riconoscere che se non fosse nato il Pd, non sarebbe nato nemmeno il Pdl. Credo che l’unificazione dei principali partiti di centrodestra sia positiva come lo fu quella dei principali partiti di centrosinistra. La differenza? Vedremo. A caldo direi che la differenza tra le anime di Forza Italia e di Alleanza Nazionale è minore di quella che storicamente divide gli ex democristiani dagli ex comunisti».
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ESTERI Franco Frattini
FRANCO FRATTINI Ministro degli Affari esteri
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VERSO NUOVI ACCORDI CON IL PARTNER RUSSO A pochi giorni dalla missione italiana in Russia, il ministro Franco Frattini fa il punto sulle questioni più delicate nei rapporti tra Bruxelles e Mosca. E se l’energia resta ancora un nodo da sciogliere, con il progetto per il gasdotto South Stream, la richiesta del presidente Medvedev per un nuovo Accordo sulla sicurezza europea solleva questioni che non possono essere ignorate SARAH SAGRIPANTI
Unione europea è il primo partner commerciale per la Russia. La Russia, a sua volta, è il quinto partner commerciale dell’Ue, assorbendo il 4,4% delle esportazioni e contribuendo per il 7,6% alle importazioni comunitarie. Ma, soprattutto, la Russia è il secondo fornitore europeo di petrolio e assicura un quarto del fabbisogno di gas dell’intera Europa. Già questi pochi dati dimostrano quanto l’Unione europea sia legata a doppio filo, sul piano economico-commerciale, con la Russia. E quanto le relazioni con questo Paese debbano rivestire un ruolo centrale per gli equilibri europei, e non solo. «L’Italia e l’Unione Europea – dichiara il ministro degli Esteri Franco Frattini – sono consapevoli dell’ineluttabilità di un rapporto di dialogo e collaborazione con la Russia, partner strategico per l’Europa e attore ineludibile per la gestione di molte questioni internazionali». Non è un caso se proprio Mosca sia stata scelta come destinazione della più complessa e articolata missione di sistema mai svolta finora in Italia: organizzata da ministero per lo
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Sviluppo economico, Ice, Confindustria e Abi e guidata dal presidente Berlusconi, a inizio aprile ha portato in Russia circa cinquecento tra aziende, associazioni, enti e banche. Tutti con l’obiettivo di rafforzare i rapporti istituzionali tra i due Paesi, solidificare le relazioni commerciali e avviare accordi bilaterali di partnership. «Occorre cogliere le opportunità che derivano dalle aspirazioni della Russia a diversificare l’economia – commenta il ministro Frattini – al di là del settore energetico ancora preminente, nell’ottica di una crescita sostenibile». In questo momento di difficoltà economica globale, il mercato russo tiene, come dimostrano le cifre dell’interscambio commerciale. La Russia è e rimarrà un partner commerciale solido? «Nel 2008 l’interscambio commerciale con la Russia ha raggiunto i 26,6 miliardi di euro, in aumento dell’11% rispetto al 2007, confermando il trend positivo degli ultimi anni. A questo risultato ha contribuito la dinamica espansiva sia delle nostre esportazioni, costituite soprattutto da macchinari, prodotti tes-
sili, dell’abbigliamento e mobili, sia delle nostre importazioni, principalmente prodotti energetici. Dobbiamo tuttavia aspettarci che la crisi economica globale avrà effetti negativi sulle relazioni commerciali bilaterali. Allo stesso tempo, però, la crisi stessa, palesando i limiti dell’attuale struttura produttiva russa, ancora sbilanciata sul settore energetico, rappresenta per Mosca non solo una sfida, ma anche uno stimolo alla diversificazione industriale e all’apertura verso i mercati internazionali. Il nostro auspicio è che la crisi in atto induca la Russia a cercare di attrarre investimenti e know-how dall’estero, accelerando il piano di riforme economiche e amministrative e il percorso di integrazione nelle istituzioni economico-finanziarie internazionali». Crede che la Russia entrerà a pieno titolo nel G8 economico e finanziario? «L’Italia e l’Unione europea sono consapevoli dell’ineluttabilità di un rapporto di dialogo e collaborazione con la Russia, partner strategico per l’Europa e attore ineludibile per la gestione di molte questioni internazionali, LAZIO 2009 | DOSSIER
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ESTERI Franco Frattini
non solo europee. Per questo l’Italia ha sostenuto con convinzione la ripresa, il 2 dicembre scorso, dei negoziati per il nuovo Accordo di partenariato Ue-Russia. Le relazioni Ue-Russia sono peraltro molto solide sul piano economico-commerciale e proprio in considerazione di questa marcata interdipendenza, l’Ue sostiene con forza l’ingresso della Russia nell’Omc». In tema di energia, uno degli argomenti più dibattuti a livello europeo è il progetto del gasdotto South Stream. Cosa rappresenta strategicamente per l’Europa questa struttura? «Nel 2007 Eni e Gazprom hanno concluso un’intesa per realizzare lo studio di fattibilità del progetto South Stream, che prevede la costruzione di una condotta per il trasporto del gas dalla Russia all’Europa occidentale attraDOSSIER | LAZIO 2009
«L’ITALIA E L’UNIONE EUROPEA SONO CONSAPEVOLI DELL’INELUTTABILITÀ DI UN RAPPORTO DI DIALOGO E COLLABORAZIONE CON LA RUSSIA, PARTNER STRATEGICO PER L’EUROPA» verso il Mar Nero. Il South Stream rappresenta peraltro un ulteriore passo nell’attuazione dell’accordo strategico firmato nel 2006 tra Eni e Gazprom: la sua costruzione consentirebbe infatti a Eni di sfruttare appieno i giacimenti che ha recentemente acquistato in Siberia. La realizzazione del progetto costituisce una priorità strategica per i Paesi che saranno serviti dal gasdotto, contribuendo alla sicurezza energetica europea attraverso una diversificazione delle rotte di approvvigionamento. Nell’ambito dell’Unione europea, comunque, gli interessi in materia
energetica tendono a differenziarsi sensibilmente da Paese a Paese, in considerazione del fabbisogno nazionale, della dipendenza dalle importazioni, della posizione geografica e, in alcuni casi, anche delle relazioni che ciascun partner intrattiene bilateralmente con la Russia». Quali altri progetti europei nel settore energetico possono e devono essere sviluppati, con i fondi a disposizione? «Un altro progetto nel settore energetico che sta molto a cuore all’Italia, è l’Interconnection Turkey-Greece-Italy, che è stato dichiarato nel 2006 di interesse
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DIPLOMAZIA A sinistra, Franco Frattini con il premier Silvio Berlusconi e José Manuel Durão Barroso, presidente della Commissione europea. Qui con Roberto Formigoni
europeo dall’Ue e che consentirebbe l’importazione in Italia, attraverso Turchia e Grecia, di gas proveniente dalla regione del Caspio e in particolare dall’Azerbaijan, senza passare dalla Russia. Consentendo la diversificazione delle fonti e delle rotte di approvvigionamento del gas, anche l’Itgi contribuirebbe ad accrescere la sicurezza energetica europea. Rispetto ad altri progetti di interesse europeo, come per esempio il Nabucco, l’Itgi presenta l’indubbio vantaggio di poter essere messo in opera in tempi brevi e senza dover superare particolari ostacoli. Auspichiamo quindi di poter presto concludere un’intesa con i Paesi interessati che consenta di accelerare la sua realizzazione». L’Italia sta lavorando affinché sia esaminata la proposta di un nuovo Accordo sulla sicurezza
europea fatta dal presidente russo Medvedev ai partner internazionali. Quali saranno gli orizzonti futuri? «L’Italia, come altri Paesi europei, ha ammonito contro il pericolo del ritorno a una logica di blocchi contrapposti, auspicando il recupero dell’approccio collaborativo sancito con la dichiarazione di Pratica di Mare del 2002. L’Italia ha quindi sostenuto con convinzione la decisione della riunione ministeriale Nato del 5 marzo scorso di riprendere formalmente le relazioni con la Russia, consentendo la ripresa dei lavori del Consiglio Nato-Russia, sospesi dopo la crisi in Georgia dello scorso agosto. Abbiamo anche accolto con soddisfazione le aperture della nuova amministrazione americana verso la Russia, sintetizzate dalla significativa espressione “push the reset button”.
Coerentemente con questo approccio, l’Italia è disponibile ad approfondire la proposta russa di “nuova architettura di sicurezza”, che scaturisce dall’aspirazione di Mosca ad essere maggiormente coinvolta nei processi decisionali che abbiano rilievo per la sua sicurezza. Nella convinzione che si debba approfondire il disagio denunciato dalla Russia, da parte italiana si ribadisce la necessità di mantenere fermi la solidarietà atlantica, i principi fondamentali della costruzione europea, nonché i principi di Helsinki, e in particolare le “tre dimensioni” su cui si articola il concetto di sicurezza: politico-militare, economico-ambientale e umana. Siamo pronti ad approfondire le proposte russe, sia bilateralmente che in contesti multilaterali, e a tal fine sono in corso consultazioni con i partner europei». LAZIO 2009 | DOSSIER
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POLITICA Denis Verdini PDL: UNA SVOLTA PER IL BENE DEL PAESE
ABBIAMO REALIZZATO UNA RIVOLUZIONE PACIFICA Un trionfo. Per Silvio Berlusconi e per tutti coloro che hanno creduto nel suo grande sogno. È così che dalla tre giorni congressuale di fine marzo tenutasi alla Fiera di Roma è uscito il Pdl, il nuovo partito d’ispirazione liberale e di massa, come solo la Dc in Italia finora lo era stata. Nato dalla fusione di FI e An rappresenta un evento storico che, c’è da scommetterci, cambierà il volto del Paese. A parlarne è Denis Verdini, uno dei tre coordinatori del nuovo partito MARILENA SPATARO
n leader politico che accarezza per anni il sogno di dar vita a un grande partito di massa d’ispirazione liberale. E che quando il sogno si realizza è raggiante, come lo era Silvio Berlusconi, fautore e anima di questo progetto, al congresso tenutosi alla Fiera di Roma e che ha suggellato la nascita del Popolo della Libertà, frutto della fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale. Acclamato leader della nuova formazione all’unanimità con un entusiastico boato, il Cavaliere ha espresso la sua soddisfazione nel discorso di chiusura congressuale, durante il quale non ha dimenticato di ricordare gli impegni cui intende attendere sia come capo dell’attuale governo che come leader della nuova formazione «vi promettiamo - ha detto il presidente rivolgendosi ai seimila delegati presenti, ma di fatto parlando a tutti gli italiani - che usciremo dalla crisi, che non lasceremo dietro nessuno, che cambieremo l’Italia, e che difenderemo la nostra democrazia e la nostra libertà». E prima che il sipario calasse sulla kermesse congressuale, e che lo ha visto trionfare, Berlusconi ha voluto sottolineare tutta la sua gioia,
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posando sorridente per la foto storica circondato al centro del palco dai vertici della presidenza, di cui oltre ai ministri, ai presidenti delle regioni, ai governatori regionali, ai presidenti di Camera e Senato, e ad alcuni altri personaggi di livello istituzionale, fanno parte anche i tre neo eletti coordinatori del Pdl: Ignazio La Russa, già reggente della segreteria nazionale di An, il ministro Sandro Bondi e Denis Verdini, coordinatore azzurro dal 2008, appena riconfermato. Toccherà a loro svolgere adesso il paziente lavoro di rendere la grande scommessa avviata al congresso con la nascita del Pdl una realtà politica forte, gestendone in concreto il processo unitario e organizzativo. Quanto a Verdini, è lui uno dei deus ex machina cui si deve il successo del congresso. Per mesi, infatti, ha lavorato gomito a gomito con Ignazio La Russa per appianare tutte quelle difficoltà o problematiche che in qualche modo potevano frapporsi lungo il cammino verso la nascita del nuovo partito, non ultime quelle derivanti dalla necessità di trovare un terreno politico comune tra i due partiti che andavano fondersi, vista la loro diversa provenienza e
le loro differenti esperienze storiche e culturali. A congresso finito e una volta incassato il primo soddisfacente risultato, Denis Verdini, parla degli obiettivi e delle sfide future che attendono la nuova formazione politica. È di questi giorni la nascita ufficiale del Pdl. Che partito esce da questo congresso? «Ne esce un partito democratico ispirato agli ideali del liberalismo, ma di massa, un partito costruito dal basso e non attraverso una fusione a freddo tra le classi dirigenti di forze politiche differenti, come è avvenuto a sinistra con il Pd. Si tratta di un soggetto politico nuovo formatosi tra Forza Italia e la destra moderna e post-ideologica incarnata da Alleanza Nazionale, ed è nato dall’incontro della politica con la società civile. Chi parlava di questo partito come di una deriva plebiscitaria e avventuristica, ora, a congresso avvenuto, probabilmente si sarà reso conto che quella era una polemica strumentale e sbagliata. Lo dimostra il congresso stesso, che ha visto la partecipazione di quasi il 98% degli oltre 6mila delegati previsti, una percentuale straordinaria, con una partecipazione attiva, convinta, en-
© Augusto Casasoli A3 / CONTRASTO
© Augusto Casasoli A3 / CONTRASTO
POLITICA
PRAGMATICO Denis Verdini, nato a Fivizzano, è coordinatore nazionale del Pdl
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POLITICA Denis Verdini PDL: UNA SVOLTA PER IL BENE DEL PAESE
© Antonio Scattolon A3 / CONTRASTO
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tusiasta. Basti pensare che la sala è sempre stata piena, dall’inizio alla fine dei lavori, ogni giorno, anche quando non c’era il presidente Berlusconi. Perfino al momento di votare gli emendamenti allo statuto, alla faccia di chi sostiene che non ci sia democrazia, la sala era per metà piena. Ed erano le 22 passate. La stessa elezione di Berlusconi, come quella dell’ufficio di presidenza, dei nove probiviri e l’approvazione dello statuto sono avvenute per alzata di mano, in piena e totale democrazia». Qual è il primo passo del Pdl? «Gli elettori ci hanno chiesto di semplificare il quadro politico. Il 38%, alle elezioni 2008, ci ha dato un mandato specifico proprio in questo senso e noi lo abbiamo realizzato. Lo ribadisco ancora una volta: i valori e l'identità che ognuno di noi ha portato nel soggetto unitario rimarranno vivi. Nessuno di noi muore. Semplicemente, confluisce in un soggetto DOSSIER | LAZIO 2009
più grande. Ora, il compito del Pdl è dare un valore aggiunto rispetto a tutte le identità e ai patrimoni culturali e politici che ciascuna forza politica ha portato in dote. Abbiamo realizzato tutti insieme un traguardo storico, di cui forse solo oggi, a congresso avvenuto, siamo più consapevoli». Secondo lei la leadership che è uscita da questo congresso è gradita a tutti, o c’è qualche scontento? «Da tempo la leadership era già stata decretata dagli elettori nella persona di Berlusconi. La medesima leadership che è stata riconosciuta anche dai suoi alleati, a cominciare da Fini, che non ha messo nessun paletto, ma ha sviluppato dei ragionamenti politici di ampio respiro». Fini ha però aggiunto che la leadership del partito unitario non dovrà sconfinare nel culto della personalità. «Il presidente della Camera cono-
sce Berlusconi e sa benissimo che lo stesso premier è la persona più autoironica che ci sia e che non ci sarà mai un rischio di questo genere». Nonostante le rassicurazioni del presidente Fini, da più parti si ventila l’ipotesi, che nel Pdl possano sorgere correnti interne ispirate dalle diverse anime da cui si compone, lei come commenta? «Oggi il rischio delle correnti, come si è visto al congresso non esiste, né penso che queste possano nascere in futuro, ciò perché siamo stati educati a riunirci per portare avanti singoli valori e per realizzare comuni obbiettivi. Ritengo che il triumvirato di coordinatori uscito dal congresso, composto da me, da Sandro Bondi e da Ignazio La Russa, servirà a dare collegialità alla gestione del partito, favorendo il confronto e il dialogo costruttivo tra tutti. Abbiamo raggiunto un traguardo sto-
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rico creando un partito fondato sulla semplicità della politica e sulla modernità. Semplicità perché vogliamo che la politica sia rivolta ai cittadini, garantendo massima trasparenza nei programmi e nella nostra azione. Anzi, noi siamo al servizio dei cittadini a tal punto da aver dato vita al Pdl solo dopo che gli elettori hanno confermato, con il voto dello scorso aprile, di volere la semplificazione del quadro politico, di volere un governo che decida e che tiri fuori dalle secche questo Paese. Modernità, perché serve un cambiamento e occorre soprattutto modernizzare questa nostra Italia per essere al passo con gli altri Paesi. Non a caso, anche lo statuto del Pdl, prevedendo oltre all’adesione anche la registrazione on line fonda di fatto il partito in rete, della rete, per la rete, tratteggiando così un nuovo modo di fare politica, prevedendo continue consultazioni telematiche con il nostro popolo. Questa è un’innova-
zione straordinaria, ancor più all’avanguardia di quello che ha fatto Obama». Quali gli obiettivi cui adesso punta il nuovo partito? «Il Pdl può a ben diritto diventare un partito maggioritario nel Paese. L’obiettivo del 50%+1 non è più un miraggio. Al suo interno ci sono tante sensibilità e tradizioni, varie culture che non saranno mai compresse ma tutte dovranno raggiungere gli stessi obiettivi e contribuire al dibattito interno. Non ho dubbi sulle potenzialità del partito nato dal congresso alla nuova Fiera di Roma e sulla sua capacità di raggiungere questo obiettivo. D’altronde se stiamo ai fatti, già gli ultimi sondaggi ci danno al 4344% e sono convinto che le prossime europee ci consegneranno un risultato straordinario». A proposito di liste europee, come vi muoverete? Franceschini ha chiesto a Berlusconi di non candidarsi.
«Al segretario del Pd ha risposto Berlusconi in modo straordinario nel suo discorso conclusivo al congresso. Il leader di un popolo si mette alla guida del popolo stesso, mettendosi in discussione, rischiando in prima persona e guidandolo. Il Pdl il leader ce l’ha, è indiscusso e vincente. Il Partito Democratico sicuramente no. Franceschini è a tempo, potrebbe anche provare a sfidare Berlusconi ma ha una fifa blu e preferisce offendere piuttosto che accettare il confronto elettorale. Né regge l’accusa di imbrogliare gli elettori, perché essi sanno bene che quella di Berlusconi, come quella dei ministri, sarebbero candidature di bandiera, peraltro legittime. Ognuno corre con l’auto che ha e non è colpa nostra se nel Pdl abbiamo delle fuoriserie mentre la sinistra sembra avviata verso lo sfasciacarrozze. Lo ripeto, la polemica di Franceschini è pretestuosa, è un tentativo di confondere le acque perché ha una gran paura di perdere, e di perdere male». Nel panorama politico di oggi, cosa rappresenta per l’Italia e per i suoi cittadini la nascita del Pdl? «Una innovazione politica di carattere strutturale. Tutti siamo attori di un fatto straordinario che segnerà per sempre la storia e la democrazia italiana». Che connotazione assumeranno da ora in poi i rapporti con l’opposizione di sinistra? «L’opposizione ha un sacco di problemi. Devono fare i conti con la storia nella modernità della politica. Sono 15 anni che si identificano con gli stessi valori. Sono tutti uguali tra loro. A Franceschini auguro di portare avanti il suo progetto politico, perché allo stato attuale di fronte a un grande partito come il Pdl serve anche un altro soggetto unitario per poter risolvere i problemi del Sistema Italia. Purtroppo, però, non si costruisce un’alternativa di governo a suon di offese. In questo modo si cerca solo di strappare qualche consenso in più per non affogare nel mare della crisi interna. E non è un bello spettacolo».
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IL COMMENTO Gaetano Quagliariello
GAETANO QUAGLIARIELLO Vicepresidente vicario dei senatori del Pdl, è professore ordinario di Storia contemporanea presso la Luiss di Roma, nonché, dal 2003, presidente della Fondazione Magna Carta DOSSIER | LAZIO 2009
IL COMMENTO
UNITI IN NOME DEL CAMBIAMENTO Nell’ultimo anno è diventato uno dei volti più noti del centrodestra. E una voce tra le più autorevoli del nuovo partito, appena venuto alla luce. Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario dei senatori del Pdl, fa il punto sulla strada fatta sinora, e su quella ancora da fare. Con realismo, ma anche con ottimismo DANIELA PANOSETTI
on il congresso della Fiera di Roma non abbiamo creato un partito dal nulla, ma abbiamo dato una forma ufficiale a qualcosa che esiste da molto tempo. Il Pdl, infatti, è nato prima nella testa degli elettori di centrodestra, soprattutto dei più giovani, che si sentivano parte di una sola grande famiglia ideale». Così, con un’immagine rassicurante, Gaetano Quagliariello commenta la nascita del nuovo partito. Una realtà, dice, che attendeva solo di concretizzarsi. E di cui oggi si può ricostruire la nascita. A partire dal celebre “annuncio del predellino”, con il quale Silvio Berlusconi, ormai più di un anno fa, «ha rilanciato la speranza che la rivoluzione liberale che il nostro Paese aspettava dal secondo dopoguerra non andasse dispersa». Un progetto che poi «si è trasferito nelle urne grazie alle scelte degli elettori nell’aprile del 2008, quindi nei gruppi parlamentari dove giorno dopo giorno abbiamo imparato a conoscerci e a riconoscerci, nel segno di una comune visione della vita prima ancora che della politica. E solo alla fine è stato strutturato come partito che dà forma a quella rivoluzione carismatica e democratica fondata sulla forza del leader e sull’accordo con una classe dirigente in grado di irradiarla sul territorio». Recentemente lei definito il Pdl
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“uno strumento” per modernizzare l’Italia e la nostra democrazia. Finalmente approderemo a un bipartitismo o potrebbero esserci delle sorprese al centro? «Modernizzare l’Italia significa anche passare da una democrazia dei partiti a una democrazia degli elettori. Mi sembra che nelle elezioni politiche dello scorso aprile, così come nei test regionali che si sono succeduti in questi mesi, gli elettori abbiano espresso una scelta chiara per la semplificazione del sistema politico. Chi si riconosce nelle posizioni del centro moderato ha un partito nel quale trovare piena cittadinanza, e questo partito è il Pdl. Per quanto riguarda i centristi che ancora perseguono una vocazione minoritaria e anacronisticamente identitaria, è difficile che da loro possano arrivare sorprese se non sono i cittadini a volerlo. E mi sembra che l’orientamento degli italiani sia chiaro: l’Udc ha avuto un buon successo quando ha compiuto una scelta di campo per il centrodestra, mentre quando ha corso da solo ha ottenuto un risultato deludente». Oltre agli schieramenti, cambierà definitivamente anche il modo di fare politica? «La semplificazione del sistema partitico, se reale e duratura, comporta necessariamente un cambiamento nel modo di fare politica. Del resto,
chiunque può osservare la profonda differenza nell’azione di governo tra un sistema fondato su coalizioni di partiti e un sistema animato da grandi partiti-coalizione. Durante la drammatica esperienza del Governo Prodi si è toccato l’apice della frammentazione e della rissosità, col risultato che il Paese è rimasto praticamente fermo per due anni. Ma anche paragonando l’azione dell’attuale Governo Berlusconi e della sua maggioranza con i precedenti esecutivi di centrodestra sostenuti ancora da logiche di coalizione, sono evidenti i progressi compiuti in termini di efficacia, tempestività ed efficienza. Manca solo un ultimo, fondamentale passaggio: adeguare il funzionamento delle Camere e l’architettura delle istituzioni al nuovo scenario politico sancito dal voto dello scorso aprile». Il recente discorso di Fini è stato acclamato da più parti. Lei ne ha criticato alcuni passaggi. Nel Pdl come convivranno due anime, laica e cattolica? «I due interventi di Fini, al congresso di scioglimento di An e al congresso fondativo del Pdl, sono stati all’altezza di un leader di partito e di un esponente di vertice delle istituzioni, e di certo un ottimo viatico per il cammino del Popolo della libertà. Che in una grande forza politica si possa dissentire lo ha affer-
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IL COMMENTO Gaetano Quagliariello
mato lui stesso, riconoscendo di essere in minoranza sul testamento biologico, laddove la grande maggioranza del partito non crede che lo Stato etico sia rappresentato dai principi del Ddl Calabrò, bensì dalle sentenze della magistratura che si arrogano il diritto di decidere chi possa vivere e chi debba morire. Allo stesso modo, sono in disaccordo con Fini sull’idea di laicità. Credo infatti che la separazione tra Stato e Chiesa, che il presidente della Camera rivendica, non possa intendersi come separatezza, quanto piuttosto come distinzione. Vi sono, cioè, ambiti propri dello Stato e ambiti propri della religione, ma nell’ambito pubblico non è possibile che le scelte di chi crede possano essere relegate nel ghetto della coscienza individuale. Da laico liberale non condivido affatto questa impostazione di tipo illuministico che fa della religione un fatto privato, e soprattutto non la ritengo adatta ai tempi». Le posizioni di Fini sono state criticate anche da molti elettori di An. Lo stesso La Russa ha fatto notare che tra il presidente della Camera e il premier ci siano scintille dovute «alle rispettive onestà intellettuali». Lei cosa ne pensa? «Se Berlusconi e Fini non fossero
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stati convinti l’uno dell’onestà intellettuale dell’altro, difficilmente si sarebbero imbarcati in quest’avventura insieme. Fra loro vi sono diversità, dovute al carattere, alla storia personale, al ruolo differente che oggi ricoprono. Ma questa per il Pdl è una ricchezza. Fini ha riconosciuto la leadership di Berlusconi, e quest’ultimo ha riconosciuto a Fini la generosità di aver preso parte a un grande progetto mettendo in gioco il suo partito, An, che sul fattore identitario e sulla sua riconoscibilità aveva sempre investito molto. Tutto il resto sono chiacchiere». Come evitare il rischio di una spaccatura simile a quella del Pd sulle questioni etiche? «Fra noi e il Pd vi è una profonda differenza. Di fronte a temi come la vita e la morte, che segnano profondamente l’agenda politica del nuovo secolo, il Pd ha ceduto all’illusione del “ma anche”: i suoi vertici hanno creduto che per un partito a vocazione maggioritaria, quale il Pd dovrebbe essere, fosse possibile rinunciare a dare risposte chiare in nome di una libertà di coscienza interpretata come babele di linguaggi. Nel Pdl è vero l’opposto: è stata individuata una linea chiara, in nome dei principi del popolarismo europeo che dovranno unirci per i prossimi
decenni, e rispetto ad essa è stato garantito il rispetto per l’esercizio della libertà di coscienza interpretata come dissenso personale del singolo parlamentare. Noi, di fronte alla sfida antropologica, non abbiamo rinunciato a prendere posizione». Dopo la costituzione ufficiale del nuovo partito, i rapporti con il Pd muteranno? Se sì, come? «A questo punto dipende dal Pd. Noi abbiamo sempre avuto l’onestà di riconoscere che se il centrodestra ha accelerato il suo percorso di unificazione lo si deve anche alla scelta dei Ds e della Margherita di fondare un nuovo partito, e alla decisione di Veltroni di rompere con la babele prodiana. Ma mentre noi siamo andati avanti, i nostri avversari si sono fermati, e anzi sono tornati indietro. Prima stringendo un’alleanza elettorale con il giustizialismo di Di Pietro, poi riprendendo le vecchie pratiche di delegittimazione che hanno avvelenato la vita politica italiana negli ultimi quindici anni, e ora tornando a usare la Costituzione come una clava e uno scudo di parte, invece di viverla come un patrimonio comune da interpretare e attualizzare. Noi non siamo disposti ad accettare veti, ma la porta del dialogo non l’abbiamo mai chiusa. Sta al Pd non voltare le spalle».
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ITALIA EUROPA Andrea Ronchi
RIACCENDIAMO LO SPIRITO EUROPEO Nuovi orientamenti per l’immigrazione. Valorizzazione di creatività e innovazione made in Italy. E un deciso colpo di acceleratore sulle infrastrutture energetiche. Sono alcuni dei punti in agenda per il ministro delle Politiche Comunitarie Andrea Ronchi. A partire da una sfida: ricreare negli italiani il senso di appartenenza comunitaria che, oggi, rischia di perdersi DANIELA PANOSETTI
iversi segnali lo confermano: l’ideale comunitario appare in crisi, da qualche tempo. Ma superare questa sorta di disaffezione da parte dell’opinione pubblica si può. E il ministro delle Politiche Comunitarie Andrea Ronchi ne è convinto. «Occorre ricreare – afferma – intorno all’idea di Europa un progetto che coinvolga i cittadini in modo diretto». Per poter «riaccendere un nuovo entusiasmo europeista» e
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conferire nuova forza e autorevolezza alle istituzioni europee. «Tutti gli studi più recenti confermano che esiste un deficit di fiducia nei confronti dell’Europa – ammette il ministro –. E neppure gli italiani, tradizionalmente tra i più europeisti, sembrano sfuggire a questo dato di tendenza». Uno scenario che però non deve intimorire, sottolinea Ronchi. Così come non bisogna permettere all’attuale contingenza di rallentare una serie di obiettivi
già definiti. A partire da uno in particolare, di fondamentale importanza: l’attuazione del Programma nazionale di riforma per l’attuazione della Strategia di Lisbona. Un’analisi di Eurobarometro mostra come l’interesse per le prossime elezioni europee tra i cittadini italiani non sia molto forte. Perché secondo lei questa disattenzione? «Il deficit di fiducia è purtroppo tangibile, in questo momento. E
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ANDREA RONCHI Nato a Perugia, è ministro delle Politiche Comunitarie
d’altra parte, la storia dei referendum prima in Francia e Olanda sul progetto di Costituzione, e poi, lo scorso anno, in Irlanda sul Trattato di Lisbona non fanno che confermare le difficoltà da parte dell’Europa nel comunicare ai propri cittadini. Eppure, In tutti questi anni, l’Europa ha significato grandi traguardi: una pace duratura, l’apertura delle frontiere interne, una moneta unica che in questa fase di grave
crisi economica rappresenta un’ancora a cui aggrapparsi. Ora, per restituire l’Europa ai cittadini è necessario un maggiore coinvolgimento dei popoli nella vita dell’Unione. Qualche tempo fa, avevo provocatoriamente proposto l’elezione diretta del Presidente dell’Ue perché credo sia importante che i cittadini europei possano scegliere direttamente il loro presidente. Una provocazione o, per meglio dire, un desi-
derio per poter riaccendere un nuovo entusiasmo europeista». La sicurezza oggi è all’ordine del giorno. Un’emergenza italiana che deve essere affrontata anche in ambito europeo, soprattutto con i Paesi da poco entrati nella Ue. Qual è la situazione? «Fin dal principio, questo governo ha fatto dei temi dell’immigrazione e della sicurezza una priorità, rispondendo a un’emergenza fortemente sentita dai cittadini. Sono
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stati adottati provvedimenti e non sono mancate critiche da parte di chi riteneva tale indirizzo non in linea con l’Europa. Ma anche l’Unione europea si è mossa unita per darsi nuove e più rigide regole comuni in vista di una gestione matura e realistica dei flussi migratori. C’è, insomma, la necessità di realizzare una politica europea seria e coordinata fra gli stati dell’Ue e i paesi dell’immigrazione. Senza dimenticare che la vera integrazione non può che passare da una consapevolezza forte della nostra identità. Ma il tema della sicurezza vuol dire anche certezza della pena e condivisione di responsabilità. Per questo motivo, ho fortemente voluto che venisse inserita nel ddl Comunitario del 2008 un emendamento che rende possibile che un cittadino immigrato di un altro Stato dell’Unione europea, se condannato, sconti la pena detentiva nel suo Paese d’origine. Una decisione europea che avremmo comunque in futuro recepito, ma di cui ho ritenuto dover anticipare l’adozione. Bisogna essere molto chiari: siamo i primi a sostenere le politiche d’integrazione, ma non facciamo sconti nei confronti della criminalità e dell’immigrazione clandestina». Lei ha richiesto una restrizione della direttiva rimpatri, adottata dal Consiglio il 16 dicembre 2008. Come dovrebbe muoversi concretamente l’Europa per arginare e regolamentare il fenomeno in modo più incisivo? «Ho sostenuto e continuo a sostenere che sarebbe opportuno lavorare per modificare in senso più restrittivo la direttiva rimpatri. In un periodo in cui diversi episodi hanno fatto alzare l’allarme sociale, il governo ha il dovere di rispondere per garantire sicurezza e legalità ai propri cittadini. Ma è un problema che non riguarda solo l’Italia. In un’Europa aperta, senza frontiere interne, ogni singolo Stato membro, coadiuvato dalle istituzioni europee, deve responsabilizzarsi assicurando DOSSIER | LAZIO 2009
una gestione sempre più efficace e ordinata delle migrazioni». Venendo al Programma nazionale di riforma per l’attuazione della Strategia di Lisbona: ritiene che siano raggiungibili gli obiettivi del pareggio di bilancio nel 2011 e del 2,5% di spesa in ricerca sul Pil? «Per quanto riguarda gli obiettivi del pareggio di bilancio, fa ovviamente fede il Programma di stabilità che il governo italiano ha presentato lo scorso mese di febbraio all’Unione europea. Va comunque detto che in questo momento il contesto economico è tale che è difficile fare delle previsioni a lungo termine. Il governo sarà ovviamente impegnato
al rispetto degli impegni assunti e in ogni caso possiamo già prevedere che dal 2011 il debito pubblico tornerà a scendere. La congiuntura economica incide anche sull’obiettivo del 2,5% di spesa in ricerca sul Pil, che rappresenta una meta ambiziosa. Vorrei però anche ricordare che concentrarsi soltanto su questo indicatore può generare un’immagine distorta della reale capacità innovativa. Per quale motivo? La struttura industriale italiana è molto diversa da quella di altri Paesi europei, penso ad esempio al Nord Europa. La fortissima prevalenza di piccole e medie imprese è un elemento caratterizzante la
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VERTICI DI PARTITO Andrea Ronchi con il presidente della Camera Gianfranco Fini
realtà italiana. Aggiungiamo a questo un dato tecnico, e cioè che le statistiche sulla spesa in ricerca non tengono conto delle imprese sotto i 10 dipendenti, e cioè il 90% del mondo imprenditoriale italiano. Resta inteso che l’innovazione è fattore indispensabile per mantenere alta la competitività sui mercati, come sta dimostrando il nostro settore tessile». Quali sono, quindi, le maggiori criticità rispetto all’attuazione del Programma? «Quando nel 2005 è stato definito il Programma nazionale di riforma, il governo italiano ha individuato cinque aree di priorità: liberalizzazioni, semplificazioni, ricerca e innovazione, capitale umano, infrastrut-
ture. In questi anni, sono state attuate politiche che hanno prodotto effetti positivi e la stessa Commissione europea lo scorso anno ha riconosciuto all’Italia di aver compiuto “buoni progressi” nell’attuazione della strategia. Resta il problema di fondo del nostro Paese, ovvero la bassa crescita della produttività, determinata, tra l’altro, dal permanere di alcune rigidità nel funzionamento del mercato del lavoro, dal basso grado di concorrenza nel mercato dei prodotti e da un livello insufficiente di investimenti in ricerca e sviluppo. Per questo motivo, il nuovo Programma mantiene le priorità integrate dagli obiettivi di stabilità delle finanze pubbliche e dalla tutela ambientale».
Il 2009 è l’anno europeo per l’innovazione e la creatività. Cosa significa questo appuntamento per l’Italia, in particolare per il rilancio del made in Italy, e quali attività sono in programma? «La creatività e l’innovazione sono competenze fondamentali in una società globalizzata come quella attuale. Non sono concetti astratti: la creatività è funzionale se arreca vantaggi al nostro vivere quotidiano, se crea innovazione nella vita sociale. La scelta dell’anno Ue dedicato a questi temi in un periodo di recessione e crisi economica lancia un preciso messaggio: senza riforme e rilancio della competitività europea non si andrà molto lontano. Le raccomandazioni che arrivano da istituzioni europee e think tank sono chiare: è indispensabile una strategia che garantisca la competitività europea a lungo termine. E per far questo, sono necessarie politiche coordinate e coerenti degli Stati dell’Ue». Recentemente ha dichiarato che va rivisto il piano europeo delle infrastrutture energetiche strategiche. Quali sono in particolare gli aspetti su cui concentrarsi? «Lo sviluppo delle reti energetiche europee rappresenta un fattore strategico e i fondi europei in un periodo di crisi come questo costituiscono una iniezione vitale di risorse. La scelta di partenza fatta dall’esecutivo europeo di destinare al nostro Paese solo una piccola fetta dei 5 miliardi di euro stanziati ci è sembrata assolutamente penalizzante. Ho avuto modo io stesso di parlarne con i commissari. La Commissione europea ha rivisto i suoi piani: ora i progetti italiani candidati a ricevere finanziamenti Ue sono saliti da due a cinque e i fondi da 200 a 420 milioni di euro. Una proposta ben diversa e senza dubbio di altro profilo rispetto al punto di partenza. Attendiamo che il provvedimento ottenga il via libera dal vertice Ue proprio in questi giorni».
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GIANNI DE MICHELIS Gianni De Michelis, ex ministro degli esteri, segretario del Nuovo Psi
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QUANDO IL MONDO ERA DIVISO IN DUE Italia ed Europa tra passato e presente. Gli anni del socialismo e della parabola di Bettino Craxi. Quale eredità è rimasta di quella identità politica? Una riflessione con Gianni De Michelis, segretario del Nuovo Psi, il partito ricostruito per raccogliere l’eredità del leader degli anni Ottanta DANIELA ROCCA
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a storia non va in prescrizione e i conti con il passato, anche quello recente, se non si fanno al momento giusto inevitabilmente ritornano. È strano come l’eredità di un grande movimento che ha dato un contributo fondamentale alla storia d’Italia sia oggi contesa, quando solo pochi anni fa era ancora denigrata. Una parentesi unica e irripetibile quella del partito socialista di Bettino Craxi, con la sua figura molto controversa, ma anche molto amata. «Sono passati quasi vent’anni da Tangentopoli e solo ora si tende a valutare in modo pieno e corretto la figura di Craxi che è stata quella di un grande politico, di un grande statista. Oggi si tende a una lettura più distaccata di quegli anni, mettendo sullo sfondo i problemi relativi alle vicende giudiziarie, che erano tutto sommato connesse a una situazione strutturale dell’Italia durante la Guerra Fredda – afferma Gianni De Michelis –. È necessario capire che i nostri problemi sono simili a quelli di altri Paesi. Difficoltà che si riscontrano in tutte le democrazie del mondo relative al funzionamento della pubblica amministrazione, della politica, della corruzione». Quale aspetto del leader del partito socialista è stato sottovalutato e quale sopravvalutato? «Secondo me l’aspetto più sottovalutato è stato quello di uomo di governo che aveva a cuore il ruolo
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«IL RUOLO DELL’ITALIA DURANTE IL NEGOZIATO DI MAASTRICHT È FIGLIO DELL’AUTOREVOLEZZA CHE LA GUIDA DI CRAXI AVEVA IN QUEGLI ANNI»
internazionale del proprio Paese. Quello che si tende ancora adesso a non riconoscere è stata la qualità del governo dell’Italia negli anni 80, che è stato uno dei Paesi che ha avuto, grazie soprattutto a Craxi, uno dei governi migliori in una fase molto importante per l’Europa. Sono stati gli anni in cui l’Europa occidentale ha vinto la sua sfida con l’altra parte, quella che apparteneva al blocco
comunista. Non dimentichiamoci che la Guerra Fredda in Europa è finita con il Trattato di Maastricht, della cui importanza solo oggi ci rendiamo conto. Naturalmente il ruolo dell’Italia durante il negoziato è figlio dell’autorevolezza che soprattutto la guida di Craxi aveva in quegli anni». Un’autorevolezza che ha portato l’Italia, in quegli anni, a un’au-
© Roberto Monaldo / LaPresse
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tonomia anche rispetto agli Stati Uniti. «Ci avrebbe messo nella direzione giusta per riuscire a superare meglio gli anni 90. Invece, Mani Pulite ha stroncato questa direzione di marcia autonoma dell’Italia che il declino dell’Italia di quasi venti anni». Eredità socialista, riformismo e laicismo sono scritte nel dna del partito. Il Governo Berlusconi sta portando avanti alcune riforme, ma sul laicismo la politica sembra arenarsi. Sembra un’eredità che non piace né a uno schieramento né all’altro. «Il tutto va di pari passo con l’autonomia dell’Italia e la sua capacità di svolgere la partita, sia pure in ambito europeo, a livello internazionale. Un’Italia meno autonoma è, inevitabilmente, un’Italia meno laica. In realtà, minore autonomia significa una maggior subordina-
zione al centro del potere spirituale che è sempre stato, per ragioni geografiche e storiche, molto importante in Italia: il Vaticano». Rapporto tra giustizia e politica, cosa pensa della magistratura troppo politicizzata? «È una delle conseguenze di cui si avvertono ancora gli effetti. Negli anni di Mani Pulite vi sono stati settori della magistratura che in qualche modo si sono fatti partecipi di un disegno di manipolazione politica. Questo ha ovviamente introdotto una cattiva abitudine che è dura a morire». Le Europee sono alle porte. Quali saranno le sfide di questa nuova legislatura europea? «Sarà una sfida alla crisi sistemica che il mondo sta attraversando. La sorte vuole che questa crisi esploda nel 2009 in concomitanza con l’elezione di Obama e con l’elezione del Parlamento eu-
ropeo. Sarà la svolta politica dell’Europa, soprattutto se, entro l’anno, verrà approvato il trattato di Lisbona. La sfida dovrà indicare la direzione di marcia per uscire dalla crisi». In questi mesi di difficoltà l’Europa ha reagito nel modo giusto? Quale sarà la priorità? «L’Europa dovrebbe diventare decisiva nel momento delle ristrettezze altrui, e penso alle ristrettezze della Cina e degli Stati Uniti. Così potrebbe dettare l’agenda che dovrebbe avere, come primo punto, quello di ristabilire un ordine monetario: riorganizzare secondo nuove regole il funzionamento del sistema monetario globale. Se non si farà questo, sarà molto difficile risolvere tutti gli altri problemi che sono sul tappeto, a partire dal commercio e da quello del clima». LAZIO 2009 | DOSSIER
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MA IL VELTRONISMO È VERAMENTE FINITO? Quale sarà il futuro del Partito Democratico? Dopo l’uscita di scena di Walter Veltroni, Dario Franceschini sarà in grado di ingraziarsi il consenso degli italiani e quindi di battere Silvio Berlusconi? Il Paese riuscirà a uscire da questa fase di recessione? Risponde l’onorevole Enrico Letta, responsabile welfare del Partito Democratico FEDERICO MASSARI
l Partito Democratico sta vivendo una fase particolarmente complessa acuita dalla contemporaneità della più grande crisi economica e finanziaria che il nostro Paese sta attraversando negli ultimi decenni». Questa è la linea di pensiero del responsabile Welfare del Partito Democratico, Enrico Letta. Come lui sostiene, la crisi che sta mettendo da tempo in ginocchio il Paese, sarà altamente condizionante e diverrà il tema che più di ogni altro farà da Leitmotiv per quanto riguarda l’attuale periodo politico che l’Italia sta vivendo. Sempre secondo Letta la recessione in atto è andata a sconvolgere l’agenda della politica italiana e in particolare l’agenda della politica di centrosinistra. «Abbiamo visto sconvolta la crescita e la nascita del nuovo Pd – spiega Enrico Letta – perché la crisi è andata a modificarne tanti aspetti. Oggi tutto viene rimodellato a seconda delle questioni chiave portate dalla crisi. Contestualmente il Pd ha vissuto anche delle sue vicende interne ovviamente legate alle dimissioni di Veltroni». Ma non è finita. La proposta del Pd sull’assegno di disoccupazione ha obbligato il governo ad agire. Con l’aggravarsi della situazione eco-
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nomica, è necessario aggredire la povertà e impedire che sempre più persone scivolino in condizioni di estremo disagio. «Quel che è stato approvato dal Consiglio dei ministri – continua – non è quel che avevamo chiesto per affrontare i problemi di quella parte di mondo del lavoro che è priva di protezioni sociali, ma si tratta comunque del frutto della pressione che abbiamo fatto. Speriamo che il governo continui a remare verso questa direzione». I dati sulla disoccupazione diffusi da Confindustria sono pesanti campanelli d’allarme. Qual è secondo lei la ricetta per uscire dalla crisi che sta attanagliando il Paese? «Secondo il mio parere bisogna mettere in campo una azione difensiva e al tempo stesso offensiva. L’azione difensiva immediata è legata alla necessità di difendere a tutti i costi i posti di lavoro che ci sono. Questo è fondamentale al fine di evitare che la crisi abbia un impatto drammatico sui consumi. Se si andranno a perdere troppi posti di lavoro, ne andrebbe sicuramente di mezzo il sistema imprenditoriale diffuso italiano. Oltre a difendere i posti di lavoro, occorrerà anche difendere le imprese che
ci sono. L’Italia possiede un sistema produttivo composto da quattro milioni di imprenditori. Questi quattro milioni di imprenditori ogni mattina aprono la saracinesca e alla sera non sanno quale sarà il loro futuro. Potrebbero essere tentati dall’idea di chiudere. Serve un segnale molto forte che tenga in piedi le aziende, che non le faccia chiudere. Questi segnali difensivi passano, secondo il Pd, attraverso la proposta di uno strumento normativo che faccia della cassa depositi e prestiti, l’anticipatore alle imprese del denaro cash che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione. Sono numerose le imprese italiane che non sono state pagate dalla pubblica amministrazione o che sono pagate con 18 mesi o 12 mesi di ritardo. Occorre che, appunto, per via di un meccanismo normativo che assegna la cassa depositi e prestiti, sia possibile fare uno sforzo di anticipo. Questo è un tema fondamentale». La proposta del Partito Democratico sull’assegno di disoccupazione h a
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ENRICO LETTA Deputato Pd e responsabile welfare del Partito Democratico
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CONTROCANTO Enrico Letta
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obbligato il governo ad agire. Alla fine la vostra pressione ha dato i suoi frutti. Siete pienamente soddisfatti? «Credo che sia stato molto importante aver agito, e credo che sia stato fondamentale aver posto un tema all’attenzione pubblica: che nel nostro Paese le coperture, per quanto riguarda i lavoratori, sono diseguali. Il nostro sistema non possiede lavoratori di serie A e di serie B, come è naturale che sia. Purtroppo il nostro sistema detiene lavoratori di serie A e di serie Z: chi ha la fortuna di stringere fra le mani un contratto a tempo indeterminato e chi ha un contratto parasubordinato con nessuna protezione. Il tema che abbiamo posto è stato quello di
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affermare che si abbandoni l’idea della serie Z, e che ci siano invece lavoratori che possano disporre dei gradi di protezione, certamente diversi tra loro, a seconda
tutto sufficiente». Le dimissioni di Veltroni hanno portato alla leadership Dario Franceschini, fedele alla linea. Non sarebbe stato me-
«CON L’AGGRAVARSI DELLA SITUAZIONE ECONOMICA, È NECESSARIO AGGREDIRE LA POVERTÀ E IMPEDIRE CHE SEMPRE PIÙ PERSONE SCIVOLINO IN CONDIZIONI DI ESTREMO DISAGIO»
del contratto che uno ha: questa mutazione è fondamentale. Il governo ha cominciato a muoversi verso questa direzione, e chiediamo che continui perché quello che ha fatto non è ancora del
glio un cambio di rotta deciso? «Penso che sia stata una scelta utile, una scelta di unità. Le dimissioni di Veltroni sono state dovute soprattutto da una situazione insostenibile di litigiosità
che ha spostato gli equilibri interni. Mi sembra che Franceschini si stia muovendo sulla strada giusta chiedendo unità e cercando di parlare di cose concrete. Dopo le dimissioni di Veltroni ci siamo mossi nel modo opportuno». Perché non sono state utilizzate vere primarie per decidere la successione? «In questa fase c’era soprattutto bisogno di unità. È stato giusto organizzare questa unità intorno a Dario Franceschini». Amministrative: stringerete alleanze? «Stiamo facendo, realtà per realtà, un ragionamento che tenga conto della situazione che ogni comune e ogni provincia sta vivendo. Massimo rispetto dell’autonomia dei territori». Franceschini può battere Berlusconi? «L’obiettivo che il Partito Democratico, e Franceschini, sta perseguendo è quello di uscire dalla situazione di difficoltà e ottenere un buon risultato alle elezioni europee e alle elezioni amministrative mediante i tanti amministratori locali che abbiamo in giro per il Paese. Questo è l’obiettivo dichiarato, e ci stiamo impegnando con forza, dedizione e volontà». Berlusconi durante l’ultimo discorso tenuto alla Fiera di Roma ha detto che si devono rafforzare i poteri del premier, e che per fare sì che questo si concretizzi si impegnerà anche senza il concorso dell’opposizione. Cosa ne pensa di questa affermazione? «Credo che non ci sia premier in Europa che abbia la forza politica di Berlusconi e non ci sia stato premier nella storia politica italiana che abbia avuto la sua potenza. Non mi sembra un tema
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fondamentale quello sul potere del premier. Berlusconi già adesso detiene un potere immenso e possiede una maggioranza che risponde completamente alle sue indicazioni. Nemmeno De Gasperi, a suo tempo, ha avuto il potere e la forza che ha Berlusconi oggi». Secondo lei il nuovo Pdl esprimerà una nuova cultura, oppure, come dice D’Alema, sarà un partito che si raccoglierà attorno alla persona di Berlusconi? «Molto dipenderà da cosa succede adesso. Perché il congresso è
stato un congresso che ha sancito un’unità più forte rispetto alle fratture precedenti. Da questo amalgama si capirà se esiste o esisterà una possibilità che il Pdl sopravviva a Berlusconi. È tutto da vedere». Casini recentemente ha dichiarato che Berlusconi da 15 anni ripropone sempre le stesse cose. Lei sposa questa dichiarazione del leader dell’Udc? «Obiettivamente il discorso tenuto dal premier, nel primo giorno, è stato un po’ ripetitivo. Bisogna guardare al futuro, non siamo più nel 1994».
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COSÌ L’ITALIA SAPRÀ RISOLLEVARSI Un maggiore equilibrio fra il sistema creditizio e quello produttivo. Per incoraggiare la ripresa dell’economia internazionale. È l’opinione dell’economista Alberto Quadrio Curzio che ritiene adeguata per ora la strategia anti-crisi italiana, deficitaria quella europea e decisivo il ruolo della Cina. E per il futuro auspica «una politica economica che corregga in anticipo le potenziali distorsioni del mercato» LORENZO BERARDI
na luce in fondo al tunnel. Una prospettiva di ripresa per la congiuntura economica internazionale. La intravede l’economista Alberto Quadrio Curzio, professore di economia politica presso l’Università Cattolica di Milano, direttore del Centro di Ricerche in Analisi Economica, accademico dei Lincei, secondo cui «la gravità della crisi economica e finanziaria sembra aver toccato il suo punto minimo». Segnali di ripartenza, dunque, si profilano all’orizzonte, ma per raggiungerli occorre cercare di comprendere quanto il tunnel imboccato dall’economia internazionale possa essere ancora lungo, o meglio, cosa si possa fare per accelerarne l’attraversamento e quindi l’uscita. «La ripresa – spiega Quadrio Curzio – dovrà ripartire anzitutto da una ritrovata e rinnovata fiducia da parte dei consumatori e dei risparmiatori». Una ricetta valida sia a livello globale che nazionale, in un quadro che vede vari Paesi, fra cui l’Italia, non presentare carenze di liquidità nel sistema, ma dover fronteggiare un indebolimento della domanda «in quanto i consumatori, preoccupati per un futuro incerto, rallentano i propri consumi e non im-
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mettono uno stimolo naturale al sistema economico. Inoltre preferiscono tenere molto liquido il risparmio e ciò rallenta gli investimenti. Per quanto riguarda l’Italia, Alberto Quadrio Curzio non vede nella spesa pubblica lo strumento più indicato per rilanciare l’economia, ma solo una «spesa di supplenza limitata in relazione al nostro ingente debito pubblico». E lo scenario mondiale? Quadrio Curzio, a tal proposito, è fiducioso sul ruolo che potrà giocare la Cina, una potente macchina di produzione e potenzialmente anche di consumo. «Ritengo – dice Quadrio Curzio – che possa mantenere i propri ritmi di crescita riuscendo anche a importare di più. Se così fosse, dalla Cina potrebbe arrivare un buon contributo alla ripresa economica internazionale». Professore, su questa crisi si è detto tutto e il contrario di tutto. Quali sono i luoghi comuni da sfatare e dove non si è posta la giusta attenzione? «In una crisi di tale portata e gravità è comprensibile che vi siano contraddizioni fra i vari osservatori e anche che ogni singolo osservatore possa contraddire se stesso nel corso del tempo. La congiuntura è stata talmente negativa e talmente
imprevista che uno stato di poca lucidità è normale. Detto questo, però, la crisi ci ha trasmesso un insegnamento molto importante: i mercati sono fondamentali, ma non sufficienti ad autoregolarsi in tutte le condizioni. Ragion per cui una politica economica di “raddrizzamento” al momento giusto dei mercati prima che essi sbandino, come è successo, è fondamentale. Quindi sì all’economia di mercato, ma no ai mercati libertari. Occorre una politica economica che corregga in anticipo le potenziali distorsioni». La congiuntura avversa oggi sta interessando anche l’economia reale. Tuttavia, da più parti si vede nella crisi anche un’occasione per rinnovare il sistema. A suo parere quali sono le opportunità che si apriranno a livello internazionale? «Vanno sottolineati due aspetti. Il primo riguarda la necessità che gli Usa rimettano ordine nella loro economia non solo attraverso maggiori controlli e una migliore vigilanza, ma anche con una risistemazione dei fondamentali che porti a un risparmio interno adeguato e in una bilancia commerciale meno squilibrata. Se gli Stati Uniti faranno questo, credo che
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ANALISTA Alberto Quadrio Curzio, preside della facoltà di scienze politiche all’Università Cattolica di Milano
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L’OPINIONE Alberto Quadrio Curzio PROTAGONISTA A destra Alberto Quadrio Curzio con Luca Cordero di Montezemolo. Nell’altra pagina, l’economista assieme ad Angelo Tantazzi
la ripresa potrebbe essere più rapida del previsto; se invece ciò non accadrà temo che la ripresa tarderà ancora. Quanto alle opportunità che si presentano in una crisi, è difficile farne un elenco o individuarle con certezza. Al di là dell’opinione “incoraggiante”, ma per me non condivisibile, che taluni avanzano vedendo nelle crisi un’ottima occasione per fare le riforme, è importante sottolineare che nella congiuntura economica avversa occorre innanzitutto cercare di tutelare i soggetti più colpiti dalla crisi stessa. Seguono le riforme strutturali che si dovrebbero fare in qualunque circostanza e che ritengo siano più facili da fare non nel corso di una crisi, bensì durante il normale andamento di crescita dei sistemi economici». E l’Unione europea come si sta muovendo per arginare la crisi? «Questa, a mio avviso, è la parte più problematica di tutta la vicenda, perché l’Ue non è andata al di là della fissazione di alcune regole adottate dai singoli Stati, senza
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essere capace essa stessa di assumere decisioni unitarie. Farò due esempi. È vero che la Bce ha preso delle decisioni importanti con più liquidità e abbassamento dei tassi, ma l’Ue in quanto tale avrebbe dovuto emettere, come io ho sostenuto molte volte, un titolo di debito pubblico europeo per finanziare la spesa pubblica continentale, ossia un massiccio intervento di finanza europea finanziato da “titoli di stato europei”. Questo non è stato fatto e secondo me rappresenta un limite formidabile. Mi preoccupa anche che l’Ue si presenti prima al G20 e poi al G8 a ranghi disuniti, contando assai meno di quanto potrebbe farlo se si presentasse compatta. Infine, vorrei rilevare il paradosso del presidente del consiglio della Repubblica Ceca, Topolanek, che è dimissionario, ma si presenterà al G20 come rappresentante del Consiglio Europeo pur non avendo più alcuna legittimazione politica perché è un premier sfiduciato». Proprio il G8 è alle porte: quali crede che siano le priorità eco-
nomico-finanziare da adottare con più urgenza? «Concordo con il ministro degli esteri inglese, Millibrand, quando afferma che gli americani devono presentarsi a questi summit non per insegnare, ma per dialogare. Non dobbiamo dimenticare che la crisi è nata in America, è cresciuta in America e da lì si è distribuita in tutto il mondo. Credo perciò che una delle priorità sia dire agli Usa che hanno delle responsabilità nei confronti del mondo e devono assumersele. La seconda linea che spero verrà adottata dal G8 è certamente più vigilanza, ma soprattutto dare corso a delle regole basilari dell’economia che riguardano la formazione di risparmio e di investimenti adeguata ai singoli Paesi del mondo. Non può infatti sussistere un’economia internazionale in cui esistono nazioni fortemente creditrici come la Cina e Paesi fortemente debitori come gli Stati Uniti. Alla fine qualcosa si spacca. Occorre, invece, più equilibrio. Il G8 non può interessarsi direttamente della
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Cina perché essa non ne fa parte, tuttavia la Cina dovrebbe cessare di comprimere la propria valuta artificiosamente. Questo strumento è stato adoperato per aumentare le esportazioni, ma ha contribuito a creato un deficit gigantesco negli Usa. Negli ultimi tempi, però, la Cina ha cominciato a rivalutare e questo è un buon segno di responsabilità così come l’aumento della sua spesa pubblica interna». Politiche del lavoro per incrementare la domanda e aiuti a imprese e banche: l’Italia può permettersi di adottare entrambe le misure, oppure è costretta a scegliere per non intaccare ulteriormente il proprio debito pubblico? «Credo che l’Italia sia costretta a scegliere in quanto le sue risorse sono limitate. Nell’ambito di questa scelta, ritengo inoltre che convenga prendere decisioni flessibili così da potere cambiare la strategia nel momento in cui la ripresa ripartisse. Mi pare perciò che il potenziamento degli ammortizzatori sociali posto in essere negli ultimi mesi sia adeguato allo stato attuale. Mi sembrano adeguate anche la ripatrimonializzazione delle
banche messa in atto attraverso i Tremonti bond, così come l’incentivazione dei consumi e della domanda di automobili, tant’è che la Fiat Mirafiori ha reintegrato i cassintegrati. Si tratta di tre filiere di politica economica che si sono simultaneamente perseguite senza eccedere né nell’una che nell’altra in maniera positiva anche per vedere come evolve la crisi e quindi per capire quale delle tre converrà accentuare. L’Italia ha quindi adottato una posizione di iniziativa, ma anche di attesa e credo che in questo momento si tratti della scelta corretta». Confindustria continua a presentare previsioni negative. Condivide chi definisce le posizioni degli industriali eccessivamente pessimiste? «In queste circostanze è difficile dare ragione piena a qualcuno e torto pieno a qualcun altro. Le previsioni di Confindustria si basano principalmente, ma non solo, sull’estrapolazione di dati del recente passato e portano a valutazioni piuttosto negative. Sono comunque utili perché è importante una dialettica delle valutazioni. Nel contempo, però, qualche operatore ci sta dicendo che si comincia
a vedere una luce in fondo al tunnel. Io escludo che Confindustria accentui volutamente il pessimismo anche perché è in continuo contatto con gli operatori. È quindi probabile che si possa vere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto». Da tempo si puntava il dito verso un certo tipo di capitalismo senza capitali, dipendente dalla finanza e sganciato dall’economia reale. Assisteremo a un’inversione di tendenza in futuro? «Direi proprio di sì. Una delle appendici della mia riflessione sugli eccessi di mercatismo o mercantilismo è proprio il fatto che l’economia creditizia e finanziaria devono essere correlate a quella produttiva. Questa correlazione in Italia era buona e ciò ci ha permesso di soffrire meno di altri Paesi. È recente notizia, ad esempio, che gli italiani hanno superato il Pil pro capite degli inglesi, la cui economia è caratterizzata da una preponderanza della finanza a scapito dell’economia reale. Credo, dunque, che anche a livello globale vada ricercato essere un maggiore equilibrio fra economia finanziaria e creditizia da un lato ed economia reale e produttiva dall’altro».
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ECONOMIA Claudio Scajola
CON LA POLITICA DEL FARE CAVALCHEREMO LA CRISI Le nostre fondamenta economiche sono sane. E il sistema creditizio non è inquinato come in altri Paesi. Per questo, secondo il ministro Claudio Scajola, «l’Italia ha gli strumenti per affrontare e superare la crisi» se coadiuvata da nuove politiche energetiche e, soprattutto, da un nuovo approccio etico e responsabile LARA MARIANI
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ECONOMIA
CLAUDIO SCAJOLA Ministro allo Sviluppo economico
a crisi c’è e nessuno lo può negare». Una crisi nata negli Stati Uniti e che successivamente ha colpito tutto il mondo. Ma l’Italia sta reagendo meglio degli altri Paesi. Tranne per quanto riguarda quel clima di sfiducia e di allarme a volte esasperato che circola tra i cittadini. Ma in questa situazione critica è necessario «non perdere la consapevolezza che l’Italia ha fondamenti economici sani, banche più solide e meno contaminate dai titoli tossici e soprattutto imprese che si sono ristrutturate, famiglie patrimonializzate e con meno debiti rispetto ad altri Paesi. E ha anche un governo stabile, che ha adottato tutte le misure necessarie». Dagli strumenti per arginare la crisi contingente, quali la cassa integrazione, gli incentivi per l’acquisto di auto, moto ed elettrodomestici al piano che pone le premesse per la ripresa. Il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola traccia e segue le linee guida della ricostruzione economica, che deve essere disegnata e progettata sulla base dell’etica e della responsabilità.
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Oggi uno dei maggiori problemi dell’economia italiana è la carenza di produttività. Qual è la strada per far sì che il nostro Paese riporti in alto i suoi standard produttivi? «La carenza di produttività del nostro Paese risale ad almeno dieci anni fa e deriva da una serie di problemi strutturali che stiamo affrontando per far sì che l’Italia esca dalla crisi in condizioni migliori di come ci è entrata. Stiamo intervenendo sulla politica energetica, per ridurre strutturalmente il costo dell’energia per le imprese e le famiglie, anche con il ritorno al nucleare. Abbiamo varato un forte piano di investimenti in opere pubbliche per migliorare le infrastrutture e stiamo riformando in profondità la pubblica amministrazione che ha sempre pesato sui conti delle imprese. Sempre nell’ottica di favorire e incentivare la produttività abbiamo favorito la riforma della contrattazione per avere un mercato del lavoro più flessibile ed efficiente». Confindustria denuncia da tempo la tassazione eccessiva che blocca lo sviluppo e la crescita LAZIO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA Claudio Scajola
DIAMO PIÙ FIDUCIA AL CONSUMO Favorire la crescita dei consumi. Aiutando le aziende più in crisi. Cesare Cursi, presidente della Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato, fotografa lo stato di salute del tessuto produttivo del Paese di Antonio Cunico
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a Commissione Industria ha dato segni di grande vivacità e competenza». È soddisfatto Cesare Cursi (nella foto), senatore Pdl e presidente della Commissione Industria, Commercio e Turismo di Palazzo Madama. Nel mese di settembre, in particolare, la Commissione, insieme alla Commissione Trasporti, ha esaminato il disegno di legge di conversione del decreto-legge di riordino della disciplina relativa alle grandi imprese in crisi, il cosiddetto decreto-legge Alitalia, svolgendo un ampio ciclo di audizioni di tutti i soggetti coinvolti. «Al contempo, sono stati esaminati diversi atti trasmessi dal governo, nonché importanti atti preparatori della legislazione comunitaria come nel caso degli interventi a favore delle Pmi, con
delle piccole e medie imprese. Sarkozy ha annunciato di eliminare la tassa professionale, la nostra Irap, entro il 2010. Un traguardo raggiungibile anche in Italia? «Abbiamo già varato interventi fiscali molto importanti soprattutto per le piccole imprese come l’Iva per cassa e la revisione degli studi di settore. Stiamo varando la nuova fiscalità di distretto e stiamo estendendo il concetto di distretto anche alle reti di impresa. Per favorire il flusso di credito alle imprese abbiamo rifinanziato il Fondo di garanzia con 1,5 miliardi, il che metterà in moto finanziamenti per almeno 70-80 miliardi. Bisogna però tener conto del forte debito pubblico e non possiamo né aumentare eccessivamente la spesa pubblica, né ridurre troppo le tasse, perché altrimenti perderemmo il controllo dei conti pubblici e queDOSSIER | LAZIO 2009
lo Small Business Act, e delle misure del cosiddetto pacchetto “clima-energia”». La Commissione, inoltre, sta svolgendo una indagine conoscitiva relativa al rincaro dei prezzi dei prodotti petroliferi e alle conseguenze che gli aumenti hanno prodotto sulla competitività delle imprese e sui redditi delle famiglie, mentre una seconda indagine conoscitiva sulla fusione nucleare è in corso di svolgimento con la Commissione 7°. «A gennaio 2009 – specifica Cursi – è stata avviata una terza indagine conoscitiva sulla condizione competitiva delle imprese industriali italiane». Particolare attenzione, infine, è stata prestata al settore del turismo, con il confronto continuo con il sottosegretario Brambilla, ritenendo questo il vero tesoro som-
sto ci costerebbe molto caro in termini di maggiori tassi d’interesse». La cassa integrazione ordinaria nell’industria italiana è in pericoloso aumento: crede sia un periodo negativo destinato a durare nel tempo? «La cassa integrazione è un ammortizzatore sociale e serve per garantire un reddito al lavoratore che resta dipendente dell’impresa. Il nostro obiettivo è proprio quello di tener legati i lavoratori alle imprese, di salvaguardare la struttura produttiva, in modo che quando questa crisi finirà, la produzione possa riprendere regolarmente. Per questo abbiamo aumentato a ben nove miliardi il fondo occupazione e abbiamo esteso la cassa integrazione anche alle categorie di imprese e ai lavoratori che ne erano privi, compresi i precari. Spero che la cassa integrazione possa ridursi, come è accaduto alla Fiat dopo l’avvio de-
merso della nostra economia in grado di poter garantire in futuro enormi potenzialità di sviluppo anche grazie alla riorganizzazione e al rilancio dell’Enit. Presidente, la nostra industria
gli incentivi all’acquisto di auto ecologiche. Ma c’è da sperare soprattutto che la cassa integrazione non si trasformi in licenziamenti». Su quali punti di forza deve scommettere il nostro sistema produttivo in questo momento? «Il nostro sistema produttivo deve continuare a puntare sulla qualità del made in Italy, sull’internazionalizzazione delle imprese, sull’innovazione. Il governo sta facendo la sua parte: abbiamo varato un tavolo e alcuni primi interventi per preservare il patrimonio delle imprese della moda e del made in Italy. Stiamo accompagnando le nostre imprese sui mercati in crescita, dall’Iraq della ricostruzione all’Egitto, dal Vietnam alla Libia, dai Balcani a Mosca. Qui il 7 e l’8 aprile scorsi si è tenuta una grande missione di sistema con mille imprenditori di 500 imprese e banche, alla presenza di Berlusconi e Putin».
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patisce la stretta al credito e la bassa produttività. Oltre al pacchetto anti-crisi, quali altre manovre ritiene più urgenti? «Restituire fiducia nei consumatori. Solo la ripresa degli scambi potrà favorire la ripresa della produzione industriale. Non a caso il ministero dello Sviluppo Economico sta ridefinendo le linee operative del bando Industria 2015 che sarà fonte di enormi possibilità di sviluppo per i vari settori produttivi nazionali. A questo si aggiunga il segno di svolta introdotto dal Governo Berlusconi nella politica energetica nazionale. La bolletta energetica costa alla collettività circa 60 miliardi di euro all’anno che si traduce in ridotto potere d’acquisto per le famiglie e difetto di competitività per le imprese che sopportano costi fissi legati alla filiera energetica superiori del 30% rispetto ai competitor europei». Quali sono i settori a cui serve più aiuto in questo momento? «Difficile stilare una graduatoria in un momento di stagnazione
L’inflazione cala, ma aumenta il numero di stipendi a rischio. Come si può ridare ossigeno ai consumi? «In Italia ci sono quasi 18 milioni di lavoratori dipendenti a reddito fisso che, con il calo dell’inflazione, del petrolio e delle altre materie prime e dei tassi sui mutui, avranno quest’anno un potere d’acquisto superiore a quello di sei mesi o un anno fa, quando il petrolio era a 150 dollari al barile e i tassi sui mutui erano saliti alle stelle. Secondo le stime di Bankitalia, nel 2007 le famiglie avevano un patrimonio finanziario e immobiliare di ben 8.000 miliardi di euro, mentre lo Stato attualmente ha un debito di 1.700 miliardi. Le famiglie che possiedono un reddito certo e dei risparmi non hanno dunque nessun motivo per ridurre il proprio tenore di vita e rinviare gli acquisti. Per le famiglie più disagiate e numerose, il governo
economica che riflette i propri effetti negativi anche sul nostro Paese ma che ha origini lontane, oltreoceano. È in corso in Commissione industria una indagine conoscitiva sulla “condizione competitiva delle imprese industriali italiane con particolare riguardo ai settori tessile e dell'abbigliamento, del mobile imbottito e dell'arredo, del chimico, meccanico e aerospaziale”. Questi appena elencati, insieme a quello dell’auto e degli elettrodomestici, rappresentano già un nutrito campione di settori che necessitano di aiuti concreti e ai quali, in parte, si è già data risposta. Ma sarebbe un errore fare una classifica. È necessario rivolgere la massima attenzione a tutto il comparto produttivo nazionale perché solo tutti insieme si può uscire dalla crisi. E io, per natura, sono ottimista». Quali invece quelli che stanno riuscendo a reagire al meglio a questa crisi? «Quelli a più alto tasso di specializzazione e quelli che hanno saputo in passato capitalizzare le at-
ha istituito come iniziative di sussidio la carta acquisti, il bonus fiscale, i bonus per il gas e la luce». Come è possibile garantire ammortizzatori sociali e sostegno alle imprese senza aumentare il debito pubblico? «Una parte della cassa integrazione è finanziata dalle imprese. Quella aggiuntiva deriva da accelerazioni e rimodulazioni di fondi già previsti, a partire dai fondi europei per la formazione professionale. Gli incentivi all’acquisto di auto, moto, elettrodomestici e mobili dovrebbero in larga parte autofinanziarsi con l’aumento dell’Iva e delle tasse di immatricolazione sui nuovi acquisti. Allo stesso modo il Piano Casa, che prevede stanziamenti pubblici per la costruzione di nuovi alloggi sociali, dovrebbe mettere in moto almeno 50-60 miliardi di investimenti immobiliari privati per l’ampliamento e la valorizzazione
tività. Ad esempio l’industria farmaceutica, seppur con i noti problemi congiunturali dovuti allo stato di crisi, dimostra incoraggianti segni di ripresa. Anche il settore dei trasporti, grazie al ribasso dei prezzi petroliferi, mostra forti segnali di vitalità. Accanto a questi, sono fiducioso nello sviluppo del comparto energetico soprattutto riferito alla produzione di energia da fonti rinnovabili». Qual è l’obiettivo che si è data la Commissione per questo 2009? «Continuare a lavorare con l’impegno e la dedizione dello scorso anno. Cercando di non limitare l’azione parlamentare alla sola disamina e approvazione dei testi normativi, funzione questa prevista dalla Costituzione, ma se possibile, svolgere in modo sempre più attivo quel ruolo di osservatore verso il mondo economico e produttivo in grado di individuare e promuovere soluzioni da sottoporre all’azione dell’Esecutivo. Insomma partecipare in modo concreto al rilancio industriale del Paese».
degli alloggi esistenti». In seguito al terremoto finanziario verificatosi si è parlato di un ritorno all’etica dell’economia e a una finanza che sostenga la produttività senza essere autoreferenziale, mirata solo al profitto. Si tratta di una svolta culturale. A suo parere è già cominciata? «Educare, soprattutto i giovani, ai principi dell’etica, della responsabilità e del merito, è alla base della ricostruzione economica, della convivenza civile e delle strategie di sviluppo del Paese. Non dobbiamo dimenticare che questa crisi è nata anche da un eccesso di finanza irresponsabile, da una carenza di regole e controlli. Ci sono “beni”, come la legalità, la lealtà, la trasparenza, il rispetto delle regole, della gerarchia e dell’autorità, oltre al dovere della solidarietà, che devono stare alla base anche dell’attività economica». LAZIO 2009 | DOSSIER
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ADOLFO URSO Sottosegretario del ministero dello Sviluppo Economico
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IL PROTEZIONISMO È UN OSTACOLO Puntare su un export ancora forte nonostante la crisi globale. Valorizzare le differenze regionali e allo stesso tempo superarne i confini. Un osservatorio sulle misure protezionistiche internazionali può essere un aiuto ulteriore secondo il sottosegretario al ministero per lo Sviluppo Economico Adolfo Urso. Perché l’impresa italiana può davvero resistere alle gelate impreviste della crisi MARIALIVIA SCIACCA
e imprese italiane puntano da sempre sull’esportazione, godendo all’estero del prestigio del marchio made in Italy nonché di un’ampissima gamma di prodotti, differenziati nelle diverse regioni e province. La crisi internazionale, soprattutto quella statunitense, sta minacciando una produzione che ancora è salda in virtù della sua intrinseca peculiarità, che la porta a resistere meglio che in altri Paesi europei e non solo. Il governo ha creato un osservatorio sul protezionismo per studiare e salvaguardare l’impresa italiana, oltre a impegnarsi per offrire un coordinamento organico tra tutte le regioni. Le parole del sottosegretario al ministero per lo Sviluppo Economico Adolfo Urso forniscono il quadro di una situazione che sta chiedendo sempre più un’apertura e un’attenzione alle dinamiche internazionali. Qual è l’andamento del commercio estero italiano in questo momento? «Se si osservano i numeri del 2008, le nostre esportazioni
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hanno continuato a crescere con un ritmo del 2%; siamo secondi solo alla Germania e certamente l’andamento è migliore che in altri Paesi che hanno concluso l’anno con un segno negativo. Mi riferisco a Spagna, Grecia, Irlanda per non parlare di altre economie come quella giapponese che hanno perso oltre il 10%. Ciò significa che l’Italia resiste meglio dei suoi partner commerciali e ne subisce invece la crisi dei consumi. Nel corso dell’intero anno 2008, rispetto al 2007, fra i Paesi partner le maggiori flessioni delle esportazioni si sono registrate nei confronti di Spagna, Regno Unito e Belgio. Sono aumentate verso Polonia, Grecia, Paesi Bassi, Austria e Germania. Sono pressoché stabili, infine, quelle verso la Francia. Quanto ai settori più o meno intaccati dalla crisi, si può dire che le maggiori contrazioni si sono avute per legno, mobili, articoli in gomma e in materie plastiche, mezzi di trasporto e prodotti dell’industria tessile e dell’abbigliamento. Incrementi si sono registrati nei settori dei prodotti petroliferi raffinati,
prodotti alimentari, bevande, tabacco, prodotti dell’agricoltura, silvicoltura e pesca». È chiaro e deciso l’impegno dell’Italia nel combattere il rischio di un ritorno al protezionismo, tanto che è stato istituito un osservatorio ad hoc. Quali sono esattamente i compiti di questo organismo? «Abbiamo attivato un osservatorio sul protezionismo presso il ministero dello Sviluppo Economico per monitorare ogni azione realizzata in sede internazionale che possa essere definita protezionistica. Mi riferisco all’aumento dei dazi o delle tariffe, la creazione di norme surrettizie e artificiose come certificazioni di qualità o doganali create per rendere più difficile l’esportazione dei prodotti. L’osservatorio ci consentirà di esaminare le situazioni, fornire informazioni e chiedere eventuali contromisure in sede europea e internazionale per evitare che il mondo abbracci tout court la pericolosa strada del protezionismo». Anche se il made in Italy è un marchio ancora forte sulle LAZIO 2009 | DOSSIER
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COMMERCIO ESTERO Adolfo Urso
CREDIAMO NELL’EXPORT ITALIANO
di Umberto Vattani*
Un piano anti-crisi vero e proprio per supportare l’export delle imprese nazionali. Facendo attenzione a scommettere sui mercati “giusti” La conoscenza dei mercati internazionali è uno strumento importante per le imprese che si internazionalizzano. In una situazione delicata come quella attuale questo patrimonio di conoscenze diventa fondamentale per poter competere. L’Ice mette a disposizione delle imprese le informazioni che raccoglie sui mercati di tutto il mondo. Abbiamo appena presentato due indagini sul commercio estero, Italia Multinazionale e Prometeia, e stiamo lavorando alla realizzazione di un Osservatorio delle materie prime. Lo scopo ultimo di queste analisi è orientare le imprese verso i mercati “giusti”, più
promettenti e allo stesso tempo indicare loro le modalità più idonee per operare. Per quanto concerne la promozione del made in Italy, mission dell’Ice, il governo ha stanziato fondi significativi. Nel 2009 sono stati previsti 185 milioni di euro tra finanziamenti pubblici e contributi dei privati. Ai fondi del piano promozionale, pari a 105 milioni, si aggiungeranno le somme di quello straordinario e delle commesse privatistiche per 57 milioni che insieme ai 23 di finanziamento autonomo dei partner degli accordi supereranno i 179 milioni spesi nel 2008. Sarà un vero e proprio piano anti-crisi che dovrebbe per-
mettere alle imprese italiane di resistere e rilanciarsi all’estero nonostante la congiuntura sfavorevole. Il 2009 sarà un anno difficile e dobbiamo reagire. Anche se gli ultimi dati del 2008 sull'export dicono che l'Italia resiste meglio di Usa, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania e di Paesi emergenti come la Cina, non ci si può permettere di abbassare la guardia. La ricetta per l’internazionalizzazione prevede più soldi per la promozione da impiegare in pochi ma selezionati obiettivi. Il piano è stato rivisto alla luce della congiuntura internazionale per consentire al sistema produttivo italiano di
piazze internazionali si avverte spesso la sensazione che a livello organizzativo manchi un coordinamento nazionale organico e si proceda per regioni. «Già lo scorso anno il ministero aveva percepito la necessità di un maggiore coordinamento per rafforzare all’estero l’immagine del made in Italy e del Sistema Italia. Per questo a luglio ho incontrato i rappresentanti delle Regioni e insieme abbiamo deciso di creare una cabina di regia per l’internazionalizzazione delle imprese con l’obiettivo di mettere a sistema le risorse, razionalizzare le spese e promuovere missioni di sistema congiunte. Assieme abbiamo dato il via al Piano Africa e Balcani, per una maggiore ed efficace penetrazione nelle aree suddette e per lo sfruttamento delle risorse energetiche, infrastrutturali e logistiche qui presenti». Le missioni governative, per DOSSIER | LAZIO 2009
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reagire. Per questo il programma concentra le risorse e razionalizza l’azione: meno iniziative, ma migliori e meno Paesi, ma con più sforzi. Così, il budget aumenta e le iniziative diminuiscono, saranno 411 dalle 475 del 2008, e si punta su Paesi e settori che possono dare riscontri imme-
esempio quella prevista in Russia, segnano un superamento di questa strategia? «La missione in Russia è solo uno dei risultati della collaborazione tra governo e Regioni avviata lo scorso luglio. Ricordo infatti che in novembre sono stato in missione negli Emirati Arabi con 493 imprese, ottenendo un ottimo risultato. Anche la rimodulazione degli sportelli regionali Sprint, la riforma del quadro normativo di riferimento del commercio internazionale e il riassetto dell’Ice fanno parte del programma di creazione di un Sistema Italia più forte». A parte Cina e Russia, quali sono oggi i mercati appetibili per le nostre imprese e come le imprese devono organizzarsi per affrontare al meglio la sfida? «I mercati più interessanti sono quelli che offrono ancora margini di crescita, come la parte
diati, come gli Stati Uniti, in cui è presumibile che i consumi interni ripartano prima che altrove, già nella seconda metà dell'anno. Per le iniziative negli States ci saranno 15 milioni di euro, 5 dal piano ordinario e 10 da quello straordinario. Forti investimenti ci saranno anche per la Russia e per alcune realtà emergenti come India, Cina, Brasile, Messico, e Paesi del Golfo. Nuove iniziative sono previste nelle aree in più forte sviluppo del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e anche dell’Africa. Quanto ai settori, i fondi saranno concentrati su quelli a più alto valore aggiunto come l’alta tecnologia, ma continueremo a presidiare alcuni comparti manifatturieri a rischio, come sistema moda, abitare e beni strumentali. Per favorire le imprese, l’Ice, per tutto il 2009, praticherà sconti fino al
50% sui servizi a pagamento e fino a un terzo sui servizi fieristici. L’Istituto si è dotato da poco di un nuovo organigramma che prevede nuovi strumenti di valutazione dell’efficacia delle singole azioni intraprese e che consentirà una maggiore sinergia con gli altri attori dell’internazionalizzazione. Già oggi l’Ice svolge molti compiti, non solo di promozione del prodotto italiano: abbiamo collaborazioni con Invitalia, Simest e Buonitalia, siamo paladini, con i desk presenti presso i nostri uffici all’estero, della lotta alla contraffazione del made in Italy. L’Istituto sta diventando una vera e propria piattaforma integrata per offrire alle imprese tutto il sostegno di cui hanno bisogno. *Presidente dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero
meridionale del mondo arabo e il bacino del Mediterraneo. Le imprese devono sfruttare tutta la loro creatività e offrire prodotti sempre più innovativi e unici, irripetibili. Solo l’innovazione permette di restare sul mercato. Per questo, per esempio, nell’assicurare fondi alle aziende del comparto auto il governo ha ribadito la necessità di creare prodotti ecologici e innovativi sul fronte del rispetto dell’ambiente». Sono sempre più necessarie regole chiare, condivise e una governance a livello europeo su questioni economiche e finanziarie. «Molto dipenderà dal G20 di Londra il prossimo aprile e dal G8, a presidenza italiana, con sede in Sardegna, alla Maddalena. Sui principi ideali da attuare siamo tutti d’accordo, adesso bisogna passare alla fase operativa, ossia scrivere insieme le regole di un nuovo ordine
globale». La Federal Reserve ha fatto sapere, intanto, che le stime di crescita statunitense saranno più basse del previsto anche nel 2010. Cosa comportano dati come questi per la nostra economia? «Gli Stati Uniti rappresentano ancora il 25% del prodotto interno lordo mondiale, per cui ogni azione americana ha una cassa di risonanza estesa e intensa nel resto del mondo. Ora anche gli Stati Uniti stanno risentendo di forti difficoltà economiche e finanziarie, che influenzano il resto del mondo, inclusa l’Europa. La recessione statunitense non può evitare di espandere i suoi effetti: ne aspettiamo la conclusione il prima possibile. Non è da dimenticare, inoltre, che la nostra economia si basa in larga parte sulle esportazioni e risente quindi degli effetti a catena della crisi nordamericana». LAZIO 2009 | DOSSIER
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CONFINDUSTRIA Aurelio Regina
ROMA, CUORE DELLA RIPRESA Investire, puntando sui settori storicamente trainanti dell’economia nazionale. E guardare all’estero senza indugi. Aurelio Regina, presidente dell’Unione degli Industriali di Roma, indica la strada per riprendere uno sviluppo in cui «Roma sarà protagonista» NINO POZZA
n un momento storico di crisi economica internazionale complessa come quella attuale, le imprese sono chiamate a rinnovarsi, puntando all’eccellenza territoriale dei prodotti e a una maggiore propensione a investire e a essere presenti sui mercati esteri. Ne è sicuro Aurelio Regina, presidente dell’Unione degli Industriali di Roma. «La crisi – aggiunge con ottimismo – può rappresentare una grande opportunità per il nostro Paese. Sarà un’occasione soprattutto per gli imprenditori romani che si contraddistinguono per l’appartenenza a settori che guideranno la ripresa». Infrastrutture, telecomunicazioni ed energia, oltre a una maggiore internazionalizzazione. Sono questi per Regina i settori su cui serve puntare «per valorizzare Roma attraverso un lavoro congiunto con il governo al fine di favorire e incrementare il suo sviluppo». Presidente, la crisi economica quali effetti sta avendo sul tessuto produttivo romano? «La città di Roma, seppur sensibile, risente meno dell’attuale situazione dei mercati. Essa infatti è meno internazionalizzata di altre realtà economiche e quindi meno vulnerabile. Questo grazie alla sua struttura economica in
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cui la pubblica amministrazione riveste un ruolo centrale, dove le nostre imprese hanno avuto la capacità di ristrutturarsi, di promuovere e diversificare i loro prodotti senza coinvolgere l’indotto. Non sto affermando però che a Roma e nel Lazio non ci siano problemi di alcun genere, basti pensare ai crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione». Quali sono invece le potenzialità del territorio che, a livello industriale, devono ancora essere sfruttate? «La principale peculiarità della capitale è rappresentata dalla presenza di un tessuto produttivo molto differenziato in cui convergono grandissimi gruppi e piccolissime imprese. Si tratta dunque di una grande realtà industriale caratterizzata da un terziario avanzato, in cui i comparti dei servizi e delle costruzioni emergono come leve che trainano lo sviluppo della città. Roma rappresenta un’eccellenza anche nella multimedialità, con un’industria del cinema che non teme rivali dalla pellicola alla distribuzione. Il comparto dell’aerospazio inoltre, insieme ad alcuni presidi a Napoli e Torino, è tra i principali poli del Paese. Sono soprattutto le infrastrutture
AURELIO REGINA Presidente dell’Unione degli Industriali di Roma
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l’elemento chiave per sfruttare le potenzialità di un tessuto produttivo importante, come quello di Roma. Ad esempio attraverso la trasformazione della città in un hub del Mediterraneo, con una forte integrazione tra il porto di Civitavecchia e l’aeroporto di Fiumicino». Internazionalizzazione, tecnologia, management. Come le imprese del territorio affrontano queste sfide per guadagnare in competitività? «I fattori che hanno profondamente mutato, negli ultimi anni, lo scenario economico internazionale, hanno imposto alle nostre imprese del tessuto imprenditoriale romano un percorso di ristrutturazione difficile e selet-
tivo. La maggior parte di esse ha intrapreso una serie di importanti cambiamenti sul piano della crescita dimensionale, del rafforzamento della struttura finanziaria, degli investimenti nel prodotto, della valorizzazione dei marchi, mettendo in moto una spinta molto più decisa nei confronti dell’internazionalizzazione. Il futuro delle nostre imprese passa attraverso la capacità di internazionalizzarsi, di indirizzarsi verso i mercati esteri, perché i processi produttivi si muovono così velocemente che le imprese, per rimanere attive sul mercato, devono necessariamente incrementare il loro bacino di consumatori. Devono investire e puntare su tecnologia, forma-
zione e innovazione al fine di proseguire il loro cammino lungo la strada della competitività». Oggi, chi vuole internazionalizzarsi dove deve guardare? «Sicuramente il bacino del Mediterraneo rappresenta un’area di grande dinamicità e interesse per le nostre imprese, per la ricchezza delle sue materie prime, per la liberalizzazione degli scambi, per l’avvio di politiche di attrazione degli investimenti esteri, nonché dal punto di vista infrastrutturale, elettromeccanico e del settore dell’automotive, dove i nostri imprenditori possono avere un grande spazio edimporsi con un know how fortissimo. Sono numerosi i Paesi dell’area Mediterranea in cui lo scambio commerLAZIO 2009 | DOSSIER
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CONFINDUSTRIA Aurelio Regina
LAZIO LEADER NELL’INNOVAZIONE La regione continua a essere una delle regioni italiane più vivaci con il più alto livello di spesa in ricerca e sviluppo e con la più alta percentuale di addetti. Brunetto Tini, presidente di Tecnopolo, analizza potenzialità e ostacoli del settore di Camilla Latini
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nnovazione e competitività sono elementi essenziali nella formulazione di una strategia di sviluppo per le imprese che intendono affermarsi nell’economia globale». Lo sottolinea senza esitazioni Brunetto Tini Presidente Tecnopolo, società per il Polo Tecnologico Industriale Romano. Per Tini, l’inarrestabile concorrenza delle economie di recente industrializzazione e la forte accelerazione dei cambiamenti che i prodotti e servizi subiscono nei mercati costituiscono un concreto pericolo per le imprese italiane, «soprattutto per quelle di dimensioni ridotte», ma offrono loro una importante opportunità di posizionarsi sui segmenti internazio-
ciale con il Lazio cresce a ritmi elevatissimi e che ha raggiunto, solo nel 2007, tre miliardi di euro in importazioni e 1,2 in esportazioni: dall’Algeria, che da sola ha un piano di investimenti per i prossimi sette anni di 140 miliardi di dollari, all’Egitto, per passare poi in Israele, Turchia, Tunisia, Marocco e Libia». Ma le industrie possono avviare queste trasformazioni in autonomia o serve un lavoro di squadra che coinvolga anche altri attori? «È sempre più evidente che la risposta a fenomeni così complessi vada ricercata solo con una piena collaborazione con Confindustria, il governo, il sistema bancario e naturalmente con le stesse Associazioni e Consorzi export, al fine di creare azioni di sistema, per affiancare e supportare gli imprenditori, in particolare quelli piccoli e medi, nei mercati esteri». DOSSIER | LAZIO 2009
nali più alti, dove il made in Italy, basato sull’inimitabile combinazione di stile, design e innovazione, può realmente rappresentare un alto valore aggiunto per il nostro sistema produttivo. Presidente, quali sono i problemi più frequenti che impediscono alle imprese di intraprendere la giusta strada verso l’innovazione? «Il limite è anzitutto rappresentato dalla scarsa interazione tra ricerca scientifica e mondo delle imprese, dalla debole propensione della ricerca al rapporto con l’industria, dal debole collegamento della ricerca con il mercato. Un altro ostacolo è determinato dalla dimensione delle realtà imprenditoriali pre-
Parliamo di mercati. Quali sono, a suo avviso, le politiche da attuare verso le diverse aree di sbocco dei prodotti italiani? «All’interno dello scenario internazionale è sempre più evidente come uno degli aspetti principali della qualità dei prodotti italiani si riferisca al prestigio di brand molto conosciuti, che hanno fatto del made in Italy un sinonimo di eccellenza, di creatività, di stile e di buon gusto in tutto il mondo. Le prospettive internazionali e la situazione attuale, accrescono la necessità di valorizzare e sostenere i nostri brand, cambiando la cultura dell’export, per essere in grado di penetrare in nuovi mercati e di consolidare le nostre posizioni, valorizzando così anche la nostra capacità organizzativa e il nostro spirito imprenditoriale». Quali misure ritiene più urgenti per assicurare la tenuta
BRUNETTO TINI Presidente Tecnopolo, società per il Polo Tecnologico Industriale Romano
delle imprese? «La delicata fase che la nostra economia sta attraversando richiede maggiore attenzione da parte di tutte le istituzioni al territorio. Dobbiamo quindi valorizzare quei settori che possono far ripartire la città di Roma, le nostre imprese, ma soprattutto il Paese, perché sono convinto che anche e soprattutto dalla Capitale ripartirà la ripresa nazionale. Faccio quindi riferimento al settore delle infrastrutture, con progetti come il raddoppio della Tiburtina, con uno sportello avviato all’interno dell’Unione per sostenere le imprese presenti nella zona. Il collegamento Fiumicino-Civitavecchia, il raddoppio della Roma-Latina, e ancora la conclusione della linea B1 e C della metro. È necessario puntare sulla banda larga, come fattore strategico, con un progetto che prevede lo stanziamento di 600 mi-
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senti nel nostro Paese, che se da un lato rappresenta un vantaggio in termini di gestione e razionalizzazione dei processi produttivi, dall’altro costituisce un ostacolo all’applicazione di sistemi innovativi, più facilmente introducibili da parte delle imprese di maggiori dimensioni». Quali sono i settori produttivi che meglio sanno innovarsi? «Attualmente l’Aerospazio, le Bioscienze, Energia e l’Ict applicato ai Beni e le Attività Culturali, rappresentano senza dubbio i settori con il più alto potenziale tecnologico a livello regionale, nazionale e internazionale. Non a caso la Regione Lazio, attraverso la finanziaria Filas, ha deciso di concentrare su di essi parte delle risorse disponibili mediante la costituzione dei tre Distretti Tecnologici che rappresentano una iniziativa di assoluta eccellenza a servizio del sistema produttivo locale tecnologicamente avanzato. Anche i Piani Operativi Regionali di prossima attuazione destinano
lioni di euro per i prossimi tre anni, sviluppato da Telecom, da Acea e da altri operatori telefonici con una rilevantissima ricaduta occupazionale». Come giudica il pacchetto anticrisi del governo?
a tali settori buona parte dei finanziamenti disponibili e Industria 2015 rappresenta una positiva azione di governo a sostegno delle imprese». Quale potrebbe essere in concreto la ricetta per tutelare e sostenere, promuovere chi sa e vuole fare innovazione? «Accesso agevolato al credito, riduzione della pressione fiscale, adozione di politiche della spesa pubblica a sostegno dell’innovazione di processo e di prodotto. In ultimo, abbandonare, specie a livello regionale, il flusso di investimenti “ a pioggia “ concentrando le risorse disponibili su tre o quattro settori chiave e su quelli maggiormente in difficoltà. A riguardo, la politica unitaria regionale ha dato alcuni segnali positivi, che denotano la definizione di un cambiamento da rafforzare e consolidare. Rivolgendomi al mondo della piccola e media impresa, consiglierei di non smettere mai di investire in ricerca e innovazione, così da trovarsi pronti a ri-
«Abbiamo valutato positivamente tutto ciò che fino ad adesso è stato fatto dal governo anche con il recente incontro a Palazzo Chigi con Confindustria. Tuttavia, abbiamo bisogno di azioni urgenti e di “soldi
posizionarsi sul mercato una volta usciti dalla attuale crisi». Cosa distingue la corsa all’innovazione delle imprese straniere alle nostre? «Le maggiori distinzioni tra le imprese italiane e quelle europee nella corsa all’innovazione, sono desumibili da problematiche strutturali quali scarso intervento da parte dei privati, talvolta tempi lunghi per l’accesso ai fondi pubblici, insufficiente interazione tra mondo della ricerca e mondo dell’impresa, rallentata adozione di politiche della spesa pubblica a sostegno di innovazione di processo e di prodotto. Tutto ciò impedisce una piena valorizzazione del potenziale di soggetti e di risorse di cui il nostro territorio dispone. In questo quadro, il sistema dei parchi scientifici e tecnologici può fornire un importante contributo in termini di mirate azioni a supporto del trasferimento tecnologico verso quelle imprese più propense all’innovazione».
veri”, come sottolinea anche la nostra presidente Emma Marcegaglia, perché solo così potremo garantire maggiore liquidità ed accesso al credito per le Pmi. Il Fondo di garanzia da 1,6 miliardi stanziato a favore della liquidità delle piccole e medie aziende deve essere quindi un elemento chiave per rilanciare l’economia, così come la messa a disposizione di fondi presso la Cassa depositi e prestiti destinata al finanziamento di ricerca ed innovazione, con uno stanziamento di 3,5 miliardi di euro per le nostre imprese. È necessario dunque un ulteriore impegno da parte delle istituzioni per intervenire in tempi più rapidi e in maniera strutturata facendo ripartire i consumi, sostenendo le esportazioni, perché la direzione è giusta, ma non ancora adeguata rispetto alla serietà della crisi». LAZIO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA Pier Francesco Guarguaglini
PER DECOLLARE SERVONO CERVELLO, BRACCIA E CUORE Finmeccanica continua a essere un fiore all’occhiello dell’industria italiana e una delle poche grandi aziende europee a non aver risentito della crisi. L’ad Pier Francesco Guarguaglini indica i nuovi obiettivi del Gruppo e indica le priorità per rilanciare il Sistema Paese GIAN MARIA VOLTO
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ECONOMIA
SICURO Pier Francesco Guarguaglini, amministratore delegato del Gruppo Finmeccanica
na grande azienda affidabile, capace di offrire prodotti e soluzioni innovative in diversi settori di business. Che non ha paura della crisi. Anzi. La aggredisce. Nel 2008, infatti, Finmeccanica ha registrato utili pari a 621 milioni di euro e ha investito circa 1,8 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, pari al 12% dei ricavi. «In questi ultimi anni Finmeccanica ha ottenuto numerosi successi in tutto il mondo» dice soddisfatto Pier Francesco Guarguaglini, numero uno di Finmeccanica. La formula vincente di questo progetto? Una struttura finanziaria solida e grandi competenze tecnologiche. Che rappresentano, in momenti di recessione come quello che stiamo
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vivendo, una garanzia di successo per il Gruppo. «È chiaro che non possiamo considerarci immuni rispetto a crisi economiche di imprevedibile durata – precisa Guarguaglini –, ma l’impegno a investire nell’innovazione è senz’altro una leva fondamentale che ci permette di fare fronte a situazioni delicate come quella attuale». Il suo Gruppo vive un momento di grande successo nonostante la crisi. Ma cosa le fa più paura di questa congiuntura economica negativa? «Stiamo vivendo una crisi economica che, per la prima volta, tocca tutti i settori produttivi in tutti i principali Paesi. Non a caso una delle espressioni più ricorrenti è che “il mondo è cambiato”, e
credo che questo corrisponda al vero. È inevitabile, quindi, che la gente sia preoccupata, ma occorre anche saper guardare con un certo ottimismo al futuro, perché altrimenti si corre il rischio di cadere in una spirale negativa da cui è difficile uscire. Questa crisi può rappresentare anche un’opportunità: può aiutarci a capire l’importanza dell’economia reale rispetto alla finanza creativa; può contribuire alla riscoperta di valori che rischiavamo di smarrire; può favorire la nascita di nuovi progetti e di nuove iniziative. La cosa più sbagliata, in questo delicato momento, sarebbe quella di restare fermi senza reagire». Il settore dell’aeronautica quanto sta patendo la crisi? LAZIO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA Pier Francesco Guarguaglini
«Questa crisi sta creando problemi in particolare al settore dei velivoli commerciali, soprattutto a causa della difficoltà di reperire liquidità da parte delle compagnie aeree. Sicuramente seguiamo con molta attenzione gli sviluppi di questa situazione, ma non è certo il primo ciclo negativo che il settore aeronautico incontra. Del resto, Finmeccanica ha un notevole vantaggio rispetto ad altre aziende, grazie a un mix di attività equilibrato tra settore civile e della difesa. Inoltre, la lunga durata dei programmi aeronautici, in media trenta anni dalla fase di definizione, alla progettazione, allo sviluppo, alla produzione e al supporto logistico, consente da una parte di distribuire gli investimenti su base pluriennale, dall’altra di gestire meDOSSIER | LAZIO 2009
glio la dinamica della commessa tra ordine, produzione e consegna. Per finire, gli investimenti sostanziosi nella ricerca e sviluppo ci consentono di prepararci a cogliere le opportunità che presenterà il prossimo ciclo positivo, quando l’economia ripartirà e con essa la domanda di viaggio». Più in generale, come giudica l’effetto di questa crisi sul Sistema Paese? «L’Italia sta perdendo competitività e per non retrocedere servono iniziative concrete. Non solo l’industria, ma anche la pubblica amministrazione deve farsi carico di azioni volte a rilanciare continuamente il Sistema Paese, in primis attraverso lo snellimento degli iter burocratici legati a quelle iniziative imprenditoriali che si riflet-
tono poi sul mondo del lavoro e su settori strategici come ad esempio la ricerca, l’Università». Tutte problematiche che rallentano lo sviluppo del Paese da tempo. «Abbiamo sicuramente questioni non risolte che occorre affrontare con impegno ed efficacia, ma il nostro Paese ha dimostrato di essere più solido e reattivo di quanto potesse sembrare. Del resto, il settore manifatturiero continua a imporsi nel mondo, ma anche quello bancario ha dimostrato di saper fronteggiare la difficile congiuntura economica. Non dimentichiamoci che all’estero molti istituti di credito sono falliti o sono stati nazionalizzati. Da noi questo non è successo». Come pensa si sia mosso il go-
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Alcuni dei settori di attività dove opera Finmeccanica: oltre alla costruzione di elicotteri, elettronica per la difesa e sicurezza, aeronautica e spazio, il gruppo si occupa anche di sistemi di difesa, e di energia e trasporti
verno italiano per arginare gli effetti di questa crisi? «Se consideriamo la difficile congiuntura economica, mi sembra che le misure del governo vadano nella giusta direzione. Pensiamo ad esempio ai Tremonti-bond, che rappresentano una risposta efficace al bisogno di liquidità di molte imprese o alle iniziative a favore delle piccole e medie imprese, apprezzate anche dalla Confindustria. Pensiamo infine ai fondi stanziati recentemente per nuove infrastrutture, che potranno fare da importante volano per l’industria. Certo, la crisi non è ancora finita, per cui auspico che il governo continui ad affrontare con impegno e incisività questo delicato momento». Quale deve essere invece il ruolo di chi fa impresa? «Lo scenario economico globale esige un grande sforzo da parte di tutti. Dal lato delle imprese, è necessario predisporre piani industriali di lungo respiro, che affrontino le debolezze strutturali del sistema produttivo e non solo l’emergenza della crisi economica. Insieme a questo, occorre disciplina e rigore per tutelare la struttura finanziaria delle aziende. Al
contempo, è necessario rimettere in moto quegli investimenti pubblici che possono stimolare l’economia. Investimenti in infrastrutture, ma non solo strade e ferrovie. Bisogna supportare quegli interventi che favoriscono la competitività dei prodotti, soprattutto per quel che riguarda le tecnologie. Solo così le imprese potranno sperare di avere un vantaggio sui propri competitor nel momento in cui l’economia ripartirà». Qual è stato il successo maggiore che a suo parere ha ottenuto Finmeccanica nel 2008? «Complessivamente, il 2008 è stato un anno positivo per il Gruppo. Un risultato importante è stato senza dubbio l’acquisizione dell’azienda statunitense DRS Technologies, leader nella fornitura di prodotti integrati, servizi e supporto nel settore dell’elettronica per la difesa, insieme alla quale intendiamo creare un grande polo transatlantico di competenze nel settore dell’alta tecnologia e dell’innovazione. Per l’acquisto di DRS ci siamo avvalsi di un’operazione finanziaria di aumento di capitale che si è conclusa con l’integrale sottoscrizione delle azioni offerte, e anche questo, conside-
rando la crisi finanziaria in corso, è stato sicuramente un fattore positivo per il Gruppo. Lo scorso anno abbiamo poi firmato numerosi contratti in tutti i nostri settori di riferimento e costruito un solido sistema di alleanze a livello globale». Qual è invece l’obiettivo che vi siete prefissati per quest’anno? «Nel 2009 abbiamo già raggiunto un primo grande obiettivo, avendo recentemente avviato una negoziazione con il Governo degli Emirati Arabi per l’acquisizione di 48 velivoli da addestramento avanzato M-346 di Alenia Aermacchi, e crediamo che questo successo aprirà la strada a nuovi traguardi nei mercati internazionali, dove sono già in corso altre importanti campagne per lo stesso velivolo. Quest’anno puntiamo inoltre ad aumentare la nostra presenza sia in Italia che all’estero, in primis negli Usa, e a stringere partnership strategiche per essere sempre più competitivi nei mercati di riferimento. Puntiamo poi a sviluppare ulteriormente il settore dell’elettronica per la difesa e sicurezza e a valorizzare le nostre attività nel settore civile, con particolare riguardo ai trasporti e all’energia». LAZIO 2009 | DOSSIER
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GRANDI OPERE Mario Valducci
PRESIDENTE Mario Valducci, deputato del Pdl, è presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera
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LE INFRASTRUTTURE DELLO SVILUPPO Portare a termine grandi opere come la Tav. Potenziare il sistema viario, anche per dare ossigeno alle imprese del settore. Rivedere il sistema aeroportuale. Dotare il Paese di un sistema Internet ad alta velocità. Queste le priorità per Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti alla Camera MARIELLA CORAZZA
uello delle infrastrutture è un settore che, nel nostro Paese più che altrove, sconta un forte ritardo: molto resta ancora da fare, ma qualcosa si sta muovendo. Rete autostradale e ferroviaria, mobilità urbana e grandi opere: le infrastrutture sono indispensabili per lo sviluppo economico e sociale di qualsiasi Paese moderno. «Non bisogna dimenticare, però, l’importanza delle infrastrutture immateriali. Anche dal punto di vista del digital divide, questo governo si sta muovendo per recuperare i ritardi accumulati». È Mario Valducci, presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera, a ricordare che non sono solo ponti e strade le infrastrutture indispensabili allo sviluppo dell’Italia. Dalle grandi opere alla viabilità ordinaria, dalla sicurezza stradale al rilancio del settore edile, il deputato ricorda che quello che fa la differenza in tema di infrastrutture – come altrove – è sempre «pragmatismo». Quali sono i temi caldi su cui la Commissione da lei presieduta sta lavorando in questo momento? «Sono diversi. Innanzitutto la sicurezza stradale. Stiamo predisponendo alcune modifiche al codice della strada per rendere più efficace il concetto di sicurezza stra-
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dale, dalla formazione alla prevenzione, alla repressione, partendo dal concetto di “tolleranza zero”, che tanto ha fatto parlare i media. Infatti, per i neopatentati e per i guidatori professionali adibiti al trasporto di persone e cose è prevista una soglia di tolleranza all’alcol dello 0 contro lo 0,5 previsto per gli altri. Ma ci sono anche fondi destinati alla sicurezza stradale attraverso l’utilizzo di una quota delle multe pagate dai cittadini e una delega al governo sulla riforma e semplificazione del codice della strada. C’è poi il problema del digital divide e della necessità di dotare il Paese di una rete Internet ad alta velocità. Dopo aver concluso un’importante indagine conoscitiva sullo stato e le prospettive delle reti di telecomunicazioni, ho promosso un tavolo di confronto con le maggiori aziende del settore per un’azione più efficace. Sul fronte del trasporto aereo, a breve partirà un’indagine conoscitiva sul settore aeroportuale, che vuole dare finalmente un quadro d’insieme a un ambito che in questi anni è cresciuto in maniera disordinata». Proprio quello aeroportuale è un settore che attraversa un momento di difficoltà, acuito anche dalla situazione innescatasi con Alitalia. A suo avviso, il sistema degli aeroporti italiani andrebbe ripensato?
«Credo che tutto il sistema vada rivisto e armonizzato. È presto per trarre conclusioni, ovviamente, ma vorrei ricordare che tra Torino e Venezia, in linea d’aria, ci sono 360 chilometri e ben otto aeroporti. Ho poi dei dubbi sulla validità di scali come quello che si sta apprestando ad aprire nella piana di Sibari, in provincia di Cosenza: la Calabria ha già gli aeroporti di Reggio Calabria, Crotone e Lamezia e tra questi solo il terzo ha un utile minimo: tutti gli altri bilanci sono in rosso, regolarmente ripianati dagli enti locali, dunque dai cittadini. Secondo i dati di Assoaeroporti i suoi 38 aeroporti associati hanno avuto tutti un 2008 peggiore del 2007. È evidente che c’è qualcosa che non va». Il Governo Berlusconi ha stilato un elenco delle opere necessarie per il Paese. Come sono state individuate e quali sono i criteri per deciderne le priorità? «L’Italia, purtroppo, sconta ritardi infrastrutturali vecchi di diversi anni. Non è stato dunque difficile individuare le priorità. Lo è la Tav o il Passante di Mestre, finalmente concluso. Ci sono state poi veri e propri problemi che sono la punta di un iceberg: mi riferisco all’emergenza rifiuti in Campania. Quello dei rifiuti è un problema che, se non viene affrontato nel resto d’Italia, rischia di ripetersi. Infine l’Italia sconta una plurienLAZIO 2009 | DOSSIER
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GRANDI OPERE Mario Valducci
DA FORZA ITALIA AL POPOLO DELLA LIBERTÀ Mario Valducci, dottore commercialista laureato in economia aziendale e marketing all’università Bocconi, il 18 gennaio 1994 è protagonista, assieme a Silvio Berlusconi, Antonio Martino, Antonio Tajani e Luigi Caligaris, della fondazione di Forza Italia. Nel partito ha assunto sin dal principio incarichi dirigenziali: fino al 1995 è stato segretario amministrativo, incarico che ha poi lasciato per divenire, per due anni, vicecoordinatore nazionale di Forza Italia assieme a Giuliano Urbani. Successivamente è stato responsabile enti locali del partito. È stato componente della Costituente del Popolo della Libertà.
nale dipendenza energetica dall’estero con ripercussioni in termini economici e in termini di sicurezza nazionale, visto che spesso i Paesi dai quali ci approvvigioniamo hanno democrazie non sempre chiare. In questo senso l’avvio della collaborazione con la Francia per la costruzione di centrali nucleari va nella giusta direzione». Qual è, a suo avviso, la differenza sostanziale nell’approccio di questo governo al tema delle infrastrutture, rispetto a quello che l’ha preceduto? «Sicuramente il pragmatismo applicato a tutti i livelli. Il governo precedente era bloccato da veti incrociati che impedivano ogni azione riformatrice e operativa. La DOSSIER | LAZIO 2009
mancata coesione e la presenza di forze altamente conservatrici hanno limitato qualsiasi impatto positivo del governo sulle infrastrutture. Il Governo Berlusconi, invece, ha visto il problema e lo ha affrontato di petto. E mi riferisco ancora al caso di Napoli, ma vorrei anche citare gli oltre 17 miliardi di euro stanziati per le grandi opere e l’edilizia scolastica e il miliardo e mezzo stanziato per il ponte sullo Stretto. O anche il forte impulso dato alla Tav, soprattutto nel tratto Torino-Lione. Anche la disciplina degli scioperi nei trasporti va in questa direzione: a cosa servono le infrastrutture se non si possono usare perché qualcuno si mette di traverso?».
Cosa ha impedito che per anni in Italia si rispettassero costi e scadenze non solo di grandi opere infrastrutturali, ma anche di semplici interventi viari? «Sicuramente una responsabilità importante ce l’ha avuta e ce l’ha il sistema decisionale italiano nel suo complesso, molto farraginoso e macchinoso. C’è poi la questione dei veti: non è possibile che ogni singolo ente possa bloccare opere ritenute di importanza addirittura sopranazionale, come nel caso della Tav bloccata da alcuni sindaci dei paesi interessati dal percorso. In questo quadro anche la politica nel suo complesso ha notevoli responsabilità: non è riuscita a stare al passo con i tempi e le necessità. Per questo motivo ho
GRANDI OPERE
VITERBO RINASCE CON L’AEROPORTO Giulio Marini, sindaco di Viterbo, fa il punto sulla situazione delle opere che daranno nuovo slancio all’economia cittadina di Nadia Spigoli
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n aeroporto e un nuovo centro fieristico. Viterbo vuole investire su infrastrutture efficaci per sfidare la crisi e rilanciare la sua economia. Il sindaco Giulio Marini (nella foto) è convinto che sarà proprio questa la strada per dare nuovo corso allo sviluppo della città. «Il nostro territorio ha da sempre sofferto della carenza di collegamenti ottimali, soprattutto con la capitale» spiega senza esitazioni. Il nuovo scalo viterbese «dovrebbe soddisfare milioni di passeggeri diretti principalmente a Roma – sottolinea –. Serviranno quindi collegamenti veloci, su gomma e su ferro, e una rivisitazione del piano regolatore generale per favorire le vie di entrata e uscita da e per Viterbo, da e per l'aeroporto». In Comune è stato costituito un Ufficio apposito, che riunisce gli assessorati all’Aeroporto, all’Urbanistica, ai Lavori Pubblici, proprio per agire congiuntamente e con la maggior celerità possibile per la risoluzione dei problemi che si presentano. Ma ci sono ancora ostacoli da superare? «Nella realizzazione di un’opera tanto articolata gli ostacoli nascono ogni giorno – rivela il sindaco –, la concretizzazione dello scalo va analizzata in ogni aspetto con molta attenzione.
proposto la figura del Commissario straordinario per le opere, dotato di poteri straordinari per un periodo limitato nel tempo, per sveltire opere ritenute di rilevanza nazionale. Un po’ come accaduto a Napoli con l’emergenza rifiuti: l’intervento di Bertolaso, dotato di poteri eccezionali, è stato risolutivo». Quanto è importante a suo avviso il ruolo dello Stato come committente di grandi opere infrastrutturali in un momento non facile per le imprese che operano nel settore dell’edilizia e delle costruzioni? «Ovviamente è fondamentale e Keynes con le sue dottrine è sempre lì a ricordacelo. Il piano di oltre 17 miliardi di euro varato dal
Gli enti locali e tutti coloro che sono coinvolti in questa operazione stanno lavorando alacremente, con tempi ben lontani da quelle lungaggini burocratiche che si associano da sempre alle attività amministrative. L’ostacolo maggiore, comunque, è proprio rappresentato dalle infrastrutture». Intanto è tutto pronto per la realizzazione del nuovo Centro Fieristico espositivo e Congressuale, opera strategica per lo sviluppo del turismo d'affari e del sistema economico e commerciale dell’Alto Lazio. «Abbiamo sempre sostenuto che l’aeroporto non è un fine, ma un mezzo per la crescita del territorio – sottolinea Marini –. La parallela realizzazione del polo fieristico è la concretizzazione di questo inciso. Aeroporto e centro fieristico sono due strutture che creeranno sviluppo e occupazione, crescita dell’economia e della visibilità del territorio a livello nazionale ed europeo. Ne siamo consapevoli, ecco perché stiamo andando a vanti il più velocemente possibile. Con le due strutture la Tuscia farà quel salto di qualità atteso da tanto tempo che accrescerà il valore di questa terra, di chi ci lavora e di chi la abita».
governo va in questa direzione: in una fase di grande contrazione economica è ossigeno puro per le aziende, anche per l’enorme indotto che le grandi opere determinano, non solo nei settori dell’edilizia e delle costruzioni. In più il piano risponde alla necessità di modernizzare le infrastrutture del Paese, e tra queste intendo anche le infrastrutture tecnologiche come la banda larga, che va considerata una vera e propria infrastruttura, sebbene immateriale, ma non meno importante per il futuro dell’Italia rispetto a ponti o a strade. A questo proposito è stato appena approvato uno stanziamento di 800 milioni per la banda larga». Uno degli appuntamenti più attesi, che porterà nuovo impulso
al settore dell’edilizia, è l’Expo 2015 di Milano. Secondo lei ci si muove efficacemente per far sì che tutti i progetti previsti vengano completati in tempo, soprattutto dal punto di vista delle opere viarie? «Come in ogni iniziativa, nelle fasi iniziali va predisposta la squadra migliore e questo può generare qualche dibattito, che a sua volta genera lentezze e lungaggini. Ma questa matassa si sta dipanando e, credo a brevissimo Expo 2015 sarà in grado di partire nel migliore dei modi e senza altre interruzioni. Sul fatto che rappresenti un’eccellente opportunità mi sembra ci sia una convergenza da parte di tutti i settori e i partiti. E questo fa ben sperare per il risultato finale». LAZIO 2009 | DOSSIER
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INFRASTRUTTURE Pietro Ciucci
IL PAESE DEVE CORRERE SULLE GIUSTE CORSIE I tanti cantieri aperti e quelli che partiranno quest’anno. Le novità del project financing e delle società miste. L’impegno per la sicurezza. Il presidente dell’Anas Pietro Ciucci fa il punto sulle infrastrutture italiane. E lancia la proposta di un «piano straordinario» SARAH SAGRIPANTI
ell’ultimo biennio, l’Anas è tornata a essere la prima stazione appaltante italiana, mettendo in moto investimenti per circa otto miliardi di euro. «Investimenti che si sono già trasformati, o si stanno trasformando, in cantieri e in produzione» precisa Pie-
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tro Ciucci, presidente della società. Sono 145 i cantieri aperti e gestiti su tutto il territorio nazionale, per un investimento complessivo di circa 12 miliardi di euro, a cui vanno sommati gli investimenti previsti dalle nuove convenzioni autostradali già stipulate o di prossima stipula, che
valgono quasi 40 miliardi. Tra i lavori più importanti, quelli per la Salerno-Reggio Calabria, la Grosseto-Fano, la Nuova Statale Jonica, la Catania-Siracusa e la Nuova Aurelia. Un impegno importante, quello della società, e un piano straordinario «capace di dare immediatamente un va-
INFRASTRUTTURE
lido contributo per la ripresa dell’economia italiana e del prodotto interno lordo». Quali sono le previsioni del-
PIETRO CIUCCI Presidente di Anas Spa, gestore della rete stradale ed autostradale italiana di interesse nazionale
l’attività dell’Anas per il 2009? «L’Anas riceverà per il 2009 ulteriori risorse dallo Stato per 1,2 miliardi di euro, che saranno tradotti in investimenti secondo le indicazioni del ministero delle Infrastrutture. Un importo che potrà aumentare in maniera significativa, poiché il portafoglio progetti consente di avviare per quest’anno interventi per 15 miliardi di euro, sulla base di quelle che saranno le decisioni assunte dal governo». Sempre più spesso si parla di partecipazione dei soggetti privati alla realizzazione delle grandi opere, anche per sopperire alla scarsità di risorse finanziarie pubbliche. L’Anas si è mossa in questo senso? «Abbiamo approvato un ambizioso master plan per la realizzazione di infrastrutture viarie mediante il coinvolgimento di capitali privati. Per queste importanti opere, che valgono com-
plessivamente 4 miliardi di euro e che realizzeremo in project financing, abbiamo già individuato i promotori finanziari: il collegamento autostradale Benevento-Caianello, la prima tratta dell’autostrada Termoli-San Vittore, il collegamento Porto di Ancona-A14 e la Ragusa-Catania. Inoltre, lo scorso dicembre, il consiglio di amministrazione dell’Anas ha deliberato l’inserimento nel master plan delle opere di tre nuove infrastrutture da realizzare attraverso lo strumento del project financing: il collegamento autostradale Ferrara-Porto Garibaldi, il collegamento tra la A1, l’aeroporto di Grazzanise e la direttrice Domitiana e il tratto Arezzo-Fano dell’itinerario Grosseto-Fano, per un importo complessivo di circa 4 miliardi di euro». Su un altro fronte, invece, l’Anas già da diverso tempo ha avviato la realizzazione di società LAZIO 2009 | DOSSIER
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INFRASTRUTTURE Pietro Ciucci
miste insieme alle Regioni, per la realizzazione di opere infrastrutturali. Quali sono i vantaggi di questa scelta? «Si sta prendendo atto che su alcune opere di primaria importanza nazionale insistono anche rilevanti spinte regionali e che competenze e prerogative inerenti ai due filoni di interesse possono essere combinate in modo ottimale, in primo luogo attraverso una piattaforma organizzativa e operativa comune ai due ambiti. È chiaro che il primo elemento patrimoniale che l’ente regionale o locale apporta all’iniziativa comune è immateriale e che l’urgenza dei cittadini di vedere realizzata l’opera, il controllo quasi visivo sugli stati di avanzamento dei lavori stessi, prima ancora della compartecipazione finanziaria alla costruzione dell’opera, hanno grande importanza. L’Anas, da parte sua, mette a dispoDOSSIER | LAZIO 2009
sizione la lunga esperienza di ente concedente e vigilante sul sistema autostradale, nonché le strutture tecniche, le professionalità e le competenze maturate in questo delicato settore». Quali sono le società che avete già costituito con gli enti regionali e quali altre avete in programma di avviare? «L’Anas finora ha costituito cinque società miste, con le Regioni Veneto, Lombardia, Piemonte, Lazio e Molise e sta sviluppando con le Regioni Umbria e Marche le opere dell’asse viario cosiddetto “Quadrilatero”, per un importo complessivo di circa 18 miliardi di euro». In più di un’occasione lei ha dichiarato la necessità, per l’Italia, di realizzare un piano straordinario delle infrastrutture. Quali dovrebbero essere i cardini di questo piano? «Un piano straordinario delle in-
frastrutture richiede di definire una ripartizione ottimale tra fondi pubblici e privati, di favorire la massima partecipazione dei privati, di destinare al finanziamento delle opere gran parte della ricchezza prodotta dalle opere stesse, di ripartire l’onere dell’investimento in un periodo che tenga conto della vita utile delle opere, ovvero 50 e più anni, e di agevolare infine la raccolta dei capitali pubblici e privati sui mercati. Per avviare un piano straordinario delle infrastrutture, inoltre, c’è bisogno di procedure straordinarie. Attualmente, dal momento in cui si decide l’investimento al momento in cui si aprono i cantieri e si producono gli effetti keynesiani dell’investimento, occorrono, se tutto va bene, due anni. Vi è quindi un problema di accelerazione delle procedure e dei tempi, che il recente decreto legge del governo
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«ABBIAMO APPROVATO UN AMBIZIOSO MASTER PLAN PER LA REALIZZAZIONE DI INFRASTRUTTURE CON IL COINVOLGIMENTO DI CAPITALI PRIVATI. PER QUESTE OPERE, CHE VALGONO 4 MILIARDI DI EURO E CHE REALIZZEREMO IN PROJECT FINANCING, ABBIAMO GIÀ INDIVIDUATO I PROMOTORI»
ha affrontato con determinazione». Parlando invece di gestione ordinaria delle strade e di sicurezza, recentemente avete introdotto il sistema dei tutor. «L’introduzione del tutor ha già funzionato bene sulle autostrade dove è stato inserito. Lì è più semplice perché si tratta di misurare la velocità media dei veicoli da casello a casello. È stato registrato un calo del 50% negli incidenti e nei decessi, per questo vogliamo inserirlo anche sulle strade statali più praticate e pericolose gestite direttamente dall’Anas». Nello specifico, su quali strade verrà sperimentato? «A breve sperimenteremo il tutor su tre strade statali: un tratto laziale dell’Aurelia, la Romea in Emilia Romagna e la Domiziana in Campania, attraverso uno stanziamento di circa 4 milioni di
euro. Lo scorso dicembre, infatti, il consiglio di amministrazione dell’Anas ha approvato l’avvio di una gara per introdurre il tutor su queste tre strade, che sono tra le più rischiose in Italia. Dovrebbe entrare in funzione a fine 2009, successivamente intendiamo estenderne l’applicazione anche ad altre arterie stradali. Questo è un impegno sia per la sicurezza passiva, per avere sempre strade moderne e un giusto livello di manutenzione, sia per invogliare gli utenti ad una guida più prudente e più sicura. Il tutor ha dimostrato di dare un contributo forte alla riduzione dell’incidentalità, monitorando la velocità media di percorrenza e, in più, quello dell’Anas tiene conto dell’evoluzione tecnica registrata in questi ultimi anni e delle caratteristiche delle strade ordinarie, che non sempre sono diverse da quella delle autostrade». LAZIO 2009 | DOSSIER
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EDILIZIA Corrado Sforza Fogliani
FISCALITÀ PIÙ LEGGERA SULLE LOCAZIONI Il Piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica visto dal presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani. «Un segnale positivo, ma il settore ha bisogno di un intervento deciso che ponga fine all’inefficienza che lo caratterizza». Il primo passo? L’introduzione della cedolare secca sugli affitti agevolati LAURA PASOTTI
n Italia si contano tra i 700 e gli 800mila immobili inabitabili perché da ristrutturare o rimettere in pristino; in gran parte sono situati nei centri storici. Sono i dati che arrivano da Confedilizia. Secondo il suo presidente, Corrado Sforza Fogliani, per un rilancio dell’economia servirebbe, pertanto, un’integrazione del piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica. «Le annunciate disposizioni del governo – afferma – renderebbero più facile l’utilizzo di questi immobili nel caso in cui i proprietari fossero interes-
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CORRADO SFORZA FOGLIANI Presidente di Confedilizia
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sati ad adibirli a loro abitazione. Molti di essi potrebbero essere destinati all’affitto a canoni agevolati». Ma perché accada, occorre che l’affitto torni ad avere una redditività. È per questo che Confedilizia ha chiesto al governo di introdurre per i contratti di locazione agevolati una cedolare secca del 1820%, dando così attuazione a un preciso punto del programma di maggioranza. «Costerebbe all’Erario meno di 200 milioni di euro – spiega Sforza Fogliani – ma contribuirebbe a rilanciare le locazioni e ad agevolare le famiglie che cercano un immobile in affitto come via di uscita da mutui già in essere o come alternativa all’accensione di un mutuo». Ma il giudizio di Confedilizia sul piano varato dal governo è positivo, soprattutto, «nella parte in cui si punta al recupero degli immobili esistenti, più che alla costruzione di nuovi». Certo è che in Italia ci sarebbe bisogno di un intervento deciso per porre fine all’inefficienza che lo caratterizza. «Finché nelle case popolari – continua – ci sarà spazio per abusivi e morosi nelle quantità inaccettabili che si registrano ora, il risultato non potrà che essere quello di un patrimonio insufficiente con migliaia di alloggi pieni di persone senza titolo e altrettante famiglie realmente bisognose in lista d’attesa».
Crede che la liberalizzazione urbanistica darà una boccata di ossigeno al mercato? «Al momento non si conoscono gli effettivi contenuti di tali misure. Ma si tratta di un segnale che potrà avere effetti benefici, soprattutto sul piano psicologico. Una misura altrettanto, se non più efficace, sarebbe però il rilancio dell’affitto attraverso la tassazione separata dei canoni. Se la locazione, oggi soffocata dalla fiscalità, tornasse a produrre reddito, il recupero di immobili, oggi inutilizzati perché bisognosi di ristrutturazione o rimessa in pristino, sarebbe immediato». Di quali cambiamenti avrebbe bisogno la normativa italiana per adeguarsi allo scenario effettivo? «Si dovrebbe rivedere la fiscalità, a cominciare da quella sulle locazioni. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, anche se incompleta visto che ha escluso le categorie catastali A1, A8 e A9 nel caso siano utilizzate come abitazioni principali, è stata importante, ma è il meccanismo del tributo a dover essere rivisto, posto che l’Ici è un’imposta patrimoniale e quindi progressivamente espropriativa. Un altro grande problema è dato dalla normativa in materia di locazioni commerciali, regolate ancora dalla legge sull’equo canone del 1978, e per le quali c’è sempre più bisogno di un intervento liberalizzatore».
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In che modo potrebbe intervenire il governo per monitorare i prezzi degli immobili? «L’unico intervento governativo che possa produrre effetti di calmieramento del mercato è l’introduzione di misure, come la suddetta cedolare secca sugli affitti, tali da ampliare l’offerta di immobili in locazione. Un aumento del numero di immobili in affitto porterebbe con sé una riduzione dei canoni, con effetti positivi anche sul mercato delle compravendite, oggi gravato da una richiesta che, nonostante la crisi, resta sostenuta per il mancato funzionamento del
mercato degli affitti». L’immobiliare è ancora un investimento sicuro? «In linea di massima sì. In questi mesi si sta consolidando un fenomeno iniziato alla fine del 2008 che vede i disinvestimenti da attività finanziaria con “dirottamento” della liquidità negli immobili. Tuttavia, finché non si restituirà reddito all’affitto, l’investimento nel mattone per ottenere un reddito sicuro, non sarà più realtà nel nostro Paese». Quali previsioni si sente di fare per il futuro? «Le previsioni del nostro Borsino
immobiliare sono per un consolidamento del numero di transazioni nel 2009. I prezzi dovrebbero rimanere stabili al netto dell’inflazione. Sono, inoltre, confermate le previsioni di aumento del numero dei contratti di locazione quale risultato di vari fattori, fra cui le difficoltà di accesso al credito da parte delle famiglie. I canoni non dovrebbero subire particolari rialzi, se non quelli in linea con il livello di inflazione».
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EDILIZIA Paolo Buzzetti
PAOLO BUZZETTI Presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili dal settembre 2006 e amministratore della Iab, azienda di famiglia che opera nel settore delle opere pubbliche, private e del restauro
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EDILIZIA
LA RICOSTRUZIONE È FATTA DI INTERVENTI A MEDIO CABOTAGGIO Una perdita pari al 6,8% per il 2009 e 250mila posti di lavoro in meno. Sono le previsioni dell’Associazione nazionale costruttori edili per il settore. Uno dei più strategici per l’economia italiana. Per rilanciarlo, il presidente Paolo Buzzetti, dopo il varo del “pacchetto casa”, chiede un piano straordinario di opere medio-piccole sul territorio subito cantierabili. «L’unico modo per rimettere in moto l’edilizia» GINEVRA CARDINALI
e costruzioni sono, da sempre, uno dei settori maggiormente strategici per l’economia nazionale. Un motore vitale che, in questi anni, ha dimostrato la sua capacità di trainare l’occupazione e sostenere il Prodotto interno lordo. Ma che oggi sta soffrendo la crisi come gli altri settori e forse in maniera più pesante. Se oggi il settore dà lavoro a due milioni di persone (che diventano tre se si considera l’in-
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dotto) e rappresenta circa il 12% del Pil nazionale, per il 2009 l’Associazione nazionale costruttori edili ha previsto un calo dell’attività produttiva pari al 6,8% che si tradurrà in una perdita di 250mila posti di lavoro, tra costruzioni e indotto. «Le ragioni per preoccuparsi sono forti e reali – afferma Paolo Buzzetti, presidente Ance –, ma altrettanto forte è il nostro impegno a fronteggiare il grave stato di emergenza del settore e consentire al
Paese di uscire più velocemente dalla crisi». Le difficoltà che sta attraversando il settore sono le stesse che genericamente pesano sul mercato internazionale oppure il comparto edilizio italiano vive problemi specifici? «I problemi sono gli stessi nella sostanza. In Italia, come negli altri Paesi, le imprese vivono una forte crisi di liquidità, provocata, in primo luogo, dalla stretta creditizia LAZIO 2009 | DOSSIER
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EDILIZIA Paolo Buzzetti
«SE DA NOI L’IMPATTO DELLA CRISI È STATO MENO VIOLENTO, LO SI DEVE ANCHE ALLA MAGGIORE RIGIDITÀ DEL SISTEMA BANCARIO, UN FATTO DI CUI CI SI È SEMPRE LAMENTATI, MA CHE, IN QUESTA FASE, INSIEME AL BASSO INDEBITAMENTO DELLE FAMIGLIE, HA COSTITUITO UN ELEMENTO POSITIVO»
messa in atto dalle banche. Un fenomeno che, oltre a frenare gli interventi programmati dalle imprese, rischia di metterne a repentaglio la stessa sopravvivenza. Poi c’è un problema legato alla lentezza dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, che sta ulteriormente aggravando la situazione delle imprese impegnate nella realizzazione di opere pubbliche. Su questo fronte l’Italia ha maggiore difficoltà perché, a causa di un livello di indebitamento pubblico diverso rispetto a quello di Francia o Germania, ad esempio, i vincoli del Patto di stabilità interno sono più stringenti che altrove». In Spagna il boom delle costruzioni ha trainato negli ultimi DOSSIER | LAZIO 2009
anni lo sviluppo economico del Paese che oggi, però, è colpito dalla recessione. Crede che il tanto criticato modello italiano abbia dei lati positivi e possa essere rivalutato alla luce di quanto sta avvenendo al di là del Tirreno? «In Italia, dove la crescita delle costruzioni è stata più equilibrata che in Spagna che sta vivendo un crollo a due cifre, l’eccezionalità è data dalla durata del ciclo positivo, pari a circa 11 anni. Se da noi l’impatto della crisi è stato meno violento, lo si deve anche alla maggiore rigidità del sistema bancario, un fatto di cui ci si è sempre lamentati, ma che, in questa fase, insieme al basso indebitamento delle famiglie, ha
costituito un elemento positivo. Questo però non vuol dire che le nostre risposte debbano essere lente. Riteniamo, al contrario, che questo sia il momento di intervenire con l’obiettivo di snellire e semplificare le procedure, a cominciare da quelle legate alla realizzazione delle infrastrutture. È da molto tempo che l’Ance denuncia la lentezza nelle fasi di pianificazione, programmazione e progettazione delle opere. Sono necessari, invece, tempi certi. È per questo che stiamo predisponendo proposte mirate a semplificare la normativa vigente». E a livello locale? La crisi agisce in maniera differente da regione a regione? «La crisi si sta manifestando con maggiore intensità nel Nord del Paese, e in particolare nel Nord Est mentre al Sud i livelli produttivi stanno scendendo meno rapidamente. Tra le regioni più colpite c’è il Veneto, dove la flessione degli investimenti nelle costruzioni si è manifestata con un anno di anticipo rispetto alla media nazionale. Per il 2009 il calo dei livelli produttivi del settore in regione sarà molto pesante: -9,6% a fronte di una media nazionale del -6,8%». Da quali basi può ripartire il rilancio del mercato edile italiano? «Le leve sono due: casa e infrastrutture. Ma bisogna fare presto, su entrambi i fronti. Per il mercato privato, sono positive le misure del cosiddetto “pacchetto casa”. Va dato, inoltre, il via libera al piano per l’housing sociale, finalmente sbloccato dopo l’accordo con Regioni ed Enti locali. Il secondo elemento cruciale per il rilancio è un piano straordinario di opere medio-piccole diffuse sul territorio e subito cantierabili. I finanziamenti per le grandi opere sono utili, ma per rimettere in modo il settore bisogna avviare interventi di “medio cabotaggio”, dalle opere di collegamento alla manutenzione stradale, dalla messa in sicurezza delle scuole alla costruzione di carceri. È per questo che il governo dovrebbe
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destinare a questi interventi i 1.150 milioni di euro non ancora assegnati dal Cipe per le infrastrutture». Lei ha guardato favorevolmente al “pacchetto casa”. Cosa l’ha convinta di questa manovra? «Le misure messe a punto dal governo, che, com’è noto, prevedono ampliamenti e premi volumetrici, rappresentano un’occasione da non perdere per rinnovare e rendere più efficiente il patrimonio italiano, dando vita, inoltre, alla “rivoluzione energetica” già avviata in molti Paesi. È molto importante anche la spinta alla semplificazione che il “pacchetto casa” intende dare. Spinta che, tuttavia, deve essere accompagnata da un rafforzamento delle verifiche e dei controlli per impedire ogni forma di abusivismo». Cosa risponde a chi sostiene che con questo piano si rischia di cementificare il Paese?
«A chi parla di cementificazione o disastro territoriale dico che, negli ultimi decenni, in Italia si sono avuti scempi nonostante le norme rigidissime. Credo, quindi, che sia assolutamente positivo semplificare regole complicate, da una parte e, dall’altra, incrementare le verifiche». Quali altre iniziative urgenti devono essere messe in atto per ridare ossigeno al settore? «Sicuramente quelle che abbiamo definito nel Protocollo d’intesa siglato con le associazioni imprenditoriali e sindacali delle costruzioni e sulle quali ci confronteremo negli Stati generali del 22 aprile. Il nostro piano di intervento punta a valorizzare la funzione anticiclica delle costruzioni e a consentire una rapida uscita del Paese dalla crisi. Questo è il momento giusto per varare le riforme strutturali attese da tempo. Per questo chiederemo
al governo di garantire, in tempi rapidi, investimenti finalizzati al recupero del grave ritardo infrastrutturale e abitativo del Paese, ma anche di mettere mano al sistema di qualificazione delle imprese, di semplificare le procedure, di dare garanzie precise sul rispetto dei tempi di pagamento della Pa, di adeguare il sistema degli ammortizzatori sociali alle specificità del settore e di garantire il credito a famiglie e imprese». Le imprese italiane lamentano da sempre una carenza infrastrutturale. Un piano di ammodernamento avrebbe il doppio vantaggio di agevolare le imprese del settore e quelle che dallo sviluppo infrastrutturale trarrebbero vantaggio. Cosa impedisce di avviarlo? «Un piano di ammodernamento consentirebbe di colmare il gap sempre più pesante che ci separa da Paesi che, fino a qualche anno fa, erano più indietro di noi. Un ritardo frutto di scelte mancate o non corrette che hanno indebolito la nostra competitività. Negli ultimi anni abbiamo speso in opere pubbliche il 2% del Pil a fronte di una media europea del 2,9 per cento. Ciò significa che abbiamo destinato alle infrastrutture 12 miliardi in meno all’anno di quanto avremmo dovuto spendere per allinearci agli altri Paesi. Ma non è tutto. Troppo spesso, pur avendo a disposizione risorse adeguate, non siamo riusciti a spenderle in modo efficace, trasformando gli stanziamenti sulla carta in investimenti concreti. Una paralisi grave e inaccettabile che ha riguardato i principali enti appaltanti, dovuta al fatto che l’Italia, a livello istituzionale e amministrativo, è soffocata da prassi burocratiche lunghe e macchinose che non servono a nessuno e penalizzano tutti. L’obiettivo è dunque accorciare i tempi e semplificare le procedure: non è possibile, infatti, che servano da quattro a sei anni solo per terminare la fase di progettazione di un’opera». LAZIO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese MARCO MARIO MILANESE Deputato del Gruppo Pdl alla Camera e consigliere politico di Giulio Tremonti di cui ha guidato la segreteria e il Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio
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LA SOLUZIONE È IL LEGAL STANDARD Più norme e più controlli condivisi. Occorre questo per uscire dalla crisi finanziaria internazionale secondo Marco Mario Milanese, consigliere di Giulio Tremonti. Una ricetta che il ministro dell’Economia propone al gotha economico del pianeta. E che in Italia sarà affiancata da altri provvedimenti GIUSI BREGA
l’uomo di fiducia di Giulio Tremonti. È lui che da dieci anni lavora accanto al ministro dell’Economia, dapprima come aiutante di campo quando era tenente colonnello della Guardia di Finanza, poi come capo segreteria di Tremonti nel suo incarico di vicepresidente del Consiglio. Oggi Marco Mario Milanese è parlamentare del Pdl, ma continua a essere consigliere politico d’eccezione del titolare del dicastero dell’economia. Milanese è un personaggio che non avverte il bisogno di mettersi in mostra. Per lui, del resto, parlano i fatti e gli
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anni di collaborazione continuativa con Giulio Tremonti che ha seguito nei suoi diversi incarichi. Professore ordinario di diritto tributario alla Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze, Milanese è titolare di una cattedra che riveste una particolare importanza in un periodo della storia della Repubblica in cui si annunciano importanti cambiamenti tributari alle porte. Laureato in scienza della sicurezza economica finanziaria, può analizzare gli effetti della congiuntura economica in corso con realismo: «L’Italia è sicuramente un Paese più al sicuro
degli altri dai contraccolpi della congiuntura – spiega –. Ciò è dovuto a una legislazione nazionale puntuale e precisa, ma anche alla propensione delle nostre banche a essere meno internazionali. Ma un grande merito va anche al basso debito privato delle famiglie italiane». Ritiene che il collasso della finanza statunitense e poi internazionale sia avvenuto anche per carenze legislative che tutelassero investitori e risparmiatori in ambito finanziario? «Assolutamente sì. Oramai possiamo dire senza essere smentiti che la crisi è prima di tutto fiLAZIO 2009 | DOSSIER
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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese
nanziaria e poi economica. Perché questa difficile situazione è una diretta conseguenza della crisi finanziaria. Ed è una crisi che è nata dalla mancanza di regole e dall’assenza di controlli». Su quali aspetti bisognerebbe lavorare maggiormente in ambito normativo per tutelare l’economia e la finanza italiane mettendole così al riparo da ulteriori tracolli internazionali? «La proposta del Governo Berlusconi che il ministro Tremonti ha presentato va proprio in questa direzione. Puntiamo alla messa a punto di regolamentazioni attraverso un “legal standard”, ovvero un quadro di regole condiviso per l’intero settore finanziario e DOSSIER | LAZIO 2009
«PUNTIAMO ALLA MESSA A PUNTO DI REGOLAMENTAZIONI ATTRAVERSO UN “LEGAL STANDARD”, OVVERO UN QUADRO DI REGOLE CONDIVISO PER L’INTERO SETTORE FINANZIARIO E CAPITALISTICO»
capitalistico». Maggiori controlli e più trasparenza potrebbero dunque rendere più sicuro il sistema? «Questa crisi è nata soprattutto per mancanza di regole comuni e condivise. Oggi per uscirne le soluzioni sono più regole, più coordinate e, quindi, più controlli». Da esperto di diritto tributario internazionale, come guarda all’introduzione del federalismo
fiscale? «Il federalismo fiscale oramai è un processo non rinviabile e non più eludibile. Si tratta di un passaggio voluto oramai da tutti, primo fra gli altri dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’introduzione di questa misura permetterà di responsabilizzare le Regioni e gli enti locali. Con il federalismo fiscale finirà, inoltre, il sistema di finanza deri-
ECONOMIA E FINANZA
UNA CARRIERA AL FIANCO DI GIULIO TREMONTI Marco Mario Milanese è consigliere politico di Giulio Tremonti. Ha conosciuto l’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze dieci anni fa, mentre ricopriva il ruolo di tenente colonnello della Guardia di Finanza. In seguito, Milanese ha rivestito gli incarichi di capo della segreteria del ministro Tremonti e poi di Capo di Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio durante il Governo Berlusconi ter. Oggi, Milanese è deputato del Gruppo Pdl alla
vata basata sulla spesa storica e si passerà all’autonomia impositiva sul territorio e al criterio dei costi standard di una nuova e buona amministrazione. Questa sarà la vera rivoluzione per un risparmio di spesa virtuoso. Ma il federalismo fiscale dovrà anche essere solidale, prevedendo misure di fiscalità di sviluppo a favore delle aree svantaggiate». Il federalismo consentirà anche una sburocratizzazione del sistema? «I benefici saranno notevoli. La
Camera dopo essere stato eletto nella circoscrizione Campania 2. All’incarico parlamentare, Milanese affianca quello di commissario straordinario di Forza Italia in Irpinia. Laureato in giurisprudenza e in scienza della sicurezza economico-finanziaria, Milanese è anche avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze
diretta responsabilizzazione degli enti locali porterà in automatico a una efficienza dei servizi e una maggiore razionalizzazione delle risorse». Uno dei progetti su cui il ministero sta lavorando è il progetto Banca del Sud. Di cosa si tratta? «Sarà una banca che avrà lo scopo di canalizzare al meglio l’enorme risparmio del Mezzogiorno verso investimenti produttivi che possano aumentarne la ricchezza. Sarà, inoltre,
uno strumento per garantire le imprese che vorranno investire, nonché di tutela dei risparmiatori, con una buona remunerazione degli interessi, e delle aziende che sul credito ricevuto avranno interessi passivi agevolati. È già pronto lo slogan che accompagnerà la nascita di questo nuovo istituto di credito: “Sarà una banca che non parlerà inglese” in quanto nasce sul territorio, lavora per il territorio e sviluppa il territorio. Un territorio, chiaramente, meridionale». LAZIO 2009 | DOSSIER
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LE NUOVE CONDIZIONI DELLA COMPETITIVITÀ Un vuoto normativo decennale. Mancanza di controlli e di trasparenza. Il mercato globale deve essere ricostruito su nuove e più solide fondamenta. Giulio Napolitano, professore di diritto pubblico, spiega le cause che hanno portato alla crisi e indica la strada per uscirne FEDERICO MASSARI
a crisi finanziaria americana ha messo in evidenza i tanti, troppi, limiti della regolamentazione economica. Almeno un decennio di lacune giuridiche e di globalizzazione selvaggia che ha portato al crash i mercati mondiali. Per colmare questo vuoto, in vista del prossimo G8 alla Maddalena, il ministro Giulio Tremonti ha messo in piedi una commissione ad hoc. Una squadra di giuristi con il compito di avanzare proposte e riscrivere le regole del gioco che vedrà protagonisti, tra gli altri, Giulio Napolitano, ordinario di istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Roma Tre. Secondo Napolitano, le cause scatenanti della crisi sono almeno quattro: «Eccessiva fiducia nella capacità di autoregolazione dei privati, mancanza di trasparenza dei mercati, “cattura” dei regolatori da parte dei regolati e intervento distorsivo da parte della politica». Si è così generata una bolla speculativa nella quale la copiosa disponibilità di capitale a costo ridotto ha incoraggiato il prestito a tassi di interesse vantaggiosi e un’offerta di mutui immobiliari particolarmente aggressiva. Da ciò è derivata la nascita di nuovi strumenti
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finanziari al fine di ridurre i rischi del prestito. «Ma il valore di questi strumenti – spiega – è stato spazzato via dall’incertezza circa l’entità e la durata della bolla e dal suo progressivo sgonfiarsi». Per il professore, l’ultimo fattore della destabilizzazione dei mercati è stato il mancato funzionamento dei controlli societari all’interno degli intermediari finanziari, travolti dal miraggio di facili guadagni ad appannaggio di manager e azionisti. «Fortunatamente, in Italia – puntualizza Napolitano – diversamente da quanto accaduto nei Paesi anglosassoni, gli operatori creditizi hanno perseguito strategie di business più prudenti e la vigilanza delle autorità pubbliche è stata più severa». Cartelli, monopoli, mancanza di concorrenza reale. Quanto questi fenomeni bloccano e hanno bloccato lo sviluppo strutturale del Paese? «L’Italia soffre tradizionalmente di un difetto di concorrenzialità e di competitività del suo sistema economico. Ciò è dovuto storicamente all’assetto corporativo della nostra società, al ruolo centrale di imprese e monopoli pubblici, alla protezione statale di molti settori industriali privati. Dall’inizio de-
gli anni Novanta, però, abbiamo cominciato a invertire la rotta: ci siamo dotati di una moderna legge antitrust, abbiamo istituito forti autorità indipendenti, privatizzato molte imprese pubbliche e, infine, liberalizzato diversi mercati, anche più di quanto abbiano fatto altri Paesi europei. In alcuni settori, come ad esempio le telecomunicazioni, si sono innescate dinamiche tecnologiche e competitive virtuose, di cui hanno beneficiato cittadini e consumatori. Ma lo sviluppo del Paese rimane ancora oggi frenato dalla ricerca di rendite e posizioni privilegiate, dai ritardi infrastrutturali, dall’incertezza del quadro legislativo e regolamentare. A ciò si aggiunga un dato ancora più di fondo: la scarsa mobilità della società italiana, i cui effetti negativi si ripercuotono sia sull’economia, sia sulla politica». Crede che l’Europa dovrebbe dotarsi di un corpus di leggi comuni per disciplinare le attività del settore bancario e creditizio, visto anche il proliferare di istituti di credito transnazionali presenti in diversi Paesi dell’Unione? «L’esigenza di una maggiore armonizzazione normativa è avvertita in molti settori dell’economia.
REGOLE E MERCATO
GIULIO NAPOLITANO Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Roma Tre, è entrato nel team di giuristi voluto dal ministro Giulio Tremonti per riscrivere le regole del mercato globale
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REGOLE E MERCATO Giulio Napolitano
«LO SVILUPPO DEL PAESE RIMANE ANCORA OGGI FRENATO DALLA RICERCA DI RENDITE E POSIZIONI PRIVILEGIATE, DAI RITARDI INFRASTRUTTURALI, DALL’INCERTEZZA DEL QUADRO LEGISLATIVO E REGOLAMENTARE» Nel caso dei servizi finanziari si sono fatti notevoli progressi, ma bisogna omogeneizzare anche i controlli. Servono forme più efficaci di coordinamento tra le autorità nazionali di vigilanza, anche attraverso la loro confederazione in un’unica Autorità europea o l’attribuzione di specifici compiti alla Banca centrale europea. Ma analoghi passi avanti vanno fatti anche in altri settori strategici, come le telecomunicazioni e l’energia, per superare le barriere nazionali ancora oggi esistenti nel mercato interno, favorire lo sviluppo della concorrenza e dell’innovazione, garantire un elevato livello di protezione di utenti e consumatori. Un maggior grado di armonizzazione della disciplina e di coordinamento dei controlli a livello europeo rappresenterebbe DOSSIER | LAZIO 2009
anche un prezioso antidoto all’adozione di misure protezioniste da parte degli Stati nazionali in risposta alla crisi». Si è parlato di fine del liberismo e della necessità di maggiori interventi pubblici in economia. Secondo lei è questa la strada da imboccare? «Sta ormai emergendo un diffuso riconoscimento sia dell’impossibilità di fare integrale affidamento sulla capacità del mercato di autoregolarsi sia della necessità di risorse e investimenti pubblici per immettere liquidità e ridare fiducia al mercato nel breve termine. Ma il ruolo di quello che in un recente saggio ho chiamato lo “Stato salvatore” non va mitizzato. Lo Stato non è onnipotente. Anzi, se non si agisce con prudenza, anch’esso può fallire. Inol-
tre, i suoi interventi nel capitale delle banche e sulle transazioni finanziarie devono essere temporanei e svolgersi all’interno di un ben preciso quadro di controlli istituzionali». Il capitalismo selvaggio è ormai tramontato. Su che basi e quali norme si ricostruirà, a suo parere, un nuovo sistema? «Per evitare altre crisi sono necessarie nuove regole e più efficaci controlli, sia a livello nazionale, sia a livello europeo. Vanno rafforzati i poteri dei “guardiani” dell’economia e i loro strumenti di intervento e di coordinamento. Infine, il commercio internazionale, come ha recentemente proposto il nostro ministro dell’Economia, deve rispettare alcuni standard legali globali, che garantiscano il rispetto di principi di trasparenza, correttezza e concorrenza. Ciò richiede un ruolo più attivo dell’Unione europea sulla scena mondiale e la creazione di istituzioni sovranazionali di governo dell’economia, anche se naturalmente non sarà un processo facile».
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ETICA D’IMPRESA Bernhard Scholz
CONCRETO Bernhard Scholz è il presidente generale della Compagnia delle Opere
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ETICA D’IMPRESA
MAGGIORE FORZA ALLA SUSSIDIARIETÀ Imprese basate sulla sussidiarietà e sulla libera iniziativa. Uno Stato chiamato a intervenire per rimuovere gli ostacoli burocratici che ne impediscono l’espansione. E dove ciascuno, dall’imprenditore al lavoratore, è responsabile del proprio ruolo. Sono questi i principi cardine su cui si fonda la Cdo. Come spiega il presidente generale Bernhard Scholz MARILENA SPATARO
ra la fine degli anni 80 quando nel solco della presenza dei cattolici nella società italiana, Monsignor Luigi Giussani ispirò ad alcuni giovani imprenditori e professionisti l’idea di dar vita a un’associazione imprenditoriale basata sui valori della mutua collaborazione e assistenza tra i consociati e di cui facessero parte soprattutto attività inerenti la piccola e media impresa. Nasce così la Compagnia delle Opere che agli occhi dell’imprenditoria del tempo, in buona parte basata su criteri di massimizzazione dei profitti, sarà apparsa utopistica o addirittura velleitaria. Ma oggi quell’intuizione e quella formula economica si rivelano di grande attualità e interesse diffuso. Le falle apertesi all’interno dei moderni sistemi economici mondiali in seguito alla crisi dei mercati finanziari spingono, infatti, il mondo imprenditoriale a ripensare i modelli della propria attività. Sull’esperienza e sul modello d’impresa praticati in oltre venti anni dalla Compagnia delle Opere interviene il presidente generale di questa associazione, Bernhard Scholz. Molti economisti sostengono che il liberismo sia tramontato. C’è qualcosa di questo modello economico che può essere salvato? «Da tanto tempo sosteniamo i li-
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miti del liberismo, anche se in Italia non si è mai presentato in modo selvaggio. Siamo invece per un libero mercato con quel minimo di regole necessarie per garantire che esso sia veramente libero e non condizionato da pochi poteri finanziari o economici. Al contempo, occorre evitare una intromissione esagerata dello Stato. Realizzare questo equilibrio è un impegno continuo che comunque nei Paesi dell’Unione europea è sempre stato presente. La questione principale è quella di trovare una strada che dia la priorità all’economia reale senza far prevalere la finanza o addirittura la speculazione finanziaria. Questo non dipende solo da regole o leggi, ma anche da una responsabilità personale degli attori finanziari». In quale misura e in quali ambiti è giusto che lo Stato ora intervenga? «Lo Stato deve aiutare l’economia e le imprese creando le condizioni perché si possa riprendere fiducia per investire nello sviluppo. Creare o favorire queste condizioni significa defiscalizzare per lasciare alle imprese le risorse di cui hanno bisogno per innovare e crescere, significa sburocratizzare per togliere pesi e limiti amministrativi inutili, significa impostare un sistema giuridico che possa tutelare in tempi adeguati i
diritti anche di chi subisce dei danni, ma significa in questo momento di crisi dare delle garanzie che permettano alle banche di svolgere quello che dovrebbe essere il compito principale, cioè sostenere l’economia. Come espresso bene dall’indagine contenuta nel rapporto “Sussidiarietà e piccola e media impresa”, a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, il mondo delle Pmi non chiede favoritismi e scorciatoie, ma chiede soprattutto una semplificazione amministrativa e una riduzione della pressione fiscale in modo da poter liberare le proprie energie». Da questo terremoto uscirà un nuovo modello di economia e finanza? «Ci auguriamo che possa uscire un’economia basata sul principio di sussidiarietà. Lo Stato deve garantire spazi e condizioni per la libera iniziativa all’interno della società, non deve sostituirsi agli imprenditori o pretendere di ammaestrarli. Per questa ragione, penso che il principio di sussidiarietà sia la vera risposta al problema liberismo-statalismo. Esso si basa su una libertà che si assume le sue responsabilità, anche di fronte al bene comune. All’interno di un sistema sussidiario le regole hanno quindi lo scopo di tutelare la libertà della persona e le libere aggregazioni fra le persone e di prevedere interLAZIO 2009 | DOSSIER
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ETICA D’IMPRESA Bernhard Scholz
OCCASIONI DI CONFRONTO Un evento finalizzato a creare una rete tra imprese per sviluppare la loro crescita attraverso nuove opportunità di lavoro. Nasce con questo intento Matching un evento promosso da Compagnia delle Opere giunto quest’anno alla sua quinta edizione. Il direttore di CdO, Enrico Biscaglia, ne illustra i contorni
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ENRICO BISCAGLIA Direttore della Compagnia delle Opere
venti “dall’alto” solo quando la libera iniziativa delle persone non riesce a rispondere ai propri bisogni vitali o quando si arriva ad abusare della libertà. La priorità sta quindi nella persona, non nello Stato o nel potere finanziario o economico. Questo non è un modello schematico da applicare, ma un principio da introdurre passo per passo perché richiede una crescente assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori sociali». Etica di impresa. Quale significato assume oggi questo valore? «Troppe volte l’etica d’impresa è stata la foglia di fico dietro cui si sono nascosti interessi di parte per-
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avorire le relazioni di business tra imprenditori come strada maestra per la crescita delle imprese. È questa, in sintesi, la ricetta di Matching: l’evento promosso da Compagnia delle Opere che giunge quest’anno alla sua quinta edizione e che negli anni scorsi ha registrato un crescente successo di adesioni. Dai 500 partecipanti della prima edizione (nel 2005) si è passati a 1.100, poi a 1.600, sino ai 2mila che nello scorso novembre si sono dati appuntamento nei padiglioni della fiera
seguiti senza scrupoli. Si è pensato di affidare questa preoccupazione a protocolli o a Carte delle regole che però alla prova dei fatti si sono rivelate spesso velleitarie. L’etica dell’impresa si realizza se l’impresa segue la propria dinamica: realizzare e vendere dei beni e dei servizi che hanno un valore reale di scambio attraverso una innovazione e un miglioramento continuo, coinvolgendo i collaboratori nel rispetto della loro libertà e dignità, rispettando le regole di mercato necessarie perché lo scambio possa avvenire alle migliori condizioni per tutti e tenendo conto degli impatti ambientali e sociali della propria attività imprenditoriale. Se chiamiamo “etica d’impresa” la codificazione di questi comportamenti va bene. Occorre però sapere che tutto ciò non può essere garantito da una imposizione doveristica, ma dal convincimento di ognuno all’interno dell’impresa che un tale orientamento sia espressione del nesso profondo che esiste fra il bene proprio, il bene dell’impresa e il bene comune. Personalmente cercherei di rendere evidente questo nesso originante più che insistere su dei comportamenti etici che sono sempre
milanese di Rho Pero: nei tre giorni della manifestazione si sono svolti circa 35mila appuntamenti di business. «Contrariamente a quello che si pensa – spiega il direttore generale di CdO, Enrico Biscaglia – la piccola impresa italiana è abituata a concepirsi all’interno di un tessuto di relazioni con altre imprese con cui condivide il settore di attività o il territorio. E questa è una chiave del successo delle nostre Pmi. Matching si propone di alimentare, di sostenere e di favorire questa ca-
conseguenza di una concezione antropologica». Spesso l’etica di impresa e la valorizzazione del capitale umano sono considerati antitetici al profitto. Perché non è così? «I soldi non sono l’obiettivo né della nostra vita né della nostra attività economica ma sono uno strumento necessario e indispensabile per poter attingere ai beni e per svolgere le nostre attività. Anche il profitto è quindi uno strumento e non un obiettivo nel senso materiale, anche se come indicatore importante di business può essere chiamato tale. La ricerca del profitto, soprattutto a breve termine, non corrisponde infatti a una giusta impostazione dell’impresa nel rispetto della sua dinamica naturale. Per un’impresa che vuole durare nel tempo e contribuire veramente al bene di chi ci lavora e al territorio nel quale opera è più importante avere un posizionamento forte sul mercato, la fiducia dei propri clienti, una patrimonializzazione adeguata e delle competenze capaci di creare innovazione. Tutto questo porterà un profitto continuo; forse non sempre elevato, ma continuativo, in grado di garan-
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pacità di relazioni». A Matching gli incontri vengono organizzati nei mesi precedenti la manifestazione: per ogni impresa partecipante viene realizzata un’agenda con appuntamenti mirati e prefissati, in modo da far incontrare gli interessi reciproci, facilitare la ricerca di fornitori, clienti e partner. «La cosa che mi ha colpito di più alla fine dello scorso Matching – aggiunge Biscaglia – è stata quella di aver assistito a tre giorni di lavoro fattivo tra gli imprenditori, proprio in un periodo in cui, a metà novembre, molti fatti avevano già manifestato la gravità della crisi. Lì c’erano imprenditori che lavoravano e guardavano con fiducia le prospettive della propria attività costruendo investimenti e part-
tire il proseguimento dell’impresa stessa. La ricerca del profitto in quanto tale, invece, rischia di snaturare l’impresa con tutte le conseguenze drammatiche, facilmente immaginabili. Ma visto che tutto questo dipende da chi lavora nell’impresa possiamo anche invertire la domanda: come potrebbe un’impresa avere un buon risultato senza partire dal capitale umano?». Le Pmi rappresentano l’ossatura dell’economia. Quali sono i loro punti di forza inespressi e le maggiori difficoltà che devono affrontare? «I punti di forza stanno soprattutto nelle persone, nella loro creatività, nella loro energia e flessibilità. Sono tutti fattori che hanno permesso all’Italia di superare diverse crisi e posizionarsi fra le prime economie mondiali. Oltre alle difficoltà “esterne”create dal fisco, dall’amministrazione pubblica, dal sistema giudiziario e dalla mancanza di infrastrutture, sono spesso questioni di metodo a livello gestionale e organizzativo che impediscono una ulteriore espressione del potenziale delle nostre imprese. E sempre di più si evidenzia la necessità di cooperare, di
nership. Sembrava che la crisi fosse rimasta fuori dai padiglioni». Titolo della prossima edizione di Matching, che si svolgerà dal 23 al 25 novembre, è “Internazionalizzare, innovare”. «Stiamo puntando su questi due temi – sottolinea il direttore generale di CdO – perché pensiamo siano decisivi in momenti difficili come questi. Occorre guadagnare maggiori capacità di stare sul mercato attraverso l’innovazione, di prodotto e organizzativa; e poi portare questo valore su nuovi mercati, incrementare la presenza sui mercati». «Chi saprà mettere in campo queste leve potrà cogliere la crisi come un’opportunità. Matching 2009 vuole aiutare le imprese a giocare queste carte».
fare rete, per creare sinergie ad esempio nella commercializzazione o nella internazionalizzazione». Quali sono le misure da mettere in atto con più urgenza per sostenere le imprese? «Ho già parlato della semplificazione amministrativa e della riduzione della pressione fiscale. Vorrei però sottolineare ancora quello che rappresenta il principale scoglio di questa fase di crisi: la liquidità e la stretta creditizia. Le banche, se necessario anche con garanzie di terzi o dello Stato, devono urgentemente sostenere le imprese, anche nell’interesse delle banche stesse. Un altro fattore gravissimo sono i ritardi nei pagamenti che molte volte rendono impossibile la vita alle imprese. In una fase così critica, lo Stato dovrebbe fare di tutto per agevolare i pagamenti della pubblica amministrazione che spesso hanno dei ritardi notevoli. Come già accennato, proprio in questa crisi ci si rende conto quanto pesi l’inefficienza della giustizia civile: di fronte a un cliente che non paga, un’azienda è priva di una tutela efficace e tempestiva». Scarsità di investimenti in R&S e difficoltà ad aprirsi a un manage-
ment esterno sono alcuni dei limiti che affliggono l’imprenditoria italiana. Qual è, dal suo osservatorio privilegiato, il suo vero stato di salute? «Sembra che anche in queste circostanze l’imprenditoria italiana reagisca meglio di altre realtà. Per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo, le nostre Pmi sono molto più attive di quanto sembri. Negli anni scorsi, ad esempio, hanno dimostrato di sapersi riposizionare strategicamente grazie a una capacità innovativa che le ha collocate più in alto sull’asse del valore rispetto alla concorrenza asiatica. Sarebbe auspicabile che le imprese che spesso non possono investire in R&S utilizzino di più le possibilità offerte dalle università o altri istituti. Più difficile è invece la questione del management; è un problema normalmente molto “umano”: può succedere che l’imprenditore faccia fatica a riconoscere i suoi limiti manageriali e che il giovane manager laureato non riesca a comprendere il valore della creatività di un imprenditore che si è costruito da sé. Si supera questa empasse solo se si mette al centro il bene dell’impresa e non le proprie convinzioni o le proprie abitudini. Diffondere conoscenze e costruire un’educazione che possano favorire l’ingresso di nuove generazioni nelle piccole imprese, potrebbe essere una risorsa formidabile per il futuro dell’azienda italiana». LAZIO 2009 | DOSSIER
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FINANZA Corrado Faissola
CONCRETO Corrado Faissola è stato nominato presidente dell'Abi nel 2006
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LE BANCHE DANNO RESPIRO ALL’ECONOMIA REALE Le banche italiane hanno reagito bene alla crisi economica grazie alla loro robustezza patrimoniale e all’aver evitato speculazioni finanziarie e strumenti creditizi rischiosi. «Ciò non ci esime però da una presa di responsabilità» afferma Corrado Faissola, presidente dell’Abi. Quella di sostenere famiglie e imprese a superare la congiuntura negativa CONCETTA S. GAGGIANO
n annus horribilis per l’economia mondiale. È stato questo il 2008, e per la profonda crisi economica sarà ricordato a lungo da addetti ai lavori e comuni cittadini. Non è però il tempo di stare alla finestra, bensì quello dell’azione e dei provvedimenti urgenti da prendere affinché gli effetti negativi della difficile situazione economico-finanziaria siano il meno pesanti possibile. Dal crollo delle borse di settembre, la crisi si è trasformata in sofferenza per l’economia reale con la perdita di posti di lavoro, mancanza di liquidità sul mercato e restrizioni sulla concessione di crediti da parte delle banche. Ed è proprio questo il tema caldo all’ordine del giorno nelle agende di governo, imprenditori e banche: il rapporto tra istituti di credito, imprese e cittadini. Perché da qui, dalla concessione di denaro, passa l’unica strada utile per uscire dal guado della crisi. «Le banche sono preparate e in grado di sostenere famiglie e imprese – assicura Corrado Faissola, presidente dell’Abi –. Il nostro
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obiettivo è, anche attraverso il piano del governo, fare in modo che non manchi il credito ed evitare che la recessione duri a lungo e penetri nella struttura delle nostre famiglie e imprese». Un monito che arriva anche dal governatore di Bankitalia Mario Draghi, che ha segnato la via della ripresa nella garanzia dell’accesso al credito per imprese e famiglia. Per il numero uno dell’Abi le banche italiane stanno continuando a svolgere la loro funzione, raccogliendo il risparmio dei cittadini e finanziando le imprese, quindi l’essenza dell’economia reale. Quindi, presidente, nessun allarme. «Le banche italiane hanno risposto alla crisi internazionale con un buon livello di solidità e stabilità. Il rischio paventato è che si interrompa drasticamente il dialogo tra i diversi attori economici, con conseguente paralisi del credito. Da parte delle banche si riconferma però tutto l’impegno a sostenere le famiglie e le imprese per evitare reazioni a catena LAZIO 2009 | DOSSIER
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«CI SONO IMPRESE CHE SI STANNO RIVELANDO INCAPACI DI FAR FRONTE ALLA SITUAZIONE. SE CI SARANNO REALTÀ NON IN GRADO DI ADEMPIERE ALLE LORO OBBLIGAZIONI LE ACCOMPAGNEREMO, PURCHÉ ABBIANO UN MERITO DI CREDITO COMPATIBILE E LE DIFFICOLTÀ SIANO TEMPORANEE»
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che danneggerebbero gli stessi istituti in primo luogo, e il sistema economico nel suo complesso. Certo è che ci aspettano tempi difficili e ora più che mai si dovrà agire con prudenza per limitare l’impatto sui bilanci». Anche dai dati di Bankitalia, il sistema creditizio italiano non appare in una situazione di emergenza. Esistono però rischi di inadempienza da parte sia di imprese che di privati, riguardo al mercato dei mutui, per esempio? «La diminuzione del costo del denaro ha inciso sul peso delle rate del mutuo. Sul mercato, grazie agli effetti della concorrenza tra banche, a iniziative di autoregolamentazione, alla convenzione sulla rinegoziazione con il ministero dell’Economia, e per ultimo alle misure a sostegno dei mutuatari introdotte dal decreto anti-crisi, le famiglie potranno trovare le soluzioni più adatte alle loro esigenze. È comunque innegabile che, come sempre in tutte le crisi, la qualità del credito sta peggiorando. In particolare, ci sono imprese che si stanno rivelando non in grado di far fronte alla situazione. Se ci saranno realtà non in grado di adempiere alle loro obbligazioni le accompagneremo, purché abbiano un merito di credito compatibile e le difficoltà siano temporanee». Il sistema creditizio italiano ha retto all’onda d’urto grazie al suo essere “arretrato”. È condivisibile questa affermazione? «Se per arretratezza si intende la capacità di gestire i rischi e tenersi lontano da prodotti troppo remunerativi, siamo orgogliosi di essere “arretrati”. Negli ultimi quindici anni il settore bancario italiano si è concentrato su una profonda riorganizzazione, mediante un processo di fusioni e acquisizioni che di recente ha avuto nuovi importanti capitoli con la nascita di gruppi bancari tra i più grandi d’Europa. Le nostre banche in questi anni si sono quindi concentrate su un pro-
getto industriale di crescita e di consolidamento piuttosto che sulla redditività dei nuovi strumenti». Abi e Confindustria dialogano costantemente. Quali sono i punti su cui convergono gli interessi? «Per favorire la ricapitalizzazione delle imprese sosteniamo la detassazione degli utili reinvestiti e degli apporti di capitale nonché la rivalutazione del patrimonio immobiliare delle Pmi; il rafforzamento patrimoniale delle aziende con un intervento del Fondo di Garanzia delle Pmi in operazioni di capitale di rischio; intendiamo individuare strumenti che rendano più facile lo smobilizzo dei crediti che le imprese hanno nei confronti della pubblica amministrazione. Inoltre, per favorirne l’accesso al credito, stiamo lavorando al potenziamento del ruolo dei confidi e dello stesso Fondo di garanzia». E su quali aspetti, invece, è ancora necessario lavorare? «In tema di rating è stato concordato un protocollo in cui saranno definite le modalità con cui le banche dovranno informare le aziende dei fattori rilevanti, suscettibili di influenzare la valutazione, e i principi del processo del rating che saranno applicati. La priorità attuale è mantenere la reciproca fiducia». Come dovrebbero reagire e muoversi in questo momento gli imprenditori? «Piuttosto che dare consigli vorrei riuscire a trasmettere loro la fiducia nel ruolo di sostegno all’economia cui le banche stanno partecipando. Inviterei inoltre a fare una riflessione comune: la crisi, oltre ai rischi, porta in sé delle opportunità. Si presenta, infatti, come occasione per l’avvio di un confronto nuovo tra tutti i soggetti coinvolti. Il mondo bancario oggi non può limitarsi a migliorare le sue performance, ma ha la necessità di rivedere e continuare ad approfondire tutto ciò che ha costruito finora coi suoi interlocutori, a partire dal
sistema produttivo. È, invece, ora più che mai necessario il dialogo e un monitoraggio costante su prodotti e servizi offerti, da parte di soggetti indipendenti tradizionalmente critici verso il sistema bancario». Come giudica il piano anti-crisi varato dal governo? È sufficiente per sostenere il sistema? «Per le misure che riguardano il sistema creditizio, il piano del governo è finalizzato a dare alle banche italiane maggiore forza per sostenere l’economia italiana, in particolare Pmi e famiglie. In questa prospettiva, il sistema bancario è favorevole a valutare l’opportunità di eventuali ricapitalizzazioni attraverso gli strumenti messi a disposizione. Nelle circostanze anomale che si sono oggi determinate è indubbio che l'intervento dello Stato, e quindi l’eventuale ulteriore opportunità di rafforzamento del patrimonio, sarà valutato dai singoli gruppi bancari in relazione alle singole esigenze». Si è detto che il capitalismo selvaggio è ormai tramontato. Su che basi si ricostruirà il sistema? «Bisognerà avere il coraggio di ripensarsi, di creare una forma mentis che consenta di essere autocritici prima ancora che critici. Il mondo bancario oggi non può limitarsi a migliorare le sue performance, ma ha la necessità di rivedere e continuare ad approfondire tutto ciò che ha costruito finora col sistema produttivo. Sono assolutamente convinto che le banche non restringeranno il credito, ma si impegneranno a fondo a sostenere soprattutto le piccole realtà imprenditoriali. Ciò è fondamentale per la tenuta del sistema economico italiano». Quale sarà il compito degli istituti di credito italiani in questo 2009? «I nostri istituti dovranno affiancare alla valutazione sulla base dei rating di Basilea2, la conoscenza diretta del cliente, forti di una presenza così capillare sul territorio e di un rapporto altrettanto forte con i cittadini». LAZIO 2009 | DOSSIER
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LA BUONA FINANZA NON TEME LA CRISI I risparmiatori italiani continuano a guardare con sospetto al mondo della finanza, nonostante il nostro Paese stia reggendo meglio di altri il crollo internazionale. Marcello Messori, presidente di Assogestioni, analizza la situazione attuale e invita a puntare su investimenti sicuri NINO POZZA
ncertezza, sfiducia, paura. Non potevano che essere queste le reazioni dei risparmiatori di fronte al crollo dei mercati finanziari. Un’insicurezza che, tradotta in azione, è sfociata in una fuga verso investimenti in attività di breve periodo e di forte liquidità come depositi e conti pronto termine. Marcello Messori, presidente di Assogestioni, analizza con lucidità il comportamento degli investitori. «Avevano sottoscritto strumenti complessi, scarsamente liquidi e con rischi di controparte perché accecati dal fatto che, alla scadenza, questi prodotti offrivano una garanzia di restituzione del capitale nominale. Quando è diventato evidente che la garanzia non copriva molti rischi, vi è stata una fuga verso la liquidità». Scarse competenze in materia da parte degli investitori? Sicuramente. Ma, secondo il presidente, la responsabilità va soprattutto attribuita a una carente consulenza. In una parola, al fatto che i responsabili della distribuzione hanno utilizzato i loro vantaggi informativi rispetto ai sottoscrittori. Quindi, presidente, sono stati venduti prodotti complessi a clienti non adeguati. «La sottovalutazione del rischio non è stato tanto o soltanto un
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MARCELLO MESSORI Economista e presidente di Assogestioni
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comportamento improprio da parte dei risparmiatori. Vi è stato soprattutto un forte condizionamento da parte dei distributori. Il mercato finanziario è dominato dall’offerta a causa della forte asimmetria di informazione che pesa sugli investitori. Quasi sempre la massiccia vendita di certi prodotti è una scelta dei canali distributivi. In tutto il mondo sono stati venduti al segmento retail, ossia ai singoli risparmiatori spesso privi di adeguate competenze finanziarie, strumenti molto complessi e con un notevole rischio incorporato. Specie negli Stati Uniti e nel Regno Unito la nuova finanza, fondata su una catena di prodotti strutturati e complessi, ha invaso il mercato al dettaglio. In Italia, un’invasione analoga si è realizzata mediante la vendita di prodotti meno esotici
«LA CRISI È MOLTO SEVERA. SIAMO NEL PIENO DELLA RECESSIONE REALE, CHE PEGGIORERÀ NEL PROSSIMO TRIMESTRE E PESERÀ SEMPRE PIÙ SULLE CONDIZIONI DI VITA DI QUOTE CRESCENTI DELLA POPOLAZIONE»
ma opachi e rischiosi: obbligazioni strutturate, prodotti assicurativi con derivati complessi, certificate, e altri ancora». Questa sfiducia generalizzata ha penalizzato anche prodotti finanziari sicuri? «La reazione è stata una fuga verso strumenti molto liquidi. E ciò ha
penalizzato soprattutto il settore del risparmio gestito che, almeno in Italia, non ha inserito quote apprezzabili di titoli ad alto rischio e a bassa liquidità nei portafogli dei clienti». Quale ruolo hanno giocato gli organi di controllo? «Per quanto riguarda il mercato statunitense, vi sono stati gravi e ripetuti fallimenti della regolamentazione, indotti dalla carenza di regole per i prodotti e gli attori della nuova finanza. In Italia la situazione è stata differente perché la nuova finanza ha avuto un impatto limitato e indiretto. Anche nel nostro Paese si sono registrate, però, pesanti asimmetrie di regolamentazione. In particolare, i prodotti del risparmio gestito sono stati sottoposti a una regolamentazione molto più rigorosa di quella vigente per le obbligazioni LAZIO 2009 | DOSSIER
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RISPARMIO GESTITO Marcello Messori
«PER QUANTO RIGUARDA IL MERCATO STATUNITENSE, VI SONO STATI GRAVI E RIPETUTI FALLIMENTI DELLA REGOLAMENTAZIONE, INDOTTI DALLA CARENZA DI REGOLE PER I PRODOTTI E GLI ATTORI DELLA NUOVA FINANZA»
bancarie, strutturate e non, e per i prodotti assicurativi con contenuto finanziario. Di recente, l’iniziativa della Consob sui prodotti illiquidi, ha segnato un importante passo avanti nel livellamento delle regole». Quindi è corretto affermare che il Sistema Italia è solido? «Rispetto agli Stati Uniti e al resto dell’Europa, il nostro sistema finanziario è rimasto ai margini della crisi perché non era specializzato in attività di investimento e ha, quindi, svolto un ruolo marginale nella catena di prodotti strutturati originati dalla cartolarizzazione dei mutui subprime. La contaminazione è stata indiretta. La crisi sta, peraltro, abbassando la convenienza a vendere prodotti opachi e strutturati. Per i prodotti DOSSIER | LAZIO 2009
del risparmio gestito e, in particolare, per i fondi di investimento si potrebbero aprire grandi opportunità». Quale deve essere la preparazione minima che un risparmiatore deve possedere quando decide di investire nel mondo finanziario? «Dipende da come si vuole investire e da quale grado di rischio si vuole assumere. Se si sceglie di affidarsi a un investitore professionale, è sufficiente possedere una formazione di base atta a valutare le proposte del consulente o del gestore. Se invece si opta per il ‘fai da te’ e si selezionano da soli gli investimenti rischiosi, allora bisogna disporre di una competenza finanziaria molto più elevata. Solo un risparmiatore sofisticato può
effettuare scelte rischiose ma sensate di portafoglio». E dall’altra parte, come deve agire un professionista nei confronti di chi gli affida i suoi risparmi? «Deve ottemperare ai doveri e alle responsabilità imposte da un unico principio: agire nel miglior interesse del cliente. Nel concreto, ciò significa che il professionista deve proporre a ciascun risparmiatore quell’insieme di strumenti e prodotti che meglio si adattano al suo profilo di rischio. Nel lungo termine, tale comportamento è anche quello più conveniente per gli offerenti». Ritornando alla crisi, dopo questo momento shock finanziario come si orienteranno le scelte dei risparmiatori? «Ho la convinzione che, dopo essere stati scottati dall’acquisto di prodotti opachi e complessi, erroneamente considerati poco rischiosi, e dopo aver reagito con una fuga verso la liquidità, i risparmiatori si porranno il problema di come allocare la loro ricchezza finanziaria in prodotti diversificati e trasparenti e in un’ottica di medio-lungo periodo. Per quanto dipinta con colori più moderni, la strategia dei “soldi sotto il materasso” non può durare a lungo. Ecco perché i prodotti del risparmio gestito, se sapranno migliorare i loro rendimenti e, soprattutto, comprimere i costi di distribuzione, offriranno una delle alternative più interessanti». Quale sarà il modello che pre-
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varrà a suo parere nel dopo crisi? «Sarà vincente una strategia finanziaria in grado di offrire tipologie di prodotto che non incorporino le distorsioni proprie agli strumenti della nuova finanza: opacità, complessità e scarsa liquidabilità. I fondi di investimento, che rappresentano lo strumento più diffuso nel settore del risparmio gestito, offrono invece diversificazione, trasparenza e liquidità». Si dovranno apportare modifiche o aggiustamenti anche in questo ambito? «Certamente. Per sfruttare appieno i vantaggi relativi di cui potrebbe godere il risparmio gestito nel dopo crisi, occorre che il set-
tore realizzi varie innovazioni. Si tratta di introdurre miglioramenti sostanziali in termini di rendimenti netti. A tale fine, può essere utile attuare processi di aggregazione fra Sgr medio-grandi e aprire gradualmente i canali distributivi. Al contempo, potrebbero affermarsi Sgr ‘di nicchia’, ossia specializzate in specifiche classi di investimento. Al contempo, i risparmiatori dovranno essere incentivati ad assumere un’ottica di lungo periodo associata a investimenti frazionati nel tempo». Quando pensa che il sistema finanziario comincerà a risalire la china? «La crisi è molto severa. Siamo nel pieno della recessione reale,
che peggiorerà nel prossimo trimestre e peserà sempre più sulle condizioni di vita di quote crescenti della popolazione. Viceversa, la crisi finanziaria ha forse superato la sua fase più acuta. Al momento, il maggior rischio è che la crisi ‘reale’ accentui l’incertezza nel settore finanziario e inneschi un circolo vizioso. Per scongiurare tale rischio, sono fondamentali le iniziative di politica economica intraprese nelle aree cruciali: Stati Uniti, Europa, Cina e Giappone. Se saranno varati efficaci interventi di policy , nei prossimi mesi la crisi finanziaria, pur se con alti e bassi, si attenuerà e la crisi dell’economia reale diminuirà la sua presa verso la fine del 2009». LAZIO 2009 | DOSSIER
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FINANZA E IMPRESA Alessandro Cataldo
GLI OSSERVATORI CI DANNO CREDITO Banche e imprenditori. Un rapporto che il terremoto della crisi ha messo a dura prova. Perché il tessuto economico italiano da sempre ha trovato nelle banche un fedele partner per lo sviluppo. E porte sempre aperte. Oggi così non sembra. Gli istituti di credito accusati di poca lungimiranza rispediscono le accuse al mittente. «La nostra risposta sono i fatti». È questa la replica di UniCredit Banca di Roma affidata alle parole del direttore generale Alessandro Cataldo CONCETTA S. GAGGIANO
a una parte le imprese piccole e grandi, con l’acqua alla gola, per gli ordini che non arrivano e i fatturati che scendono. Dall’altra le banche, accusate di non sostenere abbastanza le imprese, di aver abbandonato il ruolo di partner dell’economia del Paese che sempre hanno avuto. Nel mezzo le istituzioni, con l'attivazione dei Tremonti bond, obbligazioni emesse dalle banche e sottoscritte dal Tesoro per sostenere la capitalizzazione degli istituti di credito, il rifinanziamento del fondo di garanzia alle Pmi, ma anche e soprattutto con la decisione di affidare ai prefetti il compito di vigilare sull’operato delle banche per evitare la stretta creditizia. E Confindustria che esorta le imprese a tenere duro e avverte le banche: niente più alibi. È l’evolversi del rapporto fra banche e imprese, come conseguenza della crisi finanziaria. Perché il ricorso al credito bancario è ancora, nonostante lo sviluppo dei mercati finanziari anche in Italia, la principale fonte di finanziamento delle imprese, soprattutto di quelle di media e piccola dimensione, che rappresentano oltre il 90% del totale. «Le banche hanno un ruolo molto importante – sottolinea Alessandro Cataldo, direttore generale di UniCredit Banca di Roma –, ma non sono il primo anello della catena,
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semmai uno di quelli finali con il ruolo di sostenere famiglie e imprese continuando a concedere credito. Ma perché si inverta la rotta di questa crisi economica, la soluzione non è semplicemente continuare a immettere soldi nel sistema Paese in maniera indiscriminata». E se secondo un noto banchiere come Alessandro Profumo il ruolo dei prefetti potrebbe rivelarsi importante, a patto che essi non diventino un ulteriore organismo di vigilanza, Cataldo considera «positivi gli osservatori sul credito se l’ipotesi è quella di creare una sede, una cassa di compensazione in cui imprese, banche, soggetti che rappresentano le istituzioni e la società civile si confrontano per favorire un adeguato flusso di risorse all’economia. Mi sembra invece un eccesso – prosegue – l’idea che i prefetti debbano avere compiti di vigilanza sulle banche perché a svolgere questo ruolo c’è già un’istituzione deputata che è la Banca d’Italia». Il segnale che proviene dal governo è quello di aiutare le imprese per non peggiorare l’attuale situazione economica. Con quali provvedimenti ha risposto UniCredit Banca di Roma? «Noi ci siamo mossi già lo scorso anno per non lasciare sole le piccole imprese. A novembre, dopo un lungo lavoro preparatorio, ab-
ALESSANDRO CATALDO Direttore generale di Unicredit Banca di Roma, sulla quale verrà concentrata l'attività Unicredit nel centro e nel sud Italia non insulare. Dopo essere stata la principale banca del gruppo Capitalia, attualmente fa parte del Gruppo Bancario Unicredit
biamo lanciato il progetto “Impresa Italia”. Tramite la rete dei Confidi come UniCredit Group abbiamo messo a disposizione delle Pmi 7 miliardi di euro. In questi mesi abbiamo lavorato ininterrottamente siglando accordi con tutte le associazioni di categoria nazionali e locali, da Cna a Confarta-
FINANZA E IMPRESA
«È IMPORTANTE CHE IL MOTORE DELL’ECONOMIA VENGA RIAVVIATO A MONTE, CON INVESTIMENTI SU INFRASTRUTTURE, GRANDI OPERE CHE CREINO NUOVA CIRCOLAZIONE DI DENARO E NUOVO LAVORO. È A QUESTO PUNTO CHE LE BANCHE DEVONO LAVORARE AL FIANCO DELLE IMPRESE E DELLE ISTITUZIONI»
gianato, sino a Confcommercio e Confindustria. Ma non basta: abbiamo dato fiducia a tre imprese su quattro, anzi, al 77% delle richieste. È il segnale di un impegno concreto e che stiamo portando avanti con grande serietà». Un’accusa sempre più spesso mossa agli istituti di credito riguarda l’irrigidimento delle condizioni di offerta del credito. Qual è la vostra risposta? «Nel 2009, in poco più di due mesi, abbiamo già erogato finanziamenti alle piccole e medie imprese italiane per un ammontare complessivo di 2,3 miliardi di euro. E si tratta di nuova finanza, visto che parliamo di nuovi fidi e rinnovo di linee di credito esistenti che hanno interessato 27mila aziende, il 39% di queste ha chiuso il bilancio 2007 o in pareggio o in perdita. Certo, non è facile valutare il merito di credito delle imprese perché da un lato ci troviamo di fronte alla necessità di fornire liquidità alle aziende, dall’altro dobbiamo tenere alto il presidio del rischio, anche perché le banche fanno credito con i soldi dei depositanti. Il messaggio che mi sento di lanciare a tutti i piccoli imprenditori è di sfruttare questa fase come un’opportunità per investire meglio approfittando del fatto che i costi sono più bassi. Noi saremo al loro fianco». Quale ruolo gioca, l’accordo eu-
ropeo Basilea 2 sui requisiti patrimoniali delle aziende in questo contesto di restrizione del prestito? «È indubbio che esiste una necessità vera, oggettiva di selezionare gli affidamenti verso quelle imprese che hanno dei rating il più vicino possibile ai criteri di Basilea. La limitata liquidità ci obbliga a scegliere managerialmente le aziende che hanno un progetto, un piano, una struttura patrimoniale che sia credibile e condivisibile alla luce dei parametri su cui le banche lavorano. In questo processo i confidi, in una certa misura, sono i nostri certificatori e noi collaboriamo pienamente con loro, ancor più in questo momento di forte crisi. Certamente l’economia è fatta di imprese diverse per situazione patrimoniale, per settore di attività, per mercati di riferimento, per ciclo di vita aziendale e questo richiede al sistema bancario e ai confidi di scegliere. Ecco, questi due attori del sistema economico devono scegliere “insieme” perché altrimenti non farebbero il bene di nessuno». Aumentare la trasparenza dei sistemi che governano la concessione del credito nell’ambito del sistema bancario potrebbe essere un modo per migliorare il dialogo tra le parti? «La reciproca conoscenza migliora sempre il dialogo. Un tempo il di-
rettore d’agenzia veniva visto come uno che si batteva sul territorio al fianco di imprese e famiglie. Oggi è cresciuta la diffidenza e anche un forte pregiudizio nei confronti di tutto il sistema bancario. Noi vogliamo tornare a essere degli alleati veri per i nostri clienti». Per chiudere uno sguardo sul mondo. Pensa che gli interventi statali dei governi sulle banche abbiano sortito effetti positivi? «Certamente gli interventi pubblici sono importanti perché il solo sapere che ci sono queste risorse contribuisce a generare fiducia. Più in generale, penso che se può identificarsi un aspetto positivo nella crisi in corso è quello che il sistema ha acquisito la consapevolezza della necessità di riscrivere numerosi aspetti di governance internazionale, di supervisione e regolamentazione. Ed è proprio in questo tema che il sistema finanziario ha la possibilità di conseguire dei risultati capaci di creare le basi per il rilancio dell’intera economia. Ciò significa che i mercati hanno oggi a disposizione un’occasione storica per migliorare il sistema di governance globale. Nel definire questi nuovi equilibri si dovrà prestare grande attenzione a non correre il rischio di cancellare i passi avanti che sono stati conquistati in termini di integrazione e di sviluppo dei mercati». LAZIO 2009 | DOSSIER
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FONDAZIONI Emmanuele F. M. Emanuele
ESPERTO Emmanuele F. M. Emanuele, presidente della Fondazione Roma. Ăˆ avvocato cassazionista, economista, banchiere, esperto di problemi finanziari e tributari
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FONDAZIONI
RIFLETTORI ACCESI SUL NON PROFIT La crisi economica internazionale ha investito in modo massiccio l’attività creditizia. L’Italia ha saputo difendersi, ma per tutelare soggetti non profit come le fondazioni bancarie occorre rimboccarsi le maniche, afferma Emanuele Emmanuele presidente di Fondazione Roma MARIA ROSSI
allarme l’ha lanciato Giuseppe Guzzetti. Secondo il presidente dell’Acri, l’associazione nazionale che riunisce fondazioni e casse di risparmio, il 2009 si rivelerà l’anno più difficile. Un’analisi che Emmanuele Emanuele, economista e presidente di Fondazione Roma, condivide nella sostanza «perché è del tutto evidente che il 2009, così come il secondo semestre del 2008, sono stati caratterizzati dall’impatto di una delle più grandi crisi degli ultimi anni. Crisi ricorrenti e che già si erano manifestate – aggiunge – con caratteristiche non dissimili, negli anni 50, 70 e nel 1987». Il professor Emanuele non nasconde come la crisi attuale presenti dimensioni più ampie di quelle precedenti, non solo geografiche e settoriali, ma anche temporali. La crisi, dunque, durerà più a lungo «per via della contrazione, a livello mondiale, dell’attività creditizia e l’impatto che questa sta determinando sull’economia reale, con l’inevitabile ricaduta sugli aspetti sociali che riguardano l’occupazione e i consumi». Come ha influito la crisi bancaria sul sistema delle fondazioni bancarie e, in particolare, sulla Fondazione Roma? «A causa della crisi del sistema bancario, si è verificata una riduzione della disponibilità di mezzi da utilizzare per intervenire nei campi di azione tipici delle fondazioni: salute, istruzione, ricerca scientifica, volontariato, assistenza alle categorie sociali più deboli, sviluppo locale, qua-
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lità ambientale, per citarne alcuni. La Fondazione Roma, come le altre, ha sofferto di una diminuzione dei valori delle sue partecipazioni e dei suoi investimenti mobiliari, anche se al momento, stando a quanto preannunciato, Unicredit ha ipotizzato comunque la distribuzione di un dividendo, seppur in azioni. Prudentemente, comunque, negli anni precedenti abbiamo adottato una sana politica di accantonamenti al fondo erogazioni e questo ci permetterà di mantenere sostanzialmente inalterato il livello delle nostre erogazioni nei prossimi anni». Quale tipo di fondazioni bancarie sta soffrendo maggiormente? «A mio parere, i soggetti che oggi avvertono maggiori difficoltà dovrebbero essere quelle fondazioni che hanno concentrato in maniera esclusiva i loro investimenti nel settore bancario, non adottando i criteri di una sana e prudente diversificazione dell’investimento stesso, anche se il meccanismo della immobilizzazione delle partecipazioni dovrebbe evidenziarlo meno rispetto a investimenti mobiliari non immobilizzati». Pensa che, oltre alle regole della finanza, si debba ripensare anche a un nuovo modello per le fondazioni? «No, se parliamo di quelle di origine bancaria. Esse infatti hanno raggiunto, grazie alla legge Ciampi e alDOSSIER | LAZIO 2009
le norme attuative che ne sono scaturite, un modello che si può dire sostanzialmente coerente con le finalità che si propongono. Forse varrebbe la pena fare una riflessione sull’opportunità di un intervento normativo chiarificatore del libro I, titolo II, del Codice civile, in cui si parla di associazioni e fondazioni, per rendere più omogeneo il variegato mondo del no profit, fatto di organismi che si occupano di volontariato, onlus, imprese sociali, e via dicendo. A questo modello, una volta definito, si potrebbero ricondurre quelle fondazioni che non svolgono più attività bancaria». Lei sottolinea da tempo il ruolo importante che le fondazioni potrebbero ricoprire nella welfare community. Cosa intende esattamente? «Io ne sono fortemente convinto, e l’ho sostenuto nel libro che ho appena pubblicato Il Terzo Pilastro. Il non profit motore del nuovo welfare, che anche di fronte alla crisi che stiamo vivendo, i cresciuti bisogni di civiltà che quotidianamente si manifestano, assumendo connotazione di diritti costituzionalmente accettati e riconosciuti, fanno sì che il bilancio dello Stato non sia più in grado di dare loro le risposte attese. Parimenti, anche il mondo del privato è in crisi. Poiché non è pensabile che il sistema di welfare possa essere ab-
bandonato, ritengo che il terzo settore, che emerge prepotentemente grazie alla crescita della società civile, potrebbe ritagliarsi, in un cambiamento epocale della nostra società, un ruolo diverso laddove lo Stato assuma quello di controllore e di responsabile delle scelte strategiche sulle problematiche di fondo, permettendo tuttavia agli organismi del non profit, tra cui le fondazioni bancarie, di divenire i protagonisti di questa nuova fase». Qual è il percorso per attuare a pieno questa missione? «Credo che prioritari dovrebbero essere tre interventi. In primo luogo, la modifica costituzionale dell’articolo 118 con l’introduzione del principio di sussidiarietà, e le due pronunce della Corte costituzionale 300 e 301 del 2003 in materia di fondazioni ex bancarie, sono stati due momenti importanti nella storia del lento trapasso da una stagione di centralismo statale a una possibile ipotesi di risposta alle esigenze del sociale. Ma non bastano. Serve un’ulteriore modifica del dettato costituzionale che tenga conto del ruolo del terzo settore nell’ambito della copertura dei diritti sociali, ampliando, cioè, il principio costituzionale di sussidiarietà. In secondo luogo, è necessario il completamento della già citata riforma del Codice civile recante la disciplina delle persone giu-
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FONDAZIONI Emmanuele F. M. Emanuele
ridiche che, evitando il ricorso alle leggi speciali, che a mio parere sarebbe un grande errore, possa costruire un contesto armonico entro cui venga riconosciuto pienamente il ruolo di tutti gli organismi attraverso cui liberamente si esprime l’iniziativa e la partecipazione dei singoli. Infine un terzo intervento auspicabile, consiste nell’adeguare la normativa fiscale agli attuali standard europei, così da prevedere un regime di favore per tutte le organizzazioni del terzo settore che svolgano un’attività di in-
alle categorie più deboli. Se ci riferiamo alle sole fondazioni ex bancarie, nel 2007 la capacità di interventi sociali è stata pari a un miliardo e 715 milioni di euro distribuiti a sostegno delle esigenze nei settori sopra indicati». Quanto potenziale inespresso delle fondazioni potrebbe essere sfruttato? «Bisogna, prima di tutto, chiudere la fase caratterizzata dalla prevalenza dello Stato nel sistema del welfare, che pur ha prodotto risultati positivi im-
«A CAUSA DELLA CRISI DEL SISTEMA BANCARIO, SI È VERIFICATA UNA RIDUZIONE DELLA DISPONIBILITÀ DI MEZZI DA UTILIZZARE PER INTERVENIRE NEI CAMPI DI AZIONE TIPICI DELLE FONDAZIONI»
teresse generale. In questo modo si otterrebbero due vantaggi immediati: una maggiore disponibilità di risorse economiche per questi enti, e la possibilità di svincolarsi sempre più dalla dipendenza dagli aiuti pubblici o privati». In quale ambito ritiene insostituibile il compito delle fondazioni bancarie? «In tutti i campi che gli sono propri: sanità, istruzione, ricerca scientifica, cultura, volontariato, assistenza DOSSIER | LAZIO 2009
portanti, e passare ad una nuova stagione in cui venga delineata una rete di garanzie e tutele sociali moderna, efficiente, qualitativamente adeguata e territorialmente omogenea. Un sistema snello ed efficiente, che consideri anche una uscita progressiva, da parte dello Stato, da quei settori specialistici della sanità e dell’istruzione, della ricerca scientifica, dove sarebbe assicurata la competenza dei privati non profit, fra cui le fondazioni, appunto, secondo il criterio
ormai imprescindibile della sussidiarietà, così da garantire ampia copertura sociale solo alle persone che effettivamente, e con severi controlli, dimostrano di non avere i mezzi sufficienti per vivere dignitosamente, e con un occhio speciale per le famiglie numerose. Per poter offrire un contributo decisivo nella direzione ora indicata, non basta più però l’etichetta non profit o altre equivalenti, ma occorre che il terzo settore ponga in essere una significativa azione di rinnovamento e di miglioramento dell’efficienza al suo interno, sotto il profilo degli indirizzi strategici, ma soprattutto della gestione organizzativa delle strutture, delle attività e del proprio capitale umano, per essere sempre più indipendente dai condizionamenti politici o dal finanziamento pubblico e privato, e legittimarsi, così, in modo trasparente, di fronte ai suoi stakeholder». Tornando alla Fondazione Roma, qual è la sfida più grande a cui dovrà far fronte l’ente che presiede? «La Fondazione Roma è la maggiore di natura associativa in Italia e presidia un territorio ampissimo che si identifica con il Centro-Sud. Da qualche anno abbiamo avviato una nuova modalità di intervento, orientata alla realizzazione di iniziative strutturali, la maggior parte delle quali a carattere continuativo, per rispondere alle grandi emergenze del nostro territorio di riferimento. Nella convinzione, dunque, di dover portare a maturazione, calandoli nella realtà contingente, gli obiettivi indicati dai fondatori, la Fondazione Roma ha progressivamente privilegiato l’opzione per un modello operativo che le ha consentito di sviluppare un’autonoma capacità progettuale, che si confronta e interseca con quella degli altri protagonisti del tessuto sociale del territorio per dare forma a interventi di grande impatto sociale. Per dare risposte ancora più chiare ed efficaci, la sfida consiste, in una congiuntura sfavorevole, nel mantenere inalterati i livelli di efficienza e redditività con cui ha operato finora».
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POLITICHE DEL LAVORO Giuliano Cazzola
GIULIANO CAZZOLA Vicepresidente della commissione Lavoro alla Camera. Tra i massimi esperti di politiche del lavoro, insegna diritto della sicurezza all’Università di Bologna
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POLITICHE DEL LAVORO
IL SISTEMA RICHIEDE SOLIDITÀ Destinare il Tfr inoptato al finanziamento delle aziende. Sostenere banche e imprese. Riformare le pensioni. Sono le proposte di Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro alla Camera. Che afferma: «Il crollo delle strutture dell’economia sarebbe l’anticamera del declino» FRANCESCA RE
uattro miliardi e 200 milioni di euro. A tanto ammonterebbe il Tfr inoptato che nel 2009 resterebbe a disposizione delle imprese con più di 49 dipendenti se venisse sospeso il versamento al fondo di Tesoreria gestito dall’Inps. Una proposta che arriva dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e presa “in attenta considerazione” da Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro alla Camera, che dice: «Si tratta di risorse che le imprese non dovrebbero chiedere alle banche. E di questi tempi non è un dato da sottovalutare». Queste somme sono, ormai, entrate ordinarie dello Stato che, se fossero versate al fondo Tesoro gestito dall’Inps, costringerebbero il governo a ricercare delle compensazioni. «Un’impresa difficile con questi chiari di luna – afferma Cazzola –. Purtroppo, per Confindustria vale il detto “chi è causa del suo mal …” con tutto ciò che segue».
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POLITICHE DEL LAVORO Giuliano Cazzola
© Mauro Scrobogna / Lapresse
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ESPERTI Giuilano Cazzola con il ministro del Welfare Maurizio Sacconi
Famiglie, consumatori, imprese, banche. Esiste una priorità che dovrebbero seguire le politiche di sostegno all’economia? «In una situazione come quella che stiamo vivendo è necessario difendere le strutture dell’economia: quindi, banche e imprese. Sono le sole, infatti, che possono garantire la ripresa, mentre il loro crollo sarebbe l’anticamera del declino». Lo scorso ottobre la sua proposta di destinare il Tfr al pagamento del mutuo sulla prima casa non è stata inserita in Finanziaria. Crede che oggi sia possibile riproporre questo intervento? «La proposta non ha avuto fortuna come soluzione tecnica, ma il governo ha adottato altre misure a favore dei mutui immobiliari. Con l’aria che tira oggi sul versante dell’inflazione, il problema si è molto ridimensionato per le famiglie». Come giudica la riforma dei contratti recentemente firmata da governo e sindacati? DOSSIER | LAZIO 2009
«Con la firma dello scorso 22 gennaio si è chiuso un capitolo aperto, purtroppo, da anni. Ed è un bene, anche se l’accordo non è molto innovativo. Tutto sommato mi convinceva di più il meccanismo che si appoggiava all’indice di inflazione programmata previsto dal protocollo del 1993». Crede che il “no” della Cgil indebolirà in qualche modo l’accordo? «Sicuramente. Credo che la Cgil abbia sbagliato a non firmare. Illustrando la posizione della Cgil du-
rante un’audizione in commissione Lavoro alla Camera, Guglielmo Epifani ha voluto mettere in evidenza, anche con argomenti puntuali e seri, quelle che erano, per la sua organizzazione, le contraddizioni insite nell’accordo e destinate, prima o poi, a esplodere perché difficili da gestire dalle controparti. Certo è che una materia tanto complessa come l’impianto delle relazioni industriali non è mai priva di ambiguità e contenuti non compiuti o in via di definizione. Stando così le cose, però, forse sarebbe stato
POLITICHE DEL LAVORO
«UNA RIFORMA DELLE PENSIONI, CON AL CENTRO L’ETÀ PENSIONABILE, CONSENTIREBBE DI UTILIZZARE I RISPARMI PER LE POLITICHE DI SOSTEGNO AL LAVORO E AL REDDITO»
più utile e intelligente far evolvere le contraddizioni dall’interno dell’accordo e nel contesto delle sue ulteriori procedure applicative, anziché chiamarsi fuori e contrapporvisi come, al contrario, ha fatto la Cgil». Il governo ha fatto un primo passo in tema di ammortizzatori sociali con la firma dell’accordo con le Regioni per otto miliardi di euro. Crede che sia sufficiente o si può fare di più? «Allo stato attuale è difficile fare previsioni. Intanto, vediamo di dare
attuazione a questo accordo e acquisire le risorse necessarie per il prossimo biennio». È possibile estendere le tutele anche ai lavoratori precari senza intaccare il debito pubblico? «Nei provvedimenti adottati dal governo si sono aperti nuovi spazi in questa direzione grazie alla possibilità, di cui si parlava prima, di mettere in campo otto miliardi di euro nel biennio 2009/2010». La riforma delle pensioni è un tema su cui lei è tornato spesso, sostenendo con forza la sua neces-
sità. In che modo è possibile intervenire anche alla luce dell’attuale situazione economica? «Sono convinto della necessità di una riforma delle pensioni. Un nuovo intervento, con al centro l’età pensionabile, produrrebbe due effetti combinati. Da un lato, consentirebbe di utilizzare i risparmi, fino a due miliardi di euro all’anno, per le politiche di sostegno al lavoro e al reddito. Dall’altro, manderebbe, come è già accaduto nel 2003, un forte segnale all’Unione europea e ai mercati». LAZIO 2009 | DOSSIER
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SISTEMI PREVIDENZIALI Antonio Mastrapasqua
MAGGIORE LEGALITÀ AL MONDO DEL LAVORO «Meno repressione e più controlli». Il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua presenta le linee guida che determineranno nel prossimo futuro l’azione dell’istituto previdenziale italiano. Forte di un bilancio del 2008 in attivo, l’organismo punta a una maggiore emersione del lavoro nero e alla riduzione dei tempi di attesa nell’erogazione della cassa integrazione FRANCESCA DRUIDI
a pubblica amministrazione sta cambiando, e l’Inps è già cambiato». È lo slogan che emerge dalla relazione 2008 dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, che ha fatto registrare 11 miliardi di attivo nel bilancio. «Un miglioramento dei risultati – commenta Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps – da attribuire essenzialmente agli effetti del nuovo quadro macroeconomico che, nonostante la crisi,
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ha allargato sensibilmente la platea dei contribuenti, italiani e stranieri che lavorano in Italia». Nel corso del 2008 è cresciuto il numero degli iscritti alle gestioni pensionistiche: sono ormai più di 19 milioni, con un aumento netto di oltre 230mila soggetti rispetto al 2007. Va poi aggiunto l’incremento dei contributi dai lavoratori stranieri regolarizzati, ormai quasi due milioni. Ma una quota non marginale di questo trend positivo dipende
dal lavoro di riorganizzazione e di efficientamento dell’Inps. Incidono anche le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione e dall’elusione contributiva, dal rialzo dell’aliquota a carico degli artigiani, dei commercianti e dei lavoratori a progetto, fino ai nuovi requisiti di accesso al pensionamento di anzianità previsti dal primo gennaio 2008 e la nuova decorrenza programmata, le cosiddette finestre, delle pensioni di an-
SISTEMI PREVIDENZIALI
ANTONIO MASTRAPASQUA Presidente e Commissario straordinario dell’Inps, Istituto nazionale di previdenza sociale
zianità e vecchiaia. All’istituto previdenziale italiano non mancano comunque le sfide da affrontare nel prossimo futuro. Quali azioni metterà in campo l’Inps per potenziare la lotta al lavoro nero? «Lo scorso anno, l’attività di vigilanza dell’istituto aveva consentito l’emersione di oltre 56mila lavoratori in nero. Quest’anno gli ispettori sono certi di poter verificare almeno 1,5 miliardi di contributi
non versati, regolarizzando almeno 100mila lavoratori. Per essere ancora più incisivi, abbiamo definito una convenzione con l’Agenzia delle Entrate per consultare anche i loro elenchi, al fine di affinare la ricerca delle situazioni anomale, soprattutto nell’area delle partite Iva. Il lavoro di intelligence è fondamentale per conseguire buoni risultati nei controlli delle imprese. E su questa strada stiamo ottenendo brillanti successi: l’82%
delle aziende visitate ha, infatti, mostrato irregolarità». Come replica a chi ha contestato la decisione dell’istituto di alleggerire i controlli nei confronti delle aziende, in concomitanza con il deflagrare della crisi economica? «Si tratta di una lettura distorta della realtà. L’Inps non ha alleggerito i controlli nei confronti delle aziende. Ma è giusto puntualizzare l’approccio: non inseguiamo le irregolarità formali, ma ci concentriamo sull’emersione del lavoro nero. Privilegiamo quelle verifiche che possono estendere l’area di legalità nel mondo del lavoro, senza assumere un atteggiamento repressivo nei confronti delle aziende. In molti casi, le irregolarità derivano anche da una scarsa conoscenza degli strumenti utili a evitare il ricorso al lavoro nero. Il caso dei “voucher”, i buoni lavoro, dimostra che quando si offrono alle imprese degli strumenti flessibili per regolarizzare il lavoro, si ottengono grandi risultati. In sintesi: meno repressione e più controlli». Come si può definire il nuovo ruolo dell’Inps nella gestione e nell’erogazione degli ammortizzatori sociali? «Si è costituita in questi giorni una vera e propria task force tra il ministero del Lavoro e l’Inps per organizzare una presenza capillare sul territorio, e a livello centrale, per far fronte a tutti gli eventuali segnali di crisi aziendale. Il recente accordo Stato-Regioni sui nuovi ammortizzatori sociali, ossia la cassa integrazione in deroga, affida sempre all’istituto il ruolo centrale di monitoraggio e di acceleratore LAZIO 2009 | DOSSIER
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SISTEMI PREVIDENZIALI Antonio Mastrapasqua
sulle procedure in atto che si svolgono con il contributo di soggetti diversi, Stato e Regioni, e di fondi diversi, di fronte ai quali la precisa rendicontazione e la celere evasione delle pratiche sarà di vitale importanza. L’obiettivo prioritario è operare una drastica diminuzione dei tempi di attesa per l'erogazione della cassa integrazione: della media attuale di 130-150 giorni ai 30 giorni dagli accordi negoziali stipulati tra le rappresentanze delle parti sociali». In che direzione si muove o dovrebbe a suo parere muoversi la previdenza italiana? «Il confine tra previdenza e assistenza si mostra sempre più labile. Il futuro sistema di Welfare anche in Italia si dovrà proporre di accompagnare i cittadini in ogni fase della loro vita, sia quando si tratta di assisterli nei momenti critici, sia quando si tratta di restituire sotto forma di prestazioni previdenziali i contributi versati nel corso della vita lavorativa. L’obiettivo delineato dal Libro Verde del ministero del Lavoro resta quello dell’inclusione: la società attiva è l’orizzonte nel quale si muove il futuro del sistema previdenziale. La crisi di questi giorni rende la prospettiva più oscura, ma si tratta solo di una congiuntura difficile che l’Italia e gli italiani sapranno superare, come hanno già fatto tante volte nel passato. Compito dell’Inps è favorire la costruzione della fiducia, assicurando tutele e servizi alla società attiva». Come valuta la possibile equiparazione dell’età pensionistica di uomini e donne? «In sostanza, esiste già un’equiparazione dell’età di pensione tra uomini e donne: entrambi vanno mediamente in pensione intorno ai 60 anni. I primi per anzianità, le seconde per vecchiaia. Il tema è balzato all’ordine del giorno per la sentenza della Corte di Giustizia europea che riguardava però solo i dipendenti pubblici. Nel settore privato, l’equiparazione dell’età di DOSSIER | LAZIO 2009
pensione per uomini e donne rischia di perpetuare una sostanziale sperequazione a danno della donna. Quando si parla di questo tema bisognerebbe mettere mano a tutto il sistema del welfare: sulla donna grava, di fatto, l’assistenza familiare per i figli così come per gli anziani. Allontanare l’età di pensione delle donne avrebbe un senso solo nel momento in cui si desse attuazione agli obiettivi del loro pieno inserimento nel mondo del lavoro». Perché secondo lei non è necessario toccare la riforma delle pensioni? «Sulla riforma delle pensioni hanno competenza il Parlamento, il governo e le parti sociali, non certo il presidente dell’Inps. Mi permetto solo di rammentare che un troppo frequente intervento
su questa materia rischia di incrinare il necessario rapporto di fiducia tra generazioni: il sistema delle pensioni ha bisogno di tempi certi. Fare riforme ogni due anni rischia di compromettere la capacità di guardare al futuro con la necessaria fiducia e certezza. L’ultimo intervento risale alla fine del 2007. C’è poi una considerazione del momento storico in cui viviamo: è in atto una crisi economica e occupazionale che richiede risposte rapide e possibilmente condivise. Rimettere mano a una riforma delle pensioni innescherebbe un necessario confronto sociale, capace di generare dibattiti e distinzioni che rischierebbero di far perdere tempo e compromettere l’auspicabile unità di intenti di fronte all’urgenza della situazione».
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SOSTENIBILITÀ Stefania Prestigiacomo
AMBIENTE E SVILUPPO UN BINOMIO NATURALE Se fino a poco tempo fa la tutela ambientale era considerata da più parti un freno alla crescita economica oggi può esserne il motore. Il perché e il come sia possibile direttamente dalle parole del ministro Stefania Prestigiacomo LARA MARIANI
a più parti in Europa e nel resto del mondo si parla della green economy come dello strumento per fronteggiare la crisi economica e contemporaneamente lanciare un nuovo modello di sviluppo sostenibile. E forse proprio la crisi può essere lo stimolo per indirizzare l’economia verso uno sviluppo ecosostenibile. L’ambiente sta diventando in tutti i paesi la chiave per guardare al futuro. I progressi tecnologici stanno dimostrando che ecologia ed economia possono procedere parallele, nella stessa dire-
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zione ed essere i binari su cui far correre la locomotiva del mondo contemporaneo. Capaci di sostenere l’economia, i posti di lavoro e quindi i redditi delle famiglie. «Sono fermamente convinta che la tutela dell’ecosistema, purtroppo intesa per anni come limite allo sviluppo, possa diventare il cardine del sistema stesso, l’elemento ordinatore di tutti i grandi temi, dall’economia alla politica». Questa è la sua idea, il suo progetto, il suo scopo. E non si stancherà di battersi per rendere possibile il suo “ambientalismo”, fatto di operati-
vità, ricerca e investimenti. Ma anche di coesione e coinvolgimento dei cittadini. Dagli incentivi per sostenere le rinnovabili, all’obiettivo primario di ridurre le emissioni di Co2 fino a un possibile ritorno al nucleare, ecco le posizioni del ministro Prestigiacomo. E i suoi programmi per il prossimo G8 Ambiente di Siracusa, incontro dei ministri dell’ambiente, in vista del vertice de La Maddalena. La green economy è una via possibile anche per l’Italia? «Il governo sta delineando una strategia chiara e coerente per af-
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STEFANIA PRESTIGIACOMO Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio LAZIO 2009 | DOSSIER
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SOSTENIBILITÀ Stefania Prestigiacomo
DONNE AL VERTICE Il ministro Stefania Prestigiacomo con Daniela Santanchè
frontare la crisi coniugando ambiente e sviluppo, anzi trasformando l’ambiente in un motore di sviluppo. Basti pensare alle misure per le auto, mirate al ricambio del parco veicoli con la sostituzione delle vetture inquinanti con auto nuove a basse emissioni, al provvedimento per la rottamazione dei vecchi elettrodomestici ad alto consumo energetico e al mantenimento e alla semplificazione delle esenzioni per la riqualificazione ambientale degli edifici. Inoltre il piano casa innescherà un profondo rinnovamento del patrimonio edilizio sotto il profilo dell’ecosostenibilità degli edifici. Sono tutti interventi che si muovono nella stessa direzione. L’obiettivo è quello di sostenere l’economia, i posti di lavoro e quindi i redditi delle famiglie, attraverso misure capaci di migliorare incisivamente anche il nostro bilancio energetico e ambientale, in grado di arricchire il Paese di tecnologie, professionalità e valori essenziali per un domani ecosostenibile». DOSSIER | LAZIO 2009
«UN’EUROPA DI VIRTUOSI IN UN MONDO CHE NON ASSUME IMPEGNI ANALOGHI SERVE A POCO. CREDO CHE I GRANDI TEMI LEGATI ALL’AMBIENTE DEBBANO ESSERE AFFRONTATI A LIVELLO GLOBALE» Quali obiettivi si pone per la prossima riunione dei ministri dell’Ambiente del G8 che si terrà a Siracusa? «I cambiamenti climatici e la biodiversità saranno al centro del dibattito del G8 Ambiente che si terrà a Siracusa dal 22 al 24 aprile. I riflettori saranno puntati anche sulle nuove tecnologie per ridurre le emissioni di CO2, da diffondere anche nei Paesi in via di sviluppo per combattere tutti insieme, uniti, la grande battaglia a tutela dell’ecosistema. L’effetto serra e l’inquinamento in generale, infatti, non possono essere affrontati solo da pochi Paesi: un’Europa di virtuosi in un mondo che non assume impegni analoghi serve a poco. Credo che i grandi temi legati all’ambiente debbano essere
affrontati a livello globale, trattando con grandi inquinatori come la Cina e l’India, e il prossimo banco di prova sarà proprio il G8 Ambiente». Il pacchetto “clima-energia 2020-20” approvato dal Parlamento europeo il dicembre scorso prevede di ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, di portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili. Dopo le discussioni e le trattative, come riuscirà l’Italia a rispettare i vincoli imposti dal pacchetto? «L’approvazione del pacchetto clima-energia ha rappresentato una grande prova di coesione dell’Europa. Dopo un confronto serrato, intenso e approfondito, l’Unione
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europea ha saputo assumere posizioni forti e unitarie. L’Italia ha visto riconosciute le proprie ragioni: abbiamo ottenuto modifiche nella direzione dell’equità, della sostenibilità economica e ambientale e della tutela degli interessi nazionali nell’ambito dei condivisi obiettivi europei. Il governo italiano è determinato nell’imprimere un forte cambiamento di rotta nella lotta agli sconvolgimenti climatici. La risposta ai ritardi accumulati in questi anni, durante i quali le emissioni invece di diminuire sono aumentate, sta nell’adozione di politiche che portino al ‘mix energetico’, dando più spazio alle fonti rinnovabili, favorendo il risparmio dell’energia e contenendo le emissioni di gas serra grazie alle nuove tecnologie. Vanno in questa direzione, ad esempio, lo sgravio del 55% per le ristrutturazioni e gli accordi con grandi partner per favorire le ricerche su ‘cattura e stoccaggio della CO2».
Quali interventi ha in programma il suo ministero per il sostegno e lo sviluppo del settore delle energie rinnovabili? «La ricerca e gli investimenti nelle tecnologie legate alle rinnovabili è uno dei settori in crescita in Europa e in Italia. Fa parte del programma di governo la promozione di questo tipo di energia, con la consapevolezza che per l’Italia è indispensabile seguire la strada dello sviluppo sostenibile. Ci sono concrete agevolazioni per chi investe in questo campo. Tra l’altro, il ministero dell’Ambiente ha stanziato nei mesi scorsi dieci milioni di euro per un bando di ricerca sull’efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili diretto a enti pubblici e privati e altri dieci milioni di euro per il finanziamento di progetti di ricerca finalizzati a interventi di efficienza energetica e all’utilizzo delle rinnovabili in aree urbane. La scelta per l’energia pulita è per il nostro Paese non più
un’opzione ma una necessità». A livello di opinione pubblica, crede si stia diffondendo una cultura della sostenibilità? «La consapevolezza delle amministrazioni e dei cittadini in campo ambientale è cresciuta e questo deve spingere ancora di più a promuovere la tutela e la valorizzazione della natura come patrimonio culturale e formativo degli italiani, soprattutto dei giovani, per favorire politiche di sviluppo sostenibile, di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, di concreto e immediato risparmio per il Paese. Vanno in questo senso le campagne di sensibilizzazione del ministero dell’Ambiente destinate a divulgare le ‘buone pratiche’ per far sì che la tutela dell’ambiente diventi sempre più terreno comune. L’educazione ambientale è uno dei pilastri della nostra politica di governo». Per mesi si è parlato della necessità di un ritorno al nucleare. Qual è la sua posizione? «Il progetto del governo per il ritorno al nucleare si svolgerà con le massime garanzie e i massimi controlli, nei tempi richiesti dalla complessità di un simile programma. La Germania, la Francia, l’Inghilterra, così attente all’ambiente, si sono affidate al nucleare e hanno consolidato le loro scelte energetiche con governi di ogni colore. Sono Paesi che hanno saputo far prevalere le ragioni degli interessi complessivi sulle scelte ideologiche. I nostri concorrenti mondiali che hanno adottato il nucleare pagano l’energia molto meno di noi, sia per i consumi privati sia per quelli industriali, mentre l’Italia è gravemente penalizzata. Tuttavia il nucleare è una soluzione di prospettiva. Nel frattempo dobbiamo risparmiare energia, promuovere le rinnovabili e utilizzare combustibili meno inquinanti. Tutte queste misure fanno parte degli impegni del governo. Nella consapevolezza che dobbiamo impegnarci per ciò che nessuno in passato è riuscito a fare nel nostro Paese: ridurre le emissioni di CO2». LAZIO 2009 | DOSSIER
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AFFARI Manlio Cerroni
LA RICCHEZZA DEI RIFIUTI Manlio Cerroni, fondatore e presidente del Gruppo Sorain Cecchini, parla della discarica romana. Svela la tempistica per la costruzione del nuovo, e discusso, gassificatore. E racconta come pubblico e privato collaborino nella gestione dei rifiuti. Laziali e non solo ANDREA PIETROBELLI
ttorno al suo nome, complice un’innata riservatezza, i giornali e le televisioni hanno costruito una figura quasi mitica. Gli appellativi sono tanti: “re monnezza”, “signore di Malagrotta”, “l’ottavo re di Roma”. Ma Manlio Cerroni, storico imprenditore tra i più influenti nel business dei rifiuti, non sembra aversene a male. «Anzi – spiega quasi divertito – la prendo quasi come un complimento. Del resto – continua – sono più di 60 anni che faccio questo lavoro urbi et orbi. A oggi il nostro Gruppo ha smaltito oltre 100 milioni di tonnellate di rifiuti». Il Gruppo in
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questione è quello Sorain Cecchini di cui Manlio Cerroni è fondatore e presidente. Una galassia di società per la gestione, lo stoccaggio e la trasformazione dei rifiuti che opera in tutto il mondo. E che a Roma possiede la discarica più grande (e discussa) d’Europa, quella di Malagrotta, 160 ettari, dichiarata esaurita da tempo, ma la cui chiusura viene continuamente prorogata. Presidente, ma quali sono i tempi plausibili per decretare la chiusura definitiva di questa discarica? «Malagrotta oggi non è più la discarica di un tempo che doveva ri-
cevere tutti i rifiuti tal quali, oltre i fanghi derivati dagli impianti di depurazione della città. Dal primo gennaio 2008 non riceve più i fanghi; parte dei rifiuti vengono lavorati negli impianti di trattamento meccanico biologico e così a Malagrotta giungono solo i residui di lavorazione stabilizzati e igienizzati. Oggi svolge con regolarità e senza disagio per i residenti delle zone circostanti il suo lavoro. La chiusura avverrà man mano che i singoli lotti siano stati utilizzati nelle volumetrie autorizzate; alla chiusura seguirà la ricopertura secondo un piano, il cosiddetto capping, approvato e autorizzato dalla
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OTTAVO RE DI ROMA Manlio Cerroni, fondatore e presidente del Gruppo Sorain Cecchini
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AFFARI Manlio Cerroni
Regione Lazio nel giugno scorso. Al termine, nel giro di quattro o cinque anni, diverrà un grande Parco verde con la piantumazione di oltre 300mila piante». Si continua a ripetere che è solo grazie a Malagrotta se Roma non si trova nella stessa condizione di Napoli. Lei come vive questa responsabilità? «In maniera serena, ma determinata. Voglio ricordare che con l’appalto concorso della fine degli anni 50 l’amministrazione comunale aveva affidato a quattro diverse società il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani dei quadranti in cui era stata divisa la città. Nel 1964 erano stati realizzati e messi in esercizio i primi due impianti industriali di smaltimento di Ponte Malnome per i quadranti ovest e nel 1967 realizzati e messi in esercizio gli altri due impianti industriali di Rocca Cencia per i quadranti est. Nel 1974 la giunta di centrosinistra aveva voluto la gestione pubblica del servizio di trasporto e nel 1979, con la giunta di sinistra, l’amministrazione comunale aveva disdetto l’appalto ai privati e rilevato gli impianti affidandone la gestione a una società a maggioranza pubblica. Impianti andati però in pochi anni in tilt e chiusi anche a causa del mancato adeguamento alla normativa sui rifiuti. In questo contesto agli inizi degli anni 80 nasce la discarica di Malagrotta come soluzione necessaria per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e assimilati della città e, per alcuni periodi, di gran parte della Regione Lazio». Parliamo del nuovo gassificatore di Malagrotta. Polemiche, un sequestro, analisi. Ma a suo parere che natura hanno tutti gli ostacoli che hanno rallentato i lavori? «La realizzazione del gassificatore può aver procurato all’avviamento momenti di problematicità tra i vari organi di controllo chiamati in causa: Regione, Arpa, Vigili del Fuoco, Ispettorato del Lavoro, Asl, e altri. Forse la natura dell’impianto stesso, opera realizzata per la prima volta in Italia, può avere DOSSIER | LAZIO 2009
creato perplessità. Una cosa è oggi acquisita: i valori di emissione certificati collocano l’impianto ai primi posti di una ipotetica graduatoria mondiale». Quando prevede la messa a regime dell’opera? «Ritengo che l’opera, con la realizzazione delle altre due linee, possa essere completata e messa a regime entro la fine del 2010». Anche il progetto per il termocombustore ad Albano è nato tra le polemiche. Crede che si dovranno superare gli stessi ostacoli incontrati nel progetto del gassificatore prima di poterlo vedere all’opera? «Mi auguro di no. Certo è che l’esperienza di Malagrotta può contribuire a facilitarne l’iter anche presso gli enti preposti all’autoriz-
zazione e al controllo. La prima linea del gassificatore è prevista entro il 2010, tutto il complesso entro il 2011». L’obiettivo della regione Lazio è di arrivare entro il 2011 al 50% della raccolta differenziata. Un traguardo possibile? «Già altre volte ho parlato in termini positivi di una raccolta differenziata al 35%, sempre che si provveda alla raccolta differenziata dell’organico. Può andar bene anche il 50%, qualcuno prevede addirittura il 65% entro il 2013, sempre però che concorrano due condizioni: che siano disponibili le risorse economiche per organizzare tutta la filiera della raccolta differenziata per i quantitativi programmati e, più ancora, che le materie raccolte, attraverso impianti dedicati, vengano trasformate in materie prime-seconde per le industrie. Allo stato, queste condizioni mancano. Una sola riflessione: delle oltre 7.500 tonnellate di rifiuti che la Regione Lazio produce ogni giorno, più della metà dovrebbe essere raccolta separatamente e lavorata negli
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impianti dedicati. Sarebbe una rivoluzione». Il suo ha le sembianze di un vero monopolio romano nello smaltimento dei rifiuti. «Non vedo alcuna situazione di monopolio. Le mie imprese non possiedono esclusive di sorta e sul mercato c’è Ama, con alle spalle un socio come il Comune di Roma. D’altronde non esiste nessun monopolio, i rifiuti non hanno colore, essi sono il testimone insubornabile, il termometro della vita civile. Roma è strutturata con quattro impianti di trattamento meccanico biologico: Malagrotta 1 e Malagrotta 2 realizzati e gestiti dal Colari, Rocca Cencia e Salario realizzati e gestiti da Ama». Come si sono declinati i suoi rapporti con la politica in questi anni? «Sono stati rapporti buoni e rispettosi con tutti. Recentemente ho incontrato il sindaco Alemanno e ho avuto modo di ricordare che, negli anni, tra sindaci, commissari straordinari e assessori anziani ho avuto rapporti con più di 30 persone al vertice dell’amministrazione della città. Ho avuto sempre e solamente una preoccupazione:
rendere al meglio il servizio a Roma. Sono tanto convinto di esserci riuscito che nella recente trasmissione di Report del novembre scorso su Rai 3, a domanda, ho risposto di sentirmi un “benefattore”; peccato che la trasmissione ne abbia tagliate le motivazioni». Alemanno sembra però deciso a farle concorrenza. Potrebbe cambiare qualcosa se il settore pubblico entrasse nel mercato dei rifiuti? «In realtà a Roma il pubblico è già impegnato perché i due impianti di trattamento meccanico biologico di Rocca Cencia e Salario sono di proprietà dell’Ama e nel gassificatore di Albano il pubblico, Ama-Acea, ha il 67%. Insomma Roma già oggi ha due cavalli allineati alla partenza: l’uno pubblico, l’altro privato». Quella dei rifiuti in Campania è stata una vera e propria emergenza. Come giudica l’operato del governo? «Per la Campania avevamo appoggiato, a suo tempo, l’Associazione Temporanea d’Imprese con Enel e Foster Wheeler che aveva proposto la soluzione del problema, come richiesto dal bando di gara. Il no-
stro progetto aveva riportato, dal punto di vista tecnico, un voto di 8,5 su 10. Purtroppo, è noto come sono andate le cose. Nella situazione che si era venuta a creare, divenuta del tutto ingovernabile e con pessime ripercussioni anche all’estero, il governo ha affrontato, senza tentennamenti, l’emergenza facendo ricorso alle discariche, proteggendole, e sollecitando il completamento dell’impianto di Acerra. In questi giorni sta per essere avviata la prima linea. Per parte sua la Regione Campania sta chiedendo agli imprenditori del settore una proposta di revisione degli impianti per metterli in condizione di procedere a norma di legge al trattamento meccanico biologico. Stiamo esaminando con imprenditori italiani e stranieri la possibilità di realizzare un pool per formulare una interessante proposta globale, una soluzione industriale definitiva che assicuri per qualche decennio il trattamento dei rifiuti campani nel rispetto della normativa europea». Ma come è cominciata la sua avventura nel business dei rifiuti? «Come studente lavoratore, a Roma nel settembre del 1946, nella Satur, che aveva l’appalto dal Comune per la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti del quadrante nord-est della città. Aveva sede nel quartiere Prati, in Via Ennio Quirino Visconti. Il vecchio palazzo, sede del Pontificio Collegio Leonino, ora non esiste più, al suo posto c’è un moderno complesso per uffici; tra i tanti, c’è la sede della Cassa Nazionale Forense». E poi ha costruito un impero che opera in tutto il mondo. «Non c’è nessun impero, solo tanto lavoro. Dopo la visita ai nostri impianti delle delegazioni canadese e australiana, con Canada e Australia abbiamo trattato e chiuso i contratti a mezzo fax, portando in giro per il mondo esperienze, know how e macchinari messi a punto e sperimentati fin dagli anni 60 negli impianti romani. Oggi siamo operativi in Inghilterra, Spagna, Francia, Venezuela ed Emirati Arabi». LAZIO 2009 | DOSSIER
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CRONACHE DALLA PRIMA REPUBBLICA Massimiliano Cencelli
IL BIPOLARISMO MI PIACE MA RIMPIANGO LA DC Ha ideato il manuale che ha stabilito la spartizione di cariche e poltrone nella vita politica italiana. Massimiliano Cencelli ragiona su Pdl e Pd. Ricorda la Prima Repubblica. E i suoi protagonisti. Che, afferma, «se scendessero in campo oggi sarebbero ancora seguiti» ANDREA PIETROBELLI
l manuale Cencelli fa parte ormai della mitologia della storia politica italiana. Ancora oggi, quando si tratta di spartizione di cariche e poltrone, la sua perfezione algebrica risulta essere il metodo più efficace per mettere tutti d’accordo. «Nonostante gli anni, alla fine il mio maledetto manuale viene quasi sempre tirato fuori dal cassetto e applicato». Ci scherza un po’ su Massimiliano Cencelli, inventore del celebre sistema. «Funziona ancora perché permette di calcolare con precisione, evitando diatribe e lotte, la divisione matematica dei poteri» sottolinea con una punta di orgoglio. Tant’è che non sono pochi quelli che gli chiedono una riedizione, un aggiornamento, un nuovo metodo tarato sulla situazione politica dei nostri giorni. «È vero che molti mi fanno questa richiesta – ammette – ma adesso tutti i miei documenti sul manuale li ho depositati al Centro don Sturzo. In questo momento sto pensando di lavorare su una cosa differente. Non il manuale Cencelli secondo, ma un libro di memorie, dove raccontare storie e aneddoti della Prima Repubblica». Il titolo? «Potrebbe essere Il manuale Cencelli visto da Cencelli o Il nuovissimo Cencelli. Ci sto ancora lavorando». Lei ha anche recentemente lavorato sulla nuova edizione della
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Navicella, il who is who delle istituzioni che da 61 anni racconta tutto o quasi di parlamentari e ministri. Alla luce della sua esperienza, che effetto le ha fatto conoscere i politici di oggi? «Innanzitutto la prima cosa che salta agli occhi è che di politici della Prima Repubblica ne sono rimasti davvero molto pochi. I volti sono cambiati. Io ho la raccolta degli ultimi trent’anni della navicella e ogni tanto la sfoglio. Mi rendo conto che molti di questi nuovi parlamentari sono ignoti alla massa della popolazione e dell’elettorato». È normale che sia avvenuto un ricambio generazionale. Si faranno conoscere col tempo. «Non voglio entrare in merito alla loro bravura, non sta a me giudicare. Certamente le loro esperienze sono molto di meno rispetto ai colleghi della Prima Repubblica. Anche se, per essere precisi, la Repubblica è ancora la Prima. Non mi risultano siano avvenute riforme costituzionali. Comunque durante i lavori di questa ultima edizione ho avuto modo di leggere le biografie di tutti i parlamentari e, se si vuole sapere il giudizio di un 70enne, sono abbastanza perplesso». Per quale motivo? «Perché vedo che molti dei parlamentari sono stati nominati, non eletti. Senza sapere quali sono le
loro reali esperienze e competenze. Con questa nuova legge elettorale potrebbero dare a un romano un collegio piemontese, con la conseguenza che magari questo politico avrà difficoltà ad andare nel territorio e, nel peggiore dei casi, potrebbe non andarci mai. In ogni caso sarà difficile per questi parlamentari conoscere al meglio i reali problemi che vive la zona che li elegge. Invece, nel passato, i parlamentari vivevano il territorio, lo presidiavano, ne conoscevano le necessità e in qualche caso, anche gli stessi cittadini». E invece adesso? «Adesso mi sembra che i parlamentari non siano più eletti come dice la nostra Costituzione, ma vengono nominati. Come nello stato Vaticano, che prende 50 prelati, mette loro lo zucchetto rosso in testa e li nomina cardinali. A mio parere bisogna tornare al vecchio sistema elettorale con le preferenze. Sono dell’idea che sia l’unico modo in grado di permettere ai cittadini di esprimere il loro pensiero, scegliendo un candidato per la sua bravura, o perché è l’unico a conoscere le loro necessità e problemi». Ma oltre ai politici, non crede sia cambiato anche l’elettorato nel corso di questi anni? «Penso che sia questo sistema elettorale ad aver creato un solco tra il
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CRONACHE DALLA PRIMA REPUBBLICA
MASSIMILIANO CENCELLI Autore del celebre manuale che organizzava matematicamente la spartizione degli incarichi di governo
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CRONACHE DALLA PRIMA REPUBBLICA Massimiliano Cencelli
AI TEMPI DEL GRANDE CENTRO Massimiliano Cencelli con Giuseppe Sangiorgi alla presentazione del libro di Arnaldo Forlani Potere discreto, 50 anni con la Democrazia
popolo e la classe politica dirigente. Ai miei tempi Adolfo Sarti, di cui ero capo di gabinetto, aveva 580 comuni nel suo collegio. Se li girava uno per uno, conosceva gli elettori e le loro esigenze. Aveva un rapporto diretto, vivo, coi cittadini. Perché se il parlamentare non soddisfaceva l’elettore la volta successiva non veniva eletto. Oggi i cittadini non riescono a far sentire la propria voce. Se continuiamo così, ci troveremo con altri quattro fenomeni-Grillo». Lei sembra un irriducibile nostalgico. «Recentemente sono andato alla presentazione del libro di Forlani, Potere discreto. Cinquant'anni con la Democrazia Cristiana. Ho visto gran parte della vecchia classe politica dirigente, da Andreotti a Emilio Colombo. C’erano tutti. Non ho potuto fare a meno di fare delle considerazioni: sono convinto che se questa generazione di politici tornasse sulla piazza la gente li seguirebbe ancora». A proposito di Dc, molti vedono nel Pdl l’erede del grande partito di De Gasperi. «Io credo che la Dc sia stata un fatto unico, irripetibile: per culDOSSIER | LAZIO 2009
tura, mentalità politica e gestione del potere. Un partito nato in un determinato contesto storico e politico. Infatti in Germania e Francia non esisteva nulla di simile. La Democrazia Cristiana in Italia era una barriera al comunismo. In 50 anni di attività mi dicevo spesso: “Speriamo che non cada mai il muro di Berlino, perché coinciderà la fine del nostro partito”. E così avvenne». Oggi i comunisti non fanno neanche più parte dell’arco parlamentare. «Ma in Italia il comunismo, come il fascismo, non esistono più. Non capisco come si possa accusare ancora qualcuno di essere cattocomunista o clericofascista. Ormai ci sono solo partiti democratici che oltretutto hanno una visione delle politiche economiche non troppo divergenti». E del bipolarismo, invece, cosa ne pensa? «Sono favorevole a un bipolarismo che dia alternanza nella gestione della cosa pubblica. Chi fa bene viene riconfermato, se no va a casa. Ma al momento c’è ancora squilibrio». In che senso?
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«Nel senso che il Pdl ha avuto la fortuna di trovare in Berlusconi la figura capace di accorpare e catalizzare tutte le forze politiche che hanno deciso di far parte del progetto. Il Pd invece è ancora in fase organizzativa e deve trovare un leader. D’altra parte partiti così grandi si costruiscono in due, tre anni. Ci vuole un processo storico». Il centrosinistra, a differenza del Pdl, vive il problema cronico della litigiosità. «Certamente questo è un grosso ostacolo. Vedo ancora molte diatribe nel Pd. Mi ricordo il povero Governo Prodi: faceva il Consiglio dei ministri e tutti erano d’accordo. Fuori da quelle stanze poi cominciavano le lotte intestine». Anche nella Dc c’erano numerose lotte interne, eppure è sempre apparso un partito compatto. «Questione di cultura politica e di leader. Nella vecchia Dc c’era una discussione sempre viva, a volte aspra. Tutti litigavano. Poi c’era il segretario di partito. Sentiva tutti, mediava e aveva una grande capacità di sintesi. Riuniva tutte le idee e la Dc usciva dalla direzione con un documento unico al quale tutti si attenevano. Altri tempi».
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TV E TECNOLOGIE Rai Way
IL DIGITALE TERRESTRE È PRONTO A PARTIRE Un nuovo approccio all’informazione e all’intrattenimento. Una tecnologia che rivoluzionerà i consumi televisivi e radiofonici. È questo il digitale terrestre che sta per sbarcare nel Lazio e in altre quattro regioni italiane. Il punto della situazione di Francesco De Domenico, presidente di Rai Way, la società che segue la transizione del segnale dall’analogico MATTEO PERVICINI
era del digitale terrestre sta per cominciare anche nel Lazio. Lo assicura Francesco De Domenico, presidente di Rai Way, la società che sta curando per la Rai la fase di transizione dall’analogico al digitale su tutto il territorio nazionale. La nuova tecnologia arriverà presto anche nelle case e sui teleschermi dei cittadini laziali, nonostante alcuni rallentamenti dell’ultima ora. «Il calendario ufficiale – spiega il professor De Domenico – prevede di fare lo switch over, ovvero lo spegnimento di Rai Due e Rete 4, entro la fine di questo giugno, mentre lo switch off di tutte le emittenti analogiche è previsto fra novembre e dicembre. Le scadenze dello switch over saranno confermate, mentre esistono alcuni dubbi per quanto riguarda lo switch off, ovvero lo spegnimento totale del segnale». Un’incertezza dovuta al fatto che la Commissione Europea ha determinato che Rai e Mediaset non possono avere sei multiplex come è accaduto, invece, nella regione pilota della Sardegna, ma dovrebbero averne uno o due in meno. «Questo confronto – riconosce De Domenico – sta rallentando tutto il processo di assegnazione delle frequenze. E quindi non solo il Lazio, ma anche Piemonte, Trentino e Valle d’Aosta attendono che si trovi
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DIGITALE LAZIALE Il professor Francesco De Domenico, presidente di Rai Way
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una soluzione. Noi comunque speriamo di poter confermare i tempi fissati per lo switch off». Presidente, quali sono state a oggi le maggiori difficoltà che state incontrando per portare il digitale terrestre sul territorio regionale? «La difficoltà principale l’abbiamo incontrata a Roma. Nella Capitale, infatti, esiste una situazione di ricezione televisiva che al momento è ancora molto confusa. Ci sono antenne orientate su Monte Mario, su Monte Cavo o su Velletri. Inoltre esiste anche una carenza di frequenze, perché esistono molte emittenti locali romane. L’operazione che stiamo facendo adesso riguarda l’intero Lazio, a eccezione della provincia di Viterbo che per motivi interferenziali è stato deciso di aggregare alla Toscana. In quest’ultimo caso, il digitale terrestre partirà un anno dopo, nel 2010». Che tipo di collaborazione è stata avviata per risolvere queste difficoltà fra Rai Way e gli enti locali del territorio laziale? «Al momento per risolvere l’affollamento di antenne e frequenze presente a Roma è stato istituito un tavolo tecnico con il ministero dello Sviluppo Economico/Comunicazioni. Vedremo come andrà,
«IL DIGITALE TERRESTRE SI BASA SUL PRINCIPIO ALL OR NOTHING. QUINDI, O IL SEGNALE SI VEDE BENISSIMO OPPURE NON SI VEDE» anche se purtroppo al momento il tavolo ha rallentato i propri lavori a causa della situazione d’incertezza determinatasi sui multiplex». Quali saranno principali vantaggi in termini di qualità di ricezione del segnale e di servizi offerti porterà il digitale terrestre di Rai Way? «Sicuramente la qualità e l’affidabilità del segnale digitale che è sempre stabile. Il digitale terrestre, infatti, si basa sul principio all or nothing. Quindi, o il segnale si vede benissimo oppure non si vede. In secondo luogo, aumenta il numero dei canali gratuiti a disposizione dell’utente finale». Quale, invece, la tempistica per quanto riguarda la radio digitale, nota anche come Dmb. Questa tecnologia viaggerà a braccetto con il digitale terrestre? «L’introduzione della radio digitale segue i tempi della televisione. Quindi, finché non si liberano le frequenze attualmente occupate dalla Tv analogica anche
la radio deve aspettare. Per cui, fino a quando esisterà un ritardo per il digitale terrestre televisivo determinato dall’intervento della Commissione europea, slitteranno i tempi anche del Dmb. Confidiamo, comunque, che la situazione si sblocchi in tempi brevi». Ritiene che i cittadini laziali siano stati informati adeguatamente del passaggio al digitale terrestre? Voi di Rai Way che azioni di promozione avete sinora intrapreso per far conoscere la nuova tecnologia presto a disposizione in Regione? «Esiste già uno spot televisivo che va in onda sulle reti generaliste e informa i cittadini che entro la fine dell’anno il digitale terrestre verrà attivato in cinque regioni italiane, Lazio, Campania, Piemonte, Trentino e Valle d’Aosta. In seguito è probabile che la Rai decida di avvisare i propri abbonati singolarmente disponendo dei loro nominativi». LAZIO 2009 | DOSSIER
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LA VOCE Mario Cervi
MAESTRO Mario Cervi, 88 anni, è una delle penne piÚ brillanti del giornalismo italiano. Ex direttore de Il Giornale, che con Indro Montanelli ha contribuito a fondare, ha iniziato la sua carriera nel 45 come cronista del Corriere della Sera
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LA VOCE
L’ITALIANITÀ ALLO SPECCHIO In Italia l’informazione è libera e di buona qualità. Anche se la strapotenza televisiva rischia di stravolgere le gerarchie dei valori della società. Una società alla quale Mario Cervi, ex direttore de Il Giornale e giornalista di profonda fede liberale, non risparmia critiche, a partire dal rimprovero di una cronica assenza di senso civico MARILENA SPATARO
Italia del Dopoguerra, una nazione prostrata, divisa e con innumerevoli ferite da rimarginare. Un Paese da ricostruire fin dalle fondamenta, nella società, nella politica e nell’economia. A raccontare le angosce di quel tempo, ma anche a condividere le speranze e la voglia di voltare pagina degli italiani, uno stuolo di giovani cronisti, di cui molti tornati dal fronte. Tra loro alcuni nomi, come quello di Mario Cervi, che diverranno famosi, segnando la storia del giornalismo e della cultura italiani. «Il giornalismo di allora confinava da una parte con la bohème, rappresentata da quei colleghi che facevano notte per il giro in questura e dove era possibile trovare la notizia, e dall’altra con la letteratura, di cui facevano parte importanti figure della cultura del tempo. In mezzo a queste due sponde c’erano poi i giornalisti più normali, quelli che concretamente facevano il giornale» ricorda, con un pizzico di nostalgia, l’ex cronista del Corriere della Sera, che quel mondo lo ha vissuto dall’interno e fino in fondo. È nella redazione della prestigiosa testata di via Solferino, che, infatti, Ma-
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rio Cervi inizia la sua carriera. Successivamente si occuperà di cronaca giudiziaria, seguendo i grandi processi. Mentre, come inviato speciale, assisterà a eventi internazionali che segneranno la storia. Legato da profonda amicizia con un’altra grande firma del giornalismo italiano, Indro Montanelli, con cui condivide oltre che la professione, anche un comune credo negli ideali liberali, nel 74 Cervi lascia il Corriere e insieme a Montanelli fonda Il Giornale dove ricoprirà incarichi di editorialista e inviato, poi anche di vicedirettore. Dopo una breve parentesi alla Voce, torna in via Negri da direttore. Ecco come nel racconto dei suoi cinquant’anni di carriera giornalistica Mario Cervi descrive l’Italia e gli italiani, indicandone vizi e virtù. Come vede, oggi, il nostro Paese, in due parole? «Sono molto pessimista, ma non da adesso. Ho sempre condiviso il giudizio di Montanelli, che sul suo ultimo libro L’Italia dell’Ulivo, scriveva: “Io non mi riconosco in questo Paese e questo Paese non si riconosce in me”. L’Italia, infatti, porta in sé da tempo immemorabile una grande tara che è la totale LAZIO 2009 | DOSSIER
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LA VOCE Mario Cervi
mancanza di senso civico. Un deficit che si ripercuote dappertutto, sia nella vita pubblica che in quella privata, determinando quelle situazioni non edificanti cui purtroppo assistiamo quotidianamente. Certo la corruzione esiste dappertutto come anche le disfunzioni amministrative, ma il carattere di sistematicità e cronicità presenti nel nostro Paese sono difficilmente eguagliabili in altre parti del mondo. Ovviamente tutto ciò non esclude che da noi ci siano altre qualità eccellenti, non ultime quelle di sopravvivere e di galleggiare. Ma, si sa, una nave che galleggia soltanto non riesce a trovare la rotta corretta per andare verso il porto giusto». Il Giornale nacque come uno spazio riservato all’espressione dei diversi volti della cultura liberale. Che significa, oggi, essere liberali? «Innanzitutto significa essere in pochi. I liberali sono sempre stati pochi, adesso sono pochissimi. Oggi predominano movimenti e slanci di massa, che magari sono anche apprezzabili e nobili, ma non hanno niente a che fare con quel senso delle Stato, delle istituzioni e della libertà e quindi del rispetto per il diritto degli altri oltre DOSSIER | LAZIO 2009
che per la rivendicazione dei propri diritti, che distingue il liberale. Ogni parte politica ha avuto nel tempo l’ambizione di tracciare e di dare indicazioni definitive e perfette, ma giammai quella di cercare faticosamente quel percorso che nasce dall’ascolto degli altri e da cui può scaturire una vera proposta politica». Insieme a Montanelli lei ha rappresentato una stagione d’eccezione del giornalismo italiano che oggi sembra inimitabile. Oggi cosa è rimasto di quella scuola? «La tendenza dei vecchi è di esaltare i tempi passati e di deprecare il presente. Penso che, tutto sommato, il giornalismo italiano sia di buona qualità e che nella categoria dei giornalisti, così tanto vituperata, in realtà si registrino meno casi di avidità di denaro, meno corruzione e meno sbandamenti rispetto ad altre categorie. Il giornalismo certo è cambiato. Oggi sia lo spazio della bohème che quello della letteratura, le due sponde che caratterizzavano una volta buona parte del mestiere, si sono molto assottigliati, mentre si è allargato quello della normalità e quindi i giornalisti sono molto più normali».
Quando ha capito che diventare giornalista sarebbe stata la sua strada? «Non l’ho mai capito, non ho avuto mai il sacro fuoco del mestiere o la vocazione, credo, infatti, che sarei potuto diventare anche un buon avvocato, notaio o altro. In realtà tornavo dalla guerra ed ero in cerca di lavoro, sono entrato al Corriere della Sera in seguito a una raccomandazione, come avviene spesso in Italia, da parte di un amico di mio padre che lì era stenografo. In quei momenti di convulsione, quando ormai la vecchia nomenclatura del Corriere era stata accantonata, si cercavano dei giovani ai quali affidare i lavori più modesti del giornalismo. Fu così, quasi per caso, che entrai a far parte di quel grande giornale». Nell’epoca della comunicazione istantanea, personalizzata e a portata di mano, che ruolo ricopre la carta stampata? «Stiamo ritornando alla situazione ottocentesca, quando la maggioranza era analfabeta, mentre solo la minoranza alfabetizzata leggeva giornali, faceva dibattiti e orientava anche l’opinione pubblica. Anche adesso la maggioranza è analfabeta, nel senso che il suo ali-
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LA VOCE
mento quasi esclusivo di informazione e di cultura è la televisione, mentre, come nell’Ottocento, c’è una minoranza che legge libri, giornali e si dedica alla cultura». Il sistema dell’informazione italiana ha luci e ombre. Quali sono oggi, ai suoi occhi, i suoi maggiori meriti e demeriti? «Mi pare incontestabile che l’informazione italiana sia libera, anche con tutte le colpe che gli imputiamo. Il panorama che emerge dalle varie testate giornalistiche è un panorama molto variegato e molto esauriente. Poi certamente l’informazione della carta stampata ha i difetti che ha anche lo spettacolo: una deformazione generalizzata che nasce dalla strapotenza televisiva. Ma questo fa parte dello stravolgimento delle gerarchie dei valori della società attuale». Italiani brava gente. Un modo di dire che oggi sottoscriverebbe? «Brava gente lo sottoscriverei. Ci sono popoli come quello inglese o il giapponese molto più crudeli, i quali, come faceva notare lo stesso Montanelli, si sono dati regole di comportamento ferree e un galateo molto severo per tenere a freno quegli istinti che potrebbero in alcuni momenti emergere. L’italiano
è meno pericoloso perché è più accomodante, più indulgente e più compromissorio: una virtù e un difetto insieme. Certo in qualunque popolo si trovano persone disposte a commettere le peggiori efferatezze in tutti i campi, ma, complessivamente gli italiani sono meno violenti e feroci di altri popoli, tuttavia meno disciplinati, e quindi meno feroci forse perché meno disciplinati. Se agli italiani viene dato un ordine di commettere azioni tremende riescono sempre a trovare una via d’uscita per evitarlo, in fondo la nostra aspirazione è di essere brava gente. L’essere brava gente, però, non va sopravvalutato, perché anche noi abbiamo commesso a suo tempo azioni orrende in guerra, solo che essendo propensi ad autoassolverci tendiamo a non ricordarle». Cosa la indigna di più e cosa la rende ancora orgoglioso dell’italianità? «Il talento degli italiani è grande, anche nelle cose minori. Nella creatività individuale credo che il nostro popolo sia migliore rispetto ad altri cui mancano le nostre qualità di fantasia e anche di duttilità e adattabilità. Quello che mi da fastidio è il rovescio di queste qualità, la duttilità e l’adattabilità
spesso coincidono con la mancanza di principi ovvero con la simulazione di principi che in realtà non si hanno. Una forma di ipocrisia che non condivido e che ritengo sia un brutto difetto anche se capisco che a volte aiuta a vivere più tranquillamente e a risolvere parecchi problemi». Di tutte le storie e vicende che ha seguito, e di cui ha fornito testimonianza sulle pagine del Corriere, prima, e del Giornale, poi, quale ricorda con maggiore emozione? «Il contatto con il pubblico quando seguivo la cronaca giudiziaria. Allora la gente partecipava e seguiva i grandi processi come poi ha seguito Dinasty o Dallas, dal punto di vista professionale questo procurava grande emozione e soddisfazione. Una scena struggente, e che ripensandola mi suscita ancora una grande tristezza, è quella cui ho assistito nel 70 durante l’alluvione in Bangladesh che in una delle isole del delta del Gange aveva provocato più di 100mila vittime. Oltre che dal diffuso senso di morte, rimasi profondamente colpito dallo sguardo terrorizzato e insieme rassegnato degli animali che premevano contro la staccionata tentando disperatamente di scappare». LAZIO 2009 | DOSSIER
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MEMORIA POLITICA Pino Rauti
CONTRO LE ABIURE Giuseppe Umberto Rauti, partecipò alla fondazione del Movimento Sociale Italiano alla fine del 1946 ed è stato segretario nazionale del Movimento idea sociale
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MEMORIA POLITICA
IL MODERNISMO DELLA DESTRA SOCIALE La cultura e la politica della destra italiana. E il percorso compiuto: dalla discussa svolta di Fiuggi fino alla confluenza del Pdl definita «conseguenza logica» della trasformazione del partito. Le riflessioni e gli appunti di Pino Rauti MARIALIVIA SCIACCA
a destra oggi riflette il tenore della politica italiana, basata sul bipolarismo, pur con le dovute differenze, e ha come prospettiva quella di divenire sempre più sociale, calata nel tessuto reale del Paese. Pino Rauti, che è stato uno dei primi a presentare proposte per un rinnovamento del suo partito in chiave sociale, analizza l’universo della destra italiana Si dice che la cultura di destra in Italia sia marginale rispetto a quella di sinistra. È davvero così? «Non è vero che la cultura di destra sia marginale: c’è e si manifesta ampiamente. Basta pensare a quello che si sta facendo per i beni culturali a Roma e non soltanto a
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Roma. Una posizione non egemonica dipende in gran parte dal fatto che per tutto il Dopoguerra la cultura predominante sia stata indubbiamente quella di sinistra. Questa situazione ha creato punti di forza e di riferimento che sono diventati abitudinari, anche dal punto di vista psicologico». Lei è uno dei pochi uomini di destra che in passato ha avuto la capacità di creare un movimento culturale, oltre che politico, che si è saputo opporre all’egemonia culturale della sinistra. Quali sono le basi teoriche e quali le correnti di pensiero da cui ha preso le mosse? «Sono basi attuali che stanno trovando un crescente riscontro nella realtà contemporanea. Invitai la
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MEMORIA POLITICA Pino Rauti
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destra a interessarsi di ambientalismo quando l’ecologia ancora non esisteva. Sono stato il primo a presentare alla Camera una proposta legge sulla valutazione dell’impatto ambientale. Fui il primo a richiamare l’attenzione sull’importanza mondiale delle foreste pluviali, un argomento praticamente sconosciuto allora. Tentai dal punto di vista organizzativo di dare un nuovo volto a quella che era la vita delle sezioni di partito, con qualche successo qua e là. Ci furono molte polemiche con Michelini prima e Almirante poi, ma il concetto che volevo promuovere era che le sezioni dovevano assumere un ruolo sociale, anche per sfuggire all’azione militante delle sinistre di cui teme-
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vamo l’accerchiamento. Proposi, ad esempio, che alcuni insegnanti tenessero corsi di ripetizione politica all’interno delle sezioni, che alcuni commercialisti assistessero i cittadini alle prese con la cartella fiscale. Insomma qualcosa di nuovo, che ebbe espressione nei Campi Hobbit». Lei ha dichiarato “non mi sento neofascista, il fascismo non è più ripetibile, è solo un giacimento della memoria al quale si può ancora attingere”. «Più vado avanti e più quel giacimento mi appare vasto, variegato, multiforme, adatto in qualche modo a essere recuperato. Oggi siamo quasi dovunque al famoso trinomio metropoli-necropolimegalopoli, mentre il fascismo
ebbe una decisa politica urbanistica, dal 32 in poi, che impediva la crescita magmatica dei centri urbani. La riscoperta dei centri minori, la rivalutazione di quelli che definiamo nel linguaggio corrente le tradizioni e i sapori locali furono concetti ampiamente sviluppati nel fascismo. Insomma c’è molto da rivedere, costruire e ritrovare». La mancanza della memoria e in particolare di una memoria condivisa ha inasprito e reso impossibile un dialogo tra le diverse parti della destra. Come si può superare l’empasse? «Con un recupero di elementi da quell’immenso giacimento che il fascismo è. Intendiamoci bene, io parlo a livello culturale, non poli-
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DESTRA STORICA Da sinistra, Romano Mussolini, Giorgio Almirante e Pino Rauti. Nella pagina a fianco, Rauti in compagnia della figlia Isabella
tico, perché non si può arrivare oggi a una ripetizione formale del fascismo. Quel regime era frutto di determinato momento storico, quindi non ripetibile nel presente. Mutate le condizioni dell’epoca, non può più avere luogo quello che fu il fascismo. Faccio alcuni grandi esempi: l’Italia allora era un Paese prevalentemente rurale, c’era una discrepanza profondissima tra i vari ceti sociali e i reduci della Prima Guerra mondiale avevano un peso rilevante nell’opinione pubblica. Oggi definirsi fascista a livello politico significa assumere un’etichetta vuota di significato». Pensa ci sia ancora spazio per una destra sociale oggi in Italia? «Il termine destra è un po’ riduttivo. Diciamo che comunque quella che si definisce “destra sociale” è l’unica prospettiva possibile per il futuro. Il comunismo è crollato, il capitalismo sta fal-
lendo, ci vuole assolutamente qualcosa di nuovo, occorre avere la capacità di fare un salto di qualità. È necessario capire la complessità drammatica dei problemi di fronte ai quali ci troviamo, che sono ostici nella loro novità. La difficoltà è che si tratta di problematiche ignote alle generazioni precedenti, ma sono drammaticamente operanti contro di noi». Lei ha aspramente criticato la svolta di Fiuggi. Come vede oggi la confluenza di Alleanza Nazionale nel Pdl? «La vedo come la conseguenza logica di quella svolta. A mio avviso si poteva fare a meno di tante rinunce, di tante abiure, di tante denunce di adeguamento alla parte peggiore del mondo avversario. Questo è stato un errore. Per cui adesso si arriva a quella confluenza non da un punto di forza ma da uno di debolezza».
Come giudica, in generale, la formazione di questa coalizione? «La vedo positiva, l’opinione pubblica si è abituata. Siamo in una società di massa e sono necessari grandi assembramenti politici. Si mette in conto che nelle grandi formazioni politiche ci sono, ci possono e ci debbono anzi essere punti di vista diversificati». Con il Pd e il Pdl, l’Italia sembra essere approdata a un bipolarismo maturo. La vita democratica ne perde o ne guadagna? «Mi sembra che la vita sociale ne guadagni, la vita democratica forse un po’ meno. Stemperando le differenze vengono spesso meno anche i contenuti culturali diversificati che arricchivano il panorama culturale della politica del nostro Paese in passato, e lo facevano indubbiamente molto di più di quanto accada oggi».
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CULTURA MANAGERIALE Claudio Pasini
STRATEGIE DIDATTICHE PER LA CLASSE DIRIGENTE Competenti, portatori di modernità e capaci di fare squadra. I manager sono una delle risorse su cui puntare per reagire alla crisi. Anche se le Pmi del nostro Paese guardano a questa categoria ancora con diffidenza. Claudio Pasini, presidente di Manageritalia, prova a spiegarne i motivi GIAN MARIA VOLTO
empi duri per i manager. C’è chi dice che sono strapagati, chi ne critica le reali competenze, chi ancora descrive questa categoria come immune alle reali sorti delle aziende in cui si trovano a operare. Una polemica che ciclicamente nasce anche nel nostro Paese. Eppure in Italia nel settore privato si contano solo 120mila dirigenti che operano, tra terziario e industria, in poco meno di 30mila aziende. Numeri alla mano, si tratta dello 0,9% dei dipendenti, rispetto al 3% di Francia e Germania e al 6% dell’Inghilterra. Insomma, l’azienda media italiana sembra impermeabile alla presenza, cultura e competenza manageriale. «È questo il vero freno alla crescita dell’economia e del Paese» afferma senza mezzi termini Claudio Pasini, presidente di Manageritalia, ribaltando così i luoghi comuni. «I manager italiani – aggiunge – sono apprezzati e cercati dalle aziende straniere e vanno all’estero proprio perché si riconosce loro una capacità non comune di gestire e muoversi nell’incertezza e di stimolare innovazione e capacità di adattamento. Anche perché il buon management è un elemento fondamentale per gestire la crisi e cogliere la ripresa». Quindi dire che i manager italiani sono tra i più pagati d’Eu-
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ropa, anche quando le aziende che dirigono hanno conti in rosso, è un mito da sfatare? «Nel nostro Paese, esclusi pochissimi casi circoscritti a qualche centinaio di top manager che hanno paghe milionarie, quelli strapagati sono più imprenditori che manager, e magari hanno anche le aziende con i conti in rosso. I 120mila dirigenti che operano nel privato hanno una retribuzione media lorda annua di 103mila euro, compreso un 15% in media legato ai risultati prodotti. E non sono pochi quelli che nel 2008 hanno avuto retribuzioni più basse proprio per il venir meno di tutta o parte della retribuzione variabile che ha dovuto fare i conti con fatturati e risultati meno brillanti per la fortissima crisi in atto. Spesso hanno pagato, con una retribuzione più bassa, colpe non loro. Se poi abbiamo stipendi in linea con le più avanzate realtà europee questo è determinato dal fatto che abbiamo corrispondente valore, altrimenti saremmo fuori mercato e sarebbe facile attrarre manager dall’estero». Cosa ne pensa della proposta di mettere un tetto agli stipendi manageriali? «Ben venga se è relativa a quelle situazioni dove c’è un’azienda pubblica o privata in forte crisi che è so-
CLAUDIO PASINI Presidente di Manageritalia
CULTURA MANAGERIALE
«I 120MILA DIRIGENTI CHE OPERANO NEL PRIVATO HANNO UNA RETRIBUZIONE MEDIA LORDA ANNUA DI 103MILA EURO, COMPRESO UN 15% IN MEDIA LEGATO AI RISULTATI PRODOTTI»
stenuta da aiuti statali, e quindi dai soldi di tutti i contribuenti, per non fallire. Ben venga poi anche una moderazione generale delle retribuzioni milionarie che devono avere, non tanto un tetto, ma piuttosto un ancoraggio serio alle performance aziendali non solo nel breve ma anche e soprattutto nel medio periodo. Ma quando c’è qualità, competenza e capacità di assumersi rischi e produrre risultati, questo va retribuito con cifre ragionevoli, ma che abbiano tetti solo nel reale collegamento con il valore creato. Questo è un crinale molto perico-
loso, perché il merito va premiato. Misurato, legato in modo concreto e oggettivo al reale apporto dato alla creazione di valore nel medio periodo, ma poi va premiato. Altrimenti si passa dalla padella alla brace e se non premiamo chi vale rischiamo una vera deriva in tutti i sensi e su tutti i fronti». In che cosa la cultura d’impresa italiana dovrebbe cambiare per non farsi cogliere impreparata dagli sviluppi di questa crisi e dai cambiamenti che essa genera e genererà? «Deve passare a un utilizzo più alto
di capitale umano e, come dicevo, soprattutto di managerialità. Abbiamo una cultura d’impresa fatta quasi solo di valori e caratteri imprenditoriali. Ma oggi senza una giusta dose di managerialità, che a moltissime delle nostre aziende è pressoché sconosciuta, non si va da nessuna parte. Fare business richiede una giusta e bilanciata sinergia tra ruolo e competenze imprenditoriali e manageriali capaci di dare strategie e sostanza all’azione di tutti quelli che lavorano in azienda. È un gioco di squadra, dove ci vuole un presidente, l’imprenditore o il Cda, uno o più allenatori, il manager o i manager, e i giocatori, che comprendono altri manager e tutto il personale, ormai altamente qualificato, dell’azienda. Quindi, solo più presenza, competenza e cultura manageriale ci permetteranno di stare sul mercato e di LAZIO 2009 | DOSSIER
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farlo in modo vincente. Altrimenti i nostri quattro milioni di imprenditori saranno perdenti in un mercato ormai globale e fatto di attori che fanno della managerialità uno dei loro punti di forza». Come è cambiata la figura del manager nel corso degli ultimi anni? «Da tempo, ma soprattutto oggi nell’economia della conoscenza e dei servizi, il manager non è più il capo della ferriera, non è più quello che ne sa più di tutti, ma è tutt’altro. È colui che deve gestire e guidare altri uomini, spesso professionisti esperti nei loro singoli campi, verso un progetto comune. Deve dare vita e sostanza alla ragion d’essere e alla strategia dell’azienda, deve motivare e coinvolgere tutti quelli che all’interno e all’esterno lavorano alla realizzazione del progetto. Deve creare una squadra, dove l’insieme conta più delle singole parti e dove sinergia e condivisione aggiungono valore al valore delle singole componenti. Insomma, è un leader che guida uomini più che macchine e che deve avere leadership, autorevolezza e capacità di sviluppare un contesto teso verso innovazione, cambiamento e attenzione al cliente e alla società. Questo vale per chi guida un’azienda o un’organizzazione, grande o piccola che sia, o una parte di essa». In generale, come trova l’attegDOSSIER | LAZIO 2009
giamento della classe dirigente nei confronti delle nuove generazioni di manager? «Nel caso del settore privato, spesso se il ricambio non è favorito e cercato è il mercato stesso che determina un cambiamento obbligato e traumatico nel quale chi è in sella è il primo ad essere estromesso. In azienda il vantaggio per chi “dirige” sta nel far crescere giovani leve capaci di affrontare il nuovo con mentalità e ottica diverse, tutto però governato dalla sua esperienza e capacità di relazionarsi con l’ambiente interno ed esterno. L’inserimento dei giovani deve essere graduale e va gestito al meglio perché non incorrano in errori che brucerebbero le loro legittime aspirazioni e ancor più la vita delle organizzazioni. Per fare questo si deve dare il giusto spazio ai giovani creando adeguate reti protettive, si deve essere tutor e coach delle giovani leve, che con il loro successo determineranno anche quello di chi li ha scelti, stimolati e guidati. I giovani, sono sempre gli stessi con la loro naturale voglia di fare e cambiare il mondo. Forse oggi i giovani hanno rispetto a prima una maggiore capacità di aprirsi ad un mondo che è sempre più internazionale, dominato da tecnologie e culture sempre in divenire. Semplicemente perché questo è il loro mondo, quello nel quale sono nati e hanno mosso i primi passi».
In Italia però si continua a parlare di continuità familiare quando si parla di ricambio generazionale all’interno delle aziende? «Sì, questo è il vero problema. L’imprenditore deve capire che ha bisogno dell’apporto dei manager, indipendentemente dal fatto che lui o un suo famigliare vogliano e possano avere un ruolo operativo in azienda. Un problema che affossa definitivamente le aziende nasce quando alla mancanza di manager esterni si aggiunge l’ingresso in azienda di familiari dell’azionista di riferimento che non hanno capacità, esperienza per guidare e gestire il business. Insomma i manager bisogna prima di tutto inserirli, ma poi dare loro responsabilità, deleghe e spazio di manovra. E questo soprattutto nelle Pmi accade molto di rado» Questa crisi sarà la prova del nove per la nostra classe dirigente. A suo parere potrebbe essere questa l’occasione per un ricambio generazionale sia nel mondo politico che in quello economico in Italia continuerà a condurre le sorti del Paese la vecchia guardia? «Sì, sono certo che usciremo da questa crisi profondamente cambiati, che tanti nodi verranno al pettine e che verranno sciolti. Ma attenti il nodo non è tanto nel dualismo tra nuove e vecchie generazioni, ma piuttosto tra chi è all’altezza e chi non lo è, e questo non dipende quasi mai dall’età anagrafica o dal sesso. Quindi, spazio ai giovani, ma soprattutto spazio a chi ha competenza e cultura imprenditoriale, manageriale, politica, per affrontare al meglio lo scenario attuale e futuro nel quale deve operare».
TEAM BUILDING Renzo Musumeci Greco
Manager senza stress aziende più forti Le discipline sportive garantiscono insegnamenti strategici per affrontare le problematiche aziendali FEDERICO MASSARI
alla scrivania direttamente alla pedana “della contesa”. Senza passare dal direttore. Anzi sarà proprio lui che ti inviterà a duellare. Da oggi fare gruppo all’interno di una azienda non sarà più sinonimo di abbuffate colossali dentro maleodoranti osterie di basso livello illuminate da tristissime luci al neon, ma sfide tra colleghi rinverdendo gli antichi fasti dei tre moschettieri. La nuova frontiera del concetto di “appartenenza a un team” la si potrà così incontrare nel Team Building. Utilizzata con successo negli Usa, questa attività sta prendendo sempre più piede anche nel nostro frenetico universo imprenditoriale con lo scopo di ottenere il massimo in termini di performance dai propri dipendenti mediante attività sportive, teatrali, musicali e così via. Nel nostro caso la scherma. Renzo Musumeci Greco, docente di scherma scenica al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha da poco elaborato corsi di scherma destinati ai manager e agli yuppie del terzo millennio. Lei è stato incaricato di progettare i corsi di Team Building per alcune grandi aziende. Di che cosa si tratta? «Questi corsi sono molto frequenti nel Nord del Paese, poco al Centro e del tutto inesistenti al Sud. Si tratta di un progetto modulabile che può durare da una settimana, a due o tre giorni: dipende dall’obiettivo che si vuole raggiungere. Il mio scopo è quello di mettere insieme una ventina di manager, più o meno della stessa età, e portarli nell’arco di una
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settimana a fare una piccola gara fra loro. Tutto ciò si rivelerà utile per capire con chi si ha a che fare e anticipare le sue mosse». Perché proprio la scherma? «La scherma si basa su cosa farà l’avversario. L’obiettivo del Team Building è quello di sviluppare quelle capacità tipiche dello schermidore che saranno utilissime anche al manager: effettuare tattiche vincenti nella massima velocità, capacità di modificare la strategia in corso, reagire nei momenti di difficoltà, recuperare lo svantaggio, non farsi condizionare dalle menti esterne ma, soprattutto, non farsi mai intimorire dalla prestanza dell’avversario. Occorre usare sempre la mente, perché la mente prevale sul fisico». Trasmettere ottimismo e tranquillità ai dipendenti è come portare aria fresca all’interno dell’azienda? «Esattamente. Sempre più spesso nelle grandi aziende c’è poca collaborazione. La scherma possiede alcuni principi molto importanti che possono servire anche all’interno di una realtà aziendale come, ad esempio, l’onore, il rispetto del collega e dell’avversario anche se ci ha battuto sonoramente». Lei ha insegnato l’arte della spada a tanti uomini e donne del mondo dello spettacolo e non. Come reagiscono, ad esempio, i politici alla scherma? «Diciamo che i politici hanno innanzitutto poco tempo a disposizione. Il manager a una certa ora finisce di lavorare, mentre il politico non ha orari. Per comprendere la differenza tra le armi usate nella
MAESTRO Renzo Musumeci Greco
scherma, in passato, durante un’intervista, usai tre nomi di politici italiani come esempi. All’epoca la sciabola la denominai Umberto Bossi, poiché si tratta di una persona sempre votata all’attacco. Alla spada, arma che si trova agli antipodi rispetto alla sciabola, invece gli diedi il nome di Silvio Berlusconi: colui che vince, cade, attende e risorge. La spada è l’arma dell’attesa, del self control e del colpire al momento più opportuno quando l’avversario è scoperto. Mentre il fioretto lo paragonai a D’Alema. Colui che tesse la tela con pazienza ma, allo stesso tempo, mediante arguzia e furbizia, ti colpisce che nemmeno te ne accorgi. Questo è il fioretto». In sintesi, che cos’è per lei la scherma? «La scherma è come giocare a scacchi ai 200 all’ora poiché si tratta di un gioco di incastri e di intenzioni effettuati a una velocità supersonica: non c’è mai un movimento che dura più di mezzo secondo». LAZIO 2009 | DOSSIER
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PROFILO DI UN MANAGER Giovanni Malagò
IL SUCCESSO VIEN GIOCANDO Il profitto da solo non basta. Né a garantire il successo né a conservarlo nel tempo. È importante non trascurare i propri interessi. Pensando sempre alla collettività cui si appartiene. È la visione dell’imprenditore Giovanni Malagò, presidente del comitato organizzatore dei mondiali di nuoto di Roma 2009 FRANCESCA DRUIDI
ono attratto dai prodotti di qualità. Dalle cose belle che, al di là degli aspetti meramente economici e finanziari, hanno la capacità di esaltarmi e gratificarmi. Amo, infatti, spendere e concentrare il mio impegno in attività che considero particolarmente mie». È in questo mix di passione unita a un meccanismo di costante sollecitazione e slancio verso il business, ma anche verso lo sport e l’organizzazione di grandi eventi, che va rintracciato il minimo comun denominatore dell’articolato percorso professionale di cui è protagonista l’imprenditore romano Giovanni Malagò. Un percorso iniziato nell’azienda di famiglia, il Gruppo Sa.Mo.Car., che dagli anni Cinquanta commercializza e distribuisce marchi storici come Ferrari e Maserati, del quale è attualmente socio e amministratore delegato, che è proseguito attraverso importanti incarichi in società di partecipazioni, associazioni culturali, onlus e in imprese che hanno presentato negli anni una parabola ascendente. Giovanni Malagò è entrato nel 2001 nel mondo della nautica come socio e consigliere d’amministrazione tramite la gestione dell’attività di distribu-
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zione del Cantiere Itama e ha assunto il ruolo di consigliere d’amministrazione di Maire-Tecnimont, player quotato dal 2007 alla Borsa di Milano, leader mondiale nel settore petrolchimico, dell’energia e della progettazione. È possibile individuare un Leitmotiv nella conduzione delle sue attività? «La rappresentanza di Ferrari e Maserati e il lavoro legato a Itama e Maire-Tecnimont fanno riferimento a tre settori molto diversi, ma riconducibili a brand valutati al top nella loro categoria. È il riconoscimento di questa qualità
l’aspetto che maggiormente mi sprona a impegnarmi giorno dopo giorno». La passione è il motore vitale di un progetto o contano anche altri valori nell’imprenditoria? «Sono un grande curioso, leggo molto. Ma la mia idea è che, di fondo, regole fisse non ne esistano. Accomunare poi iter diversi sotto il profilo sociale, geografico, territoriale, merceologico e generazionale, per rintracciare valori comuni non mi pare possibile. Posso solo dire che oggi, considerando la complessità delle dinamiche che animano un’azienda o una qualsiasi realtà produttiva, se si agisce assecondando solo gli scopi utilitaristici, tutto diventa estremamente più difficile. È cruciale che intervenga una forma di attrazione verso questo mestiere, altrimenti il compito alla lunga diventa senz’altro più complicato». Qual è a suo parere la via di uscita dalla crisi? «Non cercare di portare a termine troppe attività, ma piuttosto poche e semplici. È, inoltre, indispensabile attuare in modo realmente certo e concreto le riforme necessarie, attivando la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali. Senza questi nodi stra-
PROFILO DI UN MANAGER
GIOVANNI MALAGÒ Presidente del comitato organizzatore dei Campionati del Mondo di Nuoto - Roma 2009 e di diverse imprese e società di partecipazioni con la campionessa olimpica Federica Pellegrini, che milita nel Circolo Canottieri Aniene di Roma, guidato sempre da Giovanni Malagò
tegici, infatti, nel momento in cui si innescherà la ripresa, l’Italia non sarà in grado di afferrarla». Dal 2002 è membro del Consiglio di amministrazione di Unicredit Banca di Roma. Cosa significa per lei questo incarico? «Ho seguito l’iter di integrazione della Banca di Roma nel Gruppo Unicredit e spero di poter rappresentare al meglio le realtà imprenditoriali della città, quegli operatori che da sempre interagiscono con le tre banche che compongono l’istituto, nel rispetto del mio ruolo ma anche delle esigenze espresse dalle varie categorie socio-economiche nel loro rapporto con le banche, soprattutto in questo delicato momento di congiuntura critica». Lei è presidente del comitato organizzatore dei Campionati del Mondo di Nuoto che si terranno a Roma quest’anno e presidente del Circolo Canottieri Aniene. Vede una similitudine tra l’attitudine all’attività agonistica e quella manageriale? «Nello sport si esalta all’ennesima potenza il discorso relativo alla passione. Per me lo sport è emozione. Nella quotidianità dedico all’attività sportiva più spazio possibile, rubando tempo ed energie alla vita privata. Lo sport identifica un veicolo sociale di comunicazione, in grado di trasmettere valori positivi se chi ne è portavoce possiede credibilità in questo senso. In caso contrario, può verificarsi un effetto boomerang. Del resto, costruire un percorso manageriale in ambito sportivo non soltanto può generare risvolti evidenti per la collettività, ma può anche garantire ri-
sultati economici di un certo rilievo. Ogni volta che sono stato chiamato a organizzare o gestire un evento di medie o grandi dimensioni, non ho mai lasciato un euro a carico del sistema pubblico. Ciò conferma che fare sport non implica esclusivamente la richiesta di risorse. Lo sport può, infatti, rappresentare un viatico per diffondere un messaggio importante, lasciando al contempo in eredità qualcosa che va oltre l’evento stesso». Che ricadute avrà sulla capitale questo evento? «L’impatto socioeconomico dei mondiali di nuoto è stato stimato dall’Istituto Piepoli in un indotto di 2,6 miliardi di euro, con una crescita del Pil della città supe-
riore ai due punti percentuale. Notevoli anche gli altri numeri della manifestazione: 170 i paesi partecipanti, 2.500 atleti, 60 network collegati, 1.500 giornalisti e soprattutto 400mila turisti previsti ad assistere le competizioni. Sarà, inoltre, determinante ottenere significativi risultati sportivi. Infine, il Comitato ha un budget ed è mia ferma intenzione rispettarlo in pieno, lasciando un saldo positivo». Progetti per il futuro? «È stata appena rinnovata fino al 2012 la mia presidenza del Circolo Canottieri Aniene, un laboratorio sportivo bellissimo ma impegnativo al quale voglio dedicarmi in maniera intensa per completare diversi progetti». LAZIO 2009 | DOSSIER
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LEX & IUS Filippo Sgubbi
IL TRIBUNALE NON È UN SET Dal ruolo giocato dei media nella crescente spettacolarizzazione della giustizia al tema delle intercettazioni. Il penalista Filippo Sgubbi si interroga sulla crisi della giustizia italiana LORENZO BERARDI
el caso Unipol oggi si parla meno. Eppure la vicenda suscitò una vasta eco nell’opinione pubblica ai tempi dello scandalo Bancopoli. Correva il luglio del 2005 ed era l’epoca delle “scalate bancarie”. Prima fra tutte quella a Banca Antonveneta tentata dalla Banca Popolare di Lodi presieduta da Gianpiero Fiorani. Una scalata che fece discutere per la presenza in cordata dei cosiddetti “furbetti del quartierino”, fra cui gli immobiliaristi Stefano Ricucci e Danilo Coppola e il finanziere Emilio Gnutti. Proprio Gnutti era il trait d’union fra Unipol e quel tentativo di scalata finito male fra accuse e condanne di aggiotaggio, associazione a delinquere e appropriazione indebita. Secondo i giudici milanesi, infatti, proprio il finanziere bresciano avrebbe versato a Giovanni Consorte, presidente di Unipol, e al suo vice Ivano Sacchetti, 50 milioni di euro per consulenze tecniche in proprio fatte a favore dell’Hopa di Gnutti. La vicenda si dipana nell’arco di un anno fra articoli e titoli della stampa, arricchendosi di nuovi capitoli e arrivando a trattare anche un’altra ipotesi di scalata, quella di Unipol stessa alla Banca Nazionale del Lavoro. Sono mesi in cui il caso Unipol diviene un filone dell’af-
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FILIPPO SGUBBI Avvocato difensore dell’ex presidente di Unipol, Giovanni Consorte. Insegna diritto penale presso l’università di Bologna
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tate insussistenti, infaire Bancopoli sino «LA SPETTACOLARIZZAZIONE PERVADE ORMAI fatti, le originarie acad arrivare a una OGNI SETTORE DEL DIRITTO E DEL PROCESSO cuse di associazione prima sentenza. È il per delinquere, rici25 ottobre del 2006 PENALE E NE FALSA L’OPERATIVITÀ, claggio e corruzione quando Giovanni INTRODUCENDO ELEMENTI DI EMOTIVITÀ E nei confronti di un Consorte, Ivano SPESSO FUORVIANDO L’OPINIONE PUBBLICA» magistrato. E si Sacchetti e Emilio tratta proprio delle Gnutti vengono condannati a sei mesi di reclusione vinzione poggia sugli atti del fasci- accuse sulle quali i media si erano dal giudice di Milano Elisabetta colo processuale – afferma Sgubbi particolarmente accaniti». Meyer con l’accusa di insider tra- –. Inoltre, l’esame e il controesame Quanto ha influito il fatto che in ding su titoli Unipol. “Amareggiati reso dall’ingegner Consorte nel questo processo, sia pur di rime increduli” all’epoca della sentenza corso dell’udienza preliminare balzo, sia stato coinvolto anche il milanese, tanto Consorte quanto hanno dimostrato ulteriormente la mondo politico? Sacchetti rimarcarono come si trat- piena regolarità e correttezza della «Il coinvolgimento di esponenti tasse solamente del primo grado condotta tenuta dalla società Uni- politici ha certamente influito sulla di giudizio. Un’annotazione cor- pol e, in particolare, da Giovanni sovraesposizione mediatica della retta. Il 21 gennaio scorso, infatti, Consorte e Ivano Sacchetti. Basti vicenda in genere e di Consorte in quelle stesse condanne per insider ricordare che di ogni singolo passo, particolare. Ma molto ha inciso trading a carico di Consorte, Sac- in questa vicenda, è stata data no- anche la peculiare rilevanza dell’ochetti e altri dirigenti Unipol sono tizia alle Autorità di Vigilanza, perazione economica costituita dal state annullate senza rinvio dalla Consob e Banca d’Italia in parti- progetto di Unipol di acquisire Bnl, un’operazione che taluni amquinta sezione penale della Cassa- colare». zione. Il motivo? L’incompetenza Ritiene che ci sia stato un acca- bienti hanno osteggiato anche avterritoriale della procura di Milano nimento mediatico nei confronti valendosi della stampa. Tanto è vero che fin dal dicembre 2005 sulla vicenda. Gli atti del processo di Consorte? sono stati dunque trasmessi a Bo- «Non c’è alcun dubbio. Special- Consorte, nella sua qualità di prelogna, in attesa di nuove pagine mente in concomitanza dell’inizio sidente di Unipol, presentò una della vicenda. «La verità si avvi- dei vari procedimenti penali l’as- denuncia molto particolareggiata cina a passi veloci» ha dichiarato salto mediatico è stato aggressivo e in ordine alle varie notizie fuorConsorte. E il suo avvocato difen- imponente e soltanto di recente si vianti che si erano accavallate nei sore, il professor Filippo Sgubbi può osservare qualche ripensa- mesi precedenti. Tale denuncia, pensa che questa verità arriverà mento, seppur tardivo. Del resto, tuttora pendente presso la procura presto anche per quanto riguarda nessuno può ignorare che Con- di Roma, è stata presentata in coun secondo processo che vede im- sorte è stato via via prosciolto da pia al Giudice dell’udienza preliputato Consorte, quello della sca- varie imputazioni che erano state minare di Milano». lata di Unipol a Bnl. «La mia con- ipotizzate a suo carico. Sono risul- Più in generale, come giudica la LAZIO 2009 | DOSSIER
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spettacolarizzazione mediatica della giustizia? «Ovviamente il giudizio è negativo, come cittadino prima ancora che come operatore. La spettacolarizzazione pervade ormai ogni settore del diritto e del processo penale e ne falsa l’operatività, introducendo elementi di emotività e spesso fuorviando l’opinione pubblica. Sarà un pensiero anacronistico, ma il diritto e il processo penale dovrebbero essere connotati da serenità e razionalità. L’unico elemento di conforto è dato dalla constatazione che il fenomeno della spettacolarizzazione della giustizia penale è diffuso anche oltre i nostri confini: mi capita spesso di citare un felice lavoro di Soulez Lariviere intitolato Il circo mediatico-giudiziario che descrive l’esperienza francese, molto simile alla nostra». Uno dei fulcri del dibattito nazionale sulla giustizia è rappresentato dalle intercettazioni. Alla luce della sua esperienza, qual è il suo parere in merito? «Il problema principale delle intercettazioni è costituito non solo e non tanto dall’utilizzo pervasivo e a tutto campo che ne viene fatto in sede processuale, quanto piuttosto dalla loro indebita, e spesso DOSSIER | LAZIO 2009
illecita, diffusione fuori dall’ambito del processo penale». Nel caso di Consorte come giudica l’utilizzo di questo strumento da parte di media e inquirenti? «Ritengo che larga parte delle intercettazioni disposte con riferimento alla posizione di Consorte sia priva dei presupposti di legge. Tuttavia, pragmaticamente, osservo che il complesso conoscitivo che scaturisce dalle intercettazioni rappresenta, a mio giudizio, un elemento a favore dell’ingegner Consorte». La questione intercettazioni non è l’unica ad avere alzato i toni del dibattito politico. La giustizia italiana sta attraversando un momento di crisi. Nel parlarne si citano sempre le possibili contromisure, ma mai le cause scatenanti. «Le cause sono a mio giudizio molteplici e affondano le loro radici nel contesto sociale contemporaneo: penso in particolare alla tendenza diffusissima a richiedere l’intervento della magistratura per ogni problema o contrasto che investa le persone. I sociologi parlano di scomparsa dei cosiddetti “controlli sociali primari” che erano caratteristici della vita asso-
ciata nella famiglia, nella scuola e così via. Si usa dire al proposito con espressione forbita che è in atto una giurisdizionalizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana: i conflitti interpersonali non si risolvono più all’interno delle organizzazioni sociali con l’esercizio di autorità personale e ci si rivolge all’esterno, al magistrato. E questo è davvero insostenibile». Gli scandali legati al mondo dell’alta finanza hanno contribuito a scatenare l’attuale crisi economica internazionale. C’è chi lamenta il fatto che in Italia le pene per i reati finanziari sono troppo lievi, soprattutto se paragonate con quelle americane. A suo avviso è necessario un inasprimento delle pene? «Le pene per i reati in materia di abusi di mercato e di bancarotta sono già oggi molto elevate: per la manipolazione del mercato la pena massima è di dodici anni di reclusione e si avvicina alla pena per l’omicidio doloso attenuato. Mi sembra già una sanzione consistente. Inoltre, è accertato da sempre che l’inasprimento delle pene, al di là del momentaneo effetto-annuncio che tranquillizza l’opinione pubblica, non produce alcun effetto sul numero dei reati».
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DIRITTO D’IMPRESA Stefano Previti
I TEMPI CERTI FANNO GIRARE L’ECONOMIA La lentezza della giustizia civile sottrae competitività al Paese. E la riforma Alfano rimane ancora un’incognita tutta da scoprire. L’avvocato Stefano Previti fa il punto della situazione. E spiega cosa sarebbe utile per garantire slancio alle nostre imprese e al sistema economico GIUSI BREGA
he la lentezza della giustizia civile sottragga competitività al Paese mi sembra un dato certo e condiviso. A mio avviso però le misure proposte dal governo non sono sufficienti rispetto alla finalità di accelerare in modo significativo i tempi di esaurimento delle controversie civili». A parlare è Stefano Previti, preoccupato per la lentezza della giustizia in Italia. Secondo l’avvocato, la riforma appare più che altro incentrata sulla ulteriore responsabilizzazione degli avvocati, già gravati notevolmente, ai quali verrebbero imposti termini ancora più stringenti e preclusioni processuali ulteriori rispetto a quanto avviene oggi. «Tuttavia – continua l’avvocato Previti – la lentezza della giustizia civile non dipende certo solo dai termini processuali imposti agli avvocati. Se in primo grado tra un’udienza civile e l’altra intercorrono da sei mesi a un anno e se tra la prima udienza in appello e la seconda e ultima intercorrono tre quattro anni e, ancora, se tra la proposizione di un ricorso per cassazione e l’udienza di discussione passano normalmente altri quattro
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anni: cosa c’entrano gli avvocati?». Quali riforme e in quali altri settori del civile occorrerebbero allora per ottenere risultati soddisfacenti su tutti i fronti? «Dinanzi a una situazione grave come quella della giustizia civile italiana, ritengo che il punto di partenza dovrebbe essere una drastica riduzione dei riti processuali, che oggi sono ben ventisette. Gli avvocati ringrazierebbero sentitamente e, credo, anche i giudici. In tutti i sistemi processuali avanzati la giustizia civile ha un solo rito o al massimo due. Da noi c’è un rito che ha già dimostrato di funzionare meglio degli altri e sul quale si è stratificata un’importante elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, che è quello del lavoro: si potrebbe partire da lì, apportando gli aggiustamenti necessari. In secondo luogo, dato che il collo di bottiglia sono oggi i ruoli pieni e i conseguenti inevitabili sforamenti dei tempi di giustizia, si dovrebbe limitare il più possibile l’intervento del giudice esonerandolo, come spesso avviene nella prassi, da compiti istruttori per far sì che possa concentrare la propria attività sulle decisioni. As-
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STEFANO PREVITI Avvocato civilista ed esperto in diritto commerciale ed europeo
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sumendo le testimonianze fuori udienza, responsabilizzando gli avvocati o magari con l’intervento di altri pubblici ufficiali, si possono risparmiare interi anni di causa, dato che oggi un’udienza consente di regola l’assunzione di un paio di testimonianze e si conclude con l’immancabile rinvio di mesi per la prosecuzione. Insomma, sentire dieci testimoni, oggi, costa almeno tre o quattro anni di causa che potrebbero essere risparmiati portando al giudice direttamente i risultati istruttori: è ciò che generalmente avviene negli ordinamenti anglosassoni. Infine, una volta adottato un rito unico ed efficiente, occorrerebbe garantire una transizione rapida dall’attuale sistema al nuovo, prestando particolare attenzione alla qualità di eventuali organismi transitori». Cosa pensa della proposta di riDOSSIER | LAZIO 2009
correre maggiormente allo stragiudiziale per alleggerire la giustizia civile? «Va bene incoraggiare le scelte di soluzione delle controversie esterne al sistema giudiziario, in particolare gli arbitrati, purché alla base ci sia sempre una libera scelta del cittadino che non può essere privato a priori della facoltà di adire la giustizia. Da questo punto di vista, ad esempio, trovo che siano inutili tutti i tentativi di conciliazione obbligatoria, in udienza o fuori, che alla fine si risolvono soltanto in mero impedimento procedurale e quindi ulteriore perdita di tempo. Tutti gli avvocati sanno che le transazioni si fanno quando le parti sono mature per transigere e praticamente mai dinanzi a organismi a ciò deputati e meno che mai per imposizione di legge». Cosa sarebbe necessario secondo
lei per garantire slancio alle nostre imprese e al sistema economico? «Tornando al punto da cui siamo partiti, direi una giustizia civile rapida ed efficace. Oggi il creditore è costretto a tutelarsi a monte del rapporto, assumendo le dovute garanzie dal debitore, altrimenti sono dolori. Ma le nostre imprese si gioverebbero anche di una semplificazione del sistema: fare riferimento a poche regole chiare anziché a moltissime regole confuse. Mi riferisco in particolare ai rapporti con la pubblica amministrazione, connotati dalla presenza di numerosissimi enti di riferimento e da una molteplicità di regole da seguire, che sono causa di eccessiva discrezionalità, a volte confinante con l’arbitrarietà. Ciò significa, per le imprese, non soltanto tempi biblici, ma anche una
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totale incertezza sulla forza dei rapporti giuridici sottostanti, che si traduce nell’impossibilità di programmare. Come si può fare un piano economico e finanziario in relazione a un progetto il cui iter non si sa quanto durerà? Nei Paesi più avanzati da questo punto di vista, l’impresa interpella la pubblica amministrazione, non tanti enti diversi; ed è la Pa a doversi preoccupare di raccogliere tutti i pareri e i contributi necessari, essendo tenuta a dare risposta motivata in tempi brevi. Altrimenti la richiesta si considera approvata». Per ciò che riguarda il fallimentare, qual è la situazione normativa italiana rispetto a quella di altri Paesi? «Credo che la nostra situazione normativa, anche a seguito delle recenti riforme, non sia affatto da buttare. Il problema resta quello dei tempi di chiusura delle procedure, che si collega inevitabilmente ai tempi della giustizia civile, dato che la chiusura di una procedura concorsuale dipende spessissimo dalla chiusura delle controversie a essa connesse. Di recente ho assistito alla dichiarazione di fallimento di una società mia cliente che vanta, nei confronti della pub-
blica amministrazione, un credito dieci volte superiore all’esposizione debitoria, ma che è oggetto di contenzioso. Un fallimento causato direttamente dai tempi della giustizia civile e dalla mancanza di chiarezza circa gli obblighi della Pa». C’è un sistema straniero che potrebbe essere preso a modello dal punto di vista normativo? «Per quanto ne so direi di no. Tuttavia per rispondere occorrerebbe svolgere uno studio approfondito di diritto comparato, dato che le procedure concorsuali non sono isole ma parti di un sistema giudiziario». Crede che le misure previste per punire i manager siano sufficienti in Italia? «Certamente sì. Il nostro sistema prevede sanzioni penali molto gravi per moltissimi reati che astrattamente potrebbero essere commessi da un manager: penso alla bancarotta, alla responsabilità connessa agli infortuni sul lavoro, ai reati ambientali, al falso in bilancio, all’aggiotaggio e a tanti altri. Tutti questi reati sono severamente puniti, almeno stando alle previsioni edittali. Se, poi, il manager sbaglia in buona fede, non deve essere punito penalmente, ma
resta comunque soggetto alle azioni civilistiche, in primis nei confronti del datore di lavoro e degli eventuali azionisti, ma anche nei confronti dei consumatori. Aumentare ulteriormente la pressione sui manager servirebbe soltanto a disincentivare le persone ad assumere questo ruolo fondamentale. Credo invece ci sia un enorme bisogno di manager bravi, preparati e coraggiosi, perché le capacità manageriali sono alla base della crescita aziendale, a sua volta presupposto per la creazione di posti di lavoro e ricchezza». Si è tanto parlato della cosiddetta salva-manager. Lei cosa ne pensa? Sarebbe utile? «A mio avviso no. Come ho detto, c’è un sistema di responsabilità chiaro: chi ha dolosamente violato le regole, è giusto che paghi penalmente. Chi ha commesso gravi errori in buona fede potrà essere chiamato a risarcire i danni. Insomma, serve equilibrio: non sono favorevole né alla caccia alle streghe, né all’impunità». Quali sono i rischi nei quali gli imprenditori possono incorrere più frequentemente? «L’imprenditore è abituato a rischiare. Tanti fattori imprevedibili possono contribuire a modificare le previsioni di successo di un’iniziativa imprenditoriale. Purtroppo in Italia l’imprenditore deve fare i conti con i fattori di rischio impropri sopra ricordati: incertezza delle regole e tempi lunghissimi di giustizia». Come commenta da legale i recenti crack statunitensi? «Sinceramente non mi ritengo in grado di valutarne le cause in modo compiuto, ma la sensazione è che siano mancati organi di controllo efficienti sulle banche, che fermassero per tempo il vortice nel quale le banche si erano infilate con politiche commerciali estreme. Visti i risultati, e visto che il conto lo sta pagando tutto il mondo, per una volta, possiamo forse dire di stare meglio noi, con la Banca d’Italia e la Consob, organismi di controllo di norma efficienti». LAZIO 2009 | DOSSIER
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IPSE DIXIT Niccolò Ghedini NICCOLÒ GHEDINI Avvocato penalista. Già coordinatore di Forza Italia in Veneto, nelle due precedenti legislature è stato senatore. Oggi siede a Montecitorio tra le file del Pdl
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IN CORSA VERSO UNA GIUSTIZIA PIÙ GIUSTA Nuove carceri, sempre più sicure. Ma anche differenziate. Per evitare pericolose commistioni tra diverse tipologie di detenuti. Parte da qui, con concretezza e senza facili clemenzialismi, la ricetta di Niccolò Ghedini per dare risposte alle gravi criticità del nostro sistema carcerario MARILENA SPATARO
guadagnargli la stima del governo e dello stesso Presidente del Consiglio, rendendolo un personaggio di primo piano di questa legislatura, oltre che l’acume politico e una visione lucida dei problemi, anche nelle situazioni più delicate, sono le sue doti di giurista, profondamente competente in materia di diritto penale. Avvocato penalista di lunga esperienza e deputato del Pdl, Niccolò Ghedini, ha, infatti, portato con sé sugli scranni di Montecitorio la passione e la professionalità che da sempre lo animano nell’esercizio della professione forense. E in un momento in cui l’attenzione della politica e l’azione del governo sono concentrate sulla riforma della giustizia, il suo contributo, sia come esperto in materia di diritto penale, che come politico appare più preziosa che mai. Un settore in cui, secondo Ghedini, occorre intervenire con misure urgenti e contestuali ai provvedimenti di riforma in ambito penale, è quello carcerario, ormai in stato di emergenza permanente. «Il primo provvedimento da prendere, e che è già nell’agenda del ministro Alfano, è la creazione di un circuito carcerario differenziato» spiega il parlamentare. Che fa notare come questa misura contribuirà a limitare la
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pericolosa commistione all’interno degli istituti di pena tra detenuti già dichiarati colpevoli con sentenza definitiva e detenuti in attesa di giudizio, e, perciò, considerati presunti innocenti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Per questi soggetti – sottolinea il deputato azzurro – le strutture carcerarie, sebbene dotate della necessaria sicurezza, dovranno essere più leggere, perché per loro vi è una presunzione di minore pericolosità» e questo vale soprattutto per quei circa 15.000 detenuti annui che transitano nelle carceri italiane per una media di 7 giorni. Depenalizzare i reati minori può essere una delle possibili soluzioni all’emergenza carceraria? «Per molti anni si è pensato che la depenalizzazione fosse una strada corretta. In realtà essa comporta semplicemente un trasferimento di competenze da un giudice a un altro giudice. Inoltre la depenalizzazione di comportamenti che magari in astratto possono sembrare poca cosa a volte può creare forti disagi sociali, perché la cosiddetta microcriminalità genera un senso di straordinaria insicurezza nella popolazione; la tolleranza zero, che non è uno slogan, ma una filosofia di approccio al problema criminale, in alcuni Stati ha funzionato
molto bene proprio sui piccoli reati. Partendo dalle piccole cose spesso si riesce a riportare l’ordine. Questo, però, non significa che tutto debba essere ricondotto alla disciplina penale, quindi occorre procedere a una seria analisi per individuare le fattispecie superate». Periodicamente si torna a discutere dell’efficacia del 41bis. Qual è la sua opinione al riguardo? «Il 41bis, se da un lato prevede un trattamento che appare contrario ai principi più elementari di socializzazione, quale la limitazione per alcuni detenuti del contatto con il mondo esterno e del rapporto con i propri familiari, per cui è amaro doverla applicare, dall’altro si configura come necessaria laddove si tratta di reprimere il grave fenomeno della criminalità organizzata, particolarmente diffuso in alcune zone del nostro Paese. Perciò, tra il 2001 e 2006, l’allora Governo Berlusconi aveva istituzionalizzato il 41bis, privandolo delle precedenti caratteristiche di provvisorietà. Anche se si tratta di un provvedimento di cui si vorrebbe fare a meno, esso appare indispensabile per spezzare quei legami che purtroppo vengono mantenuti in alcuni casi attraverso i contatti con i familiari». Altro nodo cruciale è il reinserimento sociale degli ex-detenuti.
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Cosa si può fare da un punto di vista giuridico per favorirlo? «Questa è una questione di grandissimo respiro che va affrontata, innanzitutto, attraverso la costruzione di nuove carceri e anche attraverso il miglioramento dello status di vita del detenuto, che si dovrà riuscire ad avviare al lavoro e a una migliore qualificazione professionale, in modo da consentirgli d’intraprendere percorsi di reinserimento sociale. Nel nuovo pacchetto giustizia, appunto, si prevedono i cosiddetti lavori socialmente utili: colui che è stato condannato e che vuole ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali o ad altri benefici, dovrà lavorare a favore della collettività». DOSSIER | LAZIO 2009
In Italia sembra che il senso dell’espressione “certezza della pena” sia relativo. Quali sono le ragioni storiche e sociali di questa anomalia? «Intanto, vorrei precisare che da noi, dal Dopoguerra fino al 1990, abbiamo avuto una quarantina di condoni e di amnistie. Il che ha creato una sorta di aspettativa a una pena condonata o a un reato amnistiato. Da questo è derivato un senso della non antigiuridicità della condotta da illecito penale e la convinzione che comunque lo Stato non avrebbe mai preteso l’effettiva espiazione della pena. Con le modifiche in corso d’approvazione da parte del governo, si arriverà,
di fronte a una sentenza definitiva in cui la pena si sia ormai cristallizzata, a scontare fino in fondo la condanna. Ed è qui che si rivela l’utilità dei lavori socialmente utili, che ripagano in qualche modo la società del comportamento antigiuridico». Dopo il caso dello stupro di Capodanno si è acceso il dibattito sulla discrezionalità del giudice, soprattutto riguardo alle misure di custodia cautelare. Come commenta? «Anche se comprendo il dolore e la rabbia, assolutamente giustificati, di coloro che subiscono questo genere di reati, su questo tema sono sempre molto prudente, perché la misura cautelare in car-
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cere deve essere sempre l’estrema ratio. Lo Stato non persegue la vendetta come fine, per cui ricorrere a questo istituto prima di una sentenza di condanna definitiva è un qualcosa da farsi solo in via eccezionale. In merito risulta piuttosto difficile negare ai giudici di procedere a una valutazione sulla effettiva pericolosità sociale di un soggetto e sulla possibilità di fuga o di reiterazione del reato. Ritengo, perciò, importante applicare quanto già previsto da un provvedimento del governo, secondo cui nei casi di conclamata responsabilità, i magistrati, invece di tenere l’imputato in attesa di giudizio, seguano il codice facendo il processo per
direttissima. Ricorrendo alla direttissima, ci sarebbe già una sentenza di primo grado, per cui anche la custodia cautelare avrebbe una diversa ragion d’essere». Quindi una revisione del processo penale potrebbe contribuire a migliorare questo aspetto? «Oggi il direttissimo dovrebbe essere la regola per vicende come questa, ed è incomprensibile perché i magistrati non utilizzino questi strumenti. Piuttosto che applicare la legge, invece, una certa parte della magistratura sembra preferire lamentarsi per ogni provvedimento dei governi di centrodestra. Questo comportamento contribuisce a creare una situa-
zione in cui, di fronte a un elevatissimo numero di magistrati procapite e a una delle più elevate spese di giustizia d’Europa, parallelamente ci ritroviamo con una delle giustizie più lente d’Europa». Sulle proposte di Violante circa la riforma del Csm, sembra essersi aperto uno spiraglio di dialogo tra maggioranza e opposizione. È così? «Certamente le proposte del presidente Violante sono interessanti e in parte coincidono con la nostre. Le riforme condivise sono sempre auspicabili in materia di giustizia, visto che questa non è né di destra né di sinistra. L’auspicio è che ciò consenta l’avvio di un dialogo proficuo». LAZIO 2009 | DOSSIER
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GIUSEPPE LIPERA Noto avvocato penalista è difensore di Bruno Contrada
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LA RICERCA DELLA VERITÀ HA UN NUOVO CAPITOLO Un caso giudiziario ancora aperto e che promette nuovi sviluppi. È quello di Bruno Contrada. Giuseppe Lipera, avvocato difensore dell’ex dirigente del Sisde non accetta la recente decisione del Gip di Caltanissetta di archiviare l’esposto di denuncia presentato dal proprio assistito. E promette di insistere nella propria battaglia, alla ricerca del giusto e del vero SOFIA SASSI
runo Contrada diciassette anni dopo. Tanto è trascorso da quella vigilia di Natale del 1992 in cui l’ex funzionario del ministero dell’Interno e dirigente del Sisde venne arrestato sulla base delle accuse rivoltegli da quattro collaboratori di giustizia. Da allora, Contrada è stato al centro di una lunga serie di dibattimenti, sentenze e rinvii giudiziari. Il primo tassello del rompicapo è datato 1996 ed è rappresentato dalla condanna in primo grado a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Successivamente assolto in appello e con formula piena dalla Corte d’Appello di Palermo nel 2001, Contrada torna a essere condannato cinque anni dopo, a seguito dell’annullamento della sentenza di assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione. Una condanna a dieci anni confermata anche nel 2007, ma contro la quale continua a battersi la difesa dell’ex capo della mobile di Palermo, guidata dall’avvocato Giuseppe Lipera. L’ultimo capitolo in ordine di tempo di questo estenuante gioco dell’oca che vede il caso Contrada non arri-
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vare mai alla fine è stato scritto il 26 marzo scorso. In quella data, il Gip di Caltanissetta, Ottavio Sferlazza, ha infatti deciso l’archiviazione dell’esposto di denuncia presentato contro carabinieri, magistrati e collaboratori di giustizia nel novembre 2008 da Contrada per prescrizione dei reati contestati. «Ho criticato questo provvedimento – afferma l’avvocato Lipera – e farò ricorso in Corte di Cassazione impugnando l’ordinanza di archiviazione perché non la condivido affatto. Già in precedenza il Gip aveva accolto la nostra opposizione all’archiviazione dando mandato al Pm di Caltanissetta di effettuare delle indagini che avvalorassero o meno le denunce presentate da Contrada nel novembre scorso. Queste indagini – prosegue Lipera – non sono state fatte, la situazione non è cambiata di una virgola, ma questa volta si è determinata l’archiviazione. Contrada venne condannato per concorso esterno dando per provate alcune insinuazioni che tali erano e tali sono rimaste. Provare che alcune di queste insinuazioni erano infondate era il grimaldello per poter proclamare LAZIO 2009 | DOSSIER
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l’innocenza di Bruno Contrada e l’errore giudiziario di cui è stato vittima». In attesa che si chiarisca e accerti una verità condivisa dei fatti, oggi l’ex numero tre del Sisde sta scontando gli arresti domiciliari, dopo aver trascorso gli ultimi anni della propria vita nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Anni durante i quali Bruno Contrada si è sempre professato innocente e che Giuseppe Lipera paragona «al trovarsi su una graticola ardente». Avvocato, perché l’archiviazione dell’esposto di denuncia presentato dal suo assistito decisa dal Gip di Caltanissetta non la convince? «Bruno Contrada ha atteso quattro mesi che il giudice si pronunziasse sull’opposizione all’istanza di archiviazione proposta avverso la richiesta del Pm di Caltanissetta sul suo esposto denunzia presentato a marzo del 2007. DOSSIER | LAZIO 2009
Come è noto, peraltro, il 26 novembre del 2008, Contrada si era presentato dinanzi al Gip di Caltanissetta dove ha reso ampie dichiarazioni. Dopo tanta attesa le legittime speranze, di fare luce su taluni fatti che se accertati avrebbero potuto rimettere in discussione seriamente la sua condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, sembrano essersi vanificate perché il Gip nonostante, dubbi e dichiarate perplessità, ha archiviato il tutto: “anche se astrattamente riconducibile alla fattispecie di calunnia, sarebbe coperta da prescrizione”. A questo punto sorge spontaneo chiedersi: se tutti i fatti, esposti e denunciati da Bruno Contrada, erano coperti da prescrizione, perché il 5 maggio dello scorso anno lo stesso Gip ha ordinato al Pm indagini suppletive, che poi sono state fatte?». Una decisione diversa da parte
del Gip di Caltanissetta avrebbe riaperto il dibattito sull’innocenza di Bruno Contrada? «Secondo me sì. Perché quando si dimostra che alcuni funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri e alcuni pentiti hanno mentito, allora si rimette tutto in discussione. Teniamo conto che nel processo “principale” che ha portato alla condanna definitiva di Contrada che noi contestiamo, lo Stato impiegò 15 anni per ritenerlo colpevole. L’imputato venne arrestato infatti nel dicembre del 92 e la sentenza definitiva si ebbe nel maggio del 2007 con una Cassazione che impiegò altri 9 mesi per depositare la sentenza definitiva». Il caso giudiziario di Bruno Contrada resta aperto? «Si apre un nuovo capitolo del caso. La Procura Generale della Corte dei Conti ha chiesto 150mila euro come danno all’immagine dello Stato e quindi
LA STORIA PROCESSUALE Nella foto a sinistra, un momento del proscesso. Sopra, una foto strorica di Bruno Contrada
ha aperto un procedimento a Palermo. Come pronta risposta noi abbiamo aperto una valanga di documentazione e abbiamo chiesto l’audizione di Bruno Contrada, come da sua richiesta. Se c’è qualcuno che ha subito dei danni da parte dello Stato è Bruno Contrada e non viceversa. Secondariamente dobbiamo presentare nuovamente un’istanza di revisione del processo, magari cercando di non farlo svolgere a Caltanissetta dove il primo presidente della Corte d’Appello è il presidente del Tribunale che condannò Contrada in primo grado. Se è vero che la legge Sofri fu fatta proprio per evitare il paventarsi anche teorico di condizionamenti, allora Caltanissetta non può più essere la sede adatta e noi speriamo di spostare il processo a Catania, nella speranza che quella sede venga ritenuta competente a trattare il caso».
Gli arresti domiciliari sono confermati? «Fino a ottobre sì. Poi si vedrà. Il procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo voleva che Contrada tornasse in carcere, ma il Tribunale di sorveglianza si è opposto perché i medici che hanno visitato il condannato hanno espresso il parere che le sue condizioni di salute non siano compatibili con il regime carcerario». Qual è l’obiettivo finale della difesa? «Noi puntiamo a riconoscere che si è verificato un errore giudiziario. Le uniche cose che non possiamo contrastare, purtroppo, sono l’età e le malattie di Bruno Contrada. Stiamo parlando di un uomo di 78 anni che ha vissuto gli ultimi 17 anni della sua vita in una maniera terribile, che io paragonerei al trovarsi su una graticola ardente. Per l’amore del giusto e del vero, perché conti-
© SCARDINO ORIETTA / OLYCOM
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nuiamo a credere fermamente nell’innocenza di Bruno Contrada, che riteniamo vittima sacrificale di un inconcepibile e assurdo errore giudiziario, andrò e andremo avanti in questa difficile battaglia. Perché il segreto di noi difensori, quando crediamo nel giusto e nel vero, è uno solo: insistere. E noi in questo caso dobbiamo farlo». LAZIO 2009 | DOSSIER
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UN TRIBUNALE PER LA FAMIGLIA Il diritto di famiglia. Un ambito complesso e in continuo cambiamento, dominato da interessi che appartengono alla sfera emozionale dell’individuo e aperto all’evoluzione dei tempi e del tessuto sociale. L’autorevole parere di Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell’Associazione Matrimonialisti Italiani DANIELA ROCCA
rano poco più di 27mila nel 1995, sono arrivati a oltre 60mila nel 2006. Dal 1995 al 2006 il numero dei divorzi in Italia è cresciuto in una lenta ma inesorabile progressione. Soltanto dal 2005 al 2006 gli annullamenti di matrimonio sono aumentati tanto quanto negli ultimi dieci anni: oltre 15mila in più, contro i 20mila del decennio. Che siano giudiziali o congiunti i divorzi hanno comunque dei tempi d’attesa piuttosto lunghi. Si passa dai 130 giorni nel caso di scioglimento congiunto ai 670 nel caso di giudiziale. Non è comunque infrequente che una coppia debba aspettare dieci interminabili anni per ottenere una sentenza definitiva. Sempre di più gli avvocati di questo settore sono chiamati a una complessa funzione di mediazione. «Il problema è che in Italia non esiste un obbligo della specializzazione degli avvocati, così come non esiste per i magistrati. E quindi molte volte, ci si affida più alla preparazione del singolo avvocato che a una sistematica organizzazione della formazione e dell’aggiornamento dei professionisti», afferma l’avvocato Gian Ettore Gassani. Il diritto di famiglia sta attraversando una stagione ricca
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GIAN ETTORE GASSANI Avvocato e presidente nazionale dell’Ami, Associazione Matrimonialisti Italiani
di fermenti e attenzioni da parte degli operatori anche a causa dei profondi mutamenti culturali che la società sta attraversando: le coppie di fatto, i figli in provetta, le adozioni omosessuali, l’affidamento condiviso. Si parla di ecosistema familiare alterato, di indebolimento della società e spesso la normativa non riesce a stare dietro, a contenere questa evoluzione. Avvocato Gassani, come commentare questi dati? «La società sta cambiando e quindi il fenomeno delle famiglie allargate è stato troppo veloce rispetto ai tempi del legislatore. Indubbiamente bisogna correre ai ripari. Il mio auspicio è garantire a tutti i diritti minimi, quindi anche ai conviventi more uxorio, quelle persone che decidono di non sposarsi ma che, di fatto, hanno formato una famiglia.
Non trovo concepibile che una persona, spesso la donna, che abbia dedicato tanti anni della propria vita a un uomo, possa essere defenestrata all’improvviso senza nessuna garanzia, soltanto perché non è sposata. Per quanto riguarda l’adozione da parte degli omosessuali, devo dire che la mia associazione si è sempre manifestata contro, nel senso che a noi non interessa se una coppia è sposata, ma che i genitori adottivi siano un uomo e una donna per motivi psicologici, naturali. Siamo favorevoli anche all’adozione delle coppie di fatto perché non riteniamo che ci siano differenze sostanziali tra le coppie non sposate. Riteniamo, però, che le adozioni richieste solo dall’uomo o solo dalla donna siano innaturali per gestire un figlio, perché ci deve essere l’incontro di due culture, di due psicologie
che sono complementari». Qual è la posizione degli avvocati specialisti rispetto alla ventilata riforma del diritto minorile e delle strutture organizzative pensate per affrontare globalmente le questioni inerenti i diritti dei minori? «La posizione degli avvocati dell’Ami, associazione matrimonialisti italiani, è molto chiara. Intendiamo favorire il progetto del varo del tribunale della famiglia che sarà composto da magistrati super specializzati, continuamente aggiornati, che riduca la frammentazione delle competenze giurisdizionionali. In Italia, al momento, ci sono tre giudici diversi che si occupano delle stesse cose: il giudice ordinario, il tribunale dei minori e il giudice tutelare. Questi tre organi giurisdizionali si occupano delle viLAZIO 2009 | DOSSIER
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«DAL PUNTO DI VISTA DELLE NORME SOSTANZIALI, QUELLE CHE RIGUARDANO IL DIRITTO DI FAMIGLIA IN GENERALE, L’ITALIA È ALL’AVANGUARDIA. CREDO CHE IL PROBLEMA RIGUARDI PIÙ IL PROCESSO»
cende familiari minorili indistintamente. Spesso c’è una sovrapposizione di giudicati e può capitare che il tribunale dei minorenni affidi i figli al padre, il tribunale ordinario li affidi alla madre, il giudice tutelare ritenga che sia giusto affidarli a entrambi e alla fine, non si riesce a capire qual è il provvedimento che deve essere eseguito. In Italia c’è ancora una grave discriminazione tra figli legittimi e figli naturali, tra quelli nati nel matrimonio e quelli nati fuori dal matrimonio. Il tribunale della famiglia dovrebbe servire anche a dirimere questa controversia storica: eliminare ogni differenziazione tra figli naturali e legittimi, anche dal punto di vista semantico e terminologico. La tutela dei minori non può prescindere da una superspecializzazione dei magistrati e degli avvocati: oggi abbiamo una magistratura che è costretta, soprattutto nei piccoli tribunali, a occuparsi un po’ di tutto. Spesso ci troviamo a interloquire con magistrati che il giorno prima si erano occupati di sfratto e recupero crediti e il giorno dopo di abusi sessuali. Tutto questo non è in linea con un Paese della Comunità europea. Negli altri Paesi i magistrati sono specializzati e fanno una sola cosa». A suo parere rispetto alle riforme del diritto di famiglia nei Paesi europei, per esempio Spagna e Francia, come si presenta la nostra normativa? «Sono molto avanti rispetto a noi. I tempi per ottenere un divorzio sono rapidi, la separazione è stata abolita: una coppia in pochi mesi riesce a ottenere lo stato libero. In questi Paesi, le coppie in diffiDOSSIER | LAZIO 2009
coltà hanno una vasta rete di protezione composta dai servizi sociali e da quelli psicologici che in Italia purtroppo sono insufficienti. La Spagna ha fatto registrare grandi progressi dal punto di vista sociale. Spagna, Francia e Inghilterra possono essere presi come esempio. In Italia purtroppo tutto è demandato ai giuristi, avvocati e magistrati, per quanto riguarda la soluzione dei problemi che interessano la famiglia. Ritengo, invece, che un processo di separazione e divorzio non possa prescindere dall’ausilio della mediazione familiare e della psicoterapia. La legge da sola non può fare miracoli, può solo stabilire i calendari dell’esercizio avente diritto, determinare assegni di mantenimento, provvedere all’assegnazione della casa coniugale, ma non può risolvere problemi legati alla psicologia della coppia che sono interesse di altri istituti professionali che a vario titolo si occupano della stessa ma-
teria». Quanto la legislazione italiana ha recepito le principali innovazioni della legislazione europea? «Abbiamo recepito soltanto la legge 54 dell’affidamento condiviso. In Italia c’è un atteggiamento conservatore che mira a mantenere le cose come stanno. Nel nostro Paese c’è ancora il doppio grado di giudizio, la separazione prima, il divorzio dopo: un cittadino per ottenere il divorzio deve quasi scientificamente scontare una sorta di pena, deve aspettare 10 anni, come se fosse una sorta di deterrente per il divorzio. E qui si inserisce un problema di carattere culturale e anche di carattere politico, di politica italiana, a destra e a sinistra non ha il coraggio di avanzare proposte di riforma che possano entrare in rotta di collisione con la religione cattolica. “Vuoi divorziare la devi pagare cara, altissime parcelle, e tutta la tua vita
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sarà scandagliata in modo tale che probabilmente ti pentirai di aver deciso di separarti o di divorziare”: nella fase istruttoria dei divorzi, una persona davanti a tutti, e non solo davanti all’udienza presidenziale che è una cosa diversa, è costretta a raccontarsi e a portare i propri testimoni, i propri tradimenti, quelli che ha subito, tutte le tragedie familiari. Anche questa invasività, questa sistematica prelazione del principio di riservatezza è un altro dazio che deve pagare chi ha votato sì per la legge sul divorzio». La nuova prospettiva di riconoscimento di co-genitorialità rende più complesso o semplifica e chiarisce l’intervento dell’avvocato familiarista? «Ritengo che la legge 54 del 2006, che ha introdotto nel nostro sistema l’affidamento condiviso, sia una legge che ha sancito un principio fondamentale, la bigenitoritalità. Il problema è che questa legge non ha risolto molti
problemi perché manca il supporto della mediazione familiare, per cui spesso s’impone a una coppia che si odia a morte di condividere un percorso di educazione ai propri figli. E questo francamente invece di diventare un motivo di tranquillità della coppia, diventa motivo di conflitto continuo. La legge deve sancire un principio e poi ci saranno delle infrastrutture che devono, in qualche modo, guidare i genitori a condividere un percorso educativo». Qual è il suo punto di vista sul funzionamento del quadro normativo e del sistema organizzativo del diritto di famiglia? «Dal punto di vista delle norme sostanziali, quelle che riguardano il diritto di famiglia in generale, l’Italia è all’avanguardia. Credo che il problema riguardi più il processo, la prassi, il luogo dove far valere i propri diritti, cioè tribunali. Dal punto di vista processuale deve cambiare qualcosa:
un processo di separazione e divorzio, in Italia dura 4-5 anni, e ha varie fasi che devono essere eliminate. Si parla di un processo di separazione e divorzio simile a quello penale, basato molto sull’oralità, sull’accentrazione, sull’immediatezza. Invece i nostri processi separativi, divorzisti sono lunghissimi, lenti perché hanno una serie di cadenze processuali del tutto inutili, con deposito di continua memoria, atti, controrepliche e tutto questo vanifica la modernità del diritto di famiglia italiano. Il nostro Paese, nonostante la presenza del Vaticano, è riuscito ad accettare il divorzio, l’aborto, cose che cinquant’anni fa sarebbero state assolutamente utopistiche. Poi, però, ci scontriamo con la realtà di tutti i giorni, con i magistrati che sono pochi, con le strutture fatiscenti, con un mancato rispetto della riservatezza delle persone, e tutto questo vanifica anche la bellezza del diritto di famiglia italiano». LAZIO 2009 | DOSSIER
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IMPEGNATO Santo Versace è da questa legislatura deputato Pdl. Noto industriale della moda è anche presidente di Operation Smile Italia Onlus una Fondazione di volontariato internazionale nata nel 2000 e che opera nel campo della sanità infantile
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COSTRUTTORI DI VALORE
LO STILE ITALIANO È L’ANIMA DELLA RINASCITA Ridurre burocrazia e pressione fiscale. E potenziare la formazione. Perché agli imprenditori del made in Italy è questo che occorre innanzitutto. Per mantenere alta la grande tradizione artigiana nazionale. E competere da protagonisti sui mercati internazionali. Sull’argomento interviene Santo Versace, deputato Pdl e imprenditore dell’eccellenza italiana MARILENA SPATARO
iore all’occhiello del prodotto italiano nel mondo e della tradizione artigiana del nostro Paese, oltre che rilevante risorsa per l’economia nazionale, il made in Italy della moda, in questo momento di crisi dei mercati internazionali, va tutelato con particolare attenzione. Ne va di mezzo, infatti, non solo l’immagine, ma anche il Pil nazionale. «La moda italiana è leader mondiale sia nella donna che nell’uomo che negli accessori. Una posizione di preminenza questa che può essere mantenuta a condizione che si riformi il sistema Paese» spiega Santo Versace, deputato del Pdl e imprenditore di uno dei più importanti Gruppi della moda. Che nel fare il punto dell’attuale situazione del settore, indica gli interventi necessari con cui intervenire a livello politico non solo per continuare a mantenere il primato italiano nel mondo, ma anche per rimettere in moto la macchina del sistema Paese e della sua economia, a partire dal Mezzogiorno. Da imprenditore, come vede la posizione competitiva del nostro Paese in questo settore nel difficile scenario dell’economia globale? «Abbiamo bisogno di un sistema Paese più leggero ovvero con minore imposizione fiscale, minore burocrazia, e con più
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formazione. Abbiamo creato in Italia un disprezzo sociale e culturale verso il lavoro manuale dimenticando che Giotto, Michelangelo, Raffaello, Bernini, Canova sono tutti lavoratori manuali come Salvatore Ferragamo e Gianni Versace. Esistono certamente buone possibilità di difesa e persino di crescita di competitività per il nostro Paese, e la moda è la manifestazione più bella, più visibile, più positiva della globalizzazione. Essa rappresenta un esempio di vera democrazia a disposizione di tutti e che si rigenera senza bisogno di interventi esterni». È opinione diffusa che la grave crisi che stiamo vivendo affondi le sue radici nella mancanza di valori etici condivisi, per cui le regole e le leggi servirebbero a ben poco in assenza di un comune sentire etico che le sostenga. Qual è il suo pensiero al riguardo? «La crisi di valori nella nostra società è indiscutibilmente imputabile all’imposizione di un modello di vita fondato sul consumismo, sulla ricerca a tutti i costi del successo e dei denari facili. Quella che è venuta a mancare è la fiducia nella forza della legge. Credo, però, che vi sia una generale condivisione di valori di fondo, intendo dire quelli contenuti nella prima parte della Costituzione, in cui la magLAZIO 2009 | DOSSIER
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gioranza degli italiani ancora oggi si riconosce. Quello che occorre è un grande progetto riformatore che svecchi la nostra politica e la faccia tornare a essere quella grande palestra di democrazia con cui i talenti migliori del Paese vogliono misurarsi. Oggi la macchina legislativa non sa rispondere con la necessaria rapidità alle emergenze del Paese e non sa colmare i vuoti legislativi nei tempi richiesti da una società in rapida trasformazione. Per questo come parlamentare sto lavorando a un progetto di riforma complessiva dei regolamenti parlamentari che a giorni presenterò alla Camera, ispirato a due principi: la semplificazione delle procedure parlamentari e l’accorciamento drastico dei tempi dell’iter legislativo, due principi in cui credo da sempre innanzi tutto come imprenditore e poi come politico che sente l’urgenza di rispondere alle richieste che vengono dalla società». Recentemente lei è intervenuto sul Sole 24 Ore con un articolo sul tema del Mezzogiorno. A suo parere la grave crisi che il nostro Paese sta vivendo può diventare un momento di grandi opportunità per la rinascita del Sud, nell’ottica di un nuovo modello di sviluppo che abbia il Mediterraneo come protagonista? E quali sono le linee e i progetti per realizzare questa rinascita? «In epoca di gravi difficoltà del bilancio dello Stato e dell’economia, il primo passo da compiere è quello di reperire risorse attraverso il taglio delle voci di spesa ingiustificate che nel nostro bilancio sono tante. Il che è stato dimostrato dalla pessima distribuzione di contributi a fondo perduto fatta alle imprese del Sud. Intorno all’intervento pubblico e al cinquantennale fallimento del modello Cassa del Mezzogiorno, sono cresciuti e si sono consolidati i potentati locali, la corruzione, la peggiore burocrazia e l’attitudine clientelare di tanti falsi imprenditori. Perciò innanzitutto occorre porre fine alla distribuzione a pioggia di fondi pubblici. I contributi alle imprese ammontano a circa 40 miliardi di euro. Quelli destinati a imDOSSIER | LAZIO 2009
prese del Sud sono circa 12 miliardi di euro. Questa somma enorme può essere adoperata per far recuperare alle regioni del Mezzogiorno il gap infrastrutturale di cui soffrono rispetto al resto d’Italia e che è una delle ragioni del mancato decollo dell’industria meridionale. Miliardi di euro destinati a un grande progetto di opere pubbliche da realizzarsi rigorosamente attraverso il project financing. Faccio un esempio: il passante di Mestre, primo risultato concreto della Legge Obiettivo, è stato realizzato in project financing con un costo complessivo di circa 1 miliardo di euro di cui solo 113 milioni a carico dello Stato e il resto a carico dei privati che si sono
garantiti il loro profitto attraverso la concessione pluriennale della gestione del passante e dei relativi pedaggi. Tornando all’altra metà dei contributi risparmiati, questi potranno coprire il mancato gettito derivante dalla applicazione di quella proposta di detassazione Ires per le imprese che investono nel Sud e che io intendo chiamare No Tax Region nel progetto che proporrò in Parlamento insieme ad altri deputati e senatori e con il sostegno di una parte significativa di giovani imprenditori del Sud di Confindustria. La proposta, nei suoi contorni generali, è questa: una detassazione Ires per 10 anni e una riduzione al 50% per i successivi 5 anni per tutti
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coloro che apriranno uno stabilimento produttivo nel Sud. Oltre che una misura ragionevole e sostenibile per l’attuale bilancio dello Stato, essa favorirebbe un’imprenditoria sana che abbia i capitali e li sappia valorizzare e non quell’imprenditoria malata e foriera di corruzione conosciuta in questi anni, la quale si nutre solo del contributo a fondo perduto dello Stato, finito il quale sparisce lasciando i capannoni chiusi». Tra imprenditoria e politica, trova anche il tempo per occuparsi di volontariato. Come presidente della Fondazione Operation Smile, si sta impegnando per cercare di ridare il sorriso a tanti bambini nel mondo colpiti da malformazioni al viso. Quali le finalità, l’organizzazione i progetti di questa iniziativa? «Operation Smile Italia Onlus è una Fondazione nata nel 2000, costituita da volontari medici, infermieri e paramedici che realizzano missioni umanitarie in 51 Paesi del mondo, per correggere con interventi di chirurgia plastica ricostruttiva gravi malformazioni facciali come il labbro leporino e la palato schisi ed esiti di ustioni e traumi. L’obiettivo principale è creare lo sviluppo sostenibile delle proprie attività, attraverso il progressivo miglioramento delle infrastrutture sanitarie in quei Paesi nei quali si attuano i propri programmi medici, al fine di garantire a ogni bambino un più facile accesso a servizi chirurgici di qualità. L’intervento per correggere un labbro leporino richiede in media 45 minuti. Operation Smile è nata per donare la speranza di un sorriso e di una vita decorosa a tutti quei bambini che nascono affetti da tali malformazioni, nei Paesi più disagiati e poveri del mondo, e che difficilmente potrebbero avere accesso al trattamento chirurgico. Dal 1982, anno di costituzione di Operation Smile International negli Stati Uniti, sono stati operati gratuitamente nel mondo oltre 120mila bambini, formati migliaia di operatori sanitari e inaugurati sei centri di cura». LAZIO 2009 | DOSSIER
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CREATIVIÀ VIRTUOSA DEL MADE IN ITALY Lo stile è una questione di educazione e attitudine. Si raggiunge con semplicità, nell’abbigliamento, così come nei viaggi e nelle frequentazioni mondane. La parola a Carlo Rossella, presidente di Medusa Film, uno dei maggiori rappresentanti dell’eleganza made in Italy STEFANO RUSSELLO
CARLO ROSSELLA Giornalista e scrittore. Ambasciatore dell’eleganza made in Italy. Attualmente è presidente della Medusa Film
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on esiste lusso senza stile. Si basa su questo concetto molto semplice il credo di Carlo Rossella, uno dei massimi punti di riferimento in Italia per i bon vivant. E in generale per chi ama caratterizzare il proprio lifestyle con prodotti e momenti di qualità. Giornalista, appassionato di moda e costume, esperto di cinema, non è difficile scorgere il presidente della Medusa Film a un tavolino della piazzetta più famosa del mondo, quella di Capri, o nei locali della movida mediterranea di Panarea. Mondano, non c’è che dire. Ma non per “dovere”. Piuttosto verrebbe da pensare per inclinazione. Rossella infatti pur amando gli abiti di qualità, si dice assolutamente contrario al consumismo eccessivo che pare dominare la moda. «Quando si compra – consiglia l’ex direttore di Panorama – bisognerebbe scegliere beni durevoli, che resistano nel tempo, e non cose effimere. Invece vedo in giro capi con borchie e accessori strani, elementi di metallo, materiale di scarto». Insomma, per vestire bene non occorre necessariamente spendere una fortuna o seguire le follie di qualche stilista audace. Allora, cosa caratterizza la vera eleganza? «Facile. Bisogna cercare di spendere poco e bene, comprare le cose giuste. Mi verrebbe da dire “Bisogna saper spendere”, un consiglio che, non a caso, era il titolo di una mia rubrica su La Stampa. Inoltre, bisogna recuperare vecchi abiti, cravatte, camice e scarpe, senza buttar via niente. Io per esempio conservo abiti realizzati su misura trent’anni fa, che non ho mai buttato e che continuo ad indossare. La gente invece oggi tende a buttare via le cose con troppa facilità, invece dovrebbe abituarsi a risparmiare. Quando si compra, poi, è meglio scegliere beni durevoli, che resistano nel tempo, e
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non cose effimere. Sul mercato si trovano, per esempio, bellissimi cappotti di lana, stile tartan, eleganti e chic, che non costano nemmeno tanto. Oppure si possono comprare alcune marche popular che, pur non essendo grandi griffe, realizzano comunque buone linee». Quindi per vestire bene non bisogna spendere tanto, come un tempo? «Ci vuole gusto. Se una persona proviene da una famiglia elegante, fa meno fatica. Ovviamente si tratta di una dote che si può anche apprendere col tempo, sempre che ci sia una certa predisposizione. In assenza di una buona educazione giovanile al gusto, infatti, una persona può sempre compensare con amicizie e frequentazioni. Del resto il gusto è democratico, come l’arte, quindi si può apprendere». E se dovesse definire il lusso e lo stile? «Ognuno di noi sa cos’è lo stile, dipende dall’educazione che ha avuto. Se si è ricevuta una buona
educazione, allora ci sono molte possibilità di acquisirlo. Per quanto riguarda il lusso, invece, credo che dipenda dallo stile». Venendo al suo guardaroba, a quale capo non potrebbe mai rinunciare? «Ovviamente non rinuncerei mai a un paio di mocassini Tod’s, perché sono le scarpe più comode che esistono al mondo. Anche perché ho problemi ai piedi. Del resto sono la parte più importante della mia personalità. Con i piedi ragiono, scrivo, per me sono tutto». Il made in Italy è sinonimo di stile e qualità. È ancora così? «Assolutamente sì. Il made in Italy è vivissimo, grazie a marchi come Tod’s, Armani, Prada e Gucci, solo per citare i più grandi. Nel campo dell’arredamento, poi, abbiamo Poltrona Frau, mentre nelle automobili, inutile ricordarlo, domina il marchio Ferrari. Il made in Italy ha un imprinting ancora molto forte sul lusso. In questo siamo maestri, anche più dei francesi, perché la
«IL MADE IN ITALY HA UN IMPRINTING ANCORA MOLTO FORTE SUL LUSSO. IN QUESTO SIAMO MAESTRI»
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nostra gamma di prodotti è più diversificata, basti pensare alla nostra leadership incontrastata sul food. La crisi economica potrebbe anche intaccare la solidità di questo settore, ma i dati più recenti ci confermano il contrario». Da giornalista, quanto crede che i media oggi influenzino le mode? «I media educano allo stile, al lusso e al buon gusto. In Italia, del resto, abbiamo sempre avuto grandi giornaliste, di grande qualità, nel campo della moda, del costume e dello stile. Mi riferisco a firme eccellenti come Natalia Aspesi, Ca-
milla Cederna, Maria Pezzi e Donna Letizia. Sono loro le grandi, quelle che hanno fatto la storia. Ma anche oggi ne abbiamo di validissime. Leggo con piacere gli articoli di Carla Vanni, o ancora di Daniela Fedi. Dovendo fare un appunto, ciò che mi piacerebbe trovare nelle riviste di moda italiane è un po’ più di descrizione di materiali, come si usava una volta». Un altro status symbol, oltre all’abito, è la frequentazione di luoghi esclusivi. Esistono ancora, in Italia, mete d’élite? «Portofino è noioso, così come la Sardegna, che è bella, ma per di-
vertirsi bisogna frequentare le ville di Porto Rotondo. I posti che amo sono pochi, su tutti ci sono Capri e Panarea, luoghi di grande charme e grande lusso, a cui sono molto legato. Mi piacciono il mare e i posti aperti, dove la gente ride e scherza. Per questo frequento volentieri Napoli e Venezia, che non è una città triste come sembra. Milano? Mah, rimane la capitale morale d’Italia, ma preferisco decisamente Roma, forse a causa del mio amore per il cinema». Lei è esperto e appassionato di cinema. Proprio il grande schermo ha creato nei decenni miti e divine. Oggi è ancora così? «Certo, guai se non lo facesse. Invece la televisione non ha questa prerogativa. Ogni stagione del cinema ha i suoi beniamini, nomi che sopravvivono in eterno. Penso a Rodolfo Valentino, Humphrey Bogart, Douglas Vairbans Junior. Ma anche alle grandi donne, Lauren Bacall o Rita Hayworth. Senza parlare dei grandi registi, anche contemporanei, come Stanley Kubrick, o i fratelli Coen. Sicuramente un posto speciale è da riservare ai grandi miti italiani, da Marcello Mastroianni a Sofia Loren, con una menzione particolare a Federico Fellini. Tutti protagonisti di un grande periodo del cinema italiano». All’interno della nuova generazione di attori e registi, esiste un’icona di stile che possa richiamare quel glorioso passato? «Abbiamo molte attrici che incarnano lo stile tipicamente italiano, a partire da Monica Bellucci, la vera bellezza mediterranea. Poi ci sono attrici più giovani, molto brave, che probabilmente devono ancora lavorare per raggiungere quel modello, ma hanno buone potenzialità. Caterina Murino, per esempio, ha tutte le carte in regola per diventare un’icona italiana dello stile». LAZIO 2009 | DOSSIER
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