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IL BUON GOVERNO PRIMAVERA SICILIANA

Raffaele Lombardo

LA MIA TERRA HA RISCOPERTO L’ORGOGLIO Razionalizzazione delle risorse. Stabilizzazione dei precari nella Pa. Un piano energetico regionale che punta sullo sviluppo delle fonti rinnovabili. La riforma della sanità. Raffaele Lombardo fa il bilancio del suo primo anno da governatore della Sicilia LAURA PASOTTI

arla in modo diretto e, come dice lui stesso, «senza infingimenti». E forse è proprio questo il motivo per cui, dopo essere stato uno dei presidenti di Provincia con i più alti indici di gradimento d’Italia, Raffaele Lombardo è oggi uno dei governatori di Regione più amati. Perché, non appena entrato a Palazzo d’Orleans, il suo primo obiettivo è stato quello di ridare consistenza alla voglia di identità dei siciliani, una voglia che a detta dello stesso Lombardo, «era sopita da anni di centralismo». Da quel momento sono trascorsi undici mesi durante i quali il governatore è riuscito a «riportare l’attenzione di tutto il Paese sul problema dello sviluppo del Sud. Un problema che era ormai relegato a dibattito accademico», facendo parlare della sua regione in modo nuovo e concreto, al di là di stereotipi consumati. Un bilancio positivo, dunque, quello di questo primo anno, che ha visto nella riforma della sanità lo sforzo più emblematico da parte dell’amministrazione regionale. Ma non il solo. «La Sicilia si è messa le carte in regola per non essere accusata di vittimismo e rivendica giustamente il ruolo e l’at-

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tenzione che le spettano». Ma chiede l’aiuto dello Stato e dell’Europa per affrontare la questione Lampedusa, un problema di portata nazionale ed europea di fronte al quale la Sicilia non può essere lasciata sola. «Perché – afferma Lombardo – non possiamo permettere il cambio della vocazione turistica di una delle perle del Mediterraneo». Da presidente della Provincia di Catania aveva uno dei più alti indici di gradimento d’Italia. Oggi è il governatore più amato. Come se lo spiega? «È mio costume parlare in modo diretto e senza infingimenti con i miei interlocutori. Così ho fatto anche appena giunto in Regione, affrontando da subito alcuni fra i temi più delicati, dallo spreco delle risorse alla trasparenza nella spesa, per ridare consistenza a una voglia di identità e protagonismo sopita nei siciliani da tanti anni di centralismo. Si potrebbe dire che ho provato a riaccendere una fiamma e questa ha illuminato un percorso e offerto una prospettiva». Quali sono le principali linee di intervento del Piano energetico regionale appena approvato?


IL BUON GOVERNO

IL PIÙ AMATO Raffaele Lombardo, 58 anni di Catania, è presidente della Regione Sicilia dal 2008. Presidente della Provincia di Catania dal 2003 al 2008 e parlamentare europeo dal 2004 al 2008, e ha fondato il Movimento per l’autonomia

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IL BUON GOVERNO

«Il perno intorno al quale ruota il Piano è il ruolo attribuito allo sviluppo delle fonti rinnovabili e alla promozione del risparmio energetico in tutti i settori. Gli obiettivi sono la diversificazione delle fonti energetiche, la promozione di filiere produttive di tecnologie innovative e di clean technologies nelle industrie a elevata intensità energetica, la valorizzazione delle risorse endogene, il potenziamento e l’ambientalizzazione delle infrastrutture energetiche, il completamento della rete metanifera e il potenziamento dell’idrogeno. È previsto, inoltre, il raddoppio dell’elettrodotto che collega la Sicilia al continente, la realizzazione della rete ad altissima tensione, oltre alla costruzione e messa in esercizio di due terminali di rigassificazione». Quale spazio è riservato all’uso di nuove risorse? «Il Piano fa riferimento in particolare alla valorizzazione dell’uso del vettore idrogeno, al recupero del freddo nei processi di rigassificazione del gas naturale liquido, alla ricerca e allo sviluppo relativi all’impiego di biocarburanti, alla sicurezza degli impianti per lo sfruttamento della fissione nucleare con nuove tecnologie per la risoluzione dei problemi relativi allo smaltimento delle scorie. Un’altra linea di intervento riguarda l’efficienza energetica nei DOSSIER | SICILIA 2009

settori dell’industria, dei trasporti e dell’edilizia socio-sanitaria». La parola chiave del Piano sembra essere “fotovoltaico”. Una svolta di cui si parla da anni, ma che imprese e privati ancora stentano a intraprendere. Perché questa resistenza, nonostante i presupposti climatici ottimali? «Le misure previste nel Piano sono il miglior incentivo per far cambiare questa tendenza». Lei ha parlato di una stabilizzazione dei precari nella Pa entro cinque anni. Come pensa di riuscirci? «Attraverso un crono-programma che preveda, nei prossimi cinque anni, la stabilizzazione dei lavoratori provenienti dal regime transitorio dei lavori socialmente utili, restituendo dignità giuridica ai soggetti che, a causa della grave situazione occupazionale siciliana, hanno operato sinora in assenza di certezze. Abbiamo ipotizzato un percorso che prenda le mosse dalla ricognizione dell’attuale situazione delle Pa e dall’adozione delle relative piante organiche. Saranno così individuate le eventuali carenze organizzative per categoria professionale e i profili disponibili, in modo da procedere alla stabilizzazione dei precari storici nelle posizioni lavorative vacanti».


IL BUON GOVERNO

«LA SICILIA DI OGGI HA LE CARTE IN REGOLA PER NON ESSERE ACCUSATA DI VITTIMISMO. LO SFORZO CHE STIAMO FACENDO PER RIMETTERE ORDINE NELLA SANITÀ È IL PIÙ EMBLEMATICO. MA NON È IL SOLO»

A dicembre è stata approvata una serie di tagli nella spesa pubblica, che in Sicilia è sempre stata piuttosto consistente. Quali voci sono state ridimensionate? «Parlerei di razionalizzazione degli interventi, più che di tagli. In Sicilia abbiamo iniziato a farlo in molti settori. Emblematico, in tal senso, è l’accordo con i sindacati dei regionali per un miglior utilizzo delle risorse umane e perché il lavoro sia distribuito in modo più equilibrato: intendiamo portare il lavoro dove abbiamo i dipendenti invece di spostare questi da un ufficio all’altro. In questo modo si garantisce più efficacia senza penalizzare nessuno». La discussione sulla riforma della sanità regionale è entrata nel vivo. Quali sono i termini del dibattito? «Sulla riforma della sanità si è innescata una spirale politica che nulla ha a che vedere con gli obiettivi che tutti condividono. Ritrovata l’unità di intenti all’interno della maggioranza, vareremo un testo che, ne sono certo, riuscirà a coniugare gli inevitabili sacrifici con l’interesse di tutti: una sanità più efficiente e meno soggetta al ricatto della politica che abbia al centro il malato». In Sicilia, Regione a Statuto speciale, il federali-

smo pone questioni delicate. Quali sono le sue previsioni? «La nostra situazione di Regione autonoma non ci pone maggiori problemi, ma più responsabilità. I padri del nostro Statuto ci offrirono una grande opportunità: dare alla Regione poteri e strumenti che le permettessero di essere amministrata al meglio. Il nostro statuto non è nato contro lo Stato centrale, ma per dare ai siciliani l’autonomia che oggi è patrimonio di tutta la nazione. Il prossimo anno sarà dedicato alla stesura dei decreti attuativi della legge che anche noi abbiamo contribuito a varare». Quali saranno i prossimi provvedimenti del governo regionale? «Dopo il varo della riforma della sanità, occorrerà intervenire con iniziative regionali sulla crisi che si sta abbattendo anche in Sicilia. Dobbiamo attuare il programma elettorale, a partire dal nodo più importante, le infrastrutture. Gli strumenti a nostra disposizione sono l’efficienza dell’amministrazione e l’utilizzo di fondi europei. Abbiamo già compiuto scelte importanti e siamo nelle condizioni di imprimere una svolta che produrrà altre opportunità di sviluppo. Tra queste, quella più significativa rimane il ponte sullo Stretto». DOSSIER | SICILIA 2009

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CONTROCANTO Enzo Bianco

ENZO BIANCO Nato ad Aidone in provincia di Enna, è stato sindaco di Catania nel 1988/89 e nel 1993. Oggi è consigliere comunale nella città e senatore Pd

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CONTROCANTO

QUESTIONE MORALE? CHI HA SBAGLIATO PAGHI L’esperienza da sindaco. E il rilancio della città. Non solo sotto il profilo economico, ma anche dal punto di vista culturale. Enzo Bianco guarda alla Catania di oggi con l’occhio critico di chi la conosce bene e vorrebbe vedere valorizzate le sue grandi potenzialità. Come? Puntando sul connubio tra formazione, ricerca e innovazione. E, naturalmente, sulla legalità LAURA PASOTTI

atania la conosce bene. Per due volte, infatti, nel 1988/89 e poi nel 1993, Enzo Bianco ne è stato il primo cittadino. E anzi, è stato “quel” primo cittadino che ha fatto vivere alla città la sua “primavera”. La città veniva da 37 anni di sindacature democristiane e Bianco, il primo laico, puntò su un approccio che i catanesi non avevamo mai visto. «Scesi in strada a parlare con loro», ricorda. Fece ripartire i più elementari servizi ai cittadini, chiudendo le strade al traffico privato e recuperando il centro storico degradato. «Negli

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anni Novanta, Catania aveva abbandonato i cliché mafiosi – afferma – per dare spazio alla sua anima creativa, produttiva e ospitale». Risalgono a quegli anni gli insediamenti nell’Etna Valley, area che ha visto investire in Sicilia colossi come Ibm e Nokia, Wyeth Lederle e STMicroelectronics. Ma anche la rinascita della “movida” catanese che, grazie all’apertura di numerosi caffè concerto «ha permesso ai cittadini di riappropriarsi del centro storico». E oggi? «La situazione è delicata, ma credo che Catania possa ripartire». Enzo Bianco è fiducioso. È questo uno dei motivi per cui, nonostante il grosso deficit delle casse comunali, lo stesso Pd non ha chiesto il dissesto. Secondo l’ex sindaco, oggi consigliere comunale oltre che senatore, «non sarebbe servito». Quale Catania trovò nel 1993 al momento della sua elezione a sindaco? «La mia prima esperienza da sindaco risale al 1988/89. Avevo 37 anni ed ero il primo sindaco laico della città. Fu un’esperienza breve ma intensa in cui utilizzai un approccio che i cittadini non avevano mai visto, scesi in strada a parlare con loro. Nel 1993 la città doveva ancora rinascere, ma i cittadini non avevano dimenticato. Fui eletto e la Catania che mi trovai a governare era una città insicura, in cui ogni anno oltre cento DOSSIER | SICILIA 2009

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CONTROCANTO Enzo Bianco

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persone venivano uccise per mano della mafia, e con una situazione economico-sociale difficilissima, con la crisi delle più importanti aziende edili che occupavano migliaia di lavoratori». E su cosa puntò per il rilancio? «Su alcune grandi direttrici: l’efficienza della macchina amministrativa per offrire servizi e risposte veloci a cittadini e imprese, il rilancio della cultura come veicolo di sviluppo del territorio, il sostegno a ricerca e innovazione per attrarre nuovi investimenti, la riqualificazione della periferia e del centro storico degradato e in mano alla mafia perché i cittadini se ne potessero riappropriare». Crede che la sua ricetta di allora possa essere riproposta oggi in un periodo in cui la città è alle prese con un grosso deficit comunale? «In parte sì, attualizzandola e stando attenti alle casse del Comune. Oggi si possono fare alcune cose a costo zero come gli investimenti sulla cultura o l’uso dei DOSSIER | SICILIA 2009

fondi strutturali per molte opere. Si deve ripartire da lì». Quale dovrebbe essere oggi il ruolo di Catania in Sicilia e sul piano nazionale? «Negli anni Novanta Catania ha vissuto la sua “primavera”, abbandonando i cliché mafiosi per dare spazio alla sua anima creativa, produttiva e ospitale. Oggi, invece, vive una grande crisi, ma il connubio tra formazione, ricerca e innovazione resta fondamentale. Anche per non disperdere il patrimonio dell’Etna Valley. Bisogna portare a termine le infrastrutture, avere il coraggio di investire nella vivibilità della città per poter puntare sul turismo. Catania ha grandi qualità, ma occorre riavviare la progettualità e fare una battaglia per il rispetto della legalità, un aspetto su cui si è molto sorvolato negli ultimi otto anni». Quali sono le infrastrutture necessarie per il rilancio economico e culturale della città? «Si potrebbe cominciare dalla

“terra di nessuno” a sud di Catania, determinando competenze, realizzando infrastrutture, garantendo l’impresa che sceglie questo territorio e offrendo incentivi economici e fiscali. Occorre anche un’azione decisa del governo cittadino per attirare investimenti. Abbiamo tanti cervelli, una grande Università e le potenzialità per diventare un polo di attrazione per l’intero bacino del Mediterraneo. Devono essere realizzate le infrastrutture di trasporto pubblico che attendono da troppo tempo e va ripreso il progetto della Plaia, la spiaggia dorata, trasformandola in un moderno litorale attraente per i turisti. I quartieri popolari vanno riqualificati per diventare luoghi sociali in cui fare attività economiche e culturali. Molte città, in Italia e all’estero, si sono convertite a un’economia “culturale” dopo un passato industriale: lo sviluppo di Catania non può prescindere anche da questo passaggio. Purtroppo, negli ultimi anni questa strada è stata abbandonata, dando


CONTROCANTO

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ENZO BIANCO A sinistra il Ministro tedesco Shiley e Bianco alla cena in Prefettura. Qui a fianco con Pierluigi Castagnetti

«ALLE ULTIME POLITICHE DS E MARGHERITA POI CONFLUITI NEL PD AVEVANO UN PO’ MOLLATO LA PRESENZA SUL TERRITORIO, SOPRATTUTTO NELLE ZONE POPOLARI. E POI IL PD HA SOTTOVALUTATO LA “QUESTIONE MERIDIONALE”»

prova di grande miopia». Cosa consiglierebbe al sindaco Stancanelli per tentare di uscire da questa situazione? «Ovviamente, non sta a me decidere, ma ho dato alcuni suggerimenti, come ad esempio portare in Consiglio il Piano regolatore, concedere alla Società Calcio Catania di costruire a proprie spese un nuovo stadio fuori dal centro cittadino, proporre ai privati di organizzare una nuova grande “Estate Catanese”, mettere mano al piano del traffico. E poi gli suggerirei di dare battaglia sui tavoli in cui si discute del futuro della STMicroelectronics e degli insediamenti produttivi, chiedendo al governo nazionale attenzione e incentivi. Mi permetto di ricordare,

inoltre, che anche la Regione Sicilia, governata da quel Raffaele Lombardo che fu vicesindaco di Scapagnini durante il suo primo mandato, deve fare la sua parte». Perché, a suo avviso, il centrosinistra non è riuscito a convincere gli elettori siciliani che hanno fatto dell’Isola una roccaforte del centrodestra? «In quegli anni, si sono affermativi meccanismi di raccolta del consenso che non sono nel dna del centrosinistra e che hanno portato al risultato attuale. Ma anche il centrosinistra ha commesso degli errori. Troppe volte è stato percepito come il partito del “no”. E ha puntato su un modello di sviluppo incerto. Non si vive di soli “no” e una regione grande come la Sicilia

deve offrire una speranza, un progetto». Quali sono stati gli errori commessi? «La composizione delle liste alle ultime politiche non è stata felice, ma, in generale, Ds e Margherita, poi confluiti nel Pd, avevano un po’ mollato la presenza sul territorio, soprattutto nelle zone popolari. E poi il Pd ha sottovalutato la questione meridionale di cui dovrebbe, al contrario, riappropriarsi a pieno titolo. Il Sud non può sprofondare nel gap sempre crescente che lo divide dal Nord. Sono scomparsi gli incentivi alla creazione d’impresa e all’occupazione e allora battiamoci per questo: meno assistenzialismo e più sviluppo. Bisogna contrastare le false autonomie che mirano al consolidamento del potere sul territorio e nei posti di comando, comprimendo l’affermazione del merito come criterio per valorizzare risorse e talenti». Come giudica la questione morale scoppiata in molte giunte di centrosinistra? «Ho una sola parola chiara: chi ha sbagliato, paghi. Naturalmente aspettando il verdetto della giustizia. Non mi sento il paladino della moralità solo perché sto nel centrosinistra. Quando ci sono di mezzo il rispetto delle regole e l’etica, l’appartenenza politica non conta. Però, la questione morale è fondamentale per l’attività politica ed è un punto su cui non si può transigere, anche nella scelta delle candidature. Una cosa su cui una grande forza politica ha l’obbligo di vigilare, prima ancora dell’intervento della magistratura. Da parte nostra, se abbiamo sbagliato, vogliamo voltare pagina». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese MARCO MARIO MILANESE deputato del Gruppo Pdl alla Camera e consigliere politico di Giulio Tremonti di cui ha guidato la segreteria e il Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio

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ECONOMIA E FINANZA

TRASPARENZA E REGOLE PER RIFONDARE IL SISTEMA Più norme e più controlli condivisi. Occorre questo per uscire dalla crisi finanziaria internazionale secondo Marco Mario Milanese, consigliere di Giulio Tremonti. Una ricetta che il ministro dell’Economia propone al gotha economico del pianeta. E che in Italia sarà affiancata da altri provvedimenti GIUSI BREGA

l’uomo di fiducia di Giulio Tremonti. È lui che da dieci anni lavora accanto al ministro dell’Economia, dapprima come aiutante di campo quando era tenente colonnello della Guardia di Finanza, poi come capo segreteria di Tremonti nel suo incarico di vicepresidente del Consiglio. Oggi Marco Mario Milanese è parlamentare del Pdl e commissario straordinario di Forza Italia in Irpinia, ma continua a essere consigliere politico d’eccezione del titolare del dicastero dell’economia. Milanese è un personaggio che non avverte il bisogno di mettersi

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in mostra. Per lui, del resto, parlano i fatti e gli anni di collaborazione continuativa con Giulio Tremonti che ha seguito nei suoi diversi incarichi. Professore ordinario di diritto tributario alla Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze, Milanese è titolare di una cattedra che riveste una particolare importanza in un periodo della storia della Repubblica in cui si annunciano importanti cambiamenti tributari alle porte. Laureato in scienza della sicurezza economica finanziaria, può analizzare gli effetti della congiuntura economica in corso con rea-

lismo: «L’Italia è sicuramente un Paese più al sicuro degli altri dai contraccolpi della congiuntura – spiega –. Ciò è dovuto a una legislazione nazionale puntuale e precisa, ma anche alla propensione delle nostre banche a essere meno internazionali. Ma un grande merito va anche al basso debito privato delle famiglie italiane». Ritiene che il collasso della finanza statunitense e poi internazionale sia avvenuto anche per carenze legislative che tutelassero investitori e risparmiatori in ambito finanziario? «Assolutamente sì. Oramai possiamo dire senza essere smentiti DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA E FINANZA Marco Milanese

che la crisi è prima di tutto finanziaria e poi economica. Perché questa difficile situazione è una diretta conseguenza della crisi finanziaria. Ed è una crisi che è nata dalla mancanza di regole e dall’assenza di controlli». Su quali aspetti bisognerebbe lavorare maggiormente in ambito normativo per tutelare l’economia e la finanza italiane mettendole così al riparo da ulteriori tracolli internazionali? «La proposta del Governo Berlusconi che il ministro Tremonti ha presentato a Roma in occasione di un G7 dei ministri economici e finanziari va proprio in questa direzione. Puntiamo alla messa a punto di regolamentazioni attra-

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«PUNTIAMO ALLA MESSA A PUNTO DI REGOLAMENTAZIONI ATTRAVERSO UN “LEGAL STANDARD”, OVVERO UN QUADRO DI REGOLE CONDIVISO PER L’INTERO SETTORE FINANZIARIO E CAPITALISTICO»

verso un “legal standard”, ovvero un quadro di regole condiviso per l’intero settore finanziario e capitalistico». Maggiori controlli e più trasparenza potrebbero dunque rendere più sicuro il sistema? «Questa crisi è nata soprattutto per mancanza di regole comuni e condivise. Oggi per uscirne le soluzioni sono più regole, più coordinate e, quindi, più controlli».

Da esperto di diritto tributario internazionale, come guarda all’introduzione del federalismo fiscale? «Il federalismo fiscale oramai è un processo non rinviabile e non più eludibile. Si tratta di un passaggio voluto oramai da tutti, primo fra gli altri dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’introduzione di questa misura permetterà di responsabi-


ECONOMIA E FINANZA

UNA CARRIERA AL FIANCO DI GIULIO TREMONTI Marco Mario Milanese è consigliere politico di Giulio Tremonti. Ha conosciuto l’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze dieci anni fa, mentre ricopriva il ruolo di tenente colonnello della Guardia di Finanza. In seguito, Milanese ha rivestito gli incarichi di capo della segreteria del ministro Tremonti e poi di Capo di Gabinetto alla vicepresidenza del Consiglio durante il Governo Berlusconi ter. Oggi, Milanese è deputato del Gruppo Pdl alla

lizzare le Regioni e gli enti locali. Con il federalismo fiscale finirà, inoltre, il sistema di finanza derivata basata sulla spesa storica e si passerà all’autonomia impositiva sul territorio e al criterio dei costi standard di una nuova e buona amministrazione. Questa sarà la vera rivoluzione per un risparmio di spesa virtuoso. Ma il federalismo fiscale dovrà anche essere solidale, prevedendo misure di fiscalità di sviluppo a favore delle aree svantaggiate». Il federalismo consentirà anche una sburocratizzazione

Camera dopo essere stato eletto nella circoscrizione Campania 2. All’incarico parlamentare, Milanese affianca quello di commissario straordinario di Forza Italia in Irpinia. Laureato in giurisprudenza e in scienza della sicurezza economico-finanziaria, Milanese è anche avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la Scuola di Formazione del ministero dell’Economia e delle Finanze

del sistema? «I benefici saranno notevoli. La diretta responsabilizzazione degli enti locali porterà in automatico a una efficienza dei servizi e una maggiore razionalizzazione delle risorse». Uno dei progetti su cui il ministero sta lavorando è il progetto Banca del Sud. Di cosa si tratta? «Sarà una banca che avrà lo scopo di canalizzare al meglio l’enorme risparmio del Mezzogiorno verso investimenti produttivi che possano aumentarne

la ricchezza. Sarà, inoltre, uno strumento per garantire le imprese che vorranno investire, nonché di tutela dei risparmiatori, con una buona remunerazione degli interessi, e delle aziende che sul credito ricevuto avranno interessi passivi agevolati. È già pronto lo slogan che accompagnerà la nascita di questo nuovo istituto di credito: “Sarà una banca che non parlerà inglese” in quanto nasce sul territorio, lavora per il territorio e sviluppa il territorio. Un territorio, chiaramente, meridionale». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA E TERRITORIO

INNOVAZIONE E QUALITÀ A TUTTI I LIVELLI I distretti produttivi e artigianali siciliani continuano a esprimere una grande vitalità nonostante la forte crisi che sta coinvolgendo il Paese. Come spiega l’assessore regionale Roberto Di Mauro o stato di salute dei distretti non è certamente dei migliori, ma questo non attiene né alla forma commerciale, né alla filiera produttiva di appartenenza, piuttosto alle difficoltà di una congiuntura economica generale sfavorevole». L’assessore regionale al Commercio, alla Cooperazione, all’Artigianato e Pesca, Roberto Di Mauro, spiega come i distretti siano neostrutture nella realtà isolana e rappresentino una vera rivoluzione economica «per il passaggio verso un’economia territoriale più solida». In effetti, si tratta di un unico sistema integrato dove ricerca, produzione, innovazione, conoscenza e formazione si coniugano. «Gli imprenditori siciliani – sottolinea l’assessore – stanno rispondendo positivamente. Lo conferma l’aumento costante delle richieste di riconoscimento di distretti». La Sicilia, del resto, potrà stare al passo dei competitor internazionali solamente tramite un lavoro in rete e il sostegno delle istituzioni. Quali sono le eccellenze produttive siciliane su cui la Regione ha scelto di puntare? «Il riconoscimento delle 23 filiere non è casuale. Sono state selezionate dall’apposita commissione sulla base anche della loro categoria produttiva quale sinonimo di pratiche millenarie identitarie del nostro territorio. I distretti dell’arancia rossa, la ceramica, la pesca, il tessile, la meccatronica, il florovivaismo, i materiali lapidei e l’agroalimentare rappresentano alcune delle filiere siciliane di maggior pregio. Nonostante una crisi di così grande portata, il distretto della pesca, il Cosvap, continua a ottenere successi grazie al suo dinamismo e alla capacità di autodeterminarsi. Oggi, per la Regione rappresenta un modello commerciale pilota da estendere alle altre categorie produttive». Una delle maggiori ricchezze della Sicilia è la capacità di affiancare tradizione e modernità: dalla ceramica di Caltagirone all’high tech dell’Etna Valley. Crede che da questo modello economico imprenditoriale sia necessario ripartire o che vada cambiato qualcosa per rafforzarlo? «Ceramica ed Etna Valley sono senz’altro esempi di un settore importante e di aziende leader capaci di trasci-

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nare quelle più piccole portatrici di antiche pratiche e tradizioni. Ma la Sicilia ha un patrimonio produttivo ricchissimo da cui ripartire, assieme ad altre grandi forze: il sostegno del governo alle iniziative valide messe in campo, la vivacità degli imprenditori e il recupero del capitale intellettuale che la Sicilia perde puntualmente e viene subito captato da altri Paesi. Il grande sigillo sui mercati internazionali è l’innovazione applicata a vari livelli in tutte le migliori filiere che il territorio ha a disposizione. Queste risorse umane ci sono indispensabili per alzare il livello delle qualità da esportare». Sono stati creati tavoli di trattativa congiunti fra istituzioni, aziende e istituti di credito per fronteg-

ROBERTO DI MAURO Assessore regionale al Commercio, Cooperazione, Artigianato e Pesca


LA REGIONE

giare l’emergenza in atto? «Proprio in questi giorni si sta definendo il comitato tecnico che amministrerà i fondi regionali per il commercio, come prevede la legge regionale 32 del 2000. Le risorse saranno gestite da Banca Nuova. Inoltre, stiamo ultimando i correttivi alla legge regionale 28 che disciplina il commercio sulle aree private. Il nuovo disegno di legge garantirà il mercato e la libera concorrenza nell’interesse dei grandi investimenti e delle scelte alimentari dei consumatori; renderà più solide, attraverso contributi e agevolazioni di credito, le piccole e medie imprese che operano in modo “sistemico” nel settore». Che misure di sostegno ha già predisposto o sta studiando la Regione Siciliana per i distretti produttivi e artigianali regionali? «L’assessorato finanzierà 12 dei 18 progetti che rispondono ai criteri ministeriali, di cui primi otto già partiti. Sono circa quattro milioni di euro da ripartire al 50 per cento, in regime de minimis, con il ministero dello Sviluppo economico. Gli uffici competenti stanno già predisponendo il bando per utilizzare la somma residuale di altri quattro milioni. Nel programma opera-

tivo 2007-2013 della Regione ai distretti produttivi andranno qualcosa come 160 milioni di euro. Stiamo già provvedendo a utilizzare i primi 25: una tranche pari al 15% che può essere già spesa nell’attesa dell’approvazione del regolamento di attuazione. Di recente, la Regione ha anche firmato un accordo quadro di programma con lo stesso ministero, in cui sono previste risorse aggiuntive da destinare all’internazionalizzazione dei distretti». Quali sono, invece, le richieste che vi sono arrivate da queste realtà? «Per la prima volta, i distretti sono destinatari di aiuti concreti. Se si considera come termine il 2013, risorse comunitarie, nazionali e regionali, in un territorio che sconta carenze infrastrutturali profonde, non credo siano sufficienti a realizzare tutto ciò che servirebbe. È possibile però ricominciare daccapo, pianificando e utilizzando nel modo più proficuo i fondi disponibili per il prossimo quinquennio. Riguardo ai distretti, razionalizzare la spesa significa destinare gli aiuti solo a quei progetti che possano produrre bilancio. La parola d’ordine del nostro governo è programmare un futuro di sviluppo». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA E TERRITORIO

«Nell’area dell’ Etna Valley sono insediate multinazionali nel ramo dell’elettronica»

Più peso al distretto dell’high-tech Alzare la qualità della produzione e della ricerca è la ricetta seguendo la quale il distretto dell’high-tech catanese potrebbe salvarsi dalla recessione che l’economia sta vivendo. Come assicura Giuseppe Ursino, presidente della commissione high-tech

minori. Inoltre, occorre divil distretto tecnologico di dere in due categorie anche le Catania, cioè l’Etna Valaziende locali». ley, è una zona densa di Quali sono? aziende operanti prevalen«I primi lavorano con la pubtemente nel comparto highblica amministrazione. Solitatech. Oltre alla presenza della mente questi sono favoriti poiStMicroelectronics, l’area caché la Pa risente poco delle tanese ospita colossi come, ad crisi. I secondi, al contrario, esempio, multinazionali del pur lavorando in egual misura calibro di Omnitel, Nokia, rispetto ai primi, rimangono Ibm, Telespazio e Openline. legati ai mercati classici. La Accanto ai grandi colossi condifferenza è che coloro che vivono alcune realtà locali sono legati ai mercati classici consolidate o in via di consonon vengono pagati, o venlidamento, nate e cresciute nel gono pagati in un arco di fertile humus del distretto. Al tempo molto lungo. Questo presidente della commissione comporta problemi per high-tech, energia e ambiente quanto concerne il pagamento della Camera di Commercio GIUSEPPE URSINO del personale». di Catania, Giuseppe Ursino, Presidente della commissione high-tech, energia e Cosa state facendo per sopiace sottolineare che l’intenambiente della Camera di Commercio di Catania stenere il vostro tessuto prozione dell’ente camerale in un duttivo e rilanciare le espormomento di recessione è tazioni? quella di assistere le imprese e «Come presidente della commissione, assieme ai di sostenere il comparto Itc che a Catania viene miei collaboratori, ho sollecitato una concentrarappresentato da diverse aziende di piccola e mezione dei cosiddetti stakeholder locali per affrondia dimensione. «Si tratta di imprese – spiega Giutare questo problema. Stiamo cercando di alzare la seppe Ursino – che sono riuscite a rendersi autoqualità della produzione e della ricerca delle nostre nome e a caratterizzare la loro produzione imprese, poiché, in una fase come quella attuale, indipendentemente dalla presenza della multinasi salva solamente chi riesce a entrare in nicchie di zionale StMicroelectronics». know-how. Per quanto riguarda la pubblica amCome ha influito la congiuntura economica inministrazione locale, non penso possa fare tantisternazionale sul vostro distretto? simo. Personalmente non credo all’idea che si pos«Nel distretto dell’high-tech esistono due tipolosano dare finanziamenti a tutti coloro che si gie di aziende. Importanti multinazionali fortetrovano in una situazione di crisi. Occorre cercare mente connesse sul circuito mondiale, e quindi più di facilitare le imprese che vogliono investire e riesposte alla crisi, e aziende che sono presenti sui schiare rimanendo sul mercato. Da poco è stato mercati locali e nazionali. Per queste ultime la approvato il piano energetico ambientale della Recrisi arriva sempre con un po’ di ritardo rispetto gione Sicilia che, finalmente, stila le regole per chi alle prime. La crisi inizialmente colpisce sempre i vuole lavorare e produrre energie alternative. Quegrandi player, per poi riversarsi verso i fornitori

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ETNA VALLEY

sto è importantissimo poiché la Sicilia è una piattaforma solare che potrebbe fare tantissimo. Dopo tanto tempo, a causa dei soliti problemi della politica locale, qualcosa si sta muovendo. Inoltre, sono in fase di pubblicazione dei bandi per sorreggere attività femminili, giovanili ed è stato stanziato un budget di 30 milioni di euro a favore di quelle aziende che hanno tre anni di anzianità e che vogliono investire sul loro sviluppo». Verso quali mercati si dovrebbe investire e chi sono oggi i vostri principali competitor? «Buona parte delle nostre aziende sono rivolte perlopiù verso i mercati nazionali. All’estero invece, al contrario degli stereotipi popolari, siamo poco presenti». Molte imprese lamentano in questo momento la difficoltà dell’accesso al credito. Qual è la situazione nel Catanese? «Per quanto riguarda l’accesso al credito abbiamo incontrato tantissime difficoltà. Le nostre banche locali sono state comprate da banche del Nord. Tutti i fidi e tutte le autorizzazioni non partono dalla Sicilia. La conoscenza del territorio degli istituti di credito è ovviamente inferiore rispetto alla nostra. In una fase di recessione come quella

attuale stanno riducendo i crediti. Dal punto di vista dei fondi regionali, purtroppo, la Regione Sicilia è ancora indietro a causa dei numerosi problemi interni ancora non superati». Cosa occorre al vostro settore per rilanciarsi definitivamente in una fase tanto delicata? «Innanzitutto occorrerebbe cercare di agevolare le aziende dell’high-tech. In ogni angolo del pianeta queste aziende posseggono delle politiche economiche di supporto che noi non abbiamo o, se va fatta bene, sono episodiche. Anche in Paesi ricchissimi come il Canada esistono agevolazioni importanti per chi fa ricerca, sviluppo e tecnologia. Bisogna favorire assolutamente chi fa know how, settore imprescindibile che nel tempo porterà ricchezza all’intero sistema. In Italia, buona parte del budget dei fondi strutturali non è indirizzato verso il distretto dell’high-tech, ma a settori che non danno nessun vantaggio competitivo al sistema. L’high tech è un distretto trainante e strategico che purtroppo conta pochissimo». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA E TERRITORIO

«Per superare la crisi dobbiamo aprire nuovi scenari a livello internazionale»

Alla ricerca di nuovi mercati Dopo la perdita di piazze importanti come il Nord America, oggi la ceramica siciliana poggia le sue basi essenzialmente sull’indotto turistico. Nonostante ciò, il presidente del distretto della ceramica, Francesco Navanzino, vede il bicchiere mezzo pieno

al microcredito concesso lla Regione e alla Prodalle banche o nell’accedere vincia chiediamo che ai finanziamenti stanziati i nostri prodotti vendalla Regione? gano messi in condi«Abbiamo grossissime diffizione di essere conosciuti. In coltà perché le banche elargiquesto periodo di crisi la cescono il denaro a chi ne è già ramica di nicchia si vende solo in possesso. Chi ha la necessità se ha la possibilità di farsi nodi trovare finanziamenti, deve tare dal grande pubblico». È averli a disposizione subito. questa la richiesta di FranceSolo in questo modo potrà risco Navanzino, presidente del lanciare l’azienda e il prodotto. distretto della ceramica di Quando le cose vanno male è Caltagirone. In effetti, un proil momento di rilanciare andotto pregiato come quello dando alla ricerca di nuovi che si produce nella cittadina mercati, ampliando il processo siciliana, non può essere acproduttivo, ma soprattutto inquistato via Internet. «L’artinovando. Adesso come adesso, colo di qualità – spiega NaFRANCESCO NAVANZINO i contributi a fondo perduto vanzino – deve essere toccato Presidente del distretto della ceramica di Caltagirone non esistono più. Oggi ci doe scrutato a occhio nudo poivrebbero essere i prestiti a tasso ché si tratta di un vero e proagevolato. Si tratta di prestiti prio pezzo d’arte». Il distretto che, quando finalmente arrivano, arrivano in ridella ceramica, comunque, secondo il presidente, tardo. In questo periodo di recessione, chi ha avuto pur passando attraverso mille difficoltà come la dei problemi purtroppo non è più bancabile. In Sistretta creditizia e la perdita di mercati importanti cilia i distretti non sono costituiti da industrie, ma come gli Stati Uniti e il Canada, è riuscito a resida laboratori artigianali. Nel momento di difficoltà stere abbastanza bene alla crisi in atto. «Siamo riule grosse industrie si possono permettere di mettere sciti a mantenere i laboratori aperti. Questo i propri dipendenti in cassa integrazione, noi queaspetto può essere considerato un vero successo». ste possibilità non le abbiamo». Cosa occorre al vostro settore per rilanciarsi Su quali mercati si dovrebbe investire e chi sono definitivamente in una fase tanto delicata? oggi i vostri principali competitor? «Al nostro settore serve soprattutto far conoscere «Fino a pochissimo tempo fa, dal punto di vista il prodotto attraverso, ad esempio, una mostra itidelle vendite, eravamo fortissimi con gli Stati nerante che permetta al grande pubblico di vedere Uniti, il Paese maggiormente colpito dalla crisi la nostra arte. Non dobbiamo fare mostre mercato mondiale. In questo momento devo ammettere solo per vendere le nostre ceramiche, sarebbe un che abbiamo perso i mercati esteri. Da quando Caerrore. La Regione Sicilia deve dare la possibilità a nada, Stati Uniti e parte dell’Europa non si poschi produce di penetrare nel mercato. Chi è intelsono più permettere di comprare i nostri prodotti, ligente riuscirà a trovare i suoi metodi per andare il mercato estero si è allontanato. La soluzione ata piazzare il proprio prodotto». tuale è quella di ricercare altre destinazioni. La Avete incontrato maggiori difficoltà nell’accesso

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CERAMICHE DI CALTAGIRONE

Regione Sicilia e la Provincia devono garantire rapporti commerciali con altri Paesi, come ad esempio quelli dell’area mediorientale. A Dubai non ci può andare l’artigiano o il distretto. Devono recarsi in loco le istituzioni e garantire per noi i futuri rapporti commerciali. Ci devono mettere in condizione di produrre. Se noi produciamo e le istituzioni creano i presupposti perché questi nuovi mercati possano essere aperti anche a noi, sono convinto che possiamo uscire dalla crisi senza l’appoggio di nessuno». Quali sono le vostre previsioni per il 2009? «Dopo 35 anni di laboratorio sono abituato a pensare sempre in positivo. Ne ho viste tante e ogni volta ne sono uscito sempre più forte. Le varie crisi mi hanno portato a sperimentare cose nuove, migliorando di volta in volta il prodotto e aumentandone la qualità. Essendo i nostri prodotti molto costosi, fortunatamente, le persone abbienti non le abbiamo perse. In questo momento chi è

ricco resta ricco. Adesso però occorre stupire queste persone con qualcosa di nuovo che ci faccia riprendere margine sul mercato. Posso solo augurarmi che il 2009 sia un anno buono. La Regione Sicilia, a differenza delle altre, se sfruttasse i fondi messi a disposizione dellaComunità europea, sono convinto che potrebbe uscire dalla crisi». Come e quanto ha influito la congiuntura economica internazionale sul vostro distretto? «Per un paio d’anni all’interno dei nostri laboratori abbiamo avuto 1.000 studenti americani che facevano pratica. Questo migliaio si è ridotto a 200 unità poiché questi hanno preferito Malta alla Sicilia. Non li abbiamo persi per colpa nostra, ma per colpa della crisi». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Antonello Montante

IL BUON MANAGEMENT SA CORRERE VELOCE Dalle biciclette agli ammortizzatori per l’industria meccanica, per tornare di nuovo alle biciclette: metafora della tenacia e della libertà. Il Gruppo Montante dalla Sicilia ha raggiunto prima il Nord Italia, poi i mercati di tutto il mondo. «Puntando sulla legalità e sulle risorse umane». Come spiega Antonello Montante SARAH SAGRIPANTI

45 anni, Antonello Montante è il più giovane Cavaliere del lavoro attualmente in carica. La sua è una storia di “buona imprenditoria” che affonda le radici nella Sicilia degli anni Venti. Il Gruppo Montante, da lui guidato, nasce in quegli anni in provincia di Caltanissetta con l’attività di produzione biciclette avviata dal nonno Calogero (le famose “bici della libertà”) ed è diventato oggi, con la Msa Spa, una realtà industriale leader nel mercato nazionale e internazionale negli ammortizzatori per

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QUARTA GENERAZIONE Antonello Montante è presidente di Msa Spa, Mediterr Shock Absorbers, quarta generazione della famiglia imprenditoriale siciliana. In apertura, la storica bicicletta Kalos

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veicoli industriali e ferroviari. Il riconoscimento assegnato dal Capo dello Stato attesta non solo l’attività imprenditoriale di Antonello Montante, ma anche il suo impegno per la legalità. Come presidente dell’Associazione industriali di Caltanissetta ha promosso la lotta delle associazioni industriali siciliane contro il racket. Lui non si sente certo una mosca bianca quanto, piuttosto, vicino a tanti imprenditori che hanno scelto valori come impegno, onestà e tenacia: «Ho sempre agito perseguendo il principio del dare il meglio di sé e ottenerlo anche dagli altri in modo sinergico ed incentivante» commenta. La sua azienda è spesso indicata come esempio di buona imprenditoria siciliana. Qual è, secondo lei, la cattiva imprenditoria? «Sicuramente quell’impresa che non punta ai veri mercati, che non investe in internazionalizzazione, in ricerca e sviluppo, in innovazione, elementi indispensabili per la crescita. Sono cattive imprese quelle non vicine allo


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ECONOMIA Antonello Montante

Stato ma alle organizzazioni criminose, quelle aziende che non proteggono il made in Sicily e il made in Italy, sinonimo di eccellenze riconosciute nel mercato mondiale». Il suo Gruppo opera su due stabilimenti: a Caltanisetta e ad Asti. Quali sono similitudini e differenze del fare imprenditoria nel Nord e nel Sud Italia? «Seppur con caratteristiche e competenze diverse, l’attaccamento al lavoro dei nostri dipendenti è la similitudine più evidente. Tra le differenze vi è la diversa cultura imprenditoriale: al Nord vi è una velocizzazione delle attività con una incondizionata difesa delle realtà aziendali da parte degli enti pubblici». Un’azienda che vuole espandersi deve per forza localizzarsi fuori dalla Sicilia? «La nostra scelta è stata dettata da esigenze logistiche e dalla necessità di reperire manodopera specializzata, di cui abbiamo importato il know how. In teoria un’azienda può espandersi anche rimanendo sul territorio, seppur con qualche sforzo in più. L’importante è che le istituzioni capiscano che le aziende non sono vacche da mungere ma un robusto cavallo che traina

un carro molto pesante, per cui devono essere di sostegno alle imprese». Cosa offre la Sicilia a chi vuole fare impresa? «La Sicilia offre la centralità nel bacino del Mediterraneo, che le permette di essere il Nord di una realtà in espansione. Ma la cosa più importante, definita da molti come una svolta epocale, è legata alla nuova classe imprenditoriale, che vive di mercato e che fa fronte comune nell’interesse dell’economia siciliana, lontano dalla cultura dell’assistenzialismo». E quali sono, invece, gli ostacoli maggiori? «Gli ostacoli maggiori sono legati alla burocrazia, ai costi fissi che un’azienda deve sostenere, tra i quali la voce trasporto incide in maniera preponderante, alla carenza di infrastrutture, ma anche alla lontananza comunicativa tra gli enti locali e la Comunità europea. E soprattutto in questo momento di forte crisi, un ostacolo forte è dato dalla poca attenzione da parte di alcuni isti-

SUD E NORD Un altro modello dei Cicli Montante e gli stabilimenti del Gruppo Montante, che ha sede a Caltanissetta e Asti

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ECONOMIA

«SONO CATTIVE IMPRESE QUELLE NON VICINE ALLO STATO MA ALLE ORGANIZZAZIONI CRIMINOSE, CHE NON PROTEGGONO IL MADE IN ITALY, SINONIMO DI ECCELLENZA RICONOSCIUTA NEL MERCATO MONDIALE»

tuti di credito». La sua esperienza dimostra che, pur in un contesto svantaggiato, un buon imprenditore può raggiungere il successo. «Il nostro Gruppo vanta un secolo di storia, durante il quale abbiamo investito in internazionalizzazione e formazione con le sole nostre forze, valorizzando lo scambio culturale tra Nord e Sud, arrivando alla quarta generazione imprenditoriale. Bisogna fare sistema, abbandonando la formula dell’assistenzialismo e supportando le Pmi, per evitare di dover aspettare 100 anni affinché un’azienda diventi competitiva. Occorre stare con lo Stato, investire in ricerca e sviluppo e nell’internazionalizzazione, difendere il made in Sicily e il made in Italy

che garantiscono la qualità del prodotto». Quanto pesa la criminalità organizzata nel fare imprenditoria in Sicilia? «Ovviamente ha pesato molto, perché oltre che ai fenomeni criminosi legati al racket delle estorsioni e dell’usura, la criminalità organizzata è riuscita ad entrare nelle Pa, rallentando il processo di crescita dell’imprenditoria siciliana, alimentando la cultura del bisogno e facendo passare i diritti per favori». Qual è stata l’esperienza del suo Gruppo? «Dalla nascita delle nostre aziende è stata fatta una scelta netta che ci ha da sempre visti vicini allo Stato e alle istituzioni. Abbiamo concentrato l’attività in un settore inno-

vativo dove la criminalità organizzata non aveva interessi, lontano dagli appalti pubblici, rivolgendoci a un mercato lontano dal nostro territorio. Abbiamo prestato grande attenzione alla scelta dei partner e alla selezione dei collaboratori. La nostra scelta negli anni ci ha premiato». Quanto conta scommettere sul capitale umano? «La mia azienda si è dimostrata sempre attenta alle esigenze dei collaboratori poiché siamo convinti che la vera risorsa siano gli uomini. Abbiamo puntato sulla partecipazione attiva alla vita dell’azienda a tutti i livelli, coinvolgendo tutti nelle scelte strategiche aziendali, nei nuovi progetti, negli investimenti. Essere il più vicino possibile alla compagine aziendale, ascoltarne idee e suggerimenti, è stata una carta vincente. Per questo, seppur con la crisi in atto, abbiamo voluto mantenere la nostra tradizione dei premi annuali per i dipendenti, che in onore di mio nonno abbiamo chiamato Premio Calogero Montante». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Simone Cimino

COME SUPERARE LA GLACIAZIONE Investire nella piccola impresa italiana apportando capitale per lo sviluppo. È questa la mission di Cape, società di private equity fondata nel 1999 da Simone Cimino e che oggi ha 40 partecipate. E punta a creare piccoli poli industriali LAURA PASOTTI

bituarsi a vivere a -20% per superare la crisi. Non è l’obiettivo di un corso di sopravvivenza, anche se il modello a cui si è ispirato è proprio quello. Simone Cimino ha chiesto ai sei partner delle 40 aziende partecipate da Cape, la società di private equity di cui è fondatore e presidente, di stilare un business plan per il 2009, prevedendo, però, un calo di fatturato del 20%. «Quest’anno non importa che vita si farà e quali indici di bilancio si avranno – spiega Cimino –. Quest’anno bisogna sopravvivere alla glaciazione». Il paragone forse appare un po’ forte, ma è proprio così che Cimino vede l’attuale congiuntura economica, come una glaciazione in cui molte attività economiche, «e in particolare quelle business to business», rischiano di subire pesanti rallentamenti a cui sono impreparate. Lo scuba planning, si chiama così il progetto di Cimino, ha lo scopo di dare agli imprenditori un obiettivo: abituarsi a vivere a 20% e vedere come reagisce l’azienda. «Servirà a preservare il know how tecnico e commerciale e ad arrivare in fondo alla glaciazione nelle migliori condizioni possibili. Questo – continua – è il momento in cui le aziende devono tirare fuori le proprie doti».

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Come hanno reagito i suoi partner a questa proposta? «Con scetticismo. Ma solo all’inizio. Poi hanno capito che avevo ragione e che lo scuba planning è un esercizio di sopravvivenza che li prepara a una flessibilità mentale a cui non erano abituati in passato. Ogni anno gli imprenditori puntano a fare più qualcosa. Adesso devono imparare a vivere facendo meno qualcosa». Quali saranno le imprese che soffriranno di più? «Le imprese business to consumer in cui il prodotto è di prima necessità e non di lusso soffrono pochissimo. Le imprese business to consumer che producono beni voluttuari soffriranno, ma quelle che staranno peggio saranno quelle business to business che producono beni durevoli o componenti di beni durevoli. Un’impresa che, ad esempio, fa fanali per auto o componenti per macchine utensili o per impianti di riscaldamento di un’abitazione avrà un’oscillazione nell’ordine del – 30 o -40%. Le più penalizzate saranno quindi le imprese nella filiera del business to business di beni durevoli in cui non c’è una periodicità o che possono subire rallentamenti a causa della recessione». Ci sono settori meno penaliz-

zati dalla crisi sui cui conviene puntare? «I settori in cui la domanda non risente della recessione. Ad esempio, un’azienda come Arkimedica che opera nel settore medicale e assistenziale nel 2009 avrà ricavi superiori a quelli dell’anno precedente. E non può che essere così perché il numero di posti letto è aumentato, le strutture sono piene e l’attesa è superiore a 18 mesi. La domanda in questo settore non è legata né al dollaro né al petrolio, ma a un’esigenza demografica che non è comprimibile nei momenti di recessione». E tra i mercati geografici, quali sono quelli più interessanti in questo particolare momento storico? «Sono quelli che hanno la domanda interna trainata dalla crescita demografica e sono meno dipendenti dall’estero. Un esempio è l’India, tra i mercati emergenti molto più interessante di Cina e Russia, perché meno dipendente dalle esportazioni. Queste, infatti, incidono sul suo Pil solo per il 18%. Quindi se anche l’export dovesse diminuire della metà, la produzione impatterebbe di 6 o 7 punti percentuali sul prodotto interno lordo. Considerando che il Pil cresce del 6/7% all’anno, si evita quasi di andare


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in recessione». Cape, il fondo da lei creato si è affermato come uno dei maggiori successi a livello nazionale nell’investimento nelle piccole e medie realtà. Come ci è riuscito? «Ci sono arrivato poco a poco. Ho iniziato nel 1999 con un fondo da 27 miliardi di lire e ho fatto il salto nel 2003 con un altro da 120 milioni di euro. E poi sono arrivati i risultati. Nel nostro settore non ti regala niente nessuno. E solo se ottieni dei risultati, cioè se dai agli investitori la giusta attesa di remunerazione, puoi continuare a operare e a raccogliere fondi. Quando viene meno questo binomio, viene meno la possibilità di dare prestazioni agli investitori e non c’è più niente da fare». Investire nella piccola impresa italiana apportando capitale per lo sviluppo. È questa la mission di Cape. Ma chi è il vostro interlocutore tipo? «Ci rivolgiamo alla piccola azienda italiana di successo che ha un problema di sviluppo da finanziare con capitali esterni o un problema di ricambio generazionale dell’azionariato. Noi aiutiamo l’azienda a compiere un percorso di sviluppo che dura in media cinque anni e alla fine del quale dobbiamo aver portato all’azienda il particolare momento

SIMONE CIMINO 47 anni, è fondatore e presidente di Cape, società di private equity con sede a Milano

di sviluppo che veniva richiesto». Qual è l’obiettivo quando acquistate una piccola impresa? «Creare valore industriale da cui derivi valore finanziario. Se prima del nostro ingresso, un’azienda fattura 10 milioni di euro e ha un margine operativo di due milioni, l’obiettivo è che crescano sia il fatturato che il margine operativo lordo nel periodo di cinque anni e che il nostro supporto sia di vantaggio sia per l’impresa che per noi che vi investiamo». Il passaggio successivo è la creazione di piccoli poli industriali? «Uno degli strumenti che abbiamo privilegiato in questi anni è quello di vincere le resistenze della piccola dimensione a stare accanto ad altre aziende che abbiamo complementarietà merceologiche o imprenditoriali».

In che modo garantite che l’impresa non perda la sua specificità una volta entrata in un polo insieme ad altre aziende? «L’abilità consiste nel non perdere il momento e nel non distruggere ciò che c’è di buono. Sta a noi non essere miopi e non disconoscere i punti di forza dell’azienda». Qual è, a suo parere, la forza del made in Italy? «La capacità di fare e il patrimonio di cultura tecnica, artistica e manifatturiera che anni di storia hanno lasciato al nostro Paese. È questo il nostro grande punto di forza e la ragione della creatività che caratterizza l’Italia». Dove vuole portare Cape? «Siamo solo agli inizi. Cape ha solo dieci anni, proprio come un bambino con ancora tutta la vita davanti». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Josè Rallo

POTENZIAMO IL BUSINESS MADE IN SICILY Creare un modello di business che potesse essere un punto di riferimento per gli altri imprenditori siciliani. È ciò che Josè Rallo ha fatto con Donnafugata, diventata in 25 anni l’emblema del vino di qualità. Oggi, il volto dell’azienda prova a farlo per la sua regione dal cda del Banco di Sicilia e dal Comitato territoriale di Unicredit. Perché, afferma, «in Sicilia sappiamo produrre, ma dobbiamo imparare a comunicare i risultati» LAURA PASOTTI

Italia del vino è una borsa di Mary Poppins, un contenitore unico nella sua varietà, in cui trovano posto il Gewürztraminer del Trentino Alto Adige e il Barolo del Piemonte, il Brunello di Montalcino e i Supertuscan, il Nero d’Avola e il Passito di Pantelleria. Come si comunica un settore così sfaccettato e poliedrico? «Non è sempre facile – afferma Josè Rallo, responsabile marketing, controllo di gestione e sistema di qualità dell’azienda vitivinicola Donnafugata –, soprattutto nei mercati in cui la cultura del vino manca». Il volto del “fare impresa” in Sicilia punta su nuove forme di comunicazione collettiva del territorio e sul fare squadra sia per comunicare il mondo del vino che per affrontare l’attuale situazione di crisi in cui, ammette Rallo, «di fronte a una leggera contrazione dei consumi non possiamo non cercare nuove strategie». Fare cultura del vino, quindi. E mettersi in rete. Per rendere tutto più semplice. «Il brand made in Sicily è ormai una realtà – spiega Josè Rallo –. Dobbiamo cominciare a comunicarlo in maniera sempre più efficace e convinta, portando giornalisti, grandi buyer e wine lover in Sicilia a conoscere la nostra realtà». Mettere insieme le risorse.

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Foto di Pucci Scafidi

Foto di Anna Pakula

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Foto di Walter Leonardi

DONNA DI SPIRITO Josè Rallo a Khamma, Pantelleria. Nata nel 1964, Rallo guida il team marketing e pubbliche relazioni di Donnafugata. Dal 2008 siede nel cda del Banco di Sicilia e fa parte del Comitato territoriale per la Sicilia di Unicredit. Sopra, grappoli e vigneti a Contessa Entellina. In basso, le cantine storiche di Marsala

È questo l’unico modo per promuovere la Sicilia. «Ognuno deve avere il coraggio di fare un passo indietro – continua Rallo – e promuovere l’intero territorio. Poi verrà anche il momento delle singole aziende». Lei ha fatto conoscere al mondo una nuova immagine della Sicilia e ha fatto diventare la sua Donnafugata l’emblema del vino di qualità. Qual è il segreto di questo successo? «Il segreto è nella qualità. C’è da sottolineare, però, che vent’anni fa parlare di made in Sicily non era così semplice. E quindi l’immagine che Donnafugata ha voluto dare di sé è quella di un’azienda positiva e solare che persegue l’eccellenza nella qualità, partendo da un microclima unico. Il Sud, e la Sicilia in particolare, avevamo un background nero e allora noi puntato su un family business di lunga tradizione, fatto da donne con grande curiosità e con spirito positivo di ricerca e solarità». Con il suo ingresso in azienda, Donnafugata ha puntato sempre più sulla “qualità estrema”. Che cosa significa? «Cura dei particolari, dalla vigna alla cantina fino al servizio al cliente. È una visione della qualità a 360 gradi che oltre al rapporto con il cliente e con il fornitore, contempla an-

che il rapporto con le risorse umane dell’azienda. Ciò significa dedicarsi a loro dal punto di vista della formazione e della qualità della vita con un’attenzione particolare all’ambiente che li circonda. E nei confronti del cliente andare un po’ più in là di quello che è il servizio o la distribuzione. È per questo che abbiamo puntato sull’enoturismo, per consentire al wine lover di entrare in contatto con il produttore e con i suoi segreti attraverso la visita delle cantine e dei vigneti». Una delle caratteristiche di Donnafugata è ben espressa dal progetto Impresa, Natura, Cultura ovvero fare in modo che l’azienda oltrepassi i suoi confini e sia veicolo di sviluppo per il territorio in cui si trova. Quali risultati avete raggiunto da questo punto di vista? «Donnafugata nasce come brand nel 1983, quindi abbiamo da poco raggiunto i 25 anni. Come possiamo misurare il nostro impatto sul territorio? Innanzitutto con la crescita occupazionale. Oggi contiamo 80 dipendenti su tre province, Palermo, Trapani e Agrigento. In secondo luogo, con la tutela dell’ambiente attraverso la produzione di energia pulita e la tutela del territorio. Penso alle terrazze di Pantelleria e alla coltivazione dell’alberello dello ZiDOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Josè Rallo

OLTRE I CONFINI AZIENDALI bibbo, ma anche al Giardino Pantesco che abbiamo donato al Fai. E poi c’è tutto il lavoro fatto sulla cultura, con la musica, l’archeologia, la letteratura e il Premio Tomasi di Lampedusa. Abbiamo cercato di creare un modello di business che potesse diventare un punto di riferimento per tanti altri imprenditori che vogliono farsi avanti in Sicilia. Al Sud, nel nostro settore, come negli altri, ciò che manca è la capacità imprenditoriale. Sappiamo produrre. Dobbiamo imparare a verticalizzare la produzione, commercializzare e comunicare i risultati raggiunti». Quanto è difficile fare impresa in Sicilia? «Sicuramente è più difficile che farlo nel resto d’Italia. Scontiamo handicap di vario tipo, da quello cronico della mancanza di infrastrutture alla difficoltà di trovare fornitori all’altezza della qualità a cui noi puntiamo. Per non parlare del rapporto con la pubblica amministrazione, disastroso in termini di tempi, ma anche di costi per l’azienda. Noi, ad esempio, su 80 dipendenti ne abbiamo tre che si dedicano soltanto alle carte, a licenze, permessi,

obiettivo si è prefissata di raggiungere in questo ruolo? «Ho due obiettivi. Il primo è diffondere la cultura imprenditoriale in Sicilia, con particolare riferimento alle Pmi. È per questo che abbiamo promosso delle borse di studio in Mba presso la Wharton School of Economics della Pennsylvania negli Stati Uniti. L’idea è quella di portare in Sicilia dei manager. È per questo che le borse di studio sono rilasciate a condizione che le aziende siciliane siano disposte ad assumere chi fa il Mba per almeno tre anni. Vanno sempre in questa direzione i progetti full immersion per piccoli imprenditori promossi insieme a Unicredit in cui personale dell’istituto di credito affianca le imprese e a 3, 6 o 12 mesi rilascia un tagliando sul sistema di controllo di gestione, sul business plan o sul piano di marketing. Insegnerà loro tutte quelle cose che un buon imprenditore deve fare per condurre al meglio la sua impresa. E poi c’è un obiettivo di principio, per così dire. Vorrei che il comitato si trasformasse in un tavolo di confronto tra imprese e istituzioni perché tutti si impari, ogni tanto, a essere al servizio del ter-

Legare il business alla promozione del territorio e della cultura. È l’obiettivo di Donnafugata Vanno in questa direzione la produzione di energia pulita e la tutela dell’ambiente che circonda l’azienda. E poi progetti di formazione, sia interna all’azienda che rivolti ai giovani siciliani, per portare in Regione manager che sappiamo contribuire ad accrescere la cultura imprenditoriale, e progetti culturali, come il Premio Tomasi di Lampedusa e il sostegno alla Scuola di Jazz marsalese, di tutela della biodiversità, come il Giardino Pantesco donato al Fai, o per il patrimonio artistico, come gli scavi archeologici sulla Rocca di Entella. Perché, spiega Josè Rallo, «il marketing è anche promozione del territorio».

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Gli anni di esperienza della famiglia nel vino di qualità

1983

L’anno in cui Giacomo Rallo e la moglie Gabriella danno vita al progetto Donnafugata

328 ha

È l’estensione complessiva delle tenute Donnafugata

45%

La presenza di donne tra il personale amministrativo e commerciale di Donnafugata

«IL BRAND MADE IN SICILY È ORMAI UNA REALTÀ. DOBBIAMO COMUNICARLO IN MANIERA SEMPRE PIÙ EFFICACE, PORTANDO GIORNALISTI, GRANDI BUYER E WINE LOVER A CONOSCERE LA NOSTRA REALTÀ»

autorizzazioni e nullaosta. È vero, però, che nel settore dell’agroindustria e del turismo le possibilità che offre la Sicilia sono enormi. Non so se svantaggi e vantaggi si compensano, ma posso dire che lottare contro gli ostacoli fortifica e magari può far sfruttare al meglio le opportunità». Oltre a guidare il team marketing e pubbliche relazioni di Donnafugata, nel 2008 è stata eletta presidente del Comitato territoriale per la Sicilia di Unicredit. Quale DOSSIER | SICILIA 2009

ritorio. È questo che manca all’Italia, la capacità di mettersi in rete e fare un passo indietro nell’interesse generale». Dal 2008 siede anche nel cda del Banco di Sicilia. Insieme a lei c’è anche Maria Luisa Averna. Per la prima volta due donne in 140 anni di attività. Che cosa significa per lei e per la Sicilia? «È un risultato importantissimo. Perché finalmente sono rappresentate le imprese, e le donne. Una no-

vità assoluta per la Sicilia. Due su nove fa 22%, la stessa percentuale della Norvegia, laddove in Italia la presenza delle donne nei “posti di comando” è ferma al 2%. È un bel risultato. Cosa fanno le donne in economia? Possono portare una visione più empatica e mirata ad armo-


Foto di Enrica Frigerio

ECONOMIA

Foto di Walter Leonardi

I FRUTTI DELLA TERRA I vigneti di Casale Bianco tra le colline della Tenuta di Donnafugata. In basso, barrique di Mille e una Notte, Tancredi, Angheli e Chiarandà

nizzare gli interessi di tutti gli stakeholder. Non dimentichiamo, infatti, che un’azienda, sia essa una banca o un produttore di vino, deve tutelare gli interessi degli azionisti, dei dipendenti e dei clienti della società. Una donna può armonizzare questi interessi. È questo il ruolo che

io e Maria Luisa Averna abbiamo all’interno del cda, riportare queste istanze e cercare di allinearle». Quali sono i prossimi obiettivi di Donnafugata? «Di questi tempi navighiamo tutti un po’ a vista. Però credo che questo sia anche il momento per fare delle riflessioni. Da parte nostra, stiamo cercando di portare avanti un processo di fine tuning, di messa a punto della macchina. Ci troviamo ad affrontare situazioni sempre più complesse e abbiamo bisogno di riorganizzare l’organigramma interno per cercare le persone che tra noi possono svolgere il compito di coordinatori di progetto. Stiamo monitorando il mercato per vedere in che modo potranno cambiare le abitudini di consumo. Dobbiamo stare sul mercato e non ridurre le spese di marketing o quelle commerciali per sapere in tempo quali saranno i trend dei prossimi mesi. E poi dobbiamo rafforzare il brand perché rappresenta una garanzia per il consumatore insieme al territorio e dedicarci alla formazione del personale. Puntiamo a una fascia alta del mer-

cato e a consumatori che hanno bisogno di sempre maggiori informazioni che noi diamo attraverso l’enoturismo e la comunicazione, sempre che tutti cresciamo in cultura del vino e in formazione manageriale». Anche il mercato del vino sta affrontando una lieve contrazione dei consumi. Quali previsioni si sente di fare per i prossimi mesi? «Il vino non è un bene durevole e non sta scontando il grande colpo negativo della crisi. È un bene di consumo che la gente continua ad acquistare e a bere. Normalmente il vino viene bevuto per festeggiare un’occasione o un momento bello o divertente. Forse oggi lo possiamo considerare un prodotto di consolazione. Devo dire che sono stata in giro per l’Europa, a Copenaghen, Berlino, Londra e Stoccolma e alle degustazioni abbiamo avuto la stessa affluenza dell’anno scorso se non addirittura maggiore. Naturalmente il mio invito è per un consumo moderato, all’italiana, con una tavola imbandita e in compagnia di amici, amanti, mariti e mogli». DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Avide

REALTÀ CONSOLIDATA Una botte dell’Azienda Avide e le vigne di Comiso (RG). Nella pagina accanto, Michele Di Donato, direttore commerciale, e Marco Calcaterra, direttore generale dell’azienda

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LA NOSTRA FORZA? PUNTARE ALLA QUALITÀ Una realtà vitivinicola importante che negli ultimi anni ha raggiunto i livelli di Piemonte e Toscana. La regione si impone sui mercati mondiali grazie alla qualità dei suoi prodotti. E pensa a una Dop Sicilia che tuteli i suoi vini. Ne parliamo con Marco Calcaterra e Michele Di Donato, direttore generale e commerciale di Avide, tra le aziende protagoniste di questa ascesa GINEVRA CARDINALI

e 20 anni fa qualcuno mi avesse detto che l’enologia siciliana avrebbe raggiunto i livelli attuali, mi sarei fatto una risata». È sincero e franco, come il vino che produce l’azienda di cui è direttore commerciale, la Avide di Comiso in provincia di Ragusa. E a chi gli chiede di commentare l’attuale situazione del settore in Sicilia, Michele Di Donato ricorda la proposta fatta dall’assessore regionale all’Agricoltura, di creare una Dop Sicilia, un marchio unico per la regione che rappresenti il valore aggiunto della produzione dell’isola. Segno che oggi il comparto vino in Sicilia, afferma Di Donato, «rappresenta una realtà consolidata a livello mondiale». Gli fa eco Marco Calcaterra, direttore generale di Avide, che, a conferma della notevole crescita della produzione siciliana negli ultimi

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anni, ricorda come «la vocazione territoriale faccia metà del lavoro, mentre la molteplicità dei vitigni utilizzabili dà una grande ampiezza di scelta al consumatore, dal profumato Frappato, oggi particolarmente apprezzato in un mercato indirizzato alla fragranza alla complessità del Nero d’Avola, vino forte e strutturato e stabile nel tempo». Una produzione che si aggira intorno alle 250mila bottiglie che raggiungono 30 Paesi nel mondo. Come siete riusciti a raggiungere questo risultato? Michele Di Donato: «Facendo qualità. Quando abbiamo iniziato, le aziende siciliane “importanti” si contavano sulle dita di una mano. E noi eravamo tra queste. La proprietà da sempre ha scelto di reinvestire i profitti per migliorare la qualità delle vigne, e quindi del vino».

Avide esiste da quasi un secolo. Che cos’è cambiato da allora nella gestione dell’azienda? Marco Calcaterra: «L’attività dell’azienda è nata quando la Sicilia era ancora segnata dai feudi e dai rapporti tra signori e contadini, in regime di mezzadria. Erano i tempi dei palmenti di cemento e della pigiatura classica, fatta con i piedi. Il vino si faceva in 12 ore ed era semplice come solo poteva esserlo il vino fatto in casa. Oggi le tecniche sono cambiate, le vigne sono lavorate con sistemi moderni e la vinificazione pone al centro le caratteristiche del vitigno e il suo grado di maturazione. È stato il mercato a chiederlo e il desiderio di tendere alla “nicchia” che solo l’alta qualità può offrire e mantenere nel tempo». La svolta è avvenuta nel 1983 con la scelta di imbottigliare il vino, DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Avide

«L’ATTUALE CRISI IMPONE DELLE SCELTE. LA GENTE TENDE A ELIMINARE IL SUPERFLUO, DESTINANDO LE PROPRIE DISPONIBILITÀ ECONOMICHE AI BENI DI PRIMA NECESSITÀ. MA IL VINO HA DALLA SUA PARTE IL FATTO DI ESSERE PARTE INTEGRANTE DELLA CULTURA E DELLA TRADIZIONE ITALIANA»

anziché venderlo sfuso. Quali cambiamenti ha portato questa decisione? MC: «La prima linea di imbottigliamento era una macchina di poche pretese, ma consentiva di creare una depressione di aria in bottiglia che metteva il vino al riparo da fonti di ossidazione. Dopo i primi due anni abbiamo scelto di intraprendere la strada imprenditoriale ed è stato naturale pensare a un enologo, per essere più competitivi e raggiungere professionalità elevate. Oggi lavoriamo con Giovanni Rizzo, originario di Pantelleria. È stato lui a introdurre la cernita delle uve, le cassette da 10 chili al posto di quelle da 25 e le vasche coibentate a temperatura controllata per lavorare sulle tecniche DOSSIER | SICILIA 2009

di estrazione e affinamento in relazione ai vitigni utilizzati». Quanto è difficile fare impresa in Sicilia oggi? MC: «Oggi assistiamo a uno snellimento dei processi e a un cambiamento della mentalità produttiva, dettati anche dalle attuali condizioni economiche del nostro Paese. I continui aggiornamenti e i nuovi imprenditori possono essere un valido strumento per far sì che le difficoltà di trasporto e veicolazione del prodotto in termini di marketing finora incontrate vengano sempre meno». In che modo i vostri vini rispecchiano le caratteristiche della terra siciliana? MC: «Nella struttura del 3 Carati e del Sigillo si ritrova la Sicilia, terra ba-

ciata dal sole. Nei profumi del Cerasuolo di Vittoria e dell’Herea Frappato rivivono la sobrietà e le antiche nobiltà della Sicilia. Nella eleganza, nella persistenza e nella rotondità del Cerasuolo di Vittoria Barocco c’è tutta la sapienza di un territorio impregnato della tradizione del vino. “Vigne d’oro … dall’Insolia, come l’arte barocca dalla grezza pietra”, scriveva così Luigi Veronelli nel 1994 del nostro Vigne d’Oro, poi rinominato Riflessi di Sole». Su quali mercati siete presenti oggi? MDD: «Siamo presenti in tutta Europa, in Canada, Stati Uniti, Russia, Giappone e pressoché tutti i Paesi del Sud Est asiatico. Negli ultimi due anni abbiamo incrementato le quote


ECONOMIA

QUALITÀ Sotto, interno dell’azienda e a fianco i vigneti di Avide. Nella pagina accanto, bottiglie in fase di invecchiamento

di mercato in questi Paesi, cercando di migliorare l’immagine dell’azienda in tutte le sue componenti, dal logo alle etichette, dal packaging alla presenza sulla stampa, dal miglioramento delle strutture ricettive alla presenza nelle fiere enologiche internazionali». Come sta reagendo il settore all’attuale crisi economica? MDD: «L’attuale crisi impone delle scelte. La gente tende a eliminare il superfluo, destinando le proprie disponibilità economiche ai beni di prima necessità. Il vino ha dalla sua parte il fatto di essere parte integrante della cultura e della tradizione italiana. Sulle tavole di tutta Italia insieme al cibo è sempre presente anche una bottiglia di vino. E, se sia in Italia che all’estero la vendita di vino è in calo da diversi mesi, si sta registrando l’aumento del consumo di Doc e Docg. Un risultato determinato dalla maggiore attenzione da parte dei consumatori a ciò che ver-

sano nei propri calici». Quindi il vino reggerà? MDD: «Credo di sì. La storia economica ci dice che le crisi insegnano a “consumare” meglio e hanno sul “corpo economico” lo stesso effetto che la dieta ha sul corpo umano: si diminuisce di peso e si impara a nutrirsi meglio. Traslando questo concetto nel settore vinicolo, credo che la crisi costringerà le aziende a razionalizzare le spese e i consumatori a bere meglio. Si assisterà anche a una selezione tra le aziende vitivinicole a vantaggio di chi fa qualità». Cosa pensate della decisione del ministro Zaia di vendere il vino in scatola o bag in box? MDD: «Credo che le proteste che si sono sollevate siano motivate. In Sicilia, ad esempio, oggi dei 7 milioni di ettolitri prodotti, cinque si vendono sfusi. Questa decisione rischia di aumentare la tentazione di immettere sul mercato vino di bassa

o scarsa qualità con marchio Doc. In nome del mercato, a cui fa riferimento il ministro, si sarebbe dovuta fare un’operazione opposta ovvero rendere più severi i disciplinari di produzione. Per vendere il nostro vino non abbiamo bisogno di cambiare packaging, ma solo di aumentare la qualità». Quali obiettivi vi proponete di raggiungere in futuro? MDD: «Consolidare la nostra posizione sui mercati mondiali, investire per incrementare la qualità e migliorare costantemente l’immagine della nostra azienda». Che cos’è per voi il vino? MC: «In una regione come la Sicilia che ha accolto una decina di dominazioni differenti, rimanendo sempre immutata, quasi imperturbabile nei tempi, al centro del Mediterraneo, cuore pulsante degli scambi commerciali, il vino può rappresentare la fermezza storica nel mantenimento delle tradizioni». DOSSIER | SICILIA 2009

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IL BUSINESS È OLTRECONFINE Studiare i mercati di riferimento e creare incontri b2b. Ma muovendosi in sinergia con le altre associazioni e le istituzioni. Le potenzialità per la Sicilia ci sono. Ora occorre trasformarle in realtà. Giovanni Catalano, direttore di Federexport Sicilia, spiega punti di forza e di debolezza per l’attuale sistema delle esportazioni dell’Isola SARAH SAGRIPANTI

na regione che esporta an- tante. Le altre due appartengono al cora poco, anche se poten- settore tradizionale del made in zialmente, data la sua posi- Italy, l’agroalimentare, 300 milioni zione strategica, potrebbe di euro di prodotti alimentari e beessere avvantaggiata nei rapporti di vande, e altri 280 di produzioni scambio commerciale verso i mer- agricole, dell’allevamento e della pesca, sono partiti cati del bacino del dalla Sicilia per i Mediterraneo, mercati esteri tra molti dei quali in gennaio e settembre forte sviluppo. A 2008. condizione, però, Per rafforzare le poche si rafforzi quella tenzialità delle prorete di infrastrutduzioni siciliane sui ture materiali e immercati esteri e anmateriali – reti che per supportare commerciali e logile aziende nel loro stiche, partnership processo di internae collaborazioni tra zionalizzazione, imprese – indispenqualche anno fa è sabili alle Pmi per stata costituita Feraggiungere i merderexport Sicilia, la cati esteri. Ad anaGIOVANNI CATALANO Federazione regiolizzare i dati, la foDirettore di Federexport Sicilia, associazione costituita nel 2005 nale dei consorzi tografia che emerge presso la Confindustria regionale export della redell’export siciliano gione. All’associanon è confortante. Sono tre le categorie merceologiche zione, che ha sede presso Confinsiciliane che segnano valori degni di dustria Sicilia, hanno aderito, oltre nota. Una di queste, “prodotti pe- al consorzio Med Europe Export di troliferi raffinati”, che nei primi Confindustria e al Coexport di Ranove mesi del 2008 secondo l’Istat gusa, anche il consorzio Comet Exha raggiunto un valore superiore ai port della Cna, il consorzio Artimcinque miliardi di euro, segna il pex della Confartigianato, il flusso di esportazioni più impor- consorzio Concreta di Caltagirone

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CREDIAMO NELL’EXPORT ITALIANO

di Umberto Vattani*

Un piano anti-crisi vero e proprio per supportare l’export delle imprese nazionali. Facendo attenzione a scommettere sui mercati “giusti” La conoscenza dei mercati internazionali è uno strumento importante per le imprese che si internazionalizzano. In una situazione delicata come quella attuale questo patrimonio di conoscenze diventa fondamentale per poter competere. L’Ice mette a disposizione delle imprese le informazioni che raccoglie sui mercati di tutto il mondo. Abbiamo appena presentato due indagini sul commercio estero, Italia Multinazionale e Prometeia, e stiamo lavorando alla realizzazione di un Osservatorio delle materie prime. Lo scopo ultimo di queste analisi è orientare le imprese verso i mercati “giusti”, più

e il consorzio regionale del marmo Lapis. Il direttore, Giovanni Catalano, spiega come tra gli obiettivi dell’associazione ci sia la volontà di contrastare quel «grado di disper-

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promettenti e allo stesso tempo indicare loro le modalità più idonee per operare. Per quanto concerne la promozione del made in Italy, mission dell’Ice, il governo ha stanziato fondi significativi. Nel 2009 sono stati previsti 185 milioni di euro tra finanziamenti pubblici e contributi dei privati. Ai fondi del piano promozionale, pari a 105 milioni, si aggiungeranno le somme di quello straordinario e delle commesse privatistiche per 57 milioni che insieme ai 23 di finanziamento autonomo dei partner degli accordi supereranno i 179 milioni spesi nel 2008. Sarà un vero e proprio piano anti-crisi che dovrebbe per-

sione molto alto» delle iniziative che mirano a promuovere l’immagine della Sicilia e del made in Sicily. In un momento difficile come

mettere alle imprese italiane di resistere e rilanciarsi all’estero nonostante la congiuntura sfavorevole. Il 2009 sarà un anno difficile e dobbiamo reagire. Anche se gli ultimi dati del 2008 sull'export dicono che l'Italia resiste meglio di Usa, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania e di Paesi emergenti come la Cina, non ci si può permettere di abbassare la guardia. La ricetta per l’internazionalizzazione prevede più soldi per la promozione da impiegare in pochi ma selezionati obiettivi. Il piano è stato rivisto alla luce della congiuntura internazionale per consentire al sistema produttivo italiano di

quello che stiamo vivendo, come reagisce l’export siciliano? «Purtroppo è coerente con l’andamento dell’export del Paese. Già nel primo semestre 2008 le esportazioni siciliane avevano registrato un rallentamento rispetto al 2007 del 6,5% circa. Tale dato, con l’aggravarsi della crisi, sembra essersi accentuato alla fine del 2008». Qual è il valore delle esportazioni? «Il tasso di apertura ai mercati segna un valore pari a 37, contro il 52,01 nazionale, che pone la Sicilia a metà della classifica nazionale. Il valore monetario delle esportazioni nel 2007 è stato pari a 9 miliardi di euro, mentre le importazioni muovono un mercato di 18 miliardi di euro, con un saldo commerciale negativo pari a 9 miliardi, che testimonia la dipendenza della regione». Quali sono i principali mercati di riferimento?


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reagire. Per questo il programma concentra le risorse e razionalizza l’azione: meno iniziative, ma migliori e meno Paesi, ma con più sforzi. Così, il budget aumenta e le iniziative diminuiscono, saranno 411 dalle 475 del 2008, e si punta su Paesi e settori che possono dare riscontri imme-

«Dipende dai settori. Per quanto riguarda l’agroalimentare, per esempio, gli Stati Uniti, la Francia e la Spagna risultano ancora essere i principali paesi di riferimento, insieme alla Germania». In che modo sostenete e promuovete le imprese del territorio sui mercati esteri? «In alcune associazioni territoriali abbiamo dei Consorzi Export che assistono le imprese in stretto raccordo con le istituzioni pubbliche preposte e, negli ultimi tempi, stiamo implementando l’attenzione sul tema internazionalizzazione, tant’è che Confindustria Sicilia per la prima volta ha attribuito al vicepresidente Antonello Montante un’apposita delega». Quali sinergie avete messo in campo con le istituzioni? «In questi anni abbiamo tentato con le istituzioni regionali di cambiare radicalmente le modalità delle politiche di internazionaliz-

diati, come gli Stati Uniti, in cui è presumibile che i consumi interni ripartano prima che altrove, già nella seconda metà dell'anno. Per le iniziative negli States ci saranno 15 milioni di euro, 5 dal piano ordinario e 10 da quello straordinario. Forti investimenti ci saranno anche per la Russia e per alcune realtà emergenti come India, Cina, Brasile, Messico, e Paesi del Golfo. Nuove iniziative sono previste nelle aree in più forte sviluppo del Medio Oriente, dell’Asia Centrale e anche dell’Africa. Quanto ai settori, i fondi saranno concentrati su quelli a più alto valore aggiunto come l’alta tecnologia, ma continueremo a presidiare alcuni comparti manifatturieri a rischio, come sistema moda, abitare e beni strumentali. Per favorire le imprese, l’Ice, per tutto il 2009, praticherà sconti fino al 50% sui

servizi a pagamento e fino a un terzo sui servizi fieristici. L’Istituto si è dotato da poco di un nuovo organigramma che prevede nuovi strumenti di valutazione dell’efficacia delle singole azioni intraprese e che consentirà una maggiore sinergia con gli altri attori dell’internazionalizzazione. Già oggi l’Ice svolge molti compiti, non solo di promozione del prodotto italiano: abbiamo collaborazioni con Invitalia, Simest e Buonitalia, siamo paladini, con i desk presenti presso i nostri uffici all’estero, della lotta alla contraffazione del made in Italy. L’Istituto sta diventando una vera e propria piattaforma integrata per offrire alle imprese tutto il sostegno di cui hanno bisogno. *Presidente dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero

zazione, purtroppo ancora con scarsi risultati. Vi è ancora un grado di dispersione molto alto delle iniziative tendenti a promuovere l’immagine della Sicilia e del made in Sicily. Come testimoniano i risultati delle missioni nazionali promosse da Confindustria, se non ci si muove in modo unitario e quindi come sistema di imprese, banche, associazioni di categoria, istituzioni ai più alti livelli, gli esiti non saranno mai confortanti». Come funziona in concreto la vostra collaborazione con l’Ice? «L’Ice fornisce dati sui Paesi di riferimento, utili alle imprese per conoscere i settori di interesse, il grado di funzionamento della pubblica amministrazione e del sistema bancario. Quindi, un’azione di assistenza e consulenza necessaria ad un’impresa per affacciarsi sui mercati esteri». Crede che sia compito delle sin-

gole Regioni essere presenti coi loro prodotti e le loro specificità sui diversi mercati esteri, oppure occorrerebbe un’azione di coordinamento più efficace a livello nazionale per la promozione delle merci italiane? «Il modello è quello del sistema: un Paese che intende muoversi per conquistare i mercati esteri deve muoversi come un vero e proprio sistema. Quando Confindustria promuove missioni all’estero, si muove con le più alte cariche dello Stato, con le banche, con l’Ice. A monte, vi è un lavoro diplomatico con il Paese che ospita la missione. Lo scopo principale, infatti, è quello di avere sul posto incontri b2b, che è il modo più efficace per creare opportunità e fare affari. Se solo a livello delle regioni si riuscisse ad emulare questo modello, si eviterebbe di fare confusione tra gli operatori esteri interessati ai prodotti italiani». DOSSIER | SICILIA 2009

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AFFARI & LAVORO Catania

LA RINASCITA PARTE DA CORAGGIO E INVENTIVA Armonia. Unità di intenti. E massima attenzione alle esigenze delle imprese. È questo il programma di Domenico Bonaccorsi, presidente di Confindustria Catania. Che punta al rilancio dell’intera area etnea MARIA LIVIA SCIACCA

onfindustria ha attraversato un periodo difficile con la sospensione di Scaccia dagli oneri dell’associazione. Ma una via per un rilancio esiste. «Armonia, unità d’intenti e massima attenzione a tutti i problemi gestionali che le imprese incontreranno sul loro cammino. È necessario un impegno quotidiano dell’organizzazione a stare al fianco delle aziende». Le parole di Domenico Bonaccorsi, eletto presidente di Confidustria Catania il 9

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febbraio scorso, tracciano le linee guida per una ripresa e uno sviluppo dell’imprenditorialità catanese. Lei è un fedelissimo di Ivan Lo Bello, il presidente regionale di Confindustria. Come giudica le dichiarazioni e le iniziative antimafia di Lo Bello nella prospettiva di ridare fiducia e consapevolezza delle proprie capacità all’imprenditoria siciliana? «Mi riconosco nella linea di Con-

findustria che ha fatto proprie le iniziative di contrasto a ogni forma di criminalità e di illegalità di cui il nostro presidente regionale si è fatto promotore. Sono state e sono scelte importanti che hanno dato fiducia all’imprenditoria siciliana, rispetto alle quali è impossibile tornare indietro. Anche se ancora vi è molto da fare». Quali richieste giungono dagli industriali catanesi alle istituzioni locali e nazionali per il sostegno dell’impresa sul territorio


AFFARI & LAVORO

DETERMINATO Domenico Bonaccorsi, neopresidente di Confidustria Catania

etneo in un momento critico come questo? «Catania non è molto diversa dalle altre città siciliane. Il sostegno all’impresa si fonda sul miglioramento del dialogo con la pubblica amministrazione, sulla trasparenza e sulla fiducia del rapporto tra banca e impresa e sulla collaborazione indispensabile con le organizzazioni sindacali dei lavoratori. La soluzione della crisi occupazionale, fortunatamente non ancora gravissima, è una priorità da affrontare con la gestione degli ammortizzatori sociali in modo da superare l’anno più difficile, il 2009». L’amministrazione catanese sta risentendo della crisi internazionale. Le difficoltà si stanno ripercuotendo anche sulla produzione? «La crisi finanziaria che ha investito il Comune di Catania non sta sicuramente agevolando le imprese. E non solo quelle direttamente creditrici dell’amministrazione comunale. È tutto il sistema a subire i danni derivanti dai ritardati pagamenti e dall’assoluta incertezza sui tempi di recupero

delle somme. È importante un’attenzione particolare all’andamento della gestione finanziaria dell’amministrazione comunale di Catania, anche se purtroppo non appaiono all’orizzonte soluzioni a breve». Come si può uscire da questa situazione critica a livello locale? Come industria e artigianato possono contribuire? «Gli aspetti su cui industria e artigianato possono investire per il rilancio della città sono i medesimi di sempre: il coraggio e l’inventiva. Occorre imparare che non vi è caduta dalla quale non ci si possa rialzare, e che è dai momenti critici che si possono scoprire risorse inaspettate». Quali sono oggi le eccellenze produttive di Catania e provincia e quali i settori che hanno saputo difendersi meglio dagli effetti della congiuntura internazionale? «Catania ha la fortuna di avere punte di eccellenza in diversi settori, le più note legate all’hi-tech, ma anche nel comparto farmaceutico o in altri più maturi come quello della metalmeccanica di DOSSIER | SICILIA 2009

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precisione. Vorrei ricordare anche, non ultima, l’industria delle costruzioni, che a Catania vanta vere e proprie eccellenze riconosciute in Italia e all’estero e non solo per quantità e dimensioni delle imprese, ma per la sua qualità. Detto questo, non è facile capire quali siano i settori che sono riusciti a difendersi meglio dalla congiuntura sfavorevole. Bisogna considerare che nel nostro territorio, gli effetti negativi arrivano con un certo ritardo, per cui è ancora più difficile avanzare previsioni. C’è una valutazione di fondo che tuttavia possiamo fare: la consapevolezza che il tessuto economico provinciale è essenzialmente saldo nel suo essere complesso. Di conseguenza ci si può augurare che regga meglio il momento di crisi rispetto ad altre realtà industriali meno diversificate». A proposito di internazionalizzazione, quanto riescono a essere presenti le imprese catanesi sui mercati esteri? «Sono molte le aziende catanesi che con le loro produzioni riescono ad essere presenti sui mercati esteri. Parliamo di percentuali basse, che tuttavia riescono ad avere un peso specifico significativo nell’economia complessiva della provincia». Nella provincia di Catania si trova uno dei distretti tecnologici più dinamici della Sicilia: l’Etna Valley. È possibile, secondo lei, ripetere lo stesso modello in altre aree del territorio provinciale continuando ad inDOSSIER | SICILIA 2009

vestire in ricerca e sviluppo? «Sicuramente, ricerca e sviluppo devono sempre essere al primo posto. Tuttora manca un serio sostegno agli investimenti per l’innovazione, tuttavia Catania è riuscita comunque a dire la sua anche in questo settore. Il modello è sicuramente estendibile ad altre realtà della regione, se non della provincia». Come avviene in città e provincia il dialogo fra il mondo dell’imprenditoria e quello della ricerca e dell’Università? «Il dialogo è intenso, costante e di reciproca intesa. Abbiamo un Ateneo di primissimo livello, oltre che di antica tradizione, con il quale il sistema delle imprese dialoga e dallo scambio trae nuova linfa in termini di risorse umane in una prospettiva di innovazione». Quali sono, a suo avviso, le maggiori potenzialità inespresse della Catania imprenditoriale? «Il concetto di potenzialità inespresse nel nostro territorio mal si coniuga con l’inventiva che tradizionalmente contraddistingue l’imprenditoria catanese. Detto questo, sicuramente, uno dei settori nei quali vi è un’ampia possibilità di crescita e di sviluppo è il turismo. In questo senso, Catania sconta una condizione di turismo solamente commerciale o di transito rispetto a mete più appetibili quali possono essere Taormina o Siracusa. Attraverso una politica oculata e tesa alla valorizzazione delle risorse del territorio si può trasformare e fare evolvere il tipo di soggiorno nella nostra provincia». Come si è chiuso nel complesso il 2008 per il tessuto imprenditoriale catanese? Quali sono gli obiettivi per il 2009? «Il 2008 non si è chiuso male. Però le previsioni per il 2009 non sono ovviamente floride. Gli obiettivi saranno quelli di mantenere salde le posizioni in termini di occupazione, di presenza sui mercati nazionali e internazionali e di mantenere una certa capacità delle imprese associate».



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ECONOMIA Finderm

IL MERCATO RICHIEDE INNOVAZIONE E RICERCA La rilevanza strategica del settore farmaceutico in Italia assume una valenza significativa, anche perché il nostro Paese attualmente rappresenta uno dei più importanti mercati del settore a livello mondiale. Come spiega Fabio Scaccia, amministratore unico della Finderm Farmaceutici di Catania CONCETTA S. GAGGIANO

a capacità di innovare è uno dei fattori di sviluppo dell’economia contemporanea. E il settore farmaceutico è quello che necessita di un continuo processo di innovazione sia per un mercato fortemente concorrenziale sia anche per il continuo insorgere di nuove patologie che richiedono tempestivamente lo sviluppo di nuovi principi attivi. L’innovazione diventa funzionale non solo nella fase di ricerca e sviluppo del farmaco ma diventa strutturale in un mercato competitivo. In

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generale, il processo d’innovazione che caratterizza il sistema produttivo farmaceutico non è soltanto funzione del bisogno di cambiamento delle aziende, ma dipende anche dalla capacità dell’ambiente di offrire incentivi e strategie per innovare, inoltre il fatto che alcuni Paesi siano “preferiti” nella ricerca si collega sia alle condizioni che rafforzano l’innovazione sia alle condizioni dell’azienda. Il grado di innovazione di un’azienda è senz’altro collegato all’attività brevettuale, infatti, come è noto, il brevetto è

uno strumento utilizzato ormai da molti anni per quantificare l’innovazione tecnologica a livello di impresa, di regioni e di paesi. Esso rappresenta una tutela dell’invenzione che garantisce al suo titolare un monopolio temporaneo in relazione ad un’innovazione, a patto che non sia banale e che abbia un potenziale valore commerciale. «Alla scadenza di un brevetto c’è la possibilità di poter utilizzare un prodotto più facilmente, ciò consente di abbattere la spesa farmaceutica. Scaduti i termini brevettuali, si ha la


ECONOMIA

FABIO SCACCIA Dal 1995 a capo della Finderm Farmaceutici, è stato per diverso tempo presidente degli industriali di Catania e vicepresidente di Confindustria Sicilia

possibilità di produrre farmaci generici aventi le stesse caratteristiche dell’originale e un costo più contenuto. Sta succedendo con tantissime molecole importanti, e, a mio avviso, tutto ciò non depenalizza il mercato ma al contrario serve da incentivo all’innovazione e alla ricerca all’ interno di una azienda spiega Fabio Scaccia, amministratore unico della Finderm Farmaceutici di Catania, che sviluppa e commercializza prodotti nel settore dell’ostetricia e ginecologia. Come ha iniziato la sua atti-

vità? «Ho iniziato come informatore farmaceutico e in seguito ho fondato la Finderm. Abbiamo iniziato con la campagna di prevenzione della spina bifida grazie all’utilizzo dell’acido folico. In seguito abbiamo acquisito licenze, studiato farmaci innovativi e aumentato il nostro raggio d’azione nella rete vendita. Nel 2000 abbiamo affiancato alla Finderm un laboratorio, che produce conto terzi, prodotti dietetici e integratori alimentari, sviluppando nuovi dispositivi medici che uti-

lizzano sostanze alternative per la prevenzione e il controllo delle patologie. Abbiamo immesso sul mercato l’acido borico per la prevenzione della candida e altre infezioni vaginali. Adesso siamo presenti in tutta Italia con 52 informatori medico-scientifici, con un fatturato di 10 milioni di euro». Come si affronta la concorrenza sfrenata delle multinazionali? «Noi siamo un’azienda farmaceutica specializzata e il nostro core business è il settore ginecologico. DOSSIER | SICILIA 2009

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ECONOMIA Finderm

Le multinazionali non sono concentrate su un solo settore, ma possono contare su un’ampia diversificazione dell’offerta. Abbiamo sviluppato e lanciato sul mercato dispositivi medici in ovuli vaginali con una formulazione di sostanze non farmaceutiche, quali fermenti lattici, estratti vegetali e polimeri. Abbiamo un listino di prodotti decisamente innovativi per la cura e profilassi delle patologie cervicovaginali e ciò ci consente di tenere il passo delle multinazionali, grazie a ricerca e innovazione. Teme che il processo di federalismo sanitario possa pregiudicare l’unitarietà dell’offerta farmaceutica? «Ogni Regione ha un approccio diverso sulla spesa farmaceutica e sulla scelta delle molecole da adottare. Per vedere gli effetti del cosiddetto federalismo sanitario dovremo aspettare che esso si realizzi pienamente. Io non vorrei, però, che ci fossero troppe diver-

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«NOI SIAMO UN’AZIENDA FARMACEUTICA SPECIALIZZATA E IL NOSTRO CORE BUSINESS È IL SETTORE GINECOLOGICO. LE MULTINAZIONALI NON SONO CONCENTRATE SU UN SOLO SETTORE, MA POSSONO CONTARE SU UN’AMPIA DIVERSIFICAZIONE DELL’OFFERTA»

genze nelle varie regioni, ma aspettiamo e vedremo quali saranno i benefici e i costi sia per le aziende che per i cittadini». I tagli ai settori della ricerca non rischiano di mettere a repentaglio gli assetti del sistema? Il rischio non è quello di convertire l’Italia a un semplice mercato di scambio? «È assolutamente vero. Il mercato senza ricerca e innovazione non ha senso di esistere. Quando si compete in un mercato globale, se le aziende non hanno la possibilità di fare innovazione ,il mercato diventa statico. O si punta sulla capacità di innovare

prodotti superiori a quelli precedenti anche in tempi brevi oppure il mercato muore. Un territorio che non riesce a fare ricerca va a spegnersi». E all’interno di Finderm come è organizzata la ricerca? «Soprattutto attraverso le collaborazioni con le università di Napoli, Roma, Catania e Trieste, con le quali sviluppiamo le nostre idee. A settembre testeremo un nuovo antimicotico vaginale, sarà una novità per il mercato». Lo sviluppo di farmaci innovativi pone anche problemi di accesso e di sostenibilità del sistema, visti gli alti costi. È


ECONOMIA

FARMACI DI NICCHIA Nelle immagini, la sede della Finderm Farmaceutici a Catania e lo staff al completo. L’azienda siciliana ha un fatturato di dieci milioni di euro e investimenti pari a un milione

preoccupato per questo? «Se si potessero sempre detrarre per intero i fondi destinati alla ricerca e all’innovazione tutte le aziende ne gioverebbero. Noi spendiamo ogni anno sicuramente il 10 per cento del nostro fatturato in acquisti di licenze e sviluppo di nuovi prodotti». Altro punto, la crisi economica globale. Qual è la situazione del settore farmaceutico? «Anche il settore farmaceutico soffre di questa flessione dei mercati. Alcune aziende hanno avuto decremento di fatturato, ma reagiscono attraverso nuovi investimenti e diversificazione dei prodotti. È un momento difficile, ma tutto il settore sta facendo sforzi non indifferenti». E voi che nome avete dato alla parola diversificazione? «LJ Finderm. È sempre a Catania e si occupa di confezionamento primario e secondario e produzione di blister e astucci, anche per conto terzi, l’azienda infatti fa

consulenza per lo sviluppo di prodotti dietetici per altre aziende alle quali confezioniamo capsule in gelatina molle e compresse. A oggi puntiamo moltissimo su questa impresa. Si tratta di una diversificazione nel settore farmaceutico e parafarmaceutico». Ultima questione. Qual è il suo giudizio sugli aiuti statali ed europei alle aziende? «Nel biennio 2004-2005 ho deciso di utilizzare l’aiuto statale di 200 mila euro per la detrazione dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. All’epoca gli aiuti alle imprese avevano ancora

la soglia “de minimis” di 200mila euro. Si è trattato di un aiuto importante per le Pmi come noi. Ovviamente i migliori aiuti sono quelli che fanno capo al credito d’imposta automatico, un incentivo fiscale sotto forma di credito d’imposta per le imprese che investono in ricerca e sviluppo. Per quanto ci riguarda ci è molto utile per l’acquisto di brevetti, la collaborazione con le Università. I contributi a pioggia non mi piacciono, ma il meccanismo dell’imposta automatica invece è un giusto strumento per far crescere le aziende del Sud». DOSSIER | SICILIA 2009

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LA VIA DEL RILANCIO Francesco B. Caltagirone

L’ECCELLENZA È L’EXIT STRATEGY Una diversa politica di sviluppo del territorio. La chiede Francesco B. Caltagirone, presidente della Società dell’Acqua Pia Antica Marcia. Per ridare slancio al turismo, la vera risorsa dell’Isola, e snellire le procedure di realizzazione delle grandi opere, il vero impulso per un’economia dinamica e durevole LAURA PASOTTI

ualità. È la sola risposta alla crisi che sta interessando anche l’Italia dopo aver scosso i mercati di mezzo mondo. Ne è convinto Francesco B. Caltagirone, presidente della Società dell’Acqua Pia Antica Marcia, nata nell’Ottocento per riportare a Roma l’antica Acqua Marcia e che, da alcuni anni, si sta imponendo come leader italiano nella costruzione di grandi opere. «Qualità non solo nelle iniziative – conferma Caltagirone –, ma anche, e soprattutto, nei servizi generati dalle grandi opere, il vero impulso per un’economia dinamica e durevole. È questo l’unico modo – continua –per guardare oltre il difficile momento che stiamo attraversando». Quello delle infrastrutture è solo uno dei quattro settori in cui Acqua Marcia è attiva. Oltre ai servizi di handling e rampa negli aeroporti di Milano Malpensa, Milano Linate, Bologna, Venezia e Catania, la società opera anche nell’immobiliare (il vero core business), nel diportistico-portuale, in cui è entrata nel 2005 in seguito alla realizzazione di opere di terra del nuovo approdo di San Lorenzo al Mare in provincia di Imperia, del porto turistico di Imperia e di

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LA VIA DEL RILANCIO

FRANCESCO B. CALTAGIRONE Presidente della società Acqua Pia Antica Marcia, leader italiano nella costruzione di infrastrutture e nell’immobiliare

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LA VIA DEL RILANCIO Francesco B. Caltagirone

«LA COMPETITIVITÀ DEL PAESE DIPENDE IN MANIERA DIRETTA DALLE INFRASTRUTTURE. RITENGO ESSENZIALE UNA DIVERSA POLITICA DI SVILUPPO DEL TERRITORIO CHE OFFRA AI CAPITALI PRIVATI PROCEDURE PIÙ SNELLE DI ACCESSO ALLE OPERE INFRASTRUTTURALI, PER ESPANDERE QUELLA CHE È E SARÀ PER SEMPRE LA NOSTRA RISORSA PRINCIPALE: IL TURISMO» Siracusa, e nel turistico-alberghiero. Ed è proprio nel turismo che Francesco B. Caltagirone intende puntare in futuro perché, spiega, «rappresenta per il Paese, e per la Sicilia in particolare, una risorsa di fondamentale importanza». L’avventura nel settore è iniziata per Acqua Marcia undici anni fa DOSSIER | SICILIA 2009

quando, attraverso la propria controllata Acqua Marcia Turismo (Amt) ha recuperato il complesso alberghiero del Mulino Stucky sul Canale della Giudecca a Venezia per il quale è stato firmato un accordo di partnership con la Hilton, riqualificato sei dimore storiche siciliane, il Grand Hotel Villa Igiea, il Grand Hotel et Des

Palmes, San Domenico Palace Hotel, Excelsior Palace Hotel, Excelsior Grand Hotel e l’Hotel des Etrangers et Miramare, a cui si aggiungono i campi da golf in località Croara nel comune di Piacenza e Nettuno a Roma e un albergo dedicato al turismo business e congressuale nella zona dell’Eur. Ma per continuare a investire nel settore, Caltagirone auspica un cambio di rotta in politica che «punti allo sviluppo del territorio», oltre a procedure più snelle per l’accesso e la realizzazione delle grandi opere e, sottolinea, «a collegamenti capillari, veloci e a basso costo da tutta l’Europa». Che ancora oggi, mancano. Le infrastrutture sono da sempre, per l’Italia, un tallone d’Achille. Qual è l’attuale si-


LA VIA DEL RILANCIO

tuazione e quali sono le potenzialità inespresse del settore da sfruttare? «La competitività del Paese dipende in maniera diretta dalle infrastrutture, settore che sta vivendo un gap marcato rispetto al resto d’Europa. In questo contesto, ritengo essenziale una diversa politica di sviluppo del territorio, una politica che offra ai capitali privati procedure più snelle di accesso e sviluppo alle opere infrastrutturali, per espandere quella che è e sarà per sempre la nostra risorsa principale: il turismo». La Sicilia con il nuovo porto di Siracusa potrà diventare il fulcro del Mediterraneo. Quali saranno le ricadute sul territorio una volta che la struttura sarà resa operativa? «Penso alle ricadute occupazio-

nali sul mercato del lavoro, a quelle nel settore della produzione, senza dimenticare l’indotto generato da un modello di turismo durevole». Per quanto riguarda le strutture ricettive, quali sono gli ostacoli maggiori per un rilancio del turismo sull’Isola? «La mancanza di collegamenti capillari, veloci e a basso costo da tutta l’Europa». Dopo un momento di così profondo rallentamento, quale sarà l’evoluzione, invece, del settore immobiliare? «Sono fiducioso. Ci sarà un ritorno di richieste e di investimenti che premierà le iniziative migliori. Oggi molta gente difende il proprio capitale attraverso il reddito immobiliare ed è attratta dalla possibilità di fare

buoni affari». Quali misure sarebbero necessarie, a suo parere, per rilanciare l’intero comparto? «A rischio di ripetermi, qualità sia per le strutture che per i servizi». Per la costruzione del porto di Siracusa, avete utilizzato il project financing. È uno strumento sufficientemente sfruttato in Italia? «Purtroppo non lo è, perché le procedure di accesso al project financing per i privati sono ancora troppo macchinose». Quali sono i vostri prossimi obiettivi? «Il turismo rappresenta per noi e per il Paese una risorsa di fondamentale importanza, perciò continueremo a investire in questo settore». DOSSIER | SICILIA 2009

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TRASPORTI Vito Riggio

È GIUNTO IL MOMENTO DI SPICCARE IL VOLO Gli aeroporti italiani sono gestiti male. Senza investimenti, perché mancano le risorse. E senza che il singolo gestore si preoccupi di ciò che fanno gli altri. Ma quello aeroportuale è un settore globale, che ha bisogno di strategie unitarie e visioni d’insieme. Vito Riggio, presidente dell’Enac, fa il punto su un settore che stenta a decollare SARAH SAGRIPANTI

ono totalmente contrario ai municipalismi in generale. A maggior ragione in un settore globale come quello degli aeroporti». Non usa mezzi termini Vito Riggio, presidente dell’Enac, nel dichiarare la sua convinzione che negli anni Novanta non si sarebbe dovuta passare la gestione degli aeroporti agli enti locali: «Piuttosto, si sarebbe dovuto privatizzare direttamente». Una scelta che ha portato alla creazione di un sistema aeroportuale fatto di tanti piccoli scali, dove mancano gli investimenti, perché gli enti gestori non hanno risorse a sufficienza, e anche laddove ci sono, queste vengono impiegate sempre e solo nell’ottica di potenziare gli interessi locali. Oggi non è più tempo di aspettare per intervenire con una strategia unitaria, perché «il caso di Alitalia è stato solo un epifenomeno: tutto il settore nei prossimi anni va verso una crisi drammatica». Anche lei crede che in Italia ci siano troppi aeroporti e troppo piccoli? «L’Italia non è la Francia, né la Spagna. Non abbiamo mai avuto un unico grande territorio-accentratore. E la struttura del settore aereo, in genere, segue le logiche della geo-

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politica. Con questo, quindi, non credo che in Italia gli aeroporti siano troppi: sono 41 quelli in esercizio da noi certificati, rispetto ai 47 della Spagna e ai 52 della Francia. Il problema è che il localismo italiano non è basato su macro-aeree di aggregazione, ma su singole città. In questo caso, il municipalismo non è ricchezza, ma dispersione». Qual è il problema, quindi?

DECISO Vito Riggio, presidente Enac, Ente nazionale per l’aviazione civile


TRASPORTI

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TRASPORTI Vito Riggio

«Ci sono troppi aeroporti concentrati sull’asse da Torino a Trieste, che si fanno concorrenza tra loro e che non hanno consentito lo sviluppo di un grande aeroporto, nemmeno in un’area così ricca com’è la Padania. Nel Mezzogiorno, invece, abbiamo tante richieste di nuovi scali, che non possono venire esaudite perché non possiamo più permetterci di avere aeroporti in perdita. Gli scali meridionali, poi, rimasti in pessime condizioni per trent’anni, oggi sono tutti stati rinnovati, ma stentano a decollare perché i bacini territoriali hanno meno potenzialità di traffico. È chiaro quindi che la logica degli hub, per cui in Francia o in Gran Bretagna si fa sempre scalo rispettivamente a Parigi e Londra, in Italia non funzionerà mai». DOSSIER | SICILIA 2009

Entro quale limite non ha più senso mantenere attivo un aeroporto? «Per gli aeroporti che realizzano attività commerciale occorrono da 500mila a un milione di passeggeri all’anno». E quanti aeroporti italiani non lo raggiungono? «Tra quelli meridionali, Reggio Calabria e Trapani, ma anche, al Centro Italia, Ancona e Perugia, che hanno un bacino di utenza molto basso. In Italia abbiamo una dozzina di aeroporti che gestiscono il 98 per cento del traffico, mentre i restanti si dividono il due per cento restante. Più che alla chiusura di aeroporti, però, penso a strategie di specializzazione su diversi settori. Il Sud, ad esempio, si presenta come il terreno ideale per le compagnie low cost».

Dal punto di vista infrastrutturale, quali sono le carenze più rilevanti? «La nostra vigilanza garantisce che gli standard minimi per la sicurezza siano sempre rispettati. Ma oltre alla sicurezza, c’è bisogno di investimenti in comfort, qualità ed efficienza. Tutti gli aeroporti del mondo fanno piani strategici di investimento per migliorare i servizi. Purtroppo verifico che questi investimenti in Italia non si fanno. Laddove c’è una presenza esclusivamente pubblica nella gestione degli aeroporti, come nella maggior parte degli scali del Sud, gli investimenti non ci sono, perché gli enti locali non hanno risorse. Al Nord è diverso, ma gli investimenti vengono fatti sempre e solo nell’interesse locale».


TRASPORTI

Si parla da tempo di coordinamento nazionale degli aeroporti. A chi spetterebbe questo compito? «Negli anni 90 si fece un grande errore quando, cedendo agli istinti localistici, si assegnò la gestione degli aeroporti agli enti locali. Come si può chiedere agli enti locali di avere una visione strategica nazionale? Il coordinamento di cui tanto si parla, quindi, non può che essere solo orientativo. Quello che si può fare, per il momento, è creare subito un piano nazionale degli aeroporti. Ci siamo mossi in questa direzione e lo proporremo al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti». Quali ostacoli vede? «Prima di tutto occorre far capire con chiarezza agli enti locali che gli aeroporti non sono di loro proprietà: pur essendo in concessione per quarant’anni, rimangono demanio statale e per questo devono rispondere a un disegno strategico nazionale. Le vicende che si sono succedute negli ultimi mesi, invece, sembrano nascere dalla convinzione che gli aeroporti siano di proprietà

degli enti locali». Lo studio avviato dall’Enac sul sistema aeroportuale va nella direzione di supportare questo piano nazionale? «Lo studio nasce in collaborazione tra l’Enac e il ministero. Il primo obiettivo è definire una mappa precisa di ciò che esiste, soprattutto dal punto di vista dei collegamenti con il territorio: infrastrutture ferroviarie, stradali, collegamenti con i porti, intermodalità. Poi potremo pensare alle strategie: cercheremo di dare indicazioni sull’attendibilità dei processi di sviluppo degli aeroporti e soprattutto di ipotizzare cosa aspettarci dallo sviluppo del mercato, per aree territoriali. Al termine di questo percorso, si dovrebbe passare alle decisioni. Non è più possibile tenere questo settore in sospeso, intervenendo solo quando scoppiano crisi come quella di Alitalia». Lei ha dichiarato “creata Malpensa bisognava chiudere Linate e Orio al Serio. Mantenere tutti significa costruire i presupposti per un fallimento”. Dato che al-

l’epoca gli scali non sono stati chiusi, oggi come occorre muoversi? «Nel 1997 un decreto dell’allora ministro Burlando prevedeva di spostare i voli da Linate a Malpensa, lasciando nel primo solo l’aviazione privata. Questo non si è voluto, né potuto fare: come risultato, Orio al Serio e Linate sono cresciuti e Malpensa langue. Lasciando stare ciò che si doveva fare e non si è fatto, oggi occorre lavorare sul presente: i milanesi ritengono comodo partire da Linate per spostarsi in un grande hub europeo, concorrente di Malpensa; contemporaneamente la linea delle istituzioni sembra essere quella di voler mantenere aperto Malpensa. Va bene, teniamolo aperto, ma è inutile immaginare che ci sia qualche compagnia che ne faccia un hub: può essere un aeroporto internazionale, e noi stiamo favorendo il più possibile l’allocazione su Malpensa, ma non si tratta più del grande progetto dell’hub Malpensa 2000. È inutile continuare a parlarne». DOSSIER | SICILIA 2009

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INFRASTRUTTURE Nino Germanà

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INFRASTRUTTURE

ECCO LA STRADA PER LO SVILUPPO Dai problemi ambientali alla recente ultimazione della Messina-Palermo. Alla realizzazione del tanto atteso Ponte sullo Stretto. Nino Germanà fa il punto sulle esigenze dell’Isola. Perché conoscere il territorio significa sapere quali sono le emergenze da sanare STEFANIA BATTISTI uand’era, giovanissimo, assessore provinciale alla Pubblica Istruzione di Messina, si era impegnato per migliorare le pesanti inadeguatezze delle condizioni strutturali degli istituti scolastici della provincia. Ora che è stato eletto alla Camera dei deputati, Antonino Salvatore Germanà non ha dimenticato la sua terra. Anzi. Il suo impegno in Parlamento e alla commissione Ambiente e Lavori pubblici va verso l’ottenere riconoscimento e soluzioni per quei problemi che da sempre affliggono l’Isola: dalla mancanza di infrastrutture, all’emergenza ambientale. Proprio su questo ultimo punto, a inizio febbraio scorso, Germanà ha sottolineato come gli interventi programmati in Sicilia per la tutela dell’ambiente sarebbero sganciati dalle reali emergenze ambientali del territorio. Il maltempo inaspettato di questo inverno ha reso evidenti le carenze strutturali dell’impianto urbanistico di molte città siciliane. Da dove deriva questa situazione? «Esistono due tipi di cause: uno umano, dovuto a certe politiche dissennate che hanno complicato il già fragile equilibrio del territorio, e uno naturale: frane, inondazioni ed erosione del suolo sono fe-

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NINO GERMANÀ Deputato del Pdl. Fa parte della VI commissione Finanze e della VIII commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici. In apertura, rendering del Ponte sullo Stretto di Messina

nomeni che da sempre interessano la nostra Isola. Sono episodi rilevabili di movimenti ben più cospicui, sebbene di solito lentissimi, che fanno parte della dinamica terrestre e contro i quali l’azione umana è impotente e vana. Si tratta, in effetti, di eventi naturali, contro i quali è possibile soltanto un’opera di rallentamento, tale cioè da rendere stabili ai soli fini umani e talora per la durata di qualche generazione certe aree di superficie terrestre partecipi di più vasti fenomeni. Oggi stiamo assistendo a una fase di inasprimento di questi eventi, poiché in molti casi l’uomo ha accelerato o innescato tali processi naturali catastrofici, oppure ha trasformato il territorio rendendolo molto vulnerabile a questi processi». Recentemente ha presentato un’interrogazione al ministro Prestigiacomo sull’emergenza ambientale in Sicilia. «Un ministro, qualunque sia la parte politica che governa, deve tenere conto delle reali esigenze del territorio e delle emergenze ambientali che rappresentano, di fatto, un problema serio che rischia se ulteriormente sottovalutato, di creare pregiudizi di diversa natura alla popolazione. Il maltempo che ha imperversato in Sicilia e in particolare sulla costa tirDOSSIER | SICILIA 2009

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INFRASTRUTTURE Nino Germanà

«UN MINISTRO, QUALUNQUE SIA LA PARTE POLITICA CHE GOVERNA, DEVE TENERE CONTO DELLE REALI ESIGENZE DEL TERRITORIO E DELLE EMERGENZE AMBIENTALI CHE RAPPRESENTANO» renica del Messinese ha provocato seri e talvolta irreparabili danni alle infrastrutture, alle attività imprenditoriali e alle abitazioni, mettendo in serio pericolo la stessa incolumità dei cittadini. Ho chiesto al ministro Prestigiacomo che siano tenute in considerazione le priorità stabilite dai piani stralcio per l’assetto idrogeologico predisposti e il ripristino delle somme per l’assetto idrogeologico, a partire dalla Sicilia e dalla Calabria». Nell’interrogazione, lei auspica un maggiore ascolto delle richieste locali e un minore ricorso degli interventi a pioggia. Crede che il federalismo fiscale DOSSIER | SICILIA 2009

potrebbe cambiare qualcosa in questo senso? «Si parla tanto di federalismo fiscale come una maledizione per le regioni del Meridione, ma per certi versi è una vera e propria manna dal cielo. In Sicilia, il federalismo fiscale già c’è. Ed è pure un federalismo fiscale “pesante”, che potrebbe essere una grande fonte di vantaggi economici per la Sicilia e potrebbe indirettamente e radicalmente modificare anche il vivere quotidiano di ognuno di noi, per i tanti benefici economici che se ne trarrebbero. Ma questo federalismo fiscale è però rimasto per troppi anni solo sulla carta. Una

carta importante: lo Statuto Siciliano che, ricordo, ha un valore talmente cogente che non può essere modificato nemmeno da leggi del Parlamento nazionale se queste non siano costituzionali. Ritengo, quindi che il federalismo fiscale sia una fonte di benefici per la Sicilia». In Sicilia, il problema delle infrastrutture sembra essere più acuto che altrove. Dove è più urgente intervenire? «Senza dubbio una delle priorità del governo è il potenziamento delle infrastrutture in tutto il Mezzogiorno. È necessario, senza elemosinare nulla, che si proceda con celerità alla realizzazione di opere


INFRASTRUTTURE

Il ponte sullo Stretto darà lavoro a tutti Il Governo considera il Ponte sullo Stretto di Messina un’opera prioritaria. E i lavori partiranno presto. Massimo Ponzellini, presidente di Impregilo, vincitrice dell’appalto per la realizzazione del Ponte, coglie segnali positivi «Il Ponte sullo Stretto sarà anche un’opera in cui il valore simbolico si unirà all’utilità». Ne è convinto Massimo Ponzellini, presidente di Impregilo, la multinazionale del settore delle costruzioni che nel 2005 è divenuta general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Un appalto da 4 miliardi di euro per il quale ancora non sono partiti quei lavori che il Governo Berlusconi promette ora di avviare. «Non dimentichiamo – prosegue Ponzellini – che dal punto di vista delle infrastrutture quest’opera sarà la più importante del mondo e rappresenterà il simbolo del genio italiano nel mondo per i prossimi venti anni». Nel corso dell’inaugurazione del Passante di Mestre, realizzato sempre da Impregilo, il Premier ha assicurato che si sbloccherà anche la situazione del Ponte. Ha colto segnali concreti in questa direzione? «Sì, sono in corso una serie di riunioni molto importanti su questo punto e sono stati predisposti dal Cipe i primi stanziamenti concreti. Più in generale, mi sembra che questo governo abbia capito l’importanza civica dei lavori pubblici. Per la prima volta vedo dei segnali concreti da parte dei ministeri dell’Economia, dei Lavori Pubblici e dalla stessa Presidenza del Consiglio. Le imprese vengono contattate per sapere da loro cosa occorra fare e mettersi assieme attorno a un tavolo. Si tratta di un atteggiamento molto positivo, anche perché dalla finanza il benessere non viene più, i settori manifatturieri sono in fase di difficoltà e quindi in questo momento il Pil e l’occuMASSIMO PONZELLINI pazione possono aumentare solo con un forte investimento nei lavori pubblici. La realizzazione delle Grandi Opere Presidente di Impregilo può fare da volano all’intera economia nazionale e questo governo se ne è accorto subito». Perché sino ad oggi i lavori per il Ponte sullo Stretto non sono ancora partiti: quali gli ostacoli che si sono frapposti? «Un’opera di tali dimensioni e costi non ha avuto nel corso degli anni un unanime consenso, soprattutto a livello politico e questo ha ritardato l’avvio dei lavori. Bisogna inoltre tenere conto che va terminata la Salerno – Reggio Calabria e lo stesso vale per le autostrade siciliane che hanno una rete monca, non pedaggiata e in parte da rifare. Questi due interventi devono essere terminati prima che il ponte entri in esercizio. Un ulteriore problema è quello del treno che presenta infrastrutture ferroviarie carenti sia in Sicilia che in Calabria. Il ponte deve essere il simbolo e la firma sul contratto di modernizzazione di due Regioni, un’opera straordinaria che cambierà il volto del Paese permettendo a un terzo degli italiani di godere di una grandissima infrastruttura. Noi pensiamo che il ponte da solo non basti, ma che la vera sfida sia modernizzare le reti stradali e ferroviarie siciliane e calabresi». Impregilo si occuperà anche di realizzare le opere di raccordo alla nuova grande opera sia sulla sponda siciliana che su quella calabrese? «Nel bando di gara del ponte sono previste delle opere infrastrutturali a terra molto importanti che rappresentano circa la metà dei costi previsti di realizzazione. Inoltre, Impregilo sta realizzando due importanti maxilotti dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria che rappresenta la parte integrante del corridoio europeo Berlino – Palermo in cui è inserito il ponte sullo Stretto. Sono previsti anche altri importanti lavori per l’ammodernamento delle autostrade in Sicilia. C’è quindi spazio per le migliori imprese di costruzioni sia italiane che straniere perché di lavoro in Calabria e in Sicilia ce n’è per tutti».

importanti come la linea metropolitana dell’area di Palermo, di Catania e di Messina che prevede il completamento della piattaforma logistica intermodale con annesso scalo portuale e relativi assi viari, il lotto autostradale Agrigento-Caltanisetta e la costruzione dell’autostrada Catania-Ragusa, con tempi certi, vincoli operativi e sistemici controlli di legalità». Dopo oltre trent’anni di lavori, di recente è stata completata l’autostrada Messina-Palermo. Eppure molte altre infrastrutture viarie dell’Isola sono bloccate da tempo. «La Messina-Palermo è un’opera di fondamentale importanza sia per il Corridoio tirrenico che per i collegamenti tra il versante orientale e occidentale della Sicilia. Ci

sono voluti trent’anni, un vero peccato per i tempi, resta il fatto che è sempre un’università d’ingegneria. Sono sicuro che per le altre infrastrutture siciliane il Governo Berlusconi farà meglio degli altri che si sono succeduti negli ultimi trent’anni». Il Ponte dello Stretto, a quanto pare, si farà davvero. Da messinese, qual è la sua opinione su questa grande opera? «Il ponte di Messina consentirà alla Sicilia e a tutto il Mezzogiorno di avere uno sviluppo turistico senza precedenti e porterà lavoro, progresso, modernità e sviluppo. È un’opera straordinaria per il Paese». A suo parere, in quali settori dell’economia locale la costruzione del ponte porterà le mag-

giori ricadute positive? «Naturalmente nello sviluppo turistico e nell’integrazione delle aree metropolitane di Reggio Calabria e di Messina, creando maggiore sviluppo economico con l’insediamento di nuove aree industriali». Recentemente, si è parlato molto anche di un “aeroporto dello Stretto”, a Reggio Calabria. Cosa ne pensa? «Certamente, la costruzione del Ponte e il conseguente ampliamento dell’aeroporto di Reggio Calabria consentirebbero alle compagnie aeree nazionali ed internazionali di avere un maggiore spazio operativo, con consentirebbe un ampliamento dei servizi utili all’area metropolitana dello Stretto».

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INFRASTRUTTURE Giuseppe Maria Reina

LE PRIORITÀ DA RISOLVERE Secondo semestre del 2010. O forse addirittura prima. Manca poco perché partano i lavori per il Ponte sullo Stretto, secondo Giuseppe Maria Reina, sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti. Ma si aspettano anche altri interventi fondamentali per la mobilità e il trasporto sull’Isola SARAH SAGRIPANTI

l corridoio paneuropeo Berlino-Palermo, del quale costituisce elemento prioritario il collegamento stabile tra la Sicilia e il continente, testimonia che la stessa Comunità europea riconosce un’importanza assolutamente strategica alla realizzazione dell’opera, in un quadro di recupero di competitività dell’estremo Sud del nostro Paese». Proprio per questo, è convinto Giuseppe Maria Reina, sottosegretario di Stato alle Infrastrutture e ai Trasporti, il Ponte sullo Stretto si farà presto. Senza dimenticare, però, che la Sicilia ha bisogno anche, e soprattutto, di altre infrastrutture che aspettano da troppi anni: la realizzazione della Ragusa-Catania, il completamento della Agrigento-Palermo e l’ammodernamento della Catania-Palermo. «Per non parlare,

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poi, delle altre opere viarie, che attendono da anni risposte mai date e, soprattutto, della gravissima insufficienza della rete ferroviaria. L’Isola sembra abbandonata a se stessa, senza una seria programmazione di interventi di riqualificazione dell’intera rete ferroviaria che siano corrispondenti non solo alla necessità di rendere qualitativamente più elevato il livello del trasporto delle persone, ma anche a quella di rendere più competitivo ed efficace il trasporto della merce». Lei ritiene che il Ponte sia una priorità, soprattutto in un momento di crisi economica? «L’opera in sé è già un volano di sviluppo straordinario, ma bisogna che venga correlata a un sistema di collegamenti viari nell’Isola e sul continente che siano coerenti con la sua funzione. È

necessario, quindi, che si completi l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria e insieme a questa tutte le altre arterie viarie di collegamento con il Ponte. Naturalmente bisogna anche tenere conto del necessario ammodernamento delle reti ferroviarie che debbono consentire l’arrivo dell’Alta velocità fino all’Isola. Non è immaginabile lo sviluppo del Paese e, soprattutto, il superamento di questa condizione di crisi se non si interviene adeguatamente sul terreno delle infrastrutture in tutto il Meridione. Il Ponte costituisce il perno di questa nuova attenzione della politica e delle istituzioni verso aree territoriali che sono state per lungo tempo emarginate». Quali saranno i prossimi passi verso la realizzazione dell’opera?


GIUSEPPE MARIA REINA Sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti

«Già quattro mesi fa il Cipe aveva confermato tutti i vincoli preordinati all’esproprio dei terreni interessati dall’esecuzione dei lavori. Questa determinazione costituisce un importante elemento di celerità per l’avvio dei lavori e permette di attivare adempimenti del procedimento che, altrimenti, sarebbe stato impensabile effettuare prima di qualche anno. Tutto è sostanzialmente pronto e la macchina è partita. Non ci sono particolari ostacoli che possano impedire il concreto avvio dei lavori per la data programmata». I fondi messi a disposizione dello Stato rappresentano solo una parte del fabbisogno totale. Il resto deve essere reperito nell’ambito di investitori privati. Crede che, in questo momento di crisi economica, si potrà trovare la disponibilità di banche e

© Marco Merlini / LaPresse

INFRASTRUTTURE

investitori privati? «Sono senz’altro convinto di sì, perché l’investimento sul Ponte costituisce un business apprezzabile per il privato, che potrebbe averne ritorno sotto molteplici aspetti. Anzi, proprio per la condizione complessiva di gravissima crisi che stiamo attraversando, la scelta di continuare a investire sul Ponte costituisce una certezza irrinunciabile. Comunque viene confermato, almeno fino a questo momento, tutto il piano di intervento privato e da quando sono stati rimessi in funzione i motori è stato registrato un considerevole interesse da parte dei privati». Quando pensa che potranno partire i cantieri? «Allo stato attuale, tenuto conto delle procedure amministrative occorrenti, si può stimare che i la-

vori potranno essere avviati nel secondo semestre del 2010, ma anche prima, qualora alcuni adempimenti troveranno il modo di essere assolti sollecitamente ed essere portati a compimento entro il 2016». Quali crede che saranno le ricadute economiche più importanti dell’opera per il territorio siciliano? «Si tratta di un’opera che prevede investimenti tra il pubblico e i privati pari a circa 6,1 miliardi di euro. È intuitivo che, sul piano dell’indotto, si apre una stagione di opportunità impensabile per tutte le attività economiche presenti nell’Isola e che sono correlate ai lavori stessi. Senza pensare alle migliaia di posti di lavoro che darebbero una valida boccata di ossigeno in territori nei quali il tema dell’occupazione è centrale». DOSSIER | SICILIA 2009

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L’ITALIA CHE RINNOVA Gruppo Moncada

SALVATORE MONCADA Amministratore del Gruppo Moncada Energy di Agrigento, leader nell’eolico

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L’ITALIA CHE RINNOVA

IL VENTO NUOVO SOFFIA DA SUD Occupazione. Energia pulita. Valorizzazione del territorio e delle risorse umane. Salvatore Moncada illustra i punti di forza di un’imprenditoria che ha saputo imporsi a livello internazionale. Sfruttando “semplicemente” il vento ELETTRA BIANCHI

n Sicilia si sta alzando il vento. Quello che muove le pale delle turbine eoliche dei parchi in costante crescita nell’Isola che, oltre a garantire il corretto sviluppo di una fonte rinnovabile e pulita, sono capaci di offrire occupazione. Ma anche quello della polemica. A funestare una realtà in pieno sviluppo, infatti, si è radicata nel settore l’ennesima metastasi mafiosa. L’indagine denominata “Eolo” sui fedelissimi del superlatitante Matteo Messina Denaro, culminata in una serie di arresti che hanno attraversato il mondo politico e quello imprenditoriale, rischia ora di creare una cattiva comunicazione del connubio tra eolico e criminalità organizzata. «Invece, realtà imprenditoriali come Moncada – afferma il presidente di Confindustria Agrigento e vicepresidente di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro – hanno saputo creare una grande piattaforma internazionale denunciando la mafia, operando fra mille difficoltà e, in alcuni casi, contro una pubblica amministrazione che non ne ha voluto riconoscere i meriti». Moncada Energy Group, nato ad Agrigento grazie all’iniziativa dei fratelli Moncada, è diventato uno dei principali produttori italiani di impianti di energia eolica. Un pro-

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getto importante, di quelli che possono cambiare le sorti di un territorio difficile e contrastato. Come riconosce anche l’assessore regionale Pippo Gianni, sottolineando che il suo assessorato «sarà sempre al fianco degli imprenditori onesti come Moncada, che a testa alta e senza scendere a compromessi, lavorano per difendere la Sicilia e creare occasioni di sviluppo e di lavoro». Come si è arrivati a questo risultato lo spiega Salvatore Moncada, amministratore di Moncada Energy Group. Nel 1991 operavate nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture. Quando avete capito che era il momento giusto di spostare il vostro core business sull’eolico? «Alla fine degli anni Novanta, quando il settore delle costruzioni viveva una forte contrazione. Così, con la liberalizzazione del mercato elettrico italiano seguita al decreto Bersani, ci siamo affacciati nel settore dell’energia rinnovabile da fonte eolica, ottimizzando le capacità professionali e organizzative che già l’azienda aveva maturato. Oggi, il gruppo Moncada è una realtà strutturata e presente anche su mercati esteri emergenti, come l’Albania e il Mozambico». Eppure, a livello internazionale, le ditte italiane del settore DOSSIER | SICILIA 2009

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L’ITALIA CHE RINNOVA Gruppo Moncada

hanno ancora una quota di mercato minoritaria rispetto a realtà tedesche o danesi. Ci sarà un’inversione di tendenza nei prossimi anni? «Il governo albanese ci ha già concesso l’autorizzazione riguardante la realizzazione della più grande centrale eolica in Europa, per una potenza di 500 MW. Fra la penisola di Karaburun e i Monti Lungara e Kanalit, in accordo con Terna, faremo la posa di una merchant-line sottomarina fra Valona e la Puglia. La cerimonia di autorizzazione si è svolta il 2 dicembre scorso, in occasione della visita del premier Silvio Berlusconi in Albania e alla presenza del ministro degli Esteri albanese Genc Ruli. Si tratta dell’intervento italiano più significativo in terra albanese, pari a un miliardo e 15 milioni di euro. Per quanto riguarda il Mozambico, abbiamo acquisito circa 20mila ettari di terreno da destiDOSSIER | SICILIA 2009

«REALTÀ IMPRENDITORIALI COME MONCADA HANNO SAPUTO CREARE UNA GRANDE PIATTAFORMA INTERNAZIONALE DENUNCIANDO LA MAFIA, OPERANDO FRA MILLE DIFFICOLTÀ E, IN ALCUNI CASI, CONTRO UNA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CHE NON NE HA VOLUTO RICONOSCERE I MERITI» nare alla coltivazione della Jatropha Curcas, una pianta tropicale non edibile che produrrà biocombustibile per alimentare turbine termoelettriche, da noi brevettate, prodotte e installate nel territorio siciliano e per gli hub dello stoccaggio oli vegetali siti nello stabilimento di Porto Empedocle. Senza entrare in competizione con le piante destinate all’alimentazione umana». Quali sono stati i vantaggi portati dal Conto Energia nello stimolare l’Italia a un maggiore utilizzo delle fonti di energia alternativa e cosa può fare oggi il governo per incentivare mag-

giormente il ricorso all’eolico? «I sistemi di incentivazione adottati in Italia hanno dato un buon impulso allo sviluppo delle fonti rinnovabili. Ma non basta. Ci vuole chiaramente un enorme impegno sul versante della ricerca e dell’applicazione soprattutto da parte delle grandi realtà imprenditoriali. L’esempio dell’utilizzo della Jatropha è uno di questi, progetti che nascono grazie a tanto impegno e lungimiranza nella direzione voluta. Per incentivare il settore delle rinnovabili, bisognerebbe dare più certezze agli iter autorizzativi già previsti nelle normative vigenti».


L’ITALIA CHE RINNOVA

UN VENTO DI ENERGIA A sinistra e nella pagina precedente, parchi eolici. Questa energia alternativa è ancora poco sfruttata nel nostro Paese

Voi siete una realtà siciliana nata ad Agrigento. Come valutate la diffusione dell’eolico nell’Isola? «Per quanto concerne le nostre attività sull’eolico, nel 2005 entra in produzione il primo parco del Gruppo, Monte Mele, della potenza di 9,25 MW. Nell’impianto è stato installato per la prima volta un prototipo di aerogeneratore da 850/53 kW a tecnologia “Direct drive”, interamente progettato e costruito da una nostra società, la Sistemi Elettronici. Due anni dopo entrano in produzione altri quattro parchi eolici, sempre nell’agrigentino, Monte Malvizzo, Durrà, Narbone e Altopiano Petrasi, della potenza installata di 96,05 MW. In totale si tratta di cinque impianti per circa 105 MW di potenza. In cantiere ci sono altri sei impianti on-shore e uno off-shore, sempre in Sicilia, per una potenza installata complessiva pari a 1000 MW circa».

Più in generale, come valuta le opposizioni locali da parte di partiti o movimenti ecologisti all’installazione di impianti eolici accusati di inquinare il paesaggio? «Noi intratteniamo ottimi rapporti con i movimenti ecologistici sia in loco che all’estero, come ad esempio in Albania, dove andremo a realizzare un impianto da 500 MW. Si tratta spesso di comunicazione, a volte una cattiva veicolazione delle notizie può creare dei malintesi». Il vostro esempio dimostra che è possibile creare un Gruppo solido e di successo al Sud, puntando su ricerca, sviluppo e nuove tecnologie. Cosa manca ad altre realtà imprenditoriali per arrivare a questi risultati? «Il Sud è oggi il luogo dal quale partire per ricostruire, attorno al valore del lavoro, una strategia che tenga assieme innovazione tecnologica, assetti produttivi e costru-

zione di un nuovo stato sociale, Si tratta di qualificare e valorizzare l’enorme risorsa costituita dalle risorse umane: donne, uomini e soprattutto i giovani, il futuro dell’Italia. La strada che ho intrapreso, pur fra tante difficoltà, è la più giusta e consona per determinare quel cambiamento di crescita economica necessario e indispensabile per il nostro Paese e, in particolare, per una regione meravigliosa ma piena di contraddizioni come quella in cui operiamo. L’azienda che mi onoro di rappresentare e di dirigere ha dovuto superare, nel corso degli ultimi anni, momenti difficili legati soprattutto a quelle condizioni ambientali che sono un freno notevole allo sviluppo e alla crescita complessiva di questa provincia, e in generale di tutto il Meridione. Il percorso iniziato, grazie ad una nuova e rinnovata presa di coscienza, sembra che cominci a dare i frutti sperati». DOSSIER | SICILIA 2009

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LOTTA ALL’EVASIONE Cosimo D’Arrigo

CONTROLLI PIÙ MIRATI SUL TERRITORIO Secondo le ultime stime Istat, l’economia sommersa nel 2006 ha prodotto redditi imponibili sfuggiti a tassazione per una cifra compresa i 226 e i 250 miliardi di euro, che corrispondono al 15,3 per cento e il 16,9 del Pil nazionale. Queste stime e i dati dell’attività operativa della Guardia di Finanza confermano che evadere il fisco è un fenomeno ancora molto diffuso. Come spiega Cosimo D’Arrigo, comandante generale delle Fiamme Gialle FEDERICO MASSARI

ei primi dieci mesi del 2008 sono stati scoperti e verbalizzati redditi sottratti a tassazione per 24 miliardi di euro e Iva evasa per 4 miliardi di euro. Siamo perfettamente in linea con i dati dello lo scorso anno, che si era chiuso con il consuntivo più alto degli ultimi quindici anni». Così risponde Cosimo D’Arrigo, comandante generale della Guardia di Finanza, a chi gli domanda quali risultati abbiano raggiunto nel 2008 le Fiamme Gialle. A questi numeri si devono inoltre aggiungere rilievi Irap per 18,5 miliardi di euro, dato quest’ultimo già superiore a quello dell’intero 2007. In questo contesto, gli evasori totali individuati sono stati 6mila, e 29mila le posizioni lavorative non in regola accertate e, per di più, sono in sensibile crescita anche i risultati della lotta all’evasione fiscale internazionale, che ammontano già a 5 miliardi di euro, circa tre volte superiori al 2007. Per quanto ri-

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guarda il settore delle frodi, sono stati invece accertati reati di emissione e utilizzo di fatture false per un’Iva complessiva di 2,1 miliardi di euro. Dati superiori del 60 per cento rispetto a quelli dello scorso anno. «La Guardia di Finanza — sottolinea D’Arrigo — punta molto sulle indagini finanziarie perché ci permettono di elevare la qualità delle nostre ispezioni e di fondare i rilievi su elementi di fatto difficilmente contestabili». In questo mondo fatto di numeri occorre citare un ultimo dato: le verifiche eseguite tramite le indagini finanziarie online, nel 2008, sono state 2 mila. Il 45 per cento in più del 2007. Pubblicando l’indagine condotta da Kris Network of Businnes Ethics per conto di Contribuenti.it, il Corriere della Sera parla di un’evasione italiana pari a 10 manovre finanziarie. Quali sono i settori e le aree più interessati?

«L’evasione fiscale è un fenomeno ancora molto in voga. Trasversale a tutte le categorie economiche: non vi sono settori o aree geografiche che possono dirsi immuni, anche se naturalmente ci sono gradazioni interne di cui bisogna tener conto per indirizzare i controlli là dove più serve, perché più alta è l’evasione e l’elusione in certi ambiti piuttosto che in altri. Nell’ultimo biennio, la Guardia di Finanza ha scoperto e verbalizzato casi di evasione per un ammontare pari a 55 miliardi di euro. Le attività economiche più controllate sono quelle del terziario. Mentre invece le prime regioni come recuperi di basi imponibili sono la Lombardia, il Lazio e il Veneto». Solidità dell’economia, giustizia sociale e libera concorrenza. Quali sono gli effetti dell’evasione sul funzionamento del nostro sistema economico? «L’evasione fiscale provoca danni rilevantissimi al bilancio dello


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COSIMO D’ARRIGO Comandante generale delle Fiamme Gialle

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Stato e degli Enti Locali, ma ancor più grave è il danno al funzionamento del sistema economico, all’equità, alla giustizia distributiva, alla libera concorrenza tra le imprese. Vi è una sperequazione molto forte fra chi paga le tasse regolarmente e chi, non pagandole danneggia la comunità in quanto costringe i primi a subire prelievi tributari molto più alti, che assottigliano i margini di guadagno e la competitività delle nostre imprese sui mercati internazionali. La strategia della Guardia di Finanza e orientata a colpire i fenomeni evasivi più gravi, quelli che provocano i maggiori scompensi e squilibri della concorrenza di mercato, ossia, gli evasori totali e paratotali, che non presentano affatto le dichiarazioni annuali dei redditi e Iva, o le presentano con meno della metà dei redditi realmente conseguiti. Datori di lavoro che sfruttano manodopera in nero o irregolare, frodi fiscali, evasione internazionale e l’elusione delle imprese medio grandi, che utilizzano triangolazioni con Paesi “offshore” e sistemi sofisticati per aggirare gli obblighi di contribuzione». Le Fiamme Gialle sono in prima linea nella lotta all’evasione. Che strumenti e strategie adottate? «Negli ultimi tre anni abbiamo aumentato la presenza ispettiva, aumentando del 25 per cento le risorse dedicate ai servizi di polizia tributaria rispetto a prima. Le nostre pattuglie eseguano ogni anni 31 mila verifiche a imprese e lavoratori autonomi, 72 mila controlli di singoli atti di gestione e 750 mila accertamenti in materia di scontrini, ricevute fiscali e documenti di trasporto beni viaggianti». Con quali altri organismi di controllo collaborate? «La Guardia di Finanza dipende direttamente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e colDOSSIER | SICILIA 2009


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labora con tutti gli Organi dell’Amministrazione finanziaria. In particolare abbiamo rapporti di lavoro molto stretti con L’Agenzia delle Entrate per i controlli in materia di imposte sui redditi, Iva e Irap, con l’Agenzia delle Dogane per quanto riguarda il contrasto al contrabbando di tabacchi e oli minerali, con l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato per i controlli in materia di prelievo erariale unico sui giochi sulle scommesse». Quanto sono importanti le indagini bancarie e finanziarie? «Le indagini finanziarie sono uno degli strumenti più efficaci per combattere l’evasione, perché consentono di ricostruire il complesso dei movimenti di denaro, titoli e valori riconducibili ai contribuenti controllati. Tale sistema di controllo è oggi ancor più efficace. Infatti, grazie a una serie di interventi legislativi che si sono susseguiti tra il 2004 e l’anno scorso, i dati sui flussi finanziari sono acquisibili rispetto all’intera platea degli intermediari e non più solo con riferimento alle banche e alle Poste italiane, come avveniva in passato». Il livello delle truffe scoperte in Italia nell’utilizzo dei fondi comunitari è il più alto a livello europeo: due miliardi e 400 milioni di euro. Le associazioni degli industriali e i cittadini hanno chiesto più trasparenza e controlli. Quali sono le vostre iniziative? «La somma citata corrisponde all’ammontare delle truffe di finanziamenti della Politica Agricola Comune e dei Fondi strutturali europei, con annesse quote di cofinanziamenti nazionali, che i reparti della Guardia di Finanza hanno scoperto tra il 2006 e il 2008 a seguito di 4600 indagini antifrode, che hanno portato alla denuncia di 4772 persone, di cui 113 tratte in arresto. Nelle regioni meridionali, dove si concentra l’85

per cento delle truffe, hanno fatto salire una forte richiesta di legalità: 100 miliardi previsti dal Quadro Strategico Nazionale per la crescita e lo sviluppo del sud, costituiscono un’opportunità irrinunciabile per risollevare il Paese e dare respiro agli imprenditori onesti». L’evasione fiscale internazionale è una delle varianti più problematiche. Con quali strumenti la combattete? «L’evasione fiscale internazionale si concretizza in tutti quei comportamenti posti in essere dai contribuenti che, per ottenere risparmi tributari indebiti, ricorrono alle più favorevoli condizioni di tassazione praticate da talune legislazioni straniere, per esempio creando società di comodo in paradisi fiscali verso le quali trasferire i guadagni conseguiti. In questo contesto, i fenomeni evasivi maggiormente riscontrati, attengono, in primo luogo, al fittizio trasferimento all’estero della residenza fiscale e, in secondo luogo, l’esercizio di attività d’impresa in Italia da parte di stabili organizzazioni di società estere, la cui esistenza viene nascosta al Fisco». Quali iniziative giudica più urgenti, quelle che metterete in campo nel prossimo futuro? «Abbiamo in corso una serie di progetti di reingegnerizzazione dei processi operativi e dei prodotti del lavoro dei Reparti terrestri e aeronavali. A breve emanerò la nuova circolare che aggiorna le istruzioni operative per i verificatori, con direttive dettagliate mediante una check list di applicazione uniforme, concepite per migliorare la qualità dei rilievi sia in punto di diritto che di fatto. Inoltre, per quanto riguarda l’effettiva realizzazione dei crediti tributari innescate dalle verifiche del Corpo, stiamo sviluppando una collaborazione con la Società Equitalia per la riscossione coattiva dei ruoli d’importo più elevato». DOSSIER | SICILIA 2009

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LUIGI MAGISTRO Dal 2008 è direttore aggiunto della direzione centrale Accertamento dell’Agenzia delle entrate

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LA LOTTA ALL’EVASIONE È OBIETTIVO COMUNE Riscontri mirati, redditometro, informatizzazione delle procedure. Luigi Magistro, direttore accertamento dell’Agenzia delle entrate, spiega come stanno cambiando le strategie e gli strumenti per scovare i contribuenti “distratti” SARAH SAGRIPANTI

e stime dell’Istat e quelle del ministero dell’Economia parlano chiaro: l’evasione in Italia raggiunge livelli due o tre volte superiori a quelli osservati nei maggiori Paesi europei e fino a quattro volte superiori a quelli dei Paesi più virtuosi. In termini di gettito fiscale, si tratta di una perdita di oltre cento miliardi l’anno. Un fenomeno tutto italiano, che va analizzato anche dal punto di vista sociologico, come dichiara Luigi Magistro, direttore accertamento dell’Agenzia delle entrate, che per il 2009 prevede di potenziare tutti gli strumenti in suo possesso per scovare i contribuenti “distratti”. Ma oltre a un maggiore controllo da parte degli organi competenti, sarebbe utile anche il rafforzamento di un sistema di controllo sociale, quello che nasce, però, solo da una forte coscienza civile. Secondo lei quali sono i motivi della “refrattarietà” alle tasse da parte dei cittadini italiani? «I motivi sono complessi e riguardano in buona parte la sociologia. Ma di questa materia, ovviamente, il fisco non si occupa. Non c’è dubbio che il livello dell’evasione è anche collegato all’efficienza dei controlli fiscali e infatti è regola universale quella secondo cui gli adempimenti di qualsiasi genere imposti al cittadino sono tanto più

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osservati quanto maggiore è il controllo del loro rispetto. Pensiamo ad esempio ai limiti di velocità sulle strade: dove c’è un autovelox ben visibile, tutti rispettano il limite! E non si tratta tanto del livello della sanzione temuta, quanto dell’esistenza di un controllo efficace». Non si rispetta la legge quando si è certi di un mancato controllo? «Sì, e la stessa cosa accade in materia fiscale: molti contribuenti maturano la convinzione che la probabilità che l’evasione possa essere scoperta è talmente bassa da rendere conveniente il continuare ad evadere. C’è poi l’ulteriore convinzione che, quant’anche scoperti, si potrà resistere in sede contenziosa, dilatando i tempi e, nel frattempo, facendo sparire tutti i beni aggredibili dal fisco. Questo fenomeno si chiama “evasione da riscossione”, ed è pratica purtroppo assai diffusa nel nostro Paese». Quali sono le strategie necessarie per contrastarla? «La strategia di fondo è quella di garantire controlli sempre più capillari, che muovano da specifiche analisi del rischio di evasione presente sul territorio. In questo modo si possono indirizzare i controlli verso settori economici e singoli contribuenti che denotano una particolare propensione all’inadempimento fiscale e si può graduare l’intensità del controllo. Una DOSSIER | SICILIA 2009

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bella novità rispetto alla tradizionale concezione secondo cui i controlli vengono, di fatto, svolti con modalità identiche per tutti i contribuenti». Può farci un esempio di questo nuovo metodo? «Una strategia specifica è stata recentemente inaugurata per i cosiddetti “grandi contribuenti”, vale a dire le imprese con fatturato superiore ai 100 milioni di euro. La strategia qui si traduce in una vigilanza costante con finalità quasi esclusivamente dissuasive dell’evasione e soprattutto dell’elusione fiscale. Questi soggetti saranno controllati ogni anno da unità specializzate dell’Agenzia delle entrate, di nuova istituzione (gli Uffici grandi contribuenti, ndr). Il controllo riguarderà l’ultima dichiarazione e, se necessario, anche operazioni relative all’anno in corso. Una consistente innovazione, dato che fino ad oggi i controlli hanno quasi sempre riguardato anni lontani nel tempo. Questo controllo sistematico verrà avviato quest’anno per i soggetti con fatturato superiore ai 300 milioni di euro, e sarà assicurato entro il 2011 per tutti quelli con fatturato superiore ai 100 milioni di euro». Quali sono gli strumenti più importanti di cui dispone l’Agenzia delle entrate per il controllo fiscale? «Devo dire con chiarezza che, probabilmente, pochi Paesi al mondo dispongono di strumenti analoghi e potenti come quelli che abbiamo in Italia. Si tratta innanzitutto dei poteri cosiddetti “istruttori”, vale a dire gli strumenti fondamentali per acquisire le informazioni che servono per dimostrare l’eventuale evasione. Si pensi alla possibilità di accedere presso qualsiasi impresa per chiedere documenti o informazioni, o a quella di acquisire dati presso le banche e gli altri intermediari finanziari. Vi sono poi le enormi banche dati dell’Anagrafe tributaria, integrate con basi-dati esterne, che hanno una funzione assai importante per l’analisi del rischio di evasione e, quindi, per intercettare i potenziali evasori. Senza DOSSIER | SICILIA 2009

dimenticare gli studi di settore, che costituiscono lo strumento fondamentale per valutare, su basi matematico-statistiche, il rischio di evasione per le piccole imprese e i lavoratori autonomi». In che modo l’introduzione di procedure informatizzate ha contribuito ad agevolare i controlli? «Le richieste di indagine trasmesse dall’Agenzia e le risposte inviate dagli operatori finanziari, come banche o società di gestione del risparmio o di investimento immobiliare viaggiano su posta elettronica certificata, un sistema di comunicazione che consente di trasmettere richieste e risposte direttamente in modalità telematica e in massima sicurezza. Grazie a queste procedure informatizzate, si sono notevolmente accorciati i tempi di risposta da parte degli operatori coinvolti, con evidenti vantaggi anche sul piano del rispetto della privacy». Cos’è, invece, lo strumento del redditometro? «In senso tecnico il termine redditometro sta a indicare un meccanismo di calcolo che abbina automaticamente al possesso di determinati beni e servizi di lusso,

come aerei, macchine di grossa cilindrata o cavalli da corsa, una determinata capacità di spesa e, conseguentemente, un reddito. Si tratta, in verità, di uno strumento obsoleto, che si inquadra nell’ambito dell’accertamento cosiddetto “sintetico” del reddito, che invece rappresenta lo strumento forse più potente per contrastare l’evasione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche». Come funziona l’accertamento sintetico? «L’accertamento sintetico si basa su un principio assai elementare: se un contribuente, nel corso dell’anno, spende 100 e dichiara di aver conseguito un reddito di 20, ci sono buone ragioni per pensare che la dichiarazione, assai probabilmente, non sia fedele. Il contribuente viene quindi chiamato a spiegare i motivi della divergenza e, ove non dia spiegazioni convincenti, la stessa viene considerata come un reddito non dichiarato». Su quali informazioni si basa questo tipo di controllo? «Sono tipicamente quelle relative a spese di particolare rilevanza per l’acquisto e il mantenimento di beni, come immobili o autovetture,


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o per la fruizione di servizi voluttuari: dai club esclusivi, ai viaggi molto costosi. Per le spese per investimenti, come gli acquisti immobiliari, esiste un meccanismo legale che, salva la già prova contraria, considera la spesa come reddito conseguito in cinque quote di uguale ammontare, nell’anno in cui viene effettuata e nei quattro precedenti. La manovra d’estate ha stabilito che l’utilizzo di questo strumento deve essere largamente incrementato, mediante la previsione, nel triennio 2009-2011, di un piano straordinario di controlli della specie. Un ruolo “segnaletico” è inoltre affidato ai Comuni, che sono chiamati a comunicare all’Agenzia delle entrate eventuali situazioni rilevanti per la determinazione sintetica del reddito, mentre sono in campo sinergie ancora più avanzate e sofisticate con la Guardia di Finanza». Quanto conta la collaborazione con gli altri soggetti pubblici per la prevenzione e il contrasto dell’evasione fiscale? «Tantissimo. Dalla primavera scorsa si è aperta una stagione di collaborazione sistematica tra fisco e Comuni, che frutterà a questi ultimi il 30 per cento degli importi riscossi a titolo definitivo. Grazie a queste strategie la lotta all’evasione non è più soltanto una priorità dello Stato, ma di tutti i soggetti pubblici che, da un aumento del gettito fiscale, guadagnano l’opportunità di erogare in maniera più efficiente i loro servizi». Con l’entrata in vigore del federalismo fiscale, in che modo crede si evolverà il controllo dell’evasione? «Si tratta di uno scenario in divenire, quindi è ancora presto per i dettagli. In generale, possiamo dire che sicuramente gli enti locali avranno un ruolo sempre più attivo sul fronte del contrasto all’evasione. L’Agenzia delle entrate e Sogei, dal canto loro, stanno già lavorando alla ristrutturazione e al miglioramento della piattaforma tecnologica del sistema informativo per renderla più funzionale alle esigenze del futuro assetto». DOSSIER | SICILIA 2009

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UN FRONTE UNICO CONTRO LA CRIMINALITÀ La criminalità organizzata si è evoluta, infiltrandosi sempre più nell’economia pulita. E anche la risposta dello Stato alla mafia deve cercare nuove strade. Non solo per contrastarne l’attività, ma anche per distruggerne il patrimonio e riconsegnarlo alla comunità. L’impegno costante della Guardia di Finanza nelle parole del comandante Mauro Michelacci DANIELA PANOSETTI

isognerebbe far comprendere a ogni cittadino che l’illegalità, anche la più lieve, troppo spesso assolta con sorridente indulgenza, può in realtà favorire in modo più o meno diretto forme di criminalità più strutturata. L’esigenza di sicurezza, del resto, va sempre correlata alle evoluzioni del contesto sociale, di cui occorre comprendere istanze, aspettative, disagi e devianze». È questo che si impegna a fare la Guardia di Finanza, secondo il generale Mauro Michelacci, comandante interregionale dell’Italia Sud Occidentale: non solo continuare a operare con determinazione e fermezza, ma anche contribuire in modo deciso alla diffusione di una maggiore cultura della legalità. «In un contesto – spiega – dove il rapporto tra cittadino e istituzioni possa essere segnato, sempre più, da rispetto e fiducia». Il governatore Lombardo ha lodato l’azione che la Guardia di Finanza continua a portare avanti nella lotta alla criminalità organizzata. Quale situazione ha trovato sull’Isola? «In Sicilia le istituzioni hanno da tempo compreso di dover fare fronte comune contro l’inquinamento della società attuato dalla mafia. Il crescendo di successi con-

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AL COMANDO Il generale di divisione Mauro Michelacci, comandante interregionale dell’Italia Sud-Occidentale della Guardia di Finanza


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IN PRIMA LINEA Mauro Michelacci

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seguiti dalle Forze dell’Ordine negli ultimi anni, a partire dalla cattura dei principali boss latitanti, è riuscito a creare un certo disorientamento nel tessuto di Cosa Nostra, la quale tuttavia si è a sua volta evoluta verso forme di infiltrazione finanziaria ed economica che la rendono capace di mimetizzarsi nei settori più remunerativi dell’economia, sia sotto il profilo del profitto che in termini di controllo sul territorio. In questo modo, la mafia è sostanzialmente passata da gruppo criminale operante in un territorio delimitato a soggetto proteso al presidio di spazi economici per l’offerta di beni o servizi illeciti». Qual è stato il contributo della Guardia di Finanza in questa lotta? «Un contributo certamente importante, ulteriormente potenziato dalla recente adozione di un approccio operativo di tipo olistico, che sfrutta e incrocia le ampie competenze del Corpo in materia ecoDOSSIER | SICILIA 2009

nomico-finanziaria. L’obiettivo è da un lato intercettare le organizzazioni criminali sui canali che utilizzano per inserirsi nell’economia legale e dall’altro continuare ad aggredire i loro patrimoni illecitamente acquisiti. Nel 2008 siamo riusciti a confiscare alla mafia più di 200 beni, soprattutto immobiliari, per un valore complessivo di quasi 320 milioni di euro, e a sequestrarne altri 629, per un valore di oltre un miliardo e 190 milioni. Una tendenza positiva che senza dubbio cercheremo di consolidare, impegnandoci sempre più non solo nella confisca di tali patrimoni, ma anche nel loro successivo reimpiego per finalità pubbliche». Quali sinergie vincenti possono essere messe in atto con gli altri soggetti interessati? «Oggi più che in passato i metodi di contrasto alla criminalità organizzata necessitano di una visione unitaria a livello nazionale e della sinergia di tutte le forze di polizia.

In quest’ottica, alla Guardia di Finanza spetta soprattutto di approfondire gli aspetti prettamente economici e finanziari, con l’obiettivo ad esempio di delineare la rete di prestanome e di intrecci societari fittizi sotto i quali si celano molti patrimoni criminali. È quello che è avvenuto ad esempio con l’operazione Goldmine, recentemente condotta dal nucleo Pt di Palermo, che rappresenta uno dei primi e più significativi casi di applicazione delle misure di prevenzione post mortem introdotte dal pacchetto sicurezza dello scorso maggio». Dove pensa debba concentrarsi, al momento, il controllo dello Stato? «Nonostante i colpi subiti, talora durissimi, la mafia non si arrende facilmente e tende anzi a “rigenerarsi”, come avvenne ad esempio dopo la stagione stragista dei primi anni 90, quando davanti all’acuirsi delle tensioni provocate sembrò ritirarsi nell’ombra. Oggi, il terreno


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ATTIVITÀ INVESTIGATIVA Nel 2008, la Guardia di Finanza ha confiscato alla mafia più di 200 beni, per un valore complessivo di quasi 320 milioni di euro

di intervento dello Stato riguarda soprattutto la crescente infiltrazione mafiosa nell’economia legale, a partire dal sistema degli appalti. Aumentano ad esempio i tentativi di inquinare le procedure di gara e di imporre agli imprenditori, oltre al pizzo, anche mezzi, manodopera e materie prime, di qualità scadenti e a prezzi maggiorati». Come si può contrastare tutto questo? «Per combattere simili situazioni, in alcune realtà si sta sperimentando il sistema della stazione unica appaltante, che tenta di “spersonalizzare” l’attività amministrativa in questo settore in modo da tutelare gli enti da pressioni e condizionamenti e sostenere le autonomie locali con una strutturata azione di partenariato istituzionale. Più complesso rimane il contrasto alle intimidazioni sul territorio, che richiede non solo una qualificata presenza delle Forze di polizia sul campo, ma anche una piena colla-

borazione da parte di imprenditori e cittadini». In Sicilia e in Calabria gli imprenditori si sono ribellati al pizzo. Quanto conta il ruolo delle imprese nella lotta contro il racket? «È fondamentale. L’azione antiracket condotta dalle forze dell’ordine sarebbe molto più rapida ed efficace se avesse il sostegno di una forte presa di coscienza da parte delle vittime, disposte a rompere il muro di omertà e a collaborare con le forze dell’ordine. È importante, quindi, dare supporto all’imprenditoria più sana, impegnata ad affermare, in modo sempre più deciso, i principi di giustizia e legalità. Come ha fatto ad esempio proprio Confindustria Sicilia nel 2007, che ha integrato il proprio codice etico con richiami ancor più evidenti ai principi antimafia già presenti nell’organizzazione, a partire dal rifiuto di ogni forma di sottomissione a pratiche di usura ed

estorsione». La crisi economica sta mettendo in ginocchio molte imprese. C’è il rischio che in questa situazione torni a essere utilizzato il lavoro nero? «Nei primi 10 mesi del 2008, i nostri reparti hanno individuato oltre 29mila lavoratori non in regola, di cui circa cinquemila extracomunitari illecitamente impiegati in attività lavorative, per oltre la metà totalmente in nero. Nello stesso periodo, i datori di lavoro verbalizzati sono aumentati da 3.558 a quasi cinquemila. Nonostante l’incisività delle pene pecuniarie previste per il datore di lavoro, che arrivano fino a 12mila euro per impiegato, il ricorso al lavoro nero continua a essere molto diffuso. Anche le dinamiche di evasione si sono evolute: le aziende a rischio aumentano, ma l’assunzione in nero per singola struttura diminuisce, forse per stemperare gli effetti della “maxisanzione”». DOSSIER | SICILIA 2009

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CULTURA DELLA LEGALITÀ Giuseppe Ayala

NON HO NESSUN DUBBIO I GIOVANI VINCERANNO I siciliani sono cambiati e hanno imparato a conoscere e contrastare la mafia. Una mafia che però sta cambiando e non va sottovalutata. Ne è convinto Giuseppe Ayala, uno dei nomi storici di quel pool antimafia palermitano in cui lavorarono Falcone e Borsellino. Un uomo e un magistrato che guarda al presente e al futuro con fiducia e consapevole realismo LORENZO BERARDI

a lavorato per dieci anni a fianco di Giovanni Falcone. È stato uno dei magistrati protagonisti di quella stagione irripetibile che ha permesso di minare la mafia alle radici, rivelandone al tempo stesso le ramificazioni. Un protagonista che, al pari dei suoi colleghi del pool antimafia della magistratura palermitana, doveva restare invisibile. Un’invisibilità resa necessaria da motivi di sicurezza, ma che non bastò a evitare il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A diciassette anni di distanza, Giuseppe Ayala, che dei due magistrati palermitani era non solo collega, ma anche amico, guarda con fiducia al presente della sua Isola. Un presente in cui le giovani generazioni hanno acquisito consapevolezza sociale e conoscenza del fenomeno, combattendolo con gesti e atteggiamenti concreti. «Penso ai giovani del volontariato impegnati in “Addio Pizzo” – conferma Ayala – oltre che ai molti imprenditori siciliani che oggi si rifiutano di pagare il pizzo e alla stessa Confindustria che non solo sostiene chi non paga il pizzo, ma ha cacciato fuori dall’organizzazione gli imprenditori che lo pagavano. Non voglio enfatizzare questi segnali positivi, ma neppure svilirli, perché sino a pochi anni fa era impossibile che tutto ciò potesse accadere. Si parla spesso dell’eredità lasciata da Falcone, Borsellino o Libero Grassi ed è giusto – prosegue il magistrato –. Ma non dimentichiamo che anche il presidente regionale di Con-

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© La Malfa Giovanni / Grazia Neri

CULTURA DELLA LEGALITÀ

L’ESPERIENZA Giuseppe Ayala ha fatto parte del pool antimafia assieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dopo essere entrato in politica nel 1992, dal 2007 è tornato a fare il magistrato presso la Corte d’Appello di L’Aquila

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findustria, Ivan Lo Bello, è un siciliano. Per cui non parliamo solo dell’eredità dei morti, ma anche di quello che oggi stanno facendo i vivi». Individua un momento preciso in cui questo cambiamento della società siciliana nei confronti della mafia ha cominciato a manifestarsi? «In Sicilia, tutto è cambiato dopo la sentenza del maxiprocesso nel dicembre dell’87 che non solo chiarì le responsabilità di quel gran numero di imputati, ma soprattutto definì esattamente che cos’è la mafia, spiegandone tutti gli aspetti. Da allora cominciò una nuova stagione. Ritengo il maxiprocesso uno spartiacque fondamentale, perché la sua sentenza ha tolto e strappato il velo che sino a quel momento avvolgeva la mafia. Poi, certo, ci fu la stagione degli attentati del 92 che ha contribuito a cambiare l’opinione del grande pubblico. Rispetto agli anni della mia infanzia e anche rispetto a quando ho cominciato a lavorare a Palermo nel pool antimafia noto oggi un atteggiamento diverso nelle nuove generazioni di siciliani. Questo mi fa ben sperare. Ricordo come in passato la mafia non si dovesse neppure nominare. E quando qualcuno, nelle campagne siciliane parlava di mafia, prima si accertava che porte e finestre di casa fossero ben chiuse. Oggi, per fortuna, è diverso e la mafia non è più innominabile». Lei è di Caltanissetta. Cosa significa nascere e crescere in una terra come quella siciliana e come ha influito nella sua decisione di divenire magistrato? «Non pensavo di fare il magistrato e il fatto di essere nato in Sicilia non è stato decisivo nella scelta di occuparmi di giustizia. Ho cominciato come avvocato penalista ed è stato frequentando i tribunali per lavoro che ho deciso di “passare dall’altra parte dell’aula”. Così ho provato il concorso per divenire pubblico ministero e sono riuscito a passarlo al primo colpo». Da ex componente del pool antimafia, crede che gli arresti eccellenti di Riina e Provenzano rapDOSSIER | SICILIA 2009

I TEMPI DEL POOL Alla sua esperienza di magistrato a Palermo, Giuseppe Ayala ha dedicato il libro Chi ha paura muore ogni giorno edito da Mondadori lo scorso anno. Il titolo riprende una famosa frase di Paolo Borsellino, nella foto a destra con Giuseppe Ayala e Giovanni Falcone

presentino una vittoria reale contro il fenomeno mafioso? «I grandi arresti sono una grande vittoria dello Stato. Una cosa è pensare a Totò Riina e a Bernardo Provenzano in carcere e sottoposti al 41bis e un’altra è immaginarli ancora liberi e latitanti che dirigono l’organizzazione mafiosa. Certo, non si può nascondere il fatto che per arrivare a questa vittoria sono occorsi 42 anni, quelli necessari per catturare Provenzano. Ciò che conta è che questo risultato sia stato raggiunto. Personalmente, però, non penso che questi arresti possano rappresentare un indebolimento della mafia. La mafia è un fenomeno antico, ma che ha una grande capacità di adattarsi ai cambiamenti della società e della politica e ha anche una grande capacità di trovare al proprio interno energie rinnovatrici. Gli arresti di Riina e Provenzano non sono stati una decapitazione: io sono sicuro che oggi qualcun altro ha preso il loro posto e dirige l’organizzazione». La mafia è dunque un fenomeno che oggi ha assunto nuove forme? «Oggi la mafia va sempre più imborghesendosi. Il vertice dell’orga-

nizzazione è passato dal contadino di Corleone che era Provenzano a una persona che ha studiato, veste abiti su misura e occupa posti e ruoli di rilievo nella società. Basti pensare a vicende come quella, recente, di un noto primario di chirurgia palermitano che si è scoperto essere anche il capo della famiglia mafiosa dei Brancaccio. E siccome ho smesso di credere ai casi unici quando ero in quinta elementare, questo e altri casi mi fanno pensare che la mafia si sia imborghesita. Perciò penso che il successore di Provenzano non sia un altro contadino corleonese, anzi tutt’altro». Crede che esista ancora una sorta di cultura mafiosa in opposizione alla cultura dello Stato in Sicilia? «In Sicilia abbiamo cinque milioni di abitanti. Qui ci sono persone che sopportano la mafia e ci sono anche persone che hanno interesse a colludere con essa, ma questi individui sono solo alcune migliaia. Poi è anche vero che esiste un’ampia sacca grigia di indifferenza al fenomeno, ma guai a pensare che tutte queste persone rappresentino la maggioranza dei siciliani. Non nego che esista una cultura mafiosa, ma è mino-


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CULTURA DELLA LEGALITÀ

ritaria. La Sicilia inoltre non va generalizzata: perché è una Regione grande e molto disomogenea per tradizioni storiche, culturali, politiche e sociali. Dico no alle generalizzazioni che vedono nei siciliani un popolo colluso con la mafia. Con questo non voglio difendere i miei corregionali, con cui sono stato anche critico, ma conosco questa realtà e so quanto sia ingiusto farne uno stereotipo sbagliato». Falcone sosteneva che, come tutti i fatti umani, anche la mafia avrà una fine. A suo parere quando e come si arriverà alla fine di Cosa Nostra? «A Giovanni Falcone sono stato molto vicino per dieci anni e l’ho conosciuto molto bene, ma so che non era il quinto Evangelista. Quindi anche Falcone può aver detto qualcosa d’inesatto, ma ha detto moltissime cose giuste. Il mio problema non è tanto di non essere sicuro del fatto che un giorno ci libereremo della mafia, il mio è piuttosto un problema egoistico: io infatti in quel momento ci vorrei essere, ma temo che non vivrò abbastanza a lungo per poterlo fare. Questo perché sconfiggere la mafia non è un’operazione di breve, ma di medio-lungo termine. Ci arriveremo, ma occorrerà tempo e, in questo sono totalmente d’accordo con Falcone,

perché ci sono segnali importanti che conducono in questa direzione». Quanto è difficile estirpare questo fenomeno? «Il problema vero è il collegamento fra la mafia e alcuni settori della politica. Anche qui bisogna stare alla larga delle generalizzazioni, perché non tutti i politici italiani sono ovviamente collusi con la mafia. Sono stato quindici anni in Parlamento e mi sono accorto che quando la mafia non ammazza, nei palazzi del potere romani viene ignorata. Non appena c’è un omicidio eccellente, invece, si assiste sempre allo stesso fenomeno. Per prima cosa si usa l’espressione “emergenza mafiosa” davanti al cadavere ancora caldo e poi si manda un po’ di polizia o di esercito in più sul territorio. Ma come si può parlare di “emergenza” dinnanzi a un fenomeno che è più antico dell’Unità d’Italia? Ciò dimostra come dal punto di vista politico si affronti la mafia sempre dal punto di visto emergenziale ed è questo il limite più grande». Dopo l’esperienza politica, lei ha ripreso a fare il magistrato e oggi è consigliere presso la Corte d’Appello de L’Aquila. Se potesse tornare indietro, rifarebbe le stesse scelte? «La scelta di fare il parlamentare non la

rinnego affatto e la rifarei anche se non nego che mi abbia frustrato dal punto di vista dei risultati concreti. Rifarei anche tutta l’esperienza del pool antimafia che è cominciata negli anni 80, a patto che non mi raccontassero prima l’epilogo di quel periodo, ovvero l’uccisione di Falcone e Borsellino. Se fossi a conoscenza dell’epilogo, allora mi tirerei indietro». Tornerebbe a fare il magistrato in Sicilia? «Sono contro la logica degli uomini per tutte le stagioni. Ritengo che ogni stagione abbia i suoi uomini e io sono soddisfatto di quello che ho fatto. Mi piace ancora molto fare il magistrato e mi è piaciuto tornare a farlo, ma ora opero in un contesto diverso. Adesso spetta a una nuova generazione di magistrati fare ciò che ho fatto io e in questo mi muovo anche in sintonia con il disegno istituzionale che prevede che esistano dei limiti per la permanenza all’interno della Direzione Distrettuale Antimafia. Bisogna cercare di non disperdere le competenze, ma di trasmetterle ai giovani che sostituiscono i vecchi nel periodo di compresenza in cui ci si ritrova a lavorare assieme. Tutto questo per continuare a combattere efficacemente la mafia». DOSSIER | SICILIA 2009

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CONCRETA Angela Maraventano, ex vicesindaco di Lampedusa, è senatrice della Lega Nord

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EMERGENZA IMMIGRAZIONE

NON RIMARREMO CON LE MANI IN MANO Dopo i recenti disordini di Lampedusa, Angela Maraventano dice la sua sulla situazione dell’isola difendendo l’operato del ministro Roberto Maroni e del governo. E mette in guardia dalle polemiche dei «falsi buonisti» FEDERICO MASSARI

ome esponente della Lega, come senatrice e soprattutto come lampedusana, non considero proprio le parole del sindaco De Rubeis. Credo invece che occorra incoraggiare Maroni a continuare su questa strada che, a parere mio e dei lampedusani che mi sostengono, è l’unica soluzione per bloccare il fenomeno dell’immigrazione clandestina». È determinata Angela Maraventano, senatrice del Carroccio che da quarantaquattro anni vive a Lampedusa e che, da quando è scesa in politica, si è sempre impegnata nella difesa dell’isola dagli effetti dell’immigrazione proveniente dall’Africa. Nel 2007 fecero scalpore alcune sue proposte eccentriche come, ad esempio, la richiesta di annettere l’isola di Lampedusa alla Provincia di Bergamo. Oggi più di prima, Angela Maraventano, al contrario del sindaco Bernardino De Rubeis, appoggia la costruzione del nuovo centro di accoglienza e identificazione, e afferma senza mezzi termini che il progetto Maroni porterà sicuramente i frutti sperati. Lampedusa è sotto i riflettori. Lei è stata duramente contestata quando è arrivata sul-

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l’isola. Quale sensazione ha avuto? «Sono stata contestata da un gruppo di persone che non mi hanno mai sostenuto nemmeno durante la campagna elettorale che ho affrontato qui a Lampedusa. È normale, il popolo è diviso ed esiste una coalizione politica. Ci sono rimasta male poiché queste persone hanno provato una forte invidia per il solo fatto che sono diventata senatrice. Questa parte di popolo ha falsamente affermato che sull’isola di Lampedusa esistono situazioni allucinanti: ovviamente si tratta di una strumentalizzazione per mettere in confusione gli abitanti. Io andrò avanti con i miei progetti, come, ad esempio, bloccare il flusso dell’emigrazione clandestina». Come si è arrivati a una situazione del genere? «Tutto è partito da una manifestazione legata al discorso della riforma scolastica. Quando sono arrivata a Lampedusa, le mamme dei bambini delle scuole mi hanno domandato perché non arrivavano i finanziamenti. Essendoci stato un crollo di una parete all’interno di un istituto scolastico, le madri dei bambini hanno avviato questa protesta. DOSSIER | SICILIA 2009

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Più controlli, più espulsioni Politiche per l’immigrazione dure e decise. Francesco Nitto Palma, sottosegretario all’Interno, spiega la linea dettata dal governo FEDERICO MASSARI

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ampedusa non deve più essere percepita come la porta d’ingresso per l’Europa. Questo è il messaggio che l’attuale governo intende far capire ai cittadini della penisola italiana, ma soprattutto agli abitanti dell’isola di Lampedusa. L’Italia, come la Grecia, Cipro e Malta, è da sempre tra i Paesi più esposti all’arrivo dei clandestini. Per questo il ministro Roberto Maroni ha deciso di avviare direttamente da Lampedusa le procedure di espulsione. Decisione presa per evitare che una volta sulla penisola i clandestini si diano alla fuga. Nell’isola, su 1.300 clandestini, 1.200 sono tunisini. Con il Paese nordafricano, come ricorda il sottosegretario al ministero dell’Interno Francesco Nitto Palma, c’è stato un accordo: «I primi 120 cittadini tunisini già identificati saranno rimpatriati dopo uno scalo tecnico a Roma. Tale operazione si inserisce nell’ambito delle intese raggiunte dal ministro Maroni con il suo omologo tunisino, Rafik Belhaj Kacem». Per quanto riguarda la Libia, si attende invece il via libera del Senato al concordato per far partire i pattugliamenti congiunti e lo stop delle partenze all’origine. Tornando nuovamente dentro i nostri confini, più precisamente sull’attuale situazione nell’isola di Lampedusa, dopo gli scontri avvenuti lo scorso febbraio, l’onorevole Nitto Palma spiega che il governo ha provveduto tempestivamente all’allontanamento di un certo numero di persone dopo l’incendio divampato nel Centro di identificazione ed espulsione: teatro principale degli scontri avvenuti tra un gruppo di immigrati e forze dell’ordine. Uno dei padiglioni che ospitavano gli extracomunitari è stato distrutto. Alcune persone sono rimaste ferite. I tafferugli sono scoppiati dopo che 300 cittadini tunisini avevano cominciato lo sciopero della fame per protesta contro l’espulsione di 107 loro connazionali. «Ci vogliono pene più severe – spiega Nitto Palma – nei confronti degli immigrati che non rispettano l’ordine di allontanamento dato dal territorio italiano». I dati attuali però stanno mettendo in luce il buon operato delle forze dell’ordine. «Negli ultimi tempi – continua Nitto Palma – c’è stata un’oggettiva diminuzione della delittuosità in

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FRANCESCO NITTO PALMA Senatore del Pdl e sottosegretario all’Interno

Italia. Questo significa che l’azione di contrasto messa in atto dalle forze dell’ordine è stata estremamente positiva». Ma perché espellere gli immigrati irregolari è così difficile? «In molti casi - risponde il parlamentare azzurro - non si riesce a risalire alla provenienza del soggetto. Al Senato è caduta una norma sui 18 mesi di permanenza nei centri di espulsione permanenti, in linea con le norme europee, che era funzionale all’identificazione dei soggetti e alla loro espulsione dai paesi di provenienza con l’accompagnamento». Anche sull’operato della magistratura, l’onorevole Nitto Palma ha alcune parole da spendere: «Si tratta di un ordine indipendente. Ma dobbiamo metterci in testa che certe decisioni buoniste nei confronti di certi reati sono un danno. Bisogna evitare certe scarcerazioni facili. Nella quantificazione della pena il giudice non deve partire dal minimo. Questo è un errore».


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Coloro che volevano istigare il popolo, approfittando di questa situazione per parlare in malo modo del progetto del ministro Maroni, hanno affermato che, oltre a non arrivare fondi per le scuole, a Lampedusa stanno costruendo un carcere. Questa è stata la molla che ha fatto scatenare il putiferio. Chi non mi sostiene ha iniziato questa battaglia prettamente di stampo ostruzionistico. Ma noi andremo avanti. Vogliamo l’ospedale, vogliamo trasporti adeguati e vogliamo far crescere i nostri figli in un ambiente sicuro e all’avanguardia». La situazione di Lampedusa dovrebbe essere un problema italiano e non solo siciliano. Cosa ne pensa? «Si tratta soprattutto di un problema siciliano. La Sicilia è una Regione particolare e il governo sta prendendo sul serio gli impegni assunti. Essendo un senatore della Repubblica non mi posso occupare solo dei problemi di Lampedusa, ma ovviamente di quelli di tutto il Paese. Quello che si potrà fare per l’isola si farà sicuramente, ma ci sono altre priorità momentaneamente per l’Italia». Le misure anti-clandestinità messe in atto dal governo pensa che siano sufficienti a contrastare il fenomeno? «Questo è un fenomeno che ci affligge ormai da tantissimi anni. Stiamo cercando, attraverso il progetto del ministro Maroni, di riuscire a contrastare questa piaga. Se questo progetto dovesse fallire sicuramente cercheremo un’altra strada, non rimarremo con le mani in mano. Daremo assistenza a chi ne ha veramente bisogno. Chi verrà in Italia per delinquere sarà giustamente rimandato a casa». Lampedusa vive di turismo. La

presenza del centro di accoglienza quanto danneggia l’immagine dell’isola? «Effettivamente il centro ha danneggiato un po’ il turismo sull’isola di Lampedusa in questi anni. Il calo c’è stato. L’unica cosa che posso dire ai turisti che vogliono venire sulla nostra isola, è di non preoccuparsi perché il fenomeno l’abbiamo sempre tenuto sotto controllo. Di clandestini in giro se ne vedono pochi. Rimangono sempre dentro il centro di accoglienza trattati benissimo. Inoltre, invito coloro che promuovono campagne buoniste a favore dei clandestini, di venirci a dare una mano invece di parlare e basta». La presenza di un altro centro non aggrava la situazione? «Non aggraverà per nulla la situazione attuale. Devo dire che non si tratta di un altro centro di accoglienza, ma sarà un centro di identificazione. Visto che i falsi buonisti si sono lamentati che i clandestini vengono am-

massati all’interno del centro, ne costruiremo un altro in modo da allargare gli spazi. Chi avrà bisogno di asilo politico lo avrà, e lo trasferiremo sul continente. Mentre chi deve essere rimpatriato, ripartirà solo da Lampedusa. Il centro di identificazione è un progetto importante, soprattutto sarà un messaggio forte a quei trafficanti di uomini che devono sapere che se mandano gente a Lampedusa, questi non entreranno nel nostro Paese. Il progetto sta funzionando. Nelle ultime tre settimane non ci sono stati sbarchi di clandestini». Ci sono piani per rilanciare il turismo sull’isola? «L’unico problema dell’isola è un discorso legato ai trasporti non al turismo. E il governo si sta impegnando. Comunque, occorrerebbe una campagna pubblicitaria seria per valorizzare maggiormente le bellezze della nostra isola. Ribadisco, Lampedusa non avrà mai problemi dal punto di vista turistico». DOSSIER | SICILIA 2009

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POLITICA CULTURALE Alfio Puglisi Cosentino

ALFIO PUGLISI COSENTINO imprenditore siciliano, Ad di Finsole Spa, nel 2004 ha creato a Catania una fondazione per la promozione culturale

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POLITICA CULTURALE

UNA TERRA IN ATTESA DI NUOVI MECENATI La valorizzazione del patrimonio culturale, per la Sicilia, è una priorità. Come mezzo di rilancio del turismo. Ma anche come espressione di un rinnovato senso di appartenenza. Da ricercare anche con l’aiuto dell’iniziativa privata. Come quella di Alfio Puglisi Cosentino e della sua fondazione DANIELA PANOSETTI

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POLITICA CULTURALE Alfio Puglisi Cosentino

a Sicilia ha molte bellezze, questo è chiaro a tutti. Ma quello che non tutti vedono, o forse in certi casi fingono di non vedere, è che queste bellezze hanno bisogno, per risplendere, di nuovi mecenati. Di figure e istituzioni, pubbliche o private, che abbiano i mezzi e la sensibilità per affermare una semplice verità: che il patrimonio artistico di una terra avvizzisce, se non si interviene a dargli nuova linfa. E che la valorizzazione di beni e risorse trascurate possono dare a quest’Isola incantevole una nuova chance. Anche economica. È esattamente seguendo questa convinzione che Alfio Puglisi Cosentino, noto imprenditore siciliano, ha voluto creare la fondazione che porta il suo nome e che, dal 2004, è impegnata nella promozione diversi interventi e iniziative culturali. Un impegno che, afferma Puglisi, ha molti significati: «Di rilancio economico e di immagine, prima di tutto. Ma anche di mezzo per una rinnovata affermazione della identità siciliana, divisa tra un senso di orgoglio e di appartenenza e un certo rammarico per il tempo sprecato. Soprattutto quando, nota Puglisi, ci si rende conto che altrove, con molte meno risorse, si è riusciti a fare molto di più. «Ma è proprio questo – conclude – che dovrebbe spingerci tutti a impegnarci con nuovo slancio. Per fare qualcosa di utile, e che resti». Lei è un imprenditore fortemente legato al suo territorio. Quali sono oggi, a suo avviso, i principali punti di forza dell’economia siciliana? «Prima di tutto una grande vivacità intellettiva, che però riesce a dare il meglio di sé solo quando si esprime al di fuori dell’Isola, dove invece si è condizionati negativamente dalla burocrazia, dall’invidia, nonché da una certa apatia, dovuta anche dalle dolcezze che la natura, il clima e la vita di questa terra sono in grado di offrire. E di fronte a tanta bellezza si è spesso tentati di fermarsi a goderne, met-

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tendo in secondo piano il lavoro Al di fuori dei confini regionali sono moltissimi i siciliani che hanno conquistato posizioni di rilievo. Chi rimane qui, invece, spesso si perde. Ma sono anche tanti gli imprenditori che affrontano le proprie attività con grande impegno ed entusiasmo». Quali sono oggi i settori su cui la Sicilia dovrebbe puntare? «Direi, in primo luogo, beni culturali e tutto ciò che vi ruota attorno. Il che significa soprattutto turismo e servizi per il turismo,

che se adeguatamente potenziati potrebbero fare la differenza, anche in termini di occupazione. In secondo luogo, le energie alternative. Possiamo contare su un clima e una posizione ottimali e se, come spero, la legge appena varata darà i suoi frutti, potrebbe portare a un importante risparmio energetico per le imprese, soprattutto nell’agricoltura. Infine, bisogna puntare sul settore alimentare, valorizzando nuovi comparti accanto a quelli già affermati come il vinicolo e l’oleario».


POLITICA CULTURALE

ARTE E CULTURA Puglisi insieme a (da sinistra) Bruno Corà e Gillo Dorfles, rispettivamente direttore artistico e membro del comitato scientifico della Fondazione Puglisi Cosentino

«L’IMPRENDITORIA SICILIANA PUÒ CONTARE SU UNA GRANDE VIVACITÀ INTELLETTIVA, CHE PERÒ RIESCE A DARE IL MEGLIO DI SÉ SOLO QUANDO SI ESPRIME AL DI FUORI DEI CONFINI DELL’ISOLA»

Ha avvertito un cambiamento concreto di mentalità fra gli imprenditori dell’Isola dopo le coraggiose posizioni antimafia assunte dal presidente di Confindustria regionale, Ivan Lo Bello? «Sì, decisamente. E la risposta degli imprenditori lo dimostra: chi non si è adeguato, infatti, è stato espulso senza indugi. Mi pare quindi che Lo Bello abbia fatto un ottimo lavoro, inaugurando a livello regionale una strada che man mano anche le varie realtà locali stanno seguendo. L’auspicio, quindi, è che si prosegua con decisione e sempre maggiore successo su questa via». Da un punto di vista più generale, sociale e culturale, a cosa si deve soprattutto questo cambiamento? «Senza dubbio la scuola, l’istruzione, la crescita culturale in generale hanno molto contribuito. Le manifestazioni di protesta dei giovani, a cui oggi possiamo assistere, un tempo erano impensa-

bili. Poi, è chiaro, ancora molto resta da cambiare, a partire dal nodo cruciale dell’occupazione. Perché i giovani non vorrebbero lasciare la Sicilia, ma sono costretti dalla desolante mancanza di sbocchi. È vero, oggi esiste fortunatamente un’importante e ricca offerta di corsi di formazione, che tra i vari meriti hanno anche quello di impedire che molti finiscano a lavorare proprio per la malavita, come avveniva spesso in passato. Tuttavia, sono strade che in molti casi rischiano di aprirsi sul nulla. È su questo snodo soprattutto che si deve lavorare». Crede che una riqualificazione delle università locali, magari in sinergia col mondo imprenditoriale, possa riuscire a migliorare la situazione e trattenere i “cervelli siciliani” sull’Isola? «Devo dire, purtroppo, che è una prospettiva in cui credo molto. Temo, invece, che i migliori continueranno ad andare via, perché

sono poche le realtà che scelgono di mantenere in Sicilia la propria sede. Così, le “teste” più brillanti vengono indirizzate altrove. Del resto, la tendenza è ormai a una diminuzione dei centri decisionali, concentrati nelle grandi realtà industriali e urbane. Speriamo solo che questo processo non porti definitivamente verso l’estero, ma resti nei confini italiani, che non si debba emigrare per tirare fuori il meglio di noi stessi. Già questo sarebbe un gran successo». La sua fondazione si occupa, tra l’altro, di promozione artistica e culturale. Nello scenario siciliano, quanto sono diffuse le iniziative private a sostegno dell’arte, alla cultura, alla riqualificazione urbana? «Da parte dei privati, purtroppo, devo dire che non vedo grande attenzione in questo senso: si parla molto, ma si conclude poco o nulla. Eppure, spero sinceramente che anche in quest’ambito emergano figure con la volontà e la capacità di fare qualcosa di utile per questa terra. Nel pubblico, invece, vedo più iniziative. Bisogna però fare molta attenzione a gestire bene le risorse, altrimenti i fondi stanziati, che pure esistono, diventano fondi spesi male». Tra gli auspici che lei si pone, c’è anche quello di rendere Catania un polo d’attrazione internazionale e interculturale. Di quali infrastrutture andrebbe dotata la città per ambire a tale ruolo? «Le infrastrutture servono, non c’è dubbio, a partire dai collegamenti viari, sia interni che esterni. E tuttavia, credo che prima di realizzare nuove opere sia necessario fare funzionare bene quelle che già esistono, rendere efficienti i servizi di base: sicurezza, nettezza urbana, illuminazione. Occorre, insomma, saper gestire correttamente il sistema urbano nell’interesse della collettività. Perché è inutile fare grandi investimenti se poi il risultato sono le classiche “cattedrali nel deserto”». DOSSIER | SICILIA 2009

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AFFARI DI STILE Luisa Beccaria AMBASCIATRICE Luisa Beccaria, stilista nata a Milano ma di adozione catanese, è una delle firme del made in Italy più apprezzate all’estero

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AFFARI DI STILE

IL MADE IN ITALY VINCE ANCORA Il suo marchio è diventato nel mondo sinonimo della moda italiana di successo. La stilista Luisa Beccaria punta a rafforzarsi all’estero grazie all’originalità delle collezioni e alla qualità del servizio. Armi con le quali affrontare i competitor stranieri FRANCESCA DRUIDI

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AFFARI DI STILE Luisa Beccaria

«MI PIACE LA QUALITÀ DEL MADE IN ITALY. MA IL PUBBLICO È PORTATO A OMOLOGARSI E NON HA IL CORAGGIO DI COMPIERE SCELTE FUORI DAL CORO»

er la stilista Luisa Beccaria, milanese di nascita, il capoluogo lombardo resta un punto di riferimento imprescindibile. Ma il suo vero rifugio è la tenuta siciliana Borgo di Castelluccio, dove spesso si reca con il marito Lucio Bonaccorsi e i loro cinque figli. È in questi suggestivi luoghi che si esprime appieno l’estetica di Luisa Beccaria, fondamento di una moda che lei stessa definisce «poetica, riconducibile a un glamour new romantic», che le ha aperto in passato le porte dell'Alta Moda a Milano e Parigi. Oggi lo stile inconfondibile del suo prêtà-porter, distribuito in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Australia, dall’Europa all’Asia e alla Russia ha conquistato anche le dive di Hollywood, consacrandone talento e popolarità a livello internazionale.

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Diventare stilista è stata una vocazione o una decisione maturata nel tempo? «Direi la prima visto che ho iniziato a disegnare fin da giovanissima i miei primi abiti». Dove trae l’ispirazione per le sue creazioni? «Dalla natura, dall’arte e dalla vita nel suo complesso». Anche sua figlia Lucilla partecipa alla creazione delle sue collezioni. Cosa significa lavorare con lei? «È una grande e profonda esperienza di vita, umana e professionale. Si tratta di un confronto tra generazioni. Un modo di fondersi particolarmente arricchente. Mi dà grande gioia vedere sviluppare il suo talento». Esiste oggi una donna-simbolo che incarni la sua idea di eleganza e femminilità? «Potrei fare più di un nome: cer-


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GRAZIA E SEMPLICITÀ Nella pagina a fianco, Beccaria con i suoi cinque figli tra cui Lucilla che lavora nelle maison. Sopra e a fianco alcuni modelli della griffe

tamente le attrici Nicole Kidman, Eva Green». Quale rapporto ha con le numerose star che ha vestito e tuttora veste? «A volte si riesce a instaurare un rapporto di amicizia, in altri casi solo di stima che si esprime attraverso messaggi e gesti affettuosi». La sua fama è paradossalmente più diffusa all'estero che non in Italia. Come mai, secondo lei? «Ciò è stato in realtà possibile grazie alla stampa estera, ma in Italia il nostro store lavora moltissimo dal giorno della sua apertura. Il nostro stile piace molto a un pubblico trasversale, diverso per età e cultura. All’estero i nostri capi sono stati scoperti più tardi e, quindi, ora siamo considerati una novità. La nostra moda è diventata cult, facendo sognare socialities e celebrities. Forse anche per-

ché non risulta eccessivamente globalizzata, ma si presenta originale e unica». Quali mercati dimostrano attualmente maggiore ricettività e in quali si concentrerà per il futuro per aprire nuovi negozi monogriffe? «Era prevista l’apertura di una boutique monogriffe a New York, poi però è sopraggiunta la crisi in America. Speriamo, quindi, di concretizzarla l’anno prossimo. Siamo presenti in Russia con un negozio monomarca, mentre è in programma un’apertura a Londra». Cosa le piace della moda italiana e cosa, invece, vorrebbe migliorare? «Mi piace l’altissima qualità del made in Italy. Ma il pubblico è portato a omologarsi e a volte non ha il coraggio di compiere scelte fuori dal coro».

Quanto valore ha oggi il made in Italy? «Tutta la nostra produzione è rigorosamente made in Italy. Penso abbia ancora un grande valore, sebbene mercati in ascesa come quello cinese abbiano migliorato enormemente la qualità e costituiscano una reale minaccia». In un momento di congiuntura economica sfavorevole come quello attuale, è possibile parlare di potenzialità per il settore moda? «Esistono sempre potenzialità. Bisogna però probabilmente ripensare a nuove formule, rimettendo in discussione i precedenti sistemi per riuscire a ripartire in modo maggiormente incisivo. La concorrenza è sempre più agguerrita e, di conseguenza, l’originalità delle collezioni e la qualità del servizio rivestiranno un ruolo sempre più importante». DOSSIER | SICILIA 2009

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DONNE DI LEGGE Grazia Volo

IL GARANTISMO VA RIVALUTATO Basta parlare solo di sè. Basta apparire nei salotti televisivi. Basta evitare i veri dibattimenti. Con lo stesso metodo scientifico con cui vorrebbe veder affrontati i processi in tribunale, Grazia Volo compone la sua accusa all’avvocatura italiana SARAH SAGRIPANTI

orte, credibile e autorevole. Questa è l’essenza dell’avvocatura per Grazia Volo. Anzi, dovrebbe essere. Perché da vent’anni a questa parte in Italia si è perso di vista il senso profondo della professione. L’avvocatura, che dovrebbe rivestire, come è stato in passato, un ruolo da protagonista nel rinnovamento delle fondamenta del sistema giudiziario e contribuire a orientare la giurisprudenza, si trova invece dispersa e incapace di reagire. Su più fronti è chiara questa crisi. Una magistratura che ha usurpato il ruolo alla politica e oscurato quello dell’avvocatura. Ma anche avvocati troppo concentrati ad apparire sui mass media, poco attenti alle grandi questioni e incapaci di gestire con metodo le strategie di difesa nei processi. Un sistema di accesso alla professione, infine, troppo permissivo, che ha creato giovani impazienti di affermarsi, bruciando le tappe. Questa la condizione in cui versa il sistema, secondo Grazia Volo. La soluzione è solo una: «Rifondare la centralità del processo. Perché è questo il terreno dell’avvocato». Avvocato Volo, quali cambiamenti vede nella professione, da quando lei ha iniziato a oggi? «Oggi l’avvocatura affronta una profonda crisi, che è una crisi di assenza di pensiero. Sono circa trent’anni che arranca, a seguito delle iniziative che sono state prese dalla

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DONNE DI LEGGE

GRAZIA VOLO Avvocato penalista

magistratura. Negli anni 70, quando ho iniziato io, in ogni città d’Italia c’erano due o tre avvocati famosi e autorevoli, molto più noti dei magistrati». Quando parla di iniziative della magistratura a cosa si riferisce? «Da trent’anni a questa parte la magistratura è stata delegata dalla politica alla risoluzione dei grandi problemi, esercitando un’attività di supplenza politica. E nella sostanza si è determinato il fatto che i pubblici ministeri sono diventati i gestori delle questioni più importanti che hanno riguardato la vita del Paese: il terrorismo, la grande criminalità organizzata, i rapporti complessi tra politica e imprenditoria e tra politica e criminalità. Fino ad arrivare oggi a toccare i santuari della finanza, le banche, e a incriminarne le scelte strategiche. Mi riferisco alle ultime indagini sulle

scalate. La centralità delle procure ha determinato la crisi della fase dibattimentale del processo, perché ormai tutto si concentra nella fase delle indagini preliminari. E gli avvocati non sono stati capaci, anzi non siamo stati capaci, di sviluppare un’efficace resistenza. A conseguenza di tutto ciò si è determinata la tendenza a risolvere i processi prima della fase dibattimentale, con una difesa debole e quindi con accordi come patteggiamenti e riti abbreviati. Questo ha determinato in via definitiva la perdita di prestigio dell’avvocatura». Da dove inizierebbe per invertire questa tendenza? «Intanto bisogna trovare il modo di far emergere forti opinioni da parte degli avvocati, che non si limitino a proporre in maniera strumentale e aggressiva la separazione delle carriere, un conflitto tra l’altro

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DONNE DI LEGGE Grazia Volo

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di modesta rilevanza. Occorre andare ai grandi temi. Sono convinta che uno di questi riguardi una grande degenerazione che è avvenuta nel nostro Paese: il giustizialismo, che è diventato di destra e di sinistra, e ha eliminato lo spazio del garantismo, che invece è profondamente liberale, legato alla centralità dei diritti dell’uomo. Su questo purtroppo c’è poca attenzione». Ma secondo lei dove risiedono le motivazioni principali di questo disinteresse? «Purtroppo nell’avvocatura si è inserito un vizio, quello del desiderio di protagonismo personale. Avvocati che si pongono e si propongono come artefici di piccoli o grandi interventi su processi più o meno rilevanti: in questo si mostra un protagonismo secondo me gravemente criticabile, che combacia con l’interesse mediatico. Questo atteggiamento ha contribuito a determinare la perdita di centralità del processo: la sede propria del processo, le aule giudiziarie, è scomparsa dall’interesse mediatico perché questo si celebra, invece, nel teatrino televisivo». Esiste quindi anche una responsabilità da parte della stessa avvocatura? «Su questo noi avvocati dovremmo fare una severa autocritica. Se nei confronti dei mass media ci ponessimo tutti con un atteggiamento più riservato, non arriveremmo a certi eccessi. Sono convinta che si possa effettuare una critica profonda ed efficace nei confronti degli atteggiamenti sbagliati altrui, solo quando si è in condizione di farla su se stessi. È quindi sicuro che ci siano guasti nella magistratura troppo protagonista, ma guardando con attenzione quante interviste vengono rilasciate da magistrati e quante da avvocati, purtroppo queste ultime sono molte di più». Un avvocato non dovrebbe esporsi mai sui mass media? «Non voglio dire che in assoluto non si debba andare in televisione, ma comparire per spalancare l’archivio del proprio studio è una cosa che trovo agghiacciante. Sono fermamente convinta che il processo penale sia un trauma grave, e che


DONNE DI LEGGE

«OGGI L’AVVOCATURA AFFRONTA UNA PROFONDA CRISI, CHE È UNA CRISI DI ASSENZA DI PENSIERO. SONO CIRCA TRENT’ANNI CHE ARRANCA, A SEGUITO DELLE INIZIATIVE CHE SONO STATE PRESE DALLA MAGISTRATURA»

chiunque lo subisca abbia diritto a essere “non esposto”. Figuriamoci quindi se può essere tradito dal suo avvocato, che va a raccontare i dettagli urbi et orbi. C’è una straordinaria intimità che deve essere tutelata: quella del rapporto tra avvocato e assistito e, dall’altra parte, quella tra avvocato e magistrato. Un criterio di riservatezza che è totalmente ignorato nei rapporti moderni, perché si pensa che tutto debba essere raccontato, preferibilmente alla televisione». Talvolta, però, è lo stesso assistito che cerca visibilità. «Posso dire per esperienza che più visibilità ha un soggetto inserito in un processo penale, peggio andrà il processo. All’interno delle aule di tribunale, applicando un metodo scientifico, le questioni di diritto processuale e di diritto sostanziale si

possono risolvere, e si risolvono. Se invece si propone un elemento esterno, come l’aula televisiva, che fa da catalizzatore, il punto principale della questione penale perde rilevanza. In questo modo in tribunale vengono riproposti solo temi rimasticati dai mass media e l’opinione che il pubblico si forma sul fatto delittuoso influisce negativamente sull’andamento del processo. L’accanimento mediatico su casi come quello di Cogne o di Perugia, incentrati tra l’altro su fatti criminali che per me non sono nemmeno molto appassionanti, fanno sì che quando il processo ritorna nella sua sede naturale, sia già completamente massacrato». Se non la appassionano i casi di Perugia o Cogne, quali casi risvegliano il suo interesse? «Dopo anni di esperienza, ciò che

mi appassiona sono le questioni di diritto, quelle che possono arrivare davanti alle alte corti e nelle quali, attraverso lo studio, si può riuscire a dare un contributo per orientare la giurisprudenza, in un senso o nell’altro. Questo è il fine di un avvocato: dare un contributo per orientare la giurisprudenza e introdurre delle innovazioni nel metodo di analisi». Secondo lei le nuove generazioni di giovani avvocati sono capaci di farlo? «Purtroppo mi sembra che oggi i giovani vogliano tutto e subito. E in questo devo ammettere che sono stati agevolati dal legislatore, ma anche dai nostri Ordini, che hanno consentito che con due anni di pratica si possa acquisire il titolo di avvocato ed esercitare, meno che in Cassazione, in tutti gradi del processo. Invece la professione si impara attraverso l’esperienza, che per quanto riguarda l’avvocatura è lunga e prevede la rigorosa e paziente applicazione di un metodo, preferibilmente scientifico. E questo contrasta con l’ansia e l’urgenza che hanno i giovani di trovare un’immediata affermazione». Quale dovrebbe essere, invece, l’approccio migliore alla professione? «Quello che vorrei vedere nei giovani è una reale curiosità e una reale voglia di approfondire. Per raggiungere quella che è la vera caratteristica dell’avvocato: la capacità di “guardare oltre”. A un avvocato non è richiesto, come al giudice o come soprattutto al pm, l’analisi di un fatto criminale. All’avvocato è richiesto di più: capire chi lo ha commesso e perché, cercare le ragioni. E andare oltre. Questo si raggiunge con la capacità di concentrarsi e con lo sforzo quotidiano, costruendosi una struttura di nervi capace di reggere la tensione. E soprattutto con la cultura, giuridica e generale, che mi sembra purtroppo ormai da tutti trascurata. Occorre ricordarsi che il punto d’arrivo di un avvocato non è la televisione, ma sono le sezioni unite della Cassazione, è la Corte Costituzionale. A questo devono puntare i giovani». DOSSIER | SICILIA 2009

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ANALISI Gianni Baget Bozzo

© ROBERTO MONALDO/LAPRESSE

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GUIDA Gianni Baget Bozzo è nato a Savona. Ordinato sacerdote all’età di 49 anni, non ha mai rinunciato alla sua passione giovanile per la politica. Oggi è considerato uno dei più autorevoli pensatori liberali

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LA NUOVA STAGIONE DEL LIBERALISMO In Italia è oggi in atto una nuova stagione della politica improntata ai valori del pensiero liberale. Per puntare a rendere effettive le libertà e i diritti individuali, non solo in quanto tali, ma anche, e soprattutto, garantendoli contro ogni abuso da parte degli stessi poteri dello Stato. A partire da quello giudiziario. Don Gianni Baget Bozzo discute dei futuri scenari e delle ricadute a livello economico e sociale che questo rinnovato panorama della politica potrà generare MARILENA SPATARO

l pensiero liberale illuminato dalla fede. Una dimensione spirituale e intellettuale che nella vita si traduce per don Gianni Baget Bozzo in vocazione sacerdotale e in impegno politico. Un impegno da sempre rivolto a sostegno degli ideali del liberalismo la cui struttura portante è data dall’affermazione dei valori delle libertà fondamentali dell’individuo e dei suoi diritti che vanno resi effettivi dall’ordinamento dello Stato e dalle sue istituzioni attraverso la tutela contro ogni abuso di potere. E in tal senso l’attenzione di don Gianni oggi è più che mai diretta all’individuazione di soluzioni che pongano fine a una delle peggiori pagine scritte in materia di giustizia in Italia. Il suo auspicio è che «le riforme del nuovo esecutivo riescano, in primo luogo, nell’intento di dare finalmente ordine all’ordinamento giudiziario che finora è risultato anarchico e partitizzato». Mente fertile e acuta, do-

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tata di una profonda capacità di analisi, partendo dai capisaldi della tradizione del pensiero liberale, nel corso degli anni, don Baget Bozzo elabora una serie di riflessioni originali facendo evolvere il suo pensiero sulla base di considerazioni di carattere pratico che tengono conto dei mutamenti delle condizioni storiche e politiche della società. Ed è in funzione di questa visione, priva di pregiudizi e tanto meno di schemi ideologici, che, dopo una giovanile adesione alla Democrazia Cristiana, egli sposta la sua attenzione verso il Psi di Bettino Craxi, un leader che apprezza per le sue posizioni ispirate a un socialismo moderato e riformista e in cui intravede un baluardo della democrazia occidentale in contrapposizione a quei partiti, come il Pci degli anni 70, ancora legati alle ideologie totalitarie. Ma è in Forza Italia, oggi Popolo della Libertà, che don Gianni ha trovato la sua vera casa politica in cui esprimere DOSSIER | SICILIA 2009

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© Efrem Raimondi / CONTRASTO

ANALISI


ANALISI Gianni Baget Bozzo

INCONTRI Accanto, don Gianni Baget Bozzo con il premier Silvio Berlusconi. Nella pagina successiva, un intervento di Baget Bozzo al 43esimo Congresso del Psi

© ANTONIO SCATTOLON / CONTRASTO

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quegli ideali liberali e quei valori di libertà ai quali ha improntato la sua vita di uomo, di religioso e di intellettuale. Per questi e per la loro affermazione nella società e nella politica italiana, in una veste moderna e riformata, oggi continua a battersi con passione e con onestà intellettuale attraverso le pagine di Ragionpolitica, la testata online da lui diretta. Ora che ci si avvia verso la nascita del Popolo della Libertà, quali valori restano per lei imprescindibili? «Il nome stesso di Popolo della Libertà indica i due valori fondamentali con cui il Pdl si esprime: libertà e democrazia. È quindi importante stabilire il nesso tra voto democratico e governo come accade in tutti i Paesi europei. Riconosce come valore il sistema Italia come cultura, come storia e come società e il mantenimento della nazione come forma dello DOSSIER | SICILIA 2009

Stato anche nel riconoscimento della differenza delle varie componenti di un Paese. La diversità dei territori va riconosciuta nell’unità dello Stato. Anche la Repubblica federale è una forma della nazione Italia». Le riforme proposte dal nuovo esecutivo in materia di giustizia si possono leggere come tappe di un percorso verso una nuova stagione liberale in Italia? «Ritengo che una magistratura veramente indipendente con corpo democratico e regolata formalmente dalla legge sia un presidio della libertà. Inoltre ogni grande politica cambia il codice penale. Per questo reputo che sia importante varare provvedimenti in tal senso, a partire da quelli che stabiliscono la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, il che comporta come conseguenza, evidentemente, la necessità di conferire alla polizia

giudiziaria una maggiore autonomia rispetto a quest’organo, a partire dalla conduzione delle indagini. È auspicabile che con questa riforma si arrivi anche a creare due ordini rappresentativi dei giudici all’interno del Csm, uno per i magistrati e uno per Pm. In ogni caso è necessario prevedere una maggiore partecipazione in materia di giustizia di politica, Presidente della Repubblica, Parlamento e governo. Penso ad esempio alla possibilità di nomina da parte della politica almeno dei procuratori. Ma anche in merito ad altri istituti giuridici, specialmente in tema di giustizia penale, ritengo si dovrebbe pensare alla loro riformulazione in un’ottica di maggiore partecipazione della politica, e in primo luogo, da parte del Parlamento». Andando al suo impegno giornalistico, uno degli obiettivi che lei persegue attraverso le pagine di Ragionpolitica è di contribuire a riformare una cultura politica liberale in Italia. Quali requisiti dovrebbe avere il nuovo liberalismo? «Liberalismo significa libertà della persona come primo valore nella società e i diritti che essa porta con sé come forma riconosciuta della vita sociale. Ciò comprende tanti diritti tra cui il fondamentale diritto alla libertà religiosa la cui conquista è stata la matrice di tutti gli altri. Liberale è anche il riconoscimento della libertà economica e quindi del mercato come fondamento della società civile e della differenziazione interna a essa. L’eguaglianza liberale comporta il riconoscimento delle diversità e rifiuta il concetto dello Stato realizzatore dell’eguaglianza al livello più


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ANALISI

basso. Sono concetti ovvi, ma oggi sembrerebbero posti in discussione dal ruolo che gli Stati hanno assunto nella crisi finanziaria. Ma l’azione dello Stato e la sua sovranità sono la condizione previa del mercato, cioè dell’eguaglianza delle condizioni di partenza escludendo privilegi e violenza. Il protezionismo e la frammentazione nazionale del mercato non sono una risposta compatibile con l’economia mondiale oggi realizzata in una città mondiale». Politica e religione: qual è, nell’Italia di oggi, il rapporto tra questi due mondi? «La distinzione e la convivenza di religione e politica sono la condizione della società liberale. La politica non può limitare la religione e la religione non può limitare la politica. Vi è in questo una base di conflitto e di composizione del conflitto. In Italia, sede del Papato, questo problema è stato oggetto di intensa lotta politica e continuerà a esserlo. Da un punto di vista liberale la presenza dei

«LA DISTINZIONE E LA CONVIVENZA DI RELIGIONE E POLITICA SONO LA CONDIZIONE DELLA SOCIETÀ LIBERALE. LA POLITICA NON PUÒ LIMITARE LA RELIGIONE E LA RELIGIONE NON PUÒ LIMITARE LA POLITICA. VI È IN QUESTO UNA BASE DI CONFLITTO E DI COMPOSIZIONE DEL CONFLITTO»

Patti Lateranensi nella Costituzione, e la protezione che l’articolo 7 dà a essi, è l’ordinamento moderno della convivenza. Ciò non toglie che vi saranno motivi di conflitto tra Chiesa e politica sui problemi della vita e del sesso ma questo non incide sulla cooperazione fondamentale tra la Chiesa e lo Stato». Ha appena celebrato, come ogni anno, una messa in ricordo di Bettino Craxi. Cosa andrebbe ricordato, a suo parere, della sua figura? «Bettino Craxi ha espresso per la prima volta a livello di governo il riformismo socialista ed esso fu legato ai valori di Occidente, d’Europa, d’Italia, del ruolo eco-

nomico dello Stato e al riconoscimento del mercato ordinato. Diede valore al sentimento nazionale. Pensò la riforma delle istituzioni mediante l’azione popolare diretta del Presidente della Repubblica, convinto che sarebbe bastato questo senza ulteriori riforme per cambiare la politica italiana nell’ambito della Costituzione. La sua tragica sorte fu un omaggio alla sua singolarità. Il suo è il perfetto caso del capro espiatorio, cioè dell’uomo che tutti indicano come colpevole perché tutti in quella condanna si riconoscono innocenti. La qualità della sua vita e il dramma della morte in esilio costituiscono entrambe la base storica e politica e fanno di lui il riferimento della cultura liberale in Italia. Il dramma della sinistra italiana priva di orientamento politico nasce dal fatto che la linea riformista di Craxi venne respinta da essa che rimase legata all’immagine del Pci come differenza italiana al comunismo sovietico». DOSSIER | SICILIA 2009

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L’INCONTRO Pietrangelo Buttafuoco

PIETRANGELO BUTTAFUOCO 45 anni, giornalista e scrittore. Dal 2007 è presidente del Teatro Stabile di Catania

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L’INCONTRO

LIBERTÀ NON SIGNIFICA CANCELLARE LE RADICI Una cultura in crisi. Incapace di dare risposte reali all’assenza, ormai endemica, di un progetto e un’identità. Pietrangelo Buttafuoco, col consueto acume, traccia una diagnosi dei mali dell’Occidente. Impietosa, ma non senza appello. Perché una cura esiste, ricorda. E sta nel ritorno al sacro DANIELA PANOSETTI

l male dell’Occidente, il morbo che nemmeno troppo oscuramente lo corrode, non è affatto un male oscuro, per Pietrangelo Buttafuoco. È un male, anzi, oltremodo evidente. Difficile da ignorare, pur nella sua pochezza, nel suo stanco trascinarsi. Perché il male dell’Occidente è, per il giornalista e scrittore siciliano, prima di tutto un’assenza di progetto, la dissoluzione di un orizzonte di progresso reale, che dall’individuo si riverbera sul corpo culturale sotto forma di una sorta di astenia acuta, una man-

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«LA MIA SPERANZA È CHE SI APRA FINALMENTE UNA BELLA STAGIONE PER GLI ARTISTI. PERCHÉ È SOPRATTUTTO LA LORO LATITANZA A RIVELARE LA NOSTRA DECADENZA» canza endemica «di volontà e potenza, nel senso filosofico del termine». E l’incapacità della civiltà liberale di «dare risposte importanti», di «fare, fabbricare, sperimentare, “cosare”» come avviene in Paesi che solo agli occhi del nostro “piccolo Occidente” possono sembrare arretrati, mentre in realtà galoppano a ritmi a noi ormai sconosciuti, «carichi di futuro», mossi da una concreta speranza di progresso.

Una speranza che è esattamente ciò che, per la prima volta, manca in modo radicale ai cittadini del mondo avanzato, ipnotizzati da un liberalismo frainteso che ha definitivamente confuso la libertà con l’annichilimento delle identità. Ecco, si può guardare alla situazione da molti angoli, e con diversi sguardi. E con la diagnosi di Buttafuoco si può dissentire o essere del tutto d’accordo. Ma i sintomi, non c’è dubbio, sono quelli che vengono esposti, impietosamente, nel suo ultimo, discusso libro, Cabaret Voltaire. Una lunga e anche scomoda riflessione, che dell’astenia occidentale ricostruisce persino l’anamnesi, sotto forma di una prolungata e colpevole perdita di identità. Fino a proporre una possibile cura, quella di un consapevole “ritorno al sacro”, alla tensione vitale verso “qualcosa di meglio”. A maggior ragione in Italia. Perché, sottolinea lo scrittore, «nonostante la nostra storia e la presenza di Sua Santità, non ci sono chiese più deserte di quelle italiane». In Cabaret Voltaire lei riflette tra l’altro sulla debolezza del pensiero liberale odierno. In cosa si manifesta soprattutto? «Innanzitutto in una dimensione esistenziale, una condizione che ha come elemento pregnante la solitudine, che ci tramuta in monadi affacciate sul nulla. Una dimensione che si è privata dell’elemento spiriDOSSIER | SICILIA 2009

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L’INCONTRO Pietrangelo Buttafuoco

tuale, per consegnarsi a un destino di vita che non ha più un progetto, un orizzonte, se non quello di trovarsi chiusi in uno pneuma ben organizzato e ben definito che, dalla culla fino alla tomba, non accetta l’idea della sorpresa, dell’emancipazione dalla propria condizione di animale in cerca di bisogni, né tanto meno quella di una prospettiva spirituale. E le conseguenze di tutto ciò sono devastanti, perché finiscono con l’instillare a poco a poco nei rapporti quella solitudine, quell’alienazione che, da orizzonte filosofico, ha finito col diventare pane quotidiano per tutti noi». Se la debolezza della cultura occidentale è un sintomo, qual è la sua diagnosi? «A giudicare dalle dinamiche storiche, c’è sempre un momento in cui, raggiunto l’apogeo, la spinta di una civiltà comincia a esaurirsi. Ma la situazione attuale è diversa. Perché la nostra è la prima generazione che non può immaginare per i propri figli un futuro migliore del proprio, un destino con maggiori opportunità e nuovi spazi di sapere. A diffeDOSSIER | SICILIA 2009

renza dei nostri nonni e genitori, noi abbiamo la cruda consapevolezza che i nostri figli non staranno meglio. E questo sia in termini spirituali che economici». Nel libro lei parla di “ritorno al sacro” come unica speranza. «Non è mai esistita nella storia una civiltà davvero atea, e anche laddove è stato imposto un ateismo “istituzionale”, come nell’impero sovietico, non si è avuto altro risultato se non quello di aumentare il desiderio di sacro. Del resto, è questa la dimensione che più di ogni altra emancipa l’uomo da una condizione ferina, brutale, cannibale. È grazie alla conoscenza che ci siamo liberati dalla brutalità dell’ignoranza animalesca. E la conoscenza, per quanto ne abbiamo memoria, non è mai stata altro che un continuo aspirare al divino». Conviene ancora, quindi, distinguere sacralità e religione, il fondamento della spiritualità dalla sua forma istituzionale? «La distinzione è utile per evitare forme di fanatismo, che non farebbero altro che tradire l’essenza stessa

del pensiero religioso, ma nella sostanza tutto ciò che è sacro non si presta ad essere rinchiuso nella dimensione istituzionale. Basti pensare ad esempio che in Iran, una repubblica ufficialmente islamica, si festeggia il Nawruz, il capodanno zoroastriano, che è come se da noi si celebrassero i saturnalia come festività civile. In India, Paese ben più serio e potente della nostra misera Italia, non hanno mai rinunciato al sanscrito, ad esempio, mentre noi ormai non siamo più in grado, se non in minima parte, di parlare o anche solo leggere il latino. Abbiamo buttato a mare la nostra radice greco-romana, che pure è il fondamento della civiltà europea e mediterranea, consegnandoci definitivamente a un destino che è quello del liberalismo indifferenziato, che vede l’individuo come semplice destinatario di una visione puramente mercantile dell’esistenza». Come si concilia questo richiamo al sacro con i principi del laicismo liberale? «Non si conciliano. Perché il liberalismo è sempre laico, e anzi più ve-


L’INCONTRO

lenoso del comunismo, sotto questo aspetto. E se in nome della cosiddetta esportazione della libertà si costruiscono recinti in ogni Paese, piazzando in ogni angolo una guarnigione dell’esercito americano, si potrà essere certi che l’elemento spirituale di quella parte del pianeta ne uscirà del tutto depauperizzato. D’altra parte, ormai non esiste luogo meno cattolico dell’Italia, basta fare un giro nelle nostre chiese». Ma in Italia c’è mai stato un vero pensiero liberale? «Sì, certo. Ed è stato espressione della sovversione. Nel periodo precedente all’avvento del fascismo “l’Italietta” era liberale, così come lo era, con tutto il rispetto per gli eroi che vi presero parte, la grande mistificazione del Risorgimento, con la sua idea di emancipazione delle plebi meridionali, di liberazione del beatissimo regno dei Borboni: né più né meno che una guerra d’Iraq. Ma era liberale anche una potente e forte corrente interna al fascismo, così come la radice mai sopita di un’idea di massoneria che, a ben guardare, ha accomunato parte della

Dc e del Pci. Ed è stata liberale, infine, anche la grande mutazione che ha accompagnato sia l’evoluzione riformista del Pci, sia la cosiddetta rivoluzione berlusconiana. Per fortuna l’unico a non essere liberale è lo stesso Berlusconi, che invece ha applicato alla lettera tutti i metodi dell’allegra, anarchica sovversione. Ma il suo è un capolavoro che si conclude in se stesso e che non determinerà un progetto al di là della sua stessa impronta». Un’idea di liberalismo piuttosto trasversale, la sua. «Diciamo che il liberalismo è uno status in cui più o meno tutti si possono riconoscere tutti. Parafrasando quel genio che fu Enrico Mattei, il quale diceva che la politica era come un taxi, su cui si sale e si scende a seconda delle necessità, direi che anche il liberalismo è una sorta di noleggio con conducente. Solo particolarmente comodo». Lei scrive: “La destra non è altro che la sinistra al culmine della sua fase senile”. Dove sta il paradosso? «Nel fatto, semplicemente, che la destra fa il “lavoro sporco” della si-

nistra, si prende in carico quel lavoro di sovversione, di cancellazione del sacro e dell’identità religiosa di un popolo che la sinistra non si permette di portare a compimento, almeno non così bene. Per intenderci, la fatica ininterrotta di migliaia di collettivi proletari non sarebbero mai riusciti a sradicare il rito della recita del rosario quanto ha fatto invece la semplice esibizione di volgarità e nudità in televisione. Non solo: applaudendo in una sorta di esaltazione pavloviana il lavoro di civilizzazione dei marines, la destra finisce col giustificare una visione limitativa di culture che in realtà sono estremamente raffinate. E soprattutto consapevoli, a differenza della nostra, delle proprie radici autentiche». C’è ancora spazio per gli intellettuali in Italia? «Non saprei dirlo, ma del resto l’intellettuale non è che una figura di ornamento, che serve a rallegrare gli orizzonti sempre più limitati di un progetto politico che non sa andare oltre l’amministrazione di certi piccoli interessi. Piuttosto, la mia speranza è che si apra finalmente una bella stagione per gli artisti, perché è soprattutto nella loro latitanza che si rivela il livello della nostra decadenza. Gli artisti sono sempre meno, così come gli scienziati, i costruttori, le figure in grado di assemblare i saperi, realizzare oggetti, opere, movimenti. Anche i think tank, oggi così diffusi, non sono altro che delle spremute di cervelli. Decisamente meglio, allora, il fare da amanuense, da solitario, che però produce, e spinge avanti il progresso». Ma c’è, in questo scenario stagnante, qualche figura che si stacca, che si salva dalla sterile rassegnazione? «Io credo di sì. Ma non possiamo ricavarne neanche un nome perché nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi fortunatamente giovani, fortunatamente bravi, fortunatamente preparati, che se ne stanno saggiamente alla larga del piccolo pollaio italiano». DOSSIER | SICILIA 2009

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PALERMO CULLA DEL DIRITTO Giuseppe Di Peri

LIBERIAMO LE TOGHE DALLE IDEOLOGIE Il sistema giudiziario italiano è al centro del dibattito politico. Per le storture che lo affliggono. E che hanno fatto perdere la fiducia dei cittadini. A colloquio con Giuseppe Di Peri che indica nella riforma Alfano una via per una reale indipendenza dei giudici GIUSI BREGA

agistrati politicizzati. Che cercano il “consenso dei cittadini” come se fossero una parte politica. E palcoscenici mediatici capaci di esaltare la propria funzione. L’eccessiva politicizzazione della magistratura è uno dei nei della giustizia italiana secondo Giuseppe Di Peri, che interviene nel dibattito sulle storture del sistema ricordando come anche il primo presidente della Corte di Cassazione, in occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario, abbia sottolineato che le toghe devono resistere alle tentazioni mediatiche ed evitare comportamenti che possano essere rappresentativi della loro fama e del loro potere. «Ciò accade quasi sempre nei processi penali – afferma Di Peri – dove il magistrato acquisisce notorietà e visibilità oltre misura grazie a indagini esperite nei confronti di personaggi considerati “eccellenti”». Ne consegue l’assoluta sfiducia dei cittadini nei confronti dei magistrati e del sistema giudiziario, mai scesa a livelli minimi raggiunti oggi. «Oltre a non essere politicizzato il magistrato deve anche apparire come tale al cittadino che, incap-

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pato nelle maglie della giustizia, deve avere la certezza di non trovarsi davanti un soggetto politico, e quindi interessato». Quali sono, a suo parere, le cause che hanno determinato questo fenomeno? «Le cause sono da ricercare nell’esigenza di protagonismo di taluni magistrati o nella faziosità determinata da ideologie che provocano, in entrambi i casi, un uso distorto e anomalo delle funzioni giudiziarie. I primi sintomi di tali disfunzioni si sono verificati nei primi anni Novanta con l’inchiesta di Mani pulite dove i magistrati sono stati addirittura in grado di condizionare e mutare l’assetto politico del nostro Paese». Oggi sembra che il clima stia cambiando. E da più parti, sia della società civile che della politica, arriva la richiesta di porre fine a questa situazione. Secondo lei il primo segnale in tal senso deve partire dall’Associazione nazionale magistrati o ritiene sia necessario intervenire con provvedimenti esterni? «È auspicabile che regole più rigide sulla corretta osservanza delle norme, anche comportamentali, da parte dei magistrati


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GIUSEPPE DI PERI Noto avvocato palermitano DOSSIER | SICILIA 2009

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vengano dettate dal loro organo rappresentativo, l’Anm, e da quello di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura. Solo dinanzi al fallimento delle iniziative intraprese da questi due organi diventerebbe necessario un intervento di carattere esterno». Da questo punto di vista, quali provvedimenti contenuti nella riforma Alfano possono, a suo parere, contribuire ad avviare questo processo di “spoliticizzazione” della magistratura? «La riforma intrapresa dal ministro è improntata a criteri di serietà e diretta a migliorare concretamente il sistema giudiziario e a eliminare le evidenti storture insite al suo interno. Uno degli obiettivi più radicali, e al tempo stesso più necessari, è la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Il codice di procedura penale introdotto nel 1989 si ispirava al modello accusatorio, e quindi alla parità delle DOSSIER | SICILIA 2009

parti processuali e al principio di terzietà del giudice. Da allora ci si è dimenticati di attuare la separazione delle carriere, indispensabile perché il nuovo sistema potesse funzionare». Crede che la separazione delle carriere e la creazione di due Consigli separati potrebbe favorire una maggiore autonomia della magistratura dalla politica? «Si tratta di un provvedimento che contribuirebbe in maniera essenziale a rimarcare il principio imprescindibile della terzietà del giudice. Dinanzi a un pubblico ministero autonomo e differenziato rispetto al giudice, quest’ultimo sarà, e apparirà, effettivamente imparziale. Inoltre, la parità tra i poteri dell’accusa e della difesa consentirà al giudice di valutare i dati processuali in maniera più obiettiva e a non accontentarsi, come oggi purtroppo accade, di uno sbilan-

ciamento della verità dovuto a una sperequazione di poteri e mezzi tra le parti processuali, a favore della pubblica accusa. Il principio della separazione delle carriere costituisce, infatti, una concreta limitazione della identità di formazione culturale e contiguità di rapporti personali che portano inevitabilmente a una consonanza di interessi del giudice a favore del pm rispetto alla difesa. Del resto, in Paesi in cui viene adottato il processo penale di tipo accusatorio questo principio è considerato un corollario del sistema e risulterebbe del tutto inconcepibile l’appartenenza al medesimo ordine di organi giudicanti e organi requirenti». Come giudica complessivamente la futura riforma della giustizia? «Con il pacchetto giustizia presentato dal ministro Alfano sono sicuro che la riforma risponderà


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all’esigenza di garantire al cittadino imputato, e al cittadino che si rivolge al giudice civile, una giustizia più giusta e, come tale, più celere. Uno dei temi più interessanti contenuti nella riforma è quello relativo all’introduzione delle notifiche telematiche e del processo digitale che consentirà di snellire i tempi della giustizia e di ridurre i suoi costi. Mi piace sognare, auspicando che ciò avvenga nel giro di qualche anno, il momento in cui sarà possibile celebrare il procedimento in via telematica con giudice, avvocato e pm che intervengono nel processo dai propri uffici collegati in videoconferenza con l’imputato e i testi, anch’essi collegati con tale sistema. Altro aspetto che è auspicabile conseguire al più presto, è l’equilibrio tra le parti del processo con conseguente ampliamento dei poteri della difesa che avrà, quindi, un ruolo più attivo ed efficace».

È auspicabile un confronto tra maggioranza e opposizione? «Ogni riforma, e quindi anche quella sulla giustizia, se condivisa da tutte le parti politiche, è portatrice di risultati più utili ed efficaci». Come legge i fatti che hanno scosso il sistema giustizia, dal caso Genchi a quello De Magistris, passando per lo scontro tra le procure di Catanzaro e Salerno? «La recente lotta tra procure dà la misura dello strapotere di cui il magistrato, a volte, viene investito e, nel contempo, dimostra la necessità di efficaci correttivi ed esemplari sanzioni dei comportamenti scorretti. Non dimentichiamo, comunque, che il prestigio della magistratura rimane un bene che va tutelato a ogni costo. È indiscutibile che il metodo utilizzato da Gioacchino Genchi abbia costituito un indubbio “pedinamento telefo-

nico” di soggetti che, anche per la loro funzione parlamentare, non potevano essere sottoposti a tale tipo di controllo. Anche nel caso in cui non fosse stato utilizzato il contenuto di conversazioni telefoniche o ambientali, c’è da dire che con l’analisi e l’intreccio dei flussi telefonici sviluppati da Genchi, si riescono a dimostrare contatti personali e incontri fisici che godrebbero, invece, del diritto alla riservatezza, nei confronti di interlocutori terzi estranei alle vicende oggetto delle indagini e di parlamentari che godono dell’immunità. Credo che il potenziale dei dati in possesso di Genchi sia estremamente preoccupante, per gli sviluppi che ne potrebbero conseguire. Resta da valutare l’eventuale responsabilità di chi abbia autorizzato tale tipo di investigazioni nella consapevolezza, se vi è stata, della loro non completa liceità». DOSSIER | SICILIA 2009

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LA RIFORMA Oreste Dominioni

ORESTE DOMINIONI Avvocato e presidente nazionale dell’Unione delle Camere Penali italiane DOSSIER | SICILIA 2009


LA RIFORMA

UN AMPIO E ARTICOLATO PROGETTO CONDIVISO Una riforma organica. Che ricomprenda tutti gli ambiti della giustizia penale su cui oggi si dibatte. Dallo snellimento del processo alla separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri, fino a una maggiore autonomia della polizia giudiziaria. Su tutti questi temi caldi e sul contributo che in merito potrebbe arrivare dall’avvocatura, si confronta Oreste Dominioni, presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane MARILENA SPATARO

n profondo attaccamento alle istituzioni democratiche e ai principi della legalità. È in nome di questi valori che il presidente nazionale dell’Unione Camere Penali italiane, Oreste Dominioni, molto probabilmente, ha ritenuto opportuno denunciare per vilipendio al Capo dello Stato l’onorevole Antonio Di Pietro, per le frasi pronunciate su Giorgio Napolitano durante un recente comizio a piazza Farnese. Ma, al di là di questo episodio di cronaca, l’avvocato Dominioni è da tempo conosciuto e stimato negli ambienti forensi per la sua grande professionalità e per lo slancio con cui si è sempre battuto, e continua a battersi, a favore di un’avvocatura altamente qualificata e capace d’imporsi in termini di maggiore partecipazione rispetto alle decisioni prese dalla politica in materia di giustizia, particolarmente in quelle sedi dove si trattano materie inerenti progetti di riforma in campo penale. A riguardo, proprio lo scorso anno, l’Ucpi ha messo a punto un progetto complessivo per la riforma organica della giustizia, traducendo suoi passaggi particolarmente delicati, quali la separa-

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zione delle carriere e la riforma del Csm, con precisi articoli di legge. «Molti di questi temi sono confluiti nell’agenda politica e nel dibattito. Confidiamo ora che il nostro contributo sia considerato indispensabile» sottolinea il presidente Dominioni, che di recente è stato rieletto alla guida dell’importante organismo rappresentativo dell’avvocatura penale. Nell’agenda dei prossimi anni, come evidenziato dallo stesso tema “La ragionevole qualità del processo – un cantiere per la riforma della giustizia nel segno della Costituzione”, cui è stato dedicato l’ultimo congresso dell’Ucpi, figura un’ampia rosa di temi che richiederanno da parte dell’associazione un ulteriore impegno a riflettere e confrontarsi sulle varie criticità che da tempo affliggono la giustizia penale individuando e promuovendo le soluzioni più efficaci per arrivare a una innovativa e moderna formulazione di norme in materia di diritto penale in sintonia con le mutate esigenze di una società sempre più complessa. Per ottenere un simile risultato, secondo l’Ucpi appare indispensabile riuscire, finalmente, a varare un nuovo Codice penale e con esso una DOSSIER | SICILIA 2009

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LA RIFORMA Oreste Dominioni

riforma organica del Codice di procedura penale. Presidente, come giudica nel complesso le misure proposte dalla riforma Alfano, in particolare, quelle che riguardano il processo penale? «Non è possibile oggi esprimere un giudizio in quanto, al di là di generiche anticipazioni, non si conoscono ancora i testi. È da confidare che non si ripercorra la strada delle norme processuali varate nell’ambito del tema “sicurezza”, le quali non hanno giovato a una maggiore efficienza del processo e, per di più, ne hanno abbassato la qualità». I lavori parlamentari sembrano essersi rallentati. A chi vanno attribuite le responsabilità? «Mi sembra che siano in gioco responsabilità complessive, ma le principali sono del governo e della maggioranza. Una riforma organica della giustizia esige certamente tempi non DOSSIER | SICILIA 2009

brevi di elaborazione e di decisione. Oggi però non si è ancora dato inizio a una concreta discussione. Da molti mesi ormai, quasi un anno, si svolge un dibattito generico, spesso sfilacciato, per lo più settoriale che, oltre a dilatare i tempi, rischia di logorare la stessa riforma. I continui rinvii non giovano di certo, ma deresponsabilizzano gli stessi soggetti politici che hanno il compito doveroso di lavorare con grande impegno a un serrato confronto senza pregiudiziali. Su ciò vi è anche una responsabilità dell’opposizione che antepone posizioni precostituite piuttosto che aprirsi alla più ampia discussione. Anche questo crea difficoltà serie all’avvio dei lavori di riforma». Quali sono le fasi dell’attuale procedimento che provocano i maggiori rallentamenti nei tempi della giustizia penale? «Sono innanzitutto i tempi morti

del procedimento, lunghi periodi temporali in cui l’attività si arresta. Le cause di questo dipendono, in buona parte, dalle inadeguatezze delle risorse, ma anche dalla loro gestione poco razionale». Secondo lei gli avvocati dovrebbero essere presi maggiormente in considerazione nel momento di affrontare la riforma? «È fondamentale che al dibattito preparatorio siano fatte partecipare tutte le componenti del mondo della giustizia, e quindi anche l’avvocatura. L’Unione delle Camere Penali da sempre chiede un maggiore coinvolgimento e a tal fine ha costantemente elaborato proprie proposte, che in alcuni casi sono state determinanti, si pensi al nuovo articolo 111 della Costituzione o alle norme sulle indagini difensive. In generale dobbiamo dire che un nostro maggiore coinvolgimento sarebbe stato di grande utilità per definire le solu-


LA RIFORMA

«IL PUBBLICO MINISTERO NON DEVE AVERE IL POTERE DI SVOLGERE INDAGINI PER RICERCARE NOTIZIE DI REATO. CIOÈ NON PUÒ CONTROLLARE L’ATTIVITÀ DI ORGANI POLITICI E AMMINISTRATIVI PER VERIFICARE SE VI SIA DA ACQUISIRE UNA NOTIZIA DI REATO» zioni più appropriate dei problemi, non lasciando il campo aperto alla preponderante presenza della magistratura associata». Riqualificazione dell’avvocatura, verifica del merito, formazione continua, istituzione delle specializzazioni forensi, elevazione della deontologia. Sono alcuni degli obiettivi che vi siete prefissati. Come intendete muovervi come associazione? «Dal 2006 abbiamo lavorato a un progetto di nuova legge di ordinamento forense, assieme alle altre associazioni della categoria. Questo progetto, che ha come elementi portanti appunto la riqualificazione dell’avvocatura, la verifica del merito, la formazione continua, l’istituzione delle specializzazioni forensi, l’elevazione della deontologia è stato fatto proprio da parlamentari di entrambi gli schieramenti ed è oggi pendente in Parlamento come disegno di legge. Abbiamo anche lavorato all’iniziativa promossa dal Consiglio Nazionale Forense e c’è da sperare che il testo ormai definito in questo ambito, e che raccoglie i punti qualificanti del nostro testo,

superi rapidamente le ultime divergenze che si registrano tra alcuni Ordini e possa essere anch’esso presentato alla politica, dalla quale ci attendiamo una forte spinta alla riforma forense». Come giudica il principio di discrezionalità libera oggi alla base dell’azione penale? «È essenziale affrontare la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Risorse inevitabilmente limitate, negli ordinamenti di tutti i Paesi, anche fuori da situazioni incongrue come quelle oggi denunciate rispetto alla domanda di giustizia, richiedono criteri di selezione fra le notizie di reato da perseguire e quelle da pretermettere. La situazione attuale, nell’assenza di criteri di legge, è contrassegnata dalla discrezionalità libera, cioè dall’arbitrio, delle singole procure, che seguono criteri propri, talvolta dichiarati, come nel caso della Circolare Maddalena, ma generalmente taciuti. Questa situazione non solo viola l’articolo 112 della Costituzione, ma lo annulla. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, nel significato con cui è asserito dalla Costituzione, non

richiede che per ogni notizia di reato corrisponda un procedimento, bensì che, in base al principio di legalità, quella selezione avvenga in base a criteri stabiliti dalla legge. Di ciò si deve far carico la riforma, a cominciare dalla generalizzazione della regola della irrilevanza sociale del fatto già prevista per il procedimento minorile e per quello del giudice di pace. La determinazione per legge di questi criteri non significa una limitazione dell’indipendenza funzionale esterna del pubblico ministero. Essa infatti riconduce la disciplina dell’esercizio dell’azione penale entro la sfera della legalità, secondo la categoria della discrezionalità vincolata: una situazione di dovere che è determinata, in parte, da valutazioni che in concreto il pubblico ministero deve svolgere sulla base di criteri di legge». Cosa pensa della proposta di rendere più autonoma la polizia giudiziaria dai pm? «Il tema è controverso e ancora da calibrare in modo accorto. C’è però un punto essenziale da stabilire. Il pubblico ministero non deve avere il potere di svolgere indagini per ricercare notizie di reato. Cioè non può controllare l’attività di organi politici e amministrativi per verificare se vi sia da acquisire una notizia di reato. Questa è una funzione che deve appartenere agli organi di controllo del sistema politico-amministrativo. Non è neppure un compito di polizia giudiziaria, ma di polizia amministrativa. Che è del tutto estranea al ruolo istituzionale del pubblico ministero». Ritiene che la flessibilità consentita dai mezzi di impugnazione straordinari di una sentenza passata in giudicato penale sia oggi regolamentata in maniera chiara e condivisibile? «È tutto il sistema delle impugnazioni che va ricostruito. In quello attuale vi sono scompensi, disorganicità, inefficienze e irragionevolezze. Questa è una materia di riforma di primaria importanza, che va affrontata con una forte visione innovativa e organica». DOSSIER | SICILIA 2009

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IPSE DIXIT Niccolò Ghedini NICCOLÒ GHEDINI avvocato penalista. Già coordinatore di Forza Italia in Veneto, nelle due precedenti legislature è stato senatore. Oggi siede a Montecitorio tra le file del Pdl

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PIÙ GIUSTA E PIÙ SICURA ECCO LA NUOVA ITALIA Nuove carceri, sempre più sicure. Ma anche differenziate. Per evitare pericolose commistioni tra diverse tipologie di detenuti. Parte da qui, con concretezza e senza facili clemenzialismi, la ricetta di Niccolò Ghedini per dare risposte alle gravi criticità del nostro sistema carcerario MARILENA SPATARO guadagnargli la stima del governo e dello stesso Presidente del Consiglio, rendendolo un personaggio di primo piano di questa legislatura, oltre che l’acume politico e una visione lucida dei problemi, anche nelle situazioni più delicate, sono le sue doti di giurista, profondamente competente in materia di diritto penale. Avvocato penalista di lunga esperienza e deputato del Pdl, Niccolò Ghedini, ha, infatti, portato con sé sugli scranni di Montecitorio la passione e la professionalità che da sempre lo animano nell’esercizio della professione forense. E in un momento in cui l’attenzione della politica e l’azione del governo sono concentrate sulla riforma della giustizia, il suo contributo, sia come esperto in materia di diritto penale, che come politico appare più preziosa che mai. Un settore in cui, secondo Ghedini, occorre intervenire con misure urgenti e contestuali ai provvedimenti di riforma in ambito penale, è quello carcerario, ormai in stato di emergenza permanente. «Il primo provvedimento da prendere, e che è già nell’agenda del ministro Alfano, è la creazione di un circuito carcerario differenziato» spiega il parlamentare. Che fa notare come questa misura contribuirà a limitare la pericolosa commistione al-

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l’interno degli istituti di pena tra detenuti già dichiarati colpevoli con sentenza definitiva e detenuti in attesa di giudizio, e, perciò, considerati presunti innocenti dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Per questi soggetti – sottolinea il deputato azzurro – le strutture carcerarie, sebbene dotate della necessaria sicurezza, dovranno essere più leggere, perché per loro vi è una presunzione di minore pericolosità» e questo vale soprattutto per quei circa 15.000 detenuti annui che transitano nelle carceri italiane per una media di 7 giorni. Depenalizzare i reati minori può essere una delle possibili soluzioni all’emergenza carceraria? «Per molti anni si è pensato che la depenalizzazione fosse una strada corretta. In realtà essa comporta semplicemente un trasferimento di competenze da un giudice a un altro giudice. Inoltre la depenalizzazione di comportamenti che magari in astratto possono sembrare poca cosa a volte può creare forti disagi sociali, perché la cosiddetta microcriminalità genera un senso di straordinaria insicurezza nella popolazione; la tolleranza zero, che non è uno slogan, ma una filosofia di approccio al problema criminale, in alcuni Stati ha funzionato molto bene proprio DOSSIER | SICILIA 2009

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sui piccoli reati. Partendo dalle piccole cose spesso si riesce a riportare l’ordine. Questo, però, non significa che tutto debba essere ricondotto alla disciplina penale, quindi occorre procedere a una seria analisi per individuare le fattispecie superate».Periodicamente si torna a discutere dell’efficacia del 41bis. Qual è la sua opinione al riguardo?«Il 41bis, se da un lato prevede un trattamento che appare contrario ai principi più elementari di socializzazione, quale la limitazione per alcuni detenuti del contatto con il mondo esterno e del rapporto con i propri familiari, per cui è amaro doverla applicare, dall’altro si configura come necessaria laddove si tratta di reprimere il grave fenomeno della criminalità organizzata, particolarmente diffuso in alcune zone del nostro Paese. Perciò, tra il 2001 e 2006, l’allora Governo Berlusconi aveva istituzionalizzato il 41bis, privandolo delle precedenti caratteristiche di provvisorietà. Anche se si tratta di un provvedimento di cui si vorrebbe fare a meno, esso appare indispensabile per spezzare quei legami che purtroppo vengono mantenuti in alcuni casi attraverso i contatti con i familiari». Altro nodo cruciale è il reinserimento sociale degli exdetenuti. Cosa si può fare da un punto di vista giuridico per favorirlo? «Questa è una questione di grandissimo respiro che va affrontata, innanzitutto, attraverso la costruzione di nuove carceri e anche attraverso il miglioramento dello status di vita del detenuto, che si dovrà riuscire ad avviare al lavoro e a una migliore qualificazione professionale, in modo da consentirgli d’intraprendere percorsi di reinserimento sociale. Nel nuovo pacchetto giustizia, appunto, si prevedono i cosiddetti lavori socialmente utili: colui che è stato condannato e che vuole ottenere l’affidamento in prova ai DOSSIER | SICILIA 2009

servizi sociali o ad altri benefici, dovrà lavorare a favore della collettività». In Italia sembra che il senso dell’espressione “certezza della pena” sia relativo. Quali sono le ragioni storiche e sociali di questa anomalia?«Intanto, vorrei precisare che da noi, dal Dopoguerra fino al 1990, abbiamo avuto una quarantina di condoni e di amnistie. Il che ha creato una sorta di aspettativa a una pena condonata o a un reato amnistiato. Da questo è derivato un senso della non antigiuridicità della condotta da illecito penale e la convinzione che comunque lo Stato non avrebbe mai preteso l’effettiva espiazione della pena. Con le modifiche in corso d’approvazione da parte del governo, si arriverà, di fronte a una sentenza definitiva in cui la pena si sia ormai cristallizzata, a scontare

fino in fondo la condanna. Ed è qui che si rivela l’utilità dei lavori socialmente utili, che ripagano in qualche modo la società del comportamento antigiuridico». Dopo il caso dello stupro di Capodanno si è acceso il dibattito sulla discrezionalità del giudice, soprattutto riguardo alle misure di custodia cautelare. Come commenta? «Anche se comprendo il dolore e la rabbia, assolutamente giustificati, di coloro che subiscono questo genere di reati, su questo tema sono sempre molto prudente, perché la misura cautelare in carcere deve essere sempre l’estrema ratio. Lo Stato non persegue la vendetta come fine, per cui ricorrere a questo istituto prima di una sentenza di condanna definitiva è un qualcosa da farsi solo in via eccezionale. In merito ri-


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sulta piuttosto difficile negare ai giudici di procedere a una valutazione sulla effettiva pericolosità sociale di un soggetto e sulla possibilità di fuga o di reiterazione del reato. Ritengo, perciò, importante applicare quanto già previsto da un provvedimento del governo, secondo cui nei casi di conclamata responsabilità, i magistrati, invece di tenere l’imputato in attesa di giudizio, seguano il codice facendo il processo per direttissima. Ricorrendo alla direttissima, ci sarebbe già una sentenza di primo grado, per cui anche la custodia cautelare avrebbe una diversa ragion d’essere». Quindi una revisione del processo penale potrebbe contribuire a migliorare questo aspetto? «Oggi il direttissimo dovrebbe essere la regola per vicende come questa, ed è incomprensibile perché i magistrati non utilizzino questi strumenti. Piuttosto che applicare la legge, invece, una certa parte della magistratura sembra preferire lamentarsi per ogni provvedimento dei governi di centrodestra. Questo comportamento contribuisce a creare una situazione in cui, di fronte a un elevatissimo numero di magistrati pro-capite e a una delle più elevate spese di giustizia d’Europa, parallelamente ci ritroviamo con una delle giustizie più lente d’Europa». Sulle proposte di Violante circa la riforma del Csm, sembra essersi aperto uno spiraglio di dialogo tra maggioranza e opposizione. È così? «Certamente le proposte del presidente Violante sono interessanti e in parte coincidono con la nostre. Le riforme condivise sono sempre auspicabili in materia di giustizia, visto che questa non è né di destra né di sinistra. L’auspicio è che ciò consenta l’avvio di un dialogo proficuo». DOSSIER | SICILIA 2009

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LA VOCE DEL DIRITTO Antonio Catricalà

LO STATUS QUO VA SUPERATO Applicare il diritto con rigore e razionalità. Rifuggendo da una visione romantica della legge, più dannosa di quanto si creda. Tra ricordi e speranze, Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, illustra la sua idea di giustizia. Aspettando una svolta che, finalmente, rimetta in moto il Paese DANIELA PANOSETTI

l rito formale non è un capriccio del diritto, ma è la sua stessa essenza: senza il rispetto delle procedure sarebbe impossibile dare certezza al diritto stesso, se ne inficerebbero le fondamenta. Ma la regola formale vale poco o nulla se non si applica con rigore la norma sostanziale». Equilibrio tra forma e sostanza, tra principi e procedure. È la ricerca di questo bilanciamento, di questa complementarietà che ha guidato negli anni l’esperienza professionale di Antonio Catricalà. Un’idea di giustizia che l’attuale presidente dell’Antitrust ha avuto ben chiara fin dall’inizio, dal primo processo importante, quello per il caso Moro, con tutto il carico di aspettative e valore simbolico che si portava dietro. Ma la consapevolezza più immediata e intuitiva dell’importanza della legge, per Catricalà, risale in realtà ancora più indietro, al ricordo del padre, avvocato a Catanzaro, e al via vai di clienti che, da bambino, vedeva bussare alla porta di casa. Per un consiglio, un aiuto, una notizia. Buona o cattiva che fosse. Del resto, si sa: applicare le norme, o anche solo orientarsi al loro interno, è compito sempre arduo. Spesso controverso, talora persino scomodo. Difficoltà che però non devono scoraggiare, soprattutto quando si tratta di scuotere alla base un si-

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LA VOCE DEL DIRITTO

ANTONIO CATRICALÀ è presidente dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato. Dopo aver ricoperto diversi ruoli di rilievo nel Consiglio di Stato e per la presidenza del Consiglio, insegna diritto dei consumatori presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma

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«HO SEMPRE PENSATO CHE CHI AMMINISTRA LA GIUSTIZIA DEBBA INDIVIDUARE IN MODO IMPARZIALE I TORTI E LE RAGIONI, APPLICANDO LE NORME SOSTANZIALI SENZA TUTTAVIA ELUDERE LE REGOLE PROCEDURALI»

stema giudiziario pericolosamente inerte. E che, avverte il giurista, se non verrà liberato da intoppi burocratici e inutili lungaggini, rischia far perdere all’Italia l’ennesima occasione: quella di riprendere il passo della modernità. Nella consapevolezza che, specialmente in tempi di crisi, una giustizia più efficiente e una maggiore tutela dei consumatori rappresentano una spinta fondamentale al rilancio. Non solo della competitività delle imprese, ma soprattutto della fiducia dei cittadini. Quanto è grave, dal suo punto di vista, la situazione della giustizia in Italia? «Sufficientemente grave da incidere sul livello di competitività del nostro Paese. Secondo i dati della Banca Mondiale in Italia la durata media di un’azione di recupero credito è di 1.210 giorni a fronte dei 404 del Regno Unito e dei 394 della Germania. Il costo della procedura è pari al 30% circa della somma in causa, a fronte dell’11,8% della Germania. Si tratta di disfunzioni che incidono sul grado di attrattività DOSSIER | SICILIA 2009

degli investimenti e indeboliscono il sistema Paese. Il giudizio non migliora se si deve valutare la tutela effettiva dei consumatori: affidare al giudice civile il rispetto dei diritti dei cittadini nei confronti delle aziende può, in alcuni casi, equivalere a negare i diritti stessi. In questo clima di sfiducia, dettato dai tempi interminabili del giudizio civile, attecchiscono inoltre quelle posizioni che vogliono mantenere lo status quo: penso alle difficoltà che sta incontrando la class action, uno strumento che dovrebbe consentire un salto di qualità nella tutela dei consumatori. Invece c’è chi frena, temendo che diventi un ulteriore fattore di immobilismo del sistema, con aziende portate in giudizio per anni. Il risultato è che si sta perdendo un’ulteriore occasione per rendere più moderno il nostro Paese». Quale era la sua idea di giustizia e come si è trasformata, se si è trasformata, una volta intrapresa la sua carriera professionale? «Ho sempre pensato che chi am-

ministra la giustizia debba individuare in modo imparziale i torti e le ragioni, applicando le norme sostanziali senza tuttavia eludere le regole procedurali. Questa idea della giustizia mi ha accompagnato lungo tutto il mio percorso professionale. Anche oggi resto convinto che una visione romantica della giustizia, che pure qua e là intravedo nel nostro Paese, possa produrre effetti negativi. Del resto ho iniziato giovanissimo, come sostituto procuratore dello Stato in Calabria, in un contesto difficile e pieno di insidie, e ho rappresentato la Repubblica Italiana, come avvocato dello Stato, nel processo alle Brigate Rosse per il caso Moro: in situazioni del genere il romanticismo avrebbe potuto essere inappropriato. Personalmente ho sempre privilegiato un’applicazione del diritto razionale, imperniata sulla rigorosa ricerca e comprensione dei fatti». Quando ha capito che quella che ha intrapreso sarebbe stata la sua strada? «Da bambino, avrò avuto sì e no sei anni. Sono figlio di un avvocato e a casa mia c’era un via vai continuo di clienti che, anche nelle ore più impensate, bussavano per avere notizia di una certa pratica o di un determinato processo. All’epoca non tutti avevano il telefono a casa e quello, in una piccola città come Catan-


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zaro, era il sistema più semplice per avere informazioni. Mio padre non si negava mai, anche se stava cenando con la famiglia: il cliente veniva prima di qualsiasi altra cosa e poco importava che il “compenso professionale” fosse una gallina o un salame. Ricordo la sua delusione quando doveva comunicare alle persone una pronuncia sfavorevole e il suo entusiasmo in caso di vittoria. Per me, bambino, era una figura eroica, un Robin Hood in grado di combattere soprusi e ingiustizie». Qual è stato il momento più gratificante e quale, invece, quello più duro? «Sicuramente la mia requisitoria al processo Moro: avevo appena 28 anni, ma riuscii a ottenere il risarcimento per i familiari delle vittime, con il sequestro dei beni dei brigatisti. Il momento più duro l’ho vissuto invece due anni fa, proprio nel mio ruolo di presidente dell’Antitrust. Sono stato attaccato pesantemente da alcuni giornali per aver criticato un progetto di legge che avrebbe violato le regole antitrust. Mi muovevo

su un campo minato, quello della riforma dell’emittenza televisiva. Ho sostenuto ciò che per un presidente Antitrust non poteva non sostenere, ovvero che porre dei tetti alla crescita spontanea delle aziende avrebbe significato violare le regole di mercato. Ma l’azienda in questione era Mediaset e solo per questo sono stato accusato di essere di parte, di non svolgere il mio ruolo in modo corretto e imparziale. Sono critiche che mi hanno profondamente colpito, senza tuttavia intaccare minimamente le mie convinzioni: se tornassi indietro direi nuovamente quello che ho lasciato agli atti. Sarei venuto meno ai miei doveri istituzionali se non avessi esposto con sincerità, davanti al Parlamento, i problemi antitrust che quella norma poneva». Lei è anche professore di diritto dei consumatori alla Luiss. Cosa le dà il rapporto con gli studenti? «Moltissimo, perché mi costringe a studiare e ad aggiornarmi continuamente. È un lavoro che mi fa tornare giovane, ai tempi in

cui, neolaureato, ero assistente di diritto privato all’Università La Sapienza di Roma. Oggi, rispetto ad allora, mi aiuta la maggiore esperienza, umana ancor prima che professionale. So che non basta salire in cattedra per ottenere l’attenzione degli studenti. La verità è che, ogni volta che entro in aula, l’esaminando sono io: se la lezione non venisse seguita tornerei a casa con una clamorosa bocciatura». Che consiglio si sentirebbe di dare loro? «Di studiare, ovviamente. E di vivere lo studio non come un obbligo, ma come un piacere. Occorre sempre tenere viva la fiamma della curiosità, senza dar mai nulla per scontato: così lo studio diventa continua ricerca e da obbligo può diventare passione. Se poi la passione non scatta, allora non c’è che attivare l’autodisciplina! A tutti gli studenti consiglio però di non alienarsi sui libri: autodisciplina significa anche sapere trovare lo spazio e il tempo per divertirsi altrove». DOSSIER | SICILIA 2009

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