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IL NUOVO CORSO Renato Brunetta

ECCO LA STRADA PER FAR RIPARTIRE QUESTO PAESE Uno Stato più efficiente. Più vicino ai cittadini. E meno dispendioso. Continua la battaglia del ministro della Pubblica amministrazione. Che traccia un bilancio della “rivoluzione” che ha innescato e svela i suoi progetti futuri ANDREA PIETROBELLI

li indici continuano a darlo come uno dei ministri più popolari, se non il più popolare, del nostro Paese. Da 6 mesi a questa parte Renato Brunetta continua quindi la sua luna di miele con gli italiani. «Questo mi riempie di orgoglio e mi dà ancora più responsabilità nell’azione che intraprendo ogni giorno» ammette con soddisfazione. Le critiche sul suo operato però non sono mancate: opposizione e sindacati da tempo avevano dichiarato guerra al ministro anti-fannulloni, tacciandolo di populismo e di usare troppo il pugno di ferro. Ma Brunetta non si scompone, «del resto – spiega – è quasi ovvio che quando si decide di mettere mano in un settore come quello della pubblica amministrazione nascano resistenze, opacità e qualche tentativo di salvaguardare posizioni di rendita. Ma il politico serio deve saper fare l’interesse del Paese e non lasciarsi intimorire né frenare da quanti non condi-

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vidono il suo operato». Ministro, lei è uno dei politici più amati del nostro Paese, segno che il lavoro che sta facendo è nei fatti bipartisan. Si aspettava questi esiti così positivi, sia in termini di popolarità sia nei risultati della sua azione di governo? «Gli indici continuano a dire che sono tra i ministri più popolari, se non il più popolare. Questo mi riempie di orgoglio e mi dà ancora più responsabilità nell’azione che intraprendo ogni giorno. È ovvio che quando si mette mano in un settore decisivo per il nostro Paese come quello della pubblica amministrazione si trovano anche resistenze, opacità e qualche tentativo di salvaguardare posizioni di rendita. Ma il politico serio deve saper fare l’interesse del Paese e non lasciarsi intimorire né frenare da quanti non condividono il suo operato». Recentemente, infatti, non sono stati pochi gli attacchi che ha subito, non ultima l’inchiesta dell’Espresso.

«Gli attacchi che sono arrivati alla mia persona, e in minor parte al mio operato, sono quelli di una sinistra non politica ma sindacale, che ha difficoltà a comprendere che il tempo delle estenuanti riunioni trattative e dell’immobilismo è terminato». È proprio dal sindacato che si sono alzate le proteste più rumorose sulla sua azione di governo. «Premetto che amo il sindacato, sono stato iscritto alla Cgil, la mia storia è di sinistra, mi considero un socialista riformista del Pdl. Ma sono arrivato in un ministero dove manipoli di sindacalisti erano abituati a bivaccare, in assenza di un vero padrone. Ora il policy maker c’è e intende fare gli interessi del Paese. Non smetterò mai di ricordare che il 95 per cento della mia attività di ministro è rivolta solo alla soddisfazione di 60 milioni di “clienti”. E i sindacalisti si sono resi conto che quanto ho dichiarato al momento del mio insediamento l’ho mantenuto».


IL NUOVO CORSO

IL PIÙ AMATO Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione

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IL NUOVO CORSO Renato Brunetta

La situazione di gran parte della nostra pubblica amministrazione era sotto gli occhi di tutti, però nessuno sembrava avere il coraggio di mettervi mano. È soddisfatto dei risultati raggiunti finora? «Sicuramente sì. Deve essermi dato atto che la mia non è stata una politica di annunci, di vuota retorica. Abbiamo sempre comunicato solo ed esclusivamente ciò che abbiamo fatto nel concreto. Ma voglio sottolineare che i risultati ottenuti nei primi sei mesi li dobbiamo anche alla grande risposta dell’opinione pubblica, all’onda culturale che ho voluto innestare e anche alla grande capacità di reazione della pa. La riduzione delle assenze per malattia, che si sta avvicinando al valore fisiologico registrato nel settore privato, nasce infatti anche grazie alla pressione che i dipendenti pubblici hanno avvertito dal Paese». Effettivamente, dopo le prime manovre varate dal suo ministero, in Italia sembra essere partita la caccia ai fannulloni. «Su questo punto vorrei fare una precisazione. Non ho mai detto che i lavoratori del settore pubblico sono tutti fannulloni. Ci sono tantissime persone che lavorano mosse da categorie dello spirito come l’amor proprio, il senso di appartenenza e del dovere. La stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici è efficiente e ha continuato a operare al meglio, nonostante in questi anni a co-gestire il mostro della pa sia stata la cattiva politica e il cattivo sindacato. Mancava un datore di lavoro, mancavano dirigenti motivati e attribuzioni certe di responsabilità». A suo parere, il passo decisivo per cambiare la “mentalità” nel pubblico impiego, che nei peggiori dei casi era vissuto come uno stipendificio, è già stato DOSSIER | MARCHE 2009

«QUANDO SI DECIDE DI METTERE MANO IN UN SETTORE COME QUELLO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE NASCONO RESISTENZE, OPACITÀ E QUALCHE TENTATIVO DI SALVAGUARDARE POSIZIONI DI RENDITA»

fatto o c’è ancora della strada da percorrere? «Negli uffici l’aria sta cambiando, ma abbiamo appena cominciato. Aver riportato sul luogo di lavoro i dipendenti pubblici è stato un successo: è precondizione perché si lavori e si lavori bene. Ora si tratta di dare al settore una classe dirigente motivata e capace. Nel disegno di legge delega approvato alla Commissione affari e istituzioni del Senato con un voto bipartisan, abbiamo proposto che

per passare di livello il dirigente debba fare una sorta di Erasmus all’estero, aggiornarsi e essere al passo coi tempi. Sto cercando di introdurre elementi di mercato, in un settore dove esistono costi ma non prezzi. Mancando di un vero mercato i fornitori dei servizi pubblici non erano spinti a dare il meglio. E io voglio che il cittadino non sia più un utente frustrato che protesta ma non sa bene a chi e con quale risultato. Deve avere la possibilità di diven-


IL NUOVO CORSO

tare un controllore dei servizi che gli vengono offerti». E quali strumenti metterete in atto per raggiungere questo obiettivo? «Ci saranno due tipi di reazioni possibili a un disservizio. Una soft, che partirà il prossimo anno in via sperimentale. Il cittadino giudicherà sul momento la qualità del servizio che richiede attraverso le emoticon, le faccine, che indicheranno soddisfazione o insoddisfazione. In Cina funziona già da anni. Ci sarà così un feed back immediato. E il fatto che ci sia la customer satisfaction imporrà al fornitore del servizio pubblico maggior efficienza e gentilezza. Il secondo metodo di controllo che stiamo predisponendo lo abbiamo definito class action del settore pubblico. In sintesi, ci sarà la possibilità, in caso di grave disservizio, di presentare una denuncia a un giudice amministrativo e far sì che questi ripristini in pochissimi giorni il servizio che non funzionava o non c’era, oppure, come

sanzione estrema, che rimuova il responsabile di quell’ufficio. Doteremo poi tutte le unità della pubblica amministrazione di standard di qualità e tempi per ogni servizio. Sarà uno strumento di valutazione che aiuterà il cittadino e noi a capire cosa funziona e cosa va migliorato». Un altro dei suoi cavalli di battaglia è stata la trasparenza. A che punto siamo? «Si tratta di una delle prime iniziative che ho assunto, cominciando proprio dal mio ministero, che in passato troppo spesso si guardava l’ombelico e assai raramente dialogava con il Paese. Da qui la decisione di pubblicare i curricula e gli stipendi dei dirigenti e i tassi di assenteismo degli uffici a loro affidati. Così come quella di pubblicare il mio stipendio e quello dei miei collaboratori». A settembre è partita ufficialmente la fase due del suo programma di rilancio della PA , quella premiante. «È un po’ la filosofia della carota

e del bastone. Se il bastone può essere rappresentato dall’azione per ridurre il tasso di assenteismo nel pubblico, la carota è invece premiare chi lavora bene. Ho deciso di valorizzare sul sito del ministero le esperienze di buona amministrazione, di best practice, che in Italia sono moltissime. Finora ne abbiamo registrate oltre 600. Si tratta di uffici che si sono innovati, accorciando i tempi di prestazione, migliorando la loro qualità. Contemporaneamente si è deciso di dar vita a una sorta di concorso che si chiama “Premiamo i risultati”: circa 700 amministrazioni dovranno presentare progetti esecutivi rispetto alle idee che hanno avanzato, e i vincitori saranno premiati con finanziamenti. Si tratta di soldi che arrivano dalla contrattazione di secondo livello, quella decentrata, che sino a ieri era distribuita a pioggia sui dirigenti, contraddicendo il suo spirito. Questi soldi finalmente saranno destinati ai dipendenti più meritevoli». MARCHE 2009 | DOSSIER

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L’OPINIONE Francesco Casoli

L’ARMA SCACCIA-CRISI? AVERE FIDUCIA Presidente e amministratore delegato di Elica, Francesco Casoli analizza la situazione economica del Paese. E, nella sua doppia veste di politico e imprenditore, indica la strada che l’Italia deve percorrere per rialzarsi da questo momento di difficoltà FEDERICO MASSARI

l Governo Berlusconi mostra una particolare attenzione per la regione Marche anche in un momento di notevoli difficoltà finanziarie come quello che stiamo vivendo. Con l’emendamento approvato dal Senato sono stati reperiti i fondi per coprire il minor introito dello Stato dovuto alla proroga della cosiddetta busta paga pesante». Risponde così il senatore Francesco Casoli, a chi gli domanda quanto il governo stia andando incontro alle difficoltà della regione Marche. La crisi fabrianese ha scosso gli animi dei vertici governativi e, allo stesso tempo, ha fatto meditare parecchio all’interno delle sale dei bottoni della politica italiana. Ma, ovviamente,

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«È VENUTO IL MOMENTO DI RINSALDARE IL RAPPORTO FRA UNIVERSITÀ E INDUSTRIA. L’ITALIA DEVE TORNARE A FARE LE COSE CHE HA SEMPRE SAPUTO FARE»

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in questo momento, la crisi non è solo di Fabriano, «ma di tutto il mercato mondiale» puntualizza Casoli. Sempre secondo il presidente di Elica, l’era dei soldi facili è finita e la nostra società deve assolutamente attrezzarsi puntando maggiormente sulla qualità delle persone, e pure sugli investimenti nelle infrastrutture impostando un sistema di welfare che aiuti i più deboli, ma allo stesso tempo che imponga un maggiore sforzo ai settori produttivi. «Stiamo tornando ai valori di base — continua il senatore — sicuramente si rivaluterà un modello di vita che era finito nel dimenticatoio». Qual è la sua personale ricetta anticrisi? «Sto guardando con grande interesse a quello che sta succedendo in Germania. Secondo il mio parere, il metodo che i tedeschi vogliono adottare, ovvero l’accorciamento della settimana lavorativa, per riuscire a superare questo momento di recessione, non è un’idea da scartare a priori. Questa soluzione darebbe una certa tranquillità sociale per tutto l’arco di questo periodo anomalo. Periodo che non si preannuncia breve. Questa iniziativa penso sia la ricetta giusta per dare continuità al lavoro. Inoltre dobbiamo tornare a credere nelle nostre ca-

pacità. Le crisi economiche nascono perché si perde fiducia, si perde la certezza del domani e, inevitabilmente, la voglia di competere. Da parte degli imprenditori deve, invece, ritornare la voglia di intraprendere. Gli italiani devono tornare a essere se stessi attraverso l’etica e l’impresa». In questo periodo di difficoltà economica, si insiste molto sul concetto di etica di impresa. Cosa significa per lei? «L’impresa ha sempre il medesimo obiettivo: l’ultima riga del bilancio. L’etica magari non ti permette di essere molto scoppiettante ai fini del risultato, però assicura più continuità. L’etica crea una reputazione che dà la possibilità di sostenere l’economia del tempo: quello che ci sta insegnando questa crisi, è che il tempo dei furbi è finito». Che tipo di crisi stiamo vivendo? «Quella che stiamo vivendo la definirei la crisi della “furbizia”. Recessione che ha visto coinvolti personaggi che facevano soldi non attraverso il lavoro, ma mediante escamotage che alla fine hanno coinvolto anche l’economia reale. Questa politica è finita. Quando il ministro Tremonti parla del ritrovamento del sistema sociale, intende proprio


L’OPINIONE

DECISO Francesco Casoli, presidente e ad di Elica e senatore del Pdl

questo: da ora in poi dobbiamo ritornare a capire che per continuare a mantenere il nostro sistema sociale, nel tempo, dobbiamo adottare comportamenti etici, ossia di rispetto per la persona, per l’ambiente, per l’azienda, che è il frutto del lavoro di migliaia di persone oneste». E su cosa deve puntare il sistema? «Basta ricordare che il 60 per cento dei beni culturali mondiali stanno in Italia. Nel bene e nel

male, noi italiani possediamo nel nostro dna creatività, ingegnosità e genialità che non esistono da nessuna altra parte. Queste caratteristiche che continuiamo tuttora a possedere, si possono notare nel campo della moda e del design. Il made in Italy ha dimostrato di poter rimanere ancora a lungo in cima alla classifica. Se riuscissimo a incanalare queste peculiarità in tutti i settori del mercato, potremmo ottenere ottimi risultati».

Una delle paure più grandi che bloccano gli investimenti è quella di assistere a una restrizione dell’accesso al credito. Qual è la situazione in regione? «Nelle Marche la stretta creditizia in questo momento fa paura. Le banche hanno più timore delle imprese: questo è micidiale. Non tutte quante le aziende hanno la fortuna o la possibilità di autofinanziarsi. Perdere il coraggio all’interno del sistema creditizio può essere molto pericoloso. Questo è quello che stiamo vivendo attualmente nelle Marche. Gli imprenditori sono un po’ sconcertati, le banche stanno tirando i remi in barca anche in situazioni di normale sofferenza. Oggi la realtà dice che gli istituti di credito spesso dicono di no. Da questo punto dobbiamo ripartire». Le imprese marchigiane quanto stanno risentendo degli effetti della crisi che sta attanagliando il Paese? «Stanno resistendo. La crisi fabrianese, però, ha creato un effetto domino che ha cominciato a infettare una grande quantità di aziende e lavoratori. Occorre sempre rimboccarsi le maniche facendo leva sugli strumenti legislativi, per quanto riguarda la politica, e non preoccuparsi perché la preoccupazione non porta a nulla. Quello che dobbiamo riuscire a tirar fuori da questa situazione è avere la fiducia nelle banche che sono la chiave di volta di tutto». Su quali punti di forza dovrebbero puntare e quali limiti devono superare le imprese? «Un anno fa avrei risposto che le imprese avrebbero dovuto pun-

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L’OPINIONE Francesco Casoli

«ACCORCIARE LA SETTIMANA LAVORATIVA DAREBBE UNA CERTA TRANQUILLITÀ SOCIALE PER TUTTO L’ARCO DI QUESTO DIFFICILE PERIODO CHE NON SI PREANNUNCIA BREVE»

tare a internazionalizzarsi maggiormente. Adesso, anche fuori dai confini nazionali, la situazione non è delle migliori, anzi in alcuni casi la situazione molto grave. Non posso neanche rispondere che occorre entusiasmo perché potrei cadere nel banale più assoluto. Come dicevo prima, accorciare la settimana lavorativa e poter dare così lavoro a tutti penso sia una soluzione sulla quale occorra riflettere attentamente. Il sistema sociale deve capire come far fare il catenaccio alle aziende per resistere a questo DOSSIER | MARCHE 2009

periodo di crisi. Dobbiamo salvare quel tessuto sociale che è sempre stata la nostra forza: i lavoratori». Elica, azienda leader mondiale nella produzione di cappe per il domestico, è per il secondo anno consecutivo l’azienda “tutta ita-

liana” dove si lavora meglio. Cosa significa in concreto? «Diciamo che questo riconoscimento, ottenuto per la seconda volta consecutiva, è la definitiva consacrazione del nostro operato. La prima volta, in genere, capita grazie a combinazioni favorevoli


L’OPINIONE

di mercato. Essere invece confermati in due circostanze consecutive come migliore azienda italiana, avendo passato un periodo difficile, è motivo di grande soddisfazione. Per periodo difficile intendo: cassa integrazione e ristrutturazione aziendale. Ciò è

stato fatto a testa alta, comunicando a tutti di continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto nel passato. Questo risultato non è importante in termini di guadagno, ma è importante per quanto riguarda il futuro dell’azienda». Vi siete specializzati in un pro-

dotto di nicchia per poi puntare sui mercati internazionali. Vi sentireste di consigliare questa strategia anche ad altre piccole imprese italiane? «Penso che il nostro Paese debba cominciare a riunire i vari anelli della catena che da un po’ di tempo a questa parte si sono allentati: scuola, Università, e quelle competenze già esistenti che sarebbe bene mettere a disposizione dell’industria. È venuto il momento di rinsaldare il rapporto fra Università e industria. L’Italia deve tornare a fare le cose che ha sempre saputo fare». Da imprenditore, oggi, cosa chiederebbe al politico, e da politico cosa assicurerebbe all’imprenditore? «Da imprenditore chiederei alla politica più ascolto e più attenzione a quei piccoli problemi come, ad esempio, i treni che non si fermano più a Jesi, a Senigallia e in altre località marchigiane. Da politico invece dico che in questo momento, il governo sta lavorando molto sulla Regione Marche. Chiaramente con risorse limitate. La crisi di Fabriano ha scosso molto gli animi della politica nazionale».

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IL PUNTO Mario Baldassarri

MARIO BALDASSARRI L’economista e senatore è nato a Macerata, è stato viceministro dell’Economia nel secondo Governo Berlusconi e presiede ora la Commissione permanente finanze e tesoro del Senato

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IL PUNTO

LA RIPRESA COMINCIA ABBATTENDO GLI SPRECHI Una nuova manovra per rilanciare i consumi, la produzione industriale e le infrastrutture. 30 miliardi di euro da recuperare tagliando gli sperperi della pubblica amministrazione e concedere così sgravi fiscali a famiglie e imprese. Il senatore Mario Baldassarri fa un bilancio dell’anno appena concluso e traccia le linee guida per il 2009 LORENZO BERARDI

a crisi finanziaria è esplosa a settembre 2008, ma ha cominciato a manifestarsi un anno e mezzo fa e rappresenta la punta dell’iceberg di una crisi reale cominciata sei anni addietro». L’economista marchigiano Mario Baldassarri, attuale presidente della Commissione permanente finanze e tesoro del Senato e già viceministro dell’Economia, non usa giri di parole nel definire la congiuntura in corso. «Il Governo Berlusconi ha avuto il merito di capire subito l’aria che girava per il mondo anticipando a luglio la manovra finanziaria triennale, confermando il paletto dei parametri europei per preservare l’equilibrio dei mercati finanziari – prosegue Baldassarri –. Il Governo Prodi, invece, ha preso in giro gli italiani raccontando che faceva lotta all’evasione fiscale e in realtà aumentava le tasse e sperperava spesa pubblica in più ». Il senatore Baldassarri guarda avanti nella convinzione che «sia stato fatto il massimo per sostenere le situazioni di emergenza sociale», riconoscendo però che le misure predisposte sinora non saranno sufficienti per fronteggiare la crisi in

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atto. Il cosiddetto pacchetto anti crisi varato dal governo nel novembre 2008 non punta infatti a tamponare la crescita negativa del Pil 2009 stimata a -0.8% dal Governo e a -1,3% da Confindustria. Senatore quali sono dunque le finalità di questo decreto anticrisi da sei miliardi di euro? «Il decreto è stato fatto nel giusto rispetto dei vincoli europei ed è mirato all’emergenza sociale immediata, concentrandosi, data la limitatezza delle risorse, sulle fasce più deboli della popolazione. L’effetto del pacchetto anticrisi sul ciclo negativo è relativamente modesto e potrebbe ridurre questa recessione portandola da -0,8% a 0,4%. Ma la ripresa economica non si può attivare solo aiutando le persone povere, bensì dando un sostegno forte e costante anche al ceto medio. E questo sostegno costa molto di più. Ecco perché ritengo opportuno che si rifletta su una futura manovra che abbia una misura quantitativa attorno ai 30 miliardi di euro, senza incidere sul deficit pubblico per avere un reale effetto sull’economia. E allora il dibattito non è più su come dare sostegno, ma su come trovare le

risorse necessarie all’interno del bilancio della pubblica amministrazione». E dove si possono reperire queste risorse senza pesare sul debito pubblico? «Ci sono almeno due voci che potrebbero prestarsi a dei tagli che permettano di ricavare quelle risorse necessarie a dare sostegno alle famiglie e alle imprese. La prima riguarda i 42 miliardi di euro che secondo dati ufficiali ogni anno spendiamo per i cosiddetti “fondi perduti” nell’illusione di creare sviluppo e occupazione con il rischio di andare anche ad alimentare le cosche mafiose. Ritengo che da qui si possano tagliare 10-15 miliardi di euro. Poi vi è tutta la mole di spese per l’acquisto di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni che è cresciuta dagli 85 miliardi del 2003 ai 121 del 2008. Anche da questa voce si possono ricavare 15 miliardi di euro, per esempio riducendo gli sprechi negli acquisiti degli ospedali, o eliminando quei 4 miliardi spesi in medicinali, tenuti nelle scatole aperte da ogni famiglia italiana e buttati via ogni perché scaduti. Ogni anno abbiamo 800 miliardi di euro di

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IL PUNTO Mario Baldassarri

«DARE SGRAVI FISCALI A FAMIGLIE E IMPRESE, RILANCIANDO GLI INVESTIMENTI INFRASTRUTTURALI, CONSENTIREBBE DI PASSARE DA UNA PREVISIONE DI -0,8% A UNA DI +0,8% DEL PIL PER IL 2009»

spesa pubblica complessiva e io credo che sia possibile individuarne 30 da risparmiare su specifiche voci. Di questi 30 miliardi, 14 si tradurrebbero in sgravi fiscali alle famiglie raddoppiando le deduzioni per carichi familiari, 12 alle imprese togliendo dall’Irap il monte salari come base imponibile e 4-5 miliardi verrebbero destinati a nuove infrastrutture. Ma dobbiamo anche fare i conti col fatto che nell’emergere della crisi c’è stata una colpa reale della politica monetaria e di cambio della Bce». Quali sono le responsabilità di Francoforte? «L’aver mirato all’inflazione senza tenere conto degli effetti collaterali sul cambio creando un super Euro che ha avuto l’effetto di determinare il blocco della crescita europea. E oggi che è crollato il prezzo del petrolio e delle materie prime è bastato un abbassamento dei tassi da parte degli Stati Uniti per fare restare ferma l’Europa e far risalire l’Euro sul dollaro a 1,43 dopo che era sceso a 1,23. Questi 20 centesimi significano un -1% di crescita. Si è determinata, quindi, un’inflazione a livello europeo e non è determinata da eccesso di domanda o di consumi, ma dai costi». Cosa occorre fare per rilanciare i DOSSIER | MARCHE 2009

consumi nazionali? «Dare, appunto, sgravi fiscali a famiglie e imprese, rilanciando gli investimenti infrastrutturali. Questo, secondo le nostre stime, consentirebbe di passare da una previsione di -0,8% a una di +0,8% per il 2009. Si tratta di una inversione di tendenza necessaria e per ottenerla occorre una manovra che sia quantitativamente rilevante cioè da 30 miliardi di euro oltre che strutturale e permanente. Solo così le famiglie possono tornare ad aumentare i consumi, perché se la percepissero come transitoria si limiterebbero a incrementare i risparmi. Questa manovra, puntando alla riduzione degli sprechi, occorreva già anni fa e non solo ora perché siamo in un momento di crisi o per effetto delle indagini della magistratura». Lei come giudica il ruolo svolto dall'opposizione nel collaborare con il governo o nel proporre soluzioni alternative e concrete per arginare l’emergenza economica verificatasi? «Quando il Pd propone una manovra da 16 miliardi di euro, come ha fatto Bersani, ci sono due obiezioni da fare: che è una manovra insufficiente e che non viene mai indicato da dove reperire le risorse necessarie. Perché se questi 16 miliardi vanno ad alimentare il defi-

cit pubblico, il problema è che nel giro di poche settimane si avrebbe un rialzo dei tassi di interesse del debito italiano. Questo è ciò che il ministro Tremonti ha tentato di fare comprendere all’opposizione. Da parte del centrosinistra, però, non ho visto grande collaborazione. Perché se si propone una manovra da 16 miliardi senza dire dove reperire le risorse si tratta di mera propaganda. Per quanto riguarda il federalismo fiscale, invece, in Commissione l’opposizione ha proposto vari temi e il governo ha dichiarato la propria disponibilità a migliorare il disegno di legge. Miriamo ad approvare un testo che sia ampiamente condiviso, sempre che l’opposizione si dimostri d’accordo a insistere su questa strada. Ma se per effetto di contrasti presenti al suo interno il centrosinistra non riesce a definire una posizione unitaria su questo tema, allora il governo deve portare avanti il proprio disegno di legge anche tenendo conto di quanto di buono è già stato fatto in dialettica concreta e seria assieme all’opposizione». Lei ha pubblicato un libro dedicato a un anno di Governo Prodi. Quali sono le maggiori differenze in ambito economico con questi primi mesi di Go-



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IL PUNTO Mario Baldassarri

verno Berlusconi? «La differenza è molto semplice: in un anno Prodi ha portato la pressione fiscale dal 40,6% al 43,3% con un aumento complessivo di tasse pari a 70 miliardi di euro. Se a questo aumento fosse corrisposto zero deficit la decisione poteva anche essere accettabile, ma invece non è accaduto. Quando Prodi è arrivato al governo nel 2006 il deficit ammontava al 2,3%, e quest’anno, quando l’ha lasciato, il deficit era cresciuto al 2,8%. C’è un mistero aritmetico: con un +2,7% di tasse o il deficit va a zero oppure significa che si è registrato anche un +2,7% di spese. Questo governo ha fatto esattamente l’opposto di quello che l’ha preceduto, anche se è chiaro che nell’immediato non poteva ridurre subito la pressione fiscale riportandola a quella del 2006. Trovo paradossale e ridicolo che l’attuale opposizione che durante il proprio periodo di governo ha fatto crescere la pressione tributaria, accusi ora il ministro Tremonti di non averla ridotta: bastava che loro non l’aumentassero». Quali sono stati sinora gli effetti tangibili della crisi finanziaria internazionale in Italia? «L’economia italiana aveva un sistema bancario più solido perché paradossalmente più arretrato e anche un sistema sociale più solido perché per tradizione le famiglie italiane producono più risparmio. Purtroppo, però, in Italia abbiamo un grosso risparmio privato, ma anche un grosso debito pubblico. L’Italia è inoltre più penalizzata perché è maggiormente costituita da Pmi del manifatturiero rispetto ad altri Paesi. Quindi nel momento in cui la crisi finanziaria si sposta sull’economia reale e produttiva, anche l’Italia viene danneggiata. Una situazione simile la sta vivendo la grande e potente

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economia tedesca che sta subendo le ripercussioni sull’economia reale quanto e più di noi. E siccome le due nazioni sono strettamente interconnesse, se cresce meno la Germania cresce meno anche l’Italia, e viceversa». E stringendo il campo, come sono state investite le Marche dalla congiuntura? «Le banche regionali sono più solide di quelle italiane che sono, a loro volta, più solide di quelle internazionali e lo stesso può dirsi per le famiglie marchigiane. Quindi sul piano finanziario le Marche sono penalizzate meno dell’Italia, ma avendo più industrie manifatturiere questa regione è maggiormente penalizzata dal passaggio della crisi dal piano finanziario a quello dell’economia reale». Quali sono le misure che le imprese del territorio possono adottare? «Nell’immediato le imprese locali possono puntare in qualità e internazionalizzazione. Avrebbe aiutato

adottare una misura prevista dal precedente Governo Berlusconi che prevedeva di fare in regione tre stazioni sperimentali per internazionalizzazione, ricerca e innovazione tecnologica per i distretti marchigiani nella filiera della meccanica, delle calzature e dell’informatica. Invece i soldi stanziati per quel progetto il Governo Prodi li ha dati alle Regioni che li hanno sperperati per pagare stipendi dentro inutili carrozzoni regionali. Purtroppo il quadro politico delle Marche resta mummificato e i suoi esponenti invece di comprendere i problemi che hanno sotto casa, fanno viaggi all’estero. Nelle Marche il Governo ProdiD’Ambrosio-Spacca non è mai caduto, la sinistra estrema resta determinante, il Pd non sa che pesci prendere e questo crea una situazione di stallo che da 20 anni blocca la Regione. Così le Marche sono arretrate per infrastrutture, disperdono le proprie risorse e hanno avuto il più alto deficit pro capite per la sanità».



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FOCUS REGIONE

UN FUTURO NEL SEGNO DELLA RESPONSABILITÀ L’apertura all’estero del sistema produttivo è per le Marche la strada da intraprendere per uscire dal tunnel della crisi. Inseguendo la crescita. A tracciarla è il presidente della Regione Gian Mario Spacca. Che rivendica coesione e unione di intenti per affrontare le incognite del futuro FRANCESCA DRUIDI

roduttività della spesa, qualità degli interventi, riduzione del debito». Sono alcuni dei fattori che, per il presidente della Regione, Gian Mario Spacca, hanno consentito alle Marche di ricevere dall’agenzia di rating internazionale Standard & Poor’s un importante riconoscimento relativo alle prospettive economiche di stabilità della regione. «La certificazione autorevole dell’affidabilità finanziaria delle Marche ora risulta ancora più determinante in un momento così difficile di crisi internazionale. È una testimonianza di fiducia per l’intera comunità». Per fronteggiare una congiuntura nazionale e mondiale che assomiglierà sempre più a un percorso a ostacoli, la Regione ha già definito tre linee di azione. Tutela del lavoro, massima liquidità per le imprese, investimenti strategici. Guardando costantemente al futuro, puntando in maniera decisa verso l’internazionalizzazione. L’agenzia finanziaria internazionale ha attribuito all’ente regionale il livello A+, il se-

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condo nel ranking, per i risultati manageriali e finanziari raggiunti, soprattutto in ambito sanitario. Quali sono gli interventi strutturali che hanno fatto la differenza in questo settore, critico per molte altre regioni italiane? «La sanità delle Marche è passata in tre anni da un pesante deficit al risultato attuale, che consolida conti in ordine e un disavanzo azzerato secondo i report 2008 del ministero dell’Economia. Un risultato che diventa ancora più significativo perché è stato ottenuto senza comprimere i livelli di produzione sanitaria, ovvero i servizi diretti al cittadino. Il cardine di questa azione di qualificazione, che ha posto la sanità delle Marche ai vertici di eccellenza del Paese, è un radicale cambiamento del modello organizzativo imperniato sull’attenzione al cittadino rispetto all’offerta del sistema, sulla riqualificazione a vantaggio di servizi diffusi e sul miglioramento dell’appropriatezza delle attività. Senza dimenticare la riduzione dei costi amministrativi e gestionali e l’impiego di

nuove tecnologie. Proseguiremo in questo percorso virtuoso, lavorando per contrastare la mobilità passiva, la riduzione delle liste di attesa e per attuare il programma di investimenti sanitari». Qualità della vita, produtti-


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GIAN MARIO SPACCA Presidente della Regione Marche

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FOCUS REGIONE

vità e benessere. Quello marchigiano è un sistema esportabile? «I Paesi adriatici e balcanici in generale sono alla ricerca di una loro via per la modernizzazione. Sono molto interessati a conoscere il nostro modello organizzativo, le dinamiche produttive e la rete di mobilità pubblica e privata che sostengono il nostro lavoro, favorendo la coesione sociale e un alto livello di qualità della vita. Soprattutto il distretto produttivo è osservato con grande interesse da questi Paesi». Quali aspettative e quali dubbi porta con sé il federaliDOSSIER | MARCHE 2009

smo fiscale? «Il federalismo fiscale è fondamentale per sostenere i processi di crescita territoriale. Consente una programmazione reale da parte della Regione, oltre a una gestione più snella delle risorse e un’amministrazione più efficiente per corrispondere ai bisogni dei cittadini. Dà inoltre impulso allo sviluppo locale, anche attraverso la responsabilizzazione dell’intera filiera istituzionale. Rimangono aperte alcune questioni, come la necessità di rispondere al dibattito sui meccanismi di perequazione tra comunità che viaggiano a velo-

cità differenti. Ma lo spirito di solidarietà tra le regioni italiane e, soprattutto, il necessario equilibrio e il buon senso permetteranno di trovare celermente soluzioni definitive». Si è di recente parlato di questione morale a causa del comportamento di alcuni amministratori italiani. Lei cosa ne pensa? «Esiste una questione morale ogni qualvolta le istituzioni non rispettano i propri impegni verso la comunità. Per questo, il primo principio di una buona amministrazione deve essere abbreviare le distanze tra il dire e il fare. È da qui che nascono la


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Qualità dello sviluppo per guardare oltreconfine Incoraggiare i finanziamenti verso le imprese. Consolidare il rinnovamento dei distretti. Potenziando soprattutto quello del mare. Le mosse per la ripresa secondo l’assessore regionale alle Attività produttive Gianni Giaccaglia

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e Marche sono una regione prettamente manifatturiera e le sue imprese stanno reagendo alla congiuntura negativa in maniera dinamica e non surrettizia, anche se si preannuncia un 2009 molto difficile». A delineare i contorni della reazione alla crisi da parte del tessuto produttivo marchigiano è l’assessore regionale alle Attività produttive Gianni Giaccaglia, che analizzando il quadro attuale evidenzia come la crisi finanziaria non stia risparmiando nessuno, con un forte aumento del ricorso alla cassa integrazione. «In questo contesto – assicura Giaccaglia – non mancano però spiragli di luce, provenienti dai settori del legno, della pelle e degli alimentari». Quali sono le peculiarità del modello marchigiano su cui puntare per il futuro? «Il modello di sviluppo marchigiano è stato capace, in contrasto con la teoria economica classica, di alimentare una crescita senza fratture, coniugando sviluppo e qualità della vita. Per il futuro, la flessibilità e la creatività tipiche degli imprenditori della regione dovranno essere sempre più caratterizzate da approcci innovativi al prodotto e all’organizzazione. Occorrerà, inoltre, spingere ulteriormente sui mercati esteri, puntando sulla qualità dei prodotti, l’innovazione e la ricerca». Come si sta evolvendo il concetto di distretto? «Pur rimanendo il motore primario dell’economia regionale, i distretti stanno cambiando pelle. Guardano sempre più all’estero e sono oggetto di benefiche contaminazioni intersettoriali. Come nel caso del distretto del mare, dove le specializzazioni del made in Marche si fondono per dar vita a una realtà dinamica, le cui produzioni ad altissimo valore aggiunto s’impongono sui mercati internazionali». Quali sono i settori che stanno incontrando maggiore successo all’estero? «Meccanica, mobile, pelli e calzature, agroalimentare, ma in generale tutta l’economia marchigiana è fortemente orientata all’export. Ci concentriamo soprattutto sui Paesi Bric, Brasile, Russia, India e Cina, le cui economie, anche in periodi di crisi come questo, crescono a tassi impensabili per noi». La Regione ha recentemente stanziato fondi in favore dei distretti industriali. Dove si concen-

GIANNI GIACCAGLIA Assessore alle Attività produttive, Energia e Attività promozionali all’Estero della Regione Marche

treranno nello specifico? «Quattro milioni di euro saranno messi a disposizione di progetti di sviluppo dei sistemi produttivi, in co-finanziamento con il governo centrale. Di questi, circa un milione e 850mila euro è diretto al consolidamento del distretto del mare, una realtà particolarmente dinamica. Le restanti risorse andranno a sostenere progetti nelle altre aree a valenza distrettuale». Quali altre misure sono previste? «Oltre alle ordinarie misure tese allo sviluppo delle piccole e medie imprese in ricerca e sviluppo, sostegno agli investimenti, internazionalizzazione e accesso al credito, che movimentano ogni anno circa 53 milioni di euro, alle prime avvisaglie di crisi è stato reso operativo il Fondo di solidarietà per il lavoro e le piccole imprese. L’obiettivo è il rilascio di garanzie di secondo grado a favore di confidi, che assicurino finanziamenti a Pmi in particolare situazione di tensione finanziaria con rischi di riflessi sull’occupazione. Considerando un moltiplicatore 1/20, il plafond potenziale di finanziamenti agevolati ammonta a oltre 200 milioni di euro. La Regione si è, inoltre, attivata per fruire delle risorse del Fondo europeo dedicato alle difficoltà legate alla globalizzazione, recentemente avviato da Bruxelles con lo scopo di fronteggiare le crisi occupazionali che stanno investendo l’Europa».

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FOCUS REGIONE

«VOGLIAMO SPINGERE IL COMPLESSO DELL’ECONOMIA REGIONALE E L’INSIEME DEL TESSUTO DELLE NOSTRE PICCOLE IMPRESE E DEI CENTRI DI RICERCA VERSO UNA PIÙ ELEVATA INTERNAZIONALIZZAZIONE»

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credibilità delle istituzioni e la fiducia dei cittadini». La Regione è particolarmente attiva sul fronte dell’internazionalizzazione. Verso quali Paesi e obiettivi sono diretti i maggiori sforzi? «Cina, India, Russia, Brasile ed Europa dell’Est. In questo momento, con una congiuntura mondiale assai debole, sono le economie che consentono al mondo e agli scambi internazionali di continuare a crescere sul piano globale. Questo aspetto della politica regionale assumerà sempre maggiore importanza. Vogliamo decisamente spingere verso una più elevata internazionalizzazione il complesso dell’economia regionale e l’insieme del tessuto delle nostre piccole imprese e dei centri di ricerca, per far sì che internazionalizzazione significhi rafforzamento e rinnovamento della società, dell’economia e della qualità delle sue produzioni. Ma, contempo-

raneamente, ancora più forte è il nostro impegno sul territorio regionale per sostenere ricerca, innovazione e conoscenza, migliorandone sostanzialmente la competitività». Come si preannuncia il 2009? «La Regione Marche si presenta al debutto del nuovo anno con i conti in ordine e i rating positivi. Il bilancio regionale 2009 si caratterizza per una specifica finalità anticiclica e anticrisi a tutela del lavoro, della coesione sociale e dello sviluppo. Il lavoro, la creatività imprenditoriale, la coesione sociale costituiscono la vera ricchezza delle Marche. Vogliamo difenderli con determinazione, con progetti concreti di sostegno al reddito, al potere d’acquisto e agli investimenti. Il 2009 sarà difficile ma lo si affronterà con impegno, responsabilità e fiducia. E sono sicuro che tutti insieme supereremo gli ostacoli che già si annunciano».


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Il territorio chiede iniziative ad hoc Il settore chiede una maggiore attenzione e una razionalizzazione delle spese. Soprattutto in questo momento di difficoltà. Ad analizzare la situazione in regione, Mario Volpini, presidente di Confcommercio

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arebbe assurdo non guardare in faccia alla realtà e dire che il 2009 sarà positivo. Sarà un anno difficile e non lo diciamo da adesso». Non nasconde preoccupazione Mario Volpini, presidente di Confcommercio. Del resto, i dati parlano chiaro e offrono un quadro poco confortante. «Per questo stiamo già lavorando – assicura – per fronteggiare la congiuntura negativa in modo da evitare pesanti ricadute nel settore. La programmazione territoriale è uno degli strumenti decisivi per rispondere alle difficoltà cui va aggiunta una razionalizzazione dei consumi indispensabile in un sistema economico armonico». Presidente, come sta reagendo il settore all’attuale momento di difficoltà? «Attraverso il rafforzamento del sistema dei Confidi che rappresenta un fondamentale ruolo di sostegno alle Pmi. Per aumentarne la portata, occorre rendere disponibile uno strumento efficace di controgaranzia dei rischi assunti dagli stessi confidi. Un’ulteriore mossa di rilancio del sistema economico regionale è individuabile nel Piano finanziario della Regione condiviso dai territori, dalla Province, dalla Camera di Commercio». Quanto vengono condizionate le dinamiche produttive dalle difficoltà riscontrate sul versante della domanda interna? «La produzione regionale dovrebbe tenere in maggior conto le potenzialità dei nostri prodotti. Qualità e territorio sono due caratteristiche fondamentali se si vuole dare una risposta forte a certe problematiche. Il turismo è certamente uno dei potenziali motori di ripresa del sistema. Per questo devono essere organizzate iniziative ad hoc all’estero ed educational tour sul territorio in collaborazione con i tour operator». Pensa che eventuali misure per calmierare i prezzi potrebbero rilanciare i consumi? «Un calo dei prezzi potrebbe favorire i consumi delle famiglie che sono state costrette a fronteggiare un forte aumento delle tariffe pubbliche che, negli ultimi quattro anni, nella nostra regione, sono cresciute del 17%. Ci stupiscono invece gli aumenti

MARIO VOLPINI Presidente di Confcommercio Marche

nei consumi per la comunicazione, in particolare per la telefonia, che si attesta su un +6,1%, e per la cura del corpo, che ha segnato un +3,2%. Rimaniamo perplessi di fronte alla preferenza di questi beni rispetto ad altri, come l’abbigliamento e gli alimentari». A livello nazionale, Confcommercio ha espresso un giudizio positivo su alcuni interventi già attuati dall’esecutivo. Cosa chiedete di più alla politica? «Di fare ritornare la politica con la P maiuscola. Un imperativo che deve coinvolgere tutti i livelli. Dobbiamo superare il tempo delle inutili contrapposizioni. L’Italia ha bisogno di concretezza e di provvedimenti indispensabili per riportare il Paese nella giusta direzione. Servono progetti e investimenti per rilanciare l’Italia che ha bisogno di ricerca, di sviluppo economico e di razionalizzazione. Confcommercio sta già ragionando in ottica di innovazione, di qualità e ha già imboccato la strada del futuro. Sarebbe auspicabile che tutte le componenti coinvolte, politica compresa, decidessero di dare una svolta ai modelli di riferimento. Nel locale, e penso al nostro ente regionale, al lavoro di prospettiva, indispensabile, va aggiunta un’importante manovra di ottimizzazione delle spese. In generale è poi indispensabile un’attenzione crescente ai nostri settori che sono fondamentali nell’ottica di uno sviluppo socio-economico». MARCHE 2009 | DOSSIER

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CREARE LA CERNIERA TRA BANCA E IMPRESA Affiancare le piccole e medie aziende marchigiane che richiedono investimenti per gli obiettivi di sviluppo e di consolidamento. Dialogando con le banche che necessitano di garanzie per erogare il credito. È l’obiettivo del sistema di confidi attuato da Fidimpresa Marche. Che, come sottolinea il direttore generale Giancarlo Gagliardini, si prepara alle sfide imposte dalla crisi internazionale e da Basilea 2. Oltre che dalla nuova normativa sui confidi CRISTINA BANDINI

n piena congiuntura economica negativa, un ruolo fondamentale è svolto dai confidi. «I confidi – spiega Giancarlo Gagliardini, direttore generale di Fidimpresa Marche, la prima società cooperativa di confidi della regione, nata dalla fusione di cinque confidi Cna – sono al servizio dei propri soci, ossia le imprese, con prodotti, servizi e garanzie che ne supportano le esigenze di finanziamento. In questo momento critico, rappresentano un efficace calmierante del mercato e un utile appoggio per le aziende associate che si rivolgono agli istituti di credito. Il sistema dei confidi costituisce un ponte tra banca e impresa, riuscendo, da un lato, a fornire alla banca le garanzie richieste, dall’altro, ad assicurare all’azienda l’allocazione al credito». Con il completamento del quadro normativo relativo ai confidi, viene ulteriormente potenziato l’orizzonte di sviluppo dei confidi nell’ambito delle attività di finanziamento alle imprese. In questo momento, avete previsto interventi mirati per aiutare i vostri soci? «Sì, non ci siamo tirati indietro in

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GIANCARLO GAGLIARDINI Direttore generale di Fidimpresa Marche

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questa fase critica. Una prima importante iniziativa si chiama credito veloce: una garanzia che forniamo al 100% per liquidità a breve a disposizione delle imprese. Altri progetti sono tesi ad allungare il debito delle aziende, diminuendo i costi fissi per le realtà produttive che così potranno avere più liquidità a disposizione nel breve periodo. In collaborazione con le associazioni di categoria, e in particolare con Cna di cui Fidimpresa Marche è un’emanazione, abbiamo inoltre sollecitato gli enti pubblici, come Regione, Province e Camere di Commercio, a destinare risorse, attraverso i confidi, come fondi rischi per le imprese. Gli stessi hanno già risposto positivamente e nei prossimi giorni ci saranno i decreti di attuazione». Qual è lo scenario futuro dei confidi? «La legge quadro sui confidi del 2003 è entrata in vigore nel 2008 con i decreti attuativi, e quindi i suoi effetti si avranno pienamente nei prossimi anni. La legge distinguerà tra i confidi 106 ordinari, il cui valore non è riconosciuto come patrimonio di vigilanza per Basilea, e i confidi 107, più evoluti. Se questi ultimi vorranno rilasciare garan-

zie equiparabili a quelle prestate dalle banche, dovranno iscriversi nell’elenco speciale degli intermediari finanziari vigilati da Banca d’Italia; un elenco previsto dal Testo Unico Bancario. L’assunzione della veste di intermediario vigilato valorizzerà il ruolo dei confidi nell’ambito dell’attività di finanziamento delle imprese, consentendo alle banche di considerare le garanzie rilasciate dai confidi ai fini dell’attenuazione del rischio di credito, in conformità con le nuove disposizioni promosse da Basilea 2». In questo contesto, come si muoverà nello specifico Fidimpresa Marche? «Fidimpresa Marche procede verso la strada dei confidi 107 e si avvia all’iscrizione nell’elenco speciale entro marzo 2009. Sta inoltre nascendo un nuovo soggetto nell’ordinamento giuridico economico, la banca di garanzia, che eserciterà prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi, ma potrà effettuare anche la raccolta tra i soci. Esiste tutto un nuovo mondo che sta entrando in azione a livello di confidi o di garanzia fidi. Il sistema finanziario italiano ne trarrà giovamento per sostenere a più livelli sia

le imprese che le banche». Cambieranno i meccanismi di finanziamento alle imprese? «Non credo. Le imprese potranno contare su un soggetto che permetterà loro di accrescere la propria credibilità. Le nostre aziende sono, infatti, critiche sul fronte patrimoniale. Su questo aspetto Fidimpresa Marche non potrà che aiutare le imprese socie, oltre ad aggiungere condizioni nettamente migliori rispetto alla media del mercato. Fidimpresa Marche assumerà anche un ruolo di consulenza specifico, nell’interesse del socio e della sua affidabilità». Qual è il vostro rapporto con le banche? «Il legame con gli istituti di credito, soprattutto quelli locali, è ottimo e storico. Nato dal territorio per il territorio. Abbiamo instaurato un ottimo rapporto con tutti gli istituti marchigiani. È in evoluzione quello con gli istituti a carattere nazionale, con cui esistono già rapporti in convenzione e stiamo dialogando per migliorarli in futuro. Un’assoluta novità messa in campo da Fidimpresa è la pratica dell’istruttoria condivisa, una nuova procedura in cui la richiesta di finanziamento viene condivisa con l’istituto di credito, contribuendo in questo modo ad alleggerire i costi per l’impresa. Questo ce lo permette il riconoscimento di ente finanziario vigilato a cui stiamo giungendo». Ritiene siano attualmente necessarie misure straordinarie da parte dello Stato? «Il mercato italiano si è dimostrato più sano rispetto a quello di altri paesi stranieri e sta tenendo abbastanza bene, ma ritengo che lo Stato debba essere particolarmente vigile. È intervenuto nella giusta direzione con il fondo rischi per i confidi, così come per gli interventi a salvaguardia degli istituti di credito. Ma è importante essere presenti anche tramite azioni di natura fiscale e retributiva, mirate soprattutto alle famiglie. Credo che il mercato possa e debba essere aiutato dallo Stato». MARCHE 2009 | DOSSIER

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QUI L’EXPORT MUOVE L’ECONOMIA Un tessuto imprenditoriale flessibile, capace di fronteggiare rapidamente i cambiamenti. Imprese piccole, in grado, però, di competere sui mercati internazionali. Realtà energiche, che già in passato hanno dimostrato di saper reagire a momenti di difficoltà. Uno scenario economico complesso, quello che emerge dall’analisi di Federico Vitali, presidente di Confindustria Marche STEFANO RUSSELLO

rima il crollo finanziario. Poi la ricaduta sull’economia reale. La crisi avanza e ora minaccia di colpire seriamente il tessuto imprenditoriale locale, quello delle piccole e medie imprese, il vero motore produttivo del nostro Paese. I consumi vanno in calo, le banche sono in difficoltà, e il buco nel sistema del credito manda in tilt i percorsi di crescita e di sviluppo impostati fino ad ora. Ma la regione Marche sembra in grado di reagire, perché può contare sull’eccellenza manifatturiera e sulla forte attitudine alla competizione internazionale delle sue aziende. Questo il parere di Federico Vitali, presidente di Confindustria regionale, convinto che la ripresa dell’economia debba passare necessariamente dallo sviluppo del sistema industriale, «vera garanzia di benessere per tutto il territorio». Quali sono i punti deboli dell’industria regionale e le eccellenze su cui contate? «I punti deboli del nostro sistema, paradossalmente, sono anche i suoi punti di forza. Penso soprattutto alla piccola dimensione della gran parte delle nostre imprese, che se da un lato può costituire ostacolo all’internazionalizzazione e alla capacità di investire in ricerca, dall’altro assicura flessibilità e capacità di

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fronteggiare rapidamente i cambiamenti. Sicuramente le aree più esposte alla crisi sono quelle del Fabrianese e del Piceno, che ci preoccupano fortemente per l’impatto negativo sulle filiere, sui territori e sull’occupazione». Come sta reagendo il tessuto produttivo marchigiano? «Le imprese delle Marche stanno reagendo con determinazione e si stanno impegnando per far sì che le previsioni negative vengano ribaltate. Possiamo contare sull’eccellenza manifatturiera e sulla forte attitudine alla competizione internazionale, che le nostre imprese hanno dimostrato anche in occasione di precedenti crisi. Siamo convinti che gran parte del sistema imprenditoriale riuscirà a cogliere positivamente l’accelerazione dei processi di rinnovamento». Accesso al credito e rapporto con il mondo bancario locale. Qual è la situazione in regione? «Le imprese nutrono forti preoccupazioni sul fronte della liquidità, che si aggiungono a criticità preesistenti in campo creditizio. In questa fase molto delicata, lo shock sul fronte della liquidità rappresenta di certo un elemento di frattura dei percorsi virtuosi intrapresi. Fino ad oggi, infatti, molte imprese sono cresciute grazie alla lungimiranza del sistema

FEDERICO VITALI Presidente di Confindustria Marche

bancario, capace di sopperire alla scarsità di capitali di rischio e di contribuire quindi all’affermazione del modello marchigiano. Confindustria Marche e Abi regionale hanno costituito da tempo un Comitato Tecnico che si confronta sistematicamente su tutte le tematiche che riguardano il rapporto banca-impresa. Bisogna scongiurare ulteriori restrizioni creditizie e adottare misure urgenti


MARCHE «NON SARÀ UN ANNO FACILE. MA SONO SICURO CHE LE IMPRESE CHE INNOVANO, FANNO RICERCA E SI MUOVONO SUI MERCATI INTERNAZIONALI, REAGIRANNO POSITIVAMENTE»

per il rafforzamento delle garanzie. Inoltre occorre accelerare il pagamento del debito della pubblica amministrazione verso le aziende, e rilanciare la domanda pubblica e gli investimenti». Quali sono gli antidoti alla crisi? «È importante un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. Solo così si può garantire una stabilità maggiore a tutto il sistema, insieme al rilancio della fiducia e degli investimenti. Un ruolo importante sarà quello dei governi territoriali, gli unici in grado di pianificare i provvedimenti in base alle specifiche esigenze e alle caratteristiche delle diverse aree. L’integrazione delle politiche pubbliche è indispensabile, a tutti i livelli, in una logica di complementarietà e coerenza rispetto ai fabbisogni delle imprese. Confindustria Marche chiede misure urgenti, alla Regione e agli enti locali. Ai sindacati, invece, suggeriamo un nuovo approccio nelle relazioni industriali, basato sulla piena consapevolezza del momento critico e sulle possibilità di rilancio della competitività e della produttività. A nostro avviso sarebbe utile l’introduzione di un Comitato unico, formato da Istituzioni, Banche e Organizzazioni, con l’obiettivo di monitorare la si-

tuazione». Qual è il suo giudizio sulle politiche regionali portate avanti fino a ora? «Sicuramente si nota un impegno da parte della Regione, anche se permangono aree in cui si può e si deve crescere molto. Si sono rivelati molto utili gli strumenti attivati a sostegno della ricerca e dell’innovazione per le Pmi, che nel 2008 hanno registrato una forte domanda e che richiedono conseguentemente un ampliamento delle risorse. In questo momento di difficoltà vanno confermati gli strumenti della garanzia e del credito agevolato, in particolare la Legge Sabatini e la Legge 598. Sono fondamentali anche gli interventi per l’efficienza energetica, la formazione e l’internazionalizzazione, perché in grado di stimolare la competitività del nostro sistema». In una prospettiva a lungo termine, quali provvedimenti sarebbero necessari per rilanciare l’economia nel suo complesso? «È il momento di focalizzare una strategia chiara, fissare gli obiettivi per il 2009, destinare le risorse e gli interventi. Gli sforzi delle imprese dovranno essere accompagnati dall’impegno delle Istituzioni. Bisognerebbe alleggerire

immediatamente la pressione fiscale e stimolare un contesto territoriale favorevole, accelerando gli investimenti infrastrutturali, informatici ed energetici». I vertici nazionali di Confindustria puntano su una revisione del pacchetto clima. Cosa ne pensano le imprese marchigiane? «Concordiamo pienamente. Chiediamo un’attuazione della riforma che sia coerente e compatibile con lo sviluppo economico. Perché altrimenti il sistema delle imprese sarebbe chiamato a sforzi immani, non proporzionali agli effetti benefici auspicati. Il momento di forte criticità richiede un’attenta ponderazione, per evitare che provvedimenti importanti abbiano il solo risultato di disincentivare gli investimenti, in Europa e in Italia, depauperandone di conseguenza il tessuto produttivo». Quali sono le sue previsioni per il 2009? «Non sarà un anno facile. Ma sono sicuro che le imprese che innovano, fanno ricerca e si muovono sui mercati internazionali, reagiranno positivamente. Il sistema delle imprese marchigiane ha la volontà di proseguire nel percorso di crescita iniziato tempo fa. La sopravvivenza e la ripresa dello sviluppo del sistema industriale è garanzia di benessere per tutto il territorio. Un tessuto produttivo forte, infatti, garantisce occupazione, ricchezza, sicurezza sociale, ambientale e coesione. Ma per conservare il presidio, e soprattutto la credibilità, sui mercati italiani ed esteri, è necessario affrontare con decisione e determinazione questa fase critica, accantonando allarmismi e disfattismi». MARCHE 2009 | DOSSIER

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PARTNERSHIP Cesare Romiti

CESARE ROMITI Noto manager italiano, è presidente della Fondazione Italia-Cina

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PARTNERSHIP

UN NUOVO SVILUPPO SORGE A ORIENTE La Cina non è un nemico da sconfiggere. È una potenza economica che offre possibilità enormi. Anche all’Italia. Per questo motivo, Cesare Romiti promuove con forza tutte le azioni volte a incrementare gli scambi economici e culturali con Pechino. Tutti obiettivi della fondazione Italia-Cina ANDREA PIETROBELLI

li obiettivi della Fondazione sono quelli di agevolare e incrementare ancora di più gli scambi economici, politici e culturali tra Italia e Cina, Paese che ricoprirà un ruolo sempre più significativo per gli equilibri mondiali». Non ha dubbi Cesare Romiti, pezzo da 90 tra manager italiani e oggi presidente della Fondazione Italia Cina: il Gigante Orientale rappresenta nell’economia mondiale di oggi una grande opportunità. Sia come base produttiva che come mercato emergente. Sin dall’apertura agli investimenti esteri alla fine degli anni Settanta, la Cina è cresciuta con un tasso medio annuo del 9% circa. Oggi si classifica tra le prime cinque economie in termini assoluti ed è la seconda a parità di potere d’acquisto. Del resto, un Paese da 1,3 miliardi di persone, con un mercato di 300-400 milioni di persone con buone disponibilità economiche, «non potrà che dettarci il ritmo» sottolinea deciso Romiti. Alle aziende italiane, ora servono efficaci strategie d’ingresso, per acquisire nuove fette di mercato e sfruttare le opportunità che si apriranno. «In

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Cina nulla può essere lasciato al caso – spiega –. Il successo delle nostre aziende dipende da visione strategica, programmazione, conoscenza del mercato, risorse umane e materiale impiegato. La nostra Fondazione vuole lanciare il messaggio che la Cina è un mercato in cui tutti ce la possono fare». Presidente, ma in questo momento di caos finanziario che ruolo potrebbe ricoprire il Gigante Orientale? «La crisi è originata negli Stati Uniti: il principale mercato per le esportazioni cinesi. La Cina non può influenzare direttamente il comportamento d’acquisto né le decisioni di investimento degli

americani ma ha mostrato come sempre risolutezza mettendo in atto un piano per stimolare l’economia cinese. Da tempo poi la Cina ha posto come obiettivo quello di stimolare i consumi interni che dovrebbero assumere maggior peso tra i driver della crescita economica riducendo contestualmente la dipendenza da esportazioni e investimenti esteri. La Cina è invitata, e sta partecipando attivamente, nei consessi internazionali. Avrà sicuramente un ruolo nella scrittura delle regole del gioco di una nuova Bretton Woods. Come durante la crisi asiatica del 1997, la Cina saprà agire con grande responsabilità nella consapevolezza che il Paese è MARCHE 2009 | DOSSIER

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PARTNERSHIP Cesare Romiti

AL VERTICE A sinistra, Romiti insieme ad Alberto Bombassei. Nella pagina a fianco, con il presidente Berlusconi in visita a Pechino

oggi integrato in un’economia globale». A suo parere la Cina è destinata a diventare la prima potenza economica mondiale? «Nel corso del 2008 la Cina ha superato la Germania diventando la terza economia mondiale in termini assoluti mentre era già la seconda a parità di poteri d’acquisto. Eppure non è tra le prime cento in termini di Pil pro capite. Questo significa che ci sono enormi margini di crescita. DOSSIER | MARCHE 2009

La questione non è se diventerà la prima potenza economica mondiale, ma quando lo diventerà. Su questo punto non c’è consenso da parte degli analisti». Come ha detto, il rapporto Cina-Stati Uniti è molto forte. Che ruolo può ritagliarsi l’Europa? «L’Europa ricaverà un ruolo maggiore nel momento in cui diventerà un soggetto politico unitario. Oggi l’Europa è un aggregato di stati-nazione ciascuno con una

propria agenda politica ed economica». Parlando invece di Cina come meta per l’internazionalizzazione delle nostre imprese quello cinese è ancora un mercato appetibile? «Lo si deduce osservando le modalità di ingresso delle imprese in Cina. Inizialmente la Cina produceva per conto terzi e rappresentava fonte di approvvigionamento o piattaforma per la riesportazione. Oggi è sempre più percepita come mercato da penetrare. Nel frattempo è cambiata la legislazione che ha consentito anche un maggiore ingresso al mercato domestico. Alcuni economisti parlano di “gigantic country effect” riferendosi al fatto che un mercato interno vastissimo è stato sfruttato dalle imprese locali per crescere e diventare dei colossi internazionali. Questo è oggi un mercato aperto anche alle imprese italiane. La Fondazione Italia Cina accompagna molte imprese a scoprire e cogliere le opportunità presenti in Cina e dà visibilità ai casi di successo di imprese italiane in Cina». Quali sono le principali differenze fra il mercato cinese e quello italiano? «Innanzitutto è difficile parlare di una sola Cina, la segmentazione del consumatore cinese ad esempio risente molto della distribuzione geografica della ricchezza, delle differenze regionali


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e tra campagne e città, del clima e della storia. Le fondamentali differenze che posso notare risiedono nella frammentazione del mercato interno in vari mercati provinciali, la dinamicità dell’economia rispetto alla stagnazione che si percepisce in Italia. La grande differenza nella distribuzione dello sviluppo tra le aree costiere della Cina e l’interno del Paese ricorda in qualche modo il

divario, non ancora sanato, tra Nord e Sud Italia». Il mercato delle contraffazioni spaventa ancora? «In Italia oppure in Cina? Il mercato delle contraffazioni in Cina è enfatizzato dai media come tutte le cattive notizie che provengono da questo Paese. In realtà, la Cina ha messo in atto una serie di provvedimenti a tutela della proprietà intellettuale anche se può

fare sicuramente di più per fare rispettare le leggi. Tuttavia, lo stesso vale per l’Italia dove la contraffazione è ancora un fenomeno rilevante. Bisogna però fare attenzione: dietro a richieste di intervento contro la contraffazione spesso si celano tentazioni protezionistiche che, se assecondate, risulterebbero dannose per la nostra economia oltre che per i rapporti bilaterali». MARCHE 2009 | DOSSIER

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DI PADRE IN FIGLIO Gian Marco Scavolini

UN PATTO CONDIVISO PER L’IMPRESA-FAMIGLIA Due generazioni, tra figli e nipoti. Che lavorano insieme perché l’azienda di famiglia prosegua sulla rotta già tracciata. Gian Marco Scavolini, vicepresidente del Gruppo, spiega perché, nel passaggio generazionale, regole chiare e unione d’intenti possono fare la differenza DANIELA PANOSETTI

iù che di “passaggio”, credo che nel caso della Scavolini sia più corretto parlare di “convivenza generazionale”. Perché il passaggio implica una rottura, un trasferimento di consegne da qualcuno a qualcun altro. Nella nostra azienda invece c’è piena collaborazione, non solo tra genitori e figli ma anche all’interno della stessa generazione. Una situazione per molti aspetti molto più difficile di quella che si crea solitamente nei casi di successione d’impresa. Ma anche più appagante». Gian Marco Scavolini, responsabile qualità e ambiente di Scavolini Spa, sa bene quanto delicata e importante sia, per ogni impresa, la questione della successione interna. Perché oltre a essere vicepresidente dell’azienda di Montelabbate, è anche figlio di Valter, presidente del Cda, che fondò l’azienda insieme al fratello Elvino, scomparso qualche anno fa, e che oggi continua a guidarla con la determinazione e l’istinto di sempre. Dal 1991, assieme alla sorella Fabiana, ai cugini Emanuela e Alberto, Gian Marco ha scelto di lavorare nell’impresa di famiglia, per perpetuare la formula fortunata che l’ha resa, negli anni, “la più amata dagli italiani”. «Che significa – spiega – qualità prima di tutto. Ma anche legame col ter-

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ritorio e attenzione alla persona, dai clienti ai fornitori. Rispettando il ruolo e l’importanza di ciascuno». Quali sono le tappe principali della sua esperienza all’interno della Scavolini? «L’azienda è stata presente nella mia vita sin da bambino. Mio padre ce ne ha sempre parlato e ricordo il suo sviluppo, con gli stabilimenti che crescevano, da una dimensione prima artigiana, poi sempre più industriale. La mia prima esperienza lavorativa vera e propria è arrivata durante gli studi, intorno ai vent’anni, quando ho cominciato a passare alcune estati in azienda, per iniziare a viverla più da vicino. L’idea di mio padre, infatti, era che fosse importante conoscere prima di tutto ciò che l’azienda faceva, e come. Finché, verso i 24 anni sono entrato definitivamente, assumendo successivamente diversi ruoli e nel tempo vedendo anche crescere, ovviamente, le responsabilità». C’è stato un momento in cui ha sentito che il percorso nell’azienda di famiglia era quello giusto per lei? «Devo dire che è qualcosa che ho avvertito con chiarezza da sempre. Fin da ragazzo, durante gli studi, la mia visione è sempre stata quella di un futuro nel-


DI PADRE IN FIGLIO

«MIO PADRE, COME MIO ZIO, HA SEMPRE AVUTO UN ISTINTO IMPRENDITORIALE NATURALE. IN NOI GIOVANI, INVECE, PREVALE LA CAPACITÀ DI CONSIDERARE ASPETTI PIÙ STRUTTURALI, E UNA MAGGIOR SPINTA ALL’INNOVAZIONE»

IL FUTURO Gian Marco Scavolini, responsabile qualità e ambiente di Scavolini Spa e vicepresidente del gruppo

l’azienda di famiglia. Una prospettiva che non ho mai messo in discussione, né abbandonata. Più o meno giustamente, ho sempre focalizzato la mia attenzione su questa opportunità come se fosse, appunto, quella che sentivo più mia». Come è arrivato a occuparsi, in particolare, dell’area qualità e ambiente? «Si è trattato di una scelta per molti aspetti naturale, in parte legata al caso, in parte a una predisposizione personale. In principio, infatti, il mio percorso in azienda era iniziato nel settore produzione, in affiancamento al direttore di

area. Erano gli anni in cui nascevano i sistemi di qualità e le certificazioni Iso, e quando si è trattato di intraprendere il percorso della certificazione 9001, si è pensato di affidare a me il ruolo di responsabile, anche perché la passione per l’organizzazione e per tutti gli aspetti gestionali ha sempre caratterizzato il mio profilo professionale. Una sfida che ho accettato volentieri, alla quale si è poi aggiunto anche l’aspetto ambientale e, in generale, tutto quanto riguarda il coordinamento delle diverse aree dei sistemi di gestione». MARCHE 2009 | DOSSIER

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DI PADRE IN FIGLIO Gian Marco Scavolini

Cinquant’anni sul territorio Da azienda artigianale a leader italiano del settore. Ma la sfida, oggi, è il mercato estero Scavolini nasce a Pesaro, nel 1961, grazie all’intraprendenza dei fratelli Valter ed Elvino Scavolini, e in pochi anni si trasforma da piccola azienda per la produzione artigianale di cucine in una delle più importanti realtà industriali italiane. Nel 1984, Scavolini conquista la leadership del settore in Italia, che tutt’ora detiene. Da sempre legata al territorio, per il quale rappresenta una fondamentale risorsa di occupazione e di produzione indotto. «Un aspetto, quello del legame col territorio, che è sempre rimasto costante – spiega Scavolini –. Le nostre cucine vengono prodotte interamente qui, a Montelabbate, ed è qui che vogliamo mantenere la produzione». In quasi mezzo secolo di storia aziendale, la Scavolini è passata attraverso diverse fasi di rinnovamento. Al momento, tuttavia, non sembrano esserci grandi cambiamenti in programma. «La nostra azienda esiste ormai da molto tempo e per quanto riguarda le strategie di crescita futura l’intenzione è di proseguire su una rotta che è in qualche modo già tracciata». Rotta che prevede, innanzitutto, di espandersi ulteriormente sui mercati esteri e continuare a investire sempre più sull’innovazione tecnica e tecnologica, aumentando il livello di specializzazione. «Siamo un’azienda che pure nelle grandi dimensioni vuole mantenere una certa flessibilità – conclude Scavolini –. L’obiettivo è quindi, senz’altro, di continuare a produrre cucine, stando però bene attenti a captare l’evoluzione del mercato. Per essere pronti ad adattarsi a ogni cambiamento».

Come è avvenuto il passaggio generazionale in Scavolini? «Non si è trattato tanto di un passaggio, ma di una vera e propria convivenza generazionale. Mio padre, così come mio zio Elvino, finché purtroppo non è venuto a mancare, è ancora pienamente operativo in azienda. Inoltre, la nostra è una famiglia particolarmente unita, grazie anche al doppio legame familiare che corre tra noi cugini, figli di due fratelli che hanno sposato due sorelle. Siamo cresciuti insieme, nella stessa casa, è questo è di certo uno dei fattori non solo del successo dell’azienda, ma anche della gestione positiva della questione generazionale. Tutto ciò ha fatto sì che si creasse in modo piuttosto naturale una convivenza di ruoli all’interno dell’azienda. Basti pensare che i figli dei miei cugini hanno già vent’anni e dunque è probabile che nel prossimo futuro le generazioni presenti in azienda arriveranno a tre. È questa la vera sfida»

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In che modo avete affrontato questa sfida? «È avvenuta in modo graduale, e in parte sta ancora avvenendo. Perché la convivenza è qualcosa che si rinnova di continuo. Fondamentale è stata la volontà comune e condivisa di stabilire delle regole precise per la famiglia-impresa, ovvero sia per la famiglia nell’impresa che per l’impresa nella famiglia. Per questo, circa sette anni fa, su proposta proprio di noi “figli”, abbiamo deciso di definire un patto di famiglia, che disciplini nel dettaglio ruoli e responsabilità. In questo modo a ognuno viene data la stessa opportunità, che si sviluppa diversamente a seconda delle capacità e della volontà di ciascuno. Ma questo comporta anche che chi sceglie di stare in azienda, deve sentirne la responsabilità, abbracciare questa scelta fino in fondo». Qual è quindi il modo giusto per conciliare grandi dimensioni aziendali e gestione familiare?

«OLTRE UNA CERTA DIMENSIONE AZIENDALE UN BUON PATTO DI FAMIGLIA DIVENTA UN PASSO OBBLIGATO. A CONDIZIONE, PERÒ, CHE I MEMBRI DELLA FAMIGLIA CI CREDANO TUTTI E CHE CHI ASSUME UN RUOLO ATTIVO IN AZIENDA LO FACCIA PER CONVINZIONE, E NON PER PASSARE IL TEMPO O PER PRENDERE UNA STRADA PIÙ COMODA»

«Non c’è una ricetta, ma per la mia esperienza direi che innanzitutto la chiarezza delle regole è fondamentale, perché permette di evitare alla base la possibile nascita di contrasti e invidie. Poi certo, l’unione della famiglia può fare la differenza, senza la quale converrebbe in effetti optare per una gestione più manageriale. Altrimenti, come abbiamo scelto di fare noi, oltre una certa dimensione aziendale un buon patto di famiglia diventa un passo obbligato. A una condizione, però: che i membri della famiglia ci credano e che chi assume un ruolo attivo in azienda lo faccia per convinzione, e non per passare il tempo o per prendere una strada più comoda. Nel nostro caso, direi che questo equilibrio finora ha funzionato: per ognuno dei due rami della famiglia, ciascuno composto da quattro fratelli, al momento lavorano in azienda due per ogni parte. Perfettamente bilanciati». Qual è il più importante insegnamento che suo padre le ha


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LA FAMIGLIA Nella foto, Gian Marco Scavolini insieme a, da sinistra in senso orario, il padre Valter, i cugini Alberto ed Emanuela, la sorella Fabiana e la cugina Elena

dato dal punto di vista imprenditoriale? «Direi che ce ne sono diversi. Il principale, tuttavia, anche perché vale non solo per l’azienda, ma per la vita, è il valore del rispetto: rispetto della parola data, rispetto delle regole e rispetto delle persone. Ma da mio padre ho imparato anche la determinazione, per quanto sia difficile riuscire a eguagliare la sua decisione e caparbietà. E poi, di certo i nostri genitori ci hanno trasmesso un’idea di fondo, e cioè che l’azienda è uno strumento a cui non bisogna tanto togliere risorse, quanto aggiungerle. Il che significa investire sempre nel suo sviluppo, godere in modo corretto dei suoi proventi senza però prosciugare l’impresa, ma anzi alimentandola sempre». Quali sono state le linee di rottura e quelle di continuità? «Una rottura forte non c’è mai stata, direi. Anche perché sarebbe sciocco da parte delle nuove leve voler stravolgere qualcosa che va

bene. Poi è ovvio, ognuno di noi nell’ambito della propria funzione ha portato alcune innovazioni e le proprie idee. Anche perché, trattandosi come dicevo di convivenza, la maggior parte delle decisioni strategiche vengono valutate e prese assieme, in modo che siano pienamente condivise». Ci sono differenze tra il management “giovane” e quello “tradizionale”? «È naturale che vi siano diversi stili e approcci di gestione aziendale. Non solo tra le singole persone ma, appunto, tra genitori e figli. Mio padre ad esempio, ha sempre avuto un particolare istinto, un “fiuto” diverso. Un’imprenditorialità che si potrebbe definire più “naturale”, nata con lui. E lo stesso era per mio zio: una capacità di prendere la decisione giusta seguendo una sorta di sensazione innata, in un modo che per noi nuove generazioni è molto più difficile. Quello che invece noi abbiamo in più, senza dubbio, è la capacità e per

molti versi il dovere di considerare aspetti più strutturali e manageriali, come l’organizzazione aziendale, la gestione delle conoscenze. E anche, visti i tempi, una maggiore spinta verso le nuove tecnologie e l’innovazione». C’è, a suo parere, un elemento che caratterizza da sempre l’immagine e la filosofia aziendale di Scavolini? «Al di là dei cambiamenti che si sono susseguiti nei decenni, abbiamo sempre cercato di costruire, nelle strategie comunicative così come nei comportamenti aziendali, un’identità che sia in grado di trasmettere in modo chiaro ed efficace i valori in cui l’azienda per prima si riconosce. Quello che ci sta a cuore, insomma, è che chiunque si accosti alla Scavolini, il consumatore come il dipendente, sappia e percepisca che dietro il marchio c’è un’azienda che mette la persona avanti a tutto. Il che significa attenzione al cliente, e dunque alla qualità del prodotto e del servizio».

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IL PAESE È SOLIDO È IL MOMENTO DI DIMOSTRARLO Boom dei prezzi delle materie prime. Gli squilibri monetari. La crisi finanziaria che, come un domino, dagli Stati Uniti ha attraversato l’oceano. Il professore analizza con lucidità le cause dell’attuale crisi. Ma invita a non cedere al panico. La via per uscirne c’è. Ora occorre seguirla GIUSI BREGA

’è chi ha parlato di un nuovo 29. C’è anche chi, preso dal panico, ci ha creduto. C’è chi invece, come l’economista Alberto Quadrio Curzio, preside della facoltà di scienze politiche all’Università Cattolica di Milano, di questo paragone non capisce il fine. «Non ne capisco l’utilità – precisa – visto che è prematuro e non serve per uscire dalla crisi. Se si vuole dire che la domanda va rilanciata con la spesa pubblica, va bene. Se si vuol dire che ci sarà una disoccupazione gigantesca dagli esiti imprevedibili, non concordo». L’economista non cede nemmeno alla tentazione, in cui molti sono caduti, di demonizzare la finanza tout court. «Non tutti gli strumenti finanziari innovativi sono da respingere perché ve ne sono di utili per distribuire meglio il rischio». Il problema, semmai, «è stato l’eccesso di fiducia» sulla strumentazione finanziaria, la carenza di regolamentazione e «la capacità degli operatori di eluderla», la crescente complessità

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degli strumenti stessi e, non ultima «l’incapacità dei soggetti vigilanti di capirne la portata sistemica in caso di crisi». Professore, ma questo terremoto economico ha solo cause finanziarie-istituzionali o anche realistrutturali? «Entrambi questi fattori hanno concorso a creare questa situazione. Quelli reali-strutturali riguardano l’esplosione dei prezzi del petrolio e delle materie prime, causata dalla debolezza del dollaro, dall’imponente domanda cinese, indiana e dei Paesi emergenti, dalle speculazioni finanziarie in generale e di quelle sulle commodities nello specifico. Sulla base di tali fattori è emerso un simultaneo rallentamento della crescita del Pil mondiale e un aumento dell’inflazione. Da ciò deriva una lezione per tutti: è necessario riflettere sull’equilibrio di lungo periodo tra domanda e offerta di materie prime e risorse naturali e sui ritmi di crescita che non sempre sono da massimizzare nel

breve-medio termine, se si vuole restare su un sentiero di sviluppo nel lungo termine evitando crisi ricorrenti. Questo squilibrio si è aggravato per la politica valutaria cinese che ha impedito una adeguata rivalutazione dello yuan, in tal modo impedendo di contenere le esportazioni della Cina e di aumentare significativamente le esportazioni verso la Cina sia da parte degli Usa che della Ue. Si è così creato un grande squilibrio nell’economia mondiale. Il successivo crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime rivela anche la forte componente speculativa che vi era stata nel loro rialzo». E per quanto riguarda le cause finanziarie? «Trovano l’origine soprattutto negli Usa. Il modello americano è stato distorto e propagandato dovunque, danneggiando gli Usa stessi. Sembrava possibile consumare a poco prezzo, indebitarsi e investire senza che ci fosse adeguato risparmio interno, usando strumenti finanziari


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ANALISTA Alberto Quadrio Curzio, preside della facoltà di scienze politiche all’Università Cattolica di Milano

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IPSE DIXIT Alberto Quadrio Curzio PROTAGONISTA A destra Alberto Quadrio Curzio con Luca Cordero di Montezemolo. Nell’altra pagina, l’economista assieme ad Angelo Tantazzi

sempre più complessi per traslare su altri il rischio. Gli Usa consumavano e la Cina risparmiava, i cittadini statunitensi si indebitavano e le società di mutui e quelle finanziarie confezionavano strumenti di credito che spedivano dovunque. In aggiunta va segnalato che negli Usa ci sono stati soggetti istituzionali che prima hanno sbagliato la politica monetaria e dei tassi e quella della vigilanza, poi hanno generato in tutto il mondo la convinzione di aver perso la bussola in una sequenza illogica: un giorno lasciando fallire una banca d’investimento, il giorno successivo salvandone un’altra con modalità confuse». Lasciare fallire Lehman Brothers quindi è stato un errore. «È stata una decisione gravissima, perché Lehman Brothers era considerata una società finanziaria solidissima e aveva controparti in tutto il mondo. È stato sorprendente constatare come una grande democrazia come quella americana, che pure ha tanti meriti, si sia lasciata travolgere così dalla finanza spericolata, “dichiarando” implicitamente al mondo, specie con il citato fallimento, che nulla valevano gli impegni assunti da una banca d’affari emblematica di un grande Paese verso le controparti». DOSSIER | MARCHE 2009

Si parla sempre più spesso di nuove regole internazionali da introdurre nel mondo finanziario. Dove si dovrebbe intervenire con più urgenza? «Non vi è dubbio che una riforma del sistema finanziario mondiale sia necessaria. Da settembre ad oggi si sono tenuti vari summit europei e mondiali per valutare come muoversi per tale riforma e si proseguirà in futuro. Non sarà facile, ma per riuscirvi è necessario l’accordo degli Usa, della Ue, del Giappone e della Cina. Qualcuno ha sperato, o spera, che i Fondi sovrani dei Paesi emergenti e di quelli petroliferi, che hanno svolto un certo ruolo investendo in banche e finanziarie occidentali, possano fare molto. Io non lo credo, sia perché sono spesso troppo opachi per essere passivamente accolti nel capitale di banche e società finanziarie, sia perché hanno subito perdite ingenti. Ben più importante è invece una riflessione politica e operativa che superi un’idea distorta del mercato, declassato a mero meccanismo di scambio, dove a tutto si può dare un prezzo, compresi i rischi più estremi. Si sta forse dimenticando che il mercato è basato su condizioni di domanda e di offerta e che dietro quest’ultima c’è sia la produzione di

beni e servizi, sia quella di profitto da parte delle aziende che progettano una operatività di medio-lungo termine e non puntano alle plusvalenze da mero scambio da ottenersi nel più breve tempo possibile». In questo momento in Europa questa crisi sembra non aver sortito gli effetti distruttivi avvenuti ad esempio in America. «La Ue è meno fragile degli Usa ma non certo invulnerabile. Il mio timore è che i Paesi europei pensino di farcela da soli. Per ora c’è stato un buon coordinamento tra governi, ma non basta. La Commissione europea ha presentato un “European Economic Recovery Plan” che dovrebbe mobilitare 200 miliardi di euro, di cui 170 da parte degli Stati e 30 da parte delle istituzioni della Ue. Non mi pare però essere sufficiente e non mi convince qualitativamente». Lei da tempo propone di costituire un Fondo Sovrano Europeo. «È un progetto che ho presentato su Il Sole 24 Ore in un articolo del 5 febbraio 2008, prima che la crisi diventasse acuta, e ribadito il 24 settembre 2008. Secondo i miei calcoli sarebbe stato relativamente agevole per la Ue mobilitare risorse finanziarie emettendo obbligazioni garantite da oro, il cui stock presso il Sistema


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europeo delle banche centrali è di 355 milioni di once. Avrebbe così potuto mobilitare risorse finanziarie, distribuite nel tempo, fino ad un massimo di 800 miliardi di euro. L’Italia, con il ministro Giulio Tremonti, ha più volte proposto nel corso della crisi finanziaria l’attivazione di un Fondo Europeo non troppo dissimile da questo, a parte l’assenza di riferimenti alle riserve auree, ma l’opposizione tedesca e inglese lo hanno impedito. La Ue deve agire unita, altrimenti la crisi rischia di incrinare la forma comunitaria del mercato unico e della moneta unica». E invece come giudicherebbe la reazione italiana alla crisi? «Il nostro sistema economico si è dimostrato solido. Inoltre le famiglie italiane sono tra le meno indebitate d’Europa con un 30% sul Pil a fronte del 100% della Gran Bretagna. E per l’80% sono proprietarie della casa in cui abitano o l’hanno in usufrutto. Le banche hanno dato prova di una notevole forza, smentendo così le molte critiche che negli anni passati le avevano stigmatizzate come inefficienti. Erano invece ben radicate sul territorio, anche per la natura giuridica delle Popolari e delle Rurali. Solo le imprese, che nel mani-

fatturiero negli anni passati hanno conseguito risultati straordinari, cominciano a soffrire per il calo della domanda interna e internazionale e per un credito che si va rarefacendo. Si pensi che le 4A del manifatturiero nel 2007 hanno generato un surplus da commercio estero superiore ai 100 miliardi di euro. Le famiglie italiane stanno risparmiando di più in previsione di tempi difficili. Esse non hanno dato comunque segni di panico che invece si sono visti in altri Paesi». Come giudica le azioni del governo italiano per arginare gli effetti della bolla internazionale? «Il governo ha cercato di adottare misure di sostegno che in linea di massima si possono apprezzare, tenendo conto che il nostro Paese ha tre gravi problemi strutturali: debito pubblico, divario Nord-Sud, deficit energetico. Questi fattori ci danno meno gradi di azione in politica economica rispetto ad altri stati europei. Un problema urgente da risolvere, per evitare che l’inevitabile rallentamento della crescita si traduca in una prolungata recessione, è che il circuito del credito si riattivi rapidamente grazie alle misure introdotte dal governo italiano con vari decreti. In essi è stabilita una garanzia pub-

blica sulle erogazioni di Bankitalia alle banche commerciali, che potrà accettare in garanzia non più solo i titoli di Stato ma anche altri collaterali e potrà fornire alle banche con operazioni swaps titoli scontabili presso la Bce. Inoltre è previsto capitale pubblico per la ricapitalizzatone di istituti di credito che ne abbiano bisogno». Possiamo quindi dirci fiduciosi per l’anno appena cominciato? «Direi di sì, a condizione che le varie parti politiche ed economico-sociali sappiano riscoprire quella responsabilità repubblicana che caratterizzò la ricostruzione. Momento per lo più difficile ma nel quale la forza degli italiani ebbe il sopravvento ricostruendo, sulle macerie lasciate dalla dittatura e dalla guerra un Paese tra i più sviluppati. Oltretutto nel 2009 l’Italia presiederà il G8. È un compito di enorme portata al quale speriamo il nostro Paese sappia dare un contributo che sarà tanto più significativo quanto l’Italia saprà essere catalizzatore della Ue evitando ambizioni sproporzionate per se stessa. L’Italia è sempre stato un “Paese federatore”. Speriamo che adesso non si illuda di diventare “Paese fondatore” di un nuovo ordine economico-finanziario mondiale».

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ECONOMIA Etica di impresa

L’UNICO CAPITALE SICURO È IL CAPITALE UMANO Uno sviluppo aziendale inscindibile dall’attenzione alle risorse umane e al territorio circostante. Votato all’aggregazione. È il modello adottato dal Gruppo presieduto da Enrico Loccioni e dalla Compagnia delle Opere Marche Sud guidata da Massimo Valentini LEONARDO TESTI

a tempesta finanziaria di dimensioni mondiali sta portando a un complessivo ripensamento dei modelli e degli schemi di regolamentazione dei rapporti economici che fino a oggi hanno dominato lo scenario nazionale e internazionale. «Siamo di fronte alla crisi di un modello culturale – conferma Massimo Valentini, presidente della Compagnia delle Opere Marche Sud – e di un sistema di valori che ha puntato tutta la consistenza dell’io sulla quantità di successo e di profitto che nel breve periodo poteva essere raggiunto. Questa impostazione, per affermarsi, ha dovuto cancellare il rapporto con la realtà, con l’economia reale, con la persona in quanto tale, producendo la realtà virtuale di una finanza speculativa fine a stessa, che ha trasformato i mercati finanziari in un grande “casinò” globale». Si sta, quindi, riproponendo con prepotenza la necessità di un modello economico equilibrato, nel quale al centro dell’azione si ponga un’adeguata concezione della persona, del lavoro e, quindi, dell’impresa. «I momenti di crisi – commenta Enrico Loccioni, presidente del Gruppo Loccioni, leader nei

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sistemi di controllo della qualità, per sei anni inserito dal Great Place to Work Institute Italia tra i 35 migliori ambienti di lavoro del Paese – possono essere anche momenti di grandi opportunità, perché si aprono nuovi scenari e si rendono liberi nuovi spazi, dove la cultura d’impresa, il rispetto per l’ambiente e la responsabilità sociale possono rappresentare importanti valori aggiunti sul mercato». È importante avere la consapevolezza del ruolo che l’azienda esercita in qualità di creatore di valore. «E può generarlo con maggiori risultati – afferma Loccioni – se si lavora con trasparenza. Non solo con la clientela, ma anche con gli altri attori del territorio. L’impresa non si occupa solo di se stessa, poiché ha la capacità di produrre un’occupazione duratura nel tempo, garantendo una continuità di rapporti con tutti gli interlocutori con i quali interagisce nelle pratiche quotidiane e nei progetti a breve, medio e lungo periodo». ETICA E RETE Le esperienze incarnate dalle attività dei soci della Compagnia delle Opere Marche Sud e dalla storia

PRESIDENTI Sopra, Enrico Loccioni, presidente dell’omonimo gruppo. A destra, Massimo Valentini, numero uno di Compagnia delle Opere Marche Sud

imprenditoriale del Gruppo Loccioni, finalista nel 2008 del Sodalitas Social Award nelle categorie “Processi interni di responsabilità sociale” e “Iniziative di sostenibilità”, lasciano emergere con forza un concetto di etica d’impresa che va al di là delle tendenze mediatiche e delle parole chiave ripetute come slogan, ma spesso prive di un autentico significato. Per En-


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rico Loccioni, etica «vuol dire coerenza tra quello che l’impresa dichiara e ciò che veramente realizza nel concreto». Ma etica, per l’industriale marchigiano, significa anche attribuire un ruolo fondamentale al capitale umano dell’azienda. «In qualsiasi tipo d’impresa, non ci potrà essere né prodotto, né servizio, né tantomeno profitto senza le persone». Questo vale soprattutto nel gruppo di Angeli di Rosora, in provincia di Ancona, dove i lavoratori non sono chiamati dipendenti e nemmeno operai. Ma collaboratori. «Procedere per progetti, come avviene nel nostro caso, significa lavorare insieme, collaborare per raggiungere lo stesso obiettivo e, quindi, non dipendere». Da quarant’anni, Loccioni è un’attività fondata sul rapporto azienda-territorio e sul binomio cultura-impresa. «Quando abbiamo iniziato – prosegue Loccioni – non sapevamo niente di valori e di etica, sono elementi che abbiamo attuato inconsapevolmente. Ne abbiamo

scoperto il grande valore soltanto con il tempo e, secondo me, erano, sono e saranno sempre più necessari e utili allo sviluppo d’impresa. Perché l’impresa è un bene comune e non un interesse privato. È una comunità inserita a sua volta in una comunità territoriale». Tutto ciò vale sempre, quando le cose procedono bene, ma in modo particolare quando prendono una strada in salita. Come in questo momento. La fortissima restrizione del credito operata dalle banche di ogni ordine e grado ha accelerato la necessità di cambiare i processi aziendali legati al mutamento degli scenari che, dapprima la globalizzazione e poi la crisi finanziaria, hanno imposto. «È un momento in cui l’esperienza della solitudine – afferma Massimo Valentini – non aiuta ad affrontare una situazione che richiede scelte coraggiose e radicali. Al contrario, noto una forte ripresa del contenuto dell’esperienza della Cdo come rete di imprese, in cui gli imprenditori non si trattano come nemici da cui di-

fendersi, bensì come patrimonio umano e tecnico che viene reciprocamente offerto per concorrere ai necessari processi di mutamento e sviluppo». Il contributo della Compagnia delle Opere alla formulazione di un modello economico attento non solo al profitto, ma soprattutto alla persona, passa attraverso «un’amicizia operativa e un confronto sulle problematiche di impresa, individuando percorsi comuni di costruzione». Punto centrale del piano operativo 2009 della Cdo Marche Sud è, non a caso, individuato dal sostegno e dallo sviluppo delle reti d’impresa. Ambiti in cui l’aspetto relazionale, lo scambio di opportunità e di informazioni fino allo sviluppo di progetti condivisi, appaiono come l’elemento decisivo per sostenere il processo di cambiamento che le singole imprese devono rapidamente affrontare. «I contenuti prioritari di questa rete – prosegue il presidente Cdo Marche Sud – sono lo sviluppo delle esperienze di matching tra imprese, la formazione,

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ECONOMIA Etica di impresa

Profitto e valori possono convivere La bontà dei prodotti locali e la responsabilità dell’imprenditore nei confronti dei propri dipendenti. La parola a Enzo Rossi, titolare dell’azienda La Campofilone ENZO ROSSI Titolare del pastificio La Campofilone

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l tema del comportamento consapevole e responsabile, in una parola etico, dell’impresa è diventato un elemento importante del contratto che lega l’azienda stessa alla comunità nella quale opera. Sono molte, infatti, le forze e gli attori che, in maniera diretta o indiretta, spingono le aziende a inserire nella propria agenda, quale tema strategicamente rilevante, la gestione attenta ai valori dell’ambiente, del benessere dei dipendenti, dell’identità di cultura e tradizioni. Modificare l’impresa per portarla ad avere alti standard di performance in tema di responsabilità ha senza dubbio un costo rilevante, e la domanda che si presenta a ogni imprenditore è proprio questa: perché essere responsabili? «Perché è la strada giusta. Non so se sarà la base di un nuovo capitalismo, sicuramente è il punto di partenza per un’imprenditoria moderna» spiega Enzo Rossi, titolare dell’azienda La Campofilone, pastificio in provincia di Ascoli Piceno. Venti dipendenti, per la maggior parte donne, che hanno fatto di questa realtà la prima azienda del settore, grazie anche alle azioni di un titolare illuminato. Enzo Rossi è diventato famoso, infatti, per aver provato a vivere con lo stipendio dei suoi operai e, non riuscendoci, ha aumentato la retribuzione a tutti i dipendenti dimostrando che etica e profitto possono andare d’accordo. Ma più che un gesto pubblicitario la sua è stata una provocazione indirizzata allo Stato e al governo. «Abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa ma dobbiamo essere competitivi, far eccellere il made in Italy, la qualità e il lusso, tipiche espressioni del nostro Paese. Noi imprenditori, però, non siamo messi in condizione di aumentare gli stipendi, cosa che potrebbe far ripartire l’economia. Questo ce lo ha insegnato Henry Ford che aumentò gli stipendi ai propri dipendenti a 2,5 dollari l’ora quanto la media era di un dollaro». L’avventura di Enzo Rossi nel settore della pasta inizia nel gennaio del 1998,

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quando, già imprenditore nell’agroalimentare, decide di rilevare il pastificio La Campofilone. Al suo arrivo trova sistemi di organizzazione interna superati e nessun investimento in ricerca e formazione. Nel 2003 La Campofilone ottiene le prime due certificazioni. La UNI 22005 sulla rintracciabilità di filiera, che permette da una parte la tracciabilità del prodotto, e l'assicurazione di poter ricostruire il percorso di lavorazione. La seconda è la certificazione volontaria di prodotto, che valorizza le caratteristiche di qualità che rendono unico e inimitabile il maccheroncino di Campofilone. Nel 2009 si aggiungeranno la Global Gap e la certificazione sulla digeribilità del prodotto. «Le certificazioni mi hanno aiutato anche nella comunicazione perché comunicare un prodotto di qualità è senz’altro più facile – continua Rossi –. Continuiamo ad avere sui rating delle certificazioni il massimo dei voti. Questo è sintomo di benessere all’interno dell’azienda tanto che quest’anno cresceremo del 20%». Quella intrapresa da Rossi e da altri imprenditori è una strada che pone regole, valori e rispetto al centro della politica aziendale, affiancata a un know how “fatto di mani e di esperienze”. «Il nostro lavoro segue il valore del nostro patrimonio territoriale: la conoscenza, il confronto, il vissuto all’interno delle fabbriche sono perni indispensabili per ripartire e provare a cambiare nel vivo di una delle più pericolose crisi economiche». La qualità e la territorialità, quindi, come carta vincente contro la delocalizzazione e l’acquisto di materie prime dall’estero. «Le Marche sono una delle regioni d’Italia che producono grano di alta qualità, non vedo perché dovrei acquistarlo all’estero – conclude Rossi –. Se vogliamo combattere la concorrenza delle economie emergenti dobbiamo tenere ferme sul territorio tutte le nostre produzioni. Dobbiamo produrre con le materie prime locali ed esportare il prodotto finito».


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l’internazionalizzazione, i servizi qualificati per il credito e la gestione d’impresa, la comunicazione e il sostegno ai percorsi di lavoro delle persone». Per il presidente Valentini, un’ulteriore priorità è l’avvio di effettivi percorsi di sussidiarietà. «Ritengo, inoltre, che il favorire i meccanismi di collaborazione, aggregazione e raggruppamento di imprese sia un altro punto qualificante, così come la necessità di una sempre maggiore integrazione settoriale e territoriale tra i vari livelli istituzionali, in modo da non disperdere risorse in localismi senza prospettive». A valorizzare il concetto di rete è lo stesso Enrico Loccioni: «occorre sviluppare l’impresa della conoscenza. Per questo, è fondamentale lavorare in rete sia all’interno dell'impresa, sia tra l’impresa e il territorio dove risiede e, in maniera congiunta, fronteggiare la sfida del mercato».

ETICA E TERRITORIO Una forte capacità di innovazione e di diffusione della conoscenza è in grado di qualificare un’area, offrendo prospettive rilevanti al progetto dell’impresa e alla comunità in cui è radicata. Processo che nelle Marche si è già verificato con i distretti. «La rivalutazione della manualità – spiega Massimo Valentini – che diviene manifattura qualificata e del contesto relazionale creato dalla piccola e media impresa che ha prodotto i fenomeni dei distretti produttivi, appaiono i fattori distinti di un modello che non esiste in astratto, ma nella storia del nostro Paese e che per anni ha dovuto affrontare le ostilità di gran parte del pensiero economico dominante». Secondo Massimo Valentini, nel tessuto sociale marchigiano esistono esperienze umane in grado di educare e di affrontare la realtà con una positività responsabile. «Abbiamo bisogno di valorizzare

le vere autorità e tra queste esistono anche delle esperienze imprenditoriali particolarmente significative». Come sottolinea il presidente del Gruppo Loccioni, esiste un processo di emulazione positiva che ha caratterizzato non solo le attività dei distretti produttivi, ma soprattutto l’approccio di queste realtà alla modalità di fare impresa. «La cultura della popolazione marchigiana è impregnata di una cultura del lavoro e soprattutto di una cultura che oggi non esiste più, quella del risparmio: una materia prima che ha contribuito a formare il capitale necessario per finanziare lo sviluppo delle aziende marchigiane di prima generazione. Del resto, già nell’impresa agricola era diffusa questa varietà di valori etici: senso di solidarietà nell’intraprendere e valori di fede, non esclusivamente legati all’aspetto religioso, ma evocativi di un’idea di lavoro concepito come dovere».

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LEZIONI DI IMPRESA Le istituzioni

QUANDO IL LAVORO DIVENTA UN VALORE Dare più importanza alle persone, che alle esigenze dei libri contabili. Una scelta che non tutte le aziende riescono a fare, soprattutto in un momento difficile come quello attuale. Alcune però lo hanno fatto, e ne hanno raccolto i frutti. L’assessore al Lavoro Ugo Ascoli spiega come le aziende marchigiane che hanno scelto le persone, abbiano vinto sul mercato. E siano state premiate dalla Regione SARAH SAGRIPANTI

lla luce della fase di recessione che interessa l’intera economia nazionale e internazionale, ci sono delle notizie che rappresentano dei segnali di positività e che dimostrano come si possa guardare avanti con ottimismo. Esempi di aziende che ce l’hanno fatta e che in questo momento di crisi incarnano quelle best practice che possono essere di stimolo ad altri. Come le dieci aziende premiate lo scorso dicembre dalla Regione Marche per aver portato innovazione e qualità nella gestione delle risorse umane, facendone una delle più importanti leve strategiche del loro successo. «In questa difficile fase economica, in cui potrebbe sorgere la tentazione di ridurre i costi del personale, queste aziende, insieme a tante altre, hanno prestato più attenzione alle persone che alle esigenze contabili», dichiara l’assessore regionale al Lavoro Ugo Ascoli, che ricorda come da sempre le aziende marchigiane abbiano fondato il loro successo prima di tutto sulle persone. Il modello marchigiano ha incentrato il suo sviluppo su concetti come cultura del lavoro, responsabilità sociale d’impresa e compartecipazione tra lavoratori e impresa. Oggi questo è un modello ancora vincente? «L’industrializzazione nelle Marche è avvenuta basandosi principalmente su due fattori: la piccola dimensione aziendale e la diffusione su gran parte del territorio regionale. Non a caso era stata coniata la definizione di “industrializzazione diffusa”. In presenza quindi di un sottodimensionamento del capitale, dovuto alle piccole dimensioni, è chiaro che il fattore strategico di successo sia stato quello

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umano: le straordinarie capacità delle persone, la loro creatività e la loro inventiva. Non c’è dubbio che il boom che a partire dagli anni Sessanta ha interessato la nostra regione sia dovuto proprio alle persone, alla loro dedizione e alla qualità del loro lavoro. Anche le grandi aziende marchigiane, dalla Merloni alla Tod’s, sono nate come frutto di intuizioni straordinarie e capacità artigianali. Nelle Marche non ci sono state grandi dinastie imprenditoriali che hanno portato l’industria sul territorio, come nel Nord Italia. Il vero motore dell’industrializzazione è stata la piccola e media azienda, fatta di persone». Secondo lei questo sistema è ancora vincente? «Oggi l’apertura delle economie e la competitività globale esasperata ci dicono che la capacità di lavorare e di produrre bene, l’inventiva e lo spirito di sacrificio non bastano più. Occorre fare un salto di qualità, imparare a scegliere le risorse umane sulle quali investire, imparare a essere presenti sui mercati internazionali. È noto il motto che “nelle Marche non basta più produrre, bisogna saper vendere”. Questo si traduce nella necessità di essere presenti sui mercati, partecipare alle fiere, realizzare reti e consorzi tra piccole imprese, per superare quelle strozzature tipiche della piccolissima dimensione aziendale». In questo quadro, come si colloca il premio ValoreLavoro? «Il premio che abbiamo ideato, e che quest’anno è arrivato alla seconda edizione, si inserisce nelle intenzioni della Regione di promuovere uno scenario in cui l’azienda si incammini con decisione sul


LEZIONI DI IMPRESA

LAVORO L’assessore regionale all’Istruzione, Formazione e Lavoro, Ugo Ascoli. Sopra, un momento della giornata dedicata alla consegna dei premi ValoreLavoro: il presidente della Regione Marche Gian Mario Spacca, insieme al sindaco di Fermo Saturnino Di Ruscio nel momento della premiazione di Paolo Labardi, imprenditore fermano che ha avuto esperienze di produzione in Svezia

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LEZIONI DI IMPRESA Le istituzioni

LE IMPRESE DA DIECI E LODE Diversi settori e diverse storie aziendali. Ma la stessa attenzione nella valorizzazione delle risorse umane. Perché la buona imprenditoria è soprattutto quella che punta sulle persone. Ecco i casi di eccellenza premiati dalla Regione Marche

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anno dedicato attenzione e misure innovative in favore delle risorse umane, per incrementare la qualità del lavoro”. È questa la motivazione generale che è valsa il Premio Valore Lavoro della Regione Marche alle migliori dieci pratiche aziendali regionali. Da una rosa di 57 aziende selezionate su 210 candidature, in maggioranza rappresentative di piccole imprese, la giuria, presieduta dall’assessore regionale al Lavoro, Ugo Ascoli, ha scelto le dieci vincitrici, appartenenti a settori anche molto diversi tra loro. Tra queste, la Gambini meccanica, nata a Pesaro trent’anni fa come realtà artigianale specializzata nelle lavorazioni conto terzi, e diventata oggi un punto di riferimento per l’industria meccanica. Il segreto del suo successo? Il signor Gambini non ha dubbi, sono le risorse umane. «Abbiamo capito che il capitale più importante dell’azienda sono le persone – commenta –. Per questo puntiamo tutto sulla forma-

zione, che preferiamo di gran lunga realizzare internamente». L’azienda ha quindi siglato un importante protocollo d’intesa con le scuole professionali del territorio per l’istruzione e l’avviamento dei ragazzi nel mondo del lavoro, oltre a realizzare attività in partnership con l’Università per ospitare giovani ingegneri. «Ciò che si studia sui libri è molto diverso da quello che si fa in azienda. Ai ragazzi insegniamo la vera meccanica di precisione, e investiamo su di loro. Il nostro è soprattutto un investimento sul futuro, perché questi stessi ragazzi nei prossimi anni saranno i portatori di innovazione». In questo modo, le persone che entrano in azienda, che conta attualmente cinquanta dipendenti, affrontano un percorso di formazione e di crescita professionale che li spinge a restare fedeli all’azienda pesarese. «Il 99 per cento dei nostri dipendenti rimane con noi – racconta il signor Gambini –, quei pochi che si fanno convincere ad andarsene, dopo

«NELLE MARCHE NON CI SONO STATE GRANDI DINASTIE IMPRENDITORIALI; IL MOTORE DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE È STATA LA PICCOLA E MEDIA AZIENDA»

ISTITUZIONI Ancora un momento della giornata della premiazione: Gian Mario Spacca e il sindaco Di Ruscio

piano dell’innovazione, ma contemporaneamente curi anche la qualità del lavoro in azienda, prestando particolare attenzione alle tematiche delle pari opportunità, delle condizioni lavorative, del collegamento col mondo della formazione, dell’inserimento di persone svantaggiate, delle politi-

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che di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Un imprenditore che possa essere definito un buon imprenditore, deve portare avanti il suo ruolo innovatore nell’economia, ma deve anche produrre “buona occupazione”». Le Marche sono sempre state un territorio dalla forte occupazione. Come si presenta oggi il mercato del lavoro? «Fino al 2007, in effetti, i dati rappresentavano le Marche come una delle regioni con le migliori performance nel mercato del lavoro. Gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre del 2008, rilevano un netto peggioramento così della situazione regionale, come di quella nazionale. Il tasso di disoccupazione, per il totale delle forze lavoro, è salito da 2,7 a 4,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2007. Si tratta pur sempre di una buona media, ma il nostro territorio era abituato a tassi inferiori al 3 per cento. I segnali dicono che il mercato del lavoro sta peggiorando e che nelle Marche


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PREMIATI Tutti gli imprenditori che hanno ricevuto il premio ValoreLavoro

sei mesi, al massimo un anno, tornano». Diversa invece la motivazione alla base del premio consegnato a Renergies Italia, azienda di Urbisaglia specializzata in tecnologie per l’energia sostenibile. L’azienda ha costruito un sistema di gestione integrato, certificato secondo tutti gli standard normativi di qualità, ambiente, sicurezza e responsabilità sociale (SA 8000), portando avanti un attento programma di analisi e miglioramento della salute e della sicurezza nell’ambiente di lavoro. «Alcuni dicono che le certificazioni siano solo pezzi di carta – dichiara Stefano Leoperdi, presidente della società –, ma per noi non è così, perché abbiamo nel nostro dna la cultura della

ciò avviene con una velocità maggiore rispetto a territori affini, come il Nord Est e il Nord Ovest». Quali sono secondo lei i lavoratori più in difficoltà? «Sicuramente quelli dell’industria e, di conseguenza, anche quelli dei servizi. Purtroppo in questi giorni sono diversi i casi di grandi aziende che hanno avviato procedure di cassa integrazione, che coinvolgono centinaia di lavoratori dipendenti. Ma occorre anche sottolineare che prima di arrivare a queste vertenze si sono già persi per strada tanti altri lavoratori: quelli con contratti di collaborazione o a tempo determinato, che non sono stati riconfermati. Persone che sono già uscite dal mercato». Come si sta muovendo la Regione per supportare queste fasce di lavoratori? «Da anni stiamo facendo un grande lavoro che mira a estendere le tutele e gli ammortizzatori sociali anche alle aziende sotto i 15 addetti e a quelle artigiane. Già da quattro anni abbiamo ottenuto importanti risorse per i cosiddetti ammortizzatori sociali in deroga, poi distribuite a quelle persone che avevano perso il lavoro o erano state temporaneamente sospese e che, secondo le regole nazionali, non ne avrebbero avuto diritto. Ma ormai nel nostro strano Paese, gli ammortizzatori sociali in deroga, più che una “deroga” sono diventati una

qualità. Vogliamo dimostrare a noi e agli altri colleghi che, anche in questo difficile momento nazionale e internazionale, è possibile fare impresa in un modo completamente diverso: non solo rispettando le regole e le norme, ma facendo anche un passo in più verso la sicurezza, la qualità, il rispetto dell’ambiente e del lavoro». Tra le altre aziende premiate, la Antrox, che produce impianti illuminotecnici; la Daino Shoes e la Eurosuole, attive nel calzaturiero; l’azienda agricola Petrini e la Marcozzi Srl, produttrice della tradizionale pasta di Campofilone; la Record Data e la Inkarta, aziende di servizi; la Sigma Spa, del settore metalmeccanico.

consuetudine, per cui ogni anno il governo prevede risorse per questo tipo di ammortizzatori. Anche l’attuale governo non ha potuto farne a meno, dando anzi anche la possibilità di tutelare i cosiddetti lavoratori atipici. Da parte nostra, nel frattempo, puntiamo anche sulla formazione trasversale e su corsi di formazione specifica, per preparare questi lavoratori a essere occupati in settori diversi». Se questa è la situazione generale, ci sono poi i casi positivi: le aziende che funzionano, come le dieci vincitrici del premio ValoreLavoro. Tutte hanno confermato una certa solidità, nonostante il momento difficile. Secondo lei quali sono i fattori di successo che le accomunano? «Come sempre nei momenti di crisi si registra un duplice andamento tra le imprese: ci sono quelle che “saltano” e quelle che si rafforzano. Le prime sono quelle che non hanno capito in tempo i cambiamenti che sarebbero arrivati. Le altre sono quelle che hanno avuto la capacità di anticipare i mutamenti di mercato e adeguarsi. Questo vale per le medio-grandi aziende, mentre per le piccole il vero fattore di successo è l’aver puntato su processi innovativi e su una forte coesione interna dei collaboratori. Rimboccandosi le maniche, tutte queste aziende hanno conquistato posizioni che continuano a presidiare con successo». MARCHE 2009 | DOSSIER

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LEZIONI DI IMPRESA NeroGiardini

LA VERA SCOMMESSA È RIMANERE IN ITALIA Ha deciso che la sua produzione deve essere tutta italiana ed è andato fino in fondo. «Perché credo nel fatto che l’imprenditore non debba pensare solo alle proprie tasche. Se la mia azienda ha un certo successo è grazie a tutto lo staff». Enrico Bracalente, della NeroGiardini, racconta la sua esperienza e la scelta del made in Italy al 100% CONCETTA S. GAGGIANO

ella zona fermano-maceratese il settore più importante, quello che ha portato ricchezza e benessere dal Dopoguerra in poi, è stato quello delle calzature. È nato un distretto che raggruppa tante piccole e piccolissime aziende all’interno delle quali, negli anni, si sono accumulate esperienze nella manifattura e passione per il gusto. È in questo humus che nasce nel 1998 la Bag, titolare dei marchi di calzature e accessori NeroGiardini e NG NeroGiardini. Poi sono arrivate la globalizzazione e la concorrenza extra Ue che Enrico Bracalente, volto di NeroGiardini, ha affrontato rifiutandosi di delocalizzare la propria produzione ma preferendo investire in Italia per ga-

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rantire occupazione. La competizione da queste parti si affronta ristrutturando, organizzando, pianificando e usufruendo di economie di scala e di razionalizzazione dei costi. Il risultato è un made in Italy al 100% che unisce gusto, progettazione e produzione di qualità, a un network di imprese e a un marketing efficace. «I miei tre punti di forza sono il prodotto, il servizio e la comunicazione. Per fare un buon prodotto – afferma Bracalente – bisogna poter contare su tecnici specializzati e per offrire un servizio bisogna creare una squadra solida». La qualità e l’eccellenza possono essere considerati antidoti anti-crisi? «Sono presupposti fondamentali

per affrontare questo momento. In Italia abbiamo tutte le carte in regola per realizzare un prodotto di qualità eccellente. Per questo ho scelto di continuare a produrre qui: chi meglio delle maestranze italiane può garantire qualità e prezzo concorrenziale che rispecchi lo standard qualitativo del prodotto? Non ho delocalizzato perché producendo sui mercati emergenti avrei perso la qualità e la specializzazione che caratterizzano la tradizione del nostro distretto calzaturiero». NeroGiardini è collegata a una rete di fornitori e terzisti locali. Questo finisce per ripercuotersi sui prezzi dei prodotti finali? «Chi delocalizza lo fa per una questione di interesse economico, i prodotti che vengono acquistati a prezzi bassissimi, vengono poi rivenduti sul mercato allo stesso prezzo di prodotti realizzati in Italia. Delocalizzare non è nel mio stile: ho deciso di rimanere a produrre in Italia per garantire posti di lavoro, creare ricchezza e benessere e far crescere la mia regione. Per NeroGiardini al primo posto viene l’organizzazione dell’intero sistema di produzione e distribuzione, al quale riusciamo a garantire tutta l’assistenza necessaria sia nell’ambito organizzativo che tecnico. I nostri


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MADE IN ITALY Nella prima pagina, la nuova piattaforma logistica che sorgerà a fianco dell’azienda. Sopra, Enrico Bracalente, amministratore delegato della Bag, proprietaria del marchio NeroGiardini. Sotto, un modello della collezione autunnoinverno 2008

produttori sono partner, noi facciamo affidamento su di loro e viceversa. Questo ci permette di ottenere una qualità ottimale e la garanzia di un servizio puntuale». Quanto valore ha oggi il made in Italy? «Non a caso è il terzo marchio menzionato all’estero dopo Coca Cola e Visa. Solo noi italiani abbiamo, a volte, l’incredibile capacità di sminuirlo. Il made in Italy aveva un valore ieri, lo ha oggi e lo avrà sempre. Non a caso il 70% dei beni culturali mondiali si trova all’interno dei nostri confini. Il

saper fare, il gusto, la sensibilità per il bello sono nel nostro dna. Lo avevano i nostri antenati, lo abbiamo noi e lo avranno i nostri figli». Il suo è un modello di business ancorato alla tradizione e al territorio. Va in questa direzione la realizzazione di una scuola per le maestranze che operano nel settore calzaturiero? «Questo progetto è molto importante per favorire il passaggio generazionale all’interno del nostro distretto calzaturiero. Le aziende del territorio hanno bisogno di nuove risorse specializzate, per questo motivo ho deciso, insieme ad altri imprenditori locali, di impegnarmi nella promozione di questo istituto professionale. L’intento è quello di agevolare la formazione di nuove generazioni che saranno i nuovi tecnici e i nuovi imprenditori di domani. Ho sempre sostenuto che tra la scuola e il mondo delle imprese esiste un gap che va colmato, e la responsabilità di questo dislivello è sia della politica sia di noi imprenditori. Questo discorso vale ovviamente per le maestranze di tutti i settori. Bisogna far entrare i giovani nelle nostre aziende tramite gli isti-

tuti professionali, e investire di più nella formazione perché il vivaio è importante per ogni azienda e settore produttivo. Spero che altri imprenditori seguano il nostro esempio». Quali sono i fattori critici a cui andate incontro nella concorrenza con gli altri mercati? «Senza dubbio un’azienda che decide di commercializzare qualsiasi prodotto deve competere con concorrenti dello stesso settore ma sul mercato ci sono spazi per tutti e ognuno deve sapersi ritagliare il proprio. Noi abbiamo deciso di essere profeti in patria perché riteniamo che prima di proporsi all’estero bisogna avere una buona base nel proprio Paese. Io ho sempre sostenuto che la mia azienda ha dei doveri morali e sociali nei confronti dei propri dipendenti per cui mi sono sempre guardato bene dalla tentazione di fare fatturati un po’ ballerini nei cosiddetti mercati emergenti. Ho scelto di rimanere in Italia e di vendere in Europa. Il 90% del nostro fatturato proviene dall’Italia, e il 10% dalle vendite in Europa. Il nostro piano di sviluppo quinquennale che prevede di raggiungere la soglia dei 500 milioni di euro entro il 2015, prevede di portare al 50% il fatturato italiano e spostare l’altra parte sul mercato europeo e in Russia, dove siamo presenti con nostre reti di vendita». Cosa consiglierebbe agli imprenditori marchigiani in questo momento? «Non mi sento di dare consigli, dico solo che bisogna credere nelle proprie risorse. Bisogna essere autonomi, credere in ciò che si fa ed essere creativi». MARCHE 2009 | DOSSIER

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LEZIONI DI IMPRESA Clementoni

COSÌ VINCIAMO IL GIOCO DEL MERCATO La Clementoni di Recanati è una multinazionale con sedi produttive in Asia, Francia, Germania e Spagna. Ma è anche un esempio di azienda a gestione familiare riuscita. Nessun super manager esterno ma quattro fratelli che all’avanzata cinese rispondono con la qualità e il servizio dei giochi educativi made in Italy CONCETTA S. GAGGIANO

l mondo del giocattolo tradizionalmente fa i conti dopo il Natale. Passate le feste, adesso c’è da vedere se avranno vinto i venti di crisi o l’avranno spuntata le aziende. Il rallentamento comunque c’è e i consumatori sono più attenti ma il settore, nonostante i venti non favorevoli, è una delle realtà positive del made in Italy: la produzione italiana vale 2,2 miliardi di euro. Nel 2007 la bilancia ha fatto segnare importazioni per un miliardo 526 milioni mentre le esportazioni hanno sfiorato gli 800 milioni di euro. Ma la maggior parte dei giocattoli del mondo, il 75%, è prodotto in Cina. Giovanni Clementoni, figlio del fondatore Mario e attuale amministratore delegato dell’omonima azienda, analizza l’andamento del settore giocattolo italiano e internazionale, inquadra l’evoluzione dei consumi e lo scenario competitivo del sistema, stretto tra grande capacità creativa e lotta alla contraffazione. In questo periodo di crisi economica anche il vostro settore ha

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risentito di un calo? «Gran parte della nostra produzione è concentrata sul Natale, motivo per cui le conclusioni si trarranno in questo mese. C’è si-

«LADDOVE IL COSTO DEI COMPONENTI DI UN PRODOTTO È LEGATO ALLA MANODOPERA, È GIOCO FORZA CERCARE DI ABBATTERLO ANDANDO A PRODURRE ALL’ESTERO»

curamente più apprensione rispetto agli anni precedenti, le aspettative di tutti non sono di grande respiro. È presto per dire se il calo ci sarà e ipotizzare cifre, sicuramente c’è più cautela e la sensazione di un mercato senza dubbio incerto». Quanto la creatività e la qualità del made in Italy possono rap-

presentare un antidoto anti crisi? «La creatività e l’innovazione nel nostro settore giocano la parte del leone, rappresentano la linfa vitale attraverso cui le aziende raggiungono i propri obiettivi. In questo momento la creatività è essenziale in quanto il mercato deve essere stimolato. Per ciò che concerne il made in Italy c’è da distinguere tra produzione e ideazione creativa. La Clementoni produce in Cina le componenti elettroniche dei giocattoli mentre nella nostra area industriale di Recanati c’è tutto il reparto creativo e la produzione della parte cartotecnica». Si tratta di caratteristiche replicabili e clonabili? «I cinesi sono stati molto bravi in diversi settori, tanto che sempre più spesso da terzisti sono diventati aziende primarie. Per quanto riguarda il mercato del giocattolo il rischio c’è nel lungo periodo ma si tratterebbe di una competizione quantomeno alla pari, non trattandosi di una questione di costi ma di creatività. Ormai i cinesi


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GESTIONE FAMILIARE Mario e Giovanni Clementoni, vertici della storica azienda di giocattoli marchigiana

non sono più relegati all’interno dei loro confini: viaggiano e studiano all’estero, quindi c’è da aspettarsi che diventino attori del mercato del giocattolo». Come funziona il processo creativo in azienda. Dove nasce l’idea del gioco? «Per noi è estremamente importante far nascere le idee a Recanati: inventare giochi è una competenza interna dell’azienda da 45 anni, l’idea è nostra e nasce qui. Da sempre facciamo affidamento su questa nostra capacità, che rappresenta anche la nostra carta vincente, e sicuramente in questi momenti di incertezza generale è proprio questo reparto che deve dare il meglio di sé. L’area creativa è costituita da circa 45 giovani tra i 28 e i 30 anni, che vengono introdotti in azienda con lo scopo di formare i

creativi di domani. Il lavoro è il risultato del connubio tra estro e marketing attraverso indagini e ricerche di mercato su bambini e genitori. È sicuramente un lavoro molto interessante poiché questi ragazzi sono immersi in un mondo fantastico e stimolante». Cosa vi ha spinto ad andare in Cina? «Laddove il costo dei componenti di un prodotto è legato alla manodopera, è gioco forza cercare di abbatterlo andando a produrre o a fornirsi dove il lavoro si paga meno. Se a questo aggiungiamo che in Cina si sono sviluppate delle competenze specifiche inerenti all’elettronica che in Italia scarseggiano, si capisce il motivo per cui il giocattolo ormai è prodotto per la maggior parte in Estremo Oriente».

Gran parte del mercato mondiale dei giocattoli è prodotto in Cina. In che modo la Clementoni riesce a essere competitiva? «Il mercato del giocattolo ha varie sfaccettature: ci sono i prodotti unbranding, cioè quelli che non hanno un marchio, per i quali difendersi dalle produzioni cinesi è estremamente difficile; dall’altra parte c’è l’aspetto non trascurabile, nel gioco educativo in particolar modo, del marketing e della relazione diretta che c’è tra il consumatore finale e l’azienda produttrice. Non bisogna dimenticare, infatti, che un’azienda consegue risultati importanti quando è in grado di stabilire un rapporto positivo e duraturo nel tempo con i consumatori. Fermo restando che la competizione si fa sulle cifre, sulla capacità di fare prodotti di qualità e non sulle parole, la capacità dell’azienda di portare dei messaggi coerenti alle proprie finalità tramite i propri prodotti pone le condizioni per poter resistere all’attacco di una concorrenza senza regole». MARCHE 2009 | DOSSIER

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LEZIONI DI IMPRESA Bioaesis

L’INNOVAZIONE? È GIOVANE E DONNA La loro impresa ha compiuto solo quattro anni, ma è una delle più innovative della regione Marche. Progetti di ricerca medica ad alto valore aggiunto, biotecnologie, diagnostica sperimentale. E soprattutto tanta determinazione, nonostante le difficoltà iniziali. Il caso di successo della Bioaesis, innovativa azienda tutta al femminile SARAH SAGRIPANTI

esempio della Bioaesis riassume in una sola esperienza di successo tre degli aspetti che troppo spesso mancano nella realtà produttiva italiana: imprenditoria femminile, promossa ex novo da donne molto giovani, in un settore ad alta innovazione, come quello delle biotecnologie. Le tre biologhe Daniela Bianchi, Emanuela Simonetti e Caterina Trozzi, tutte intorno ai trent’anni, nel 2004 hanno fondato a Jesi la Bioaesis Srl, laboratorio specializzato in biologia molecolare, che, pur con le sue piccole dimensioni (oggi conta nove persone in tutto) è riuscito ad affermarsi in una nicchia di mercato prima non presidiata da alcuna altra realtà sul territorio regionale, portando avanti progetti di ricerca innovativi in partnership con prestigiosi istituti di ricerca, università e anche importanti aziende. «Ci siamo incontrate per caso nel corso della nostra storia formativa e professionale – racconta Daniela Bianchi – e a un certo punto ci siamo accorte che avremmo potuto dare molto di più rispetto a quello che ci veniva proposto. Abbiamo quindi deciso di metterci in proprio, scegliendo di andare a creare ciò che all’epoca mancava nelle Marche, ovvero un laboratorio

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BIOLOGHE Lo staff, tutto al femminile, dell’azienda Bioaesis, esempio vincente di giovane e innovativa imprenditoria femminile

di medicina molecolare ad alta specializzazione». Gli inizi non sono stati facili, soprattutto per i problemi burocratici legati alle autorizzazioni necessarie per operare nel settore sanitario. «Già il settore di per sé è sottoposto a mille autorizzazioni regionali e comunali – spiega la dottoressa Bianchi – ma nel nostro caso si aggiungeva una vera e propria mancanza normativa per un laboratorio come il nostro, per il quale non esisteva ancora l’iter autorizzativo». Non sono state da meno le difficoltà legate ai finanziamenti. Se da una parte le giovani imprendi-

trici hanno usufruito di importanti fonti di finanziamento pubbliche – «i budget messi a disposizione, seppur piccoli, commisurati alla nostra dimensione sono stati un’importante fonte di respiro» – la stessa predisposizione non è stata riscontrata nel rapporto con gli istituti bancari: «Si parla tanto di dare fiducia ai giovani, ma come dovrebbe concretizzarsi questa fiducia, se non nel sostegno da parte delle banche? A parole tutti credono nei giovani, ma nessuno vuole assumersi il rischio di puntare su di loro». Oggi la Bioaesis opera princi-


LEZIONI DI IMPRESA

«SI PARLA TANTO DI DARE FIDUCIA AI GIOVANI, MA COME DOVREBBE CONCRETIZZARSI QUESTA FIDUCIA, SE NON NEL SOSTEGNO DELLE BANCHE? A PAROLE TUTTI CREDONO NEI GIOVANI, MA NESSUNO VUOLE ASSUMERSI IL RISCHIO DI PUNTARE SU DI LORO»

palmente in tre settori: biotecnologie, agroalimentare e sanitario. L’azienda porta avanti importanti progetti di ricerca precompetitiva e industriale, commissionati sia da aziende private, sia accedendo, in partnership con altre realtà, a fondi pubblici o provenienti dal settore onlus. «In questo momento sta partendo un progetto per lo

studio della sindrome metabolica finanziato dalla Lega italiana per la lotta contro i tumori, insieme a vari partner, tra i quali l’Istituto superiore di sanità e l’Università La Sapienza di Roma». La Bioaesis ha partecipato anche, in partnership con l’Istituto San Gallicano di Roma, allo studio di un vaccino contro il virus Hiv. «In quel caso – ricorda Daniela Bianchi – abbiamo messo a punto un marcatore per la quantificazione di un virus direttamente coinvolto in un tumore frequente nei malati di Aids». È proprio nella messa a punto di nuovi marcatori, ovvero nuovi sistemi diagnostici, che si concentra gran parte dell’attività di ricerca della Bioaesis. Un’attività che trova applicazione anche nel campo agroalimentare, con il controllo genetico dei prodotti destinati all’alimentazione umana e alla zootecnia, l’analisi degli Ogm e la tracciabilità genetica. Alle attività di ricerca, poi, segue la

conversione dei risultati in application, ovvero in un prodotto commerciabile. «L’application rappresenta il frutto tangibile del nostro lavoro durato anche uno o due anni – spiega Bianchi –, e può convertirsi ad esempio nella messa a punto di un brevetto». Ad oggi l’azienda ha registrato già un brevetto per un metodo di quantificazione degli Ogm all’interno di mangimi per animali. Si tratta del risultato di un progetto di ricerca finanziato da un’azienda agroalimentare leader del settore, che nelle prossime settimane entrerà in una ulteriore fase di validazione all’interno di tutti i laboratori zooprofilattici d’Italia. «Si tratta di una vera e propria innovazione a livello non solo italiano, ma anche europeo. Siamo fiduciose che il nostro brevetto avrà un riscontro positivo da questa fase di validazione e potrà essere utilizzato come metodo ufficiale a livello nazionale», conclude Daniela Bianchi.

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L’ITALIA CHE SI MUOVE Gaetano Galia

NEW DEAL ALL’ITALIANA ALL’INSEGNA DEL FARE Sfruttare tutti i mezzi disponibili per dare concretezza ai progetti infrastrutturali, cercando il coinvolgimento anche di capitali privati. Questi i presupposti del progetto Quadrilatero. Il presidente, Gaetano Galia, fa il punto dei lavori. E spiega come «favorire lo sviluppo generale del Paese» STEFANO RUSSELLO

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L’ITALIA CHE SI MUOVE

operazione Quadrilatero, meglio conosciuta come PAV, Piano di Area Vasta, è uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi del nostro Paese. Un mega intervento, che coinvolge le Regioni Marche e Umbria, le Province di Macerata e Perugia e la Camera di Commercio di Macerata. Tutti soci, insieme all’Anas, della Quadrilatero Marche Umbria Spa, la società a composizione mista che gestisce l’affare. L’assetto delle due regioni verrà rivoluzionato, attraverso la costruzione di nuove e moderne reti viarie (aree leader), circondate da centri commerciali e industriali (aree di implementazione), che dovrebbero portare, almeno stando alle previsioni dei responsabili, nuove possibilità di sviluppo e ricchezza. Un’operazione significativa, che acquista ancora più importanza in questo periodo di crisi, dal momento che le infrastrutture vengono ormai invocate da più parti

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GAETANO GALIA Presidente operativo di Quadrilatero Marche Umbria Spa. Nella pagina accanto, l’abbattimento del diaframma della galleria “La Maddalena”, effettuato lo scorso 4 dicembre

come il più efficace propulsore per la ripresa dell’economia. I lavori procedono, nonostante le proteste di alcune comunità locali interessate. Sindrome Nimby? Gaetano Galia, presidente della Quadrilatero Spa, è convinto che «di fronte a queste perplessità, occorra fornire risposte adeguate». La realizzazione del progetto cosa apporterà al territorio? «L’adeguamento della rete viaria permetterà di migliorare l’accessibilità e la mobilità, recuperando produttività economica. I nuovi centri logistici, commerciali e gli outlet, inoltre, costituiranno un forte valore aggiunto per il tessuto produttivo, creando una spinta propulsiva per lo sviluppo locale. A livello settoriale l’impatto potenzialmente più importante è relativo agli scambi commerciali e all’attività economica. Il mercato si amplierà grazie all’intensificazione degli scambi tra imprese, ma anche alla nascita di nuove realtà. La più forte integrazione tra le diverse economie regionali porterà a una maggiore competitività dei sistemi economici locali. Alcuni numeri possono dare immediata percezione dei valori di cui sto parlando. A fronte di un investimento di 2.181 milioni di euro, il progetto produrrà in 5 anni di costruzione ricadute economiche per oltre 6 miliardi. Complessivamente l’impatto economico post realizzazione è stimato in circa 450 milioni di euro l’anno, distribuiti tra le Regioni Marche e Umbria». In generale, in questo momento di difficoltà economica da più parti si invita all’investimento in infrastrutture. Un new deal all’italiana o è esage-

«SAPPIAMO QUANTO SIA IMPORTANTE COINVOLGERE NELLE SCELTE IL SISTEMA DECISIONALE LOCALE. PER QUESTO ABBIAMO PREDISPOSTO UN PROGETTO NEL MASSIMO RISPETTO DELL’AMBIENTE E DEL PAESAGGIO, CON UN’ANALISI COSTIBENEFICI MIRATA»

rato il paragone? «Nel panorama attuale di crisi finanziaria ed economica si sente spesso affermare che bisogna imprimere un forte impulso alla realizzazione di infrastrutture e che il rilancio dell’economia passa principalmente attraverso investimenti di pubbliche risorse che per essere attuate richiedono tuttavia tempi piuttosto lunghi. Il new deal deve consistere nell’impegno, serio, di dare concretezza alla realizzazione delle opere grazie ai mezzi disponibili, anche con il coinvolgimento di capitali privati, in una positiva dinamica “del fare” che favorisca il generale sviluppo del Paese. Sul fronte degli investimenti pubblici, vorrei ricordare, che la Società Quadrilatero ha ottenuto nel tempo l’approvazione e l’assegnazione di finanziamenti che oggi, unitamente alle risorse provenienti dal territorio tramite il modello del Piano di Area Vasta, permettono di dare copertura al fabbisogno finanziario degli interMARCHE 2009 | DOSSIER

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L’ITALIA CHE SI MUOVE Gaetano Galia

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L’ITALIA CHE SI MUOVE

FASE ATTUATIVA A sinistra, l’imbocco est della galleria “La Maddalena”, sulla SS 77. Qui a fianco, i cantieri in località Cancelli Tronchetti, lungo la SS 76

«ABBIAMO VOLUTO IMPRIMERE UN’ACCELERAZIONE SU TUTTI I FRONTI, PER PORTARE A COMPLETAMENTO IL PROGETTO ENTRO IL TERMINE PREVISTO DEL 2013» venti sui principali assi viari umbro-marchigiani». Quadrilatero è un progetto pilota. Crede che sarà esportabile in altre regioni? «Il Progetto Quadrilatero è stato inserito nel 2002 tra i Progetti Pilota del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del ministero dell’Economia e delle Finanze. Le sue caratteristiche permettono di esportarne l’esempio anche in altre Regioni, con i dovuti correttivi maturati dall’esperienza sin qui acquisita». A che punto sono i lavori? «In piena fase attuativa. Abbiamo voluto dare un’accelerazione su tutti i fronti, per portare a completamento il progetto entro il termine previsto del 2013. Sono stati compiuti significativi passi avanti, in tutte le opere di collegamento tra Umbria e Marche. Il 4 dicembre scorso è stato abbattuto il diaframma della galleria “la Maddalena”, lungo la Strada Statale 77. Dieci giorni dopo hanno preso avvio le attività riguardanti un altro asse viario strategico, Perugia-Ancona, con la consegna dei lavori sulla Strada Statale 318 nel tratto Pianello-Valfabbrica, mentre entro la fine di gennaio si procederà lungo la SS 76. Per il completamento dell’intero asse Foligno-Civitanova Marche, invece, è in corso la progettazione esecutiva: entro la prossima primavera si apriranno i cantieri. Infine, relativamente alla Pedemontana delle Marche, tratto

Fabriano-Muccia/Sfercia, il Consiglio di amministrazione della Società ha recentemente approvato i progetti definitivi». Come si è visto con la Tav, realizzare infrastrutture in Italia porta quasi sempre a uno scontro con le popolazioni dei territori interessati. Si può contrastare la sindrome Nimby? «Occorre che tutto il sistema legato alla realizzazione sia credibile e offra risposte adeguate e congrue ai dubbi e perplessità delle popolazioni interessate e di natura ambientale. Discorso diverso è quello a cui abbiamo assistito in questi anni, con un dibattito pubblico sulle opere infrastrutturali connotato da polemiche derivanti da sottovalutazione dei più evidenti riferimenti tecnici, economici, strategici ed ambientali, unici veri elementi per valutare la fattibilità di una infrastruttura». Quanto è importante la sinergia con gli enti locali? «L’esperienza e il buon senso hanno dimostrato quanto sia importante, ai fini realizzativi, coinvolgere nelle scelte il sistema decisionale locale. La Società Quadrilatero ha fatto tesoro di questo insegnamento, predisponendo, in condivisione con gli amministratori centrali e locali, un progetto nel massimo rispetto dell’ambiente e del paesaggio, con una analisi costi/benefici che ne dimostra la piena fattibilità e utilità. Per il nostro progetto tali condizioni sono state così ampiamente condi-

vise che i principali Enti locali fanno parte della compagine azionaria della Quadrilatero, insieme all’azionista di maggioranza Anas. Dunque credo che la chiave di volta per il Progetto Quadrilatero vada individuata nel fatto che, in tutto e per tutto, è una emanazione del territorio e da questo fortemente voluto». Lei ha dichiarato che Quadrilatero conta su un piano di sviluppo capace di cofinanziare le opere stesse. Potrebbe spiegare questo modello di finanziamento? «Il Piano di Area Vasta prevede di “catturare” parte del valore complessivo del Progetto, attraverso quattro modalità. Nelle Aree Leader è prevista la riscossione di canoni di concessione per la gestione degli insediamenti produttivi. Sugli immobili realizzati nelle Aree Leader e nelle Aree di Implementazione, è previsto il versamento da parte dei Comuni del gettito ICI e di una quota degli oneri di urbanizzazione e del contributo sul costo di costruzione. Per queste prime tre fonti di cattura di valore la Società ha stipulato con gli Enti locali interessati Accordi di Programma che definiscono impegni, tempistica e altri adempimenti riguardanti una prima tranche di otto Aree Leader approvate dal Cipe. La quarta fonte è il contributo delle Camere di Commercio che, così come disciplinato dalla legge 580 del 1993, possono aumentare il diritto annuale fino a un massimo del 20 per cento da destinare alla realizzazione di infrastrutture. In tal senso si sono già impegnate le Camere di commercio di Macerata e di Perugia, mentre manca all’appello l’ente camerale di Ancona, che è prevedibile si esprima presto sull’iniziativa». MARCHE 2009 | DOSSIER

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CONTROCANTO Maria Paola Merloni

IN POLITICA PORTO LE RAGIONI DELL’IMPRESA L’Europa non è un vincolo o un ostacolo. Ma un «driver» e un’opportunità di crescita. Maria Paola Merloni, imprenditrice e deputata Pd, indica la strada per rilanciare l’economia italiana FRANCESCA DRUIDI

gni giorno cerco di dare un contributo di concretezza, pragmatismo e operatività, rappresentando le esigenze e i bisogni del mondo che lavora e produce, il quale incarna il motore fondamentale dello sviluppo». Sono questi i valori che Maria Paola Merloni, attuale ministro ombra per le Politiche comunitarie e componente della direzione nazionale del Partito Democratico, ha portato in dote una volta entrata in politica, traendoli a piene mani dalla sua esperienza nell’azienda di famiglia, la Indesit Company, e dal suo incarico di guida degli Industriali marchigiani dal 2004 al 2006. Ma, come ha avuto modo di dichiarare in più occasioni, la deputata non si considera affatto un’imprenditrice prestata alla politica. Il suo è, infatti, un impegno a tempo pieno per costruire un’opposizione che lei stessa definisce «responsabile e intransigente». E in un programma scandito dalla volontà di non far ripiegare l’Italia in una dimensione esclusivamente nazionale, promuovendo un più efficace processo di costruzione dell’Unione europea, dal quale il nostro Paese può trarre concrete opportunità di sviluppo. A questo proposito, in quale aspetto, l’Italia dovrebbe modifi-

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care il suo atteggiamento nei confronti dell’Ue? «Non si tratta di modificare l’atteggiamento, l’Italia e gli italiani devono diventare sempre più europei. L’Europa non è un vincolo, è un driver, un’opportunità per la crescita. E il processo di integrazione e di costruzione politica europea deve marciare il più velocemente possibile». In base alla sua esperienza diretta di capitalismo a base familiare, qual è il nodo più critico nel passaggio generazionale alla guida di un’impresa? «Non disperdere l’eredità e il patrimonio costruiti nel tempo, coniugandoli con la capacità di continuare a innovare e crescere». Qual è, secondo lei, la strada da seguire per uscire dalla crisi economica? «Sostegno del potere di acquisto dei lavoratori e delle famiglie, rilancio dei consumi, nuovi e massicci investimenti in infrastrutture, sostegno alle imprese e diminuzione della pressione fiscale». Luogo comune vuole che gli imprenditori si sentano maggiormente rappresentati dal centrodestra. Lei, insieme ad altri suoi colleghi, ha compiuto una scelta diversa. Su quali valori si fonda il suo progetto politico?

«Il mio obiettivo è avvicinare il Partito Democratico alle ragioni del fare impresa. Sviluppo, merito, solidarietà. Creare ricchezza per poterla redistribuire e far crescere il Paese». Qual è stata la motivazione fondamentale che l’ha condotta verso questa scelta? «Parlando sinceramente, mi sento di essere una persona che ha avuto molto dalla vita. Per questo, insieme al mio impegno aziendale e dopo il lavoro svolto in Confindustria, ho pensato di poter offrire il mio contributo alla politica in una fase così difficile come quella che stiamo attraversando. Ho creduto nel Partito Democratico come nuovo soggetto per il rinnovamento della politica e per la modernizzazione del Paese, promuovendo le riforme necessarie. Oggi è questo il mio impegno all’opposizione».

«TROPPE VOLTE PENSO ESISTA UNA GRANDE DISTANZA TRA LE COSE CHE È GIUSTO FARE E QUELLE CHE CONCRETAMENTE SI REALIZZANO»


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MARIA PAOLA MERLONI Eletta nel 2008 alla Camera dei Deputati nella lista del Partito Democratico, è ministro ombra per le Politiche comunitarie

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CONTROCANTO Maria Paola Merloni

IMPRENDITRICE Nella foto, l’headquarter a Fabriano della Indesit Company Spa. A lato, Maria Paola Merloni, membro del Cda della società e, dal 2005, responsabile delle Relazioni istituzionali

«NEL PASSAGGIO GENERAZIONALE NON SI DEVONO DISPERDERE L’EREDITÀ E IL PATRIMONIO COSTRUITI NEL TEMPO, CONIUGANDOLI CON LA CAPACITÀ DI CONTINUARE A INNOVARE E CRESCERE»

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C’è qualcosa che non la convince della vita di Palazzo? «Troppe volte penso esista una grande distanza tra le cose che è giusto fare e quelle che concretamente si realizzano». Allo stato attuale, qual è il bilancio che può trarre dall’esperienza del governo ombra? «È un bilancio positivo. Con il governo ombra abbiamo voluto attribuire un profilo istituzionale al modo di essere opposizione, producendo iniziativa e proposta politica all’interno del Parlamento e del Paese. È un lavoro che va proseguito insieme alla costruzione e al radicamento del Partito Democratico». Il clima all’interno del Pd è al momento dominato dalle tensioni. E un recente sondaggio

registra un forte calo di consensi. «Il Partito Democratico è nato da appena un anno e l’identità politica e programmatica va costruita con un lavoro paziente e incisivo. È normale che, in una fase come questa, vi sia confronto e talvolta tensione. Penso si tratti di avere più spirito di squadra e coraggio di innovare». Donne e stanze del potere. Un rapporto in continua evoluzione. Come giudica il quadro italiano? «Il Partito Democratico ha impresso una svolta in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare per promuovere una nuova generazione di donne in politica e non solo. Il mio impegno va anche su questo fronte».



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FINANZA E TERRITORIO BancaPopolare di Ancona

DIAMO CREDITO SOLAMENTE A IDEE VINCENTI «Il rapporto tra banca e impresa è in via di evoluzione». E, oggi più che mai, va consolidato. Affinché le aziende del tessuto locale vengano efficacemente sostenute nei loro progetti di rilancio e sviluppo. È questa la via indicata da Corrado Mariotti, presidente della Banca Popolare di Ancona, per garantire il rilancio FRANCESCA DRUIDI

l riconoscimento “Milano Finanza Global Awards 2008” nella speciale categoria Creatori di valore conferito a quegli istituti bancari che hanno realizzato nel 2007 le migliori performance patrimoniali di efficienza nelle regioni di appartenenza, è stato assegnato lo scorso marzo alla Banca Popolare di Ancona. Considerando, inoltre, i dati economici relativi alle semestrali 2007 e 2008, normalizzati delle componenti non ricorrenti, l’utile netto al 30 giugno 2008 si attesta attorno ai 50,5 milioni di euro rispetto ai

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50,8 milioni del primo semestre 2007. Un risultato che può essere considerato positivo per l’istituto, valutando anche la difficile congiuntura economica esterna, resa ancora più complessa dall’andamento dei mercati finanziari, nonché dello sforzo organizzativo che ha coinvolto la banca nello scorsa primavera per le attività di passaggio al nuovo sistema informativo. Si registrano, dunque, segnali che incoraggiano a pensare alla validità del modello federale rappresentato dal Gruppo UBI Banca, nel quale la Banca Popolare di Ancona è integrata dal


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SUL TERRITORIO La sede della Banca Popolare di Ancona a Jesi. Nella pagina accanto, Corrado Mariotti, presidente dell’istituto di credito

2007. È il presidente dell’istituto, Corrado Mariotti, a evidenziare quanto per una banca, soprattutto in questo momento di ristagno economico e di generale riflessione sugli schemi finanziari adottati, sia importante contare sulla solidità e sulla forza di un grande gruppo multiregionale e, al contempo, preservare un forte radicamento territoriale e una notevole attenzione alla diversificate esigenze della clientela. Raggiungere un’adeguata massa critica rappresenta la priorità delle operazioni di fusione che hanno contraddistinto il si-

stema bancario italiano negli ultimi anni oppure vi sono altri fattori che entrano in gioco in questi “matrimoni”? «Sì, possono essere annoverati anche altri importanti fattori, quali l’accentramento, e quindi la razionalizzazione di numerose funzioni, con la conseguente riduzione di alcuni costi di struttura. Non va poi trascurata la possibilità di offerta di nuovi prodotti alla clientela, studiati unitariamente e diffusi sul territorio». Quale modello di istituto bancario è destinato, secondo lei, a imporsi nel prossimo futuro?

«Riagganciandoci al punto precedente, è fondamentale sottolineare come nel caso della Banca Popolare di Ancona non si sia trattato di una fusione, ma della costituzione di una nuova società bancaria che detiene partecipazioni di controllo in numerose banche già esistenti, mediante l’acquisizione della maggioranza del capitale. Si parla, quindi, di un modello federativo, nel quale gli istituti hanno mantenuto le proprie ragioni sociali, le proprie insegne e, pur con i vincoli di legge dell’appartenenza a un gruppo, la propria autonomia. MARCHE 2009 | DOSSIER

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FINANZA E TERRITORIO Banca Popolare di Ancona

UN PRIMO SEMESTRE POSITIVO In base ai dati relativi alla situazione semestrale della Banca Popolare di Ancona, l’utile netto ufficiale ammonta a 122,3 milioni di euro rispetto ai 42,8 dei primi sei mesi del 2007. Il personale della Banca è costituito da 1864 dipendenti rispetto ai 1876 del 31 dicembre 2007. La rete territoriale è formata da 258 filiali, una in meno dell’anno precedente, oltre a 9 sportelli per la gestione del servizio di tesoreria di enti locali.

50,5 mln

L’utile netto normalizzato registrato al 30 giugno 2008 rispetto ai 50,8 milioni di euro del primo semestre 2007. In questi due ultimi anni, i risultati delle frazioni di esercizio sono stati influenzati dalla presenza di componenti straordinarie

12,23 mld

Totale della raccolta globale che mostra un andamento positivo, se confrontata con gli 11,5 miliardi di euro registrati alla fine del 2007, facendo segnalare un +6,4 per cento rispetto a fine 2007 e un +10,22 per cento rispetto a giugno 2007

7,7 mld

Ammontare dei crediti alla clientela, in aumento rispetto ai 7,5 mld di euro del 31 dicembre 2007, con una crescita del 12,13 per cento rispetto al giugno 2007. Fondamentale la componente mutui che si attesta a 4,2 miliardi di euro e rappresenta il 54,22 per cento degli impieghi

230,6 mln

Proventi operativi della gestione economica in crescita del 4,56 per cento rispetto a giugno 2007. A incidere è il trend positivo del margine d’interesse pari a 165,2 milioni di euro in rialzo dell’11,91 per cento che ha compensato la riduzione delle commissioni nette (-3,2 per cento)

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FINANZA E TERRITORIO

GRUPPO Nelle foto, la sede della Banca Popolare di Ancona che dal 1 aprile 2007 fa parte del Gruppo UBI (Unione di Banche Italiane), nato dalla fusione fra il Gruppo BPU Banca e il Gruppo Banca Lombarda e Piemontese

Queste caratteristiche delineano un modello che in definitiva rappresenta un esempio, seguito in altre operazioni di concentrazione». Come si profila, allo stato attuale, il rapporto tra banca e imprese? «Il rapporto tra banca e impresa è sicuramente in via di evoluzione. Per essere proficuo e per soddisfare entrambe le parti, questo legame deve essere sempre più stretto, comprendendo, da una parte, un’adeguata strutturazione del credito che viene concesso, e dall’altra, una più ampia condivi-

sione dei progetti che, a mio parere, devono essere proposti dalle aziende e dai loro consulenti». Crede che si potrà verificare un’importante stretta creditizia per le piccole e medie imprese? «No, non lo credo, ma certamente si registrerà una maggiore attenzione alla clientela. Non si possono appoggiare imprese che non hanno futuro, distogliendo in questo modo risorse da quelle aziende che, invece, necessitano di accedere al credito per ottenere finanziamenti in presenza di validi programmi di sviluppo». Risparmiatori e investitori hanno perduto fiducia nel mondo del credito. Esiste una strada per recuperarla? «Questa fiducia può essere recuperata soltanto se la banca tornerà a fare la banca e, nello stesso tempo, i risparmiatori e gli investitori torneranno alla sobrietà nelle aspettative di ritorno dei loro investimenti». Com’è possibile affrontare l’attuale quadro congiunturale per superare la crisi economicofinanziaria internazionale che sta già producendo e produrrà ancora effetti sull'economia reale del nostro Paese? «È necessario che i governi s’impegnino in cospicui investimenti sul futuro, anziché guardare solo al brevissimo periodo. È altrettanto fondamentale che le imprese non perdano fiducia

nelle loro capacità, continuando a sviluppare il settore dell’innovazione, e che le banche sappiano seguirle in questi loro investimenti. In altri termini è cruciale che, seppure con sforzi e difficoltà, non si pensi solo al contingente». Dal suo punto di vista, che bilancio si può trarre sullo stato di salute del tessuto imprenditoriale marchigiano? «Purtroppo la realtà produttiva attraversa, con alcune eccezioni, un periodo di criticità. I distretti industriali, che sono stati il punto di forza del sistema regionale, oggi presentano serie difficoltà. La scarsa capitalizzazione di molte piccole imprese aggrava i problemi. Tuttavia, la forte capacità di reazione, la conduzione e la proprietà familiare delle aziende, la caparbietà degli imprenditori e dei loro collaboratori fanno sperare che, dopo una fase di sofferenza e di assestamento, potranno tornare a testa alta a essere protagonisti». Come valuta il piano salva-banche varato dal governo? «Può definirsi una sorta di assicurazione, e come tale mi auguro di ricorrere il meno possibile ai suoi benefici». Quali consigli si sentirebbe di dare in questo momento al sistema economico? «Tornare all’etica, senza dover rincorrere il risultato delle trimestrali». MARCHE 2009 | DOSSIER

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LEGALITÀ Cosimo D’Arrigo

LIBERIAMO L’ITALIA DALL’EVASIONE Secondo le ultime stime Istat, l’economia sommersa nel 2006 ha prodotto redditi imponibili sfuggiti a tassazione per una cifra compresa i 226 e i 250 miliardi di euro, che corrispondono al 15,3 per cento e il 16,9 del Pil nazionale. Queste stime e i dati dell’attività operativa della Guardia di Finanza confermano che evadere il fisco è un fenomeno ancora molto diffuso. Come spiega Cosimo D’Arrigo, comandante generale delle Fiamme Gialle FEDERICO MASSARI

ei primi dieci mesi del 2008 sono stati scoperti e verbalizzati redditi sottratti a tassazione per 24 miliardi di euro e Iva evasa per 4 miliardi di euro. Siamo perfettamente in linea con i dati dello lo scorso anno, che si era chiuso con il consuntivo più alto degli ultimi quindici anni». Così risponde Cosimo D’Arrigo, comandante generale della Guardia di Finanza, a chi gli domanda quali risultati abbiano raggiunto nel 2008 le Fiamme Gialle. A questi numeri si devono inoltre aggiungere rilievi Irap per 18,5 miliardi di euro, dato quest’ultimo già superiore a quello dell’intero 2007. In questo contesto, gli evasori totali individuati sono stati 6mila, e 29mila le posizioni lavorative non in regola accertate e, per di più, sono in sensibile crescita anche i risultati della lotta all’evasione fiscale internazionale, che ammontano già a 5 miliardi di euro, circa tre volte superiori al 2007. Per quanto ri-

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guarda il settore delle frodi, sono stati invece accertati reati di emissione e utilizzo di fatture false per un’Iva complessiva di 2,1 miliardi di euro. Dati superiori del 60 per cento rispetto a quelli dello scorso anno. «La Guardia di Finanza — sottolinea D’Arrigo — punta molto sulle indagini finanziarie perché ci permettono di elevare la qualità delle nostre ispezioni e di fondare i rilievi su elementi di fatto difficilmente contestabili». In questo mondo fatto di numeri occorre citare un ultimo dato: le verifiche eseguite tramite le indagini finanziarie online, nel 2008, sono state duemila. Il 45 per cento in più del 2007. Pubblicando l’indagine condotta da Kris Network of Businnes Ethics per conto di Contribuenti.it, il Corriere della Sera parla di un’evasione italiana pari a 10 manovre finanziarie. Quali sono i settori e le aree più interessati?

«L’evasione fiscale è un fenomeno ancora molto in voga. Trasversale a tutte le categorie economiche: non vi sono settori o aree geografiche che possono dirsi immuni, anche se naturalmente ci sono gradazioni interne di cui bisogna tener conto per indirizzare i controlli là dove più serve, perché più alta è l’evasione e l’elusione in certi ambiti piuttosto che in altri. Nell’ultimo biennio, la Guardia di Finanza ha scoperto e verbalizzato casi di evasione per un ammontare pari a 55 miliardi di euro. Le attività economiche più controllate sono quelle del terziario. Mentre invece le prime regioni come recuperi di basi imponibili sono la Lombardia, il Lazio e il Veneto». Solidità dell’economia, giustizia sociale e libera concorrenza. Quali sono gli effetti dell’evasione sul funzionamento del nostro sistema economico? «L’evasione fiscale provoca danni rilevantissimi al bilancio dello


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LEGALITÀ

COSIMO D’ARRIGO Comandante generale delle Fiamme Gialle

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LEGALITÀ Cosimo D’Arrigo

Stato e degli Enti Locali, ma ancor più grave è il danno al funzionamento del sistema economico, all’equità, alla giustizia distributiva, alla libera concorrenza tra le imprese. Vi è una sperequazione molto forte fra chi paga le tasse regolarmente e chi, non pagandole danneggia la comunità in quanto costringe i primi a subire prelievi tributari molto più alti, che assottigliano i margini di guadagno e la competitività delle nostre imprese sui mercati internazionali. La strategia della Guardia di Finanza e orientata a colpire i fenomeni evasivi più gravi, quelli che provocano i maggiori scompensi e squilibri della concorrenza di mercato, ossia, gli evasori totali e paratotali, che non presentano affatto le dichiarazioni annuali dei redditi e Iva, o le presentano con meno della metà dei redditi realmente conseguiti. Datori di lavoro che sfruttano manodopera in nero o irregolare, frodi fiscali, evasione internazionale e l’elusione delle imprese medio grandi, che utilizzano triangolazioni con Paesi “offshore” e sistemi sofisticati per aggirare gli obblighi di contribuzione». Le Fiamme Gialle sono in prima linea nella lotta all’evasione. Che strumenti e strategie adottate? «Negli ultimi tre anni abbiamo aumentato la presenza ispettiva, aumentando del 25 per cento le risorse dedicate ai servizi di polizia tributaria rispetto a prima. Le nostre pattuglie eseguano ogni anni 31mila verifiche a imprese e lavoratori autonomi, 72mila controlli di singoli atti di gestione e 750 mila accertamenti in materia di scontrini, ricevute fiscali e documenti di trasporto beni viaggianti». Con quali altri organismi di controllo collaborate? «La Guardia di Finanza dipende direttamente dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e colDOSSIER | MARCHE 2009


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LEGALITÀ

labora con tutti gli Organi dell’Amministrazione finanziaria. In particolare abbiamo rapporti di lavoro molto stretti con L’Agenzia delle Entrate per i controlli in materia di imposte sui redditi, Iva e Irap, con l’Agenzia delle Dogane per quanto riguarda il contrasto al contrabbando di tabacchi e oli minerali, con l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato per i controlli in materia di prelievo erariale unico sui giochi sulle scommesse». Quanto sono importanti le indagini bancarie e finanziarie? «Le indagini finanziarie sono uno degli strumenti più efficaci per combattere l’evasione, perché consentono di ricostruire il complesso dei movimenti di denaro, titoli e valori riconducibili ai contribuenti controllati. Tale sistema di controllo è oggi ancor più efficace. Infatti, grazie a una serie di interventi legislativi che si sono susseguiti tra il 2004 e l’anno scorso, i dati sui flussi finanziari sono acquisibili rispetto all’intera platea degli intermediari e non più solo con riferimento alle banche e alle Poste italiane, come avveniva in passato». Il livello delle truffe scoperte in Italia nell’utilizzo dei fondi comunitari è il più alto a livello europeo: due miliardi e 400 milioni di euro. Le associazioni degli industriali e i cittadini hanno chiesto più trasparenza e controlli. Quali sono le vostre iniziative? «La somma citata corrisponde all’ammontare delle truffe di finanziamenti della Politica Agricola Comune e dei Fondi strutturali europei, con annesse quote di cofinanziamenti nazionali, che i reparti della Guardia di Finanza hanno scoperto tra il 2006 e il 2008 a seguito di 4.600 indagini antifrode, che hanno portato alla denuncia di 4.772 persone, di cui 113 tratte in arresto. Nelle regioni meridionali, dove si concentra l’85

per cento delle truffe, hanno fatto salire una forte richiesta di legalità: 100 miliardi previsti dal Quadro Strategico Nazionale per la crescita e lo sviluppo del sud, costituiscono un’opportunità irrinunciabile per risollevare il Paese e dare respiro agli imprenditori onesti». L’evasione fiscale internazionale è una delle varianti più problematiche. Con quali strumenti la combattete? «L’evasione fiscale internazionale si concretizza in tutti quei comportamenti posti in essere dai contribuenti che, per ottenere risparmi tributari indebiti, ricorrono alle più favorevoli condizioni di tassazione praticate da talune legislazioni straniere, per esempio creando società di comodo in paradisi fiscali verso le quali trasferire i guadagni conseguiti. In questo contesto, i fenomeni evasivi maggiormente riscontrati, attengono, in primo luogo, al fittizio trasferimento all’estero della residenza fiscale e, in secondo luogo, l’esercizio di attività d’impresa in Italia da parte di stabili organizzazioni di società estere, la cui esistenza viene nascosta al Fisco». Quali iniziative giudica più urgenti, quelle che metterete in campo nel prossimo futuro? «Abbiamo in corso una serie di progetti di reingegnerizzazione dei processi operativi e dei prodotti del lavoro dei Reparti terrestri e aeronavali. A breve emanerò la nuova circolare che aggiorna le istruzioni operative per i verificatori, con direttive dettagliate mediante una check list di applicazione uniforme, concepite per migliorare la qualità dei rilievi sia in punto di diritto che di fatto. Inoltre, per quanto riguarda l’effettiva realizzazione dei crediti tributari innescate dalle verifiche del Corpo, stiamo sviluppando una collaborazione con la Società Equitalia per la riscossione coattiva dei ruoli d’importo più elevato». MARCHE 2009 | DOSSIER

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IN PRIMA LINEA Raffaele Guariniello

IL MIO POOL GARANTIRÀ UN LAVORO SICURO Perché in Italia si continua a morire di lavoro? Perché il sistema della prevenzione dei rischi non funziona come dovrebbe? Eppure le norme ci sono. Per far sì che il lavoro torni a essere solo una ragione di vita, ognuno è chiamato a fare la sua parte: le istituzioni, la magistratura, le aziende. E i lavoratori. Parla Raffaele Guariniello SARAH SAGRIPANTI

re sono i punti chiave per lo sviluppo di una “cultura della sicurezza” che sia veramente tale, e non un facile slogan per rabbonire gli ascoltatori: la formazione per i lavoratori, i controlli degli organi di vigilanza e un intervento della magistratura non più declamato ma finalmente realizzato». Realizzato, magari, attraverso un pool nazionale di pm specializzati, sul modello di quello antimafia. È questa la proposta di Raffaele Guariniello, il procuratore aggiunto torinese che ha seguito alcuni dei casi che più hanno fatto scalpore in tema di incidenti sul lavoro e morti bianche: il processo per la strage dei sette operai della Thyssen-Krupp di Torino e la maxi inchiesta contro i dirigenti della Eternit per le morti dei lavoratori esposti ad amianto. Ma anche tanti altri casi, meno noti ma non per questo meno gravi. Perché in Italia, di lavoro si continua a morire. Più di 800mila infortuni e oltre 26mila malattie professionali

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denunciate all’Inail nel 2007, per restare ai soli settori di industria e servizi. È il caso di parlare di emergenza in tema di sicurezza sul lavoro? «La parola emergenza farebbe pensare a qualcosa di nuovo e di diverso. In Italia, invece, il fenomeno della mancanza di sicurezza sul lavoro dura da troppo tempo. Di nuovo c’è forse solo una maggiore sensibilità e attenzione. Speriamo che questa attenzione porti ad affrontare il tema con una maggiore incisività». Secondo lei le origini del problema vanno ricercate nel nostro sistema normativo? «Non credo. Il nostro Paese si è sempre dotato di norme in materia di sicurezza sul lavoro e negli anni ha anche recepito le direttive dell’Ue, anche se non sempre alla perfezione. Proprio a fine luglio scorso la Corte di giustizia europea ci ha condannato per il non recepimento della normativa in materia di cantieri temporanei o mobili. Ma direi che la radice del nostro problema non è qui,

quanto piuttosto nel fatto che queste norme non vengono applicate con la giusta attenzione». Occorrerebbero maggiori controlli per verificare il rispetto della normativa? «Certamente. Quello della carenza dei controlli è un problema che abbiamo sempre messo in luce. Occorre che gli organi di vigilanza siano potenziati sia numericamente sia professionalmente. Ciò di cui si parla meno, invece, e che io ritengo determinante, è la carenza dell’azione dell’autorità giudiziaria. Bisogna dirlo senza falsi pudori: purtroppo in alcune zone del nostro Paese i processi penali in materia di sicurezza non si fanno; in altre zone si fanno, ma con tanta lentezza da arrivare alla prescrizione dei reati. La conseguenza di tutto ciò è che si sviluppa un senso di impunità. La legge finisce per perdere il suo valore di vincolo». In questo senso va quindi la sua proposta di istituire una procura nazionale sugli infortuni sul lavoro.


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Š Antonia Cesareo/Fotogramma

IN PRIMA LINEA

COMBATTIVO Raffaele Guariniello, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino

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IN PRIMA LINEA Raffaele Guariniello

«Occorre ragionare in modo nuovo sulla questione e la proposta che mi è sembrato giusto fare è stata quella di creare una procura nazionale, o perlomeno di livello regionale, in tema di sicurezza sul lavoro. In questo modo si avrebbe un organismo giudiziario con l’organizzazione e la professionalità necessarie per affrontare nel modo adeguato queste tematiche. Oggi in Italia abbiamo tante piccole procure con magistrati anche bravissimi, ma che si devono occupare di molte questioni diverse. Così non hanno modo e tempo di sviluppare una professionalità specifica sui temi della sicurezza. Questo significa indagini condotte con lentezza e in maniera non penetrante. Ciò va ad aggravare il fatto che i processi non vanno avanti con la dovuta rapidità». Ma il problema della sicurezza sul lavoro è anche di natura culturale. «C’è sicuramente anche questo aspetto. Quello che manca è una vera cultura della sicurezza, che sia condivisa da tutti, compresi gli stessi lavoratori, attraverso adeguati processi di formazione. Spesso vediamo che gli infortuni accadono perché i lavoratori non sono adeguatamente formati. Anche il ministro del Lavoro ha messo giustamente l’accento sulla formazione, che deve riguardare i lavoratori e, in base alle ultime disposizioni di legge, anche i dirigenti e i preposti. Ma il problema principale è definire le modalità di attuazione: se per formazione intendiamo la consegna ai lavoratori di opuscoli o manualetti, allora non serve a niente». Quale formazione occorre allora sviluppate per una vera cultura della sicurezza? «Prima di tutto occorre la verifica dell’apprendimento: la formazione non deve essere semplicemente data, ma recepita dal lavoratore. Questa esigenza, già posta dalla legge 626, è stata ulteriormente sottolineata e arricchita dal nuovo

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© Antonia Cesareo/Fotogramma

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«IN ALCUNE ZONE DEL NOSTRO PAESE I PROCESSI PENALI IN MATERIA DI SICUREZZA NON SI FANNO; IN ALTRE SI FANNO, MA CON TANTA LENTEZZA DA ARRIVARE ALLA PRESCRIZIONE DEI REATI. LA CONSEGUENZA È CHE SI SVILUPPA UN SENSO DI IMPUNITÀ»

testo unico sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro. Solo in questo modo il lavoratore può diventare non più oggetto di sicurezza, ma soggetto di prevenzione. Purtroppo fino a questo momento in Italia la formazione si è ridotta alla consegna di un opuscolo». Come si colloca l’Italia rispetto al resto d’Europa? «Dalle informazioni che abbiamo, sembra che noi non siamo all’avanguardia, ma io sono sempre diffidente sui confronti astratti. Senza mitizzare ciò che capita al-

trove, in una ipotetica classifica della sicurezza il nostro Paese non si colloca certo in testa». Poi però capitano eventi di tali dimensioni, come il rogo alla Thyssen-Krupp, che sconvolgono l’opinione pubblica e sembra che qualcosa si muova anche nel nostro Paese. Non crede che l’Italia abbia imparato qualcosa da quella vicenda? «Questo aspetterei a dirlo. Se abbiamo effettivamente imparato qualcosa, dobbiamo ancora vederlo».


© Giorgio Perottino/Fotogramma

IN PRIMA LINEA

CALCIOPOLI Il PM Raffaele Guariniello all’uscita dell’aula del Palazzo di Giustizia di Torino, dopo la lettura della sentenza del processo alla Juventus

Però, almeno a livello normativo, è stato introdotto il decreto 81 del 9 aprile 2008, il testo unico sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro. «Diciamo che la vicenda della Thyssen-Krupp ha dato un’ulteriore spinta a stendere il decreto legislativo, che ha sostituito la legge 626. Un decreto che qualcuno ha criticato, ma che io ritengo ottimo. La drammatica vicenda della Thyssen, invece, ci avrà insegnato veramente qualcosa se permetterà di attuare quella necessaria spinta verso nuovi comportamenti virtuosi. Questo si realizza con maggiori controlli, ma anche con ispettori più preparati che sappiano dare indicazioni giuste alle aziende». Lei ha seguito diverse inchieste anche in tema di amianto. Molto spesso l’accusa più grave per i datori di lavoro è quella che pur essendo al corrente dei rischi corsi dai lavoratori non facevano nulla. È effettivamente

stato così? «Nell’ambito dei diversi procedimenti in materia di amianto, abbiamo trovato documenti aziendali nei quali si comunicava di non ricevere i giornalisti che volevano parlare di amianto o di non mettere sui sacchi l’avviso di pericolo. Purtroppo è un dato emerso da tanti processi. D’altra parte, però, c’è anche da dire che le istituzioni pubbliche non sono state incisive nel loro ruolo di vigilanza: nei decenni passati non hanno saputo effettuare le giuste valutazioni e i giusti controlli». Così come è successo per l’amianto, esistono altri fattori che solo a posteriori potrebbero rivelare la loro pericolosità? «Esistono svariati rischi negli ambienti di lavoro e di vita per i quali tuttora sul piano scientifico non ci sono certezze, ma solo sospetti. In questi casi occorre quindi valutare quale tipo di azione da realizzare e vedere se siamo disposti a mettere in pratica comunque comporta-

menti preventivi. In questo senso l’esperienza dell’amianto deve indurci a essere molto cauti». Può essere più chiaro? «L’Unione europea ha indicato il cosiddetto principio di precauzione: quando c’è il dubbio, è bene comunque cercare di fare prevenzione. Ma credo che l’importante sia innanzitutto cominciare a prevenire i rischi reali e tangibili. Ci sono ancora troppe carenze e gli infortuni sono tematiche di drammatica attualità, nei cantieri e non solo». Secondo lei l’Italia è pronta per una svolta definitiva verso una cultura della sicurezza? «Oggi come oggi abbiamo un segnale positivo: quello di un maggiore interesse anche da parte dei media, cui va reso il merito di tenere alta l’attenzione su questi temi. D’altra parte abbiamo buone leggi, ma siamo ancora in una fase di inadeguatezza nella loro applicazione. C’è ancora molta retorica e pochi fatti». MARCHE 2009 | DOSSIER

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DIRITTO & LAVORO Franco Toffoletto

LIBERIAMO IL MERCATO DALLE NORME INUTILI Assumere un dipendente significa investire su di lui. E ogni investimento è un rischio. Per questo occorre fornire alle aziende gli strumenti necessari a valutare bene ogni singola questione. Franco Toffoletto spiega cosa è stato fatto, e cosa resta ancora da fare, in tema di riforma del lavoro SARAH SAGRIPANTI

emplificare e deregolamentare per dare nuovo slancio all’occupazione. Secondo Franco Toffoletto, alla guida dell’omonimo studio legale milanese che da quasi un secolo si occupa esclusivamente di diritto del lavoro, è il principio liberale che deve indirizzare le scelte strategiche su questo tema. Quello del lavoro deve essere, insomma, un mercato “light”. La stessa proposta fatta dal ministro del Welfare Maurizio Sacconi all’interno del Libro Verde La

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vita buona nella società attiva, presentato lo scorso luglio. «Il documento – commenta Toffoletto – pone dei quesiti per sollecitare un dibattito su alcune tematiche strategiche per il welfare. Una di queste è la necessità di riportare la formazione all’interno delle aziende, così da facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e realizzare quella che nello stesso Libro Verde viene definita “stabilità sostanziale”: una stabilità basata su competenze e formazione continua, piuttosto

che su norme di legge». Verso questa direzione il governo tra l’altro si è già mosso con le novità normative in tema di contratti di lavoro introdotte con il Decreto legge 112, la cosiddetta manovra d’estate, che tra l’altro ha ampliato la possibilità dei contratti a termine anche per l’ordinaria attività del datore di lavoro, ha rivisto la disciplina dei contratti di apprendistato, introducendo la formazione in azienda, e quella dei contratti occasionali di tipo accessorio, i cosiddetti voucher


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ESPERTO Franco Toffoletto, senior partner dello Studio legale Toffoletto e Soci. Presidente di Ius laboris, associazione internazionale degli studi associati che si occupano di diritto del lavoro

lavorativi. Qual è la ratio che sta alla base di questi interventi? «Si tratta di interventi mirati a incentivare la flessibilità in entrata. Considerando tutte le tipologie contrattuali attualmente disponibili, credo che oggi questa flessibilità risulti abbastanza completa, anche se forse potrebbe essere ulteriormente migliorata. L’apprendistato, ad esempio, per molto tempo è stato bloccato, sostanzialmente per questioni di natura burocratica, perché la formazione veniva demandata alle Regioni. Consentendo che la formazione aziendale sia soggetta ai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, la norma vuole incentivare lo sviluppo di questa tipologia di contratti, che, insieme a quelli di job on call, di inserimento lavorativo e di lavoro interinale, sostengono l’accesso dei giovani al mondo del lavoro». Questo basta per dare maggiore dinamicità al mercato del lavoro? «A questo punto occorrerebbe incentivare anche la flessibilità in uscita. Alla fine, infatti, il nodo problematico sta nel fatto che assumere una persona, soprattutto nel panorama italiano, fatto per la stragrande maggioranza di Pmi con meno di dieci dipendenti, significa per un’azienda assumersi un rischio troppo alto, perché non si sa quando potrà essere risolto il

contratto, nel momento in cui sarà necessario. Al contrario, uno studio professionale può prendere dieci ragazzi per un periodo di formazione, per poi sceglierne solo cinque da assumere. Ma un’azienda oggi in Italia non lo può fare. E difatti le assunzioni sono poche». Sempre in tema di modalità di ingresso nel lavoro, come valuta lo strumento dello stage? «È un altro strumento che risponde all’esigenza di incentivare l’ingresso, in parte formativo, nel mondo del lavoro». È diffusa l’opinione che talvolta sia usato impropriamente dalle aziende, per sfruttare persone qualificate a costo zero. «Rivedrei molti dei giudizi su queste tematiche. L’altro giorno ho

letto una notizia che raccontava come un imprenditore siciliano avesse offerto dieci posti di stage, e solo un ragazzo si fosse fatto avanti. Altri giovani, interpellati sul perché avessero rifiutato, hanno dichiarato che l’azienda era troppo lontana da casa. C’è sempre un rovescio della medaglia». Gli ultimi dati della Rilevazione continua sulle forze di lavoro condotta dall’Istat e riferiti al periodo aprile-giugno 2008, sottolineano come la dinamica dell’occupazione a tempo indeterminato sia assai meno marcata di quella a tempo determinato. Questo come va interpretato? «Questo conferma che il contratto a tempo determinato è percepito dall’azienda, erroneamente, come l’unica tipologia di contratto che MARCHE 2009 | DOSSIER

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LAVORO Zoom

La flessibilità non è il nemico Un bilancio non facile, ma comunque positivo. È quello che Michele Tiraboschi fa dei primi cinque anni di applicazione della legge Biagi. I prossimi passi? Meno regole formali e più attenzione alla sostanza dei rapporti di lavoro LAURA PASOTTI

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l suo punto di forza è aver introdotto in Italia una nuova e moderna cultura del lavoro che cerca il giusto equilibrio tra esigenza di tutela da parte dei lavoratori e di flessibilità da parte delle imprese. E questo, oltre che essere un successo, è una chiara sconfitta politica di quanti hanno lottato per la sua abrogazione». Michele Tiraboschi, professore straordinario di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, direttore del Centro studi internazionali e comparati “Marco Biagi” (nella foto) commenta con queste parole la legge 30. Un bilancio «comunque positivo». «In questi anni — afferma Tiraboschi — siano stati creati tre milioni di posti di lavoro regolari non è una coincidenza. Anche se non è tutto merito della Biagi». Com’era il mercato del lavoro prima dell’applicazione della legge 30 e com’è adesso? «Prima era un mercato con un’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, una bassa occupazione delle donne e degli over 50 e un mercato nero tra i più fiorenti d’Europa. Biagi non aveva torto a definirlo “il peggiore d’Europa”. Oggi il nostro mercato sta segnando una positiva inversione di tendenza. Un esempio? Da una disoccupazione a doppia cifra si è passati a un tasso tra i più bassi d’Europa. E l’occupazione regolare, di giovani e donne, cresce costantemente grazie alla flessibilità». Quali sono le priorità di un progetto di riforma di diritto del lavoro? «Meno regole formali e più attenzione alla sostanza dei rapporti di lavoro. Il formalismo giuridico ha creato tutele sulla carta, ma non ha impedito che circa il 23% del Pil si sviluppasse nell’economia sommersa. La priorità, quindi, è il contrasto al lavoro nero non solo con sanzioni e repressioni, ma prima di tutto con azioni promozionali che permettano di discernere le patologie dalle evoluzioni fisiologiche di un rapporto di lavoro. Queste ultime non sono in contrasto con la tutela del lavoratore». Quali interventi sarebbero necessari secondo lei sul mercato del lavoro italiano per fare in modo che il

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nostro Paese raggiunga gli obiettivi di Lisbona? «La strategia di Lisbona parla di un tasso di occupazione regolare pari al 80% della popolazione in età di lavoro. L’Italia è al 60%. Prima della legge 30 la percentuale era al 50. Serve, quindi, uno sforzo straordinario per arrivare all’obiettivo indicato e per farlo occorre incrementare i tassi di occupazione regolare di donne e giovani attraverso politiche di inclusione». Nella selva dei nuovi contratti e delle diversità di trattamento applicate anche all’interno della stessa azienda, come è possibile dare spessore alle competenze del singolo lavoratore? «I contratti di lavoro flessibili e temporanei non sono buoni o cattivi. Dipende da come vengono utilizzati. Essi devono rappresentare un ponte per una stabilità vera e non formale ma fondata su un reciproco interesse tra lavoratore e impresa. Dare spessore alle competenze del lavoratore non è compito solo dell’impresa, ma anche della scuola e del sistema formativo. Da parte sua il lavoratore deve investire costantemente in formazione e aggiornamento. Una maggiore integrazione tra scuola e lavoro e un apprendimento continuo sono le uniche chiavi per il successo». La questione degli inquadramenti è una delle sfide che sindacati e imprese devono affrontare. «I contratti collettivi sono fermi all’inquadramento unico del 1973. La verità è che la realtà ha superato ampiamente gli inquadramenti contrattuali e legali. Questa è una delle sfide della riforma delle relazioni industriali e degli assetti della contrattazione collettiva». Quale deve essere il ruolo del sindacato nell’attuale mercato del lavoro e che cosa si aspetta da questo governo in materia di lavoro? «Dal sindacato mi aspetto la capacità di scommettere sul futuro senza volgere la testa verso modelli del passato ormai superati. Dal governo, invece, mi aspetto la capacità di applicare fino in fondo la legge Biagi. Non servono leggi nuove. Occorre applicare quelle esistenti e verificarne fino in fondo gli effetti attraverso l’uso di moderni e adeguati meccanismi di monitoraggio in un benchmarking sistematico con le migliori prassi straniere»


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permetta una via d’uscita. In realtà basterebbe riconoscere le fattispecie già esistenti. Il contratto di inserimento è un contratto a termine, proprio per permettere all’imprenditore di valutare il rischio dell’investimento sul nuovo dipendente. È necessario dare alle aziende la possibilità di prendersi questo rischio, potendone però uscire. Perché se un’azienda assume dei dipendenti e poi arriva una crisi economica, come quella attuale, che rallenta l’attività, l’imprenditore non può vedersi costretto ad avviare un’operazione di licenziamento collettivo. Il tutto tra l’altro senza assistenza, soprattutto per le aziende piccole». A questo proposito, quali interventi normativi ritiene più urgenti in tema di mobilità? «Bisognerebbe riscrivere la disciplina del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. C’è un progetto di legge in questo senso, nel quale si dice in effetti quello che di fatto è: il giustificato motivo dovrebbe essere riportato alle necessità aziendali di ridimensionamento, e non a motivazioni legate alla singola persona. E queste esigenze aziendali vanno intese non necessariamente come crisi, ma anche come crescita. L’azienda può infatti avere necessità di cambiare la propria organizzazione per crescere: non ha più bisogno di quelle quat-

«ASSUMERE UN DIPENDENTE IN ITALIA SIGNIFICA AFFRONTARE UN RISCHIO TROPPO ALTO, PERCHÉ NON SI SA QUANDO POTRÀ ESSERE RISOLTO IL CONTRATTO DI LAVORO»

tro persone, ma di altre quattro». E per quanto riguarda l’introduzione dei voucher lavorativi? «È uno strumento, quello dei contratti occasionali di tipo accessorio, che mi piace molto. Credo sia una soluzione intelligente, anche se non necessariamente le cose intelligenti hanno successo. Da parte dei datori di lavoro, infatti, c’è sempre una difficoltà al cambiamento e purtroppo spesso queste iniziative sono burocraticamente molto complesse, cosa che può essere un disincentivo al loro utilizzo. Insomma, l’idea non è male, ma in realtà non è facile farla funzionare in maniera semplice. Inoltre non so quanta parte del lavoro sommerso possa contribuire a far emergere, ma in effetti può dare un contributo. Tra l’altro, nella manovra d’estate è stata ampliata la possibilità d’uso di questo strumento, eliminando quelle limitazioni un

po’ naif che erano prima previste: si parlava ad esempio dell’utilizzo dei voucher per “piccoli lavori domestici”, una dicitura qualitativa poco chiara che condannava all’insuccesso la normativa». L’altro grande tema caldo in questo periodo è la discussione attualmente in atto in Confindustria sulla riforma dei contratti collettivi. Perché secondo lei esistono tante difficoltà a trovare un accordo condiviso? «Questo è un argomento delicatissimo e occorre aspettare come si evolverà la situazione. Da parte mia, sono sempre stato dell’idea che bisogna attuare l’articolo 39 della Costituzione. Ci si prodiga tanto per diffondere la conoscenza della Costituzione, quando spesso essa non viene nemmeno attuata. Nell’articolo 39, di cui nessuno parla mai, c’è già scritto tutto: i contratti collettivi hanno efficacia erga omnes se vengono stipulati da una rappresentanza unitaria, costituita dai sindacati in proporzione dei loro iscritti. Se si volesse iniziare a fare le cose seriamente, occorrerebbe dire prima di tutto quanti sono gli iscritti ai sindacati per poi costituire una rappresentanza unica. Invece questi vi si oppongono, perché ognuno vuole fare di testa sua senza dichiarare effettivamente il numero dei propri iscritti». MARCHE 2009 | DOSSIER

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IL PUNTO Claudio Siciliotti

LE RISORSE DEL PAESE NON VANNO DISPERSE Evitare di accrescere il debito pubblico. Con provvedimenti poco incisivi. Tra questi anche il “bonus famiglia”. Che è dispersivo. Non aiuta più di tanto i consumi. E presenta alcune anomalie dal punto di vista fiscale. Secondo Claudio Siciliotti, per superare la crisi sarebbe più utile sostenere economicamente e finanziariamente le Pmi MARILENA SPATARO

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IL PUNTO

CLAUDIO SICILIOTTI Presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili con mandato dal 2008 al 2012

ono vari e apprezzabili i tentativi che il governo, attraverso una serie di provvedimenti, sta cercando di mettere in atto per affrontare l’attuale crisi. «Ma nel complesso non si tratta di interventi sufficientemente incisivi» sottolinea Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. Secondo Siciliotti, infatti, la sensazione che in merito si ricava, specialmente dopo l’abrogazione dell’Ici sulle prime case e la scelta o necessità di farsi carico delle passività di Alitalia, è che il nuovo esecutivo abbia davvero poche risorse da mettere sul piatto «salvo naturalmente ricorrere a un tangibile aumento del debito pubblico». «Da più parti è stata rimproverata al ministro Giulio Tremonti proprio questa chiusura rispetto all’ipotesi

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di sfruttare la maggiore flessibilità sul debito e sugli aiuti di Stato che l’Europa sembra incline a riconoscere agli Stati membri per meglio fronteggiare la crisi» sottolinea il presidente, che nell’analizzare le misure in atto, illustra il suo punto di vista su come muoversi per trovare soluzioni «anticrisi» efficaci e durature. Qual è il suo giudizio sugli attuali provvedimenti adottati dal governo per combattere la crisi, con particolare riferimento a quelle di natura fiscale? «Non vorrei alimentare equivoci. Le misure adottate sono forse insufficienti, ma trovo condivisibile che, nonostante il via libera europeo, il governo non abbia voluto prendere in considerazione l’ipotesi di intervenire in modo più consistente a prezzo di un aumento significativo del debito pubblico. La flessibilità europea,

infatti, non ci regala nuove risorse, ma soltanto la possibilità di spendere oggi le risorse di domani. In una situazione di straordinaria difficoltà come quella attuale, una simile eventualità può senz’altro essere presa in considerazione, soprattutto ora che è possibile metterla in atto senza entrare in conflitto con l’Europa, ma deve esserne chiara la finalità: spendere oggi le risorse di domani appunto per garantirsi un domani, non semplicemente per alleviare i problemi contingenti e immediati del presente, arrivando al paradosso di rendere ancor più incerto il suo futuro. Bene fa dunque il governo a voler riflettere a fondo prima di “allentare i cordoni della borsa”». Quindi si può ricorrere all’indebitamento come extrema ratio e comunque solo nell’ottica di ottenere risultati sul medio e MARCHE 2009 | DOSSIER

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IL PUNTO Claudio Siciliotti

IL TEAM Siciliotti e il consiglio dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili al completo

lungo periodo, senza cedere alla tentazione di supportare esclusivamente la spesa corrente? «Esatto. Abbiamo tutti giustamente stigmatizzato in questi mesi i comportamenti di molti top manager di banche d’affari che, per massimizzare i rendimenti delle proprie aziende nel breve periodo, e portarsi così a casa incentivi milionari, hanno portato le medesime sull’orlo del baratro, se non nel baratro stesso. Sarebbe suicida vedere questo schema comportamentale replicato su scala politica e sindacale. Proprio perché apprezziamo la scelta del governo di non voler percorrere con adeguata ponderazione la via dell’incremento del debito pubblico, come strumento mediante il quale aumentare le risorse disponibili per fronteggiare la crisi, dobbiamo però maDOSSIER | MARCHE 2009

nifestare un po’ di delusione a fronte della eccessiva dispersione delle limitate risorse che si è inteso rendere disponibili con i cosiddetti provvedimenti anti-crisi». Che cosa intende con “eccessiva dispersione”? «Significa che, quando le risorse non abbondano, bisognerebbe cercare di privilegiare interventi mirati, così da non determinare effetti di dispersione che, alla fine dei conti, tendono ad azzerare l’effettiva idoneità di un intervento a raggiungere gli obiettivi dichiarati». Si riferisce agli obiettivi dichiarati di sostenere i consumi delle famiglie e l’operatività delle imprese? «Come più volte detto e scritto in recenti occasioni, dove si fosse dovuto scegliere e, conti alla mano, si sarebbe davvero dovuto

scegliere, sarebbe stato preferibile privilegiare il sostegno all’impresa, specie quella piccola e media. Non per un interesse di parte, poiché siamo noi stessi lavoratori e non imprese, ma perché siamo consapevoli della centralità della piccola e media impresa nel tessuto economico di questo Paese, almeno quanto siamo consapevoli della nostra centralità nel rapporto che lega questo mondo con il resto del Paese. Io sono friulano e ricordo che quando ci fu il tragico terremoto del Friuli il motto di tutti i friulani era: prima ricostruiamo le imprese e dopo le case. Non perché in Friuli ci piaccia dormire all’addiaccio, ma semplicemente perché, se non c’è il lavoro, la casa non ce la si può permettere e, se anche te la regalano, non si riesce a mantenerla. Questione di


IL PUNTO

filosofia di vita, oserei dire». Eppure anche gli aiuti alle famiglie mediante i cosiddetti “bonus” possono essere letti nell’ottica di un indiretto supporto alle imprese, posto che, senza i consumi delle famiglie, le imprese chiudono. «È indubbio che le imprese, per sopravvivere, abbisognano che non si verifichi un crollo nei consumi, ma se non vi sono le risorse che consentono di impostare un adeguato piano di sostegno ai consumi, allora sarebbe meglio concentrare quelle poche risorse direttamente sul sostegno finanziario ed economico delle imprese. Il cosiddetto “bonus famiglie”, dato il suo ammontare, può qualificarsi come un sostegno alla sopravvivenza, piuttosto che ai consumi». Ritiene il “bonus famiglie” sia un provvedimento che, in ragione della sua entità, sia utile? «Assolutamente no. Il “bonus famiglie” rappresenta un apprezzabile sostegno alla sopravvivenza elementare di destinatari per i quali anche somme sostanzialmente modeste possono fare la differenza. Resta il fatto però che si tratta di un intervento che ha poco a che vedere con la fiscalità anti-crisi e che semmai attiene alla diversa questione del sostegno al reddito dei ceti più deboli: problematica senz’altro merite-

vole della massima attenzione, ma che in larga parte prescinde dal fatto che sia in corso una fase di recessione economica. Un lavoratore dipendente con familiari a carico che guadagna 15mila euro e non arriva a fine mese, non è che non ci arriva perché c’è la crisi, bensì appunto perché guadagna 15mila euro e ha familiari a carico. Il peggioramento della sua condizione che può derivargli dalla crisi è che, per effetto di essa, l’azienda in cui lavora sia costretta a chiudere ed egli si ritrovi senza nemmeno il suo stipendio». Sulla questione della discriminazione che viene operata tra coloro che hanno sottoscritto mutui per la casa a tasso fisso e coloro che li hanno invece sottoscritti a tasso variabile, qual è il suo punto di vista? «Il tema mi appassiona relativa-

mente, anche perché, se di provvedimenti discriminatori bisogna parlare, allora è proprio sul “bonus famiglie” che bisogna soffermarsi. Infatti, nell’istante in cui, tra i requisiti per poterne fruire, si prevede che nel reddito del nucleo familiare non devono confluire redditi di lavoro autonomo e di impresa, si lancia il seguente messaggio subliminale: la povertà di chi dichiara redditi di un certo tipo sarebbe vera, quella di chi dichiara redditi di altro tipo no. Non è difficile immaginare da dove siano arrivate le pressioni sul governo per la costruzione di una norma che, seppur in via implicita, sostituisce il principio di perequazione fiscale con quello della discriminazione fiscale, nel nome di un’inaccettabile presunzione implicita di evasione, senza per altro possibilità di prova contraria da parte del cittadino». MARCHE 2009 | DOSSIER

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