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GENERATORI DI VALORE RESPONSABILITÀ MANAGERIALE

Luca Cordero di Montezemolo

RICOSTRUIAMO LA FILIERA DEL MERITO Servono regole e concorrenza. Competenza e competitività. Passa per queste variabili la via dello sviluppo italiana. Perché inizia a diffondersi oggi la sensazione che il tempo delle non regole e dell’eccesso abbia bisogno di essere riequilibrato in favore di un maggior rispetto dell’etica e delle capacità. Perché, avverte Luca Cordero di Montezemolo, «il costo del non merito è ancora molto alto» CONCETTA S. GAGGIANO

ompetenza per uscire dalla crisi. Anche perché la mancanza di talento costa al nostro Paese tra il 3% e il 7,5% del Pil, dato riferito alle disfunzioni dell’istruzione secondaria e universitaria e della ricerca che, in valori assoluti, è compresa tra 64 e 157 miliardi di euro di ricchezza nazionale non prodotta a causa del non merito. Molti dei problemi oggi irrisolti in Italia ruotano attorno alla questione della debolezza della classe dirigente, che dovrebbe avviare e governare l’atteso cambiamento della società civile e della politica del Paese, presentandosi come “ponte” tra società e

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politica. Oggi, servirebbero più investimenti in conoscenza e un cambiamento di mentalità a tutti i livelli, nella famiglia, nelle istituzioni, nella politica, nell’industria. Sarebbe questo il punto di partenza per creare una visione condivisa e rinnovare, a partire da essa, una classe dirigente “di spessore”, regista del cambiamento e della modernizzazione, che - è chiaro ormai per tutti - non verranno più da soli. La grande crisi economica impone un ritorno al senso di responsabilità, al merito, all’interesse generale. Ha fatto venire a galla la certezza che per emergere dal guado il Paese debba esprimere una vera classe dirigente, intesa come insieme di per-


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SUPER MANAGER È presidente della Ferrari dal 1991, della Fiat dal 2004, dell'università Luiss e della Ntv. Ha fondato Charme, fondo finanziario imprenditoriale, con cui nel 2003 ha acquisito Poltrona Frau e, nel 2004, Ballantyne, cui si sono poi aggiunti i marchi Cappellini, Thonet e Gufram

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IL MAGO CHE HA RIMESSO IN PISTA L’ITALIA La formula Marchionne è semplice: velocità di azione e snellimento della burocrazia. Così ha vinto in Fiat Le prime parole da lui pronunciate appena nominato amministratore delegato della Fiat sono state: «Fiat ce la farà e tornerà a essere quella che è stata. Sul concetto di squadra ho vissuto tutta la mia vita. È la base su cui creerò la nuova organizzazione». A Sergio Marchionne il gruppo automobilistico torinese diede da subito pieni poteri e il manager italocanadese quelle promesse le ha mantenute, rinnovando la squadra e ridefinendo gli obiettivi. La Fiat è rinata e l’artefice è il mago del Lingotto o Mr Pullover, come lo chiamano gli americani. Grazie alla sua determinazione, Sergio Marchionne è riuscito a rimettere in carreggiata la Fiat e a portarla nella stanza dei bottoni del sistema automobilistico mondiale. Rapidità nell'individuare e nel perseguire gli obiettivi e riduzione delle attese, senza farsi trovare impreparati quando sarebbe stato il momento di scendere in campo. È così che la casa automobilistica di Torino è riuscita a concludere il matrimonio con gli americani di Chrysler, e lo ha fatto addirittura ottenendo l’aiuto del governo degli Stati Uniti. All’orizzonte ci sono altre operazioni finanziarie a iniziare dall’alleanza con i tedeschi di Opel. Per queste ragioni Luca Cordero di Montezemolo ha citato l’ad di Fiat indicandolo come modello positivo per merito e vision strategica.

sone responsabili in grado di guidarlo e di rappresentarlo degnamente anche all’estero. Ma quali sono le skill che la classe dirigente deve possedere? Capacità di vision, autorevolezza, leadership e senso etico. La complessità delle sfide necessita che il manager sappia prefigurare gli scenari futuri a medio termine entro i quali collocare le scelte. A questa, si deve accompagnare l’abilità di fare condividere scenari e obiettivi. Ma lo sfondo necessario alle prime è costituito dal senso di responsabilità pubblica, dal senso delle istituzioni e del bene comune. E questo deve coinvolgere sia chi occupa

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posizioni di rilievo nell’ambito delle istituzioni pubbliche quanto delle imprese. La crisi economica può offrire una grande opportunità per rivedere i valori manageriali che il paese è riuscito a offrire finora. Le competenze e il merito soprattutto, perché «il costo del “non merito” nel nostro Paese è ancora molto alto», ha ribadito Luca Cordero di Montezemolo intervenendo, come presidente della Luiss, alla presentazione del terzo rapporto “Generare classe dirigente” realizzato dall’Ateneo e da Fondirigenti. Si tratta del terzo appuntamento annuale di una riflessione avviata nel

2007 sui temi della formazione, della selezione e del ricambio della classe dirigente, che ha visto impegnati esponenti della Luiss, dell’Università Politecnica delle Marche, dell’Università di Bologna, della Sapienza, della Liuc e della Società Ermeneia. Nel sottolineare che occorrono «regole, merito, concorrenza e solidarietà», Montezemolo ha fatto appello alla responsabilità, che impone a ognuno di fare la sua parte: ciascuno «deve fare bene il proprio mestiere ed essere giudicato per quello che fa e per come lo fa». In definitiva, in questi momenti «dobbiamo guardare avanti, oltre


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DA EREDE IN PECTORE A LEADER SUL CAMPO Ha iniziato a vent’anni. Oggi è presidente di tutto, tranne di Fiat, che preferisce lasciare ai manager Nel 1997 John Elkann è entrato nel consiglio di amministrazione della Fiat a soli 22 anni, la stessa età che aveva il nonno quando entrò in cda nel 1943. Oggi a 33 è presidente di Exor, holding nata dalla fusione Ifi-Ifil, primo azionista del Lingotto, di cui è vicepresidente. Delfino prediletto dell’Avvocato, ha preso sulle sue spalle l’eredità della dinastia Agnelli, traghettandola durante gli anni più duri dopo la scomparsa di Gianni Agnelli. Si è spesso definito un liberale non dottrinario e un sostenitore del libero mercato e della competizione tra operatori. Convinto che un leader «lo si vede da come reagisce alle difficoltà e da come sa cogliere le opportunità», ha dimostrato in questi anni di non sedere sull’impero Agnelli solo per il suo cognome, ma per le sue doti manageriali conquistate sul campo – dopo la laurea in Ingegneria gestionale al Politecnico di Torino ha fatto varie esperienze nel gruppo Fiat – e per la sua lungimiranza. Ne sono un esempio la decisione di non cambiare i vertici Fiat, l’aver lasciato carta bianca a Marchionne nelle trattative del gruppo con Chrysler e Opel, il risanamento dei bilanci della Juventus e la risalita in un solo anno dalla serie B alla A della Juventus, e l’aver spinto e ottenuto che alla direzione del quotidiano La Stampa fosse chiamato un uomo nuovo, Mario Calabresi.

la crisi economica: sistemare le aziende e migliorare le università». Questo perché la classe dirigente non si può più improvvisare, ma deve essere adeguatamente preparata. Fatto ciò, si deve lavorare affinché la formazione sia continuativa. E sono gli atenei le sedi più adatte ad assumere un simile ruolo. O, almeno, l’aspettativa è che le università si facciano carico di questo impegno. Di più, da diverse parti si sente la necessità di creare luoghi interdisciplinari, dove sia possibile per la classe dirigente avere un confronto e una formazione a 360 gradi. A Montezemolo fa eco Pier Luigi

Celli, amministratore delegato e direttore generale Luiss Guido Carli. Per il manager romagnolo la nostra classe dirigente non può essere giudicata in generale. «Abbiamo una segmentazione per settori, dalla politica ai media, ognuno dei quali ha un suo gruppo dirigente che di solito non è mai trasversalmente spendibile in altri settori. Il problema di questi grandi invasi è che sono molto autoreferenziali e autoprotettivi e quindi, in realtà, molto più basati sulle connessioni di appartenenza che non sulle competenze o sul merito. Sono aree in cui la cooptazione è prevalente e, quindi, il

modello non è di per sé di tipo meritocratico». Perciò, la classe dirigente che si appresta a dirigere il Paese e le sue realtà produttive deve essere competente, responsabile, attenta al bene comune, in grado di guidare la società verso un nuovo ciclo di sviluppo, verso i cambiamenti necessari per confrontarsi e competere con il mercato internazionale. L’esigenza è quella di creare, secondo Celli, «una filiera del merito, che parta dalla scuola e arrivi all’impresa, con omogeneità di snodi e trasversalità anche di modelli e contenuti, di processi e non semplicemente con interventi segmentati

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«L’ESIGENZA È QUELLA DI CREARE UNA FILIERA DEL MERITO, CHE PARTA DALLA SCUOLA E ARRIVI ALL’IMPRESA, CON OMOGENEITÀ DI SNODI E TRASVERSALITÀ ANCHE DI MODELLI E CONTENUTI, DI PROCESSI E NON SEMPLICEMENTE CON INTERVENTI SEGMENTATI SETTORE PER SETTORE, CHE NON AVREBBERO POI RISULTATI DI QUALCHE RILIEVO»

settore per settore, che non avrebbero poi risultati di qualche rilievo». Da qui la volontà di individuare processi migliorativi di selezione, formazione e incentivazione della leadership futura, ma anche reali opportunità di affermazione di un nuovo ceto dirigente, affinché i modelli e le ipotesi auspicate non rimangano solo teorici. «Poi occorre – sottolinea – operare molto sulle cose: far succedere le cose e non semplicemente fare discorsi». Attorno alla classe dirigente ruotano le questioni più urgenti per lo sviluppo e per il recupero della competitività del nostro Paese, come evidenzia l’attenzione mediatica nazionale degli ultimi mesi. E ai giovani, dice «bisognerebbe dare un messaggio in cui possano credere, in cui i comportamenti siano coerenti con i discorsi che si fanno». Di «regole, concorrenza, solidarietà quali temi su cui lavorare per cogliere la sfida del cambiamento e metterci nelle migliori condizioni per vincere» parla anche Luca Cordero di Montezemolo. «Occorre cominciare a valutare ognuno di noi sui risultati – afferma – e l’opportunità di questo cambiamento reale, che è un cambiamento culturale, è offerta proprio dalla crisi economica. I momenti di crisi, infatti, sono quelli che servono a reagire ancora di più, a guardare avanti. Mai come in questo momento, dobbiamo affrontare i problemi di fondo». Poi il presidente della Fiat ha citato il modello virtuoso del gruppo torinese. Riferendosi all’amministratore delegato Sergio Marchionne, Montezemolo ha sottolineato: «Non è certamente stato scelto perché era figlio di qualcuno o della zia di qualcuno». Ancora Montezemolo ha individuato proprio nella Fiat un modello capace di esprimere qualità manageriale e di reagire agli stimoli esterni. La dimostrazione è tutta nel percorso degli ultimi anni. Dalla montagna di debiti al risanamento. Dalla crescita costante fino a diDOSSIER | PIEMONTE 2009

ventare il baricentro del nuovo assetto dell’industria automobilistica mondiale con l’acquisizione di Chrysler prima e con le trattative in corso per Opel. Perché solo facendo leva sul merito possiamo avere «un Paese più bello, migliore» ma occorre «uno sforzo comune che questa crisi economica deve ulteriormente stimolare: dobbiamo uscire dalla situazione di un Paese che appare bloccato, ognuno deve fare la sua parte, con impegno, con passione e con la consapevolezza di essere sempre giudicato per quello che fa». Innovare, innovare, innovare, dunque. Poiché è l’unica via perseguibile per costruire una classe dirigente nuova, e dare una maggiore credibilità al sistema Paese. E l’ex presidente di Confindustria non fa sconti a nessuno. «In Italia – avverte – manca uno spirito di squadra. Perché c’è chi rema e chi sta a poppa e approfitta di chi rema, ma di persone che remano ce ne sono tante. L’Italia merita di crescere – sottolinea – con un ritorno all’economia reale e soprattutto ai giovani. Occorre pensare nei fatti alle nuove generazioni, investendoci e credendoci. Ma anche creando un ambiente sano e competitivo che permetta di premiare chi merita, perché chiunque nel Paese può creare ricchezza». Per questo, secondo Montezemolo, è importante parlare di classi dirigenti al plurale. «Perché ognuno di noi ha una responsabilità nel proprio lavoro. Noi università abbiamo l'obbligo di mettere i giovani nelle migliori condizioni per crescere. I dati dimostrano che nei giovani c’è voglia di pensare al cambiamento e all’interno della nostra università l’impegno in tal senso è altissimo. Il Paese sta cambiando - conclude - e dobbiamo intercettare il cambiamento. Ognuno deve fare la sua parte, con impegno, professionalità, passione e con la consapevolezza di essere sempre giudicato».



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ETICA DELLA FINANZA Francesco Capriglione

FRANCESCO CAPRIGLIONE Professore di Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari presso l’Università Luiss di Roma. I suoi ultimi libri, pubblicati per i tipi di Cedam, si intitolano Intermediari finanziari, investitori, mercati. Il recepimento della Mifid e Crisi a confronto (1929 2009). Il caso italiano

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ETICA DELLA FINANZA

IL PUNTO D’INCONTRO TRA ETICA E MERCATO La finanza deve riscoprire valori che riportino la correttezza nelle negoziazioni. Per farlo, occorre innovare il sistema di vigilanza pubblica a livello europeo. Ne è convinto Francesco Capriglione, ordinario di Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari alla Luiss LORENZO BERARDI

origine greca della parola “èthos” rimanda a condotta, carattere, consuetudine. Una prerogativa che dovrebbe caratterizzare i molteplici campi dell’agire umano, nel rispetto non solo di regole, ma anche di valori condivisi col prossimo. La recente crisi internazionale ha posto l’accento sull’assenza o comunque sulla carenza di etica in vaste aree del sistema economico e finanziario globale. Un fenomeno che ha innescato un domino di conseguenze che dagli Stati Uniti ha investito il resto del mondo, senza risparmiare l’Europa. «L’eticità in campo finanziario non può essere confusa con la rinuncia al profitto, con un agere caritatevole oppure con la mancanza di competizione – sottolinea Francesco Capriglione, ordinario di Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma –, essa significa correttezza dei comportamenti, avere rispetto delle controparti negoziali nella prestazione dei servizi finanziari». Come riassume il professor Capriglione: «C’è bisogno di comportamenti che sappiano conformarsi alle regole esistenti, avendo riguardo alla dignità delle persone».

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Cosa è per lei l’etica in ambito finanziario e quali dovrebbero essere le regole e i principi fondanti dell’economia e della finanza a livello internazionale che alcuni fra operatori del mercato, intermediari e agenzie di rating hanno smarrito e che le autorità di controllo nazionali non sono riuscite ad applicare appieno ed ora tentano di recuperare? «Anni fa ho realizzato una ricerca sulla tematica dell’etica nella finanza, inquadrandone l’essenza come regola fondamentale della convivenza. In tempi recenti, ho dedicato un’altra riflessione all’ Etica della finanza, mercato, globalizzazione, rappresentando la necessità di un’apertura del capitalismo alle istanze sociali. L’etica del mercato deve portare al superamento delle cause che rendono intollerabile l’abuso della razionalità economica, sicché principio fondante di questa deve essere la ricerca di un criterio regolatore, di un ideale di vita, che conferisca valore assoluto alle nostre condotte e che si compendi nel rispetto degli altri. Da qui la necessità di non prevaricare il prossimo, evenienza che nei rapporti finanziari può facilmente accadere. Il nostro legislatore è consaPIEMONTE 2009 | DOSSIER

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ETICA DELLA FINANZA Francesco Capriglione

pevole del fatto che, a causa delle asimmetrie informative che caratterizzano la relazione intermediario-investitore, quest’ultimo si viene a trovare in una posizione di debolezza nei confronti del primo. Nell’art. 23 del T. U. della finanza si rinvengono, infatti, regole che impongono obblighi di particolare diligenza agli intermediari, nel presupposto che le banche non possono tenere disinformata la clientela dei rischi connessi all’operazione che questa si accinge a compiere. Al contempo, la normativa impone all’intermediario “la profilatura” del rischio del cliente, affinché gli sia offerto un prodotto adeguato. Queste regole di certo non possono essere definite etiche, la loro presenza nel diritto positivo risponde a principi di civiltà giuridica e pone rimedio alle criticità di un mercato che, talora, si risolve in una cinica applicazione del principio homo homini lupus». Lei sostiene che per prevenire l’insorgere di una futura crisi finanziaria ed economica occorra stabilire un’univocità di regole perlomeno fra i Paesi dell’Ue. Quali dovrebbero essere queste regole e perché sarebbe difficile applicarle anche su scala internazionale ai Paesi del G8 e del G20? «A livello internazionale, la crisi è stata affrontata dai governi in una duplice direzione. In un primo momento molti Stati hanno provveduto al salvataggio del proprio sistema creditizio e finanziario, preoccupandosi di assicurare quella liquidità necessaria ad impedire che le maggiori imprese finanziarie andassero incontro a default. Ecco perché è dato riscontrare dagli Stati Uniti a numerosi Paesi europei la presenza di provvedimenti governativi che, in varie modalità, cercano di subvenire all’esigenza di liquidità degli intermediari. Questo, peraltro, è stato attuato con interventi contingenti e comunque non destinati a risolvere in maniera comDOSSIER | PIEMONTE 2009

piuta l’attuale situazione patologica. Come di recente ha affermato il famoso giurista Guido Calabresi, per un compiuto ritorno alla normalità occorre ridefinire l’architettura del sistema finanziario, quantomeno a livello regionale europeo. L’optimum sarebbe procedere in tal senso a livello mondiale, ma i tentativi di coordinamento e d’integrazione delle forme di vigilanza espletati in sedi sovranazionali fin dal primo insorgere della crisi non vanno oltre l’affermazione di buoni propositi, risolvendosi in una sostanziale presa d’atto della impressionante escalation con cui si è passati dalle turbolenze finanziarie alla recessione economica. Gli stessi input che vengono dal Financial Stability Forum si esauriscono in un intervento che non va oltre la proposizione di possibili percorsi risolutivi. Questo accade perché la norma internazionale non è munita di cogenza e non ha capacità coercitiva per cui viene osservata solo ove ricorra un’apposita adesione da parte delle singole autorità nazionali. L’emersione della crisi finanziaria conferma, pertanto, il consolidato orientamento giuridico che ridimensiona la funzione stabilizzatrice delle forme di collaborazione previste nelle convenzioni internazionali».

Perché l’Europa si presterebbe maggiormente a stabilire un codice comune in ambito economico e finanziario? «Va ricordato come al centro di tutto vi sia un malfunzionamento della supervisione bancaria, una incapacità di quest’ultima ad impedire talune criticità che si determinano nei sistemi finanziari evoluti. Un malfunzionamento che non è dovuto tanto alla mancanza di regole, quanto al fatto che in un sistema globale se esistono alcuni Paesi che hanno regole non idonee oppure autorità di vigilanza che non funzionano queste influenzano anche Paesi che hanno meccanismi disciplinari validissimi o autorità di vigilanza virtuose. In Europa, si potrebbe fare qualcosa per ovviare a questa situazione. Già alcuni anni or sono, subito dopo la realizzazione dell’unione monetaria, alcuni studiosi si preoccuparono di valutare se fosse possibile assegnare alla Bce anche poteri di vigilanza bancaria. Questo interrogativo si ripropone oggi con maggiore forza in un momento in cui si è appurato che a fondamento del flop del sistema economico-finanziario vi è una scarsa funzionalità della supervisione. A mio parere, allo stato attuale, la Bce non ha competenze in materia di “politiche


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di vigilanza”. Infatti l’articolo 105 dei Trattati della Comunità e lo stesso articolo 20 dello Statuto della Bce precisano che la Banca Centrale Europea collabora e coopera per il successo delle politiche di vigilanza e ha, quindi, solo un potere consultivo, oltre al quale non può spingere il proprio intervento. Occorrerebbe cambiare la struttura della Bce e sarebbe, questo, un processo troppo lungo da attuare. Vi è però un’altra possibilità per pervenire a forme di vigilanza bancaria unitaria in Europa. E invero, anni fa, la direttiva Mifid identificava nella Consob l’autorità di contatto italiana alla quale assegnare il compito di relazionarsi con le autorità di vigilanza degli altri Paesi europei per definire linee guida comuni; il legislatore europeo è, dunque, consapevole dell’esigenza di “unicità di comando” in ambito comunitario. Di recente il gruppo di ricerca, diretto da de Larosière, ha ipotizzato la creazione di un’Agenzia composta dalle autorità di vigilanza dei vari Paesi dell’Ue, responsabile delle linee di supervisione comune. Al sistema, infatti, è mancata una regolamentazione unitaria, flessibile ed elastica che, all’emergere del fenomeno dei mutui sub-

prime, riuscisse tempestivamente a creare una rete a maglie strette per impedire la traslazione dei titoli tossici dagli Stati Uniti ai sistemi finanziari europei». In occasione della crisi si è posto l’accento sulle responsabilità dirette degli intermediari finanziari, nello scatenare la situazione che è poi dilagata in un effetto domino internazionale. A distanza di alcuni mesi crede che la figura dell’intermediario sia stata globalmente danneggiata dall’accaduto? «La reputazione degli intermediari finanziari viene messa a dura prova dalla presente crisi, perché molti di essi hanno tenuto comportamenti non conformi alle regole nell’intento di ricercare più elevati risultati reddituali. Questi intermediari hanno messo in gioco la propria reputazione e quella del settore. A mio avviso, va considerato che manca in molti Paesi, e anche in Italia, una cultura finanziaria che riesca ad orientare nei giusti termini gli operatori presenti sul mercato. Ragion per cui, se molte volte gli intermediari non tengono nel dovuto conto la situazione di carenza informativa e di sostanziale debolezza in cui versano le controparti negoziali, non infrequente è il caso di investitori che operano in una logica di “moral

hazard”. Se è bene valutare con fermezza taluni comportamenti scorretti degli intermediari, non si deve essere indulgenti nei confronti di quegli investitori che hanno effettuato operazioni rischiose nell’intento di ottenere tassi d’interesse “fuori mercato”. Questi sono stati favoriti da un orientamento giurisprudenziale che, in molti casi, nonostante la correttezza dell’agere delle banche, le ha condannate per fini di compensazione sociale o di ingiustificata solidarietà creditoria tra intermediario ed emittente insolvente. Un orientamento contrario ai principi del nostro ordinamento e che finisce con l’incentivare condotte irresponsabili degli investitori». Da professore di Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari, crede che l’etica dovrebbe riassumere una maggiore centralità nel percorso formativo e professionale dei futuri manager e operatori finanziari? «L’università in cui insegno si fa carico di questa responsabilità formativa. In essa, è fermo convincimento dei docenti che agli studenti non debba esser fornito solo un bagaglio di informazioni, bensì lo stimolo culturale a un agere che si fondi sul merito e sulla capacità, doti indispensabili della futura classe dirigente. Ciò, sviluppando la comparazione culturale con Paesi evoluti, dai quali sono stati recentemente reclutati numerosi docenti, facendo ampio ricorso alle previsioni della legge 230/2006. La Luiss ha ben presente che il riferimento ad altre culture può tradursi in uno spirito di mera esterofilia, se non addirittura in forme di pseudo internazionalizzazione degli studi. Da qui l’impegno dei docenti a un insegnamento che instradi i giovani in maniera tale da sapere equilibrare la conoscenza di una corretta tecnica operativa con il dover essere comportamentale». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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ETICA DELLA FINANZA Ettore Gotti Tedeschi

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ETTORE GOTTI TEDESCHI Presidente per l’Italia del Santander Consumer Bank Spa e del Board of Trustees del Centro Studi Tocqueville-Acton. Insegna etica della finanza presso l’Università Cattolica di Milano

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UNA NUOVA MORALE PER I BARONI DEL PROFITTO Il concetto di etica finanziaria negli Stati Uniti si è rivelato in molti casi un ossimoro. Ettore Gotti Tedeschi, presidente per l’Italia del Banco Santander, ribalta le carte in tavola. E spiega come possa e debba diventare pilastro di una nuova fase MICHELE CAMERANI

a parecchi anni la finanza internazionale neppure si pone il problema etico». Ettore Gotti Tedeschi, presidente per l’Italia del Santander Consumer Bank Spa e del Board of Trustees del Centro Studi Tocqueville-Acton ha una visione molto critica della deontologia professionale degli operatori finanziari. Professore di etica della finanza all’Università Cattolica di Milano, Gotti Tedeschi non è dunque sorpreso più di tanto dalle cause e dai motivi che hanno scatenato l’effetto domino sul mercato finanziario globale. Una serie di cause che ha innescato una crisi le cui ripercussioni stanno ancora manifestandosi e che ha portato economisti e operatori del mercato a interrogarsi sul collasso di un intero sistema. Un sistema basato su uno sganciamento della finanza dall’economia reale, ma anche su uno smarrimento per troppi anni sottovalutato dell’etica da parte degli operatori finanziari, soprattutto statunitensi. «Le ragioni di questa assenza di etica nel settore sono almeno quattro – afferma Ettore Gotti Tedeschi –. In primo luogo, dai tempi di Keynes in poi, il mondo dell’economia e quello della finanza hanno assunto una loro propria autonomia morale. Inoltre, con il relativismo crescente sarà difficile

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avere risposte coerenti su cosa sia “etico” o meno. Terzo, va tenuto conto anche di come la mentalità americana, che deriva dalla cultura protestante, abbia sempre sostenuto un atteggiamento piuttosto disinvolto da parte di chi doveva prendere decisioni. Quarto, non sono solo vasti settori della finanza che hanno perso etica, ma anche vasti settori della politica e delle istituzioni preposte ai controlli». Quali sono state, invece, le responsabilità dirette e indirette di quelle società di rating e di quegli organismi di controllo super partes che avrebbero dovuto assicurare il rispetto dell’etica finanziaria? «Sono responsabilità superiori a quelle dei controllati. Il problema è lo stesso: se non si sa DOSSIER | PIEMONTE 2009

cosa sia etico, se si suppone che non ci sia comportamento lecito da parte dei controllati, come si può supporre che sia etico quello dei controllanti? Si tratta di un intero modello culturale che prescinde dal problema etico già da molti decenni. Il principio di molti banchieri statunitensi è che sia etico produrre profitto senza chiedersi a quali condizioni. E questo si è visto». La crisi finanziaria mondiale ha fatto tabula rasa di alcune fra le più importanti banche e società finanziarie e assicurative mondiali. Questa drammatica situazione può o potrebbe rappresentare una buona base su cui ripartire reimpostando il sistema e dandogli regole certe e condivise? «Ciò che produrrà una buona

base su cui ripartire è il modello di risanamento che verrà scelto. Banche e istituzioni finanziarie sono solo strumenti. Oltre a ciò, non si dimentichi che l’etica e la capacità sono doti individuali non attribuibili a strutture e tantomeno a strumenti. Se va ricostruita una classe professionale intera di banchieri non sarà un gioco facile». Su quali basi si dovrà reimpostare la finanza internazionale per non incorrere in altri tracolli simili a quello scoppiato nel 2008? «È facile: la banca deve tornare a fare la banca e la finanza la finanza. Il problema è che ciò non si è avverato negli ultimi anni. Questo è un punto cruciale. Faccio un esempio: dal 2000 le banche, soprattutto quelle sta-


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tunitensi, hanno trasferito il rischio, cedendolo. Da allora non si è capito dove fosse finito il rischio, chi lo gestisse e se erano stati fatti adeguati fondi rischi. Questo non spiega forse l’origine della scarsa patrimonializzazione delle banche e l’esigenza di ricapitalizzazione? Ma ciò spiega anche i grandi risultati che per anni le banche hanno evidenziato a bilancio, espandevano il credito senza produrre adeguati fondi rischi». Quando ritiene che potrà essere recuperata la fiducia da parte dell’opinione pubblica e dei contribuenti nella finanza internazionale? «La fiducia tornerà quando finirà la paura. E quando succederà, tutti dimenticheranno ciò che è accaduto e si tornerà a pensare

che il buon fine giustifica i cattivi mezzi. In fondo l’uomo è e resta peccatore». Crede che, al di là delle innegabili ripercussioni della crisi finanziaria sull’economia reale, la produzione concreta e il commercio di beni tornerà al centro dell’economia mondiale a scapito dei prodotti e dei derivati finanziari? «Su questo non ho dubbi e accadrà per un po’ di tempo. Tutto ciò potrebbe rivelarsi un errore. Il disastro, infatti, non è stato fatto dalla finanza o dai derivati, ma è stato prodotto dal cattivo uso di quegli stessi prodotti finanziari. Un uso scorretto deciso e perpetrato da uomini senza etica, appunto. Lo strumento non ha alcuna colpa. Anzi, lo strumento serve a creare più ricchezza e a

farlo meglio e prima, a patto di utilizzarlo bene». Ritiene che un intervento diretto dei governi nazionali a sostegno del settore finanziario e speculativo possa rappresentare un corto circuito del liberismo economico, legato a interessi privati e non pubblici per sua stessa natura e definizione? «A produrre questa situazione è stato un governo, quello statunitense, che preoccupato della scarsa crescita del prodotto interno lordo ha autorizzato e supportato pratiche di camuffamento dello stesso. Come si può pensare che un esecutivo resosi responsabile di questo non si assuma le sue responsabilità? Il problema è se esista o meno una soluzione alternativa oggi per rimediare all’accaduto».

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POLITICA Guido Crosetto

CONCRETO Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa

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POLITICA

IL VOLTO SOLIDALE DEL NOSTRO PAESE Nell’aprile 2008 gli italiani hanno votato e hanno scelto, in un sol colpo, di cancellare la sinistra dal Parlamento e di affidare le redini del Paese al Popolo della Libertà creato e diretto da Silvio Berlusconi. A un anno dal primo anniversario di quell’evento, sventurato per alcuni e lieto per altri, è tempo di iniziare a tracciare bilanci. La parola a Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa FEDERICO MASSARI

ono contento che per un momento maggioranza e opposizione abbiano, per così dire, deposto le armi, nel cercare con maggiore energia e con profondo senso politico, di porre in essere azioni tese a sollevare le condizioni degli abruzzesi». Esordisce così il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto, rispondendo alla domanda se la tragedia che ha coinvolto l’Abruzzo abbia veramente creato un clima favorevole di dialogo tra le parti politiche. A detta dell’onorevole azzurro, durante questo primo

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anno di potere della compagine di centrodestra, il governo ha sempre cercato di coinvolgere l’opposizione nelle iniziative da intraprendere, per cercare di risolvere le svariate problematiche che hanno investito, e investono, il Paese. «La maggioranza si è sempre trovata davanti un muro, e pesanti e ingiustificate critiche da parte dell’opposizione», ha commentato Crosetto. Ma non è finita, e aggiunge: «Il problema dell’immondizia di Napoli è la risposta per far comprendere come il Governo Prodi e il Governo Berlusconi ab-

biano avuto approcci diversi alla problematica». Inoltre, il sottosegretario alla Difesa, si augura che l’operato del segretario nazionale del Pd, Dario Franceschini, si distingua da quello dei suoi predecessori, rei di aver costantemente attaccato gratuitamente e ingiustificatamente il premier e il governo, solo per confondere le idee agli italiani. A un anno dalle elezioni, come giudica l’operato del governo? «Stando ai giudizi degli elettori e della critica internazionale, il governo sta operando, sin dal suo insediamento, in modo assolutamente trasparente, intransigente e ha iniziato a risolvere alcuni dei problemi che investono il territorio nazionale che il governo che ci ha preceduto non aveva tentato di risolvere. Tornando all’attualità, e parlando del terribile sisma che ha colpito l’Abruzzo, ho potuto verificare con i miei occhi quanto efficiente, rapida e ottimamente organizzata sia la Protezione Civile, e quanto parimenti determinante siano state le forze scese in campo per sostenerla: le Forze Armate, le Forze di Polizia, la Croce Rossa Italiana, i Vigili del Fuoco e l’enorme stuolo di volontari che PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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POLITICA Guido Crosetto

generosamente hanno offerto tempo, energie e competenze individuali per aiutare i fratelli abruzzesi colpiti da un evento drammatico, dal quale sono certo usciranno quanto prima, in forza del loro carattere forte e concreto». Più in generale, come commenta l’atteggiamento del Pd in questo momento? «In realtà non vedo proprio il Pd, ma solo un leader. Ammesso che Franceschini sia considerato tale da tutti i suoi colleghi di partito. Spero che Franceschini non abbia fatto tesoro degli insegnamenti delle recenti competizioni elettorali che, quotidianamente, attaccavano Berlusconi e il governo, a prescindere. Proprio queste continue e gratuite accuse al premier hanno stancato gli italiani, e anche coloro che non condividono totalmente il pensiero di Berlusconi DOSSIER | PIEMONTE 2009

sono comunque stufi ed esausti di vedere chi dovrebbe contrastarlo con i fatti». Una prova di efficienza l’ha data l’esercito che si è dimostrato cruciale in molti ambiti della vita civile, non ultimo la gestione delle emergenze. Quale ruolo riveste oggi questa forza per il nostro Paese? «L’esercito è fondamentale nel tessuto sociale del Paese al pari delle altre Forze Armate e, pertanto, la mia stima va estesa a tutti gli uomini e le donne che indossano l’uniforme, indipendentemente dalla forza armata di appartenenza. Si tratta di persone che dedicano la propria vita alle istituzioni e che per le stesse lavorano alacremente in Italia e all’estero per l’assolvimento del mandato cui sono preposte. Il loro operato è sempre più apprezzato dall’opinione pubblica, la quale ha riconosciuto la

«IL GOVERNO HA STANZIATO OTTO MILIARDI DI EURO DA SPENDERE IN TRE ANNI: 1,5 PER FAR FRONTE ALL’EMERGENZA E 6,5 MILIARDI PER AVVIARE LA FASE DI RICOSTRUZIONE DEGLI EDIFICI DISTRUTTI O DANNEGGIATI IN ABRUZZO»

profonda professionalità delle Forze Armate». Tornando al dramma abruzzese, in quali ambiti crede che sia necessario fare subito chiarezza per quanto riguarda le responsabilità oggettive?


POLITICA

«Si è sentito parlare di tante cose, di tanti errori commessi, di tante omissioni effettuate e di tanta negligenza da parte di chi ha progettato, di chi ha costruito e di chi non ha vigilato. Io sono assolutamente per la linea ferma e dura e, sono certo, che la magistratura saprà accertare eventuali responsabilità e comminare le pene previste a chi ha, con il proprio sconsiderato atteggiamento, concorso a causare un dramma, purtroppo, di tale enorme portata». La gestione dell’emergenza sarà uno degli impegni più difficili. Esiste già una tabella di marcia? Per quanto tempo ci saranno le tendopoli? «Non sono il tipo di politico a cui piace dare date o fare promesse che non ha la certezza di poter mantenere. La macchina dell’emergenza e della solidarietà funziona mirabilmente, il premier e

Bertolaso lavorano costantemente fin dalle prime terribili ore del sisma affinché gli abruzzesi possano ritrovare la tranquillità che meritano nel più breve tempo possibile. Sono certo che questi elementi, uniti al carattere degli abruzzesi, assolutamente orgoglioso e concreto e all’azione di tutto il governo, accelererà di molto la ripresa delle normali condizioni di vita e che le tendopoli spariranno presto». Finita l’emergenza, si passerà al momento della ricostruzione. Dove si reperiranno i fondi? «Il governo ha stanziato otto miliardi di euro da spendere in tre anni: 1,5 per far fronte all’emergenza e 6,5 miliardi per avviare, parallelamente, la fase di ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati. Si tratta di un impegno significativo con il quale il governo ha subito mostrato la giusta

attenzione al problema e vicinanza alla popolazione abruzzese. Anche in futuro l’esecutivo continuerà ad alimentare risorse atte a soddisfare la fase di ricostruzione e valuterà di volta in volta come e dove reperire i fondi necessari ma assicuro fin da ora che i fondi ci saranno e la ricostruzione avverrà in modo serio e rapido». Venendo al caso Santoro/Vauro, si sono sollevate molte polemiche. Al di là della specifica trasmissione, non crede che sarebbe il caso aprire un dibattito serio e bipartisan sul ruolo della Tv pubblica? «La Tv pubblica, proprio per questo appellativo, dovrebbe essere di tutti e non inquinata nell’informazione e nella comunicazione che le competono, da elementi di natura partitica che inequivocabilmente distorcono una reale informazione al pubblico. Troppo spesso, invece, assistiamo a pietosi sconvolgimenti di fatti, eventi o episodi, condizionati solo dal prepotente e ingiustificato intervento esterno della politica, che disorientano l’utente e che fanno sì che lo stesso non sia informato equamente. Sul caso Santoro non desidero soffermarmi più di tanto, ero tra gli ospiti della trasmissione. Ho provato sgomento per il modo in cui è stata condotta la puntata e disgusto per il fatto che, mentre i nostri operatori della Protezione Civile ancora scavavano tra le macerie, qualcuno insinuava che la macchina dell’emergenza era partita in ritardo. Credo di aver dimostrato, in quella sede, supportato dai fatti e interpretando il pensiero di tutti gli italiani non prevenuti, che la Protezione Civile italiana è all’avanguardia e si è mostrata assolutamente efficiente. Sono certo che anche per la questione della Tv pubblica, come per molte altre situazioni, si dovrebbe davvero dar luogo a un dibattito onesto e trasparente e, spero, quanto prima, questo obiettivo possa essere raggiunto». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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L’IMPEGNO PER IL TERRITORIO Claudia Porchietto

ANCHE IN POLITICA LA CONCRETEZZA D’IMPRESA Le discussioni sono da chiudere. Non c’è tempo da dedicare alle parole vuote se l’emergenza bussa alle porte. Occorre prendere le risorse, che ci sono, e non fermarsi. Claudia Porchietto, presidente dell’Api di Torino, auspica una riforma delle istituzioni verso la viva realtà dell’economia locale MARIALIVIA SCIACCA

pecchio della situazione italiana, il Torinese basa la propria economia sulla piccola e media industria, dal turismo alla meccanica industriale. Ma in questo momento di crisi, si concretizza sul territorio un paradosso: sono proprio le aziende che ancora lavorano, e lo fanno bene, con l’impiego di personale locale, a subire maggiormente l’influenza delle politiche bancarie. A livello istituzionale ancora non arrivano risposte chiare. Claudia Porchietto, presidente dell’Api di Torino, e candidata del centrodestra alla presidenza della Provincia, illustra quali sono le priorità da affrontare, soprattutto a livello di amministrazione pubblica, per evitare di giungere a una situazione irreversibile. Quali sono le potenzialità non ancora sfruttate del Torinese? «Il territorio ha enormi potenzialità in ogni settore, dalle nuove tecnologie all’aerospazio, dalle energie ecocompatibili ai trasporti. C’è poi il turismo, che è un’opportunità fondamentale da inserire nel tessuto produttivo già esistente, e può concorrere a creare ricchezza e attrattiva per la nostra provincia». Quali sono, invece, le criticità? «C’è un diffuso sconforto dovuto al

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fatto che le banche hanno realmente chiuso i cordoni delle borse stringendo il credito e soffocando le aziende medio piccole, anche se sono proprio queste a possedere le caratteristiche per divenire il motore trainante dell’economia. Gli enti pubblici dovrebbero suppor-

tarle, difendendole dalle imposizioni delle banche per permettere un rilancio virtuoso». E oltre la difficoltà di accesso al credito? «Esiste il grande problema della dilatazione dei tempi di pagamento. Basti pensare che si è passati, ad


L’IMPEGNO PER IL TERRITORIO

CLAUDIA PORCHIETTO Presidente dell’Api di Torino e candidata alla presidenza della Provincia per il centrodestra

esempio nel settore dell’automotive, da 160 giorni per il pagamento ad addirittura 360, ben un anno dopo. Però, mentre i grandi gruppi industriali, che chiudono stabilimenti nel nostro territorio per aprirli dove è più conveniente, hanno un rapporto privilegiato con gli istituti bancari, le imprese medie e piccole che sul territorio investono e offrono lavoro a migliaia di

persone si sono viste chiudere i battenti del credito. I fondi per anticipare la cassa integrazione stanno finendo e in certe realtà pagati gli stipendi e i fornitori non rimane liquidità, rischiando la paralisi totale. Se non si dovesse riuscire a muovere qualcosa entro luglio prossimo, quando il credito già concesso sarà definitivamente finito, la crisi sarà drammatica».

Qual è la maggiore difficoltà delle banche nel rapportarsi alle imprese? «Uno dei problemi dei grandi gruppi bancari è la fiducia e tutto questo crea un clima tutt’altro che sereno e proficuo. Il mondo della politica e dell’amministrazione deve assumersi il ruolo di interlocutore su questi temi, per convincere le banche ad abbandonare questa strada miope e dannosissima che uccide le piccole imprese. Credo che i passi fatti dal governo in queste settimane, con ad esempio i Tremonti bond, siano stati importanti. La strada per uscire da questa crisi, per il grande patrimonio aziendale e manifatturiero del Torinese, è quella della competenza tecnologica unita alle strategie di sistema». Nelle elezioni politiche regionali il Popolo della Libertà ha ottenuto risultati molto ampi. Quali sono a suo avviso gli errori del Partito Democratico? «Le persone sono stanche di assistere a interminabili discussioni e litigi e non danno la preferenza a chi non sembra prendere una posizione certa. Mai come nelle difficoltà è necessario far riferimento a qualcuno che sia in grado di indicare una soluzione, e che appartenga a un gruppo compatto, come è il Pdl. Le linee guida su cui agire sono la possibilità di fornire soluzioni adeguate ai problemi tagliando interventi superflui e la riorganizzazione con principi di efficienza ed efficacia degli uffici pubblici. Negli anni passati, e la crisi mai risolta di molte aziende con i tanti lavoratori lasciati a casa o in cassa integrazione ne è un esempio, si sono spese troppe parole mai seguite dai fatti dall’area di Ivrea, con la Oliit, alla zona di None con la chiusura della Indesit, solo per citarne alcune». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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ELEZIONI Gianna Gancia

IL MIO POPOLO MERITA ASCOLTO Difendere il tessuto economico e dare più voce alla sicurezza e all’autonomia sono i temi principali su cui poggia il programma elettorale del Pdl nel Cuneese, per costituire una Provincia che guarda con fiducia al futuro. Come spiega Gianna Gancia, candidata della Lega alla Presidenza della Provincia di Cuneo FEDERICO MASSARI

GIANNA GANCIA Candidata della Lega alla presidenza della Provincia di Cuneo

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ELEZIONI

inalmente un giovane volto femminile ha accettato la candidatura alla presidenza della Provincia di Cuneo. Questo volto ha naturalmente un nome: Gianna Gancia. Sorriso accattivante, che dovrebbe catalizzare i voti dell’elettorato del centrodestra nel Cuneese, e appassionata di politica, già consigliera comunale e attivista del partito della Lega Nord dal 1991, spesso e volentieri è stata battezzata dai giornali come “l’espressione femminile del Carroccio”. Donna coraggiosa, che ha lavorato e vissuto nella Granda, luogo che le ha permesso di imparare ad ascoltare e a conoscere la gente, ha accettato di candidarsi alle prossime elezioni perché «i cuneesi – spiega senza mezzi termini – meritano di contare di più. Siamo abituati a dare molto, ma non riceviamo mai abbastanza in cambio». Da queste parole si evince sin da subito che occorre far fronte celermente a emergenze

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«FIN DA GIOVANE, NELLE FILE DELLA LEGA NORD, HO CAPITO QUANTO SIA IMPORTANTE IL LEGAME CON IL TERRITORIO. HO LAVORATO E VISSUTO NELLA GRANDA, IMPARANDO A CONOSCERE E AD ASCOLTARE LA GENTE»

legate a tematiche di prima necessità come, ad esempio, quelle rivolte verso la sicurezza sulle strade e sulla scuola e, inoltre, come a Gianna Gancia piace affermare: «Occorre dare voce all’agricoltura, all’economia e alla gente della Granda. Io mi batterò per questo – prosegue – frutto dell’ascolto delle persone che durante i mesi ci cercano nella sede del nostro partito».

Candidata per la Lega e Pdl alla Provincia di Cuneo. Cosa l’ha spinta ad accettare questa sfida? «Ho detto sì perché sono cambiate le mie condizioni familiari e ho minori legami dal punto di vista imprenditoriale. Soprattutto, sono lusingata perché mi viene offerta l’opportunità di realizzare il mio sogno: fare politica entrando dall’ingresso principale, con un’elezione diretta e uno scontro molto duro con un assessore regionale (Mino Taricco, ndr). Sarà un modo per dimostrare le mie capacità. Inoltre, amo la mia terra e credo di poter fare qualcosa per migliorarla, mettendo a disposizione umilmente e concretamente la mia esperienza». Cosa la attrae della politica e come vede, in generale, la politica italiana? «La politica deve mettere da parte le vecchie logiche di partito e lavorare a far fronte unico contro la crisi. Nella vita delle perPIEMONTE 2009 | DOSSIER

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ELEZIONI Gianna Gancia

«LA PROVINCIA CHE HO IN MENTE DOVRÀ ESSERE DINAMICA, EFFICIENTE, ATTENTA E SENSIBILE ALLE ESIGENZE DEI CITTADINI CON UN OCCHIO DI RIGUARDO AI GIOVANI»

sone, come in quella delle istituzioni, i momenti di difficoltà sono anche quelli che offrono le maggiori opportunità di crescita e rinnovamento». Come giudica l’operato del presidente Costa? «Sul piano politico il presidente Costa è un antesignano della Lega Nord. Provengo da una famiglia liberale, amica di Raffaele Costa, per il quale ho fatto la mia prima campagna elettorale e DOSSIER | PIEMONTE 2009

credo che sia testimone di una profonda etica politica. Mi ha confidato che i cinque anni amministrativi sono stati più difficili del previsto. Non ho il suo carisma, ma avrò al mio fianco una grande squadra». Quanto è e deve essere importante l’ascolto del territorio per realizzare un buon governo? «Fin da giovane, nelle file della Lega Nord, ho capito quanto sia importante il legame con il terri-

torio e la terra. Ho lavorato e vissuto nella Granda, imparando a conoscere e ad ascoltare la gente, e per questo motivo ho scelto come mio slogan politico: “Più voce alla gente della Granda”. I cuneesi meritano di contare di più: siamo abituati a dare molto, ma non riceviamo altrettanto in cambio». A suo avviso, di cosa ha bisogno il Cuneese ora? «Ci troviamo di fronte a una si-


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DANIELA SANTANCHÉ NON DIMENTICA CUNEO «Quando arrivo a Cuneo sento profumo di casa. Le radici sono importanti per una donna di destra. Se non si sa da dove si viene non serve sapere dove si va. Gianna Gancia è una donna coraggiosa, ha capito che da soli non si vince e un capo vero non deve avere attorno persone che dicono sempre sì, ma donne e uomini che si battono per il bene del nostro Paese». Esordisce così Daniela Santanché (nella foto) parlando della sua città natale. Culla dove è cresciuta e dove ha studiato fino all’età di 18 anni, prima di lasciarla per iscriversi alla Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Torino. Oggi, mediante la lista del Movimento per l’Italia, partito fondato all’indomani dall’uscita da La Destra di Storace, appoggia e sostiene la candidata di Lega e Pdl, Gianna Gancia. «Si tratta di un apparentamento non semplice – prosegue –. Gianna è stata coraggiosa come sanno esserlo le donne. La Lega è un partito che conosco bene, pieno di gente che fa politica con passione. Con noi penso esista una condivisione di fondo a partire dallo slogan “L’Italia agli Italiani” che vale ancora di più in un momento di crisi economica come questo. La sinistra ha portato avanti una politica buonista nei confronti dei clandestini che oggi rubano nelle nostre case».

tuazione economica molto difficile, che si sta aggravando. Esistono gravi problemi occupazionali. Occorre affrontarli, anche se non esistono bacchette magiche. Se sarò eletta, nei primi 90 giorni chiederò l’appoggio forte da parte delle categorie economiche, che ho già incontrato, poiché è necessario fare squadra per superare il momento, definendo un progetto concreto per la ripresa, da sottoporre a chi può fare qualcosa come, ad esempio, le fondazioni bancarie. È necessario costruire nuove opportunità di lavoro, per chi oggi vive ore di angoscia, difendendo a tutti i costi il tessuto

economico cuneese. Per ciò che riguarda le urgenze della provincia di Cuneo, rivolgerò fin da subito la mia attenzione alle infrastrutture, ai bacini idrici per l’agricoltura e, in generale, ai temi legati all’ambiente e all’energia». Qual è la provincia che ha in mente per il futuro? «Una provincia dinamica, efficiente, attenta e sensibile alle esigenze dei cittadini, soprattutto dei più deboli, con un occhio di riguardo ai giovani, perché possano trovare anche qui sbocchi interessanti ed importanti per il loro futuro e la loro formazione, senza esser costretti ad andarsene

altrove per costruirsi una vita». Queste amministrative possono essere vissute come una sorta di laboratorio anche per i futuri scenari politici. Come vede, a livello nazionale, i rapporti tra Lega e Pdl, e Lega e Udc? «Il governo sta lavorando bene e lo sta dimostrando anche nell’emergenza dell’Abruzzo: questa volta lo Stato c’è e ci sarà. È iniziata la politica del fare, che vede nella forte alleanza Lega-Pdl il potente motore propulsore. Per quanto riguarda i rapporti Udc e Lega, oltre a belle foto con cani e figli, l’Udc dovrebbe capire cosa vuol fare da grande». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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CONTROCANTO Enrico Letta

IL PD E LA SPADA DI DAMOCLE Quale sarà il futuro del Partito Democratico? Dopo l’uscita di scena di Walter Veltroni, Dario Franceschini sarà in grado di ingraziarsi il consenso degli italiani e quindi di battere Silvio Berlusconi? Il Paese riuscirà a uscire da questa fase di recessione? Risponde l’onorevole Enrico Letta, responsabile welfare del Partito Democratico FEDERICO MASSARI

l Partito Democratico sta vivendo una fase particolarmente complessa acuita dalla contemporaneità della più grande crisi economica e finanziaria che il nostro Paese sta attraversando negli ultimi decenni». Questa è la linea di pensiero del responsabile Welfare del Partito Democratico, Enrico Letta. Come lui sostiene, la crisi che sta mettendo da tempo in ginocchio il Paese, sarà altamente condizionante e diverrà il tema che più di ogni altro farà da Leitmotiv per quanto riguarda il periodo politico che l’Italia sta vivendo. Sempre secondo Letta la recessione in atto è andata a sconvolgere l’agenda della politica italiana e in particolare l’agenda della politica di centrosinistra. «Abbiamo visto sconvolta la crescita e la nascita del nuovo Pd – spiega Enrico Letta – perché la crisi è andata a modificarne tanti aspetti. Oggi tutto viene rimodellato a seconda delle questioni chiave portate dalla crisi. Contestualmente il Pd ha vissuto anche delle sue vicende interne ovviamente legate alle dimissioni di Veltroni». Ma non è finita. La proposta del Pd sull’assegno di disoccupazione ha obbligato il governo ad agire. Con l’aggra-

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varsi della situazione economica, è necessario aggredire la povertà e impedire che sempre più persone scivolino in condizioni di estremo disagio. «Quel che è stato approvato dal Consiglio dei ministri – continua – non è quel che avevamo chiesto per affrontare i problemi di quella parte di mondo del lavoro che è priva di protezioni sociali, ma si tratta comunque del frutto della pressione che abbiamo fatto. Speriamo che il governo continui a remare verso questa direzione». I dati sulla disoccupazione diffusi da Confindustria sono pesanti campanelli d’allarme. Qual è secondo lei la ricetta per uscire dalla crisi che sta attanagliando il Paese? «Secondo il mio parere bisogna mettere in campo una azione difensiva e al tempo stesso offensiva. L’azione difensiva immediata è legata alla necessità di difendere a tutti i costi i posti di lavoro che ci sono. Questo è fondamentale al fine di evitare che la crisi abbia un impatto drammatico sui consumi. Se si andranno a perdere troppi posti di lavoro, ne andrebbe sicuramente di mezzo il sistema imprenditoriale diffuso italiano. Oltre a difendere i posti di lavoro, occorrerà

anche difendere le imprese che ci sono. L’Italia possiede un sistema produttivo composto da quattro milioni di imprenditori. Questi quattro milioni di imprenditori ogni mattina aprono la saracinesca e alla sera non sanno quale sarà il loro futuro. Potrebbero essere tentati dall’idea di chiudere. Serve un segnale molto forte che tenga in piedi le aziende, che non le faccia chiudere. Questi segnali difensivi passano, secondo il Pd, attraverso la proposta di uno strumento normativo che faccia della cassa depositi e prestiti l’anticipatore alle imprese del denaro cash che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione. Sono numerose le imprese italiane che non sono state pagate dalla pubblica amministrazione o che sono pagate con 18 mesi o 12 mesi di ritardo. Occorre che, appunto, per via di un meccanismo normativo che assegna la cassa depositi e prestiti, sia possibile fare uno sforzo di anticipo. Questo è un tema fondamentale».


CONTROCANTO

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ENRICO LETTA Deputato Pd e responsabile welfare del Partito Democratico

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CONTROCANTO Enrico Letta

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La proposta del Partito Democratico sull’assegno di disoccupazione ha obbligato il governo ad agire. Alla fine la vostra pressione ha dato i suoi frutti. Siete pienamente soddisfatti? «Credo che sia stato molto importante aver agito, e credo che sia stato fondamentale aver posto un tema all’attenzione pubblica: che nel nostro Paese le coperture, per quanto riguarda i lavoratori, sono diseguali. Il nostro sistema non possiede lavoratori di serie A e di serie B, come è naturale che sia. Purtroppo il nostro sistema detiene lavoratori di serie A e di serie Z: chi ha la fortuna di stringere fra le mani un contratto a tempo indeterminato e chi ha un contratto parasubordinato con

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«CON L’AGGRAVARSI DELLA SITUAZIONE ECONOMICA, È NECESSARIO AGGREDIRE LA POVERTÀ E IMPEDIRE CHE SEMPRE PIÙ PERSONE SCIVOLINO IN CONDIZIONI DI ESTREMO DISAGIO»

nessuna protezione. Il tema che abbiamo posto è stato quello di affermare che si abbandoni l’idea della serie Z, e che ci siano invece lavoratori che possano disporre dei gradi di protezione, certamente diversi tra loro, a seconda del contratto che uno ha: questa mutazione è fondamentale. Il governo ha cominciato a muoversi verso questa direzione, e chie-

diamo che continui perché quello che ha fatto non è ancora del tutto sufficiente». Le dimissioni di Veltroni hanno portato alla leadership Dario Franceschini, fedele alla linea. Non sarebbe stato meglio un cambio di rotta deciso? «Penso che sia stata una scelta utile, una scelta di unità. Le dimissioni di Veltroni sono state


dovute soprattutto a una situazione insostenibile di litigiosità che ha spostato gli equilibri interni. Mi sembra che Franceschini si stia muovendo sulla strada giusta chiedendo unità e cercando di parlare di cose concrete. Dopo le dimissioni di Veltroni ci siamo mossi nel modo opportuno». Perché non sono state utilizzate vere primarie per decidere la successione? «In questa fase c’era soprattutto bisogno di unità. È stato giusto organizzare questa unità intorno a Dario Franceschini». Elezioni amministrative: stringerete alleanze? «Stiamo facendo, realtà per realtà, un ragionamento che tenga conto della situazione che ogni comune e ogni provincia sta vivendo. Massimo rispetto dell’autonomia dei territori». Franceschini può battere Berlusconi? «L’obiettivo che il Partito Democratico, e Franceschini, sta perseguendo è quello di uscire dalla situazione di difficoltà e ottenere un buon risultato alle elezioni europee e alle elezioni amministrative mediante i tanti amministratori locali che abbiamo in giro per il Paese. Questo è l’obiettivo dichiarato, e ci stiamo impegnando con forza, dedizione e volontà». Berlusconi durante l’ultimo discorso tenuto alla Fiera di Roma ha detto che si devono rafforzare i poteri del premier, e che per fare sì che questo si concretizzi si impegnerà anche senza il concorso dell’opposizione. Cosa ne pensa di questa affermazione? «Credo che non ci sia premier in Europa che abbia la forza politica di Berlusconi e non ci sia stato premier nella storia politica italiana che abbia avuto la sua potenza. Non mi sembra un tema

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CONTROCANTO

fondamentale quello sul potere del premier. Berlusconi già adesso detiene un potere immenso e possiede una maggioranza che risponde completamente alle sue indicazioni. Nemmeno De Gasperi, a suo tempo, ha avuto il potere e la forza che ha Berlusconi oggi». Secondo lei il nuovo Pdl esprimerà una nuova cultura, oppure, come dice D’Alema, sarà un partito che si raccoglierà attorno alla persona di Silvio Berlusconi? «Molto dipenderà da cosa succede adesso. Perché il congresso è

stato un congresso che ha sancito un’unità più forte rispetto alle fratture precedenti. Da questo amalgama si capirà se esiste o esisterà una possibilità che il Pdl sopravviva a Berlusconi. È tutto da vedere». Casini recentemente ha dichiarato che Berlusconi da 15 anni ripropone sempre le stesse cose. Lei sposa questa dichiarazione del leader dell’Udc? «Obiettivamente il discorso tenuto dal premier, nel primo giorno, è stato un po’ ripetitivo. Bisogna guardare al futuro, non siamo più nel 1994». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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LA VOCE Mario Cervi

ITALIA MIA BENCHÈ... In Italia l’informazione è libera e di buona qualità. Anche se la strapotenza televisiva rischia di stravolgere le gerarchie dei valori della società. Una società alla quale Mario Cervi, ex direttore de Il Giornale e giornalista di profonda fede liberale, non risparmia critiche, a partire dal rimprovero di una cronica assenza di senso civico MARILENA SPATARO

Italia del Dopoguerra, una nazione prostrata, divisa e con innumerevoli ferite da rimarginare. Un Paese da ricostruire fin dalle fondamenta, nella società, nella politica e nell’economia. A raccontare le angosce di quel tempo, ma anche a condividere le speranze e la voglia di voltare pagina degli italiani, uno stuolo di giovani cronisti, di cui molti tornati dal fronte. Tra loro alcuni nomi, come quello di Mario Cervi, che diverranno famosi, segnando la storia del giornalismo e della cultura italiani. «Il giornalismo di allora – ricorda l’ex direttore de Il Giornale – confinava da una parte con la bohème, rappresentata da quei colleghi che facevano notte per il giro in questura e dove era possibile trovare la notizia, e dall’altra con la letteratura, di cui facevano parte importanti figure della cultura del tempo. In mezzo a queste due sponde c’erano poi i giornalisti più normali, quelli che concretamente facevano il giornale». Come vede, oggi, il nostro Paese? «Ho sempre condiviso il giudizio di Montanelli, che sul suo ultimo libro L’Italia dell’Ulivo, scriveva: “Io non mi riconosco in questo Paese e questo Paese non si riconosce in me”. L’Italia, infatti, porta in sé da tempo immemorabile la grande tara di totale mancanza di senso civico. Un deficit che si ripercuote dappertutto, sia nella vita pubblica che in quella privata,

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determinando quelle situazioni non edificanti cui purtroppo assistiamo quotidianamente. Certo la corruzione esiste dappertutto come anche le disfunzioni amministrative, ma il carattere di sistematicità e cronicità presente nel nostro Paese è difficilmente eguagliabile in altre parti del mondo. Ovviamente tutto ciò non esclude che da noi ci siano altre qualità eccellenti, non ultime quelle di sopravvivere e di galleggiare. Ma, si sa, una nave che galleggia soltanto non riesce a trovare la rotta corretta per andare verso il porto giusto». Il Giornale nacque come uno spazio riservato all’espressione dei diversi volti della cultura liberale. Cosa significa, oggi, essere liberali? «Innanzitutto significa essere in pochi. I liberali lo sono sempre stati ma adesso sono pochissimi. Oggi predominano movimenti e slanci di massa, che magari sono anche apprezzabili e nobili, ma non hanno niente a che fare con quel senso delle Stato, delle istituzioni e della libertà e quindi del rispetto per il diritto degli altri oltre che per la rivendicazione dei propri diritti, che distingue il liberale. Ogni parte politica ha avuto nel tempo l’ambizione di tracciare e di dare indicazioni definitive e perfette, ma giammai quella di cercare faticosamente quel percorso che nasce dall’ascolto degli altri e da cui può scaturire una vera proposta politica». Quando ha capito che diventare

giornalista sarebbe stata la sua strada? «Non l’ho mai capito, non ho avuto mai il sacro fuoco del mestiere o la vocazione, credo, infatti, che sarei potuto diventare anche un buon avvocato, notaio o altro. In realtà tornavo dalla guerra ed ero in cerca di lavoro, sono entrato al Corriere della Sera in seguito a una raccomandazione, come avviene spesso in Italia, da parte di un amico di mio padre che lì era stenografo. In quei momenti di convulsione, quando ormai la vecchia nomenclatura del Corriere era stata accantonata, si cercavano giovani ai quali affidare i compiti più modesti. Fu così, quasi per caso, che entrai a far parte di quel grande giornale». Nell’epoca della comunicazione istantanea, personalizzata e a portata di mano, che ruolo ricopre la carta stampata? «Stiamo ritornando alla situazione ottocentesca, quando la maggioranza era analfabeta, mentre solo la minoranza alfabetizzata leggeva giornali, faceva dibattiti e orientava anche l’opinione pubblica. Anche adesso la maggioranza è analfabeta, nel senso che il suo alimento quasi esclusivo di informazione e di cultura è la televisione, mentre poi, come nell’Ottocento, c’è una minoranza che legge libri, giornali e si dedica alla cultura». Il sistema dell’informazione italiana ha luci e ombre. Quali sono


© AUGUSTO CASASOLI / CONTRASTO

LA VOCE

MAESTRO Mario Cervi, 88 anni, ex direttore de Il Giornale, è una delle penne più brillanti del giornalismo italiano

oggi, ai suoi occhi, i suoi maggiori meriti e demeriti? «Mi pare incontestabile che l’informazione italiana sia libera, anche con tutte le colpe che gli imputiamo. Il panorama che emerge dalle varie testate giornalistiche è un panorama molto variegato e molto esauriente. Poi certamente l’informazione della carta stampata ha i difetti che ha anche lo spettacolo: una deformazione generalizzata che nasce dalla strapotenza televisiva. Ma questo fa parte dello stravolgimento delle gerarchie dei valori della società attuale». Italiani brava gente. Un modo di dire che oggi sottoscriverebbe? «Brava gente lo sottoscriverei. Ci sono popoli come quello inglese o il giapponese molto più crudeli, i quali, come faceva notare lo stesso Montanelli, si sono dati regole di comportamento ferree e un galateo molto severo per tenere a freno quegli istinti che potrebbero in alcuni momenti emergere. L’italiano è meno pericoloso perché è più accomodante, più indulgente e più compromissorio: una virtù e un difetto insieme. Certo in qualunque popolo si trovano persone disposte a commettere le peg-

giori efferatezze in tutti i campi, ma, complessivamente gli italiani sono meno violenti e feroci di altri popoli, tuttavia meno disciplinati, e quindi meno feroci forse perché meno disciplinati. Se agli italiani viene dato un ordine di commettere azioni tremende riescono sempre a trovare una via d’uscita per evitarlo, in fondo la nostra aspirazione è di essere brava gente. L’essere brava gente, però, non va sopravvalutato, perché anche noi abbiamo commesso a suo tempo azioni orrende in guerra, solo che essendo propensi ad autoassolverci tendiamo a non ricordarle». Cosa la indigna di più e cosa la rende ancora orgoglioso dell’italianità? «Il talento degli italiani è grande, anche nelle cose minori. Nella creatività individuale credo che il nostro popolo sia migliore rispetto ad altri cui mancano le nostre qualità di fantasia e anche di duttilità e adattabilità. Quello che mi da fastidio è il rovescio di queste qualità, la duttilità e l’adattabilità spesso coincidono con la mancanza di principi ovvero con la simulazione di principi che in realtà non si hanno. Una forma di ipocri-

sia che non condivido e che ritengo sia un brutto difetto anche se capisco che a volte aiuta a vivere più tranquillamente e a risolvere parecchi problemi». Di tutte le storie e vicende che ha seguito, e di cui ha fornito testimonianza sulle pagine del Corriere, prima, e del Giornale, poi, quale ricorda con maggiore emozione? «Il contatto con il pubblico quando seguivo la cronaca giudiziaria. Allora la gente partecipava e seguiva i grandi processi come poi ha seguito Dinasty o Dallas, dal punto di vista professionale questo procurava grande emozione e soddisfazione. Una scena struggente, e che ripensandola mi suscita ancora una grande tristezza, è quella cui ho assistito nel 70 durante l’alluvione in Bangladesh che in una delle isole del delta del Gange aveva provocato più di 100mila vittime. Oltre che dal diffuso senso di morte, rimasi profondamente colpito dallo sguardo terrorizzato e insieme rassegnato degli animali che premevano contro la staccionata tentando disperatamente di scappare». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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L’INFORMAZIONE CHE CAMBIA Cristina Parodi

VOCE DI UN GIORNALISMO IN EVOLUZIONE Infotainment e mezzi di comunicazione estremamente immediati. Che rendono la notizia sempre più veloce e a volte più superficiale. Lo sguardo di Cristina Parodi attraverso un mestiere che è mutato nel tempo. E che è ancora destinato a evolversi attraverso nuove forme e nuovi mezzi LARA MARIANI

l giornalismo. Come è cambiato negli ultimi decenni. E come ancora cambierà. Oggi condito con ingredienti come l’infotainment. Svolto attraverso mezzi di comunicazione immediati, forse fin troppo. Un giornalismo che non si nutre più soltanto di fatti e di approfondimenti, ma che segue una società in evoluzione, una società veloce come i suoi mezzi di comunicazione. Cristina Parodi, dagli esordi come giornalista sportiva, alla creazione del suo Verissimo fino alla conduzione del Tg5, racconta le difficoltà affrontate sul campo e il suo modo di fare giornalismo. Vissuto con passione, attento all’incessante verifica dei fatti e interessato a tutto ciò che muta nel tempo, soprattutto alle persone. Lei ha cominciato come giornalista sportiva, prima su Odeon poi in Mediaset. Cosa ricorda dei suoi esordi? «Un grande entusiasmo nell’avvicinarmi a un mestiere che ancora non conoscevo bene e una grande voglia di imparare. Ricordo quanto tempo passavo a “studiare” la Gazzetta dello Sport perché il calcio non era una mia grande passione. Ma soprattutto ricordo una certa confusione perché nel periodo in cui iniziai a lavorare per Odeon stavo preparando la tesi di laurea in storia dell’arte alla Cattolica. Di

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giorno andavo a intervistare i calciatori e la sera studiavo i testi cinquecenteschi di Martino Bassi, l’architetto che ristrutturò la cupola della chiesa di San Lorenzo a Milano. Una fatica improba. Alla fine, dopo la laurea, scelsi il calcio». Verissimo è stata una sua creatura. Oggi non crede che l’infotainment stia prendendo sempre più spazio a scapito dell’informazione vera e propria, anche in programmi prettamente informativi come il Tg?

«No. Sono orgogliosa di avere aperto la strada nel 1996 col mio Verissimo a un genere che continua a funzionare, anche se con molte diverse sfaccettature. Allora io raccontavo tutti i colori della cronaca, oggi molto spesso in questi contenitori ci sono i volti dei reality, il che trasforma inevitabilmente il programma in qualcosa di più leggero, spettacolare e polemico. Ma resta il fatto che un programma in diretta ha sempre la possibilità di informare, soprattutto se arriva

CRISTINA PARODI Inizia l'attività giornalistica lavorando per Odeon Tv, per poi passare nel 1990 alle reti Mediaset. Nel 1995 entra nella redazione del TG5 e l'anno seguente crea il noto rotocalco quotidiano Verissimo. Nel 2005 è tornata al telegiornale della rete ammiraglia di Mediaset

qualche notizia importante dell’ultima ora. Si tratta comunque di spazi aperti di informazione e intrattenimento. Poi dipende dal conduttore declinare gli argomenti secondo la propria sensibilità». In una Tv sempre più urlata, lei si distingue per uno stile sobrio ed elegante. Come giudica le risse televisive sempre più frequenti? «A mio parere sono la parte meno interessante della televisione di oggi. Non perché non ami i programmi leggeri, ma soltanto perché, laddove al dialogo si sostituisce l’aggressione e l’insulto, perdo l’interesse e mi imbarazzo. Detesto litigare perfino a casa mia, figurarsi davanti alle telecamere. Ma a quanto pare la gente non la pensa come me visto che in televisione le risse alzano vertiginosamente gli ascolti». Com’è cambiato il giornalismo televisivo in questi ultimi 20 anni? E come dovrebbe, a suo avviso, modificarsi? «Il giornalismo è cambiato perché sono cambiati i mezzi di informazione. Vent’anni fa Internet non era così presente e la gente leggeva ancora i giornali. Invece oggi i giornali sono letti soprattutto dagli anziani e dagli addetti ai lavori. Le notizie corrono più velocemente basti pensare al web e ai telefonini. E inevitabilmente tutto si consuma in maniera magari più vorace, ma anche più superficiale. Vent’anni fa si leggevano i reportage degli inviati di guerra, che impiegavano giorni per scrivere e mandare la loro corrispondenza al giornale, oggi siamo bombardati in continuazione dai messaggi, tanto che si finisce per leggere solo il titolo della notizia sul Blackberry». Un’informazione istantanea, ma incompleta. Cosa propone per rimuovere l’inevitabile superficialità che si produce attraverso l’informazione veloce? «Va benissimo l’informazione totale di oggi, ma non bisognerebbe mai dimenticare l’approfondimento. E cercare di insegnare ai giovani quanto sia bello leggere il PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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giornale la mattina». Come giudica l’attuale stato del giornalismo italiano, da più parti accusato di essere troppo piegato alla politica e poco obiettivo? «Se sono i politici ad accusare il giornalismo di non essere obiettivo é un buon segno, significa che i giornalisti fanno bene il loro lavoro. Scherzi a parte, mi sembra che ci sia un’offerta ampia e variegata di quotidiani e di programmi di informazione fatti bene. Specialmente quelli che in televisione utilizzano sempre più il contributo di video amatoriali per raccontare la realtà, vista anche attraverso gli occhi della gente. Oggi, nel bene e nel male, tutto ciò che accade viene ripreso dai telefonini». Qual è stata la più grande lezione che ha imparato e da chi l’ha ricevuta? «Iniziare con il giornalismo sportivo è stata una palestra importantissima. Sia perché ho avuto grandi maestri come Marino Bartoletti e Giorgio Tosatti, Franco Ordine e Alberto D’Aguanno, ma anche perché il pubblico che segue lo sport é attento ed esigente, anzi è forse il più attento e il più esigente e se fornisci una notizia imprecisa ti bacchetta subito. In quei primi anni ho imparato non soltanto l’attenzione nella «OGGI LE NOTIZIE scrittura, ma anCORRONO PIÙ che e sopratVELOCEMENTE tutto a verificare metodicamente E INEVITABILMENTE ogni notizia». IL FATTO SI CONSUMA C’è un evento, IN MANIERA PIÙ una notizia, VORACE, MA ANCHE un servizio, PIÙ SUPERFICIALE» u n’ i n c h i e s t a che avrebbe voluto seguire da vicino? «Oggi ho la fortuna di poter scegliere i fatti e gli argomenti da seguire, quando sono libera dalla conduzione. E più che dalla cronaca, attualmente sono incuriosita dal costume e dai comportamenti delle persone. Mi piacerebbe riuscire a fare un programma che analizzi, racconti i mutamenti della società». DOSSIER | PIEMONTE 2009



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LA CONQUISTA DELL’AMERICA In un momento così delicato per le imprese torinesi, l’accordo tra Fiat e Chrysler sembra aver donato una nuova iniezione di fiducia a tutta l’economia piemontese. Secondo il presidente dell’Unione Industriale di Torino, Gianfranco Carbonato, la riuscita di questa operazione «è una lezione valida per il sistema delle imprese nel suo complesso». E tuona: «È così che si affronta la crisi» FEDERICO MASSARI ssere portati ad esempio dal presidente degli Stati Uniti non è una cosa da poco. Barack Obama, infatti, ha tenuto a rimarcare che la fusione tra Fiat e Chrysler salverà di certo la casa automobilistica americana. Chi conosce bene il presidente afroamericano sa che potrebbe metterci la mano sul fuoco. A tal proposito, il presidente dell’Unione Industriale di Torino, Gianfranco Carbonato si è detto molto soddisfatto di queste parole di elogio che arrivano dalla “lontana e amica” America. «Come presidente di Confindustria – commenta – non posso che esprimere profonda soddisfazione e orgoglio per questo illustre attestato di stima. I complimenti per il lavoro svolto e il riconoscimento delle proprie qualità e dei propri successi fanno sempre piacere, tanto più se arrivano dal neo presidente degli Stati Uniti, che sta incarnando l’esigenza di rinnovamento dell’intero pianeta». Sempre secondo Gianfranco Carbonato, Torino, e la sua industria, hanno messo a segno un nuovo risultato: «Una grande vi-

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sibilità in un momento in cui tutti hanno pochi asset vincenti da offrire per superare la crisi. Questa è la dimostrazione che l’eccellenza industriale paga sempre e che la nostra città trova nella tradizione una grande capacità di rinnovamento». Al di là del settore auto, il tessuto imprenditoriale torinese è in forte difficoltà. Il presidente di Confindustria Torino, continuando a parlare di recessione, ha infatti affermato che «giungono segnali piuttosto preoccupanti». E ha aggiunto. «È tutto fermo. A cominciare dai beni strumentali. Dobbiamo far ripartire la domanda». Grazie all’accordo avvenuto fra Fiat e Chrysler, la città di Torino, con la sua industria, ha messo a segno un importante risultato proprio nel momento in cui la crisi morde e tarda ad allontanarsi. Come commenta questa operazione? «L’operazione Fiat-Chrysler rappresenta una grande opportunità per tutto il sistema automotive torinese, perché l’auto non è solo il singolo marchio del player, ma è il frutto di tecnologie e competenze diffuse. Dopo la finanza,

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LA PAROLA AL PRESIDENTE

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LA PAROLA AL PRESIDENTE Gianfranco Carbonato

ora stiamo affrontando la seconda grande ondata della crisi, quella che riguarda l’industria. Questa crisi non deve tuttavia distrarci dal nostro obiettivo: è necessario proseguire nel processo di trasformazione e di modernizzazione dell’economia locale, senza soccombere di fronte al difficile momento congiunturale. Dobbiamo guardare avanti e raccogliere le nostre forze». Oltre a quello automobilistico quali sono gli altri settori trainanti da sostenere? «Tutti quei settori che producono beni durevoli e d’investimento: le macchine agricole, i camion, le macchine movimento terra e, soprattutto, impianti e macchinari industriali. Da tempo chiediamo con forza una Tremonti Ter, per intenderci». Come stanno affrontando la crisi le imprese del territorio? «La situazione nel complesso è critica, l’instabilità finanziaria è il fattore più dirompente, congiunto a una brusca contrazione DOSSIER | PIEMONTE 2009

dei consumi e a un diffuso ricorso all’utilizzo degli ammortizzatori sociali. E questo accade perché il Nord Ovest è tra i territori a maggiore intensità manifatturiera. A crisi conclusa, quando si ripartirà, e si ripartirà dall’economia reale, noi saremo favoriti». Quali sono le misure necessarie per garantire la competitività all’economia che la politica dovrebbe attuare? «Dal governo è stato approvato un ampio ventaglio di misure, certamente utili, come gli incentivi auto che hanno funzionato, le grandi opere, il ritorno al nucleare, ma che rischia di produrre effetti positivi solo fra molto tempo. In più circostanze, anche in Confindustria, ho sostenuto con forza l’esigenza di un intervento che preveda agevolazioni fiscali sugli investimenti, come ho detto una Tremonti Ter che serva a incentivare la ripresa e valorizzare le capacità competitive delle aziende. È necessario che queste siano pronte a ripartire non ap-

pena la ripresa si manifesti». Una delle sfide a cui sono chiamate le imprese è l’internazionalizzazione. Qual è la situazione a Torino? «L’Unione Industriale di Torino promuove da sempre iniziative dirette a sostenere i programmi di internazionalizzazione, in collaborazione e in parallelo con progetti analoghi di altri Enti, a cominciare dalla Camera di Commercio e dal CEIP. La difficile fase congiunturale ci impone uno sforzo aggiuntivo per contribuire a rafforzare e accrescere la posizione delle imprese sui mercati esteri: la prima parte dell’anno ci ha visto presenti in missioni in Sud Africa, in Russia e in Brasile. Tra i nostri nuovi servizi spicca il “Monitor dell’Internazionalizzazione” che mira a sviluppare sinergie fra le imprese, a diffondere e intensificare le attività di promozione strategica sui mercati che offrono maggiori potenzialità, organizzando meeting B2B, partecipazioni a fiere, in-


LA PAROLA AL PRESIDENTE

contri con i buyer». La ricerca è un altro tassello fondamentale. Che legame esiste tra mondo produttivo e Università? «Torino è la città del Politecnico, dei centri di ricerca privati, delle imprese High Tech, e in particolare dell’ICT, che stanno crescendo e che trovano, ad esempio, nell’aerospaziale, un valido terreno su cui puntare. L’industria torinese ha raccolto l’invito della Regione Piemonte a creare piattaforme innovative che aggreghino in partnership tutti gli attori presenti sul territorio e favoriscano lo sviluppo di progetti di ricerca avanzata e innovazione, attraverso un costante servizio di informazione e supporto. Frutto di questa sintonia è, ultimo nato, il Polo della Meccatronica e dei sistemi avanzati di produzione, al quale hanno aderito circa sessanta imprese con l’Università, il Politecnico, l’INRIM, l’Istituto Superiore Mario Boella, il CSP e l’Environment Park. Ma esistono

anche l’aerospace, la nautica, il distretto automotive, tutti segnali di solidità e di eccellenza del nostro apparato produttivo». E per quanto riguarda il rapporto delle imprese con il mondo del credito? «Il problema più urgente per le imprese è sicuramente la liquidità. C’è una situazione di diffusa difficoltà ad accedere al credito, che vede coinvolte soprattutto le piccole e medie imprese, di norma più vincolate e finanziariamente meno strutturate. Il credito viene oggi erogato in modo più selettivo e a un costo maggiore. Rimane il problema, grave, dei tempi dei pagamenti, anche da parte della pubblica amministrazione, verso la quale le aziende piemontesi vantano un credito di oltre cinque miliardi». Come si delinea sul tessuto torinese, l’andamento dei tassi di occupazione? «Per quanto riguarda l’occupazione nell’area torinese, il primo trimestre 2009 vede solo un leg-

gero aumento delle mobilità (9% contro il 26% del Piemonte). Ciò dipende dal fatto che, per affrontare questa delicata fase di crisi, lo strumento sinora utilizzato dalla maggioranza delle aziende è la cassa integrazione ordinaria, provvedimento che non comporta veri esuberi strutturali. Tuttavia, questo istituto deve essere tempestivamente rafforzato perché molte aziende sono oramai prossime all’esaurimento del periodo di 52 settimane previsto dalla legge. Inoltre i tempi di pagamento della CIG devono essere più rapidi perché le aziende non possono continuare ad anticipare le indennità. Le recenti positive modifiche alla disciplina della cassa integrazione possono dare un po’ di respiro. L’ampliamento degli ammortizzatori sociali è un fatto positivo, purché accompagnato da vere politiche che aiutino i lavoratori a riqualificarsi e non si trasformino invece in mero assistenzialismo, senza controlli».

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AGGREDIAMO LA CRISI NON I MANAGER La recente radicalizzazione delle proteste dei lavoratori non aiuta a superare la crisi né economica né occupazionale. È per questo che oggi più che mai secondo Cesare Damiano, ex sindacalista ed ex ministro del Lavoro, i sindacati devono impegnarsi per promuovere una politica che punti a sostenere il reddito con risorse aggiuntive, creando ammortizzatori sociali per incentivare i settori strategici in crisi e le Pmi MARILENA SPATARO

riflessi della crisi internazionale che di recente ha investito i mercati azionari non hanno tardato a farsi sentire sull’economia reale. E gli effetti sono stati pesanti soprattutto sul fronte del lavoro, come ampiamente dimostrano i dati presentati dall’Ocse al G8 dei ministri del Lavoro tenutosi alla fine dello scorso marzo a Roma. Secondo tale documento nel gennaio del 2009 il tasso di disoccupazione medio dell'area dei Paesi industrializzati membri dell'organizzazione ha raggiunto il 6,9%, quasi un punto percentuale in più rispetto a un anno prima, il che implicherebbe che in un anno quasi 7,2 milioni di lavoratori si sono aggiunti ai disoccupati dell'area. A risentire per primo e maggiormente di questa situazione è stato il settore dell’industria privata, un ambito in cui si sono registrati una serie di licenziamenti a catena e che sembrano essere la principale causa scatenante di un fenomeno di protesta da parte dei lavoratori cui non si era mai assistito nemmeno negli anni caldi della lotta operaia. Sta accadendo, infatti, che in Francia, ma anche in altri

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Paesi europei, alcuni manager di grandi società industriali vengono momentaneamente sequestrati. Fino a ora l’Italia fortunatamente ne è rimasta immune «Mi auguro che da noi non vi siano episodi di emulazione in tal senso, inoltre confido molto nella capacità unitaria del sindacato di rispondere alle situazioni di crisi e di disagio sociale» commenta Cesare Damiano sindacalista di livello nazionale, ex ministro del Lavoro nell’ultimo Governo Prodi, oggi deputato Pd. Che qui riflette in merito alle politiche da adottare sul terreno occupazionale ed economico per scongiurare altre crisi della stessa disastrosa portata di queste che al momento il mondo sta vivendo.

CESARE DAMIANO Deputato Pd, ex segretario generale della Fiom-Cgil e, nel precedente Governo Prodi, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. Il suo nome è legato all’attuazione della riforma della previdenza complementare (riforma del Tfr)


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«È CHIARO CHE UNA CRISI ECONOMICA E SOCIALE PUÒ ESSERE FORTEMENTE DESTABILIZZANTE, MA QUESTO NON CI AUTORIZZA A CONFONDERE LA LOTTA SINDACALE CON IL TERRORISMO»

Lei ha dichiarato che in Italia non sussiste il pericolo che la lotta dei lavoratori sfoci nel rapimento dei manager perché abbiamo un sindacato più forte che negli altri Paesi. Eppure l’immagine che in questi ultimi anni sta dando il sindacato non è esattamente di forza e stabilità. Sono stati commessi secondo lei degli errori? «Il sindacato, come tutte le grandi associazioni sociali e politiche, sta attraversando una crisi di rappresentatività. Essa non si traduce in un declino organizzativo, anzi, i dati di adesione tra i lavoratori attivi e i pensionati continuano a segnalare un invidiabile stato di salute. Del resto, anche all’inizio degli anni 90, in controtendenza

rispetto ad altri sindacati europei e statunitensi, il movimento sindacale italiano aveva dimostrato una sorprendente capacità di rinascita dopo le sconfitte e gli arretramenti degli anni 80. Un fenomeno che gli studiosi più attenti avevano evidenziato per la sua peculiarità. Ciò non toglie che il sindacato non debba fare i conti con inedite trasformazioni che saranno sicuramente accentuate dalla crisi in corso e dal carattere della sua conclusione. La domanda che tutti quanti si pongono è quali saranno le trasformazioni che la crisi indurrà sul tessuto economico e sociale e quale nuovo paradigma di sviluppo si imporrà dopo la crisi del neoliberismo e della deregolaPIEMONTE 2009 | DOSSIER

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zione globale. É probabile che la perdita di lavoro nei settori manifatturieri a occupazione stabile che è una parte significativa della crisi in corso, evidenziata dalle dosi crescenti e massicce di cassa integrazione, accentui ulteriormente il carattere duale dell’attuale mercato del lavoro. Questo potrebbe produrre una crescente conflittualità tra insider e outsider che il sindacato stenta già oggi a governare e rappresentare. A questo si aggiunga il fatto che nella globalizzazione l’apertura e la chiusura di molti stabilimenti produttivi dipende dalle decisioni delle direzioni strategiche delle aziende multinazionali che privano in questo modo il sindacato e il territorio, e persino i governi centrali, di un potere di intervento e di controllo. In questa situazione la mancanza della ricerca di una minima convergenza uniDOSSIER | PIEMONTE 2009

taria tra i maggiori sindacati può ulteriormente indebolire la forza del suo movimento». Quale linea sarebbe meglio tenere ora e come giudica la strategia della Cgil in particolare? «In questo momento, a mio avviso le organizzazioni sindacali che si sono divise sulla definizione del modello contrattuale, dovrebbero trovare un altro terreno di convergenza. Indubbiamente una risposta ai temi della crisi, dello sviluppo, dell’occupazione, delle tutele e del reddito potrebbe rappresentare nell’attuale situazione un terreno di ricerca comune così come un accordo tra Cgil, Cisl e Uil sul tema della rappresentatività sindacale, anche utilizzando il documento unitario elaborato nell’estate del 2008, può essere un punto di riferimento». Impossibile non ripensare agli anni di piombo quando gli im-

prenditori, e non solo, furono bersaglio del terrorismo. Oggi la crisi non potrebbe innescare una nuova spirale di violenza? «Come si è visto in alcuni paesi europei i lavoratori adottano forme di lotta radicali, ad esempio il sequestro dei manager, come risposta ad una crisi violenta che porta dall’oggi al domani alla perdita dell’occupazione e del reddito. È chiaro che una crisi economica e sociale può essere fortemente destabilizzante, ma questo non ci autorizza a confondere la lotta sindacale con il terrorismo. Vorrei ricordare che, negli anni di piombo, da noi un baluardo fondamentale contro il brigatismo fu il sindacato che svolse un’azione costante e capillare di persuasione e di coinvolgimento e di incrollabile difesa del sistema democratico. Quello che può dividere sul modello contrattuale


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non divide più quando in gioco nella fabbrica, nel territorio o nel gruppo industriale, sono i posti di lavoro. Fino ad ora nelle piazze ho incontrato lavoratori appartenenti a tutte le organizzazioni sindacali, ed è quello che normalmente accade quando si tratta di difendere il proprio futuro». Prevenzione diventa una parola chiave nel momento in cui si tratta di evitare derive estremiste di lotta. Quali sarebbero le misure adeguate per dare maggiori sicurezze ai lavoratori, soprattutto in questo momento di crisi? «Bisognerebbe favorire una politica più aggressiva per rispondere alla crisi investendo risorse fresche e aggiuntive per sostenere il reddito, per creare ammortizzatori sociali che siano davvero universali e per incentivare i settori strategici in crisi e le piccole e medie im-

prese. Questa scelta il governo non l’ha fatta perché ha privilegiato la difesa dei saldi di bilancio mentre le risorse, che vengono annunciate o promesse, non sono aggiuntive, ma semplicemente rappresentano lo spostamento di poste di bilancio già esistenti. Sarebbe invece necessario un intervento straordinario sullo stesso livello di quanto stanno facendo altri paesi europei e gli Stati Uniti». Lei è responsabile del lavoro per il Pd ed ex sindacalista. Quali proposte concrete metterete sul tavolo per sostenere giovani e disoccupati? «Nell’immediato, come Partito Democratico abbiamo avanzato alcune proposte concrete: un assegno mensile di disoccupazione per chi ha perso il lavoro a progetto o a termine, pari al 60% dell’ultima retribuzione mentre il governo, con le ultime misure,

prevede un intervento circoscritto al solo 20%. Ma è difficile poter vivere con 150-200 euro al mese. In secondo luogo abbiamo richiesto la sospensione dei licenziamenti dei precari della pubblica amministrazione e della scuola. Il Ministro Sacconi, il quale ha avanzato una proposta di moratoria dei licenziamenti delle imprese private, per essere coerente dovrebbe suggerire al suo collega di governo, Renato Brunetta, di non licenziare nella pubblica amministrazione. Il governo predica bene ma razzola male. Infine sarebbe necessario allungare il periodo della cassa integrazione ordinaria portandola dagli attuali 12 mesi a 24 mesi per consentire alle imprese di avere uno strumento che allontani dal rischio di licenziamento. Questa proposta trova un ampio consenso delle parti sociali». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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POLITICHE DEL LAVORO Pietro Ichino

IL FLESSIBILE DIVENTA STABILE Nessuna pregiudiziale nei confronti di una modifica dell’articolo 18 della legge 300. Purché il datore di lavoro nell’assumere nuovi dipendenti a tempo indeterminato, in cambio di una disciplina meno vincolante sul licenziamento, s’impegni a fondo sul fronte degli ammortizzatori sociali. Parte da qui, secondo Pietro Ichino, noto giuslavorista e senatore Pd, il percorso verso una seria riforma in materia di lavoro MARILENA SPATARO

n Italia chi tocca lo statuto dei lavoratori muore». Questa la frase che Pietro Ichino, noto giuslavorista, docente ordinario di diritto del lavoro all’Università Statale di Milano, ex deputato del Pci e oggi senatore nella circoscrizione della Lombardia del Pd, partito che ha contribuito a fondare, si è trovato a dover amaramente pronunciare alcuni mesi fa al processo di Milano contro le nuove Br. Occuparsi di riforma in materia di diritto del lavoro e in particolare della legge 300 del 70, meglio conosciuta come Statuto dei lavoratori, e relativo articolo 18 che tratta la disciplina del licenziamento, ha creato non pochi problemi al professore, costringendolo a vivere sotto scorta per evitare di essere colpito a morte dalle stesse formazioni terroristiche di sinistra che anni fa colpirono i suoi colleghi, Massimo D’Antona e Marco Biagi, che stavano attendendo a un lavoro di riforma sulle medesime materie. Ma perché in Italia affrontare tematiche che si collegano alla riforma del lavoro è tanto pericoloso e perché, al di là delle posizioni estremistiche e criminali,

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questo argomento suscita sempre e comunque discussioni e dibattiti interminabili a sinistra, anche quando a proporne la revisione sono personaggi facenti capo in un modo o nell’altro a quella tradizione ideologica o comunque a quella parte politica? Pure in una situazione di economia globalizzata come l’attuale, appare evidente a tutti quanto la flessibilità del lavoro costituisca la conditio sine qua non per permettere agli imprenditori di mantenersi competitivi sul mercato dando vita a processi di modernizzazione che consentano la crescita non solo della singola azienda ma anche dell’intero sistema produttivo nazionale, il che gioca anche a tutto a vantaggio di nuove opportunità lavorative e occupazionali. È in questo contesto che si inserisce la discussione sull’articolo 18. Si tratta, infatti, di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di un lavoro protetto, ma non iper protetto come accade in vigenza dell’attuale normativa prevista dall’articolo 18, e appunto l’esigenza di flessibilità del mercato. Flessibilità che in questo momento proprio a causa della presenza di

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INNOVATORE Pietro Ichino è senatore Pd e docente universitario di Diritto del lavoro. Da anni si interessa di riforme nel campo di questa specializzazione


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questo articolo è stata scaricata soprattutto sulle nuove generazioni che non solo sono prive di qualsiasi sicurezza rispetto al mantenimento del loro posto di lavoro ma, quasi sempre, sono anche prive di qualsiasi garanzia che le tuteli sotto il profilo previdenziale e della sicurezza sociale. Il tentativo di modificare l’articolo 18 peraltro risale già al Governo Berlusconi III che realizzò un disegno di legge delega per la sua sospensione temporanea e la sua sostituzione con alcuni provvedimenti provvisori. Ma in seguito alle posizioni ostili assunte in merito dai sindacati, specie dalla Cgil, il governo in quell’occasione dovette soprassedere. In questa nuova legislatura è stato presentato da due parlamentari del Pdl un nuovo progetto di DOSSIER | PIEMONTE 2009

legge che va a riformare il comma 5 dell’articolo 18. Ecco cosa ne pensa Pietro Ichino. Lo scorso luglio è stata presentata alla Camera una proposta di riforma dell’articolo 18, concernente la facoltà del datore di lavoro di corrispondere al prestatore di lavoro un’indennità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro. Qual è la sua opinione in merito a questa proposta? «Immagino che il riferimento sia alla proposta di Giuliano Cazzola. Credo che questa riforma sia politicamente proponibile solo nella logica della flexicurity europea: cioè se, e nel momento in cui, si allenta il vincolo di stabilità del posto, si offrono elementi di maggiore sicurezza ai lavoratori nel mercato del lavoro».

Potrebbe essere una misura utile in un momento di crisi economica generalizzato come questo? «Soltanto se la nuova disposizione viene applicata alle nuove assunzioni: in questo modo si favoriscono le assunzioni con rapporto regolare a tempo indeterminato. Applicata anche alle vecchie posizioni, invece, questa misura potrebbe produrre l’effetto di aggravare la crisi». Già nel 2001 il Governo Berlusconi aveva avanzato una proposta del genere, ma questa portò al conflitto con i sindacati e non se ne fece niente. Parlare di riforma del sistema del licenziamento individuale è un tabù in Italia? «Anche in quell’occasione si è cercato di modificare la disciplina


POLITICHE DEL LAVORO

«CREDO CHE LA PROPOSTA CAZZOLA SIA POLITICAMENTE PROPONIBILE SOLO NELLA LOGICA DELLA FLEXICURITY EUROPEA: CIOÈ SE, E NEL MOMENTO IN CUI, SI ALLENTA IL VINCOLO DI STABILITÀ DEL POSTO, SI OFFRONO ELEMENTI DI MAGGIORE SICUREZZA AI LAVORATORI NEL MERCATO DEL LAVORO»

dei licenziamenti senza contestualmente rafforzare gli ammortizzatori sociali: trattamenti di disoccupazione e assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca della nuova occupazione». In quale altro Paese europeo esiste una tutela per i lavoratori che può essere paragonata a quella che offre l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori italiano? «L’ordinamento che si avvicina di più al nostro è quello tedesco, dove però, in caso di licenziamento ritenuto illegittimo, la decisione della reintegrazione del lavoratore è rimessa alla discrezionalità del giudice. E di fatto, nella Rft, la reintegrazione viene disposta soltanto nel cinque per cento dei casi di sentenza sfavorevole all’imprenditore: sostan-

zialmente solo nei casi di discriminazione illecita». Su quali fronti occorre intervenire per far sì che l’ordinamento italiano sia effettivamente moderno e rispondente alle esigenze attuali della società e del mercato? «Occorre coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza per i lavoratori. Quindi deve essere una sicurezza fondata sulla garanzia, in caso di licenziamento per motivi economici, della continuità del reddito e dell’assistenza di alta qualità nel mercato del lavoro. Ed è una garanzia che può essere data dalle imprese stesse, in cambio della maggiore flessibilità. Questo, in estrema sintesi, è quanto prevede il dise-

gno di legge per la transizione a un regime di flexicurity che ho presentato al Senato il 25 marzo scorso con altri trenta colleghi». Da più parti si invoca un sistema del lavoro che sia flessibile in entrata, ma anche in uscita. Una revisione dell’articolo 18 potrebbe essere utile in questo senso? «Il mio disegno di legge prevede, appunto, che alle imprese disposte a offrire ai propri nuovi dipendenti, nel caso di perdita del posto, una garanzia di sicurezza strutturata secondo il modello danese si applichi anche una disciplina del licenziamento di tipo danese. Questo significa lasciare all’impresa una grande libertà nelle scelte organizzative e di “aggiustamento industriale”, ma al tempo stesso responsabilizzarla circa il costo sociale di quelle scelte». Quali sono secondo la sua opinione gli interventi positivi attuati dall’attuale governo in questo primo anno di attività in tema di diritto del lavoro e quali invece quelli negativi? «In questo campo il governo ha scelto sostanzialmente la linea della “moratoria legislativa”: non si tocca nulla del vecchio assetto della disciplina del rapporto di lavoro, per paura di commettere di nuovo passi falsi come quello del 2002 sull’articolo 18. In questo modo si conserva l’attuale regime di apartheid tra lavoratori iperprotetti da una parte e poco o per nulla protetti dall’altra. Questo regime, anche se il ministro Brunetta la pensa diversamente, ha grossi difetti sul piano dell’equità e al tempo stesso su quello dell’efficienza». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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IL MINISTRO IN PRIMA LINEA Renato Brunetta

INSEGUENDO SEMPRE IL SENSO DEL DOVERE Il rinnovo del contratto nazionale relativo al pubblico impiego si rivela, da sempre, uno dei momenti più delicati della politica interna del nostro Paese. Rappresenta un atto con cui lo Stato, interpretando i bisogni dei cittadini, si rende concretamente responsabile del livello di efficienza della funzione pubblica. Un’occasione importante per distribuire la ricchezza anche in ragione di quanto ognuno si è adoperato nel proprio lavoro RENATO BRUNETTA

uando me l’hanno raccontato ho sorriso. Lì per lì non mi ero accorto di nulla. Carlo Podda, bravo e sanguigno segretario generale della Funzione Pubblica della Cgil, si era piazzato a due metri dalla porta del mio ufficio, deciso ad arringare una buona dozzina di giornalisti. Mancavano pochi minuti alla conferenza stampa nella quale avrei illustrato il protocollo d’intesa sul rinnovo del contratto, appena sottoscritto da tutte le principali organizzazioni sindacali. Tutte, eccetto una: la Cgil, appunto. Un mio collaboratore gli si è avvicinato, pregandolo di allontanarsi. «Non è né il luogo né il momento adatto. Parli pure alla stampa ma fuori di qui, sul marciapiede. Questa non è casa sua». «Lei è un gran maleducato. Io queste cose le faccio da sempre a Palazzo Chigi». «Le ricordo che questo è palazzo Vidoni» è stata la replica, e c’è voluto l’intervento cortese, ma fermo, dei commessi perché la sua mole massiccia si spostasse finalmente sulla tromba delle scale di servizio. (…) La verità è che Palazzo Vidoni non è più lo stesso, e la colpa è tutta mia. Latita il fol-

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clore. Anche i nostalgici delle riunioni notturne a oltranza nella vasta sala Stoppani se ne sono fatti una ragione: qui dentro ormai si lavora e basta. Le passerelle televisive, le gazzarre estemporanee buone per il Tg della sera vanno organizzate altrove. Il contratto del pubblico impiego è sempre stato un momento complicato e rivelatore della politica nazionale. La cosa può avere diverse chiavi di lettura. La si può vedere come il momento in cui il governo si fa interprete dei bisogni dei cittadini nel regolare la remunerazione di chi lavora negli uffici pubblici. Oppure come l’occasione che si offre al politico per “pagare” un gran numero di elettori. O, ancora, come il momento in cui due organizzazioni che puntano al consenso, ovvero la politica e i sindacati, mettono in conto alle casse dello Stato il loro bisogno di mostrarsi munifici nei confronti di militanti, iscritti ed elettori. Il rinnovo del contratto di lavoro, nel mercato aperto alla concorrenza, è la sede più adatta per calcolare il contributo dei diversi fattori produttivi alla crescita della competitività, per armonizzare il trattamento salariale con le innovazioni del ciclo

produttivo, per tenere conto delle esigenze del mercato e, naturalmente, per distribuire la ricchezza prodotta in ragione di quanto ciascuno si è adoperato per ottenere il risultato. Nel settore pubblico, chiuso ad ogni forma di concorrenza, il contratto dovrebbe comunque servire per rendere coerente l’organizzazione e la retribuzione del lavoro con le riforme dei procedimenti interni e con le innovazioni nelle linee di prodotto, tenendo costantemente presenti sia la qualità del servizio offerto ai cittadini, sia i costi di un sistema che si finanzia con le tasse pagate dagli stessi. (…) Il modello contrattuale (il Protocollo del 1993) in vigore fino al 22 gennaio 2009 vincolava rigidamente i dipendenti privati a contrattare le retribuzioni decentrate nel rispetto della performance economica dell’impresa, mentre non prendeva nessun limite oggettivo alle risorse da allocare per la contrattazione nel pubblico impiego. E la contrattazione collettiva nel pubblico impiego soffriva da tempo di cronici ritardi, tanto che il rinnovo dei contratti scaduti richiedeva anni di attesa. (…)


IL MINISTRO IN PRIMA LINEA

IL PIÙ AMATO Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione

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IL MINISTRO IN PRIMA LINEA Renato Brunetta

Per porre rimedio ai tanti problemi riscontrati nell’applicazione del protocollo del 1993, abbiamo aperto da novembre 2008 un tavolo di concertazione con le organizzazioni sindacali, per definire il nuovo modello contrattuale sulla base dell’adeguamento al settore pubblico delle linee guida per la riforma del modello contrattuale privato, sottoscritte il 10 ottobre 2008 da Confindustria, Cisl e Uil. Mi sono mosso con l’intento di definire rapidamente e applicare dal 2010 un nuovo modello contrattuale coerente con l’obiettivo di una ripresa della crescita economica fondata sull’aumento della produttività dei fattori, sulla competitività internazionale del Paese e sull’incremento delle retribuzioni. (…) Questo attento lavoro preparatorio mi ha consentito di arrivare a sottoscrivere, il 22 gennaio 2009, la riforma della contrattazione insieme a Confindustria e a tutte le altre associazioni imprenditoriali, oltre che a Cisl, Uil e Ugl. (…) La riforma del modello contrattuale intende stabilire – con carattere sperimentale e per la durata di quattro anni – le regole e le procedure cui attenersi nella negoziazione e nella gestione della contrattazione collettiva. In questa prospettiva, l’intesa propone un unico modello contrattuale per tutti i comparti di contrattazione, pubblici e privati. (…) La crescita dell’economia e il miglioramento del reddito dei lavoratori vanno perseguiti attraverso un sistema di contrattazione articolato su due livelli, tra loro complementari e non sovrapposti, così da tutelare in modo uniforme, sull’intero territorio nazionale, il potere d’acquisto delle retribuzioni e incentivare, a livello locale, il miglioramento continuo della produttività e della qualità di processi e prodotti. (…) L’innovazione della pubblica amministrazione passa anche dall’innovaDOSSIER | PIEMONTE 2009

«I LAVORATORI, CHE ANCOR PRIMA SONO CITTADINI, SONO PERSONE ADULTE E RAZIONALI, CUI SI DEVE RACCONTARE ESATTAMENTE COME STANNO LE COSE E METTERLI DI FRONTE ALLE SCELTE POSSIBILI. SENZA DAR VITA AL MERCATO DELLE PROMESSE, DELLE FALSE TENSIONI E DEI PREVEDIBILI CEDIMENTI»

zione dei modelli contrattuali, non essendo possibile sperare in un’amministrazione moderna che resti agganciata a modalità retributive del passato. E mentre a chiacchiere tutti si dichiarano favorevoli a premiare i meritevoli, poi, nella pratica, molti si rifiutano di adottare i sistemi e gli strumenti per farlo. Sono gli stessi che mi accusano di accomunare tutti i dipendenti pubblici in un

giudizio qualunquisticamente negativo. Non solo non l’ho mai fatto, ma credo di lavorare in direzione esattamente opposta. Innovare non serve solo a quella grande azienda che è l’amministrazione pubblica, serve anche alla politica e ai sindacati. Troppe volte questi protagonisti si adagiano sulle antiche ritualità, sulle trattative notturne, sui tavoli lunghi e affollati. Non si tratta, ov-


IL MINISTRO IN PRIMA LINEA

DALLA PROTESTA AL DIALOGO COSTRUTTIVO Il decreto Brunetta è stato l’occasione per gli infermieri della sanità pubblica piemontese per avviare un confronto con le istituzioni su una diversa e migliore gestione dei servizi sociali e sanitari È nel campo della Sanità che il Decreto Brunetta che taglia gli sprechi nella pubblica amministrazione ha generato in Piemonte le maggiori proteste. A scendere in campo sono stati gli infermieri attraverso il loro sindacato, Nursing Up, contestando quella parte del provvedimento che regola la concessione del part time da parte delle aziende. «È successo – spiega Claudio Delli Carri, responsabile regionale dell’organizzazione sindacale – che appena è entrata in vigore la nuova normativa in quasi nessuna delle nostre aziende sanitarie è stato più concesso il part time». Sebbene, secondo il rappresentante sindacale, esistessero tutte le condizioni per ottenerlo. «Nella maggior parte dei casi – continua – la concessione di questo trattamento è una priorità e deriva da necessità varie e complesse, quali accudire i propri bambini o più in generale prestare aiuto a familiari non autosufficienti». Nel contestare i criteri d’applicazione del decreto Brunetta delle aziende sanitarie sia locali che ospedaliere piemontesi, il sindacato già a suo tempo aveva fatto notare come teoricamente esistono i presupposti per ricollocare anche il 25% dei dipendenti che hanno fatto richiesta del part time, e come, inoltre, il metodo di ricognizione da queste adottato per individuare le strutture per la ricollocazione era stato carente, avendo guardato più che alla situazione complessiva di tali strutture a quella particolare interessata alla concessione del part time. A essere stato messo in discussione dagli infermieri del Piemonte non è tanto dunque il decreto Brunetta in sé quanto la interpretazione che le aziende sanitarie ne hanno dato. Da questa consapevolezza è scaturito da parte di Nursing Up un atteggiamento costruttivo, finalizzato soprattutto a rimuover le cause per le quali si ricorre alla richiesta del part time; l’obiettivo è responsabilizzare, la Regione Piemonte e l’assessorato alla Sanità relativamente alla necessità di individuare una diversa distribuzione dei turni operativi e degli orari di lavoro per la classe infermieristica e anche un piano regionale che punti a creare servizi sociali più efficienti capaci di soddisfare le diverse esigenze di chi lavora.

viamente, di togliere la parola a qualcuno, ma di togliere di mezzo le parole inutili, di tutti. (…) I la-

voratori, che ancor prima sono cittadini, sono persone adulte e razionali, cui si deve raccontare esattamente come stanno le cose e metterli di fronte alle scelte possibili. Senza dar vita al mercato delle promesse, delle false tensioni e dei prevedibili cedimenti. (…) Il costo della pubblica amministrazione, lavoratori compresi, non può prescindere dalla situazione economica complessiva e non deve mai dimenticare di essere coperto con i soldi della fiscalità, prelevati ad altri lavoratori impegnati nel settore privato. Deve

mirare ad aumentare la produttività, premiando, in soldi e carriera, chi lavora meglio e di più. Deve avere nella soddisfazione del cliente, dei cittadini, una bussola da non smarrire mai. Naturalmente possono esserci modi diversi di vedere gli interessi in gioco e di valutare come premiarli o remunerarli, non escludendo di deluderne alcuni. Ma questo deve avvenire alla luce del sole, chiarendo cosa e perché lo si sta facendo, senza che sia un mestiere esoterico, di pochi e per pochi. Tratto da Rivoluzione in corso – il dovere di cambiare dalla parte dei cittadini di Renato Brunetta, edito da Mondadori, 2009, per gentile concessione dell’autore

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LE FIAMME GIALLE PER GUARIRE LA GRANDE FERITA La macchina dei soccorsi si attiva immediatamente e forte è l’impegno delle Forze armate. Mentre la scuola della Guardia di finanza dell’Aquila viene eletta a “cittadella delle istituzioni”. E tra chi appartiene a quei luoghi c’è chi, come Gianni Letta, si sente «due volte abruzzese» MARA COSTANTINO - FOTO RICCARDO VENTURI / CONTRASTO

ifficilmente gli abruzzesi potranno dimenticare la notte tra il 5 e il 6 aprile, quando alle ore 3:32 la terra ha tremato con una forza pari a magnitudo 5,8 della scala Richter, colpendo il territorio della provincia dell’Aquila e di altri Comuni della regione Abruzzo. «Oggi, quasi cent’anni dopo , la terra è tornata a tremare in maniera rovinosa. Città, paesi, borghi antichi, monumenti, chiese e conventi distrutti nel silenzio della notte. E ha colpito il simbolo stesso della regione, la bella e amatissima città dell’Aquila». Queste le parole di un abruzzese doc come il sottosegretario Gianni Letta che ha dato la sveglia al governo. E ha ribadito: «Oggi, più che mai, mi sento abruzzese. Abruzzese due volte». Nato ad Avezzano e, sin da bambino, cresciuto con la terribile “favola” del terremoto, più tardi, ragazzo alle prime armi del giornalismo, provava a riordinare e

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scrivere il racconto degli anziani sul sisma del 13 gennaio 1915 che distrusse la sua città. Conosce la gente d’Abruzzo, il sottosegretario, secondo il quale in momenti come questi vale più che mai quella espressione antica e forse abusata, ma profondamente vera che vuole gli abruzzesi “forti e gentili”. Forti di fronte al dolore e alla sofferenza, gentili nella solidarietà e nello slancio verso chi ha bisogno. Al loro fianco, lo Stato, il governo con tutte le strutture di cui dispone. Ma soprattutto «con il cuore e l’impegno di tutti gli uomini delle istituzioni», assicurava Letta. Non c’è conferma che sia stato Letta, la mattina della tragedia, a fermare Berlusconi, in procinto di volare a Mosca. Di certo il premier ha rinunciato al previsto summit con Putin per potersi recare all’Aquila già nelle prime ore del giorno del sisma. Da allora sono state 44 le ore consecutive di lavoro senza andare a letto


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per Silvio Berlusconi. Dalle prime e immediate verifiche si sono registrati crolli in particolare nel centro storico del capoluogo e in numerosi paesi limitrofi, soprattutto Paganica, Fossa e Poggio Licenze, fino alla notizia della quasi totale distruzione del centro storico di Onna. In seduta straordinaria il Consiglio dei ministri, alle 19 della stessa giornata di lunedì procedeva alla dichiarazione dello stato di emergenza. Sin da subito la scuola della Guardia di finanza è stata scelta per istituire la direzione comando e controllo, a cui sono seguiti 5 centri operativi misti, tra L’Aquila, San Demetrio, Pizzoli, Rocca di Mezzo e Paganica, per ospitare 31 aree di ricovero. Da semplice base per volo da diporto, Preturo viene trasformato in brevissimo tempo in una base aerea operativa 24 ore su 24 con l’attivazione di una torre di controllo messa a disposizione dall’Enac sotto il coordinamento

della Protezione civile. La Guardia di finanza, composta di 65mila persone, con 700 impiegati in reparto aereo e con una flotta che conta un centinaio di mezzi tra aerei ed elicotteri, scende in campo e non solo per attività di polizia economico-finanziaria, ma con tre elicotteri e un mezzo ad ala fissa capace di consentire il trasporto sanitario con 14 barelle. «Sin dai primi momenti, confermata alla Protezione civile la disponibilità dei nostri assetti, ci siamo attivati garantendo un contributo continuativo in configurazione medical evacuation» spiega il colonnello della Guardia di finanza Maurizio Muscarà, responsabile per il dispositivo aereo a Preturo, che conferma, come il corpo si sia distinto nel tempo per l’attenzione a investimenti in ambito tecnologico. «Bisogna dare conto dell’immediata attivazione da parte del sistema della Protezione civile e dello straordinario impePIEMONTE 2009 | DOSSIER


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gno manifestato da parte di tutti gli uomini delle Forze armate e delle Forze dell’ordine, Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza, ma anche Corpo forestale, Vigili del fuoco e gli uomini del volontariato». Così si esprime il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito nel corso del suo intervento al Senato dell’ 8 aprile 2009, inteso a sottolineare i numeri della macchina del soccorso. Nove i nuclei di Protezione civile partiti nel corso della mattina del 6 aprile per le località maggiormente colpite, mentre venivano attivate tutte le colonne mobili dei Vigili del fuoco, da tutte le regioni italiane, ad eccezione naturalmente della Sicilia e della Sardegna per evidenti ragioni logistiche. Al 7 aprile il personale del dipartimento della Protezione civile impiegato nell’attività di coordinamento e verifica dei danni risultava essere di circa 110 unità, mentre il numero delle forze impiegate dall’intero sistema della Protezione civile ammonta a circa 8mila, con la presenza di persone provenienti da 12 Regioni. Particolarmente DOSSIER | PIEMONTE 2009

importante l’apporto fornito dalle Forze armate: tale contributo si è materializzato, sin dalle prime ore dell’emergenza, stante la presenza nella regione Abruzzo di reparti delle Forze armate dislocati in forma stanziale, con l’intervento di squadre e mezzi specialistici per la ricognizione e il primo soccorso tratti dal 9° reggimento degli alpini e dal 33° reggimento di artiglieria terrestre “Acqui” con sede all’Aquila e del 123° Reggimento con sede a Chieti. Dal mattino del 6 aprile erano disponibili al decollo 59 mezzi aerei a cui si sono aggiunti altri 9 già operativi, diventati il giorno seguente 25 e 11 sono stati quelli impiegati nell’emergenza. Grazie alla tempestiva mobilitazione è stato possibile un pronto soccorso dando alle popolazioni colpite dal terremoto l’immediata percezione della presenza dello Stato. Le tendopoli allestite sono 20 per un totale di più di 2.416 ricoveri, in grado di ospitare fino a 14.500 persone ed è stata assicurata la distribuzione giornaliera di circa 18mila pasti, grazie a 25 cucine da campo. Le persone assistite sono circa


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18mila. Già dal 6 aprile la città di Pescasseroli ha reso disponibili 4mila posti letto in alberghi e campeggi per gli abitanti della provincia dell’Aquila. Nel prosieguo dell’emergenza, si sono aggiunti man mano assetti specialistici terrestri e aerei che hanno consentito la costituzione di ben tre task force di Esercito, Marina e Aeronautica, per un totale di 1.530 unità di personale impiegate e dotate di 96 mezzi speciali (escavatori, ruspe, torri di illuminazione), 104 mezzi ruotati, 20 elicotteri e 7 aerei (mezzi tuttora impiegati nelle zone colpite dal sisma). L’Esercito, per eventuali ulteriori concorsi in campo sanitario da schierare in zona, ha approntato e reso disponibili un centro sanitario campale per il ricovero e la cura e un posto di medicazione avanzato. Immediato l’intervento del personale dell’arma dei Carabinieri, inquadrato nel comando regionale “Abruzzo”, rinforzato da altri 300 Carabinieri provenienti da regioni limitrofe, nonché dagli assetti specialistici fatti affluire in zona, comprendenti, tra l’altro, 7 unità cinofile per la ricerca di dispersi,

un nucleo per l’identificazione delle vittime di disastri, un’aliquota del comando Carabinieri per la tutela della salute, addetta in particolare al controllo della salubrità delle acque), 16 stazioni mobili in sostituzione delle caserme particolarmente danneggiate, che sono state dislocate nelle località specificatamente colpite dal sisma, e 2 elicotteri impiegati in volo con compiti di ricognizione e trasmissione delle immagini. Inoltre, nuclei di collegamento dotati di apparati satellitari avanzati sono anche essi presenti nelle zone colpite dal sisma. Dei Vigili del fuoco, alle ore 7 del 6 aprile, erano già presenti sul posto circa 300 uomini, con circa 100 mezzi operativi. Per effettuare le ricognizioni delle aree sinistrate e per soccorrere i superstiti, sono decollati 4 elicotteri provenienti dai reparti volo di Pescara, Bologna e Roma, con equipaggio integrato con aerosoccorritori dei Vigili del fuoco, specializzati in tecniche speleo-alpinistiche. Nelle ore successive, sono aumentate le forze in campo, sino ad arrivare, intorno alle ore 18, a circa 1.200 unità

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operative, con oltre 600 mezzi impegnati sul territorio. Sempre alle ore 18 il Corpo aveva anche reso operativi circa 50 funzionari tecnici specializzati in verifiche della stabilità delle strutture, 40 mezzi speciali movimento terra, 40 unità cinofile, 13 squadre, per un totale di oltre 90 unità specializzate in tecniche speleo-alpino-fluviali, 6 squadre specialistiche per la ricerca delle persone sotto le macerie con attrezzature specifiche di alta tecnologia, quali geofoni, termocamere, attrezzature per il taglio del cemento armato. Sul territorio colpito dal terremoto erano 168 le sezioni operative provenienti da tutte le regioni d’Italia, per un totale di 2.386 unità, con 83 funzionari tecnici direttivi (ingegneri e architetti), 13 squadre (per un totale di 90 unità specializzate), 6 squadre specialistiche per la ricerca delle persone sotto le macerie: oltre 100 estratte vive. Impiegati circa 1.000 mezzi, tra cui 51 mezzi speciali movimento terra e relative strutture di supporto, 24 autoscale, 8 autogrù, 30 torri faro, 3 mezzi mobili attrezzati per la trasmissione satellitare, 3 ponti radio mobili e 4 elicotteri. Nelle zone colpite dall’evento calamitoso, per le Forze dell’ordine erano preDOSSIER | PIEMONTE 2009

senti 1.724 unità, di cui 566 della Polizia di Stato, 460 dell’arma dei Carabinieri, 318 della Guardia di finanza. 380, invece, le unità operative del Corpo forestale dello Stato. Al fine di garantire l’ordine pubblico e per le esigenze di soccorso risultano anche impiegate 220 unità dei reparti mobili di Roma, Napoli, Bologna, Bari e della scuola di Senigallia: oltre 30 pattuglie per gli interventi di soccorso e la gestione della viabilità, e l’invio di ulteriori 26 pattuglie di rinforzo provenienti dai compartimenti del Lazio, delle Marche, della Toscana, della Campania, del Molise e dell’Umbria. Dai dati in possesso del dipartimento della Protezione civile, il numero delle organizzazioni nazionali di volontariato di Protezione civile attivate ammontava a 17, per un totale di 941 unità operative presenti in loco, raggiunte da un primo scaglione di 245 unità e, successivamente, da un altro scaglione composto da 243 unità, affiancate dalla Croce rossa italiana e dal corpo nazionale Soccorso alpino e speleologico. La notizia di oltre 200 morti, 1.500 feriti, 70mila sfollati, di 10-15mila edifici danneggiati con danni al patrimonio storico e artistico della regione


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ha superato i confini nazionali facendo il giro del mondo. Sono 35 le nazioni che hanno offerto al nostro Paese la propria solidarietà nel fronteggiare l’emergenza. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto parole di ringraziamento ai soccorritori, sottolineando «lo sforzo di efficienza e di generosità straordinari nell’ambito di organizzazione dello Stato e della mobilitazione dei cittadini». Gli uomini che si sono adoperati per i soccorsi e per il controllo del territorio si sono trovati a dover fronteggiare ancora un fenomeno odioso come quello dello sciacallaggio, che ha fatto, se pur per brevissimo tempo, la sua comparsa tra le macerie dei Comuni abruzzesi colpiti dal sisma. Contro gli sciacalli è stato immediato l’intervento di Polizia e Carabinieri e anche la Guardia di Finanza è all’opera per recuperare e custodire i beni di valore rimasti sotto le rovine. A una prima attività della Guardia di finanza di tipo emergenziale, ne segue una seconda di cooperazione con compiti istituzionali come l’antisciacallaggio, individuando di volta in volta i siti e pianificando una turnazione. Per tali operazioni quotidiane, il corpo delle Fiamme gialle sorvola aree

ristrette e in avvicinamento grazie a elicotteri medi della serie AB412 dotati di tecnologia avanzata per volo notturno. A tal proposito si sta mettendo a punto il reato di sciacallaggio. Questo perché, secondo il premier Silvio Berlusconi, «chi si abbassa a compiere un reato così ha dentro solo un disvalore». E ancora la Guardia di Finanza in una nota del Cocer, propone che il “Premio antievasione”, art.12 Dl 79/77, per i dipendenti del ministero dell’Economia e delle Finanze, pari a circa 340 milioni di euro e in misura assolutamente ridotta, pari a 20 milioni di euro assegnati al fondo assistenza per i finanzieri del Corpo, alla luce dell’eccezionalità della situazione, venga destinato alle popolazioni colpite dal sisma. «L’Italia ha risposto bene nella tragedia e bisogna essere ottimisti», ha commentato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel fare il punto sulla prima fase dell’emergenza, ormai superata. Il sorriso dei ragazzini avviati al gioco, grazie anche ai medici clown, è un elemento di grande aiuto che contribuisce a superare il pessimismo, là dove la situazione costringe le persone a stare nei campi e nelle tendopoli. PIEMONTE 2009 | DOSSIER


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L’OMBRA LUNGA DELLA PIOVRA SUL SETTENTRIONE La mafia ha cambiato pelle. Non più solo droga, appalti e riciclaggio, ma vere e proprie infiltrazioni nel mondo della finanza e della pubblica amministrazione. Dissolvere questi scenari è il compito della Dia e di Antonio Girone. Che avverte: anche al Nord i sodalizi criminali possono produrre gravi danni AGATA BANDINI

a mafia è un fenomeno umano che ha avuto un inizio e avrà una fine”. Sono parole di Giovanni Falcone, simbolo indimenticato e vittima della lunga guerra tra lo Stato e Cosa nostra. Parole che oggi il generale Antonio Girone, dal 2008 a capo della Direzione investigativa antimafia, condivide e tiene a ricordare. Non solo come testimonianza di un capitolo feroce della storia italiana, ma anche come spunto e incoraggiamento per tutti coloro che continuano a lottare contro un fenomeno che sempre più allunga la sua ombra anche al Nord. E tuttavia, assicura Girone, non c’è reale pericolo che si crei nelle regioni settentrionali quella stessa stretta del sistema mafioso sui cittadini che da decenni stringe alla gola lo sviluppo del Sud. «L’azione di contrasto contro la criminalità mafiosa – spiega il generale – ha conseguito negli anni un costante e progressivo successo, sia in sede nazionale che internazionale. Anche di recente, nei confronti delle principali matrici mafiose, sono stati portati a segno qualificati progetti investigativi che hanno ulteriormente inciso sul potere territoriale ed economico di tali sodalizi, operanti anche al

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Nord». Questo non significa però che le proiezioni mafiose al Nord non possano creare danni anche gravi. Ma su questo Girone è ottimista: «Per quanto il percorso sia ancora impegnativo – ammette – a fronte della pervasività dei sodalizi e la loro attuale operatività transnazionale, credo che l’influenza criminale sarà sempre meglio contrastata». Grazie al costante adeguamento normativo delle misure di contrasto, il potenziamento progressivo delle sinergie internazionali, ma soprattutto l’impegno investigativo e giudiziario di strutture e forze di polizia come quella diretta da Girone. Le organizzazioni mafiose hanno sempre allungato i loro tentacoli nel Nord Italia. Ma a quando si può far risalire questo “sconfinamento”? «Le proiezioni mafiose nelle regioni tradizionalmente non afflitte da tali forme criminali esistono da diversi decenni e sono correlate a molteplici fattori, come i flussi migratori provenienti dal Sud, lo sviluppo economico delle aree settentrionali, che facilita alcuni mercati illegali e costituisce, per la ricchezza diffusa, un polo attrattivo per le attività di riciclaggio. Va poi considerata la dispersione, per

effetto delle misure di sorveglianza speciale e della detenzione carceraria, di soggetti di spicco delle consorterie mafiose in altre regioni, che gli stessi hanno poi prescelto come territorio di elezione. Da non dimenticare i fattori mimetici connessi al territorio, anche sotto il profilo demografico e l’esistenza di grandi metropoli, che costituiscono sempre un contesto attrattivo per le presenze criminali più qualificate, anche a livello transnazionale». Ci fotografi la situazione attuale. Quando si è infiltrato nel tessuto economico e sociale settentrionale il sistema delle cosche? «Le numerose investigazioni della Dia e delle forze di Polizia dimostrano che i sodalizi mafiosi al Nord e al Centro hanno superato la fase caratterizzata da delitti essenzialmente incentrati sul narcotraffico, arrivando a infiltrarsi progressivamente nell’economia, attraverso vere e proprie imprese mafiose. Ormai da diversi anni, infatti, l’impegno dell’antimafia è rivolto non solo alla disarticolazione delle associazioni mafiose, ma anche al monitoraggio della dimensione economica delle presenze criminali, attive soprattutto nell’edilizia, nel commercio, nella


© Clara Biondo / Agenzia Fotogramma

CULTURA DELLA LEGALITÀ

ANTONIO GIRONE Generale dell’arma dei Carabinieri, dal 2008 è direttore della Dia, Direzione investigativa antimafia

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grande distribuzione e nei trasporti». Quali sono le regioni del Nord a più alta “densità mafiosa”? «Considerando parametri come il numero di inchieste in corso e la qualità dei loro riscontri, quali la caratura criminale dei sodalizi rilevati e i dati su attività specifiche come il traffico di stupefacenti, particolare attenzione andrebbe rivolta al territorio di Lombardia, Emilia Romagna e Lazio. Oltre che nei mercati leciti, inoltre, nel 2008 le infiltrazioni mafiose hanno cominciato a toccare anche alcuni segmenti della Pa locale, mentre il riciclaggio dei proventi illeciti, tradizionalmente operato attraverso acquisizioni immobiliari, sta assumendo profili sempre più sofisticati, anche grazie all’uso di società di intermediazione finanziaria attive a livello europeo. In tutto il Nord comunque, pur con diversa intensità, si percepisce l’influenza di presenze mafiose qualificate. Appare significativa, inoltre, l’operatività in quest’area dei sodalizi stranieri, a fronte di una minore competitività con le organizzazioni mafiose nazionali più radi-

cate e tipiche delle regioni del Sud». Mafie italiane, mafie internazionali. Quali sono in questo momento le organizzazioni criminali più attive e con una più alta percentuale di attività illecite al Nord? «Per quanto riguarda le mafie tradizionali “endogene”, la più diffusa al Nord è certamente la ‘ndrangheta calabrese, seguita subito dopo dalla camorra. Indagini recenti, tuttavia, hanno evidenziato una specifica presenza di Cosa nostra sul territorio lombardo, correlata in parte al ruolo di alcuni latitanti di spicco nelle attuali trasformazioni del tessuto associativo siciliano. Sul più fluido contesto delle cosiddette “mafie allogene”, è certificato il ruolo significativo delle consorterie albanesi e nigeriane per quanto riguarda il traffico di stupefacenti e la tratta di esseri umani destinati al mercato della prostituzione». Ci sono divisioni territoriali nette e precise? «I meccanismi operativi delle proiezioni mafiose fuori dal territorio di origine sono profondamente diversi da quelli che

caratterizzano i sodalizi-madre nelle regioni del Sud. In particolare, non si registrano, almeno nella maggioranza dei casi, tentativi di stabilizzare il classico controllo territoriale di stampo mafioso secondo suddivisioni in zone di influenza determinate. La perpetrazione di alcune classiche condotte di tipo mafioso, come estorsione e usura, prefigurano tuttavia una possibile futura evoluzione di questo tipo di minaccia». Esistono “cartelli”? «Come dicevo, al di fuori della regione di origine, non potendo contare su uno stretto controllo del territorio, le strutture mafiose appaiono più autonome e disponibili ad adattarsi a diverse collaborazioni criminali. Più che di cartelli, quindi, parlerei di sinergie delittuose, in cui le diverse matrici esprimono ciascuna la propria funzione all’interno di un comune progetto di attività illecita». In quali settori si concentra in questo momento l’attività economica della mafia nel settentrione, in particolare il riciclaggio di denaro? «Lo spettro delle attività connesse

«FUORI DALLA REGIONE DI ORIGINE LE STRUTTURE MAFIOSE APPAIONO PIÙ AUTONOME E DISPONIBILI AD ADATTARSI A DIVERSE COLLABORAZIONI CRIMINALI. PIÙ CHE DI CARTELLI, QUINDI, PARLEREI DI SINERGIE DELITTUOSE»

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SEGNALAZIONI DI ATTIVITÀ FINANZIARIE SOSPETTE SUL TERRITORIO ITALIANO Segnalazioni pervenute divise per area geografica Italia Settentrionale Italia Centrale Italia Sud e Isola

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52,59% 25,927% 21,49%

Segnalazioni trattenute divise per area geografica Italia Settentrionale Italia Centrale Italia Sud e Isola

94 50 138

33,21% 17,34% 49,45% Fonte: Uif, Banca d’Italia

al riciclaggio mafioso è in continua evoluzione, anche in relazione ai mutamenti del sistema economico e imprenditoriale. Insieme ai classici interessi mafiosi già ricordati, l’esperienza investigativa ha permesso di rilevare un certo interesse verso il settore del gioco lecito e verso il circuito delle cosiddette “truffe carosello”, anche intracomunitarie. Un indicatore interes-

sante del riciclaggio è dato dalle cosiddette “operazioni finanziarie sospette”, di competenza della Dia dal 1991. Come si evince dalle segnalazioni della Banca d’Italia, nel 2008 il numero di tali operazioni al Nord è stato molto elevato, per quanto in percentuale molto minore, per quanto attiene i profili mafiosi, rispetto alla situazione rilevata al Sud».

E le classiche attività illegali, quanto spazio trovano nel settentrione? «Trova larghissimo spazio il traffico delle sostanze stupefacenti, dove domina la ‘ndrangheta, anche per il suo intenso legame con i grandi cartelli sudamericani della cocaina. In generale, comunque, la ricaduta economica del narcotraffico rappresenta una delle principali leve del potere mafioso e delle sue capacità di destabilizzazione degli assetti finanziari internazionali. In questo senso, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha affidato alla Dia il compito di partecipare a tutti gli sforzi di individuazione e repressione dei flussi di riciclaggio connessi al narcotraffico di matrice mafiosa». È possibile quantificare il loro giro d’affari? «Diversi osservatori hanno tentato di definire quantitativamente il peso dell’economia mafiosa sullo sviluppo, attraverso la proiezione di diversi indicatori, tra i quali in primis il valore stimato dei flussi delittuosi e le ricchezze sequestrate in via giudiziaria e nei procedimenti di prevenzione. Tuttavia, i diversi modelli di ricerca operativa utilizzati danno origine a una tale fluttuazione di risultati da rendere tali valutazioni solo orientative». Quanto pesa l’economia mafiosa sul libero sviluppo economico del Nord? «L’influsso negativo della mafia sullo sviluppo e il riscatto delle aree meridionali è noto, e può avere effetti non meno gravi sull’economia del Nord. La tendenza delle imprese mafiose a operare fuori dai canoni della libera concorrenza e a sottrarre le scelte imprenditoriali anche ai più elementari principi di ragionevolezza economica hanno l’effetto di alterare i meccanismi di funzionamento del mercato, provocando la fuoriuscita di imprese sane. Il risultato è un progressivo impoverimento del territorio, ulteriormente accresciuto dalla scarsa propensione di tali imprese criminali a reinvestire i redditi prodotti». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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LA RIFORMA Mauro Ronco

L’IMPEGNO DELL’ORDINE PER IL SISTEMA GIUSTIZIA Una riforma organica dell’ordinamento professionale esige tempi non brevi di elaborazione e di decisione. E una concreta discussione tra i soggetti che ne interpretano i ruoli principali. La riflessione del professore Mauro Ronco, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino DANIELA ROCCA

a riforma dell’ordinamento professionale è attualmente in discussione alla Commissione Giustizia del Senato. Gli avvocati si attendono che la discussione sia rapida, perché la riforma è indispensabile soprattutto al fine di regolamentare in modo razionale l’accesso alla professione e il riconoscimento delle specializzazioni. I punti qualificanti della riforma sono numerosi. «Particolare attenzione è riservata alla valo-

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rizzazione della professione, disciplinata al fine di garantire, in ogni sede, la massima tutela dei diritti, delle libertà e della dignità della persona e di dare attuazione ai principi costituzionali di uguaglianza e di inviolabilità del diritto di difesa. In secondo luogo, viene ribadita la riserva in capo agli avvocati non soltanto della tutela dei diritti dei cittadini in sede giurisdizionale, ma altresì della consulenza legale e di assistenza stragiudiziale svolte professionalmente» precisa il professore Mauro Ronco, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, che fa luce sulla situazione della categoria nella città. Quali sono gli altri punti rilevanti del testo da voi predisposto? «Sono affermati i principi dell’obbligo della formazione e dell’aggiornamento permanenti; dell’obbligo di stipulare polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione. Sono previste norme serie in ordine alle modalità di informazione sull’esercizio della professione, che non debbono sfociare in forme pubblicitarie di tipo commerciale. Particolare rilievo merita la disciplina delle specializzazioni, conMAURO RONCO Presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino

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seguite all’interno di un percorso formativo rigoroso. Infine è prevista una disciplina moderna per quanto riguarda l’accesso alla professione, non più incentrata sull’esame, ma sul curriculum formativo del giovane attraverso la frequentazione ai corsi delle scuole di formazione, organizzate con particolare attenzione al futuro esercizio della professione». In questo momento su quali temi siete maggiormente impegnati a Torino? «L’Ordine torinese è impegnato in questo momento su due principali versanti. Il primo riguarda la tutela dell’effettività del diritto di difesa di tutti i cittadini, soprattutto di quelli non abbienti. Si sta verificando un fenomeno inammissibile: gli avvocati non vengono più retribuiti, o vengono retribuiti con estremo ritardo per le prestazioni svolte nell’ambito del gratuito patrocinio previsto dalla legge a spese dello Stato. Gli avvocati si stanno impegnando da molti anni su questo terreno allo scopo di promuovere l’uguaglianza tra i cittadini nell’esercizio del diritto di difesa. I ritardi e le omissioni dello Stato sono al riguardo gravi. Il nostro Ordine si sta mobilitando per evidenziare l’estrema importanza di questo problema e per sollecitare il governo a compiere per intero il proprio dovere. Il secondo versante


LA RIFORMA

di impegno riguarda la formazione e l’aggiornamento degli avvocati affinché tutti rispondano con competenza e puntualità alla sempre più pressante e complessa domanda di giustizia che proviene dalla società civile». In merito ai problemi di cui la giustizia soffre in Italia e sulla relativa riforma, il dibattito al vostro interno continua? «Sia nella sede istituzionale dell’Ordine, sia nell’ambito della Fondazione dell’Avvocatura Fulvio Croce sia all’interno delle Associazioni forensi ferve un dibattito sulla riforma professionale: è veramente consolante constatare che i giovani manifestano un forte interesse non soltanto per il loro futuro professionale, ma anche per il miglioramento della funzione giudiziaria». Quali le indicazioni che da questo dibattito emergono e quali le iniziative che state intraprendendo per ottenere risultati concreti? «Come ho detto sopra occorre che lo Stato dispieghi tutti gli sforzi possibili per rendere effettivo l’esercizio dei diritti in sede giurisdizionale. Su questo terreno intendiamo concentrare i nostri sforzi

sollecitando il governo a fare il suo dovere. Sul terreno della ragionevole durata del processo l’avvocatura torinese è da sempre impegnata collaborando con l’Autorità giudiziaria per evitare lungaggini o formalismi privi di alcun significato di garanzia». Rispetto all’amministrazione della giustizia a Torino quali sono le vostre posizioni e quali le indicazioni per superare le eventuali debacle? «A Torino, grazie soprattutto all’opera organizzativa del presidente del Tribunale, Mario Barbuto, e all’impegno della grande maggioranza dei magistrati, la durata del processo civile si è progressivamente ridotta, fino a diventare accettabile. Gli avvocati hanno un notevole merito in questo processo virtuoso, perché hanno collaborato a esso, badando principalmente all’interesse dei loro assistiti. Hanno così smentito la falsa diceria che i ritardi processuali dipendono dagli avvocati, che ne ricaverebbero vantaggi economici. È vero il contrario. Gli avvocati sono i primi a volere un processo rapido ed efficiente». Quali i settori che richiedono maggiore formazione e prepara-

zione da parte dei giovani avvocati nell’affrontare la professione? «Naturalmente il settore più complesso è quello civile/commerciale/societario, soprattutto a livello internazionale. Molti giovani avvocati si stanno specializzando in questo campo e hanno raggiunto livelli di eccellenza. Ricordo poi il diritto di famiglia, che è pervenuto a grande complessità e richiede avvocati qualificati su più tematiche, dal diritto tradizionale a quello minorile ai problemi delle fasce deboli della società. Vi è una larga componente di avvocati giovani, che si sono impegnati nella tutela dei bambini e delle donne vittime di violenza, e degli immigrati nel far valere i propri diritti alla residenza e al lavoro. Il settore del diritto del lavoro richiede anche una grande specializzazione. Il campo penale ha avuto un enorme sviluppo. All’inizio della mia professione i penalisti si contavano in poche decine. Oggi sono centinaia. I giovani, nonostante le notevoli difficoltà e le modeste soddisfazioni economiche, sono commoventi per la serietà con cui si impegnano nella difesa dei diritti dei detenuti». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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INFRASTRUTTURE Altero Matteoli

FAREMO DELL’ITALIA LA NOSTRA GRANDE OPERA Ponte sullo Stretto di Messina, Mose di Venezia e riammodernamento dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria. Sono queste le priorità del Governo Berlusconi. Alcune sono già in via di realizzazione, mentre per altre si tratta di progetti cantierabili: che potranno partire in tempi brevi. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli analizza con lucidità il cammino fino a ora percorso e sottolinea quanto sia importante rimettere in carreggiata il Mezzogiorno FEDERICO MASSARI

OTTIMISTA Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti

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INFRASTRUTTURE Altero Matteoli

ll’indomani della larga vittoria del Pdl alle Politiche del 2008, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, senza usare mezzi termini, dichiarò che il suo obiettivo principale era percepire 44 miliardi di euro (di cui 14 miliardi da allocare su capitoli della Legge Obiettivo e 30 miliardi provenienti da risorse private e altre fonti) da investire per le infrastrutture strategiche per il triennio 2009-2011 e riattivare le opere bloccate dal Governo Prodi come, ad esempio, l’autostrada Tirrenica. A dodici mesi di distanza, il Governo Berlusconi può già vantare l’inaugurazione del Passante di Mestre. Un’imponente opera che è stata realizzata a tempi record per gli standard italiani ed europei, grazie soprattutto alla collaborazione quotidiana e positiva tra il ministero delle Infrastrutture, Anas, Regione Veneto e tutti i Comuni e le istituzioni interessate. Per quanto riguarda invece la delicata questione del Mezzogiorno, il ministro Matteoli punta il dito su quel gap infrastrutturale che, da sempre, divide in maniera troppo

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netta il Nord rispetto al Sud del Paese: «Faremo il possibile – spiega – per far sì che il Mezzogiorno possa ricominciare a correre e che diventi una zona importante sia per l’Italia, che per l’Europa. A partire dalla ristrutturazione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina». Sempre per il prossimo triennio, il ministro azzurro ha poi ribadito che il governo ha già destinato più di un miliardo di euro al trasporto pubblico locale. Inoltre è stato istituito il fondo per gli investimenti del Gruppo Ferrovie dello Stato mediante una dotazione per il 2009 di 960 milioni di euro e risorse aggiuntive di 480 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011, destinati alla stipula dei nuovi contratti di servizio dello Stato e delle Regioni a statuto ordinario con Trenitalia. Le infrastrutture sono una priorità per il Paese. In quale misura il rilancio economico e la competitività del nostro sistema in questo momento passano attraverso questo settore?

«CONTIAMO DI COMPLETARE IL MOSE DI VENEZIA, IL RIAMMODERNAMENTO DELL’AUTOSTRADA SALERNO-REGGIO CALABRIA, E SPERIAMO DI INTERVENIRE IN TANTE ALTRE SITUAZIONI CHE TROVANO RISCONTRO NEL PROGRAMMA TRIENNALE DELLE OPERE STRATEGICHE»

«In modo rilevante. Non è una valutazione solo personale o del governo, è una osservazione che trova concordi esperti e governi dell’intero pianeta. L’investimento nelle infrastrutture garantisce occupazione e mette in moto un circuito virtuoso per svegliare l’economia in fase recessiva». Quali sono i punti deboli del sistema infrastrutturale italiano su


INFRASTRUTTURE PROGRAMMA INFRASTRUTTURE STRATEGICHE Emergenze • Il Mezzogiorno • L’offerta di trasporto pubblico locale • L’organizzazione funzionale di alcuni impianti portuali • La competitività dell’Italia nel trasporto e nella logistica • La crisi dell’offerta di trasporto ferroviario in assenza di risorse • Il rapporto con le Regioni • Il rapporto con i Sindacati Apertura cantieri • l’asse ferroviario Torino – Lione. • il Terzo Valico dei Giovi sul collegamento ferroviario AV Milano – Genova • l’asse ferroviario AV Milano – Verona • l’asse ferroviario Verona – Padova • l’asse autostradale Brescia – Bergamo – Milano (BreBeMi) e la Tangenziale Est di Milano (TEM) • l’asse autostradale Cecina – Civitavecchia • l’asse autostradale Roma – Formia • il Ponte sullo Stretto • dare continuità alle opere del Mose • dare continuità alle opere del Brennero

cui intervenire con urgenza? E quali gli obiettivi a breve termine da realizzare? «L’Italia è rimasta indietro nella sua infrastrutturazione. Un gap che deve essere via via ridimensionato fino alla sua eliminazione. I punti deboli si trovano nella rete autostradale come in quella ferroviaria e non ultima in quella portuale. Contiamo di completare il Mose di Venezia, il riammodernamento dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria, e speriamo di intervenire in tante altre situazioni che trovano riscontro nel programma triennale delle opere strategiche che contiene opere stradali, autostradali e ferroviarie che interessano l’intero territorio del Paese». Grandi Opere. Dopo l’inaugurazione del Passante di Mestre, quali saranno gli altri cantieri che il governo Berlusconi porterà a compimento? «Le ripeto, contiamo di realizzare le opere pubbliche che abbiamo inserito nel piano triennale, privilegiando fra esse le infrastrutture cantierabili per le quali è possibile far partire i lavori a breve».

Qualche mese fa il suo ministero ha firmato un accordo quadro con la Banca Europea per gli investimenti per il finanziamento delle opere inserite nel Piano Decennale delle Infrastrutture Strategiche. Cosa prevede l’accordo e quali opere potranno essere finanziate con queste risorse? «L’accordo prevede l’apertura di una linea di credito per l’Italia di 15 miliardi di euro, da restituire nell’arco di 30/50 anni. Potranno essere finanziate opere pubbliche sia dello Stato, delle Regioni, degli enti locali e anche dei privati. Un’opera già finanziata, ad esempio, è il completamento del Mose che ha ricevuto 1,5 miliardi di euro. Si tratta di un accordo di grande rilevanza a riconoscimento del ruolo attivo che l’Italia ha saputo giocare con l’Istituto Europeo, un accordo che consentirà di procedere alla infrastrutturazione del Paese usufruendo di risorse sicure e su una Banca di grande affidabilità». Lei recentemente ha dichiarato che occorre puntare sulle autostrade del mare. Cosa è stato

fatto finora in Italia e cosa resta da fare per realizzare un sistema moderno ed efficiente di queste infrastrutture? «Le cosiddette autostrade del mare sono essenziali per contribuire a migliorare la circolazione sulle nostre arterie stradali e autostradali ed a combattere la congestione che ci costa cifre da capogiro, che minano la competitività delle nostre imprese. Qualcosa si è fatto ma molto resta da fare per implementare un servizio indispensabile». È ormai appurata la necessità di una revisione generale del sistema aeroportuale italiano. Come si sta muovendo il governo su questo fronte? «Della questione se ne occupa l’Enac. Aspettiamo proposte, le vaglieremo con attenzione per poi assumere le decisioni conseguenti. Non vi è dubbio che in Italia si è costruito un numero esorbitante di aeroporti spesso finalizzati a salvaguardare interessi particolari e/o locali. Bisogna pensare ad una loro complessiva riorganizzazione nell’interesse del trasporto aereo nazionale». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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INFRASTRUTTURE Daniele Borioli

IL FUTURO DELL’EUROPA ALL’OMBRA DELLE ALPI Cantieri da Nord a Sud, da Oriente a Occidente. L’assessore ai Trasporti Daniele Borioli spiega l’investimento della Regione per servirsi al meglio delle proprie vie MARIALIVIA SCIACCA

n Piemonte una ventina di opere saranno appaltate e partiranno quest’anno. Di un’altra decina i cantieri si concluderanno nel 2009. Si tratta di nuovi interventi interamente finanziati dalla Regione per un valore totale di 400 milioni di euro che tra il 2009 e il 2010 porteranno lavoro sul territorio. Qual è il piano delle grandi opere infrastrutturali in corso di realizzazione in Piemonte? «Nelle scorse settimane abbiamo aperto al traffico le varianti di Mottalciata e Borgomanero e a fine maggio apriremo quella di Strevi nell’Acquese. Proseguono i lavori di messa in sicurezza e adeguamento sulla SR 549 di Macugnaga, crollata durante l’alluvione del 2000, con la realizzazione della nuova galleria di Ceppo Morelli che risolverà un problema pluridecennale di viabilità, così come per il ponte sul Po e la variante di Gassino-San Raffaele Cimena, che costituisce il primo avamposto della futura tangenziale est di Torino. Molto importante è l’ultimo lotto della tangenziale di Alessandria, in virtù della quale la città sarà servita da un collegamento tangenziale diretto tra i caselli di Alessandria Sud e Alessandria Ovest. Tra i cantieri che proseguono vanno poi ricordati il lotto delle varianti di Romagnano e di Omegna, il tratto Beinette-Pianfei e la variante di Venaria Reale. A

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DANIELE BORIOLI Assessore regionale ai Trasporti

questi interventi si aggiungono poi quelli che stiamo portando avanti con Cap, la nuova società concedente mista Anas-Regione Piemonte nata lo scorso luglio. Sono cinque le infrastrutture autostradali sui cui il nuovo soggetto sta lavorando: la tangenziale Est di Torino, il raccordo autostradale Strevi-Predosa e il sistema pedemontano piemontese BiellaSanthià-A4 e Biella – Romagnano Ghemme-A26, per il quale è stato appena pubblicato il bando europeo per la ricerca del promotore finanziario». Quali sono le aree che necessitano, anche in tempi brevi, di

infrastrutture? «Il nostro è un territorio ben infrastrutturato e collegato. Ci sono però aree che soffrono da anni di una sorta di isolamento. Mi riferisco al Cuneese, e in particolare l’autostrada Asti-Cuneo che, dopo anni, pare ora avviata al completamento. O ancora al Biellese, con il capoluogo che non ha un collegamento diretto alla rete autostradale. Proprio per questo abbiamo scelto di accelerare il più possibile l’iter di realizzazione della Pedemontana, i cui lavori potranno partire alla fine del prossimo anno, risolvendo questo gap. Naturalmente un tema infrastrut-


INFRASTRUTTURE

turale imprescindibile per il Piemonte è il completamento dei lavori di ammodernamento dell’autostrada A4 Torino-Milano, nel tratto tra Novara e Milano, su cui, nonostante gli annunci altisonanti del governo, tutto procede con estrema lentezza». Quali sono i maggiori problemi di conformazione del territorio per la realizzazione di grandi opere in Piemonte?

«Credo che in questo momento più che di problemi legati alla conformazione del territorio, si tratti di affrontare quelli derivanti dalla scarsità di risorse. Sono anni che le risorse per le infrastrutture scarseggiano, vengono destinate in gran parte al Sud e le Regioni, da sole, non possono fare tutto. Se è vero che il Piemonte risulta tra i primi della classe in quanto a km di strade in cantiere, finanziate con risorse proprie, cioè regionali, occorrerebbe che il governo ci premiasse con una maggiore attenzione. Ad esempio ci aspettiamo che i cantieri del Terzo Valico possano essere rapidamente finanziati e partire, giacché, tra l’altro, da tempo esiste su quest’opera un largo consenso da parte delle comunità locali. Discorso analogo per il nuovo tunnel del Tenda, per la cui realizzazione, certamente imprescindibile, il governo ha attinto le risorse per sostenere i maggiori costi dal piano delle opere Anas in Piemonte, sottraendole ad altri interventi». Come valuta le reazioni dei cittadini agli interventi, come il movimento “No Tav”? «Per quanto riguarda la TorinoLione, e il tema del consenso, il clima è sicuramente diverso rispetto a quello di tre anni fa quando c’era il muro contro muro. Abbiamo cercato faticosamente la strada del dialogo,

messo tutti i soggetti intorno a un tavolo e avviato un percorso, difficile, che però mi pare stia dando i suoi frutti. Questa è la riprova che le infrastrutture si realizzano con il dialogo, la concertazione e la determinazione». Quali invece sono i settori dell’economia piemontese che richiedono un potenziamento dei trasporti per un maggiore sviluppo? «Uno degli ambiti economici sui quali stiamo puntando per un rilancio economico-industriale del Piemonte è quello della logistica per la movimentazione delle merci. Siamo una Regione dalla grande tradizione manifatturiera che negli anni si è ridimensionata. Per recuperare competitività dobbiamo puntare sull’innovazione tecnologica del nostro tessuto produttivo e sulla capacità di produrre valore aggiunto attraverso la logistica. La nostra Regione può contare su una posizione geografica strategica, che la rende di fatto retroporto naturale della Liguria e del sistema dei porti di Genova, Savona e La Spezia. Inoltre il Piemonte è esattamente all’incrocio tra il corridoio 5 Lisbona-Kiev e il corridoio 24 Genova-Rotterdam, e si configura come una piattaforma logistica naturale sulla quale possono insediarsi imprese, e lo stanno facendo, nonostante la crisi. La sfida oggi è quella di fare in modo che logistica significhi davvero sviluppo economico per il territorio; un anno fa abbiamo varato una nuova legge per la logistica che individua le grandi potenzialità di crescita economica collegate alla movimentazione delle merci e allo stesso tempo assume le regole necessarie a far sì che questo processo si svolga in modo ordinato, coinvolgendo porzioni mirate di territorio e vocate a questa funzione. In questo quadro abbiamo però bisogno di risposte concrete da parte del governo su opere fondamentali come il Terzo Valico dei Giovi e la TorinoLione». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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EDILIZIA E TERRITORIO Enzo Ghigo

DAL GOVERNO LEZIONE DI CONCRETEZZA Creare occupazione e movimentare gli investimenti. Il senatore Enzo Ghigo analizza le possibili ricadute, immediate e non, del Piano Casa proposto dal governo. Con un’attenzione particolare alla situazione del Piemonte. E al quadro più ampio delle iniziative anti-crisi per un 2009 che si annuncia ancora difficile ALMA SANTILLI

iano Casa. Una proposta che ha sollevato polemiche ed entusiasmi, in egual misura. Nella politica come nell’opinione pubblica. Ma al di là del merito, come ricorda il senatore Enzo Ghigo, per comprendere i possibili effetti di questa iniziativa occorre guardare al lungo periodo e alla particolare situazione dello scenario immobiliare italiano. Soprattutto, occorre un’ottica sistemica che guardi alla proposta come a un tassello di un più ampio intervento anti-crisi, volto a rilanciare gli investimenti privati e creare, di conseguenza, nuova occupazione. E non solo nel settore edilizio. Quali saranno le ricadute positive del Piano Casa in regione? «In primo luogo, si avranno ricadute immediate in termini di occupazione, per un comparto che ha circa

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ENZO GIORGIO GHIGO Senatore del Pdl, è stato governatore del Piemonte dal 1995 al 2005

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140mila addetti e che in questi anni ha agito come camera di compensazione per supplire alla crisi del settore manifatturiero. E poi ricadute in termini di comfort, di abitabilità e di maggiore sicurezza, oltre che di risparmio energetico, soprattutto per gli edifici più datati, che necessitano di ristrutturazione». Quali pensa che siano le linee guida che la futura normativa regionale in ambito edilizio prevista dall’accordo Stato-Regioni dovrà seguire nello specifico del Piemonte? «Credo si debba puntare molto sullo snellimento delle procedure, sulla semplificazione. Spesso, anche per interventi modesti si devono seguire iter amministrativi complessi, con costi tecnici alti e sproporzionati rispetto al costo dell’intera opera. Inoltre, i tempi lunghi a volte inducono il cittadino a rinunciare ad avviare il progetto, con il risultato di vanificare l’investimento e di lasciare l’interessato insoddisfatto». C’è chi sostiene che proprio l’edilizia sia stata la causa del crac che ha colpito la finanza statunitense. Non si corre questo rischio anche in Italia con un eccesso di offerta ed eventuali inadempienze? «Non credo proprio, perché in Italia la struttura della proprietà immobiliare è profondamente diversa, Oltre l’80 % dei cittadini è proprietario della propria casa. È a questa utenza che è rivolto il Piano Casa, non certo alla speculazione immobiliare. Negli Usa la gente allungava i mutui stipulati sulla casa, usando i fondi così acquisiti per aumentare i consumi. Inoltre le banche avevano finanziato anche clienti non molto affidabili, pur di incrementare i volumi. È stato l’incrocio di questi due fattori a determinare il crac». Perché, secondo lei, si sono alzate così tante polemiche su questa misura del governo? «Perché ci sono forze politiche che, per principio, attaccano ogni iniziativa del governo. Invece l’idea di mobilitare capitali privati in funzione anti-crisi, viste le difficoltà della finanza pubblica, è un vero colpo di


EDILIZIA E TERRITORIO

genio di Berlusconi, perché va nella duplice direzione di soddisfare esigenze reali delle famiglie e di creare lavoro e investimenti. Ma subito l’opposizione ha gridato allo scandalo, lamentando la cementificazione. Le leggi attuali sono un po’ ovunque, specie in Piemonte, rigidissime, ma non hanno impedito di realizzare delle brutture o degli edifici in aree improprie. Quindi il problema non sono le norme, ma i controlli. Concedendo una maggiore facilità negli ampliamenti delle case esistenti si evita le compromissioni di ulteriore territorio “vergine” per realizzare altri alloggi, e si consente ai Comuni di risparmiare sugli oneri di urbanizzazione». Ma non c’è solo il Piano Casa. Quali sono stati finora gli effetti delle iniziative anti-crisi in Piemonte? «Almeno 300mila famiglie piemontesi a basso reddito hanno i requisiti per ricevere il bonus del governo, compreso tra 200 e 1.000 euro, a seconda del reddito. Al Piemonte sono destinati oltre 150 milioni di euro, che possono essere spesi per i consumi, dando un aiuto anche al commercio e a tutta l’economia. Ma non è l’unico sostegno anti-crisi che arriva ad alleviare le difficoltà delle fasce deboli, ci sono anche le carte acquisti, o social card, destinate a 80mila anziani piemontesi o famiglie a rischio, cumulabili con il bonus». E sul piano delle imprese? «Il governo ha firmato l’intesa con la Giunta regionale per gli ammortizzatori sociali, stanziando altri 50 milioni di euro. È un segnale concreto dell’impegno

messo in atto per fronteggiare la crisi industriale. Inoltre, non dimentichiamo che il bonus rottamazione ha consentito di frenare la caduta e far ripartire la vendita delle auto. È stato uno dei primi settori a essere sostenuti, e di ciò ha beneficiato non solo Fiat, che ha peraltro revocato diverse settimane di cassa integrazione a Mirafiori e nelle altre sedi, ma tutto l’indotto automotive. Ora attendiamo gli effetti del fondo per le imprese di 9 miliardi creato presso la presidenza del Consiglio, nella certezza che sarà impiegato al meglio». Un altro settore che è tradizionalmente considerato volano di sviluppo è rappresentato dalle infrastrutture. A che punto si è in Piemonte? «Anche su questo piano il governo si è mosso, sbloccando investimenti per 18 miliardi che faranno ripartire i cantieri delle opere grandi e meno grandi, rimasti bloccati durante il governo Prodi. Per il Piemonte, l’esecutivo ha siglato l’intesa quadro sulle infrastrutture con la Regione, in cui si sono confermati gli obiettivi, contenuti nell’intesa, da me sottoscritta nel 2003, di rafforzamento infrastrutturale del Piemonte, regione che purtroppo, per cause storiche, paga le conseguenze di un pesante deficit in questo settore. Dalla realizzazione di queste opere essenziali può venire, in primo luogo uno stimolo per il comparto costruzioni, che soffre gli effetti della caduta degli investimenti, e in secondo luogo un beneficio per le imprese, che vedono migliorata la loro competitività, e per la mobilità di cittadini». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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EDILIZIA E TERRITORIO Sergio Conti

LIBERI DALLE BRIGLIE DELLA BUROCRAZIA In Piemonte esistono già normative regionali che si inseriscono nelle proposte contenute nel pacchetto casa del governo. Sergio Conti, assessore regionale alle Politiche territoriali, ribadisce l’importanza dell’accordo Stato-Regioni in materia abitativa e guarda agli sviluppi futuri del residenziale in Piemonte LORENZO BERARDI

ul rilancio dell’edilizia abitativa il Piemonte ha saputo giocare d’anticipo. Nella propria legge urbanistica, infatti, la Regione ha già inserito gli aumenti del 20% per il miglioramento degli impianti igienico sanitari, il recupero dei sottotetti e la conversione dei rustici, oltre ad approvare anche la costruzione di 10mila alloggi entro il 2012. Grazie a 306 milioni di euro di stanziamenti, ad aprile di quest’anno sono stati già realizzati circa 5500 alloggi e 600 dei quali sono già abitati. Una quota di queste nuove abitazioni sarà destinata alla fascia intermedia, troppo ricca per accedere all’edilizia popolare, ma al tempo stesso dotata di redditi troppo bassi per collocarsi nel mercato delle libere locazioni. Un Piemonte, dunque, che ha saputo mostrarsi particolarmente attento a un tema che promette di divenire presto centrale anche a livello nazionale con l’adozione su tutto il territorio italiano, regione per regione, delle norme previste dal futuro “pacchetto casa” del governo. «Il titolo del futuro ddl in materia – puntualizza l’assessore regionale a Urbanistica, Pianificazione territoriale ed Edilizia residenziale, Sergio Conti – parla di “misure urgenti per il rilancio dell’economia” per cui non lo definirei esattamente un “Piano Casa”. Conti, tuttavia, coglie alcuni lati positivi nel recente accordo fra il governo e le singole Regioni su una materia al tempo stesso tanto importante e

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SERGIO CONTI Assessore all’Urbanistica, Pianificazione territoriale, Edilizia residenziale della Regione Piemonte

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così delicata per lo sviluppo del Paese: «Di questa iniziativa del governo – ricorda – mi ha convinto il fatto che si sia arrivati a una soluzione condivisa fra Stato e Regioni anche in una materia come l’edilizia in cui le Regioni godono di un’autonomia decisionale sancita dalla legge» Ora tocca alle singole Regioni che, nell’ambito degli accordi presi con il governo, andranno a legiferare nel giro di 90 giorni dall’approvazione del futuro decreto nazionale. «L’obiettivo – prosegue Conti – è quello di semplificare le normative per consentire di realizzare questo aumento di cubatura del 20% e i premi in cubatura per la riqualificazione complessiva degli immobili». Avverte il rischio di un conflitto di competenze o di sovrapposizione di norme fra interventi nazionali e regionali in ambito di edilizia e urbanistica? «Non avverto il rischio di sovrapposizioni normative. Questo, ovviamente, a patto di rimanere sulla falsariga del documento sottoscritto il 31 marzo scorso da governo e Regioni. Ciò che spetta all’ambito regionale è quello di legiferare in maniera appropriata là dove esistono particolari rischi idrogeologici o vincoli paesaggistici da rispettare. Nel frattempo, inoltre, stanno proseguendo gli accordi tecnici fra Regioni oltre che fra Regioni e governo su questo punto». Nello specifico, come andranno a influire le indicazioni del “pacchetto casa” del governo nella vostra legislazione regionale in materia? «Quanto prevede il governo è già presente nella legislazione regionale del Piemonte. La possibilità di ampliamento del 20%, inoltre, era già prevista da una vecchia legge regionale del 76 che è stata integrata nei precedenti piani regolatori, per cui chi voleva ampliare la cubatura già poteva farlo. Anche per quanto riguarda la sburocratizzazione eravamo già in fase avanzata. Quindi dal nostro punto di vista ciò che è contenuto in questo decreto cambia poco sulle politiche edilizie piemontesi». Ritiene che il Piano Casa del governo possa tradursi anche in un rilancio del settore dell’edilizia, messo


EDILIZIA E TERRITORIO

RIQUALIFICARE UNA CASA SU CINQUE

25%

l’aumento di cubatura consentiti oggi dalla normativa regionale in Piemonte

7 miliardi di euro

la previsione sugli interventi di aumento volumetrico che verranno realizzati

20%

il totale delle abitazioni piemontesi che potrebbero essere riguardate dai futuri interventi di ampliamento

Gli ampliamenti di cubatura previsti in Piemonte saranno collegati all’obiettivo di una migliore efficienza energetica del patrimonio residenziale esistente. A oggi, gli aumenti volumetrici previsti dalla normativa regionale superano i limiti nazionali collocandosi al 25% per gli edifici esistenti. Nel caso di demolizione e ricostruzione la percentuale di ampliamento dipenderà dai materiali usati, che devono consentire il raggiungimento del livello di efficienza 2 del protocollo Itaca per la valutazione della qualità energetica e ambientale di un edificio. In totale, si stima che verranno realizzati interventi per 7

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PER QUANTO RIGUARDA APPALTI E NORME DI SICUREZZA, IL PROBLEMA NON STA TANTO NEL FARE NUOVE NORMATIVE, QUANTO NEL FARE RISPETTARE QUELLE GIÀ ESISTENTI» in ginocchio dalle ripercussioni della congiuntura economica internazionale? «Non credo che questo Piano Casa porterà a un rilancio del settore edilizio. Basta prestare fede a qualsiasi economista per capire che non è il settore edilizio quello che merita di essere rilanciato per sostenere l’economia nazionale e quella della nostra regione. Questo perché dal punto di vista dell’occupazione nell’edilizia è presente molta manodopera in nero, in un quadro in cui abbiamo settori come l’automotive e l’informatico che andrebbero rilanciati. Per quanto riguarda l’edilizia, esistono già altre soluzioni, a prescindere dal decreto». Crede che il disegno di legge sull’edilizia residen-

miliardi di euro complessivi, una cifra che equivale a lavori su un quinto delle abitazioni esistenti in regione, conteggiando una spesa media di 50mila euro a immobile. Il bonus del 35% in caso di demolizione e riedificazione, inoltre, dovrebbe essere vincolato al mantenimento della destinazione d’uso originaria così da evitare fenomeni speculativi. Per l'abbattimento e la riedificazione delle costruzioni di bassa qualità con aumento del 35% verrà prevista una quota destinata all’housing sociale. Al contrario, gli altri interventi regionali dovranno essere realizzati entro e non oltre il dicembre del 2011.

ziale e urbanistica saprà combattere in maniera efficace e uniforme la speculazione edilizia presente sul territorio attraverso meccanismi trasparenti di assegnazione degli appalti sull’intero territorio nazionale così da impedire infiltrazioni mafiose? «Vedremo cosa succederà nei prossimi mesi. Per quanto riguarda appalti e norme di sicurezza, il problema non sta tanto nel fare nuove normative, quanto nel fare rispettare quelle già esistenti. Questo Piano Casa, a mio avviso, non va a risolvere il problema dell’emergenza abitativa e non si rivolge alle fasce più deboli della popolazione. Non si prevede, infatti, un sensibile incremento di edilizia popolare, quanto piuttosto all’ampliamento dell’edilizia privata già esistente. In questo senso le ulteriori aggiunte non hanno spostato nulla. Il Piano Casa nazionale siglato il 5 marzo scorso fra il ministro Fitto e il presidente della Conferenza delle Regioni, Errani, ha stabilito che verranno destinati 200 milioni di euro del vecchio Tesoretto alla realizzazione di nuovi appartamenti. Ma con questi fondi verosimilmente si potranno costruire soltanto 2mila nuovi appartamenti sul piano nazionale». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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EDILIZIA & TERRITORIO Corrado Sforza Fogliani

L’IMMOBILIARE, UN INVESTIMENTO SICURO Il Piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica visto dal presidente di Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani. «Un segnale positivo, ma il settore ha bisogno di un intervento deciso che ponga fine all’inefficienza che lo caratterizza». Il primo passo? L’introduzione della cedolare secca sugli affitti agevolati LAURA PASOTTI

n Italia ci sono tra i 700 e gli 800mila immobili inabitabili perché da ristrutturare o rimettere in pristino, in gran parte sono situati nei centri storici. Sono i dati che arrivano da Confedilizia. Secondo il suo presidente, Corrado Sforza Fogliani, per un rilancio dell’economia servirebbe, pertanto, un’integrazione del piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica. «Le annunciate disposizioni del governo – afferma – renderebbero più facile l’utilizzo di questi immobili nel caso in cui i proprietari fossero interessati ad adibirli a loro abitazione. Molti di essi potrebbero essere destinati all’affitto a canoni agevolati». Ma perché accada, occorre che l’affitto torni ad avere una redditività. È per questo che Confedilizia ha chiesto al governo di introdurre per i contratti di locazione agevolati una cedolare secca del 18-20%, dando così attuazione a un preciso punto del programma di maggioranza. «Costerebbe all’Erario meno di 200 milioni di euro – spiega Sforza Fogliani – ma contribuirebbe a rilanciare le locazioni e ad agevolare le famiglie che cercano un immobile in affitto come via di uscita da mutui già in essere o alternativa all’accensione di un mutuo». Crede che la liberalizzazione urbanistica prevista dal Piano Casa darà una boccata di ossigeno al mercato? «Al momento non si conoscono gli effettivi contenuti di tali misure. Ma si tratta di un segnale che potrà avere effetti benefici, soprattutto sul piano psicologico. Una misura altrettanto se non più efficace sarebbe, però, il rilancio dell’affitto attraverso la tassazione separata dei canoni. Se la locazione, oggi soffocata dalla fiscalità, tornasse a produrre reddito, il recupero di immobili, oggi inutilizzati perché bisognosi di ristrutturazione o rimessa in pristino, sarebbe immediato». In che modo potrebbe intervenire il governo per monitorare i prezzi degli immobili? «L’unico intervento governativo che possa produrre effetti di calmieramento del mercato è l’introduzione di misure, come la cedolare secca sugli affitti, tali da ampliare l’offerta di immobili in locazione. Un aumento del numero di immobili in affitto por-

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CORRADO SFORZA FOGLIANI Presidente di Confedilizia

terebbe con sé una riduzione dei canoni, con effetti positivi anche sul mercato delle compravendite, oggi gravato da una richiesta che, nonostante la crisi, resta sostenuta per il mancato funzionamento del mercato degli affitti». L’immobiliare è ancora un investimento sicuro? «In linea di massima sì. In questi mesi si sta consolidando un fenomeno iniziato alla fine del 2008 che vede i disinvestimenti da attività finanziaria con “dirottamento” della liquidità negli immobili. Tuttavia, finché non si restituirà reddito all’affitto, l’investimento nel mattone per ottenere un reddito sicuro, non sarà più realtà nel nostro Paese». Quali le sue previsioni per il futuro del settore? «Le previsioni del nostro Borsino immobiliare sono per un consolidamento del numero di transazioni nel 2009. I prezzi dovrebbero rimanere stabili al netto dell’inflazione. Sono, inoltre, confermate le previsioni di aumento del numero dei contratti di locazione quale risultato di vari fattori, fra cui le difficoltà di accesso al credito da parte delle famiglie. I canoni non dovrebbero subire particolari rialzi, se non quelli in linea con il livello di inflazione».


Paolo Buzzetti EDILIZIA & TERRITORIO

L’ECONOMIA RIPARTE DAL PIANO CASA Una perdita del 6,8% per il 2009 con 250mila posti di lavoro in meno. Sono le previsioni dell’Associazione nazionale costruttori edili per il settore. Per rilanciarlo, il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, chiede il varo di una serie di opere medio-piccole sul territorio subito cantierabili LORENZO BERARDI

e costruzioni restano un settore strategico per l’economia nazionale. Un motore vitale che traina l’occupazione e sostiene il Pil, ma che sta soffrendo la crisi come e più degli altri settori produttivi. Se oggi l’edilizia dà lavoro a due milioni di persone (tre se si considera l’indotto) e rappresenta circa il 12% del Pil nazionale, per il 2009 l’Ance prevede un calo dell’attività produttiva del 6,8% che si tradurrà in una perdita di 250mila posti di lavoro, fra costruzioni e indotto. «In Italia le imprese vivono una forte crisi di liquidità, provocata dalla stretta creditizia messa in atto dalle banche – afferma Paolo Buzzetti, presidente dell’Ance –. Un fenomeno che, oltre a frenare gli interventi programmati dalle imprese, rischia di metterne a repentaglio la sopravvivenza. Inoltre, c’è un problema legato alla lentezza dei pagamenti da parte della Pubblica amministrazione, che sta aggravando la situazione delle imprese impegnate nella realizzazione di opere pubbliche. Su questo fronte, l’Italia ha maggiore difficoltà perché ha un indebitamento pubblico maggiore rispetto ad altri Paesi europei e vincoli del Patto di stabilità interno più stringenti». In Spagna il boom delle costruzioni ha trainato negli ul-

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CONCRETO Paolo Buzzetti è presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili dal settembre 2006 e amministratore della Iab, azienda di famiglia che opera nel settore delle opere pubbliche, private e del restauro

timi anni lo sviluppo economico del Paese che oggi, però, è colpito dalla recessione. Crede che il tanto criticato modello italiano possa essere rivalutato alla luce di quanto sta avvenendo nella penisola iberica? «Se da noi l’impatto della crisi è stato meno violento, lo si deve anche alla maggiore rigidità del sistema bancario, un fatto di cui ci si è sempre lamentati, ma che, in questa fase, insieme al basso indebitamento delle famiglie, costituisce un elemento positivo. Questo però non vuol dire che le nostre risposte debbano essere lente. Al contrario, questo è il momento di intervenire con l’obiettivo di snellire e semplificare le procedure, a cominciare da quelle legate alla realizzazione delle infrastrutture. Sono necessari tempi certi nelle fasi di pianificazione, programmazione e progettazione delle opere. È per questo che stiamo predisponendo proposte mirate a semplificare la normativa vigente». Da quali basi può ripartire il rilancio del mercato edile italiano? «Le leve sono due: casa e infrastrutture. Ma bisogna fare presto, su entrambi i fronti. Per il mercato privato, sono positive le misure del Piano Casa, ma il decreto deve essere varato subito per evitare una situazione a macchia di leopardo in cui ognuno si fa le sue regole. Va dato, inoltre, il via libera al piano per l’housing sociale, finalmente sbloccato dopo l’accordo con Regioni ed Enti locali. Il secondo elemento cruciale per il rilancio è un piano straordinario di opere medio-piccole diffuse sul territorio e subito cantierabili. I finanziamenti per le grandi opere sono utili, ma per rimettere in modo il settore bisogna avviare interventi di “medio cabotaggio”, dalle opere di collegamento alla manutenzione stradale, dalla messa in sicurezza delle scuole alla costruzione di carceri. Il governo dovrebbe destinare a questi interventi i 1.150 milioni di euro non ancora assegnati dal Cipe per le infrastrutture». Cosa la convince maggiormente di questo Piano Casa? «Le misure messe a punto dal governo rappresentano un’occasione da non perdere per rinnovare e rendere più efficiente il patrimonio italiano, dando vita a quella “rivoluzione energetica” già avviata altrove. È molto importante anche la spinta alla semplificazione che il “pacchetto casa” intende dare. Spinta che va accompagnata da un rafforzamento delle verifiche e dei controlli per impedire ogni forma di abusivismo».

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REAL ESTATE Cesare Ferrero

COME COSTRUIRE UN FUTURO SOLIDO Per l’effettivo rilancio dell’edilizia occorre anche una ripresa della domanda. Alle norme previste dal futuro Piano Casa dovranno dunque affiancarsi una ripresa economica e un allentamento della stretta creditizia. Cesare Ferrero, ad di Inpartner, è convinto che l’impegno congiunto di costruttori e amministratori locali permetterà di superare rigidità burocratiche e costruire edifici più sicuri SOPHIA SASSI

esare Ferrero, piemontese di origine e amministratore delegato di Inpartner, una della più significative realtà imprenditoriali nel settore immobiliare, ha accettato di fare il punto sulla situazione del mercato legato al mondo del mattone che vive un momento di debolezza le cui origini vanno però cercate in altri ambiti. Passando in rassegna gli aspetti più salienti che caratterizzano l’attuale congiuntura è opportuno dare prima uno sguardo generale d’insieme per poi soffermarsi sui possibili interventi da adottare. «Questa è una crisi legata al sistema economico e non solo a quello immobiliare – ribadisce Ferrero –. Vi è stato un rallentamento di tutte le operazioni in corso e il sistema delle costruzioni, nel suo complesso, si sta progressivamente fermando. Reggono ancora gli interventi di riqualificazione urbana perché hanno una certa velocità di avanzamento. Tutto il resto è praticamente bloccato per mancanza di adeguati finanziamenti al mondo dell’edilizia oltre che per una carenza di domanda». Per un rilancio del settore e la risoluzione dell’emergenza abitativa in Italia lei punterebbe su programmi di edificazione residenziale oppure su ristrutturazioni mirate e riqualificazione del pa-

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SARANNO POCHISSIMI I CASI DI AMPLIAMENTO DELLA CUBATURA DEL 20% CHE SI POTRANNO APPLICARE. PERCHÉ IN ITALIA ABBIAMO UNA NORMATIVA DI RIFERIMENTO PER I CONDOMINI CHE RENDERÀ INAPPLICABILE MOLTE PROSPETTIVE DI AMPLIAMENTO»

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CESARE FERRERO Amministratore delegato Inpartner, Investitori & Partner Immobiliari Spa

trimonio immobiliare esistente? «A mio avviso occorre muoversi su entrambi i fronti. Le strutture urbanistiche e architettoniche delle nostre città sono molto particolari, per cui non si può pensare a demolire e ricostruire come all’unico strumento di riqualificazione del patrimonio immobiliare. Laddove questo non è possibile ben venga un ampliamento di volume purché ci siano le condizioni tecniche di sicurezza, urbanistiche e paesaggistiche per realizzarlo. Laddove l’ampliamento non è possibile lo strumento demolizione-ricostruzione si rivela utilissimo per non consumare ulteriore territorio». Secondo lei il Piano Casa promosso dal governo come si inserisce in questo quadro di rilancio del sistema delle costruzioni di tipo abitativo? «Credo che i principi guida di questi provvedimenti sono da condividere. Valuto il Piano Casa in maniera positiva perché risponde ad alcune esigenze primarie nell’ambito abitativo residenziale indipendentemente dal difficile momento economico


REAL ESTATE

che stiamo vivendo. La necessità di una semplificazione delle procedure amministrative e burocratiche mi pare evidenzi un problema reale con cui ci confrontiamo costantemente ogni qualvolta si deve aprire un cantiere. Per quanto riguarda il merito della legge, dipenderà molto dal modo in cui verranno regolamentati i provvedimenti. Personalmente sono convinto che non servano altre norme perché, ad esempio, le misure sul risparmio energetico e sulle ristrutturazioni ecocompatibili in Italia già esistono: si tratta solo di applicarle. Alla stessa stregua esistono già regolamentazioni di tipo paesaggistico molto stringenti, ma anche qui, il problema sta nella loro applicazione. Occorre sempre che nell’interpretazione venga adoperato il buon senso e non la rigidità. Se la macchina amministrativa non è in grado di gestire questi aspetti fondamentali, il Piano Casa non risolve affatto la situazione esistente. Occorre quindi snellire le norme, avere un’efficienza amministrativa e un rispetto assoluto da parte degli attuatori delle regole esistenti. Per essere ancora più chiaro ritengo che i singoli costruttori dovranno edificare correttamente nel rispetto delle norme tecniche e urbanistiche anche per non avere rischi sul piano della sicurezza. Dal canto loro invece i pubblici amministratori dovranno valutare gli iter concessori con certezza dei tempi così da permettere il completamento degli interventi nei tempi consentiti dal ciclo economico». Alcuni avvertono il rischio che questo Piano Casa possa portare alla cementificazione di territori in cui non era sinora possibile costruire. «Non avverto alcun rischio di cementificazione del Paese. A livello attuativo saranno pochissimi i casi

di ampliamento della cubatura del 20% che si potranno applicare. Questo perché in Italia abbiamo una normativa civilistica di riferimento per i condomini che renderà inapplicabile molte prospettive di ampliamento a livello condominiale. Questa norma si rivolge dunque soprattutto agli edifici residenziali con un unico proprietario». Dal suo punto di vista, viste le sue origini piemontesi, qual è la situazione dell’edilizia e del mercato immobiliare in Piemonte? «In tutte le operazioni che abbiamo sviluppato in Piemonte ci siamo accorti di come questa sia una delle Regioni più avanzate dal punto di vista urbanistico. Tuttavia, come le altre regioni italiane anche il Piemonte sconta la rigidità burocratica che abbiamo nel nostro Paese nel campo dell’edilizia. In questo senso, la Lombardia è la regione più avanti di tutte in quanto a velocità nelle procedure amministrativo-urbanistiche e il Piemonte è una di quelle che la segue a traino». Crede che una nuova normativa regionale porterà anche a una semplificazione burocratica e amministrativa delle procedure legate al mondo dell’edilizia anche in Piemonte? «In linea di principio sì. Anche se non possiamo aspettarci che questo Piano Casa modifichi radicalmente il sistema amministrativo a livello locale anche perché agisce su un segmento di attività modesto a livello dimensionale. La direzione, però, è quella giusta. Anche in Paesi europei come Francia e Spagna da quando è scoppiata la crisi sono stati fatti interventi utili a sostegno del settore dell’edilizia. L’unico limite è che in Italia le misure mi paiono utili, ma non pervasive su tutto il settore». PIEMONTE 2009 | DOSSIER

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