giustizia022011

Sommario

EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .13 Angelino Alfano L’INTERVENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15

Maurizio Sacconi Francesco Pizzetti IN COPERTINA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .18

Salvatore Trifirò OCCUPAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .24

Pietro Ichino Giuliano Cazzola PREVIDENZA SOCIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . .30

EMERGENZA CARCERI . . . . . . . . . . . . . . . . . .88

Antonio Mastrapasqua

Fabrizio Cicchitto

RIFORME . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .34

IL PUNTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .90

Niccolò Ghedini Maurizio Paniz Filippo Berselli Enrico Costa

Maria Elisabetta Alberti Casellati RELAZIONI INDUSTRIALI . . . . . . . . . . . . . . . .94

Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

CUSTODIA CAUTELARE . . . . . . . . . . . . . . . . . .46

DIRITTO PENALE D’IMPRESA . . . . . . . . . . . .100

Gaetano Pecorella Raffaele Della Valle Giovanni Maria Giaquinto

Carlo Federico Grosso Francesco Compagna Renzo Orlandi

SEPARAZIONE DELLE CARRIERE . . . . . . . . .56

DIRITTO FALLIMENTARE . . . . . . . . . . . . . . .106

Paolo Grossi

Giulia Pusterla

GIUSTIZIA E POLITICA . . . . . . . . . . . . . . . . . . .60

DIRITTO DEL LAVORO . . . . . . . . . . . . . . . . . .109

Piero Longo

Marcello Floris

ETICA E GIUSTIZIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .62

RAPPORTI DI LAVORO . . . . . . . . . . . . . . . . . .110

Giampaolo Maria Cogo

Giovanni Rositani

STRUTTURE FORMATIVE . . . . . . . . . . . . . . . .64

CONCILIAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .112

Luciano Maria Delfino

Abbondio Causa Mariantonietta e Michele Miccoli Giuseppe Verduci e Giuseppe Strangio Aldo Stesuri Tiziana Pompei Aldo Rivela

ISTITUZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .66

Annibale Marini RITRATTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .70

Giorgio Napolitano FISCO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .124 DIALOGHI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .76

Claudio Siciliotti

Augusta Iannini TRA IMPOSTE, TRIBUTI E CONTRIBUTI . . .126 GIUSTIZIA TELEMATICA . . . . . . . . . . . . . . . . .80

Antonello Prototipo

Stefano Aprile FISCO E TRIBUTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .128 TRIBUNALI EFFICIENTI . . . . . . . . . . . . . . . . . .84

Salvatore Rijli

Luciano Panzani 10

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Sommario

IMPRESE E BUROCRAZIA . . . . . . . . . . . . . . .130

DIRITTO D’AUTORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .212

Angelo Bugané

Domenico Latino

PROPRIETÀ INDUSTRIALE . . . . . . . . . . . . . .134

L’ERRORE MEDICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .216

Loredana Gulino Mario Tonucci

Nino Marazzita EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .218

LEGALITÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .142

Pietro Grasso Salvatore Di Landro Giuseppe Borrelli Nicola Gratteri Mario Morcone Luigi Giampaolino Domenico Posca

Luca Conti INDENNITÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .220

Amerigo Maggi RESPONSABILITÀ CIVILE . . . . . . . . . . . . . . .222

Angelo Iannaccone DIRITTO ALLA DIFESA . . . . . . . . . . . . . . . . . .226

USURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .164

Davide Barillà

Alfredo Mantovano Stefano Lombardi

IL RUOLO DEL DIFENSORE . . . . . . . . . . . . . .228

Carlo Morace RICICLAGGIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .168

Stefano Maria Bortone

APPALTI PUBBLICI E PRIVATI . . . . . . . . . . .233

Danilo Boffi PROCESSI MEDIATICI . . . . . . . . . . . . . . . . . .172

Francesco Gigliotti

OFFERTA FORMATIVA . . . . . . . . . . . . . . . . . .235

Gian Galeazzo Monarca INTERCETTAZIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .174

Vincenzo Adamo Pierfrancesco Scatà

RISARCIMENTO DANNI . . . . . . . . . . . . . . . . .236

AVVOCATURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .180

PROCEDURE ESPROPRIATIVE . . . . . . . . . . .238

Guido Alpa Ester Perifano Grazia Volo Paolo Pollice

Marcello Damiata e Giuseppe Lentini

Giuseppe Panuccio

GIURISDIZIONI SPECIALI . . . . . . . . . . . . . . .240

Mario Esposito

GIUSTIZIA TRIBUTARIA . . . . . . . . . . . . . . . .192

DIRITTO SUCCESSORIO . . . . . . . . . . . . . . . . .242

Daniela Gobbi Adriano Di Pietro

Claudio Michelon DIRITTO DI FAMIGLIA . . . . . . . . . . . . . . . . . .244

DIFESA DEI CONSUMATORI . . . . . . . . . . . . .198

Mario Marzorati

Massimiliano Dona Mimma Modica Alberti

REAL ESTATE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .248

Antonio Belvedere MERCATO DEL FALSO . . . . . . . . . . . . . . . . . .206

Lara Comi

COMUNIONE E CONDOMINIO . . . . . . . . . . . .250

Renato Damiano e Felicita Guariglia IL MADE IN ITALY NEL MONDO . . . . . . . . . . .208

Giancarlo e Alessandro Pelosi

EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .252

Armando Rossi TUTELA DEI MARCHI . . . . . . . . . . . . . . . . . . .210

Daniela Mainini

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Editoriale

GIUSTIZIA, AVANTI CON LA DIGITALIZZAZIONE di Angelino Alfano Ministro della Giustizia

l piano di digitalizzazione della giustizia va avanti. I buoni numeri, anzi i numerosi record che abbiamo realizzato dal punto di vista informatico, ci spingono a voler continuare a lavorare sull’efficienza e a puntare sull’informatica. Tutti i contratti per l’assistenza tecnica ai sistemi informatici della giustizia sono stati rispettati, pur consapevoli della diminuzione delle risorse. C’è però l’esigenza di ripensare alla struttura di questi contratti che devono essere valutati caso per caso.

Il piano “giustizia digitale” si prefigge di velocizzare il lavoro degli operatori della giustizia rendendo più sicure tutte le comunicazioni, migliorare la qualità del lavoro delle cancellerie e accorciare i tempi delle sentenze. In questo modo la serietà, la riservatezza e l’imparzialità dei procedimenti vengono non soltanto mantenute ma anche rafforzate. Nel bilancio del 2010 sono stati stanziati circa 8 milioni di euro per il processo telematico. Rispetto al bilancio 2008, gli stanziamenti sono aumentati del mille per cento. Si è partiti, infatti, da uno stanziamento di 600 mila euro del 2008 per arrivare quasi a 8 milioni del 2010.

La priorità e l’efficienza sono la caratteristica del Governo Berlusconi. Sul piano dell’incremento informatico vogliamo essere un esempio anche in un tempo di risorse scarse e non vogliamo lezioni da nessuno. Quando siamo arrivati abbiamo trovato negli uffici giudiziari, per quanto riguarda la parte informatica, un fai da te diffuso. Una rendita di posizioni che è venuta meno con il piano informatico del Governo su scala nazionale e che ha

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fatto cessare tante piccole applicazioni locali.

Nonostante i tagli al bilancio di questi ultimi anni, gli investimenti per il processo telematico hanno avuto un andamento incrementale nel triennio 2008-2010, passando da 602.101 euro nel 2008 a 7.295.869 euro nel 2009, e a 7.978.743 euro nel 2010. Inoltre, con architettura web, è attivo, in tutti i 165 tribunali italiani e nelle 28 corti d’appello, un nuovo sistema informativo dei registri di cancelleria dell’intero settore civile.

Fino a oggi abbiamo registrato numerosi record: abbiamo incrementato rispetto al 2008 i processi civili telematici di oltre il 1000%, passando da 600 mila a circa 8 milioni; le telecomunicazioni telematiche inviate sono cresciute dal dicembre 2009 al dicembre 2010 del 350%, gli avvocati destinatari unici sono cresciuti del 100%, quelli registrati del 140%.Tra i benefici più importanti della giustizia digitale vi sono l’azzeramento dei tempi di comunicazione tra gli uffici giudiziari e i professionisti nonché considerevoli risparmi del tempo di lavoro per gli uffici giudiziari (stimati tra il 30 e il 40%), per gli addetti di cancelleria (tra il 20 e il 30%) e per gli stessi avvocati.

Se guardo al giro di boa, posso dire che in questi due anni e mezzo di governo abbiamo rispettato tutte le tappe dei protocolli di informatizzazione della giustizia che si erano prefissati i dicasteri della Giustizia e dell’Innovazione. Ora chiediamo un di più di collaborazione agli uffici giudiziari perchè le sinergie tra le parti possono dare risultati straordinari in questi altri due anni e mezzo che ci separano dal completamento della legislatura.

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Editoriale

VERSO IL NUOVO STATUTO DEI LAVORI di Maurizio Sacconi Ministro del Lavoro

l piano triennale per il lavoro si ispira a quella che io chiamo “antropologia positiva”, che vuol dire innanzitutto avere fiducia nella persona e nelle sue proiezioni relazionali, dalla famiglia alle imprese ai corpi intermedi, e nella sua attitudine a potenziare l’autonoma capacità dell’altro. L’esatto opposto di quell’antropologia negativa basata sul presupposto hobbesiano dell’homo homini lupus e, quindi, sulla malfidenza verso la persona e la sua attitudine verso gli altri. Quel presupposto sul quale è stato costruito il Leviatano, lo Stato pesante e invasivo che conosciamo e che vogliamo cambiare.

Le linee d’azione sulle quali intendiamo muoverci sono tre: l’emersione dell’economia informale e un’efficace azione di contrasto dei lavori totalmente irregolari; la maggiore produttività del lavoro attraverso l’adattamento reciproco delle esigenze di lavoratori e imprese nella contrattazione di prossimità, le forme bilaterali di indirizzo e gestione dei servizi al lavoro, l’incremento delle retribuzioni collegato a risultati e utili dell’impresa; in terzo luogo, favorire l’occupabilità delle persone attraverso lo sviluppo delle competenze richieste dal mercato del lavoro, con particolare attenzione ai giovani e alle donne.

In questa direzione, il Codice della partecipazione raccoglie la normativa comunitaria e nazionale, i disegni di legge, gli accordi sindacali, le buone pratiche realizzate in materia di

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partecipazione dei lavoratori ai risultati e agli utili delle imprese. Esso rappresenta peraltro la base di partenza per eventuali sviluppi legislativi e contrattuali relativi al tema.

Ai fini del passaggio dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori, è essenziale capirne l’idea ispiratrice. Vogliamo far rivivere lo Statuto dei lavoratori nella realtà che cambia. Una parte del nuovo Statuto, attinente ai diritti fondamentali della persona e del lavoro, deve restare ferma come norma inderogabile di legge. Un’altra parte, attraverso la contrattazione collettiva, si adeguerà meglio alle diverse condizioni e situazioni, così da rendere più efficaci quelle tutele. Il vecchio Statuto, che pure quarant’anni fa noi riformisti vivemmo come una grande conquista, è stato costruito per un’Italia che oggi non c’è più e per un’economia fordista, della grande fabbrica e delle produzioni seriali. Oggi i lavori sono “tanti” ed è doveroso proteggere, oltre che i lavoratori dipendenti, anche quelli indipendenti caratterizzati da debolezza socio-economica.

Liberare il lavoro significa liberare i lavori. Vale a dire, incoraggiare nelle imprese l’attitudine ad assumere e a produrre lavori di qualità. A cogliere ogni opportunità di crescita, ancorché incerta. A realizzare, attraverso il metodo della sussidiarietà orizzontale e verticale e, quindi, l’incontro tra le parti sociali nei luoghi più prossimi ai rapporti di lavoro, le condizioni per more jobs, better jobs.

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L’intervento

LA TUTELA DELLA PRIVACY AI TEMPI DI FACEBOOK di Francesco Pizzetti Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali

l 2010 è stato l’anno di una vera e propria svolta per il web, nel momento in cui si è assistito al sorpasso del social network Facebook sul motore di ricerca Google, in termini di numero di visite e di contatti. Il fatto che un social network sia divenuto in poco tempo il sito più visitato della rete rappresenta indubbiamente un fenomeno ricco di implicazioni. Il fenomeno delle comunità virtuali e degli altri servizi ospitati sul web, quali appunto i servizi di social network, anche se relativamente recente, continua a svilupparsi ed evolvere a un ritmo esponenziale. Se è fuori discussione l’importanza che i social network hanno nel mondo quali strumenti per aggregare idee e persone, non si può negare che la principale ricchezza dei loro contenuti sia l’effetto di una causa ben precisa, ovvero la condivisione volontaria di informazioni, contatti, foto, storie di vita, messaggi personali degli utenti: più contenuti significa inevitabilmente più dati personali e, quindi, potenzialmente, meno privacy.

Una delle sfide più importanti che oggi ci troviamo di fronte è dunque quella di ricercare un giusto e corretto equilibrio tra la necessità di consentire una facile immissione e condivisione delle informazioni e la necessità di mantenere, in capo agli utenti, un effettivo controllo sui loro dati, una volta che questi siano stati immessi in rete. L’uso inconsapevole delle nuove comunità virtuali, soprattutto da parte dei giovani, comporta dei rischi specifici, spesso sconosciuti: i dati registrati su un social network possono essere conservati negli archivi dei provider per tempi indefiniti; le informazioni possono essere catturate dai motori di ricerca e decontestualizzate; ogni singolo “movimento” dell’utente può essere registrato. Peraltro, le informazioni relative al “profilo” degli utenti rischiano di essere, se non adeguatamente protette, a disposizione non solo della “comunità” del social network, ma anche di soggetti terzi che possono utilizzarle per fini illeciti, quali la creazione di falsi profili, oppure per finalità diverse. Si pensi, ad esempio, al caso di alcuni responsabili di risorse umane che hanno ammesso di utilizzare le

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informazioni acquisite dalla rete per verificare la veridicità di curricula inviati e selezionare i possibili canditati.

I rischi posti in termini di protezione dei dati sono, dunque, molteplici e destinati a complicarsi con lo sviluppo di nuovi servizi offerti in rete. I legislatori, le Autorità di protezione dei dati europee e gli stessi fornitori si trovano ad affrontare queste nuove problematiche per le quali spesso è difficile utilizzare le tradizionali categorie giuridiche: ha senso parlare di “consenso informato” rispetto a fenomeni così complessi? Quali sono le nuove modalità per dare agli utenti informative adeguate, ma al tempo stesso semplici ed efficaci, sull’uso dei loro dati? A livello europeo, la stessa Commissione e le Autorità di protezione dei dati si stanno interrogando su tali questioni, anche nel tentativo di modificare le regole elaborate in materia di protezione dei dati al fine di renderle efficaci e concretamente applicabili al cosiddetto “mondo virtuale”.

Uno dei principali ostacoli è rappresentato dalla impossibilità di applicare il diritto nazionale a fenomeni che hanno ormai una dimensione globale: la maggior parte dei social network ha sede all’estero, dove le regole europee elaborate difficilmente possono trovare applicazione. In questo contesto, è dunque fondamentale operare per creare regole semplici e chiare che devono essere necessariamente condivise a livello globale e internazionale, ma anche incoraggiare le iniziative di autoregolamentazione, come, ad esempio, la promozione di codici di condotta.

Emerge sempre più forte la consapevolezza che, per garantire una effettiva “sicurezza” on line dei dati personali, tutte le parti interessate, a partire dai fornitori dei servizi, comprendano appieno l’importanza e la necessità di collaborare all’elaborazione di regole e misure tecniche adeguate a proteggere i dati degli utenti. Del resto, non è difficile capire, anche da parte di chi offre i servizi di social network, che la sicurezza del trattamento delle informazioni degli utenti non può che costituire, nel tempo, un elemento chiave per sviluppare fiducia tra gli utenti nelle enormi possibilità offerte dalla rete.

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In copertina • Salvatore Trifirò

Quale modello per le relazioni industriali future?

Salvatore Trifirò su lavoratori, imprese e giustizia. Il noto giuslavorista dipinge un’Italia fragile, afflitta da un sistema giudiziario e legislativo incapace di rispondere alle esigenze del mercato globale. E spiega perché, secondo lui, l’accordo Marchionne rappresenta un evento epocale di Andrea Moscariello

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Salvatore Trifirò • In copertina

Salvatore Trifirò, fondatore dello studio legale Trifirò & Partners di Milano

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In copertina • Salvatore Trifirò

na moderna società civile non può coniugare la propria economia con la globalizzazione se priva di fondamentali presupposti. Senza una giustizia efficiente e un sistema di leggi adeguato, le imprese sono frenate negli investimenti e i mercati, di conseguenza, ristagnano. Non si può negare come, ahinoi, ciò rappresenti il vero nodo critico per il nostro paese. Aumentano, infatti, le imprese straniere che rinunciano a investire in Italia, temendo lunghi e costosi procedimenti legali. A riflettere su giustizia, lavoro e impresa, è Salvatore Trifirò, uno dei più noti e apprezzati giuslavoristi italiani. «I problemi del sistema italiano sono ben conosciuti. Se ne parla da tempo e non se ne viene mai a capo - dichiara senza mezzi termini l’avvocato -. Tutti si soffermano sulla lentezza della giustizia, che per noi è un male endemico. L’Italia è fra gli ultimi paesi al mondo segnalati per la durata dei processi. È stata per questo più volte condannata dalla Comunità Europea. Per diretta esperienza posso dire che una causa in tema di diritto successorio dura non meno di 15/ 20 anni; una causa in tema di diritto del lavoro non meno di 10 anni».

Tempi insostenibili.

«Appunto. Si tratta di tempi che hanno una grave ricaduta sul sistema Paese, non solo per i costi enormi della gestione della giustizia ma anche e soprattutto per i capitali immobilizzati, che vengono congelati per decenni, che non circolano, che non generano ricchezza. Siamo vittime di un’amministrazione del sistema incontrollata e irresponsabile».

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Secondo lei perché non se ne viene a capo?

«Intanto vi è una carenza strutturale degli organici, in Italia occorre una più efficace distribuzione delle materie fra le magistrature giudicanti. Poi c’è il problema dell’abolizione di un grado di giurisdizione, della separazione delle carriere dei giudici da quelle dei pubblici ministeri e della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Il Csm dovrebbe essere caratterizzato da un’effettiva terzietà. Si deve evitare, tanto per fare un esempio, che un magistrato condannato per pedofilia venga assolto dai suoi colleghi del Consiglio Superiore con il pretesto che in quel momento era incapace di intendere e di volere e che, addirittura, venga promosso in Corte di Cassazione. Urge, a tal proposito, l’istituzione di un comune codice deontologico, al quale magistrati e avvocati dovrebbero attenersi. L’elenco delle criticità potrebbe durare a lungo. Resta comunque il problema di fondo».

Vale a dire?

«Senza un sistema di adeguate sanzioni a carico di tutti i protagonisti, quindi giudici, avvocati e cittadini, qualsiasi riforma non sortirà gli effetti sperati».

Nel concreto quali soluzioni si potrebbero ipotizzare?

«Tanto per cominciare il giudice, al pari di tutti i lavoratori inseriti in un’organizzazione, dovrebbe avere un orario di lavoro durante il quale essere presente in ufficio, ricevere gli avvocati che ne fanno richiesta anche al di fuori delle normali udienze. Devono uscire dalla “torre d’avorio” nella quale spesso si rinchiudono. I giudici dovrebbero essere personalmente responsabili nei confronti del cittadino per il mancato rispetto dei termini imposti per emettere un qualsiasi provvedimento dal quale possa dipendere la sopravvivenza o meno di un’azienda o la libertà o meno di un cittadino. In altre parole non dovrebbe essere lo Stato, come oggi accade, a rispondere dei danni procurati al cittadino che subisce il torto. Perché in tal modo è lo stesso cittadino a risarcire se stesso».

Lei afferma che il principio della responsabilità personale dovrebbe valere anche per gli avvocati.

Si vuole spiegare?

«Certo. L’avvocato, al pari di qualsiasi altro professionista, risponde già per i danni causati al proprio cliente, ad esempio per il mancato rispetto dei termini processuali. Ma non si deve trattare solo di questo. L’avvocato non deve concorrere a ritardare la durata del processo con richieste palesemente dilatorie, pena non solo sanzioni di natura disciplinare, ma anche la riduzione del compenso professionale. Il professionista legale dovrebbe essere motivato a ridurre la litigiosità.

Andrebbe inserita, ad esempio, un’apposita voce tariffaria che

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Salvatore Trifirò • In copertina

Salvatore Trifirò insieme al figlio Stefano, avvocato partner dello studio; nella pagina accanto lo stabilimento Fiat di Mirafiori; nella pagina successiva, la sede del Consiglio Superiore della Magistratura

Il caso Mirafiori rappresenta un evento epocale dovuto a una coraggiosa presa di posizione dell’amministratore delegato di Fiat, Marchionne, a tutela dell’intera comunità dell’impresa C&P • GIUSTIZIA

premi la conciliazione della lite. L’avvocato non dovrebbe ricorrere alla tariffa oraria che incentiva le lungaggini, procrastinando così i tempi della composizione delle controversie».

E quale sarebbe un rimedio per la “litigiosità” dei cittadini?

«Occorrerebbe incentivare ancor di più le conciliazioni, se possibile anche con un sistema premiante di natura fiscale.

Andrebbero inasprite le sanzioni per chi agisce o resiste in giudizio con malafede o colpa grave. Sarebbe utile introdurre anche nel nostro Paese il concetto di “danno punitivo”».

Cosa è esattamente il “danno punitivo”?

«Si tratta di una sorta di sanzione amministrativa da versarsi in parte allo Stato e in parte al cittadino chiamato ingiustamente in causa, una volta che dovesse essere accertata la malafede o la colpa grave».

Un altro degli aspetti in cui emergono i deficit più gravosi è quello giuslavoristico. Lei cosa prevede per il futuro della disciplina del lavoro, in particolare nell’ambito dell’impresa?

«Fino a oggi il nostro sistema codicistico si è basato, e si basa tutt’ora, sul lavoro autonomo e sul lavoro subordinato. Il lavoro autonomo è stato in passato poco e male utilizzato nell’ambito dell’impresa. E ancora oggi la cosiddetta riforma 21

In copertina • Salvatore Trifirò

I giudici devono uscire dalla “torre d’avorio” nella quale spesso si rinchiudono.

Dovrebbero essere personalmente responsabili nei confronti del cittadino per il mancato rispetto dei termini imposti

Biagi, che pure ha introdotto elementi di novità, non è soddisfacente. Le tipologie di lavoro autonomo introdotte nell’impresa rischiano di essere trasformate, anche in considerazione delle modalità di prestazione e dei vincoli gerarchico-disciplinari, in rapporti di lavoro subordinato, con rilevanti conseguenze economiche per le aziende».

Perché, allora, dovrebbe darsi spazio al lavoro autonomo nell’ambito dell’impresa?

«Per una ragione semplicissima. Perché i vincoli del rapporto di lavoro subordinato a livello normativo, individuale e collettivo introdotti dallo Statuto dei Lavoratori, sono stati troppi, al punto da avere ingessato le aziende, spesso impedendo il loro sviluppo. Ciò è tanto più evidente nel mondo globalizzato dove la concorrenza è spietata e dove il rapporto qualità-prezzo diventa decisivo per la sopravvivenza di un’impresa. A maggior ragione in un momento di crisi, qual è quello che stiamo ancora attraversando. Ed è un fatto che grandi gruppi multinazionali non ritengano il nostro paese appetibile per i loro investimenti. Basti ricordare le recenti vicende dell’Alitalia: laddove le anomale garanzie richieste per i dipendenti dalle organizzazioni sindacali erano tali e tante da allontanare gli investitori stranieri».

In molti, però, sostengono che dare spazio al lavoro autonomo significa lasciare i lavoratori senza tutela.

«Tutt’altro. In un mio articolo apparso tempo fa sul Corriere della Sera, in tema di flessibilità nell’ambito dell’impresa, ipotizzai un’azienda del futuro basata su contratti di lavoro autonomo, laddove i lavoratori sarebbero stati liberi dal sistema soffocante di contribuzioni cosiddette sociali, che servono ad alimentare voragini di sprechi e inefficienze.

E soprattutto, sarebbero stati liberi dalla tutela dei sindacati, che comporta anche il pagamento a favore delle organizza22

zioni sindacali di un contributo, quasi che i lavoratori subordinati siano una sottospecie alla cui busta paga tutti sono autorizzati ad attingere. In tal modo avrebbero potuto trarre maggiore redditività dalla loro prestazione. Certo, tutto ciò urta contro centrali parassitarie di potere ed è questo il vero nodo da sciogliere».

A questo punto è impossibile non chiederle un parere sul recente accordo di Mirafiori.

«Si tratta a mio avviso di un evento epocale, forse non sottolineato abbastanza, dovuto a una coraggiosa presa di posizione dell’amministratore delegato di Fiat, Marchionne, a tutela dell’intera comunità dell’impresa, dunque azienda e lavoratori. Il principio di diritto, ineccepibile, da cui l’Ad ha preso le mosse è il seguente: le pattuizioni dei contratti collettivi si applicano agli iscritti alle associazioni di appartenenza. Ne consegue che in difetto di iscrizione alla Confindustria, quest’ultima non rappresenta l’azienda a essa non iscritta che, pertanto, non è tenuta al rispetto dei contratti collettivi dalla stessa stipulati.

Quei contratti possono costituire solo un parametro di riferimento ove dovessero essere violate norme costituzionali, ovvero dovessero essere violate norme di ordine pubblico relative al rapporto di lavoro».

Non crede che tutto questo abbia in qualche modo ribaltato il sistema delle relazioni industriali?

«Alcuni hanno parlato di destabilizzazione del sistema, altri hanno detto che si va verso un decentramento della contrattazione. Un fatto è certo: si è rotto un tabù. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori hanno dovuto prendere atto che la loro egemonia è stata posta decisamente in discussione e un nuovo modello di lavoro e di relazioni industriali si affaccia all’orizzonte per vincere la concorrenza nel mondo globalizzato».

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Occupazione • Pietro Ichino

Un modello scandinavo contro la crisi Il senatore Pietro Ichino illustra la sua ricetta per favorire mobilità interaziendale e ricollocamento: «è necessario correggere drasticamente un uso distorto della cassa integrazione.

Ma serve un contributo maggiore dei sindacati» di Riccardo Casini Sotto, Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd

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Pietro Ichino • Occupazione

allarme lavoro resta alto in Italia. Questo almeno sembrano dire gli ultimi rilevamenti Ocse, secondo cui la disoccupazione nell’area dei paesi membri è all’8,6%.Ancora peggiore la situazione dell’occupazione giovanile, passata a dicembre al 29%: numeri da interpretare, come sottolinea Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd. «Il dato italiano – spiega – si può considerare in linea soltanto se non si computano tra i disoccupati tutti quei cassintegrati a zero ore per i quali - e sono la maggior parte - in realtà vi è la certezza che non ci sarà ripresa del lavoro nella stessa azienda. Poi ci sono gli “scoraggiati”, tutti quelli che hanno perso il posto nella crisi e hanno rinunciato a cercarne uno nuovo. La Banca d’Italia ci avverte che, se contiamo anche tutti questi, il tasso di disoccupazione italiano sale all’11%.

Su questo criterio di computo il ministro Sacconi non è d’accordo, mentre Tremonti ha dato ragione al governatore Draghi».

Ma quali sono i settori più colpiti? «È difficile assegnare i disoccupati a un determinato settore produttivo: non è detto che chi ha perso il posto sia destinato a ritrovarlo in quello stesso settore. Ciò che si può dire è che il problema della disoccupazione in Italia nasce in larga parte proprio dalla nostra incapacità di assistere efficacemente i lavoratori nel passaggio dall’azienda che chiude o riduce gli organici a quella che ha bisogno di assumere».

Infatti, sempre secondo l’Ocse, “l’Italia è caratterizzata da un ordinamento del mercato del lavoro piuttosto rigido e da una mobilità del lavoro limitata”. Quali misure occorrerebbero per sbloccare la situazione e incentivare l’occupazione?

«Nel mio disegno di legge n. 1873, presentato un anno fa con altri 54 senatori, la materia del licenziamento e della mobilità interaziendale è oggetto di una profonda riforma ispirata al modello nord-europeo della flexsecurity, cioè mirata a conciliare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro».

Qual è il meccanismo protettivo delineato nel suo progetto?

«L’idea è di esentare le imprese, per i nuovi rapporti, dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento, in cambio della loro responsabilizzazione circa il sostegno nel mercato al lavoratore che perde il posto. Il costo per le imprese è largamente compensato dalla possibilità dell’aggiustamento industriale tempestivo. Per il primo anno il trattamento complementare di disoccupazione costerebbe davvero poco, perché il grosso lo paga già l’Inps: donde un forte incentivo per le imprese ad attivare i servizi di outplacement migliori per ricollocare i lavoratori licenziati entro il primo anno, evitando così il costo dei due anni successivi».

L’obiezione è che il buon trattamento economico potrebbe dissuadere i lavoratori dall’attivarsi per cercare il nuovo lavoro.

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«Questo è quello che accade oggi, pacificamente, per effetto dell’uso distorto della cassa integrazione anche nei casi in cui vi è la certezza che il lavoro non riprenderà più nella stessa azienda. Per questo occorre correggere drasticamente questo uso distorto. Secondo il mio progetto ispirato alla flexsecurity scandinava, la disponibilità effettiva dei lavoratori per il processo di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro sarà oggetto di un adeguato potere di controllo da parte dell’azienda che gli paga il trattamento complementare di disoccupazione, nel quadro di un vero e proprio “contratto di ricollocazione”».

Quale dovrà essere allora in futuro il ruolo degli ammortizzatori sociali?

«Occorrerà, come dicevo, correggere l’abuso della cassa integrazione, fortemente incrementato in questo periodo di crisi con l’esplosione della cassa integrazione in deroga, e sviluppare invece un sistema di sostegno del reddito per chi perde il lavoro fortemente condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore alla ricerca della nuova occupazione: un sistema come quello che io propongo di realizzare, con una combinazione del trattamento Inps con un trattamento complementare posto a carico dell’azienda che licenzia, in cambio della libertà di licenziamento per motivi economici od organizzativi».

Quando è possibile attendersi una risalita del livello occupazionale?

«Se fossimo capaci di mettere meglio in comunicazione domanda e offerta, potremmo averla anche subito: ci sono diversi settori che già oggi assorbirebbero decine di migliaia di lavoratori qualificati se li trovassero, come il settore del materiale ferroviario, dove potrebbero essere riconvertiti, per esempio, molti dei lavoratori che perderanno il posto nel settore dell’auto. Ma ci sono in ogni regione decine di migliaia di posti scoperti per falegnami, 25

Occupazione • Pietro Ichino

Se fossimo capaci di mettere meglio in comunicazione domanda e offerta, potremmo avere subito una risalita del livello occupazionale

elettricisti, impiantisti, installatori di infissi, tecnici informatici, macellai, panificatori, fabbri, sarti, e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo».

Secondo l’ufficio studi di Confartigianato, in Italia oggi i lavoratori irregolari sono quasi 700mila e producono il 17% del Pil. Come è possibile contrastare questo fenomeno?

«Innanzitutto credo che gli irregolari siano molti più di 700mila: l’Istat stima il fenomeno al 15% della forza-lavoro. Del resto, non sarebbe possibile che il 3% della forza-lavoro producesse il 17% del Pil. I settori maggiormente interessati da questo fenomeno sono l’edilizia, l’agroindustria, la piccola manifattura e i servizi domestici. Nel centro-nord il sommerso va combattuto aumentando i controlli e regolarizzando i lavoratori extracomunitari.

Al sud il fenomeno è più esteso e il problema è più complesso».

Quali politiche sono necessarie nel Mezzogiorno?

«Occorre porre le regioni meridionali in grado di attirare in26

vestimenti, italiani e soprattutto stranieri. Per questo occorre un’azione dei poteri pubblici volta a creare un ambiente favorevole agli investimenti, infrastrutture mirate ad agevolare l’insediamento e un sistema di relazioni industriali che consenta la negoziazione dei buoni piani industriali a 360 gradi, anche secondo standard diversi da quelli fissati dal contratto collettivo nazionale».

Quale deve essere in questo il ruolo dei sindacati?

Come giudica attualmente il loro contributo?

«Il loro mestiere dovrebbe consistere nell’operare come intelligenza collettiva dei lavoratori, valutando i piani industriali e, in caso di valutazione positiva, guidando i lavoratori stessi nella scommessa comune con gli imprenditori. Per quanto riguarda il loro contributo, su questo terreno siamo ancora molto indietro. La vicenda di Pomigliano ha dato un salutare scossone alla cultura sindacale italiana, ma c’è ancora molta strada da fare».

C&P • GIUSTIZIA

Occupazione • Giuliano Cazzola

Come cambia la contrattazione Già in altri Paesi europei vengono adottati meccanismi di deroga simili a quelli che la Fiat ha rivendicato per sé. Innanzitutto in Germania. Giuliano Cazzola commenta lo scenario determinato dall’esito referendario di Mirafiori di Francesca Druidi

l segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni lo ritiene un risultato prodigioso. Il risultato del referendum di Mirafiori per l’approvazione del nuovo contratto dello stabilimento torinese, che ha visto prevalere il sì per il 54% dei voti, non ha placato però le tensioni, tantomeno sul fronte sindacale. A offrire il proprio punto di vista è Giuliano Cazzola, deputato del Pdl e vicepresidente della commissione Lavoro.

Si aspettava una percentuale più larga per il fronte del sì nel referendum di Mirafiori?

«Era difficile fare delle previsioni perché Mirafiori ha sempre fatto storia a sé, anche quando i sindacati si presentavano con una

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posizione unitaria. Poi occorre tener conto di una campagna di menzogne che aveva bombardato i lavoratori. Mi aspettavo un risultato come quello di Pomigliano. Non mi pare che le differenze siano sostanziali, in ogni caso si tratta di un risultato netto a cui hanno contribuito anche gli operai, non solo gli impiegati».

Si sta realmente aprendo una nuova pagina di relazioni sindacali e industriali in Italia?

«Sicuramente. Le novità sono tante. Il contratto di lavoro torna ad acquistare un valore di scambio più diretto che il contratto nazionale ha perduto. Quali vantaggi arridono a un’azienda come la Fiat da un contratto nazionale stipulato dalle parti sociali? Ben pochi. Con la svolta di Pomigliano e Mirafiori, la Fiat scambia

C&P • GIUSTIZIA

Giuliano Cazzola • Occupazione

Giuliano Cazzola, deputato del Pdl e vicepresidente della commissione Lavoro della Camera dei deputati

Con la svolta di Pomigliano e Mirafiori, la Fiat scambia con i propri dipendenti, grazie alla mediazione dei sindacati disponibili, maggiori salari e maggiore produttività C&P • GIUSTIZIA

con i propri dipendenti – grazie alla mediazione dei sindacati disponibili - maggiori salari e maggiore produttività. Poi va sottolineata la novità della cosiddetta clausola di responsabilità, volta a contrastare la conflittualità spicciola che provoca molti danni alle imprese con il pretesto non dimostrato che lo sciopero è un diritto individuale. Basti pensare a Pomigliano, dove un piccolo sindacato radicale ha proclamato lo sciopero del lavoro straordinario fino al 2014, al solo scopo di dare copertura a chiunque volesse sottrarsi ai turni del sabato per una qualunque ragione.

Infine, ci sono gli aspetti della rappresentanza sindacale. La mossa di Marchionne è assolutamente legittima, ma lo strappo è forte.

La Fiat ha esercitato un elementare diritto alla legittima difesa contro un avversario implacabile, ma è auspicabile che si trovi una soluzione più adeguata».

In che modo oggi è possibile far convivere le strategie delle imprese con il mantenimento dei diritti dei lavoratori? Il presidente della Repubblica ha auspicato in questo senso un modello più costruttivo di discorso.

Cosa ne pensa? «È quanto è accaduto a Pomigliano e a Mirafiori. Penso che quanti hanno parlato di violazioni dei diritti abbiano mentito. Le condizioni lavorative introdotte nei due stabilimenti sono da sempre in vigore a Melfi e in tante altre aziende metalmeccaniche e non. Poi le deroghe, i contratti aziendali in parte sostitutivi di quelli regionali, li hanno inventati i tedeschi».

Passando al quadro generale, risulta piuttosto preoccupante il tema della disoccupazione giovanile. Perché la crisi in Italia pesa soprattutto sulle spalle delle generazioni più giovani?

«Si tratta di un fenomeno che esiste in tutti i paesi Ocse. La crisi ha determinato un blocco delle nuove assunzioni. Gli ammortizzatori sociali hanno difeso la forza del lavoro occupata, mantenendo in vita i rapporti di lavoro tramite le riduzioni dell’orario e l’intervento della cassa integrazione. Quando ci sarà la ripresa, le aziende assorbiranno la manodopera sospesa prima di attuare nuove assunzioni. Poi esiste un problema di carattere strutturale: la manodopera giovanile in questi anni ha presentato caratteristiche aggiuntive e flessibili. Si pone allora la questione di sempre. È giusto che tutta la flessibilità di cui ha bisogno il sistema sia posta a carico dei giovani?»

Ha recentemente parlato di lavoro rifiutato da parte degli italiani. Serve allora anche un cambiamento culturale nelle attuali dinamiche che attraversano il mercato del lavoro?

«Io ne sono convinto. Durante la crisi è continuato a crescere il numero di lavoratori stranieri occupati, seppure in modo più contenuto degli anni precedenti. Poi ci sono numerose associazioni datoriali che continuano a lamentare la mancanza di figure professionali tipiche dei settori artigiani. I giovani rifiutano certi tipi di lavoro manuale che pure darebbero reddito e sicurezza».

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Previdenza sociale • Antonio Mastrapasqua

Diventare protagonisti del proprio futuro previdenziale Contrasto al lavoro nero e lotta all’evasione. L’Inps, presieduto da Antonio Mastrapasqua, affronta queste battaglie con nuovi strumenti. «Un progetto di legalità che deve assicurare diritti ai lavoratori e regolarità contributiva dalle imprese» di Francesca Druidi mmontano a quasi 95 miliardi di euro gli incassi dell’Inps derivanti dal pagamento dei contributi previdenziali obbligatori nei primi nove mesi del 2010, con un incremento dell’1,2% rispetto allo stesso periodo del 2009. «Da un lato – rileva Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps – mi pare sia un importante sintomo di vitalità delle imprese e una ripresa del livello di legalità nel mercato del lavoro. Da un altro punto di vista, è la conferma dell’efficienza dell’Inps nel contrastare l’evasione contributiva e nel diffondere una cultura collaborativa con le aziende, ad esempio semplificando e facilitando gli adempimenti necessari».Tra gennaio e settembre, gli incassi derivanti dal recupero dei crediti Inps risultano 3,7 miliardi, in rialzo del 10% rispetto ai primi nove mesi del 2009. «Un decisivo contributo all’aumento delle riscossioni – aggiunge Mastrapasqua – è il risultato delle azioni di ispezione e di accertamento amministrativo condotte dall’Inps, grazie al continuo miglioramento delle azioni di intelligence delle nostre strutture».

Ha indicato come priorità la questione del lavoro sommerso in Italia. Quali sono le soluzioni da mettere in campo per alimentare la cultura della legalità?

«La battaglia per la legalità coincide con quella dell’interesse individuale, nel senso che è necessario l’impegno di tutti, anche dei lavoratori, per impedire lo sfruttamento e l’evasione contributiva da parte di imprenditori e aziende disonesti, in modo da assicurare un presente sicuro e un futuro dignitoso a chi lavora.

Da parte sua, l’Inps affronta l’azione di contrasto al lavoro sommerso con tutti i mezzi a disposizione, compresi quelli offerti dalle ultime leggi: la devoluzione di una percentuale delle sanzioni ai Comuni, in cambio del loro aiuto per scovare gli evasori; la possibilità di interrompere le prestazioni ai soggetti segnalati dall’Agenzia delle Entrate; la significativa riduzione dei tempi per la riscossione coattiva. Fondamentale la stretta collaborazione con l’Agenzia delle Entrate, che consentirà un maggiore scambio di informazioni e azioni coordinate per verifiche più mirate. Il contrasto al lavoro nero coincide con un progetto

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C&P • GIUSTIZIA

Antonio Mastrapasqua • Previdenza sociale

di legalità che deve assicurare diritti ai lavoratori e regolarità contributiva da parte delle imprese».

Lei valuta la riforma pensionistica definita come la più innovativa nel panorama europeo. Quali i suoi effettivi punti di forza?

«La riforma delle pensioni varata l’estate scorsa rappresenta innanzitutto la chiusura di un cantiere che l’Italia aveva aperto coraggiosamente quasi vent’anni fa. La riforma assicura stabilità certa al sistema previdenziale del Paese. Un risultato riconosciuto all’estero: la Commissione Ue ha indicato proprio nella riforma delle pensioni di Italia e Svezia i due esempi da imitare in tutto il Vecchio Continente. L’Italia e la Svezia hanno avuto il coraggio di agganciare in modo automatico l’età della pensione all’aspettativa di vita. Quindi una riforma strutturale. E poi c’è la novità della finestra mobile. Il sistema delle finestre varato dalla riforma Prodi-Damiano del 2007 aveva introdotto dei momenti di uscita verso la pensione che non erano fissi. La finestra a scorrimento ha introdotto una maggiore equità: ogni lavoratore, a prescindere dalla sua data di nascita, potrà riscuotere il

suo assegno dopo un periodo fisso a partire dal momento in cui raggiunge i requisiti, dodici mesi se dipendente, diciotto se autonomo».

Ha parlato spesso di cultura previdenziale. Che cosa intende nello specifico?

«Con il sistema di calcolo contributivo della pensione, che ha sostituito quello retributivo, assume importanza ogni singolo aspetto della vita lavorativa, soprattutto dei lavoratori più giovani.

Il futuro assegno pensionistico, infatti, dovrà essere costruito un giorno dopo l’altro, ad esempio anche con il riscatto della laurea, o anche prima, accumulando contribuzione con eventuali brevi periodi di lavoro retribuiti con i buoni lavoro. Insomma, occorre responsabilizzare tutti affinché tutti siano in grado di fare le scelte giuste per il proprio futuro pensionistico. In tutto questo, l’Inps e gli altri enti previdenziali hanno il dovere di creare le basi per una cultura consapevole, fornendo il massimo delle informazioni e della trasparenza. È in quest’ottica l’invio di oltre tre milioni di lettere ad altrettanti lavoratori iscritti alla gestione separata, ai quali l’Istituto offre la possibilità di controllare

L’Inps affronta l’azione di contrasto al lavoro sommerso con tutti i mezzi a disposizione, compresi quelli offerti dalle ultime leggi

Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps

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Previdenza sociale • Antonio Mastrapasqua

Ci dovrà essere un grande intervento formativo e informativo per abituare tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, a verificare nel tempo il proprio conto previdenziale in ogni momento la propria situazione contributiva.Tre milioni di lettere che sono seguite a quei venti milioni indirizzate ad altrettanti lavoratori dipendenti con una posizione previdenziale Inps aperta».

Sono scoppiate accese polemiche sull’importo delle pensioni dei precari e sull’impossibilità di simulare il calcolo di queste pensioni. Quanto è effettivamente preoccupante lo scenario pensionistico per i parasubordinati?

«La decisione di non attivare un contatore automatico della prestazione è stata presa perché è semplicemente impossibile determinare il valore di una prestazione a distanza di 30-35 anni dal momento del suo godimento. Si creerebbero solo distorsioni informative. Con il sistema contributivo l’importo della pensione è funzione di troppe variabili, l’evoluzione del Pil, l’età anagrafica e l’aspettativa di vita, la dinamica delle retribuzioni e il connesso monte contributivo, alle quali non è possibile dare una risposta con previsioni statistiche o simulazioni attuariali.

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Detto questo, posso soltanto dire che la pensione è garantita dallo Stato, ma la sua entità dipende dai contributi versati nel corso dell’intera vita lavorativa, soprattutto per chi avrà la pensione calcolata interamente con il sistema contributivo. Ognuno è diventato protagonista del proprio futuro previdenziale. Ci dovrà essere un grande intervento formativo e informativo per abituare tutti i lavoratori, giovani e meno giovani, a verificare nel corso del tempo il proprio conto previdenziale, né più né meno di quanto si fa abitualmente con il proprio conto in banca».

Può indicare le fondamenta su cui dovrebbe ergersi la nuova riforma fiscale italiana?

«L’Inps partecipa ai lavori che porteranno al progetto di riforma, ma si tratta di un percorso complesso e plurale, avviato attraverso l’incontro con tutte le parti sociali, guidato dal governo, dal ministero dell’Economia in particolare, e che sarà varato dal Parlamento. Il ruolo dell’Istituto è quello di un fornitore di informazioni strategiche per le scelte. Ma le scelte non competono all’Inps».

C&P • GIUSTIZIA

Riforme • Niccolò Ghedini

La rivoluzione del sistema giudiziario Una vera e propria trasformazione dell’universo giustizia è quella che l’esecutivo sta cercando di attuare per rendere più efficiente un sistema ormai al collasso. Niccolò Ghedini sostiene le riforme augurandosi che vengano attuate in tempi brevi di Nicolò Mulas Marcello

endere più efficiente il sistema giudiziario italiano è una delle priorità del programma di governo. Tra le riforme più importanti dell’esecutivo, quella della giustizia riveste un ruolo cardine e seppur tra polemiche e accesi dibattiti procede sulla road map decisa dal ministro Alfano.

Dopo aver varato importanti misure che riguardano il processo civile, introducendo ad esempio l’informatizzazione degli uffici giudiziari e delle cancellerie, il governo è ora impegnato nella difficile riforma dell’ambito penale. Processo breve e ddl sulle intercettazioni sono solo alcuni dei provvedimenti teatro di scontro tra maggioranza e opposizione, ma sull’urgenza della riforma di un sistema giudiziario ormai al collasso il consenso è unanime. «Questo governo – afferma l’onorevole Niccolò Ghedini – ha già varato parecchie riforme pur essendoci stato nel corso di quest’anno un forte impegno per far fronte alla crisi economica a causa della quale si sono dovute posporre alcune attività legislative. Il processo civile aveva urgenze ben maggiori rispetto alla riforma costituzionale, quindi credo che sia stato giusto tenere le attuali scansioni temporali». Tra le novità proposte c’è anche quella della separazione delle carriere: «Da un punto di vista pratico – continua Ghedini – si

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Niccolò Ghedini, deputato del Pdl e avvocato penalista

C&P • GIUSTIZIA

Niccolò Ghedini • Riforme

esalterebbe la terzietà del giudice e al contempo l’indipendenza del pubblico ministero, che avrebbe una maggior indipendenza dal giudice stesso; credo che questo sarebbe un passaggio molto importante per la garanzia dei nostri cittadini e dal punti di vista politico si riuscirebbe a raggiungere un risultato di completezza tra l’articolo 111 del 99, cioè quello relativo al giusto processo, in combinato con gli articoli 24 e 3 della Costituzione, i quali sono dettami di particolare valore in quanto voluti dai padri costituenti».

Attualmente il governo sta studiando modifiche per rendere condivisibile il testo di legge sul processo breve. Il provvedimento vuol dare una risposta a quelle lungaggini processuali note a tutti e che anche l’Europa ci contesta attraverso sanzioni salate (34 milioni di euro solo nel 2009). In Italia abbiamo quasi 10 milioni di fascicoli pendenti nei Tribunali. La ratio del processo breve è finalizzata all’implementazione delle risorse a nostra disposizione dei tribunali.

Orientato proprio ad arrivare al risultato di una maggiore celerità della giustizia. Scorrendo i punti della riforma è previsto inoltre l’ampliamento dei poteri della polizia giudiziaria che, sola, potrà prendere cognizione delle notizie di reato, godendo di maggiore autonomia nello svolgimento delle indagini anche al di fuori delle direttive impartite dai pm.

Mentre questi ultimi dovranno accontentarsi delle notizie C&P • GIUSTIZIA

fornite loro dalla polizia giudiziaria operante e i magistrati vedranno ridotti i loro poteri di impulso o di iniziativa anche nell’emettere provvedimenti cautelari. Inoltre è stato introdotto un controllo sulla produttività cui sono sottoposti tutti i magistrati con rapporti trimestrali e sanzioni disciplinari. Sono stati forniti al cittadino degli strumenti di garanzia nei confronti del giudice: criteri più certi per individuare quello territorialmente più competente e maggiori possibilità di astensioni e ricusazioni, anche nel caso in cui i giudici esprimono pareri fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie e che non siano pertanto imparziali.

Da non trascurare è, sempre a vantaggio del cittadino, il divieto per i tribunali di usare e il conseguente obbligo di distruggere tutti quegli atti che non costituiscono notizia di reato e che andrebbero altrimenti a costituire dei veri e propri archivi di informazioni private non giustificabili.

«Spero che nei cinque punti programmatici che Silvio Berlusconi sottoporrà al voto del Parlamento ci sia la grande riforma costituzionale della giustizia, di cui abbiamo veramente bisogno», così Ghedini si augura che il tema giustizia torni presto tra le priorità auspicando che «ci sia una magistratura che torni nell’alveo dei suoi poteri, che giudichi sì la politica, ma anche che la politica sia libera di svolgere il suo mandato».

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Riforme • Maurizio Paniz

Riforme condivise Maurizio Paniz, deputato Pdl e membro della commissione Giustizia alla Camera, chiede «il contributo di tutti» sulle proposte di legge in calendario. E sul processo breve: «necessario dare tempi limite esatti ai cittadini. Ma se fosse veramente un’amnistia, non la voterei» di Riccardo Casini

Maurizio Paniz, deputato Pdl

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alla difesa del presunto Unabomber (poi prosciolto) a quella (sempre in aula, ma della Camera) di Silvio Berlusconi, per finire con quella (anche se solo a mezzo stampa) del ministro della Giustizia Alfano: l’avvocato Maurizio Paniz, deputato Pdl e membro della commissione Giustizia e della Giunta per le autorizzazioni alla Camera, sembra insomma non dimenticare la sua vocazione professionale nemmeno dopo l’approdo in politica.

Nei giorni scorsi lei ha difeso il ministro Angelino Alfano dagli attacchi dell’opposizione. Quali sono i risultati più importanti conseguiti dal suo ministero nel 2010?

«Chi accusa il ministro Alfano chiude gli occhi di fronte alla realtà. Almeno tre sono i risultati di grande spessore conseguiti nel 2010: il primo è la riduzione dell'arretrato civile, per la prima volta da decenni sceso del 4%. Questo è avvenuto grazie alle riforme in materia di processo civile, alla sempre più completa informatizzazione degli uffici giudiziari e alle modifiche normative delle spese di giustizia, soprattutto in materia di contributo per le spese, che hanno abbattuto sensibilmente il numero delle opposizioni a sanzioni amministrative. Un altro punto di merito è il miglioramento dell'efficienza del sistema giudiziario e penitenziario del nostro Paese».

Con quali strumenti si sta operando in questo senso?

«Da una parte attraverso l’indizione di due concorsi (agosto 2012 e febbraio 2013) per ben 713 posti da magistrato, che si aggiungono ai 253 assunti nel 2010 per un totale di 966 unità, e dall’altra attraverso la messa a concorso di ben 1.800 posti di agenti di polizia penitenziaria e la creazione di oltre 2mila nuovi posti in strutture carcerarie. Infine, sempre in favore del ministro Alfano, non dimentichiamo la serie impressionante di arresti di latitanti pericolosi e il maggior numero di detenuti mai sottoposto al regime di carcere duro ex 41/bis, unito al più basso numero di provvedimenti di revoca ministeriale dello stesso regime carcerario e al più alto numero di provvedimenti ministeriali di riapplicazione del medesimo regime».

Riferendosi alle ultime vicende giudiziarie di Berlusconi, lei ha denunciato i costi eccessivi sostenuti per le intercettazioni. Come è possibile regolamentare questa materia? In che modo intende procedere il Pdl? «In Italia ci sono intercettazioni 15 volte superiori in numero a

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C&P • GIUSTIZIA

Maurizio Paniz • Riforme

Si dovrebbero consentire le intercettazioni solo per reati gravi e solo in presenza di reali elementi indiziari dell'esistenza di un reato, non per andare a cercare eventuali reati

Nella foto grande, l’approvazione finale del ddl sulle intercettazioni

C&P • GIUSTIZIA

quelle della Francia e 10 volte superiori a quelle della Germania, tanto per citare Paesi omologhi al nostro. Ogni giorno ci sono tre milioni di telefonate intercettate, e ogni anno si spendono oltre 300 milioni di euro. Credo che si dovrebbero consentire le intercettazioni solo per reati gravi e solo in presenza di reali elementi indiziari dell'esistenza di un reato, non per andare a cercare eventuali reati. L’intercettazione è un importante metodo investigativo, ma tutti debbono riconoscere - e in realtà finiscono con il riconoscere - che in Italia di questo metodo si abusa».

Intanto la commissione Giustizia alla Camera ha rimesso in calendario l’esame del ddl sul processo breve.

Qual è l’importanza di questo decreto?

«Dare finalmente a ogni cittadino una tempistica limite esatta della durata di ogni grado di giudizio».

Secondo le opposizioni però si tratta solamente di “un’amnistia mascherata”.

«Io non ho nemmeno votato l’indulto di qualche anno fa, figurarsi se voterei o proporrei un’amnistia. La realtà è che ogni grande riforma deve pur partire da una certa data. Peraltro, se venisse accolta la mia richiesta di eliminare ogni norma transitoria e far entrare in vigore il processo breve da un giorno futuro abbastanza in là nel tempo, non si correrebbe alcun rischio perché i processi in corso potrebbero essere conclusi e si esclude37

Riforme • Maurizio Paniz

Una seduta della commissione Giustizia alla Camera

Penso che in commissione il contributo di tutti sia importante e vorrei che, soprattutto in tema di giustizia, si potesse lavorare senza vincoli rigidi di schieramento politico 38

rebbe anche qualsivoglia illazione. È però un peccato far lavorare i magistrati e tutte le strutture del “sistema giustizia” per fare processi a persone che potranno beneficiare dell'indulto e che quindi non sconteranno mai la pena, come più di un procuratore della Repubblica ha da tempo evidenziato».

Quali sono allora in generale le priorità da discutere in tema di riforma del sistema giudiziario?

«La prima è la riforma delle circoscrizioni giudiziarie: è inconcepibile che in Sicilia ci siano quattro Corti d’appello e in Veneto una sola, tanto per esemplificare, oppure che ci siano quattro tribunali in provincia di Cuneo o in provincia di Alessandria. Inoltre, bisogna procedere in direzione del completamento dell'informatizzazione di tutto il sistema giustizia, nonché verso una revisione degli illeciti penali in modo che fatti di poco conto non impegnino più aule e uffici con tempi e costi oggi inaccettabili».

Su tutti questi temi è possibile trovare ampie convergenze con le opposizioni, indispensabili visti i numeri risicati in commissione Giustizia alla Camera?

Quali sono i possibili punti di incontro?

«Personalmente ho ottimi rapporti con tutti in commissione Giustizia. Ho fatto già in passato importanti riforme con convergenze amplissime, come ad esempio quella sull'affidamento condiviso.

Penso che il contributo di tutti sia importante e vorrei che, soprattutto in tema di giustizia, si potesse lavorare senza vincoli rigidi di schieramento politico. Non credo sia un sogno».

C&P • GIUSTIZIA

Riforme • Filippo Berselli

Commissione giustizia, l’agenda del Senato Filippo Berselli, presidente della seconda Commissione permanente a Palazzo Madama, illustra i prossimi lavori in cantiere: «subito ddl governativo sulla sicurezza e riforma del codice di procedura penale». In attesa di varare le modifiche della Costituzione di Riccardo Casini

alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri al processo breve, fino ad arrivare alla regolamentazione in materia di intercettazioni: l’agenda di Camera e Senato sulla giustizia è da tempo piena, anche se le attuali “turbolenze” della politica italiana non stanno permettendo ai lavori di procedere con la necessaria serenità e con tempi rapidi. Mentre proposte e idee viaggiano spesso e volentieri più sui media che non nelle aule a loro dedicate.

Filippo Berselli, senatore Pdl e presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama (dove gli equilibri sono certamente più saldi rispetto all’altro ramo del Parlamento), illustra quali sono i prossimi lavori in agenda.

«Congiuntamente alla commissione Affari costituzionali del Senato – spiega – abbiamo in esame il disegno di legge governativo sulla sicurezza, con cui ci si propone di tutelare ulteriormente i nostri concittadini nei confronti della criminalità, soprattutto organizzata. All’esame della nostra sola commissione vi è l’importantissimo disegno di legge sulla riforma del codice di procedura penale».

Ma quali sono le sue priorità per il 2011 in tema di riforma del sistema giudiziario?

«Per il 2011, oltre alla già citata riforma del codice di procedura penale, sono previsti interventi del governo per la ri-

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forma della giustizia attraverso modifiche della nostra carta costituzionale. Si parla infatti da tempo di una diversa composizione del Consiglio superiore della magistratura, di un organo disciplinare esterno allo stesso e della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, nonché di interventi sull’obbligatorietà dell’azione penale».

La commissione Giustizia alla Camera ha messo in calendario il riesame del ddl sul processo breve. Qual è l’importanza di questo decreto?

«Il disegno di legge sul cosiddetto processo breve, che invece breve non sarebbe perché per i reati più gravi e di maggior allarme sociale si supererebbero i 15 anni, è stato da tempo approvato, prima dalla commissione che presiedo e poi dall’aula del Senato. Ora, da più di un anno, giace all’esame della commissione Giustizia della Camera. Si tratta di un disegno di legge che si propone di garantire al processo tempi europei e quindi ragionevoli, e non i tempi biblici che caratterizzano la giustizia italiana: tempi, per capirci, in funzione dei quali la maggior parte dei reati finisce per cadere in prescrizione».

Ma come risponde a chi sostiene che si tratti solamente di “un’amnistia mascherata”?

«Non è assolutamente una “amnistia mascherata”. Tutt’altro.

Si impone soltanto ai magistrati di rispettare tempi del tutto C&P • GIUSTIZIA

Filippo Berselli • Riforme

Nella terza edizione del Salone della Giustizia rimarrà come costante l’incontro, e non lo scontro, tra quanti hanno idee diverse ma vogliono realizzare riforme condivise

In alto, Filippo Berselli, senatore Pdl e presidente della commissione Giustizia al Senato, con il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, alla passata edizione del Salone della Giustizia

C&P • GIUSTIZIA

ragionevoli e che possano essere sicuramente osservati senza particolari difficoltà».

Tornando alla riforma, quali sono gli spunti più interessanti emersi dal secondo Salone della Giustizia?

«La seconda edizione del Salone della giustizia si è caratterizzata per l’autorevolissima presenza dell’onorevole Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, che l’ha inaugurata. Anche questa volta poi si è registrata la presenza di ministri, sottosegretari e parlamentari, questi ultimi sia di maggioranza che di opposizione, che hanno potuto dibattere in assoluta libertà i temi che più interessano i cittadini che vorrebbero non solo una giustizia giusta ma anche rapida, con un giudice effettivamente terzo rispetto al rappresentante dell’accusa e a quello della difesa».

Quali saranno le novità della terza edizione?

«Gli organizzatori sono già al lavoro per realizzare nel migliore dei modi la terza edizione. È ancora presto per poter conoscere in dettaglio le novità, ma si prevede fin da ora una maggiore affluenza di pubblico e un’ancor più consistente presenza di aziende, oltre a nuove scenografie e nuovi allestimenti. Rimarrà invece come costante l’incontro, non lo scontro, tra quanti sulla giustizia hanno idee diverse ma vogliono contribuire a realizzare riforme il più possibile condivise».

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Riforme • Enrico Costa

Organizzazioni virtuose dei processi o cancellazione?

«Noi siamo condannati dall’Europa a ogni piè sospinto per la lentezza dei processi e questo dovrebbe far riflettere». L’onorevole Enrico Costa ha proposto la calendarizzazione del provvedimento sul processo breve in commissione di Giustizia di Renata Gualtieri

Enrico Costa, capogruppo del Pdl in commissione Giustizia alla Camera

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ipartono i lavori per l’approvazione delle norme sul processo breve.Alla Camera, dove la presidente Giulia Bongiorno ha accolto la proposta del capogruppo del Pdl Enrico Costa di rimettere all’ordine del giorno il ddl sul processo breve, si riprende con le audizioni proposte dalle opposizioni. L’obiettivo è quello di accelerare l’approvazione di questa norma rimasta ferma dopo il sì del Senato da più di un anno. Il contenuto dei dieci articoli approvati da Palazzo Madama a gennaio 2010 dovranno ora essere ridiscussi alla Camera tra l’ostruzionismo dell’opposizione e i pareri negativi che arrivano dal mondo della magistratura. Ma il licenziamento definitivo di questa norma si rende necessario anche perchè la Corte di Strasburgo ha di recente richiamato il nostro Paese per la lungaggine dei procedimenti. Cosa anima, allora, il forte dibattito politico in corso? E cosa dire, in merito, all’analoga proposta presentata in Senato dall’opposizione? Ci può essere una nuova versione del ddl? A discutere di tutto questo è l’onorevole Enrico Costa, capogruppo del Pdl in commissione Giustizia alla Camera.

Si accelera sulla riforma del processo breve. Il testo già in commissione Giustizia da un anno potrebbe subire delle modifiche?

«Per quanto riguarda la norma transitoria, per la quale sono stati esposti alcuni dubbi, io penso che anche alla luce delle audizioni qualche modifica ci potrà essere».

Si avrà comunque un processo anche se i tempi si ridurranno o saranno cancellati migliaia di processi?

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Enrico Costa • Riforme

Il nostro Paese è condannato dall’Europa a ogni piè sospinto per la lentezza dei processi, si tratta di un segnale importante

«Quella della cancellazione dei processi è un’invenzione dell’Associazione dei magistrati. Se si legge con attenzione la norma transitoria per la quale la legge opera retroattivamente solo per i processi riguardanti reati commessi prima del 2 maggio 2006 data dell’indulto per i processi su fatti indultati, quindi su reati per i quali comunque la pena va estinta - si capisce che oggi stiamo celebrando dei processi per reati per i quali la pena è estinta, anzi non li stiamo celebrando perché in molte corti d’appello questi processi vengono lasciati indietro proprio per fare in modo che non intralcino, non avendo la pena effettiva, i processi per i quali la pena è effettiva e che non sono indultati. Quando i magistrati lasciano indietro questi processi si parla di scelte di “economia processuale” e scelte organizzative virtuose, poi quando lo fa la legge e il centrodestra si grida alla cancellazione dei processi».

La lotta alla criminalità sarà realmente vanificata, come l’opposizione sostiene?

«Assolutamente no. Il termine di sei anni per la conclusione di processi meno gravi e di sette anni e mezzo o dieci anni per reati più gravi è più che ragionevole. Noi siamo condannati dall’Europa a ogni piè sospinto per la lentezza dei processi, si tratta di un segnale importante».

Ci sarà uno spreco di risorse o si tratta solo di assegnare fondi adeguati alle esigenze della giustizia? «È fondamentale che per sostenere questi tempi vengano assegnate delle risorse. Il ministro Alfano si è impegnato sotto questo profilo e sicuramente darà seguito a quelli che sono stati gli impegni che ha assunto».

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Custodia cautelare • Gaetano Pecorella

Una misura eccezionale, non ordinaria Misure che non dovrebbero essere ordinarie, ma applicate soltanto in presenza di presupposti di assoluta necessità. Sul controverso tema della custodia cautelare la parola a Gaetano Pecorella di Michela Evangelisti

Gaetano Pecorella, avvocato e deputato del Pdl

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i parte da misure interdittive, quali il divieto di svolgere determinate attività, di stare in un certo luogo o di avvicinarsi ad alcune persone, per arrivare agli arresti domiciliari e al carcere. Le misure di custodia cautelare, oggetto di polemiche e riflessioni mai sopite, hanno come presupposto gravi indizi di colpevolezza. Ma i requisiti non possono fermarsi qui, perché, come spiega l’avvocato Gaetano Pecorella, «trattandosi di una misura che si applica nonostante il principio di presunzione di innocenza, deve obbedire a ragioni processuali, ovvero servire per impedire l’inquinamento delle prove, la fuga e, infine, la reiterazione del reato».

Punto, quest’ultimo, di per sé contraddittorio e in aperto contrasto con il principio di presunzione di innocenza. «Se da un lato si afferma che il reato va accertato, dire che si applica una misura cautelare per impedire la reiterazione del reato significa presupporre che il reato sia stato già accertato – illustra l’avvocato –. Tra l’altro è la più diffusa ragione di applicazione delle norme cautelari, perché le ragioni di non inquinamento della prova hanno una durata determinata nel tempo, considerato che la prova è destinata a essere svelata, e per quanto riguarda il pericolo di fuga il più delle volte sono sufficienti misure come gli arresti domiciliari o strumenti di controllo a distanza».

Ritiene dunque che la norma relativa alla custodia cautelare sia valida e applicabile con efficacia o che andrebbe rivista?

«Credo che tutto il sistema andrebbe radicalmente modificato. Il pubblico ministero raccoglie gli indizi e formula una richiesta di misura cautelare, spesso molto estesa e contenente numerosissime intercettazioni ed elementi di prova. Il gip si trova nella difficoltà obiettiva di potere valutare e approfondire tutti questi elementi, disponendo di tempi molto stretti, e finisce per affidarsi in gran parte alle valutazioni del pubblico ministero, al punto che non è raro trovare ordinanze di custodia cautelare che ricalcano alla lettera la richiesta del pm.

Il tribunale del riesame, sul quale si riversano una valanga di deposizioni e atti, deve muoversi in tempi molto ristretti, e finisce a sua volta per appiattirsi sulle decisioni dei gip. Pur-

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Gaetano Pecorella • Custodia cautelare

troppo in Italia, come osservava a suo tempo Vassalli, il giorno della condanna è spesso il giorno della scarcerazione, perché si è scontata tutta la pena nel corso della misura cautelare».

Quale può essere il cambiamento radicale?

«Si potrebbe prendere ad esempio il sistema francese, con il cosiddetto contraddittorio anticipato. Si applica una misura restrittiva provvisoria, che non comporta o non dovrebbe comportare la reclusione in carcere ma in istituti appositi, poi si instaura un vero contraddittorio davanti a un giudice o a un tribunale, al termine del quale il tribunale decide se applicare o meno una misura cautelare a carattere permanente. Il paradosso del nostro sistema è che l’articolo 111 prevede che ci debba essere, prima che una persona sia incarcerata per scontare la pena, un contraddittorio nella parità delle parti, ma almeno la metà dei detenuti italiani sono in attesa di giudizio senza aver avuto un vero contraddittorio, né davanti al gip né davanti al tribunale del riesame. Tutto si basa esclusivamente sulle prove che sono state raccolte dal pm; il cosiddetto diritto di habeas corpus da noi non esiste».

La carcerazione preventiva è una misura che dovrebbe essere disposta solo in casi eccezionali e per brevissimi periodi, mentre in Italia se ne fa un uso abnorme. Quali sono le cause di questo uso improprio della legge? La separazione delle carriere tra inquirenti C&P • GIUSTIZIA

e giudici potrebbe essere una soluzione per arrivare a un’applicazione corretta della legge sulla custodia cautelare?

«La separazione delle carriere cambia il volto complessivo del sistema penale. Il pm nel tempo finirà per essere visto dal giudice come una parte, esattamente come il difensore.

Oggi non è così, tanto che si usa dire che il giudice è prestato all’accusa. Perché si fa un uso così ampio della custodia cautelare? Non a caso è stata definita una dolce tortura, perché è uno strumento di pressione psicologica molto forte. In carcere si debilita la volontà di difesa: pur di uscire di galera l’imputato, per paura di essere soggetto a violenza o sottomissione, finisce per confessare o collaborare. La custodia cautelare qualche volta viene anche usata positivamente, per salvaguardare le prove o evitare il pericolo di fuga, ma soprattutto per certi reati dove non c’è violenza né pericolo di fuga, come ad esempio i reati di corruzione, si potrebbero scegliere altre strade».

Una modifica del 2009 aveva nuovamente esteso a una serie numerosa di reati, fra cui quelli sessuali, la regola eccezionale per cui, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, la magistratura deve comunque applicare la carcerazione preventiva. La Corte Costituzionale ha poi cancellato la norma che imponeva al pubblico mini47

Custodia cautelare • Gaetano Pecorella

stero di applicare la custodia cautelare in prigione anche per coloro sospettati di reati di sfruttamento della prostituzione minorile. La decisione della consulta ha scatenato polemiche nel mondo delle associazioni, che hanno accusato la corte di giustificazionismo. Cosa ne pensa?

«La corte costituzionale non ha motivi di essere giustificazionista: tende sempre e comunque, nonostante i suoi errori, a far rispettare la Costituzione, la quale dice chiaramente che la misura cautelare deve essere eccezionale, non ordinaria. La corte ha ragione quando afferma che, al di là di motivi “propagandistici” o di consenso elettorale, la misura va applicata quando vi siano i presupposti per la sua necessità».

Sono ormai decenni che la nostra politica risponde all’emergenza carceri o con atti di clemenza o con piani di edilizia carceraria, ma il problema è ad ora irrisolto.

«Il nostro sistema carcerario è sicuramente medioevale: la pena dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato, mentre nelle nostre carceri non è la norma che si lavori, che si studi, che si faccia sport. La reclusione dovrebbe essere un tratto della vita della persona perché poi torni nel mondo civile migliore e non peggiore; un sistema carcera48

rio come il nostro diventa invece un luogo di violenza e di abbandono o addirittura una scuola di delinquenza, nella quale si stabiliscono contatti tra persone che hanno commesso reati modesti e persone di spessore criminale».

Quali strade a suo parere sarebbero percorribili?

«Innanzitutto il carcere dovrebbe essere pensato come estrema ratio, da applicare solo quando non c’è nessun altro mezzo più efficace. In secondo luogo bisognerebbe ripensare tutto il sistema carcerario distinguendo, come nell’inferno, i gironi: dal carcere semiaperto o aperto per i reati minori al carcere sempre più restrittivo. Inoltre sarebbe molto utile introdurre una misura che funziona benissimo nei Paesi anglosassoni, cioè quella della cauzione: se ti faccio versare una certa somma anche rilevante, a seconda delle condizioni economiche, e tu fuggi quella somma la perdi. Un provvedimento conveniente anche per pagare le spese di giustizia e risarcire le vittime alla fine del processo. Si potrebbero valutare pene alternative, come il lavoro obbligatorio nell’assistenza agli anziani o ai malati, e aumentare le misure patrimoniali, soprattutto per certi reati economici. Infine il carcere andrebbe concepito come luogo di educazione e che non recida i legami familiari e sociali: un capitolo importante è anche quello della sessualità in carcere, un diritto che credo dovrebbe essere garantito per lo meno ai soggetti in attesa di giudizio».

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Custodia cautelare • Raffaele Della Valle

La custodia cautelare è l’extrema ratio Applicare la legge in modo severo o lasciare ampia discrezionalità al giudice?

In quali casi è possibile ricorrere alle misure cautelari? E quando si dispone la custodia cautelare in carcere? Ne parliamo con Raffaele Della Valle che auspica il ritorno a uno Stato democratico di diritto in cui la legge sia davvero uguale per tutti di Eugenia Campo di Costa

ustodia cautelare o arresti domiciliari? Carcere o casa di cura? Quali sono i casi in cui è possibile disporre una misura cautelare nei confronti di un indagato in attesa di giudizio? «Secondo quanto previsto dall’articolo 274 del Codice di procedura penale per poter ricorrere a una misura cautelare devono esistere determinate condizioni – afferma Raffaele Della Valle, avvocato penalista –. Non deve esistere il pericolo di inquinamento probatorio, non deve esserci il pericolo di fuga dell’indagato e non deve esistere il pericolo che l’indagato commetta altri reati, gravi o contro l’ordine pubblico o della stessa natura di quello per il quale è indagato». Le misure cautelari previste dalla legge possono essere coercitive o interdittive.

Queste ultime comprendono il divieto di espatrio, gli arresti domiciliari, il divieto o l’obbligo di dimora, l’allontanamento dalla casa familiare, l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria e la custodia cautelare in carcere o in luogo di cura. Come spiega Della Valle si tratta di una misura da adottare solo in casi assolutamente eccezionali ovvero quando ogni altra misura coercitiva risulti inadeguata, come risulta dal terzo comma dell’articolo 275 del Codice di procedura penale. La legge è chiara: la custodia cautelare in carcere è l’extrema ratio».

In che modo è possibile stabilire l’esistenza del pericolo che l’indagato commetta un altro reato grave o della stessa natura?

«Il pericolo di inquinamento delle prove o di fuga sono due elementi facilmente verificabili, ad esempio nel caso in cui il sog-

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getto abbia confessato e si sia costituito. La reiterazione del reato, invece, è più difficile da determinare. Si tratta di un fattore che rientra nella famosa area di discrezionalità del giudice che attraverso la “sfera di vetro” deve prevedere se ci sia il pericolo che il soggetto in futuro possa reiterare l’azione delittuosa. Ed è in quest’area che avvengono le cose più incredibili».

Quali elementi entrano in gioco in questa decisione?

«Si tratta di una presunzione, in cui ognuno porta la propria cultura. Un magistrato può stabilire che c’è il pericolo di reiterazione del reato e un altro nello stesso caso potrebbe decidere il contrario. È un giudizio volubile lasciato all’ampia discrezionalità del giudice».

Dalle sue parole emerge un quadro della giustizia come un “terno al lotto”. «È così e il cittadino non può che essere sbandato. Noi avvocati siamo sommersi di richieste di obiezioni e domande perché la gente non capisce. È una torre di Babele in cui ognuno interpreta la reiterazione del reato secondo la propria cultura. Se si trova un magistrato che crede nella cultura della garanzia, nello Stato liberale democratico, nella valenza della legge e della presunzione di innocenza prevista dall’articolo 27 della Costituzione e nella custodia cautelare in carcere come extrema ratio, si è fortunati. Se invece capita un magistrato giustizialista con una cultura che mette avanti non la legge, ma l’uomo giusto e inflessibile, si è sfortunati e si resta dentro, anche a parità di condizioni. Questo dimostra che l’Italia ha tante repubbliche quante sono le teste».

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Raffaele Della Valle • Custodia cautelare

Raffaele Della Valle, 69 anni di Acqui Terme, è un avvocato penalista

Quindi dove sta il confine tra la discrezionalità del giudice e l’applicazione della legge?

«La discrezionalità deve esistere. Il limite? Secondo me è dato dal buonsenso. Il fatto è che si tratta di un elemento che spesso manca nel nostro Paese. Non basta conoscere le leggi e sapere a memoria il codice. Deve esistere anche quel qualcosa in più, quel quid, che a parer mio è proprio il buonsenso».

La conseguenza è, come appare ovvio, una disparità di trattamento tra imputati di serie A e di serie B. «La disparità è micidiale. Se ci sono 40 gip, devo sperare di capitare con il numero 12 invece che con il 20. La stessa cosa vale per i pubblici ministeri. Non c’è un criterio omogeneo. Accade anche in giudizio. Un imputato per detenzione di stupefacenti può prendere quattro anni con un giudice, sei con un altro o uscire subito con un terzo. È una vera e propria Babilonia».

Quindi la soluzione è applicare la legge sempre e costantemente?

«Certo. La legge non è a fisarmonica. Non si possono fare discriminazioni. E invece capita sempre più spesso che magistrati “sbaglino”, soprattutto se si tratta di applicare la norma a un “colletto bianco”. Se vogliono tenerti dentro invocano la gravità del reato, se non vogliono la gravità del reato scompare e si appellano alla confessione o alla mancanza di pericolosità.

Quando vogliono sostituiscono la mentalità del giudice con quella del prete, ti fanno dire tre Ave Maria ed è finita». È un problema culturale, quindi.

«Sì e purtroppo vedo che i giovani seguono sempre più C&P • GIUSTIZIA

spesso la filosofia di Di Pietro e prediligono il giustizialismo al garantismo. Questo non mi fa ben pensare. Del resto, da parte degli inquirenti, c’è più la tendenza alla cultura della caserma che a quella della giurisdizione. Questi poi ci mettono del loro perché fissano le conferenze stampa all’orario del telegiornale, chiamano le telecamere quando devono tradurre gli indagati dalla caserma al carcere, creando quella gogna mediatica che fa gonfiare inopinatamente le fila dei razzisti. Se parlassero solo dopo aver accompagnato in carcere, le scene da far west a cui sempre più spesso assistiamo, non si vedrebbero. Qualcuno dice che ad alimentarle sono i giornali. Posso essere d’accordo, ma i giornali sono “notiziati” da qualcuno che li avvisa dell’ora in cui arriva il cellulare a portare via l’indagato. Invece, quando vogliono proteggere, proteggono».

Il quadro che sta facendo è particolarmente desolante, in effetti.

«Diciamo che, dopo 44 anni di carriera, sono molto disamorato.

La discrezionalità dovrebbe essere molto diversa. E per tutti. Invece c’è una miriade di deroghe e la legge viene applicata con rigore in alcuni casi, mentre solo in alcuni ci si ricorda di un principio che, in origine, era stato stabilito per tutti: in carcere ci si va solo come extrema ratio ovvero quando non se ne può fare a meno e per il tempo strettamente necessario allo svolgimento delle indagini. Finito questo periodo il cittadino deve affrontare il processo, chiunque esso sia. Questo è lo Stato democratico di diritto. Invece ognuno fa quello che vuole».

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Custodia cautelare • Giovanni Maria Giaquinto

Presunta colpevolezza Le vicende processuali che hanno coinvolto i vertici di Fastweb sono ribalzati negli ultimi mesi dalla carta stampata alla tv. Adesso parla Giovanni Maria Giaquinto, difensore di uno degli imputati, e spiega perchè «chi non confessa non deve essere necessariamente colpevole» di Renata Gualtieri

aso Scaglia. È l’avvocato Giovanni Maria Giaquinto, legale di Antonio Catanzariti, ex responsabile carrier sales per l’Italia di Tis, accusato di delitto associativo e reato fiscale tuttora ai domiciliari, a rivelare quali i sono i punti salienti della sua strategia difensiva «concentrata nel confermare la assoluta estraneità del mio assistito ai fatti per i quali lo stesso ancora oggi si trova sottoposto a misura cautelare».

Dopo aver letto le migliaia di pagine che compongono il fascicolo processuale, Giaquinto non rileva un solo elemento a suo carico e le circostanze che possano giustificare la permanenza della misura cautelare.

Ha parlato di “un utilizzo della custodia come strumento di confessione”. Perché ritiene che sia così?

«Ho accennato alla custodia cautelare come strumento di confessione, perché, leggendo gli atti, ho avuto la sensazione che tutti coloro che hanno pervicacemente portato avanti la tesi della propria innocenza, o non hanno avuto benefici in termini di libertà personale, oppure hanno ottenuto solo la conversione della carcerazione negli arresti domiciliari. Pongo una domanda: siamo veramente certi che chi non confessa è necessariamente colpevole?»

Chiederà ai giudici la revoca della custodia già dalla prossima udienza?

«Ovviamente, non vedo l’ora di avanzare la richiesta di revoca

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C&P • GIUSTIZIA

Giovanni Maria Giaquinto • Custodia cautelare

L’essere imputati di riciclaggio non può solo tradursi in una presunzione di colpevolezza.

Anche l’imputato di riciclaggio può risultare innocente

Nella pagina a fianco, l’avvocato Giovanni Maria Giaquinto.

Sopra, Silvio Scaglia ex amministratore delegato di Fastweb, accusato di riciclaggio internazionale

degli arresti domiciliari. Anche perché quanto da me sostenuto in merito alla mancanza di concretezza e attualità delle esigenze cautelari, ha trovato pieno riscontro nella sentenza della Corte di Cassazione che, in data 20 gennaio 2011, ha annullato per la seconda volta l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma».

In un’intervista ha dichiarato che il Suo assistito “potrebbe essere processato due volte per gli stessi motivi”. Perché?

«Ho dichiarato che il mio assistito rischia un doppio processo per gli stessi fatti, perché sono fermamente convinto che non doveva procedersi alla separazione del giudizio per il reato associativo da quello per i reati fiscali, i c.d. reati fine. Si tratta di fatti così strettamente connessi tra loro, che non è possibile pensare ad un giudizio sugli uni senza coinvolgere anche gli altri.

Il tutto, si badi bene, in danno del mio assistito».

Come giudica la normativa vigente in materia di riciclaggio di denaro? «È giusto perseguire il reato di riciclaggio. Basti riflettere sul perché è stato introdotto l’articolo 648 bis del codice penale: è questa una norma che rappresenta uno strumento di lotta anche alla criminalità organizzata, quindi, che ci sia nel nostro ordinamento. In pratica, però, devo sottolineare che l’essere imputati di riciclaggio non può in ogni caso per ciò solo tradursi in una presunzione di colpevolezza. Anche l’imputato di riciclaggio, infatti, può risultare innocente».

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Quale è il suo atteggiamento di fronte a un nuovo caso? Con quale criterio sceglie di seguirlo o meno?

«Fondamentalmente, dopo un primo, ed eventualmente un secondo, colloquio con il probabile cliente valuto le sensazioni che il caso mi trasmette. Di domande me ne pongo tante. Una, tuttavia, non me la pongo mai ed è quella relativa alla colpevolezza o innocenza del mio probabile assistito. Sono del parere, infatti, che al penalista non spetti il compito di “giudicare” il suo cliente, ma solo quello di valutare le prove per meglio consigliare la strategia difensiva. Nella scelta del caso, quindi, non assume rilievo la innocenza o colpevolezza della persona, né tanto meno la capacità economica della stessa. È la mia passione per il processo che mi condiziona sempre nelle scelte».

Quali sono secondo Lei le principali carenze della giustizia italiana?

«Si potrebbe fare un trattato sulle carenze della giustizia italiana. Ciò che più mi disturba è il tentativo di molti di attribuire la colpa delle lungaggini e della carenze del processo ai diritti degli imputati e dei difensori. Non è possibile pensare ad un processo senza garanzie difensive: solo la presenza del difensore e il pieno svolgimento dei suoi diritti processuali possono, infatti, attribuire valore e credibilità alla sentenza, sia essa di assoluzione, che a maggior ragione, di condanna. Una riforma credibile del processo non può che partire da questa necessaria premessa».

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Separazione delle carriere • Paolo Grossi

Torniamo con i piedi per terra Il sistema giustizia deve emanciparsi dalla politica. Riappropriandosi dell’autonomia prevista dai padri costituenti. E stare al passo con i tempi.

Soprattutto in ambito formativo. Paolo Grossi, uno dei maggiori giuristi italiani, spiega quale strada il Paese non dovrebbe imboccare di Renata Saccot

ccademico dei Lincei, fondatore dei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno e, soprattutto, uno dei più eminenti studiosi di diritto del nostro tempo. Una vita passata tra libri, aule universitarie macchine da scrivere.

Più che un lavoro, per Paolo Grossi lo studio e la ricerca giuridica sono una missione. «Lo storico del diritto – spiega – ha sempre di fronte a sé la totalità dell’esperienza e può fungere da prezioso strumento di raccordo, ricordando ai suoi colleghi di Facoltà che la scienza giuridica è unitaria, e che c’è una essenziale unità del diritto quale ordinamento della società». Guardare alla linea del divenire percependone il senso e fornendone l’orientazione. Ecco il ruolo che secondo Grossi dovrebbe avere uno storico del diritto. «Non dimentichiamo mai che la linea nasce nel passato – sottolinea con passione –, tocca il presente ma lo supera verso il futuro.

E, paradossalmente, lo storico è forse il giurista più presago di futuro».

Professore, ma oggi verso quale linea si sta procedendo?

«Mai come oggi il presente è stato tanto insignificante. Non può che essere così, vivendo noi una transizione, un itinerario non ancora compiuto».

Ricorda altri momenti storici simili a quello che

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Paolo Grossi • Separazione delle carriere

La prima riforma da fare dovrebbe essere di natura costituzionale e concernere l’attuale assetto del Parlamento, dove si assiste a un’inutile duplicazione-ripetizione nelle funzioni di Camera e Senato stiamo vivendo ora?

«A questa domanda posso solo rispondere che, sicuramente, anche se con le diversità proprie di ogni diverso contesto storico, in altri momenti di transizione si è sofferta la stessa incertezza di fondo. La nostra crisi, è, infatti, una crisi derivante dal transito che stiamo percorrendo dal moderno al post-moderno, con l’aggravante che il movimento e il mutamento che ci investono sono di frenetica rapidità. Siamo in mezzo al guado e abbiamo ancora la sgradevole sensazione di non avere i piedi sulla terraferma».

Common Law e Civil Law. Quale delle due forme crede sia più adatta a rappresentare la complessità della società di oggi?

«Senza dubbio la Common Law, che ha dimostrato di sapersi adattare ottimamente alla realtà odierna di un maturo capitalismo. Il vizio della tradizione europea continentale moderna è stata una eccessiva rigidità, frutto dell’aver consegnato totalmente la produzione del diritto nelle mani del potere politico. Si è voluto controllare tutto il diritto e lo si è ridotto in leggi e in codici, fonti oggi incapaci di ordinare un mutamento sociale, economico e tecnico in mutamento. La Common Law, affidata prevalentemente al ceto giudiziale, è improntata a quella elasticità che oggi si rivela assolutamente necessaria».

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Le riforme portate avanti da questo governo vanno nella direzione giusta?

«Talune riforme potrebbero andare nella direzione giusta se si limitassero a semplificare e ridurre un apparato burocratico addirittura elefantiaco, o a diminuire una spesa pubblica esagerata e ingiustificata a causa delle passate ingerenze dei partiti politici che troppo spesso hanno pensato unicamente alle proprie esigenze clientelari. Purtroppo, i tagli che il governo attuale propone indiscriminatamente si rivelano essere nella maggior parte dei casi insensati: il primo da respingere è quello che riguarda la scuola e la ricerca scientifica. E, poi, una domanda: perché non si prende la falce, e non si tagliano le spese spropositate di organismi come Camera dei Deputati, Senato, Corte Costituzionale dove gli sprechi gridano vendetta?».

Quali riforme ritiene più urgenti nel sistema italiano del diritto?

«Non ho dubbi a riguardo. La prima riforma da fare dovrebbe essere di natura costituzionale e concernere l’attuale assetto del Parlamento, dove si assiste a un’inutile duplicazione-ripetizione nelle funzioni di Camera e Senato. Io sarei favorevole a una scelta monocamerale. In ogni caso, il Senato dovrebbe essere riformato in modo da non essere più una espressione della nostra perversa partitocrazia».

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Separazione delle carriere • Paolo Grossi

Qual è la sua opinione sulla separazione delle carriere all’interno del sistema giudiziario?

«Manterrei l’unità delle carriere.Valuto, infatti, positivamente il funzionamento del sistema e mi guarderei bene dall’imboccare una strada che può portare a trasformare il pubblico ministero in servitore del potere politico».

La frattura tra magistratura e politica è una delle ferite aperte della nostra Repubblica. A suo parere quale strada si deve percorrere per sanarla?

«C’è oggi una onnipotenza del potere politico che deve essere arginata. Siamo ancora vittime di quella concezione giacobina che risolveva lo Stato nel Parlamento. Lo Stato è, invece, una realtà plurale e occorre recuperare una sua impronta pluralistica tale da rispettare la specificità di funzioni specifiche della sovranità che il potere politico può soltanto inquinare. L’ordine giudiziario ha una autonomia che nasce dalla Costituzione e che va rispettata fino in fondo. Occorre che il potere politico prenda finalmente coscienza dei suoi limiti, tanto più che ha dato pessima prova di sé soprattutto negli ultimi decenni».

Come giudica, invece, il sistema universitario italiano?

«Ha oggi molti aspetti negativi a causa dei pessimi interventi della politica, che hanno alterato il carattere del58

Il vizio della tradizione europea continentale è stata una eccessiva rigidità, frutto dell’aver consegnato la produzione del diritto alla politica C&P • GIUSTIZIA

Paolo Grossi • Separazione delle carriere

l’Università. Innanzitutto, se è sacrosanta la scolarizzazione di massa, cioè il fornire a ogni cittadino una sufficiente istruzione, è soltanto un’idiozia demagogica l’Università di massa, che è destinata a essere una fabbrica di frustrati, possessori di una laurea che non potranno esercitare visto che la società è incapace di ricevere e valorizzare un numero illimitato di laureati. Occorre ritornare a una rigorosa selezione basata unicamente sul merito, dimenticando una buona volta le aberrazioni populiste del non mai troppo deprecato senatore Tristano Codignola. È ovvio che deve essere garantito l’accesso ai meno abbienti mediante un sistema di borse di studio tali da permettere a ogni studente universitario la serenità del suo periodo di studi. Occorre, inoltre, garantire il carattere scientifico della istituzione universitaria. Nell’Università si fa scienza e non si offre preparazione a una specifica professionalità pratica».

Crede quindi che l’Università abbia perso questa sua missione scientifica?

«Nella maggior parte dei casi purtroppo sì. Da una facoltà di giurisprudenza, ad esempio, deve uscire un giurista e non un avvocato, un notaio, un funzionario pubblico. Queste tappe saranno raggiunte dopo la laurea grazie a scuole professionali da collocarsi al di fuori della Università, magari attraverso una gestione comune da parte di ordini profesC&P • GIUSTIZIA

sionali e atenei. Un errore della ultima pseudo-riforma è stato anche quello di inserire tali scuole completamente all’interno del mondo accademico, suscitando le giustificatissime reazioni polemiche degli Ordini professionali che si sono visti defraudati di un compito che spettava a loro. Il colmo delle insipienze del si è raggiunto con l’istituzione delle cosiddette laureee brevi, pensate per offrire la preparazione a professionalità minime. Il titolo di dottore conferito a questi laureati triennali ci ha fatto deridere da tutto il mondo universitario europeo e mondiale, dove il titolo di dottore è riservato solo a coloro che presso di noi sono i cosiddetti dottori di ricerca».

Per concludere, cosa pensa invece degli studi universitari giuridici?

«Per quanto attiene agli studi giuridici, siamo nel solco di una eccellente tradizione. Si dovrà però rendere più elastico il piano di studi. È ovvio che dovrà sempre essere prevista una ossatura di materie ritenute obbligatorie, ma si dovranno prevedere spazi colmabili da parte delle proposte congiunte di docenti tutori e di laureandi in modo da rendere culturalmente congeniale il piano di studi alla specifica scelta orientata verso una disciplina o un gruppo disciplinare. È ovvio che si dovrà anche aggiornare il tessuto delle discipline giuridiche dando spazi ad assetti disciplinari al passo con i tempi».

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Politica e giustizia • Piero Longo

Una ferita ancora aperta tra giustizia e politica I problemi della giustizia e della magistratura, la necessaria riforma della Costituzione. Da sempre all’attenzione dell’opinione pubblica ma, oggi più che mai, sotto la lente mediatica. Parla il senatore del Pdl Piero Longo di Renata Saccot

iustizia e politica. Una spaccatura che sembra, in Italia, essere condannata a non essere sanata. I problemi dell’ormai pluridecennale guerra sono sempre gli stessi. La separazione delle carriere tra chi giudica e chi indaga e l’assenza di responsabilità civile del magistrato. «La magistratura militante non vuole che la situazione cambi perché perderebbe il potere che in questi decenni ha conquistato. Il problema sta nel trovare un equilibrio tra politica e potere giudiziario ma finora questo, purtroppo, non è stato possibile». È l’analisi schietta dell’avvocato e senatore Piero Longo.

Lentezza dei processi e certezza della pena. Quali sono le urgenze più immediate?

«Il vero problema è l’obbligatorietà dell’azione penale, principio costituzionale che fallisce nella pratica perché i reati perseguibili sono tantissimi e mancano personale, strumenti e organizzazioni per seguirli tutti. Basti pensare che alcuni reati vengono prescritti direttamente dai procuratori della Repubblica. La lentezza nasce anche dall’esistenza dei tre gradi di giudizio che, se da una parte rappresenta una garanzia, dall’altra allunga fisiologicamente la durata dei processi senza garantire, talvolta, la certezza della pena».

Si potrebbe risolvere il problema depenalizzando i reati minori? «È quello che si sta tentando da molti anni. Devo ammettere che un ottimo lavoro in questo senso è stato fatto 25 anni fa da Magistratura Democratica, organismo a me non molto caro per ovvie ragioni. Alleggerire il carico dell’obbligatorietà

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dell’azione penale sarebbe possibile aumentando il numero di reati perseguibili con la querela e introducendo pene alternative al carcere. È un problema affrontabile e risolvibile. Bisogna, però, ricordare che la Costituzione può essere modificata altrimenti ogni possibile proposta rischia di cadere nell’oblio».

Perché i tentativi di riformare la giustizia suscitano, in Italia, sempre roventi polemiche?

«Questo succede perché la giustizia è uno strumento molto sensibile dal punto di vista politico, essendo uno dei modelli dove meglio si legge l’assetto culturale delle maggioranze o minoranze del Parlamento. C’è una polemica trasversale perché la magistratura in questi anni ha toccato gli interessi della destra e della sinistra in egual modo. Non si dimentichi che l’ultimo Governo Prodi è stato costretto ad andare a casa per via delle vicende giudiziarie in cui era incappato l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella».

E cosa risponde ai contrasti sulle presunte leggi ad personam?

«Semplicemente ricordando leggi molto importanti per lo sviluppo del Paese e per il rilancio dell’economia che sono state prodotte in questi mesi dall’esecutivo. Senza dimenticare il pacchetto sicurezza e la risoluzione dell’emergenza rifiuti a Napoli».

In breve, di cosa ha bisogno oggi la giustizia in Italia?

«Di giudici che studino la legalità e di legislatori che facciano leggi non contraddittorie. I magistrati devono fare un passo indietro e la politica deve fare un passo avanti».

C&P • GIUSTIZIA

Piero Longo • Politica e giustizia

Piero Longo, avvocato del foro di Padova, è senatore del Pdl

C&P • GIUSTIZIA

Etica e giustizia • Giampaolo Maria Cogo

Nuove costruzioni normative Giampaolo Maria Cogo riflette sulle vie dell’etica delle leggi e della giustizia segnate dalla normativa comunitaria. Un passaggio e un’apertura urgenti, considerata la tendenza della nostra legislazione a chiudersi su se stessa di Luciana Fante

iampaolo Maria Cogo torna a interrogarsi sullo scollamento della nostra società dal riconoscimento del primato della persona e dell’etica, che inevitabilmente ha condotto alla deriva la nostra legislazione, sempre più autoreferenziale, precaria e formalistica. Il confronto democratico si è così fatto sterile e quasi del tutto insensibile alla priorità della tutela dei diritti fondamentali del singolo e della collettività.

Un quadro critico, che però non esclude speranze di cambiamento, guardando alle linee di orientamento della normativa comunitaria. Quest’ultima, pur nel difetto del richiamo alle tradizioni della nostra civiltà e alle radici cristiane dell’intera Europa, da tempo indica la via di costruzioni normative radicate nell’etica della pubblicità, della trasparenza, della correttezza e della buona fede; non solo nella risalente disciplina dei fatti economici e di mercato, ma anche nella più recente tutela dei diritti delle persone, della famiglia e della società civile.

Si pensi alla nostra più recente legislazione attuativa di direttive comunitarie: come la riforma del codice dei contratti pubblici, ove si registra l’attenta, sostanziale ed effettiva tutela dei contraenti, anche attraverso interventi, talora molto incisivi, dell’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici; e altresì il nuovo codice del processo amministrativo, efficace nel superamento del formalismo, con l’estensione delle garanzie del giusto processo e del contraddittorio a tutte le

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parti sostanziali, nonché con l’adeguamento del potere istruttorio alla cognizione globale del rapporto, per ristabilire la legalità dell’azione amministrativa.

Ma entrando nello specifico, cosa succede? «Va registrato l’orientamento alla valorizzazione della prevenzione del contenzioso e della conciliazione bonaria delle controversie, radicati sui canoni della legalità e della buona fede, quale espressione sostanziale della potenzialità pacificatrice dei principi fondamentali dell’ordinamento».

A maggior chiarimento, va posta attenzione al fatto che il «nostro legislatore ha deliberatamente inserito la nuova regolazione dell’accordo bonario e dell’arbitrato nell’ambito della disciplina migliorativa delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici». Proprio in questo passaggio si coglie «la valenza profonda e fondamentale del primato riconosciuto a tali mezzi per la ricomposizione pacifica dell’armonia tra i contendenti, in alternativa alle funzioni giurisdizionali contenziose».

Merita approvazione e plauso che l’utilità generale alla realizzazione dell’ordine e della pace sociale sia perseguita privilegiando con norme di favore gli accordi tra le parti e la soluzione onoraria delle controversie, la cui essenza consiste in atti di rinuncia reciproca, di riconoscimento, di transazione e di conciliazione, attraverso cui può cogliersi il miglior frutto della cooperazione alla quale il legislatore chiama tutti i consociati. «Ciò può avvenire tutte le volte che tra la C&P • GIUSTIZIA

Etica e giustizia • Giampaolo Maria Cogo

In apertura, Giampaolo Maria Cogo, avvocato e professore di diritto amministrativo nell’Università di Roma Tre gmcogo@tiscali.it

Lo scollamento dei valori fondati sul primato della persona e dell’etica, ha condotto alla deriva la nostra legislazione C&P • GIUSTIZIA

previsione della legge e gli interessi dei soggetti sussiste corrispondenza sul piano dei valori. In questo modo l’“ordine”, vale a dire la pace tra i consociati, di cui la norma è criterio astratto, si può realizzare in concreto».

Se manca il collegamento ai valori dell’etica giuridica, ai quali vanno conformati con razionalità ed equilibrio gli interessi soggettivi, la legge è tale solo nella forma, perché le manca la potenzialità di realizzare in concreto l’ordine di cui essa pone l’astratto criterio.

Seguendo tale logica giuridica, appare chiaro che il fondamento etico della legalità sostanziale è una categoria dello spirito impegnativa, ma irrinunciabile. «Solo sui passaggi appena descritti si può fondare la speranza dell’utile cammino verso la riacquisizione della concezione del diritto come ars juris, ove diritto e arte siano rappresentazioni della realtà coerenti al sistema dei valori ai quali si ispirano le regole che si intendono affermare, ovvero l’immagine o il moto dello spirito che si crea, con esclusivo riferimento al soggetto a favore del quale diritto ed arte hanno ragion d’essere in quanto rispondano al bene suo proprio, destinati ad esserne simbolo».

In conclusione, «se ispirati a valori e a prospettive che divergono dal bene proprio della persona, perché non ne assumono la tutela e la valorizzazione della condizione naturale e della relativa sfera dei diritti, ovvero perché non ne propongono immagini celebrative, diritto e arte degradano a sovrastrutture inutili e dannose, avulse dal sublime dello spirito umano, dal suo sentire e dal suo sapere. Il diritto può addirittura essere di ostacolo alla pace di cui la legge dovrebbe assumere il criterio astratto da realizzare nella rappresentazione razionale del bene della persona e della collettività che costituisce la cellula fondamentale della costruzione dell’ordinato e pacifico convivere civile. Fuori e al di là di tali confini non può consistere l’essenza fine del diritto, sapere dei saperi, che non può vivere se non che fedele nel tempo a quel fine».

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Strutture formative • Luciano Maria Delfino

Una scuola tra economia e diritto Luciano Maria Delfino parla dell’ambizioso progetto portato avanti dalla Fiaba International Corporate.

Un nuovo campus formativo nel cuore della Calabria che ospiterà la prima vera scuola internazionale di arbitrato sull’area mediterranea

Se l’impedimento venisse attestato come impegno continuativo, il giudice è tenuto a rinviare l’udienza per tutto il periodo

di Andrea Moscariello

Luciano Maria Delfino, direttore scientifico di Fiaba International Corporate, docente universitario e avvocato

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una scelta, oltre che strategica, fortemente simbolica, quella compiuta dalla Fiaba International Corporate. L’organizzazione, che tra i suoi obiettivi primari si pone quello di proporre, sul territorio, nuove strutture e modelli formativi, ha deciso di fondare, come una delle sue sedi di riferimento, un campus a Briatico, in provincia di Vibo Valentia. In prima fila a sostenere il progetto, non poteva che esserci uno dei calabresi più affermati al mondo nell’ambito della cultura e della formazione universitaria. È infatti il professor Luciano Maria Delfino, direttore scientifico di Fiaba nonché coordinatore scientifico della Delegazione Italiana della Corte Arbitrale Europea di Strasburgo, a presentare il nuovo campus. «In ogni contesto scientifico o professionale, nazionale e internazionale, nel quale mi trovo a operare, sostengo sempre con forza come la Calabria non sia e non voglia essere ritenuta semplicemente come una terra di arretratezze o malaffari. Questa regione ha una storia importantissima, plurimillenaria, ed è quindi uno spazio ideale per il germogliare e l’affermarsi di proposizioni culturali e scientifiche di tutto rispetto».

Professore, il progetto che state realizzando è molto ambizioso.

«I grandi temi del nostro tempo, giustizia, legalità e civiltà sono, per dirla con Omero, concettualizzazioni “d’onor vuote e nude” senza l’esaltazione della cultura, valore vero e unico per l’affermazione della libertà e per il quale val la pena vivere. In ragione di questo mio radicato convincimento mi sono adoperato affinché Fiaba International Corporate avesse, proprio in Calabria,

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Luciano Maria Delfino • Strutture formative

Con Fiaba intendiamo contribuire all’affermazione di una giustizia alternativa, capace di rispondere alle esigenze dei rapporti commerciali contemporanei

una delle sue sedi di riferimento con il campus di Briatico, realizzato su un’area di 10mila metri quadrati, di cui 4.500 coperti e il resto destinato al verde. Il campus dispone di nove aule attrezzate e climatizzate da trenta posti, due aule da quarantaquattro posti e due sale da sessanta e centottanta posti da utilizzare per fini didattici. Poi, al suo interno vi sono uffici, biblioteche, una moderna sala cinema, un circolo ricreativo, laboratori linguistici e di studio e una mensa».

Quali obiettivi si pone il campus?

«Aiutare a migliorare e rafforzare la posizione competitiva delle Pubbliche amministrazioni, italiane ed estere, e delle imprese sul mercato, anche attraverso il ricorso a discontinuità innovative rispetto all’esistente. Ci poniamo, nell’ambito dello sviluppo delle competenze strategiche delle organizzazioni, come strumento preordinato a consolidare negli individui il senso della relazione. Occorre trasformare in patrimonio organizzativo l’insieme delle conoscenze, delle esperienze, dei valori indispensabili per competere nel tempo con successo. In questo troviamo la strategicità della formazione. Nostro obiettivo è promuovere i processi di apprendimento e di innovazione atti a costruire un indispensabile supporto alla comunicazione e alla realizzazione degli obiettivi delle pubbliche amministrazioni e delle aziende. Non solo, in questo particolare momento storico, vista l’esigente necessità di dare e di avere risposte giustiziali adeguate nei tempi e nei costi, intendiamo favorire la cultura dell’arbitrato e della mediazione commerciale attraverso l’istituzione di una Scuola Internazionale di Arbitrato».

Sarebbe una novità importante per il bacino MeC&P • GIUSTIZIA

diterraneo.

«Certamente. La scuola avrà una dimensione globale e di confronto scientifico-dialettico tra le differenti esperienze internazionali. Il bacino del Mediterraneo, nel cui ambito la Calabria gode di una posizione geografica di assoluto rilievo, rappresenta un’area di eccezionale importanza strategica per gli operatori commerciali. Gli attori economici si pongono l’obiettivo di riversare ingenti investimenti su quest’area. Molti paesi mediterranei fanno da scenario al fenomeno della delocalizzazione.

E poiché lo sviluppo commerciale rappresenta un indiscusso fattore di pace e stabilità, è indubbio che tale assetto di tranquillità vada perseguito prevalentemente mediante l’assicurazione di situazioni giuridiche e di regole certe. Quest’area necessita di un efficiente sistema di giustizia commerciale, che salvaguardi e tuteli gli scambi e gli investimenti».

L’arbitrato rappresenta una delle formule che il mondo della giustizia offre in risposta alla lentezza e alla poca funzionalità di alcune giurisdizioni ordinarie.

Perché è così importante questo passaggio?

«Con Fiaba intendiamo contribuire all’affermazione di una giustizia alternativa, capace di rispondere alle esigenze dei rapporti commerciali contemporanei. Infatti, è chiaro che il rischio di contenzioso e il carattere di incertezza, in termini di tempi e di costi, di alcuni sistemi giuridici, incide in maniera decisiva sulle scelte imprenditoriali sia di livello nazionale che internazionale. La neutralità, la riservatezza, l’assicurazione della possibilità per le parti di scegliere il diritto applicabile e le regole di procedura da seguire rappresentano elementi attrattivi per le imprese. Gli operatori vogliono poter investire con tranquillità, senza temere di impelagarsi in burocrazie e sistemi giuridici complessi e dispendiosi. Anche per questo il campus di Briatico ha il compito di garantire un’offerta formativa che tenga, come riferimento, il management».

Dunque la giustizia al servizio dello sviluppo economico?

«Investiremo in tal senso anche nell’alta direzione e nei contenuti della management education, mediante alleanze con i centri del sapere italiano ed estero. Verranno coinvolti Stati, università, business school, centri di ricerca pubblici e privati, società di consulenza. Sarò io stesso a coordinare la faculty».

Chi comporrà il corpo docenti?

«Vi saranno professori di primario rilievo nazionale e internazionale, con estrazioni culturali differenti. Attraverso l’insieme delle loro diversificate esperienze potremo realizzare percorsi formativi innovativi, pregni di significativi stimoli e qualità. Le metodologie formative utilizzate saranno di tipo blended e affiancheranno all’aula l’apprendimento a distanza, dunque anche e-learning».

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Istituzioni • Annibale Marini

Verso un’Italia a Camera unica Un ruolo più forte del presidente del Consiglio, ma senza virare verso il presidenzialismo «estraneo alla nostra cultura istituzionale». Il presidente emerito della Corte costituzionale Annibale Marini delinea il quadro delle riforme più urgenti di cui l’Italia ha bisogno per rendere effettivamente compiuto il lungo percorso verso la “seconda Repubblica” di Carlo Belinelli

Nell’altra pagina, Annibale Marini, civilista e presidente emerito della Corte Costituzionale, ne è stato presidente tra novembre 2005 e luglio 2006

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n passaggio che non è ancora del tutto realizzato. E che attende alcune importanti riforme costituzionali per dirsi finalmente compiuto.

Le istituzioni italiane da tempo hanno avviato un lungo percorso di trasformazione verso nuovi equilibri, i risultati del quale sono forse già chiari, ma non ancora ufficialmente riconosciuti. Secondo Annibale Marini, già presidente della Corte costituzionale, ci sono alcune riforme che non possono più attendere, soprattutto «quelle sulle quali esiste un consenso diffuso e generalizzato di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione». Dall’eliminazione del bicameralismo paritario – «anacronistico», lo definisce Marini – alla riduzione del numero dei parlamentari; dall’introduzione del premierato – la «costituzionalizzazione di un ruolo “forte” del presidente del Consiglio» – allo scioglimento del «nodo gordiano» delle Province.

Quali sono, a suo avviso, le novità più importanti che hanno caratterizzato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica?

«I cambiamenti che hanno accompagnato il nostro Paese nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, indipendentemente dalle perplessità che può suscitare il riferimento gergale a una successione di Repubbliche, sono di un duplice ordine: politico e istituzionale. Sotto il primo

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Annibale Marini • Istituzioni

Il bicameralismo paritario è anacronistico e ormai privo di qualsivoglia giustificazione politico-istituzionale aspetto, può ricordarsi, a titolo d’esempio, la sostanziale scomparsa di quei partiti che, per quasi mezzo secolo, avevano dominato la scena politica nazionale. Mi riferisco, in particolare, alla Democrazia cristiana, al Partito comunista, ai due Partiti socialisti, ai partiti liberaldemocratici, Partito liberale e Partito repubblicano, e al Movimento sociale italiano. Tutti sostituiti da nuove formazioni che, per una serie di ragioni e principalmente per il venir meno della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, risultano prive di quell’accentuata coloritura ideologica propria dei vecchi partiti. Una nuova classe politica, dunque, costituita in gran parte non più da quadri, ovvero professionisti della politica, ma da esponenti della società civile e in particolare dal mondo delle professioni e dell’imprenditoria».

Dal punto di vista delle istituzioni, invece, quali sono stati i maggiori cambiamenti?

«Le principali innovazioni istituzionali hanno riguardato la legge elettorale, passata da un sistema proporzionale a uno maggioritario e il rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, dovuto soprattutto, anche se non esclusivamente, al fatto di essere “votato” e non già designato dalla formazione vittoriosa nella competizione elettorale. Si assiste, poi, con l’introduzione del cosiddetto premio di maggioranza, a una tendenziale riduzione del numero dei C&P • GIUSTIZIA

partiti e a una maggiore governabilità, essendo la durata dei governi e della legislatura sempre più legata alla persona del presidente del Consiglio “votato” in sede elettorale e sempre meno condizionata dai mutevoli umori della maggioranza di governo. E ciò dovrebbe indurre a ritenere superata la prassi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali, in quanto in contrasto con la volontà del corpo elettorale; prassi del resto sconosciuta a quegli ordinamenti nei quali il presidente del Consiglio è votato dagli elettori e non già designato dalle forze politiche». È sempre più frequente il ricorso alla fiducia da parte del governo. Ciò significa un indebolimento della funzione del parlamento? «È vero che il ricorso alla fiducia è finito per diventare un mezzo per accelerare i lavori del parlamento e per evitare, spesso, la decadenza dei decreti legge per la mancata tempestiva conversione. Occorre, allora, se si vuole ridare al voto di fiducia la sua originaria funzione, provvedere a riformare i regolamenti parlamentari conciliando l’esigenza di un approfondito dibattito parlamentare con quella, non meno importante, di evitare una indefinita paralisi del parlamento e dell’attività di governo e il conseguente pregiudizio dell’interesse generale della collettività».

In questo scenario, qual è oggi il ruolo del presidente della Repubblica?

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Istituzioni • Annibale Marini

«Quanto al presidente della Repubblica mi limito a sottolineare quella “moral suasion” che mi sembra non solo politicamente opportuna e anzi necessaria, ma, specie se esercitata con la moderazione e il senso di misura dell’attuale presidente, una componente necessaria e ineliminabile dell’altissima funzione di rappresentante dell’unità nazionale».

Quali sono, quindi, le più urgenti riforme costituzionali necessarie per portare a compimento il passaggio alla seconda Repubblica?

«Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non può certo ritenersi esaurito, restando allo stato solo annunciate le riforme costituzionali necessarie e anzi indispensabili per l’ammodernamento del nostro ordinamento di governo. Mi riferisco soprattutto alle riforme della II parte della Costituzione e in particolare a quei punti sui quali esiste un consenso diffuso e generalizzato di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. È possibile menzionare, senza voler fare un elenco esaustivo, la riforma del cosiddetto bicameralismo paritario che risulta anacronistico e ormai privo di qualsivoglia giustificazione politico-istituzionale, alla sempre auspicata e mai realizzata riduzione del numero dei parlamentari; alla costituzionalizzazione di un ruolo “forte” del presidente del Consiglio che riceve l’investitura fiduciaria, propone la nomina e revoca dei ministri, decide lo 68

scioglimento anticipato del parlamento o della Camera dei deputati alla quale, con l’eliminazione del bicameralismo, sarebbe riservata la dialettica politica. Mentre sempre più urgente e anzi indilazionabile diventa una riforma organica e globale della giustizia. E da ultimo, ma non meno importante, ritengo necessario, per la serietà stessa della nostra classe politica, lo scioglimento del nodo gordiano delle Province. Si sente parlare da anni, e anzi da decenni, di una soppressione delle Province in quanto enti inutili e si assiste nello stesso tempo a una moltiplicazione del numero delle Province effettuata spesso su iniziativa degli stessi assertori della loro estinzione. Sarebbe forse ora che i signori parlamentari decidessero su tale capitolo cosa intendono effettivamente fare».

La cosiddetta Repubblica presidenziale può essere utilmente trapiantata nel nostro sistema politico costituzionale?

«Sono molto cauto, per usare un eufemismo, nella valutazione del presidenzialismo che è, tra l’altro, estraneo alla nostra cultura istituzionale e che sarebbe difficilmente digeribile dalla nostra classe politica. In conclusione, credo che al nostro sistema servano poche e incisive riforme costituzionali, ma ampiamente condivise. Non bisogna dimenticare che il modo più efficace per non cambiare nulla resta sempre quello, gattopardesco, di pretendere di cambiare tutto e subito».

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Ritratti • Giorgio Napolitano

Dopo il risorgimento la resurrezione Iniziate le celebrazioni dell’Unità d’Italia, l’occasione per individuare un clima nuovo tra le diverse realtà del Paese. Le parole del capo dello Stato ai giovani incontrati nel tour che è iniziato lo scorso anno a Quarto ed è proseguito fino a Reggio Emilia dove si è svolta l’apertura ufficiale del 150° anniversario di Renato Farina

i questa Unità d’Italia vogliamo trattare raccontando chi oggi ne è il garante, l’autorità massima, in fondo il simbolo. E che è chiamato a tenerne vivi i colori verde, bianco e rosso da Nord a Sud senza stancarsi. Cercando di evitare la retorica (e ci riesce benissimo). Riuscendo anche a tirare con paterni strappi le orecchie di chi questa unità non ama. Senza però fornire materia di spaccature ancora più gravi, ma anzi mostrando che l’Unità d’Italia è così forte che ricomprende anche chi la vuole, sì, purché sia alla sua maniera. Unità interiormente al punto che non ha bisogno di essere un monumento di marmo, che poi si spacca, ma un organismo che sa svilupparsi, diventare grande, cambiare articolandosi nel federalismo. Insomma: trattasi di Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica e capo dello Stato.

Usciamo un istante allora dalla polemica politica spicciola e pretestuosa sulle celebrazioni dell’Unità d’Italia, se il governo faccia poco o molto. Alt! Tranquilli. Non siamo qui, con la scusa di non immergerci nelle dichiarazioni di Calderoli e Veltroni, a rifilarvi perciò una rievocazione dei 150 anni in tre paginette. Ma un’osservazione, con animo sereno, la porgo. Napolitano, a leggerne bene gli interventi, pur avendo le sue idee un tantino diverse dal

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Giorgio Napolitano • Ritratti

Nella pagina accanto, il Presidente Giorgio Napolitano con Matteo Renzi e Gianni Alemanno durante l’apertura delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia il 7 gennaio a Reggio Emilia

suo amato Gramsci, allarga l’orizzonte, bada alle persone viventi e alle loro radici. Impedisce di scannarsi sull’interpretazione da tifosi della nostra unità datata 1861, su chi abbia ragione o torto tra il Piemonte e lo Stato Pontificio in quel 20 settembre 1870; se stesse meglio il Sud dei Borboni o il Nord austriacante intorno al 1860. Siamo più antichi dei 150 anni. Abbiamo una geografia che impedisce equivoci. Ci siamo da migliaia e migliaia d’anni, litigiosi ma una cosa sola. Invasi e mescolati. Napolitano prima di essere quello che è stato - e cioè un comunista napoletano - è uno che è stato deposto al Quirinale dallo Spirito Santo o da una cicogna venuta dalla Stella benigna che vigila sul destino di quella terra che va dalle Alpi a Capo Passero. Una certa forma di timido relativismo farebbe dunque bene a tutti a proposito del Risorgimento (una parola inventata da un milanese, Pietro Verri, un illuminista), smettendola di lacerarsi su Garibaldi e i Mille, o Mazzini e Cavour. Gente importante, da ricordare, ma non è che sono stati loro a partorire l’Italia. Questa nostra Patria di certo esisteva ed era già Italia prima di loro e dello Stato unitario. Tanto che Dante la descriveva nella sua unicità culturale e linguistica quando nemmeno nella sua città di Firenze c’era l’unità comunale e la lingua italiana era dovunque appena un balbettio. Ecco, Dante la definisce C&P • GIUSTIZIA

Ha saputo interpretare la parola “unità” non come omologazione o appiattimento, ma amore delle differenze “bel paese là dove 'l sì suona”. Non è un minimo comune denominatore da poco: c’è la bellezza, una lingua che è come un canto, e il “sì” che non somiglia a nient’altro che a noi. È vero che questo meraviglioso sigillo Dante lo fissa addosso all’Italia in un canto dell’Inferno, ma in fondo anche questo fa parte del carattere italiano. Ci mandiamo all’Inferno e ci mandiamo pure l’Italia, anche se sappiamo bene che alla fine di meglio non c’è. Dunque nessuna paura della Lega Nord o delle varie formazioni localistiche. Sono la prova che siamo italiani: il particulare di Guicciardini, se non fossimo così saremmo francesi…

Giorgio Napolitano! Quando uno arriva in quella posizione ha una sua biografia, i libri letti, le persone frequentate. Però, così come si dice dei Papi, non si può dire

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Ritratti • Giorgio Napolitano

Una certa forma di timido relativismo farebbe dunque bene a tutti a proposito del Risorgimento, smettendola di lacerarsi su Garibaldi e i Mille, o Mazzini e Cavour A destra, una scena del film sul Risorgimento italiano Noi credevamo del regista napoletano Mario Martone; In chiusura, Palazzo Carignano a Torino, sede del Museo del Risorgimento

di un cardinale che tipo di Papa sarà. Subentra qualcosa che in teologia si chiama grazia di stato (che non c’entra con lo Stato nel senso di istituzione), e che laicamente si chiamerebbe senso della responsabilità. Può subentrare o no. In non tutti i re o i capi di Stato anche recenti è accaduta. La grazia di stato suppone che uno dica di sì, che accetti il sacrificio di una rinunzia alla propria ideologia, ai propri schemi mentali. Restando se stesso, ma lasciandosi contaminare dalla storia, dai damaschi, da questa consapevolezza di essere diventato improvvisamente padre di 60 milioni di persone: di tutti, non solo di quelli della propria parrocchia politica o etnica. Occorre strapparsi da sé restando se stessi. Questa è la prova che rende uomini.

Accettare l’imprevedibile e lasciarsene maturare.

Del resto, ciò che rende una vita bella per sé e per gli altri è l’imprevisto. Trovarsi in un posto dove non dovevi essere.

Oppure dove avevi desiderato trovarti, però a far tutt’altro di quello che ti pareva di aver previsto con tanta cura.

Come nella poesia “Prima del viaggio” di Eugenio Montale. Così Giorgio Napolitano, sin da ragazzo, ha preparato questa sua corsa nella storia d’Italia. Borghese, della buona borghesia dagli studi umanistici partenopea prediletta da Palmiro Togliatti, fu comunista e percorse tutte le tappe necessarie per ascendere. Montale scrive: “Prima del viag72

gio si scrutano gli orari, le coincidenze, le soste, le pernottazioni e le prenotazioni (di camere con bagno o doccia, a un letto o due o addirittura un flat); si consultano le guide Hachette e quelle dei musei,” eccetera eccetera.

Una carriera onorata. Piena di coscienza meticolosa, come il proprio maestro e - se così si può dire - capo corrente Giorgio Amendola gli aveva trasmesso. Nessun assalto alle prefetture come Giancarlo Pajetta. Una vita da politicointellettuale, più rivolto agli esteri che al nostro Paese. C’è il dovere quotidiano in cui eccelle: “…si controllano valigie e passaporti, si completa il corredo, si acquista un supplemento di lamette da barba, eventualmente si dà un’occhiata al testamento”. Il saggio, razionale, arido Montale conclude: un viaggio in fondo “inutile”. Una cosa troppo sensata. La vita così fatta è una corsa dove non accade niente, è già tutto sulle guide. Questo vale per gli uomini ma anche per le nazioni. Una cosa come la Francia, unita da sempre, che roba è? O come la Spagna: noi che c’entriamo? Infatti Montale chiude: “E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo.”

Un imprevisto è la sola speranza. E diciamo pure che solo gli uomini piccini dicono (a Montale e a noi) che è una stupiC&P • GIUSTIZIA

Giorgio Napolitano • Ritratti

daggine. L’imprevisto è stato l’arrivo di Napolitano al Quirinale, ed è l’imprevisto la speranza oggi di questa Italia.

Chi firma questo articolo non aveva grandi attese per l’arrivo di questo già ottantenne ed elegante signore, votato solo dalla sinistra e passato con scarso margine. Eppure ha saputo interpretare la parola “unità” come qualcosa che non è omologazione o appiattimento, ma amore delle differenze. È partito per questo centocinquantesimo seguendo le tappe dei Mille l’anno scorso. Ha incontrato migliaia di giovani entusiasti a Quarto e a Marsala, a Calatafimi e nella sua Napoli.

Tra tutte la parole dette, anche di recente a Reggio Emilia e Forlì, propongo invece quelle di Marsala: dette a giovani meridionali da un anziano meridionale. Mi paiono belle. Chiama non al fatalismo, ma alla responsabilità. C’è una grazia e una responsabilità in queste sue frasi che promettono dei magnifici imprevisti di resurrezione. Dopo il Risorgimento, la Resurrezione. Mica male. Ecco lo stralcio. «Non è la prima volta che lo dico, e sento il bisogno di ripeterlo; le critiche che è legittimo muovere in modo argomentato e costruttivo agli indirizzi della politica nazionale, per scarsa sensibilità o aderenza ai bisogni della Sicilia e del Mezzogiorno, non possono essere accompagnate da reticenze e silenzi su quel che va corretto, anche C&P • GIUSTIZIA

profondamente, qui nel Mezzogiorno, sia nella gestione dei poteri regionali e locali e nel funzionamento delle amministrazioni pubbliche, sia negli atteggiamenti del settore privato, sia nei comportamenti collettivi. E parlo di correzioni essenziali anche al fine di debellare la piaga mortale della criminalità organizzata che è diventata una vera e propria palla di piombo al piede della vita civile e dello sviluppo del Mezzogiorno.

Nello stesso tempo si deve chiedere a tutte le forze responsabili che operano nel Nord, e lo rappresentano, di riflettere fino in fondo su un dato cruciale: l’Italia deve nel prossimo avvenire crescere di più e meglio, ma può riuscirvi solo se crescerà tutta, se crescerà insieme, solo se si metteranno a frutto le risorse finora sottoimpiegate, le potenzialità, le energie delle regioni meridionali. Siano dunque le celebrazioni del 150° del nostro Stato nazionale, l’occasione per determinare un clima nuovo nel rapporto tra le diverse realtà del paese, nel modo in cui ciascuna guarda alle altre, con l’obbiettivo supremo di una rinnovata e più salda unità. Unità che è, siamone certi, la sola garanzia per il nostro comune futuro e in modo particolare, giovani di Marsala, la sola garanzia per il vostro futuro». (Giorgio Napolitano a Marsala, 11 maggio 2010).

Viva l’Italia!

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Dialoghi • Augusta Iannini

La mia fortuna?

Non conosco la noia Vent’anni in magistratura. E dal 2001 una carica prestigiosa al ministero della Giustizia. Augusta Iannini racconta la sua carriera, all’insegna dello studio e del rigore. E illuminata da tanta curiosità di Giulia Contini

a magistratura è soprattutto un servizio, non l’esercizio di un potere». A parlare è Augusta Iannini, a capo del dipartimento di Affari di Giustizia. Un passaggio, quello dalle aule dei tribunali alle sale del ministero, che le ha permesso di arricchire la propria esperienza, mantenendo tuttavia sempre saldi e costanti alcuni principi di fondo.

Principi che si radicano saldamente in una visione del ruolo della magistratura abbracciata sin dagli esordi della carriera, grazie all’insegnamento prezioso di quello che, con affetto e riconoscenza, Iannini riconosce come il suo maestro. «I magistrati all’inizio hanno una specie di tutor che li accompagna durante l’uditorato – racconta la presidente –.

Nel mio caso ebbi la fortuna di essere assegnata all’ufficio istruzione del Tribunale di Roma, con il consigliere istruttore Ernesto Cudillo. Una persona che mi ha insegnato moltissimo, ma soprattutto quel modo di approcciarsi al proprio mestiere che fa la differenza: la vocazione al servizio del magistrato, il tratto garbato da tenere con tutte le parti processuali, imputati compresi. E soprattutto il rigore assoluto per il rispetto delle regole processuali, anche quando può derivarne un’ingiustizia sostanziale». Un

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C&P • GIUSTIZIA

Augusta Iannini • Dialoghi

aspetto, quello del rispetto delle regole, particolarmente importante per Augusta Iannini e che dice molto del suo modo di concepire l’attività giurisdizionale. «Molti credono che il rispetto delle regole, anche di quelle per cui non sono previste sanzioni processuali, non sia doveroso – sottolinea –. È una grave slealtà processuale. È come se l’arbitro di una partita di calcio aggirasse le regole per far vincere una squadra. Nel processo non ci sono vincitori e vinti. Esiste un fatto la cui illiceità deve essere accertata applicando dei parametri normativi fissati dal legislatore. Tutto quello che va oltre è arbitrio». Di qui, da questa attenzione a un’applicazione normativa sempre rigorosa, per quanto non meccanica ma profondamente consapevole, discende la genuinità di una vicenda professionale le cui tappe cruciali, spiega, sono state «l’esperienza all’ufficio istruzione, per quanto riguarda la magistratura e il ruolo di direttore generale della giustizia penale al Ministero della Giustizia». Un percorso complesso e vario, quello di Augusta Iannini, ma sempre basato sulla ricerca di un delicato equilibrio: tra il rigore formale, requisito irrinunciabile per una corretta giurisdizione, e quel sano entusiasmo, quell’interesse vivo per le vicende umane che fanno la differenza in un mestiere come C&P • GIUSTIZIA

quello del magistrato, chiamato ogni giorno al difficile compito di calare la norma nel flusso imprevedibile della vita concreta. «Se dovessi indicare le competenze che ritengo cruciali per un percorso professionale completo, accanto alle conoscenze giuridiche, ovviamente imprescindibili, aggiungerei una certa predisposizione all’analisi delle situazioni. Predisposizione che nasce necessariamente da un atteggiamento di curiosità per i comportamenti umani». Occorre, in altri termini, accanto all’interpretazione e all’applicazione delle norme, una particolare sensibilità, la capacità d osservare e comprendere non solo delle situazioni critiche, ma delle motivazioni profondamente “umane” che le animano. Qualità, queste, che non sono affatto, come si può essere tentati a pensare, una prerogativa “femminile”. Perché, precisa Iannini «quando si parla di professionalità, non esistono differenze di genere.

Non c’è una professionalità maschile o femminile. La professionalità è unica e deve essere unica». Ciò non toglie, tuttavia, che per molto tempo l’ambiente giuridico, a lungo gestito da uomini, sia stato percorso da correnti di pregiudizi su presunte differenze di genere. «Quando ho iniziato, nel 1977, come pretore mandamentale a Spilimbergo – rac77

Dialoghi • Augusta Iannini

Il senso profondo del mestiere di magistrato sta soprattutto nel rigore assoluto per il rispetto delle regole processuali. Anche quando da questo può derivare un’ingiustizia sostanziale 78

conta –, ero già sposata e avevo un bambino di pochi mesi. È ovvio, dunque, che la lontananza dalla famiglia, sia pure per breve tempo, è stata un problema. Ma ad avermi fatto soffrire, all’epoca, è stato anche un certo atteggiamento di sfiducia preconcetta». Preconcetti occasionali e, almeno all’epoca, in una certa misura quasi inevitabili. Una situazione che tuttavia Augusta Iannini ha saputo superare con costanza e naturalezza. Lasciando parlare i risultati raggiunti e, soprattutto, l’impegno costantemente profuso nel perseguirli. «Ricordo che quando fui mandata a svolgere le funzioni di magistrato di sorveglianza a Roma, il presidente della sezione era abbastanza disperato. Si rivolse al Consiglio superiore della Magistratura per far presente l’inopportunità di far svolgere certi compiti a una donna giovane.

Dovetti farlo rassicurare dal consigliere Cudillo. Ma dopo alcuni mesi, nel corso dei quali mi studiò attentamente, concluse e mi comunicò, soddisfatto, che ero meglio di un uomo. Per lui questo rappresentava il massimo della considerazione. A me, francamente, fece un po’ sorridere». Del resto, e per fortuna, preconcetti del genere sono ormai quasi del tutto scomparsi. È innegabile che oggi, una giovane donna decisa a intraprendere il mestiere di magistrato può contare ormai su una larga e sostanziale assimilazione dei principi di pari opportunità. «La situazione è cambiata molto, anzi moltissimo - conferma Iannini –. Non credo che oggi nella nostra carriera sussistano ancora discriminazioni nei confronti delle donne, almeno non a livelli apicali.

Semmai il problema ora è diverso ed è quello di non “femminilizzare” troppo la magistratura. Esiste poi una questione più generale, aggravatasi negli ultimi anni: la carriera dei magistrati è troppo condizionata dal nostro sindacato, che cede spesso alla tentazione di applicare il famigerato “manuale Cencelli” nell’assegnazione dei posti. Tutto questo umilia moltissimi colleghi che svolgono un lavoro pesante, spesso oscuro, che non amano i protagonismi, che hanno un’elevatissima ma non riconosciuta professionalità e che, per carattere, non riescono a dedicare tempo alla vita associativa». Sono cambiate, insomma, le forme, ma il problema del mancato riconoscimento professionale in qualche

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Augusta Iannini • Dialoghi

modo sussiste. Per quanto riguarda il ruolo della donna, tuttavia, il quadro italiano è ormai stabile e si avvicina sempre più agli standard europei. «Negli altri paesi la proporzione tra donne e uomini che ricoprono incarichi di responsabilità sono tendenzialmente simili. Ho avuto modo di conoscere la ministra della giustizia tedesca e quella danese: grande naturalezza, una grinta eccezionale, un approccio ai problemi di rara efficacia e concretezza. Assolutamente determinate. La ministra danese aveva un bambino piccolissimo ma non saltava una riunione del consiglio Giustizia e Affari Interni dell’Unione europea». E in effetti, ad aver tratto i maggiori benefici da questo mutamento di condizioni e di atteggiamento è stata soprattutto la sfera privata, il rapporto con la famiglia. Mentre nel passato, in generale, era proprio la vita privata ad essere penalizzata. «Se c’è una rinuncia che, almeno nel mio caso, ho dovuto accettare, è quella alle abitudini, che sono l’essenza della vita familiare e del rapporto con i figli. Per i bambini le abitudini sono determinanti: il pranzo a una determinata ora, andare a dormire sempre con un genitore che ti racconta una storia e così via. Le abitudini sono iniezioni di sicurezza. Non credo

C&P • GIUSTIZIA

di averne potute dare quanto avrei voluto. Per il resto, posso dire con serenità che, guardando indietro, non c’è qualcosa che non rifarei. Per ora non ho rimpianti». Del resto, non c’è dubbio che la storia professionale di Augusta Iannini sia un esempio particolarmente significativo di quanto, ormai, l’idea falsata della mancanza di determinazione delle donne, o peggio, della loro inadeguatezza a gestire ruoli di grande potere sia finalmente e definitivamente stata dissolta. «Nella mia generazione – spiega – le donne avevano accettato il dogma della compatibilità: lavoro e famiglia. Oggi non è più così. Conosco ragazze brave e determinatissime. Nessuna di loro sacrificherebbe se stessa e le proprie ambizioni.

Tutto questo è giusto, ma gli uomini ne sono abbastanza sconcertati e, a mio parere, non sempre reagiscono bene.

Del resto, seppure da un punto di vista formale le pari opportunità sono un traguardo pressoché compiuto, resta ancora sostanzialmente incerto l’esito più propriamente culturale e sociale di tale conquista. Il ruolo professionale della donna ha conosciuto un grande slancio: è un fatto. Ma ora occorre assimilarlo pienamente. Un processo nient’affatto scontato, e senz’altro più delicato.

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Giustizia telematica • Stefano Aprile

Rivoluzione digitale Per la prima volta in Italia i processi civili pendenti sono in diminuzione.

Merito, secondo il ministro Alfano, anche dell’informatizzazione degli uffici giudiziari.

Con il direttore generale del ministero della Giustizia Stefano Aprile facciamo il punto sulle novità di Riccardo Casini

Stefano Aprile, direttore generale del ministero della Giustizia per i sistemi informativi automatizzati

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a riforma telematica inizia a dare i suoi frutti. In occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha sottolineato come nel 2010 i processi civili pendenti siano diminuiti del 4%. Tra le cause, il ministro ha indicato la sempre più completa informatizzazione degli uffici giudiziari, precisando come «in due anni gli investimenti in materia, che nel 2008 ammontavano a soli 600mila euro, si sono più che decuplicati, con un investimento oggi quantificabile in oltre 15 milioni di euro». Un investimento che inizia a riversarsi anche sul settore penale dove, secondo il Guardasigilli, «il 2010 si è caratterizzato per lo sviluppo e la diffusione di tre importanti strumenti: Calendar, cioè il calendario delle procure, il sistema informativo dibattimentale penale e il package procura, finalizzato a garantire un significativo snellimento delle attività delle procure». Stefano Aprile, direttore generale al ministero della Giustizia per i sistemi informativi automatizzati, tenta di fare il punto su una situazione in continua evoluzione.

«L’inversione di tendenza registrata nel 2010 – spiega – rappresenta una notizia importante per il settore civile, ovvero quello nel quale sono stati fatti i maggiori passi avanti con

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Stefano Aprile • Giustizia telematica

una serie di investimenti per lo sviluppo di sistemi e servizi elettronici, in particolare in relazione al cosiddetto “processo telematico”. Con la digitalizzazione del flusso di tutti i processi e delle relative comunicazioni, a ridursi sono stati in particolare i tempi di attraversamento, ovvero quelli che una pratica impiega per passare da un ufficio all’altro».

Cosa significa questo in pratica?

«Ad esempio, anziché mandare l’impiegata di turno a fare la fila allo sportello per depositare l’atto, lo si fa direttamente dal proprio computer. E i fascicoli, invece di viaggiare avanti e indietro per gli uffici giudiziari negli ormai celebri carrelli, si trovano tutti su un unico server al quale possono accedere tutte le cancellerie e i giudici. Gli atti poi oggi vengono prodotti sin dall’origine in formato elettronico e inviati con posta elettronica certificata; il fascicolo informatico risulta così disponibile sempre e da qualunque postazione di lavoro. Si tratta, insomma, di un risparmio in termini di tempo e di persone impiegate. Per questo, senza voler adottare toni trionfalistici, credo che questa riforma stia contribuendo fortemente allo snellimento della giustizia italiana: migliorando la velocità si produce di più e meglio. Ma si tratta di una sperimentazione, non dimentichiamolo, che va avanti già da diversi anni».

C&P • GIUSTIZIA

Perché allora solamente nel 2010 si è registrata questa inversione di tendenza?

«Per anni sono stati fatti investimenti, ottenendo però risultati limitati. Ultimamente, grazie anche e soprattutto alla collaborazione di molti uffici giudiziari e avvocati, ci siamo focalizzati su alcuni dei più grandi uffici del Paese, quelli nei quali si concentra la maggior mole di carta per intenderci. E qui, in breve tempo, si è passati dalla sperimentazione alla realtà: in due anni e mezzo, dall’1-2% di diffusione di questi sistemi, siamo arrivati all’80% attuale in alcuni settori, mentre in altri si è raggiunto addirittura il 100%. I risparmi? Pensiamo alla notifica di un atto giudiziario, le cui spese postali incidono per almeno 8 euro, cifra che aumenta in caso si ricorra a un ufficiale giudiziario; con la notifica elettronica invece il costo vivo si riduce a zero. E se pensiamo che solo a Milano lo scorso anno ne sono state inviate 500mila, il risparmio è di almeno 4 milioni di euro».

Restano però ampi margini di miglioramento.

«Non c’è dubbio. Finora abbiamo riscontrato sul territorio un’importante adesione di magistratura e avvocati che, se spesso vengono indicati dai media come figure in contrasto, in realtà lavorano fianco a fianco, a maggior ragione sulle cose che funzionano. Basti pensare che gli avvocati telematici nello scorso anno sono cresciuti del 70%, passando dai quasi 10mila del 2009 agli attuali 23mila. Ma anche molte Regioni hanno investito insieme a noi, credendo – a ragione – che la riforma abbia una ricaduta positiva sul territorio: in effetti, se la giustizia è veloce, le imprese riducono i costi e investono più volentieri. Purtroppo però in alcuni territori si registrano ancora delle resistenze al cambiamento, resistenze definite “culturali” dal ministro Alfano: si tratta di uffici che non condividono il nostro approccio secondo cui la giustizia telematica offre, tra le altre cose, maggior efficienza e trasparenza, permettendo a chiunque di vedere in tempo reale quanto lavora un tribunale».

Forse il punto è proprio questo.

«Va detto anche che la situazione politica italiana non aiuta, con gli scontri a livello nazionale che si riflettono sulla fiducia degli uffici giudiziari verso il Ministero, a volte visto come autore di un’ingerenza nella gestione dei processi. La resistenza poi diventa ancora maggiore, in parte comprensibilmente vista la delicatezza delle informazioni trattate, quando si tenta di portare questi processi di cambiamento in ambito penale, dove a livello informatico siamo sicuramente più indietro».

Il ministro Alfano ha però ricordato diverse innovazioni, dal Sidip al package procura. In che direzione si sta lavorando nel settore penale?

«Stiamo operando per colmare il gap con quello civile. Nel 2010 vi abbiamo investito silenziosamente e contiamo presto 81

Giustizia telematica •Stefano Aprile

La novità principale, operativa entro l’estate, sarà la costituzione di un grande portale che darà la possibilità ai cittadini di accedere tramite Internet agli atti del proprio processo 82

di poter offrire gli stessi servizi. Già nei prossimi mesi abiliteremo le funzioni di accesso alle informazioni via Internet e il viaggio telematico del fascicolo processuale. Si tratta delle stesse soluzioni operate a livello civile, insomma, ma con un maggior livello di riservatezza, almeno nelle fasi iniziali del processo: quando infatti questo diventa pubblico, le innovazioni non saranno diverse da quelle per il procedimento civile. Il problema resta quello di una geografia giudiziaria estremamente frammentata, con 165 tribunali, 29 procure generali e 848 giudici di pace nel Paese: gli uffici giudiziari coprono tutta l’Italia e sono presenti anche in paesini di 300-400 abitanti. L’informatica può raggiungere tutti, certo, ma questi servizi hanno un costo in termini di gestione».

A questo proposito, poco tempo fa si era levato il caso della mancanza di fondi per i servizi di assistenza informatica. Oggi le risorse attualmente a disposizione sono sufficienti?

«Iniziamo col dire che in due anni e mezzo abbiamo ottenuto notevoli risparmi in termini di gestione, passando da 90 milioni di euro a 60 milioni annui, una cifra bassa se si pensa che va suddivisa tra i 100mila utenti interni. È vero, a inizio anno sembrava che mancasse la copertura per l’assistenza informatica: ho provveduto a comunicare agli uffici la sospensione temporanea del servizio ed è comprensibilmente scoppiato il caos. Per fortuna nell’arco di un paio di giorni il ministro Alfano è riuscito a reperire le risorse necessarie, e altre ne arriveranno. Ma è necessario che lo Stato tenga conto del fatto che, nell’ambito della progressiva riduzione dei costi, non si può tagliare nei settori dove gli investimenti producono risparmi, altrimenti questi non arriveranno più».

Qual è invece la situazione negli altri paesi industrializzati?

«A livello di digitalizzazione del settore civile, posso affermare che l’Italia è il paese più avanzato in Europa, ovvero quello che impiega le tecnologie più sicure in maniera più diffusa. Lo dimostra il fatto che nei tavoli europei siamo alla guida di molti progetti innovativi».

Quali progetti avete in cantiere per il 2011?

«La novità principale, che renderemo operativa entro l’estate, sarà la costituzione di un grande portale dei servizi telematici nel quale chiunque potrà entrare, e che darà la possibilità ai cittadini di accedere tramite Internet agli atti del proprio processo e vedere, ovviamente con tutte le cautele del caso, come va la propria causa in corso, dalla data della prossima udienza ai motivi del rinvio. Si tratta di un servizio che da un anno è già attivo per le cause più piccole, quelle che coinvolgono il giudice di pace per intenderci: io stesso avevo presentato ricorso per una contravvenzione, e ho potuto verificare in tempo reale come questo fosse stato respinto. Prepariamoci insomma, perché questa sarà la nuova frontiera».

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Tribunali efficienti • Luciano Panzani

Risultati in linea con l’Europa Tagli e vuoti d’organico minacciano l’efficienza del Tribunale di Torino. A lanciare l’allarme è il presidente Luciano Panzani. Un problema, quello della lentezza della giustizia, che influisce negativamente anche sulle valutazioni degli investitori stranieri di Michela Evangelisti

ell’ultima classifica resa nota sulla velocità della giustizia in Italia, il tribunale di Torino è sceso dal secondo al sesto posto. Questo dato, apparentemente preoccupante, secondo Luciano Panzani è in realtà soddisfacente, se debitamente contestualizzato. «Gli uffici giudiziari che si collocano davanti a noi sono tutti di piccole o medie dimensioni – spiega il presidente –. Il tribunale di Torino è il quarto d’Italia per grandezza. Ha un organico di 162 magistrati (con il personale amministrativo si arriva a un totale di 500 dipendenti) e un bacino d’utenza di circa 1 milione e 800mila persone. E, rispetto agli altri grandi tribunali, è avanti di molte lunghezze».

In effetti i numeri del tribunale torinese parlano chiaro e sono più che confortanti: il 94,7% delle cause civili durano meno di 3 anni e più del 60% dura non più di un anno. «Non solo rientriamo appieno nei parametri di Strasburgo – precisa Panzani –, ma si può dire che il nostro dato è del tutto in linea con la giustizia europea».

Cos’è quindi che desta la sua preoccupazione?

«L’allarme che voglio lanciare non è legato tanto a una situazione di crisi già in atto, ma alla certezza che sotto la mia presidenza il tribunale è destinato lentamente ma progressivamente, nonostante l’impegno di tutti, a perdere colpi. Questo a causa dei tagli delle risorse e dei problemi di organico. A Torino mancano 12 magistrati e più della metà dei giudici onorari. Il problema è che non ci sono prospettive di miglioramento: date le priorità del Consiglio superiore (che vanno alle corti d’appello, in questi anni svuotate dal pensionamento di molti colleghi, alle procure, in particolare quelle del Sud, e agli uffici giudiziari piccoli, che se privati di due magistrati non funzionano più),Torino si trova costantemente in coda. Si pensa che siamo grandi, bravi ed efficienti e in qualche modo ce la caveremo: ma i ritmi di lavoro per i miei magistrati stanno diventando davvero insostenibili».

A questo si aggiunge la mancanza di personale.

«Le assunzioni sono bloccate da 10 anni. Abbiamo cercato delle soluzioni per tamponare la situazione. Il Comune di Torino ci

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ha mandato del personale in comando e abbiamo attivato con la Regione una convenzione per servirci di lavoratori socialmente utili: ma non posso pretendere che queste persone abbiano la competenza di un laureato in giurisprudenza e di mandarle in udienza penale. Abbiamo firmato una convenzione tra i capi di tutti gli uffici giudiziari di Torino e i tre ordini professionali: pensiamo, ad esempio, a un tavolo per la creazione di un ufficio relazioni esterne, che riceva il pubblico, in modo che le richieste di informazioni non appesantiscano il lavoro delle cancellerie. Stiamo partecipando a un progetto finanziato con fondi comunitari detto delle “best practices”: due importanti società verranno a esaminare la nostra struttura amministrativa, per darci suggerimenti di carattere organizzativo e introdurre le tecniche di gestione aziendale. Sono tutte soluzioni interessanti, ma resta il fatto che la via migliore per incentivare il personale è quella di metterlo in condizione di lavorare in maniera tranquilla e di dare degli incentivi economici: i tagli alla spesa pubblica non lo consentono».

Il tribunale di Torino ha all’attivo due progetti organizzativi gravitanti intorno alla ragionevole durata dei processi civili e penali, il progetto Strasburgo e il progetto Drpp. Con quali risultati?

«I dati sul civile sono confortanti: le cause ultratriennali non raggiungono il 5%. Abbiamo qualche problema in più sulle sezioni distaccate, che hanno dei presidi di giudici e di personale di cancelleria limitatissimi. Siamo decisamente più efficienti al centro, perché abbiamo uffici specializzati e i giudici sono più rapidi. Nelle sedi distaccate, invece, i giudici fanno un po’ di tutto e quindi risultano più lenti. Oltretutto sono uffici poco graditi, nei quali il turn over è molto elevato. Sto cercando di intervenire nella direzione di dirottare le cause da queste sezioni verso il tribunale centrale, trasferimento possibile solo col parere del consiglio dell’ordine degli avvocati e del consiglio giudiziario presso la corte d’appello. In cambio vorrei potenziare nelle sezioni distaccate le attività giurisdizionali che richiedono una maggior presenza sul territorio, come le tutele e le amministrazioni di sostegno. Ma i sindaci e gli orC&P • GIUSTIZIA

Luciano Panzani • Tribunali efficienti

Luciano Panzani, presidente del Tribunale di Torino

L’efficienza del tribunale è fondamentale per avere le carte in regola dal punto di vista della concorrenza tra sistemi economici C&P • GIUSTIZIA

gani locali ci tengono al mantenimento delle sedi piccole e quindi si oppongono a iniziative di questo genere».

E per quanto riguarda i tempi del penale?

«Sono contenuti e ragionevoli: fatta eccezione per i processi extra-large (come quello Eternit o Thyssen), che seguono delle logiche differenti, non durano mai più di un anno. Le principali difficoltà nascono dalla nostra organizzazione, studiata per consentire il cosiddetto abbinamento dei pubblici ministeri, ovvero far sì che il pm che ha svolto le indagini sia poi lo stesso magistrato che va all’udienza dibattimento, con una conoscenza approfondita del processo. Questo però, nel tempo, si è tradotto in disparità di carichi tra le varie sezioni del tribunale. C’è un confronto in corso per arrivare a rivedere questi criteri. Entro la fine dell’anno dovrò presentare la proposta per il piano di gestione 2012/2014: abbiamo quindi iniziato un lavoro ricognitivo che mi auguro possa portare a un’organizzazione interna più equa».

Inefficienza del sistema giudiziario civile uguale ritardo nello sviluppo dell’economia. Cosa pensa del valore di questa equazione?

«Si tratta di un tema importantissimo. Nel “Doing business”, la pubblicazione annuale della banca mondiale che fotografa la situazione dei vari Paesi, uno dei parametri utilizzati per la valutazione è proprio l’efficienza della giustizia, un criterio sul quale si pensa di poter misurare la concorrenza tra ordinamenti. In ef85

Tribunali efficienti • Luciano Panzani

I numeri del tribunale torinese parlano chiaro: il 94,7% delle cause civili durano meno di 3 anni e più del 60% dura non più di un anno. «Non solo rientriamo appieno nei parametri di Strasburgo, ma si può dire che il nostro dato è del tutto in linea con la giustizia europea» 86

fetti un sistema come quello inglese, o tedesco, più veloce del nostro, favorisce gli investimenti, perché un imprenditore deve sapere che se dovrà recuperare un credito, o se avrà una causa o una controversia su un contratto, la procedura giudiziaria finirà in tempi ragionevoli: in caso contrario, il suo diventa un investimento a rischio. Non è comunque il caso di sopravvalutare eccessivamente questo criterio: la disciplina fiscale è altrettanto importante».

Qual è da questo punto di vista la situazione dell’Italia e, quindi, del vostro territorio?

«Purtroppo l’Italia ha in merito una pessima reputazione, assolutamente giustificata, e questo comporta che anche Torino, nella valutazione degli investitori stranieri, finisca nel calderone. Detto questo credo che il risultato che noi offriamo sia assolutamente ragionevole e accettabile. Sull’argomento sono del tutto d’accordo con il nostro governatore, Roberto Cota: garantire l’efficienza del tribunale è un elemento fondamentale per avere le carte in regola dal punto di vista della concorrenza tra sistemi economici. Purtroppo in Italia abbiamo una pianta degli uffici giudiziari che non è razionale, con una dispersione del personale e una secca perdita d’efficienza; il bilancio del ministero della Giustizia è il più alto in Europa, oltre 7 miliardi di euro, ma se si va a sottrarre la spesa per gli stipendi e per l’amministrazione penitenziaria quel che resta è poca cosa. Con tutti i tagli alla spesa pubblica in corso la riforma delle circoscrizioni giudiziarie sarebbe da attuare domani; purtroppo è ancora impopolare e frenata da una lunga serie di considerazioni di carattere politico».

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Emergenza carceri • Fabrizio Cicchitto

Un sistema carcerario più adeguato Il piano carceri approvato dal Consiglio dei ministri si basa su linee guida che mirano a risolvere una volta per tutte il problema del sovraffollamento.

L’onorevole Fabrizio Cicchitto fa il punto della situazione di Nicolò Mulas Marcello

Fabrizio Cicchitto

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e carceri italiane ospitano oggi oltre 65.000 detenuti, contro i 42.000 posti effettivamente disponibili superando di 1.000 la soglia considerata tollerabile. E anche per quanto riguarda il numero degli agenti necessari, se ne registrano 6.261 in meno di quelli previsti in pianta organica. Questi dati hanno spinto il governo a presentare un piano carceri che mira a migliorare questa drammatica situazione. Il piano di edilizia giudiziaria previsto dalla legge dovrebbe far raggiungere un livello di capienza attorno agli 80.000 posti mediante la creazione di 47 nuovi padiglioni. Per consentire l’avvio della realizzazione di nuove infrastrutture carcerarie e l’ampliamento di quelle esistenti, è previsto l’utilizzo di 500 milioni di euro stanziati dalla Finanziaria 2010. Duemila saranno inoltre le nuove assunzioni tra le fila della polizia penitenziaria. «È la prima volta – sottolinea l’onorevole Fabrizio Cicchitto – che in Italia viene varato un piano così ampio e articolato per affrontare l’emergenza carceraria».

I problemi legati al sistema carcerario si legano inevitabilmente anche alla riforma della giustizia.

La prima disfunzione del nostro sistema è costituita dal fatto che le carceri italiane ospitano più

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C&P • GIUSTIZIA

Fabrizio Cicchitto • Emergenza carceri

imputati in attesa di giudizio che persone condannate in via definitiva. Come si può ovviare a questo problema?

«In prospettiva, occorrerà procedere a rivedere ampiamente le norme del processo penale e ad arginare gli abusi di alcuni pubblici ministeri, in modo da garantire lo svolgimento del processo in tempi ragionevoli e nel rispetto dell’equilibrio tra le parti, come vuole la Costituzione».

Lei ha prospettato il rischio che le carceri diventino una discarica sociale. Al di là del problema del sovraffollamento, attualmente le carceri svolgono veramente una funzione di reinserimento sociale?

«Il carcere è spesso un’università del crimine. Nel piano del governo è prevista, pertanto, la creazione di carceri “flessibili”, in modo da evitare la promiscuità tra chi è ha commesso reati lievi e chi, invece, rappresenta un effettivo pericolo per la società. I problemi, però, nascono anche dal patologico “panpenalismo” della giustizia italiana. In prospettiva, dunque, occorre pensare a un’ampia revisione del corpo del diritto penale. Al momento, il piano carceri prevede l’introduzione di misure deflattive: da un lato sarà possibile scontare, per i reati meno gravi, con gli arresti domiciliari l’ultimo anno di pena residua; C&P • GIUSTIZIA

dall’altro, le persone imputabili per reati con la pena fino a tre anni, saranno messi alla prova, attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità che ne favoriscano la riabilitazione».

Il provvedimento prevede l’accesso ai fondi previsti dal decreto anticrisi e il ricorso a finanziamenti privati. È in previsione una privatizzazione degli istituti di pena?

«L’esperienza statunitense della privatizzazione degli istituti di pena non è attuabile in Italia. Lo impedisce la nostra cultura costituzionale, in base alla quale è allo Stato, in via esclusiva, che spettano i compiti relativi alla sicurezza dei cittadini e all’esecuzione della pena. I privati vanno sicuramente coinvolti nella fase della costruzione e anche nelle politiche di reinserimento, ma non nella gestione».

L’introduzione del reato di clandestinità per gli immigrati non regolari ha aggravato in qualche modo la già precaria situazione delle carceri?

«Innanzitutto, si tratta di un reato previsto anche in altri Paesi occidentali, come la Francia o il Regno Unito. La sua introduzione era necessaria, in Italia, per garantire una cornice di legalità e sicurezza in cui attuare le politiche di integrazione. Va detto, poi, che la legge prevede un’ammenda, non la reclusione, anche se bisogna tener conto del fatto che, data la scarsa disponibilità di liquidi da parte di compie questo reato, la pena rischia spesso di diventare detentiva. In ogni caso, in un Paese come il nostro, dove il “panpenalismo” comporta la detenzione anche per le cose più banali, non si può certo imputare al reato di clandestinità il sovraffollamento delle carceri».

I padiglioni di nuova costruzione saranno 47 e porteranno la capienza complessiva delle nostre prigioni a 80.000 unità. Verranno inoltre predisposte 2.000 nuove guardie carcerarie. Quali saranno i tempi di attuazione?

«Il piano è già in attuazione, per quel che riguarda la gestione dell’emergenza e durante l’anno saranno realizzate le altre strutture di edilizia straordinaria. Nello stesso arco di tempo dovrebbero entrare a regime le misure deflattive e di diversificazione dei circuiti carcerari».

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Il punto • Maria Elisabetta Alberti Casellati

Velocizzare l’iter processuale bbiamo cercato di dare efficienza alla macchina giudiziaria. E, rispetto allo stato fallimentare in cui l’abbiamo trovata all’inizio della legislatura, possiamo dire, con soddisfazione, di aver fatto notevoli passi in avanti».

Così esordisce il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati nel tracciare un bilancio dell’operato di due anni e mezzo di governo in materia di giustizia. «La riforma del processo civile è uno degli interventi più sostanziosi che abbiamo realizzato insieme all’informatizzazione degli uffici giudiziari – spiega –. Si tratta di operazioni che mirano a velocizzare l’iter processuale, anche alleggerendo il fardello burocratico che pesa sui procedimenti. Il governo, poi, ha messo in atto il più grande sistema di contrasto alla mafia. La più incisiva lotta alla criminalità organizzata che ha portato alla confisca e al sequestro di 18 miliardi di beni e all’arresto di 7mila criminali. Grazie al lavoro di forze dell’ordine e magistratura, ma anche di leggi che hanno inasprito il regime di carcere duro (41bis), possiamo dire di aver incrementato l’attività di repressione. Senza dimenticare, infine, tra le misure messe in campo dal 2008, il Piano carceri per affrontare la grave emergenza del sovraffollamento».

La vera zavorra sono i processi pendenti. Come pensa di intervenire il ministero per eliminare l’arretrato?

«Il numero di processi civili pendenti per la prima volta è diminuito del 4 per cento rispetto al 2009. Non succedeva da trenta anni e questo è un risultato che ci inorgoglisce. E a partire da marzo, con l’entrata in vigore della mediazione civile, ci sarà un nuovo strumento deflattivo, alternativo alla giurisdizione. In più il ddl approvato nel Cdm del 9 febbraio scorso consentirà a 600 giudici ausiliari di smaltire in media 100mila sentenze l’anno. L’abbattimento dell’arretrato penale, invece, sarà l’obiettivo della seconda parte della legislatura».

Il processo breve è all’ordine del giorno. Qual è la sua utilità?

«Ritengo che la ragionevole durata dei processi - perché questa è la definizione giusta - sia un’esigenza condivisa da tutti. Il governo, infatti, non fa altro che rispondere a

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L’operato del governo è finalizzato alla creazione di una macchina giudiziaria sempre più snella ed efficiente. Con ripercussioni positive anche sullo sviluppo economico.

Il bilancio del sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati di Michela Evangelisti

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Maria Elisabetta Alberti Casellati • Il punto

una richiesta dell’Europa e dei cittadini, che vorrebbero vedere la loro vita personale, sociale ed economica non più appesa a tempi indeterminati. Non bisogna dimenticare, infatti, che ben 465 processi al giorno si prescrivono e quindi 170mila in un anno. Nessun intervento ‘ammazza processi’, come continua a ripetere, in maniera strumentale, l’opposizione. La verità è che al centrosinistra non va giù che questa maggioranza riesca lì dove essa ha fallito e cioè a ridefinire la durata dei procedimenti. Lo schieramento avversario, infatti, per ben due volte, sia nella legislatura 2001-2006 e sia in quella del 2006-2008, aveva

Maria Elisabetta Alberti Casellati, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia

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presentato un disegno di legge con finalità analoghe alle nostre, consapevole che la durata ragionevole dei procedimenti è un’esigenza prioritaria e reale delle persone».

La grave situazione di sovraffollamento delle carceri è stata considerata un’emergenza. In quale direzione sta andando il governo?

«Abbiamo scelto la via più difficile che è quella degli interventi strutturali perché consapevoli che misure adottate in maniera contingente, come l’amnistia e l’indulto, avrebbero creato benefici solo momentanei. Nelle celle italiane ci sono circa 68mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 44mila 608 posti e una tollerabilità stimata in 67mila unità. Anche se gli ingressi in carcere nel 2009 sono calati del 17% rispetto all’anno precedente, il governo ha ben chiara quest’emergenza e dall’inizio del suo mandato ha cercato di fronteggiarla. L’edilizia penitenziaria è solo una delle misure che abbiamo messo in campo. Il Piano, che prevede la costruzione di 11 nuovi istituti di pena e di 20 padiglioni in ampliamento di strutture già esistenti, ha consentito, in due anni e mezzo, di incrementare di 2mila 200 i posti disponibili. In pratica, tanti quanti sono stati realizzati nell’ultima decade. A novembre scorso, inoltre, abbiamo approvato la legge che permette, per i reati minori, di scontare l’ultimo anno di pena ai domiciliari. Non solo, ma dopo gli accordi bilaterali stretti con i Paesi europei, adesso stiamo puntando a chiuderne con quelli extraeuropei affinché i detenuti stranieri - il 40% della popolazione carceraria - possano scontare la loro pena negli Stati di provenienza».

Esiste un legame tra economia e giustizia?

«Sì. E non è affatto sottile. Un sistema che dispensa certezza giuridica agli operatori, infatti, “conviene” perché promuove lo sviluppo economico. La lentezza della macchina giudiziaria frena gli investimenti e danneggia le imprese. Si è calcolato che i ritardi producono un danno di due miliardi e 660milioni di euro, pari a una tassa di 380 euro che pesa, ingiustamente, su ciascuna delle 6 milioni di imprese italiane. Che esista un legame tra economia e giustizia civile, tra l’altro, lo attesta la Banca Mondiale nel rapporto “Doing Business 2009”. L’indagine evidenzia come nei Paesi con adeguate strutture giudiziarie, i fidi bancari crescano fino al 27 per cento».

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Relazioni industriali • Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

Il giuslavoro tra “due Italie” Il caso Mirafiori ha spaccato il paese.

Ma dalla demagogia alla realtà dei fatti, industriali, il passo non è breve.

Il paese, nel frattempo, attende risposte tanto dal mondo politico, quanto da quello giuridico. L’analisi di Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca di LabLaw di Andrea Moscariello

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uca Failla, Francesco Rotondi e Nicola Petracca non hanno dubbi, l’intesa raggiunta il 23 Dicembre per la Newco di Mirafiori apre veramente una nuova finestra nel sistema delle relazioni industriali del paese. Così, i tre noti giuslavoristi, a capo dello studio LabLaw di Milano, osservano gli effetti di un percorso partito a giugno con l’accordo di Pomigliano. «Indipendentemente da un esame di merito della vicenda e senza che questo implichi un giudizio in positivo o in negativo, una cosa è certa, la strada intrapresa è nuova e necessaria e nulla sarà più come prima» dichiara Luca Failla. «Se si guarda alle premesse dell’accordo, balza subito agli occhi la seguente frase: ai fini operativi la Joint Venture, che non aderirà al sistema confindustriale, applicherà un contratto collettivo specifico di primo livello che includerà quanto convenuto con la presente intesa. La scossa al sistema di relazioni industriali è tutta in questo inciso, che evidenzia le difficoltà e, allo stesso tempo, le opportunità che si aprono per la modernizzazione del sistema sindacale» sottolinea Francesco Rotondi.

Cosa emerge, soprattutto, da questo accordo?

Francesco Rotondi: «Se la vicenda ha da un lato posto all’attenzione di tutti la necessità per le aziende di conciliare esigenze produttive e corretta gestione del rapporto di lavoro ha, dall’altro, reso sempre più evidente la necessità di un sistema di relazioni sindacali più flessibile, idoneo a rispondere alle sollecitazioni del sistema economico ma, tuttavia, ove possibile unitario quanto ad intenti. Da qui l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali e

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C&P • GIUSTIZIA

Relazioni industriali • Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

L’attività di consulenza che caratterizza la nostra categoria può essere di grande supporto nelle ristrutturazioni aziendali

In apertura, Luca Failla, Francesco Rotondi e Nicola Petracca dello studio associato LabLaw www.lablaw.com

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le ultime vicende».

Luca Failla: «Qui si contrappongono, necessariamente, le posizioni di chi ha per obiettivo la salvaguardia dell’economia nazionale, attraverso la sopravvivenza di un’impresa che seppure non rispecchia la maggioranza delle imprese italiane è tuttavia ormai una multinazionale, e di chi intende difendere a oltranza posizioni che rischiano di irrigidire ulteriormente un sistema sindacale che mostra ormai da qualche anno delle difficoltà strutturali. Il confronto non è tanto tra le ragioni dell’economia e la salvaguardia dei diritti dei lavoratori, ma tra la sopravvivenza del nostro sistema economico e la conservazione dell’occupazione. Solo il confronto aperto e senza rigidità su questi temi garantirà al sindacato di essere nuovamente attore protagonista delle relazioni industriali».

In Italia pare che tutti, a questo punto, richiedano “nuove relazioni industriali”. Cosa vogliono, soprattutto, gli imprenditori?

F.R. : «In Italia il sistema di relazioni industriali è fortemente influenzato da fattori che hanno fatto la storia del diritto sindacale: già a partire dall’accordo del luglio 1993 si era registrato un progressivo spostamento verso la contrattazione di livello aziendale. Processo che l’accordo del 2009 ha accelerato e reso per così dire necessario anche quale strumento di uscita dalla crisi. Gli imprenditori vogliono poter lavorare dandosi regole necessarie per la sopravvivenza, ma con la garanzia della legalità. Fiat, che è comunque un’azienda importante ma che non rispecchia le dimensioni e le necessità della maggior parte delle aziende italiane, notoriamente di piccole dimensioni, ha 95

Relazioni industriali • Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

CON L&E IL NETWORK DIVENTA GLOBALE abLaw è una realtà nata nel 2006, specializzata in diritto del lavoro e relazioni industriali, ormai consolidata nel panorama del diritto del lavoro in Italia e all’estero. Lo studio affianca le imprese con un prodotto assolutamente custom made, il tutto senza ricorrere a una standardizzazione, ma ricercando sempre il miglior risultato per quella specifica situazione che coinvolge il cliente, caso per caso. Nella strategia di LabLaw, vi è poi una grossa attenzione al territorio, tant’è che a Luglio 2009 ha aperto una sede anche a Roma, in cui opera un team di 10 professionisti sotto la guida del managing partner Nicola Petracca. In linea con questa strategia, lo studio ha allargato le proprie prospettive di crescita mediante l’ingresso di esperti professionisti provenienti da prestigiose realtà italiane: nel 2009 è entrato a far parte dello Studio l’avvocato Piergiovanni Mandruzzato, proveniente da Allen & Owery, mentre nell’aprile 2010 si sono uniti anche Nicolò Schittone, Filippo Zazzera e Carla Zarlatti provenienti dallo Studio Legale Vesci di Roma.

Ma l’interesse del gruppo abbraccia anche il settore internazionale. Su questo versante LabLaw ha consolidato importanti relazioni professionali con i più qualificati studi legali stranieri.

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fatto solo da apripista per un processo evolutivo che altre aziende avevano già iniziato a percorrere, che poteva dirsi nell’aria da anni e che la crisi ha probabilmente accelerato».

E secondo voi quali risposte dovrebbe fornire la politica in un simile quadro?

Nicola Petracca: «In questo campo, il ruolo della politica dovrebbe essere quello di un mediatore. In uno scenario nel quale il baricentro delle decisioni si sposta dal piano politico-sindacale al piano aziendale è facile ipotizzare che le aziende si aspettino dalla politica sostegno a livello territoriale, per dare effettività agli accordi e agli investimenti. Anche la giurisprudenza dovrebbe operare nella medesima direzione».

Vale a dire?

N.P. : «Dal lato prettamente giuridico, la joint venture di Mirafiori non aderendo né a Confindustria né al contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici e svincolandosi dall’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993 e dal conseguente accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 sulle RSU, ha definito nuovi criteri di rappresentanza che escludono i sindacati, come la Fiom, non firmatari. L’intesa prevede, infatti, un ritorno alle regole sulla rappresentatività previste dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, stabilendo che “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite (…) dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori firmatarie del presente accordo”. L’esclusione dalla rappresentatività dei sindacati non firmatari, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di contributi, di fruizione dei permessi e di esercizio dei diritti e delle prerogative sindacali, non farà venir meno l’ipotesi del conflitto».

Dunque non è garanzia di minori contenziosi?

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Proprio al fine di assicurare alle imprese affiancate un’assistenza sempre più attenta all’andamento dell’economia interna e internazionale, con il nuovo anno Lablaw ha dato vita alla Global Employment and Labor Law Alliance - L&E Global - un network costituito da alcuni dei maggiori studi internazionali specializzati in diritto del lavoro, tra cui Flichy Grangé Avocats (Francia), Jackson Lewis LLP (USA), Pusch Wahlig Legal (Germania), Bufete Suárez de Vivero, S.L (Spagna) e Van Olmen Wynant (Belgio). L&E Global è il frutto di anni di collaborazione tra gli studi che l’hanno fondata e, grazie alla rete di relazioni professionali consolidate da ciascuno membro, è già oggi in grado di offrire assistenza e consulenza in ogni parte del mondo come Cina, India, Sud Est Asiatico, Europa dell’Est e Sud America.

Si è così creato un vero e proprio “studio legale internazionale virtuale” con un’unica e forte specializzazione in diritto del lavoro in grado di offrire alle aziende servizi omogenei e standardizzati in tutti i paesi.

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Relazioni industriali • Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

L’esclusione dalla rappresentatività dei sindacati non firmatari non farà venir meno l’ipotesi del conflitto N.P. : «L’adesione all’accordo, per il tramite del contratto individuale, da parte dei lavoratori iscritti a un sindacato non firmatario o non iscritti ad alcun sindacato, potrebbe sempre portare ad azionare, giudizialmente, le nuove regole da parte di chi volesse contestarne alcuni contenuti. Potrebbe quindi accadere che, a fronte di una sempre più marcata frammentazione del sistema di relazioni industriali, processo peraltro ormai avviato, potrebbe risultare frammentaria anche l’interpretazione delle norme da parte dei giudici, con pesanti ricadute sulla gestione del rapporto di lavoro».

Ma perché le grandi imprese fanno sempre più fatica a operare utilizzando i contratti nazionali?

LF: «Si tratta di uno strumento regolativo del rapporto di lavoro che è divenuto sempre più complesso e necessariamente indistinto, pur restando valido per l’identificazione dei minimi di trattamento economico e normativo alla luce delle particolarità di ogni singolo settore e in applicazione dei principi desumibili dall’articolo 36 della Costituzione. Da sempre o, almeno, a partire dal 1993, si è cercato di attenuare le rigidità di questo sistema attraverso gli accordi di livello aziendale legittimati dalla stessa contrattazione collettiva e, da qualche anno, anche dalla legge».

Emma Marcegaglia ha commentato il caso Fiat dichiarando che occorre maggiore flessibilità dal punto di vista contrattuale, ma che in generale il tessuto imprenditoriale italiano rimarrà attaccato al modello dei contratti nazionali. Qual è la vostra opinione al riguardo?

FR: «Si tratta di una posizione sicuramente condivisibile proprio per quanto appena detto. Lo stesso accordo Fiat prevede C&P • GIUSTIZIA

di far confluire l’intesa appena raggiunta in un accordo specifico di primo livello. Il livello nazionale di contrattazione è un presupposto ineliminabile del nostro sistema economico perché garantisce la visione complessiva di settore. Tuttavia, proprio dai contenuti dell’accordo del 2009 è emersa anche la necessità di un livello di contrattazione decentrato per governare, direttamente nel territorio o in azienda situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico».

Nelle ultime settimane tanto si è parlato della gestione dei rapporti industriali in paesi come Germania e Stati Uniti, giudicati come più moderni e flessibili rispetto ai nostri. Ma si tratta di demagogia oppure, effettivamente, in questi paesi sono “un passo avanti a noi”?

LF: «Non è possibile affrontare le complesse problematiche connesse agli accordi decentrati in Italia facendo similitudini con altri ordinamenti giuridici. Certo è che se si guarda al modello tedesco l’accordo decentrato, il cosiddetto contratto aziendale o territoriale, è stato probabilmente e correttamente interpretato come lo strumento migliore per assicurare risultati di medio e lungo periodo. Da questo punto di vista si tratta di un esempio che assume una certa rilevanza. Ma il paragone a nostro avviso si ferma qui. Nell’esperienza di LabLaw possiamo dire che in molti casi in cui siamo stati coinvolti, le aziende che hanno concluso accordi aziendali hanno potuto così risolvere importanti tematiche e questioni che non avrebbero potuto mai trovare una soluzione a livello nazionale».

L’automotive si rivela spesso, in ambito industriale, un settore traino, apripista. Quali altri settori, nel prossimo futuro, reclameranno dei cambiamenti?

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Relazioni industriali • Francesco Rotondi, Luca Failla e Nicola Petracca

Fiat ha fatto solo da apripista per un processo evolutivo che altre aziende avevano già iniziato a percorrere 98

NP: «Non è facile fare previsioni di questo tipo per gli economisti e tantomeno per un giurista anche se, in quanto giuslavorista, è un professionista sicuramente vicino ai problemi del lavoro generati dai cambiamenti economici. Il cambiamento è comunque già in atto in molti settori. Accordi decentrati del tipo di quello di Fiat sono stati sperimentati anche in altre realtà industriali tra cui la Indesit di Fabriano e la Tenaris di Dalmine».

Tutto però non può avvenire senza un progredire del diritto sindacale.

FR: «La modernizzazione del diritto sindacale passa sicuramente per gli accordi decentrati, nel rispetto del pluralismo sindacale che è la caratteristica del nostro ordinamento giuridico. Ciò è possibile attraverso la creazione di un sistema di regole condivise da tutti gli operatori del sistema in modo da salvaguardare in una prospettiva di unità sindacale quei principi di rappresentatività che sono la base per una serena gestione del rapporto di lavoro in azienda. Ciò è necessario per riacquistare competitività sul piano internazionale e credibilità per la tenuta degli investimenti».

Nell’ottica di una sempre maggiore affermazione dei contratti aziendali, verrà anche rivalutato il ruolo strategico della vostra categoria professionale?

LF: «È indubbio che l’attività di assistenza e di consulenza che caratterizza la nostra categoria professionale può essere di grande supporto per gestire a livello aziendale o territoriale importanti ristrutturazioni e riorganizzazioni. Non si tratta, però, di un campo nuovo nel quale misurare un eventuale rilancio della categoria ma di un campo che vede impegnato da sempre l’avvocato e, quando si parla di relazioni industriali, l’avvocato giuslavorista».

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Diritto penale d’impresa • Carlo Federico Grosso

La responsabilità della persona giuridica La crisi del principio “societas delinquere non potest”. L’avvocato Carlo Federico Grosso illustra come progressivamente si è evoluta la dottrina penalistica in questo ambito di Nike Giurlani esponsabilità delle persone giuridiche: com’è cambiata la dottrina penalistica? «All’inizio, nel 2001, i reati previsti agli effetti della responsabilità delle persone giuridiche erano pochi, ma con successive integrazioni legislative il loro numero è stato molto ampliato», spiega l’avvocato Carlo Federico Grosso. Si va dalla truffa a danno dello Stato, ai delitti informatici, al trattamento illecito dei dati, ai delitti di criminalità organizzata a quelli di concussione e corruzione, fino ad arrivare a taluni delitti contro l’industria e il commercio, ai reati societari e numerosi altri. «L’arco della possibile responsabilità delle società è pertanto ampia ed esaustiva» rileva l’esperto. Tra i processi più noti per quanto concerne la responsabilità delle persone giuridiche, Grosso menziona due casi ai quali ha partecipato personalmente in qualità di difensore di una delle parti: Parmalat e il processo contro alcune banche per truffa al Comune di Milano.

Il nostro diritto positivo basato sul principio “societas delinquere non potest” esclude che si possa configurare una responsabilità penale in capo alle persone giuridiche. A cosa è dovuto lo sgretolamento di questo principio?

«Il principio “societas delinquere non potest” ha costituito per decenni un pilastro della scienza giuridica penalistica. A

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L’avvocato Carlo Federico Grosso.

In alto, un momento del processo Parmalat

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Carlo Federico Grosso • Diritto penale d’impresa

Tra i processi per quanto concerne la responsabilità penale delle persone giuridiche è noto il caso Parmalat

partire dagli anni 80 e 90 del Novecento, ha cominciato tuttavia a essere messo in discussione dalla dottrina penalistica, a cominciare da un celebre scritto del professore Franco Bricola. Progressivamente è emerso, come dominante, l’orientamento opposto, e cioè il presupposto che fosse opportuno colpire direttamente, anche sul terreno penale, e ovviamente con sanzioni penali confacenti di natura pecuniaria o interdittiva, le condotte illecite societarie riconducibili a carenza di un’adeguata organizzazione di prevenzione dal crimine».

Com’è disciplinata la responsabilità delle persone giuridiche nell’ordinamento italiano? Quali sono i presupposti per l’attribuzione della responsabilità?

«Nell’ordinamento italiano la responsabilità delle persone giuridiche è stata configurata come “responsabilità amministrativa da reato”, e non come “responsabilità penale”. In ogni caso, competente a giudicare è il giudice penale in un processo che ha le caratteristiche del processo penale (codice di procedura penale, con le modificazioni specificamente previste dal decreto legislativo 231/2001).

Presupposto per l’attribuzione di responsabilità amministrativa da reato alle società è che sia stato commesso uno dei reati specificamente previsti dalla legge agli effetti di tale tipo di responsabilità, e che non sia stato adottato, ed efC&P • GIUSTIZIA

ficacemente attuato, un modello d’organizzazione adeguato a prevenire i reati».

Quali sono i reati per i quali le persone giuridiche sono chiamate a rispondere? Quali altri reati andrebbero inseriti?

«All’inizio, nel 2001, i reati previsti agli effetti della responsabilità delle persone giuridiche erano pochi, ma con successive integrazioni legislative il loro numero è stato molto ampliato.

Oggi le società possono rispondere di truffa in danno dello Stato e reati simili, di delitti informatici e di trattamento illecito di dati, di delitti di criminalità organizzata, di concussione e corruzione, di falsità in monete, di taluni delitti contro l’industria e il commercio, di reati societari, di delitti con finalità di terrorismo o d’eversione, di numerosi delitti contro la personalità individuale, dei cosiddetti abusi di mercato, d’omicidio e di lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e della tutela della salute.

L’arco della possibile responsabilità delle società è pertanto ampia ed esaustiva».

Quali sono gli espedienti che possono trovare le aziende al fine di essere esentati dalle responsabilità?

«Le società sono comunque esenti da responsabilità se, come ho già accennato, hanno adottato e attuato un modello d’organizzazione, di gestione e di controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Quali sono i casi più noti per quanto concerne la responsabilità penale delle persone giuridiche?

«Con riferimento a processi ai quali ho partecipato personalmente in qualità di difensore di una delle parti, posso ricordare i processi Parmalat per aggiotaggio celebrati, o in corso di celebrazione, davanti alle sezioni I e II del Tribunale di Milano e il processo contro alcune banche per truffa al Comune di Milano, che è in corso di celebrazione anch’esso davanti alla sezione IV dello stesso tribunale».

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Diritto penale d’impresa • Francesco Compagna

Tutelare sicurezza e salute La prevenzione in ambito di sicurezza sul lavoro dovrebbe essere il primo obiettivo delle imprese per limitare i rischi. L’avvocato Francesco Compagna spiega quali sono le innovazioni legislative che sono intervenute negli ultimi anni di Nicolò Mulas Marcello

viluppare una più diffusa cultura della sicurezza sul lavoro è il primo passo per evitare fatali incidenti che ogni anno siamo costretti a leggere.

Molto si sta facendo per sensibilizzare le coscienze su questo fronte ma «tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori – sostiene Francesco Compagna – vuol dire anche consentire che vengano svolte ricerche autorevoli su temi collegati ai rischi che possono correre i lavoratori».

Negli ultimi anni il problema della sicurezza negli ambienti di lavoro è stato uno degli argomenti di maggiore impegno per le imprese. Si è sviluppata secondo lei una maggiore consapevolezza su questo tema?

«Sicuramente c’è stata maggiore attenzione su questo tema negli ultimi anni non solo a livello giuridico ma anche sul piano politico grazie ad alcuni messaggi del presidente Napolitano e agli interventi normativi del governo. È un tema di cui si è parlato molto e penso che come sempre la sensibilità politica per un certo tema abbia delle conseguenze positive anche per quanto riguarda aziende che in qualche modo hanno recepito questa sensibilità. Dal punto di vista penalistico c’è un difetto storico, un atteggiamento forse criticabile che si riscontra spesso nel nostro paese e che è quello di intervenire e di criminalizzare soltanto dopo che un danno si è verificato. Il problema dei controlli preventivi che

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sono legati a una efficace azione amministrativa, invece spesso fa emergere delle carenze».

La normativa del decreto legislativo 626/94 è stata meglio definita e continuano le innovazioni legislative in materia anche, se a volte, permangono aree di incertezza sul comportamento da tenere. Cosa è cambiato dal punto di vista legislativo negli ultimi anni?

«Ci sono ulteriori specificazioni. Non sono però convinto che una normativa molto specifica che interviene nel dettaglio dei singoli comportamenti da tenere sia di per sé utile sul tema della sicurezza sul lavoro perché l’impresa è un mondo in divenire. Talvolta un’eccessiva specificità delle disposizioni finisce per suscitare un atteggiamento di tipo burocratico a cui si cerca di adempiere sul piano formale invece che porre costantemente il problema della sicurezza. È ovvio che un sistema di controlli presuppone che ci siano adempimenti formali ma a mio avviso non si può neanche pensare che un’azienda si impegni in maniera così costosa e così faticosa sull’ adempimento di una serie di incombenze formali in quanto l’effetto diventa quello di una deresponsabilizzazione. Con la riforma del 2008 si è specificato nel testo normativo l’istituto della delega di funzione che già era stato recepito in ambito giurisprudenziale e nel quale è scritto che il datore di lavoro non può essere sempre tenuto responsabile in quanto può capitare che egli abbia delegato alcune funzioni in C&P • GIUSTIZIA

Francesco Compagna • Diritto penale d’impresa

Talvolta un’eccessiva specificità delle disposizioni finisce per suscitare un atteggiamento di tipo burocratico a cui si cerca di adempiere solo sul piano formale

In apertura, l’avvocato Francesco Compagna

particolare quella sulla sicurezza sul lavoro a un altro soggetto. Il legislatore ha ritenuto specificare i requisiti della delega per evitare che ci sia un passaggio di responsabilità legato semplicemente a un dato formale. Occorre pertanto dimostrare che la delega è stata scritta, che la persona scelta abbia le competenze necessarie e che ci sia un’autonomia di spesa per poter individuare i problemi da trattare».

Ci sono ancora lacune legislative? Come andrebbe migliorato il sistema normativo della sicurezza sul lavoro?

«Nella mia esperienza di penalista ho riscontrato che non sempre al momento dell’accertamento delle responsabilità in ambito giudiziario si riesce davvero a separare con attenzione quelli che sono i casi di negligenza e grave noncuranza da quelli in cui l’infortunio si verifica per una serie di concomitanze. Osservare tutto con il senno di poi porta ad appiattire i giudizi e renderli tutti uguali mentre il problema è rappresentato dal fatto che esistono alcune imprese che sopravvivono perché risparmiano sulla sicurezza. In ambito edile infatti i costi di chi rispetta le regole sono diversi da chi non lo fa. Si tratta di un problema di legalità generale delle imprese che va al di là dello specifico della sicurezza sul lavoro».

L’articolo 28 del decreto legislativo 81/08 prevede che l’oggetto della valutazione dei rischi debba riguardare tutti i rischi compresi quelli connessi allo C&P • GIUSTIZIA

stress lavoro-correlato. Ciò comprende la categoria di rischi psicosociali ossia all’organizzazione, alla progettazione del lavoro e alle condizioni socio-ambientali che possono influire in modo preponderante sul benessere del lavoratore. Vengono applicate le leggi in questo contesto?

«Sono fenomeni di cui si parla molto ma di cui è particolarmente difficile l’accertamento. Credo che sia il caso di intervenire sulla prevenzione, qualche volta anche attraverso attività di ricerca, poiché molti fenomeni sono a noi sconosciuti. Oggi parliamo dei danni dell’amianto come una cosa certa ma fino a qualche anno fa non se ne conosceva la reale pericolosità. Oggi ci sono tanti altri fenomeni che noi non conosciamo. Tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori vuol dire anche consentire lo svolgimento di ricerche autorevoli su temi di questo tipo. Non è tanto lo stress del singolo lavoratore, che può anche essere difficile da percepire, ma ci sono intere categorie di lavoratori che sono sottoposte a pericolo in quanto svolgono lavori particolarmente usuranti. Su questo noi paghiamo la mancanza di indagini statistiche e sociologiche sufficientemente attendibili e alla fine di ogni anno andiamo a valutare quanti sono stati i morti sul lavoro. Molto spesso le cause dei problemi connessi a malattie professionali si manifestano molto prima del verificarsi dell’evento. Maggiore attenzione alla prevenzione è quindi d’obbligo».

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Diritto penale d’impresa • Renzo Orlandi

Maggiore coscienza ambientale Per intraprendere corrette politiche di green economy e quindi di rispetto dell’ambiente occorre un’efficace consulenza legale e ingegneristica.

A sostenerlo è Renzo Orlandi, professore ordinario di diritto processuale penale presso l’Università di Bologna di Nicolò Mulas Marcello

attenzione delle imprese alle questioni ambientali è un tema sempre più attuale e di estrema importanza. Obblighi e disposizioni normative vanno di pari passo con l’opera di informazione delle istituzioni e delle associazioni che cercano di sensibilizzare sempre più le aziende su temi come acque, aria, bonifiche, qualità, rifiuti, rischio di incidente rilevante, rumore, sicurezza nei luoghi di lavoro e valutazione di impatto ambientale. Negli anni, grazie a questo lavoro congiunto di comunicazione si è sviluppata una maggiore consapevolezza nei confronti delle tematiche ambientali. «I dati ufficiali parrebbero confortanti – sostiene il professor Renzo Orlandi – l’associazione ambientalista Low Impact ha presentato lo scorso novembre alla Camera dei deputati i risultati di una ricerca condotta su un campione di circa 200 aziende italiane.

Quasi i due terzi di queste appaiono sensibili a pratiche quali la raccolta differenziata, l’uso di materiali eco-compatibili, il risparmio energetico». Ma l’attenzione non è omogeneamente diffusa in tutto il nostro Paese. «Il quadro è assai più preoccupante se si guarda a certe aree dove un’imprenditoria priva di scrupoli interseca organizzazioni

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criminali capaci di profittare delle sinuosità burocratiche in materia ambientale. Basta leggere i rapporti sull’ecomafia presentati con cadenza annuale da Legambiente per averne un’idea. Si può essere infastiditi dal tono apocalittico di questi testi, ma i guasti in essi denunciati sono reali e debbono far riflettere sia il cittadino sia produttore, sia i consumatori». Dal punto di vista normativo la relazione impresa e ambiente è in continua evoluzione al fine di dare linee guida sempre più precise ed efficaci all’adeguamento e al rispetto dell’ambiente. «La legge comunitaria 2009 (approvata nel giugno 2010) – continua Orlandi – contiene una serie di importanti deleghe al Governo. Fra queste, quella che include numerosi illeciti ambientali nell’elenco dei reati per i quali l’impresa, in quanto entità giuridica, può essere chiamata a rispondere in un processo penale». In questo processo di maggiore cognizione dell’importanza di queste problematiche intervengono anche sanzioni più aspre. «Tutte le aziende con produzioni che comportano un significativo impatto ambientale dovranno dotarsi di speciali “modelli organizzativi”, idonei a prevenire quei danni all’ambiente che integrano illeciti penali. La mancata adozione di tali modelli espone l’ente (non solo l’imC&P • GIUSTIZIA

Renzo Orlandi • Diritto penale d’impresa

La legge comunitaria 2009 contiene la delega a includere numerosi illeciti ambientali nell’elenco dei reati per i quali l’impresa, può essere chiamata a rispondere in un processo penale

prenditore) a sanzioni pecuniarie molto pesanti e, nei casi più gravi, addirittura al rischio di una chiusura forzata dell’attività produttiva». Le certificazioni di qualità sono un ulteriore aspetto importante per le imprese che voglio dotarsi di una maggiore sicurezza da questo punto di vista e rendere noto anche ai consumatori che le proprie produzioni avvengono nel totale rispetto delle norme e dell’ambiente. Inoltre, sono in aumento le aziende che intraprendono il cammino della green economy come modello di sviluppo economico. Ciò non significa solo rispetto dell’ambiente ma anche una maggiore coscienza del consumo di energia che si riflette sull’impatto ambientale e si traduce anche in benefici dal punto di vista economico. Molte sono le iniziative promosse dalle associazioni di categoria per informare le aziende sui vantaggi che politiche mirate a una economia ecologica possono portare.

Ma per accompagnare le imprese in questo cammino occorre senz’altro una consulenza efficace. «Oltre e più di quella legale – conclude il professore – sarà utilissima la consulenza di specialisti in ingegneria chimica e ambientale, al fine di predisporre i “modelli organizzativi” dei quali parlavo prima».

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Diritto fallimentare •Giulia Pusterla

Un’ottima riforma La sfida più grande per il dottore commercialista si gioca, secondo Giulia Pusterla, non all’interno del procedimento fallimentare ma prima. «Evitare fallimenti, procedure di stampo prettamente liquidatorio, significa mantenere più imprese vive per il bene del nostro Paese»

Foto Pietro Redaelli

di Michela Evangelisti

Giulia Pusterla, consigliere del Consiglio nazionale dottori commercialisti

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partire dal 2005 il diritto fallimentare è stato interessato da una profonda riforma. «Nel caso, ad esempio, dei presupposti per il fallimento sono state introdotte modifiche importanti – illustra Giulia Pusterla, consigliere del Consiglio nazionale dottori commercialisti –, che tendono a eliminare quei fallimenti troppo piccoli che non comportano alcuna conseguenza positiva per i creditori e nel contempo intasano le aule di giustizia, a discapito dell’efficienza delle procedure più importanti da gestirsi con celerità». Perché una società di capitali, ma anche di persona o un imprenditore individuale, possa fallire deve superare alcune caratteristiche dimensionali. Nei tre esercizi precedenti deve avere avuto ricavi superiori a 200mila euro, oppure un attivo di bilancio superiore ai 300mila euro, o, infine, un ammontare di debiti superiore ai 500mila euro. «Mettendo questi paletti la legge ha escluso le società più piccole dal fallimento. Prima della riforma la prassi prevedeva, ma non in maniera costante, che anche le società di capitali piccole non potessero fallire. Ora questa prassi è stata codificata dalla legge: anche le società di capitali che non integrano questi requisiti non sono dichiarate fallite – prosegue –. I requisiti soggettivi per il fallimento che attengono all’impresa devono poi integrarsi al requisito oggettivo, che è rimasto invariato, ovvero lo stato di insolvenza: per poter fallire qualunque soggetto deve essere incapace di adempiere alle

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Giulia Pusterla • Diritto fallimentare

proprie obbligazioni in maniera regolare».

Cosa comporta il fallimento di una società di capitali?

«Comporta che l’amministratore e i soci non vengano dichiarati falliti: lo schermo giuridico nel caso della società di capitali è totale. Questa è la differenza fondamentale tra società di capitali da un lato e società di persone e impresa individuale dall’altro».

Qual è all’interno di procedimenti di questo tipo il ruolo del dottore commercialista?

«Nel fallimento il ruolo tipico del commercialista è quello di curatore, ma con la riforma può anche entrare a far parte, come membro tecnico, del comitato dei creditori, affiancando il curatore e il giudice nella gestione della procedura. Ritengo però che la sfida più grande per il commercialista si giochi non all’interno del procedimento ma prima: tutti i commercialisti, anche non specializzati in procedure, devono sviluppare, soprattutto in questo momento economico, una particolare sensibilità verso la crisi dell’impresa, in modo da intercettare tempestivamente dei segnali di crisi da parte del cliente e da evitare il fallimento, che è la cosa peggiore che possa capitare a un’impresa. Evitare fallimenti, procedure di stampo prettamente liquidatorio, significa mantenere più imprese vive per il bene del nostro Paese».

Qual è l’attuale situazione delle imprese italiane per quanto riguarda le procedure di fallimento?

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«L’articolo 1 novellato, ponendo i tre limiti sopra citati, vuole limitare il numero di fallimenti ai casi in cui si generano procedimenti che meritano l’impegno anche degli organi di giustizia.

Ciò nonostante gli anni 2007-2010 sono stati anni di particolare crisi, nei quali purtroppo molte aziende hanno dovuto arrendersi. È difficile quindi confrontare i dati precedenti la riforma con quelli successivi. La sensazione è comunque che dal 2010 si sia superato il picco del biennio 2008/2009 e si stia lentamente ritornando su valori precedenti la crisi».

Le normative italiane sono adeguate per svolgere al meglio le operazioni fallimentari?

«Il mio giudizio sulla riforma della legge fallimentare iniziata nel 2005 - che è un cantiere ancora aperto - è assolutamente positivo; la legge era ferma dal 1942, necessitava di una manutenzione perché era cambiato completamente l’ambiente economico nel quale ci si muoveva. Certo una riforma così importante richiede di essere interiorizzata, sedimentata e interpretata bene da tutta la categoria. Sono stati introdotti atti importanti, come ad esempio il programma di liquidazione, uno strumento fondamentale nelle mani del curatore. Ritengo che avere un diritto fallimentare e preconcorsuale rafforzi poi la competitività del Paese: una multinazionale, prima di decidere dove collocare un nuovo stabilimento, valuta tanti elementi e tra questi anche quale legislazione di impresa viga, compresa la legislazione legata alla crisi dell’impresa. Il dottore commercialista è uscito da questa riforma con un ruolo decisamente più importante: è il vero motore della procedura, una figura meno eterodiretta e maggiormente propositiva, alla quale è richiesta una gestione più efficiente e manageriale possibile. Ci troviamo davanti a una sfida molto interessante che dobbiamo cogliere. È chiaro che i commercialisti, avendo un ruolo più pregnante e delicato nella gestione della procedura, hanno correlativamente più responsabilità e oneri: la preparazione non basta, servono anche indipendenza e reputazione».

Qual è la durata media di un iter fallimentare?

«Oggi i tempi della giustizia sono fondamentali. Questo vale anche per le procedure fallimentari, che sono per loro natura contenitori di altre procedure con un inevitabile allungamento dei tempi. Un’ordinanza della cassazione del dicembre 2009 ha stabilito in un massimo di sette anni la durata di un giusto processo fallimentare. C’è una tensione sull’aspetto organizzativo della procedura e anche questa è una sfida che dobbiamo cogliere, imparando a gestire le procedure sempre meglio e sempre più velocemente. Molto probabilmente i colleghi dovranno specializzarsi sempre di più. Siccome quella di velocizzare le procedure è una delle principali esigenze sottese alla riforma iniziata nel 2005, il legislatore ha fatto varie previsioni in tal senso; ad esempio con l’articolo 102 ha stabilito che il tribunale disponga su istanza del curatore che non si proceda neppure alla verifica dello stato passivo se ci si rende conto che non si può acquisire attivo da distribuire ad alcuno dei creditori. Questo evita l’avvio di procedure che io chiamo “autocontemplative”, che non servono ai creditori e quindi non hanno ragione di esistere».

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Diritto del Lavoro • Marcello Floris

Tutelare i rapporti di lavoro L’avvocato Marcello Floris titolare dell’omonimo studio milanese avv.floris@libero.it

In un periodo in cui i rapporti di lavoro a volte non garantiscono i fondamentali diritti, cosa può fare il singolo cittadino per avere garanzie? Ne abbiamo parlato con l’avvocato Marcello Floris di Belinda Pagano

l diritto del lavoro risente enormemente della situazione economica di crisi e purtroppo molti sono i motivi che spingono a contattare un legale per questioni di diritto sindacale, diritto della previdenza e della sicurezza sociale. «Per quanto riguarda la mia esperienza» esordisce l’avvocato Marcello Floris, titolare dell’omonimo studio milanese «i problemi variano a seconda che il cliente sia il datore di lavoro oppure il lavoratore. Le aziende normalmente si rivolgono all’avvocato sia nelle fasi in cui sta sorgendo un contenzioso sia per gestire una causa già sorta. I lavoratori invece si rivolgono al legale per situazioni già conclamate tra le quali la più drammatica è quella del licenziamento, oppure per avere assistenza nelle situazioni che solitamente precedono il licenziamento come le contestazioni disciplinari oppure i casi di dequalificazione professionale. In realtà, contrariamente a quanto si possa pensare, i lavoratori dispongono di mezzi di tutela molto efficaci: tanto i licenziamenti quanto i provvedimenti disciplinari possono essere impugnati dinanzi al giudice che ha il potere di dichiarali illegittimi e annullarli. Come è risaputo, nei casi previsti dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, l’annullamento del licenziamento comporta il reintegro del lavoratore licenziato in azienda. Questo solo per citare il mezzo di tutela più potente cui può ricorrere il lavoratore.

Anche le situazioni di assegnazione di compiti inferiori al livello di inquadramento contrattuale o di richiesta di qualifica superiore possono trovare tutela, mentre è sicuramente più arduo gestire i problemi di eccessivo carico di lavoro».

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E in questi casi, perché rivolgersi all’avvocato? «Chi esercita la professione forense può fare davvero moltissimo. Può consigliare una linea di condotta da tenere nel momento in cui il lavoratore si rende conto che i rapporti con il proprio datore di lavoro stanno deteriorandosi. L’avvocato può trattare con i legali datoriali per negoziare un incentivo all’esodo in termini economici che consenta al lavoratore di monetizzare la propria uscita dall’azienda, può fornire al lavoratore tutti gli strumenti tecnici per impugnare eventuali provvedimenti disciplinari o atti dispositivi che possono avere grave incidenza sulla vita di un lavoratore: si pensi ad esempio al trasferimento o all’impugnativa di un eventuale licenziamento».

I problemi però non sono unilaterali. Anche le grandi aziende spesso necessitano di avvocati specializzati in questo campo.

«Principalmente si tratta di gestire procedimenti disciplinari o trasferimenti, oppure capita di dover seguire delle procedure complesse per la mobilità o la cassa integrazione. In altri casi invece occorre proprio prendere in mano delle cause già radicate e quindi predisporre l’atto difensivo e seguire il procedimento con la fase istruttoria, eventuali memorie e la discussione finale.

Anche in questi casi la figura del legale è indispensabile e può addirittura essere determinante». L’avvocato diventa così figura tramite per attivare tutti gli strumenti che l’ordinamento dispone a tutela del lavoratore o per attuare tutte le strategie che l’ordinamento mette a disposizione del datore di lavoro per consentirgli di esercitare legittimamente il potere gerarchico, organizzativo e disciplinare di cui dispone.

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Rapporti di lavoro • Giovanni Rositani

La conciliazione nel collegato lavoro L’istituto della conciliazione favorisce il dialogo tra le parti senza vincolarne le soluzioni. Abbraccia principi giuridici, tecniche specifiche, elementi di sociologia e di psicologia. Il punto di vista di Giovanni Rositani di Simona Langone

Il dottore commercialista e revisore contabile Giovanni Rositani esercita a Reggio Calabria www.studiorositani.net

on la legge 183 del collegato lavoro torna ad essere facoltativo il tentativo di conciliazione. «Lo scopo del legislatore, - afferma il dottor Rositani, commercialista e revisore contabile,- è un’immediata attivazione delle parti, sia rispetto ai tempi di proposizione della domanda, sia riguardo all’opportunità di ricercare soluzioni alternative a quelle tradizionalmente offerte dall’ordinamento».

Cosa cambia in concreto rispetto al passato?

«Con la conciliazione introdotta dal collegato lavoro si conclude l’esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione presso le Direzioni provinciali del lavoro, introdotta nel 1998.

In passato il successo delle commissioni di conciliazione è dipeso dalla qualità del lavoro dei vari distretti provinciali.

L’orientamento attuale prevede un ampliamento delle possibili forme conciliative. Il tentativo di conciliazione è ora esperibile dinanzi a organismi conciliativi diversi, attraverso commissioni presso la direzione provinciale del lavoro o facendo ricorso a un collegio di conciliazione e arbitrato formato da un rappresentante per ogni parte e un presidente scelto in accordo tra le parti».

In cosa consiste la tanto discussa “clausola compromissoria”?

«Questa clausola permette la devoluzione a arbitri delle possibili controversie derivanti dal contratto nel quale è contenuta. Le parti ora possono pattuire clausole compromissorie che prevedono la risoluzione delle eventuali future controversie derivanti dal rapporto di lavoro, attraverso il ricorso

alle procedure di arbitrato irrituale, invece che in sede giudiziale. Il lavoratore, quindi, deve impegnarsi a non ricorrere al giudice del lavoro qualora dovesse aprirsi un contenzioso con l’azienda, ma delegarlo a un collegio arbitrale. È una forma “irrituale”, che sta a metà strada tra un accordo e una decisione. L’arbitro può decidere, secondo una propria valutazione di equità, di non applicare norme di legge o di contratto. Questa forma di giustizia “privata”, attuata nella fase della costituzione del rapporto di lavoro, dove la posizione del lavoratore è più debole, per molti costituisce un attacco allo Statuto dei lavoratori. Il lodo arbitrale può essere impugnato solo nei casi di violazione della volontà del lavoratore, questione estremamente complessa da provare, alla base della discussa costituzionalità della clausola compromissoria».

Dalla sua esperienza personale, come giudica ora l’istituto della conciliazione?

«Nell’esperienza quotidiana il professionista utilizza tecniche di approccio, di conversazione, di proposizione di soluzioni, che coinvolgono il campo sociologico, psicologico e umano.

La mediazione è soprattutto un derivato dell’esperienza, poiché dietro i conflitti che alimentano le controversie, non ci sono solo i fatti, ma anche emozioni ed esigenze. La controversia si genera dal conflitto tra le persone piuttosto che da una reale necessità di riconoscimento o negazione di un diritto. Il vantaggio primario è che si può raggiungere un risultato concreto evitando i procedimenti giurisdizionali con ottimizzazione di tempo e denaro».

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C&P • GIUSTIZIA

Conciliazione •Abbondio Causa

Urgono risposte certe Abbondio Causa, presidente di Isdma, analizza la situazione italiana in materia di arbitrato e conciliazione: «panorama normativo in continua evoluzione, occorre divulgare la cultura della mediazione.

Ma se la giustizia non funziona, questa non può rappresentare la panacea di tutti i mali» di Riccardo Casini

forza l’entrata in vigore dell’obbligatorietà prevista dal decreto legislativo 28/2010 e permanendo seri dubbi sull’effettiva partenza della cosiddetta “condizione di procedibilità”, diventa di fondamentale importanza il ruolo dell’associazione che, nel cercare di dare risposte certe a tutti coloro che in un momento di grande confusione di certezze non ne hanno, deve allo stesso tempo proseguire la sua opera di sensibilizzazione, divulgazione e diffusione della cultura della mediazione».

Qual è oggi l’importanza delle pratiche di mediazione e conciliazione in Italia?

«Se facciamo riferimento alle domande gestite dalle Camere di commercio, che rappresentano quasi la totalità delle mediazioni amministrate gestite, l’Osservatorio camerale di Unioncamere indica nell’anno 2009 un numero di 18.642 domande rispetto alle 20.246 del 2008. Altro dato significativo può essere quello delle conciliazioni gestite dai Corecom, nel 2009 circa 43mila. Sono numeri che negli ultimi anni sono cresciuti ma che rappresentano una goccia nell’oceano dei quasi 6 milioni di giudizi pendenti nel nostro paese».

A questo proposito, la mediazione può risultare utile nello snellimento del sistema giudiziario?

«Con l’obbligatorietà prevista dal decreto 28/2010, il Ministero della Giustizia stima in circa 600mila i giudizi che,

efinito in generale con l’acronimo Adr (Alternative dispute resolution, ovvero “risoluzione alternativa delle dispute”), l’insieme delle procedure stragiudiziali è un mondo in continua evoluzione, soprattutto in Italia dove si attende per il prossimo 20 marzo l’entrata in vigore della riforma della mediazione civile e commerciale, che prevede tra le altre cose l’istituzione della conciliazione obbligatoria per controversie come quelle in materia di condominio, successioni ereditarie, riconoscimento del danno da incidente stradale o nautico, responsabilità medica, contratti assicurativi, bancari o finanziari e diffamazione. Novità a parte, già da diversi anni esistono comunque nel nostro Paese enti e organismi deputati alla risoluzione di controversie al di fuori delle aule di tribunale: uno di questi è l’Isdma, un altro acronimo che sta per Istituto per lo studio e la divulgazione della mediazione e dell’arbitrato.

«L’Associazione nazionale conciliatori Isdma – spiega il presidente Abbondio Causa – è nata nel 2005 con lo scopo di essere un punto di riferimento per tutti i conciliatori (ieri), i mediatori (oggi) e per tutti coloro che si avvicinano al mondo della mediazione e degli strumenti Adr in generale».

Ma qual è oggi il ruolo di Isdma?

«In un panorama normativo in continua evoluzione ma con poche certezze, in un contesto nel quale vi è una forte resistenza da parte dell’avvocatura che sta ostacolando con

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Abbondio Causa • Conciliazione

prima di finire in un'aula di un tribunale, transiterebbero attraverso l’esperimento di un tentativo di mediazione. Sicuramente sono numeri interessanti, che potrebbero alleviare il carico dei tribunali, ma che sicuramente non risolverebbero il problema».

Chi fa ricorso principalmente oggi a questi strumenti? Quali sono le cause più frequenti?

«Le statistiche ci dicono che una volta su tre il ricorso è fatto dai consumatori nei confronti delle imprese. Il settore delle telecomunicazioni fa la parte del leone rappresentando oltre il 90% dei casi trattati; ricordiamo però che in questo settore la legge prevede già da tempo l’obbligatorietà».

Quali sono ancora i punti critici in materia?

«Sicuramente uno dei punti critici è rappresentato dall’ostracismo da parte dell’avvocatura in merito all’introduzione dell’obbligatorietà. E non perché si cerca di rinviarla o forse addirittura di minarla, ma perché, senza una cultura della mediazione che sia prima assimilata dagli avvocati e poi trasferita ai propri clienti, il tentativo di ridurre i giudizi potrebbe avere paradossalmente l’effetto opposto».

Ma la direzione verso cui sta procedendo la legislazione italiana è quella giusta?

«Dopo anni di speranze, tentativi e illusioni le scelte fatte dal legislatore italiano in materia di mediazione sembrano avviarsi verso un modello innovativo, recependo le direttive

Sopra, Abbondio Causa, presidente dell’Associazione nazionale conciliatori Isdma

della Comunità europea. Ma credo che, oltre alle opportune correzioni, dopo un periodo di rodaggio dell’esperienza realizzata si debba puntare a una riforma complessiva del sistema giustizia, in quanto in uno stato dove la giustizia non funziona risulta molto difficile risolvere il problema utilizzando la mediazione come la panacea di tutti i mali».

Cosa propongono in merito i vostri corsi di formazione?

«Siamo in grado di offrire una formazione qualitativamente elevata attraverso una didattica moderna e innovativa tesa a far assimilare in aula le nozioni e le tecniche necessarie a formare un mediatore di successo. I contenuti sono quelli previsti dalla normativa vigente, arricchiti da una serie di simulazioni pratiche e dalla proiezione di videosimulazioni tese a un apprendimento più completo e immediato».

Quali sono invece i progetti di Isdma per il 2011?

«I progetti sono quelli di proseguire e ampliare le attività sino a oggi svolte con l’organizzazione di seminari, convegni, corsi di formazione e realizzazioni editoriali tese sempre alla diffusione della cultura in materia di Adr. Ma soprattutto vogliamo essere un punto di riferimento di tutti i mediatori italiani, supportandoli dal punto di vista della tutela come nuovo “professionista” non ancora riconosciuto ma al quale vengono però richiesti una serie di requisiti: professionali, deontologici, di onorabilità, nonché una specifica formazione e un aggiornamento continuo».

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Risoluzione delle controversie • Mariantonietta e Michele Miccoli

La mediazione, un toccasana per l’economia La mediazione civile come strumento alternativo di composizione dei conflitti. Uno dei cambiamenti della riforma del sistema processuale nelle parole degli avvocati Mariantonietta e Michele Miccoli di Maria Elena Casadei

a riforma del sistema processuale e della professione forense hanno tracciato un nuovo ruolo e una nuova funzione dell’avvocatura, intesi diversamente rispetto al passato, ma più in linea con la legislazione europea. Il Decreto Legislativo del 4/3/2010 n°28 e il successivo DM attuativo n°180/2010, hanno introdotto l’istituto della mediazione civile, che costituisce uno strumento alternativo di composizione dei conflitti. Gli avvocati Michele e Mariantonietta Miccoli, che operano in Reggio Calabria trattando vertenze civili e di diritto internazionale alla Corte Europea di Strasburgo, in materia di diritto di difesa, di proprietà e di garanzia dei detenuti, spiegano le diversità tra il sistema giurisdizionale e quello della mediazione. «L’istituto della Mediazione entrerà in vigore il 21/03/2011 prossimo per gran parte delle materie che riguardano diritti di proprietà, e i diritti disponibili. La mediazione consentirà di comporre le controversie civili nella prospettiva di conservare i rapporti tra le parti e di trovare una giusta soluzione a tutela degli interessi reali e sottostanti nei tempi massimi di appena 4 mesi. Il procedimento di mediazione si avvale di una figura diversa da quella del Giudice, cioè di una persona o più persone imparziali che assistono le parti al fine di far loro raggiungere un accordo, assicurando riservatezza, affidabilità e competenza. Il fine che la mediazione persegue, è quello di salvaguardare gli interessi sottostanti e sostanziali che invece non emergono nel sistema processuale vigente che si conclude con una sentenza di condanna».

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Gli avvocati Mariantonietta e Michele Miccoli del foro di Reggio Calabria studiolegalemiccoli@libero.it

La mediazione è stata concepita per dare ampia libertà alle parti per conciliare una vertenza. Tuttavia il legislatore ha previsto solo due limiti all’omologazione del verbale di conciliazione da parte del Presidente del Tribunale: il rispetto dell’accordo alle norme imperative o quelle di ordine pubblico.

Per l’avvocatura, l’entrata in vigore del nuovo istituto, è quindi positiva. «Basti considerare che i tempi di risoluzione sono circoscritti a 4 mesi, e finalmente il cittadino si sentirà appagato per avere definito una controversia rapidamente.

Se a ciò si aggiunge che il procedimento è semplificato, esente da bolli, da registrazione fino al valore di €.50.000, l’avvocato può vedere concretamente realizzati quei desideri per i quali per decenni ha sempre combattuto. Inoltre la mediazione non è di ostacolo alla possibilità di accesso alla giustizia tradizionale. Una delle finalità della mediazione è quella di deflazionare il numero dei giudizi e favorire la presenza in Italia di imprese, che oggi sono in fuga verso paesi dove la giustizia funziona meglio e in tempi rapidi. Di conseguenza si avrà l’effetto di migliorare l’economia. In tale ottica, l’avvocatura assumerà un ruolo fondamentale. Infatti, con la presenza tecnica del difensore si potrà agevolare la risoluzione delle controversie».

E la mediazione cosa rappresenta per lo studio Miccoli? «Abbiamo abbracciato con fervore il procedimento di mediazione e Mariantonietta ha persino dato vita all’ANGEC, Associazione Nazionale Gestione Conflitti, di cui è Presidente, che opera in molte sedi italiane».

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Strumenti giuridici • Giuseppe Verduci e Giuseppe Strangio

La mediazione civile e commerciale Da quest’anno verrà adottato lo strumento della mediazione civile e commerciale. Giuseppe Strangio, avvocato cofondatore dell’Ismed, spiega come abbattere le lungaggini dei processi di Nicoletta Bucciarelli

Da sinistra, Giuseppe Verduci e Giuseppe Strangio www.ismed.it

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al mese di marzo 2011 verrà generalizzato il ricorso allo strumento della mediazione civile e commerciale obbligatoria. Si tratta di una riforma probabilmente decisiva per modernizzare la giustizia civile nel nostro Paese. L'Istituto di Mediazione Civile e Commerciale – Ismed, società privata fondata da GiuseppeVerduci e Giuseppe Strangio, nasce per soddisfare le esigenze di celerità, efficienza ed economicità nello svolgimento della nuova mediazione civile. «L’Ismed – spiega Strangio – opera per promuovere la mediazione ed è presente in ogni regione d'Italia. La mission aziendale è quella di garantire un servizio improntato alla piena riservatezza, trasparenza e imparzialità».

La mediazione civile può abbattere le lungaggini dei processi?

«Ismed nasce proprio per questo, per promuove il cambiamento che la mediazione imprimerà alla Giustizia in Italia, favorendo lo sviluppo di un approccio alle controversie orientato ai moderni sistemi di Adr (Alternative Dispute Resolution), già molto diffuso nel resto d'Europa e del mondo».

Quali sono i vantaggi per cittadini e imprese con il ricorso alla mediazione?

«Le parti in mediazione avranno un servizio tempestivo e qualificato, un canale preferenziale, orari d'accesso flessibili e alte percentuali di successo».

Ci sarà un effetto deflativo per il carico giudiziario pendente?

«Certamente, la mediazione può essere demandata dal giudice anche in corso di causa, ma sarà decisivo il ruolo dei mediatori abilitati, che saranno il vero motore del cambiamento. Noi puntiamo sulla formazione e sulla qualificazione permanente dei nostri mediatori che selezioniamo e che entrano a far parte del nostro Albo».

Lei è presidente dell’Associazione italiana di Mediazione civile (Asimec), di cosa si tratta?

«L’Associazione raccoglie organismi di mediazione e di formazione di istituiti privati in tutta Italia, e tende a rafforzarne e coordinarne l’iniziativa oltre che a sostenere e promuovere la mediazione civile. L’Associazione intende operare a stretto raccordo con tutti i soggetti istituzionali coinvolti, a partire dal Ministero della Giustizia, per rendere sempre più efficace e produttivo il ricorso al nuovo istituto della mediazione».

Gli organismi di mediazione sono pronti ad affrontare un impegno simile?

«Noi eravamo già pronti da tempo. Anzi, abbiamo atteso a lungo che la mediazione civile obbligatoria vedesse la luce anche in Italia. E ora, ci auguriamo che il guardasigilli Alfano resista alle pressioni corporative che mirano ad un immotivato e tardivo rinvio dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento gius-civilistico italiano e che operi, invece, coinvolgendo associazioni come Asimec, che possono dare un valido contributo alla crescita e alla diffusione dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie».

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Conciliazione • Aldo Stesuri

Sulla conciliazione occorre informare meglio i cittadini Secondo Aldo Stesuri, segretario della camera arbitrale della Fondazione dottori commercialisti di Milano, nell’immediato futuro «è ipotizzabile un trend crescente» nel ricorso a questo strumento ma occorre «una capillare informazione sulla procedura, sugli effetti e sui possibili vantaggi in termini di tempo e di risparmio fiscale» di Riccardo Casini

ostituita nel 1993 con l’obiettivo di promuovere e diffondere a Milano e nella Lombardia la conoscenza dell’economia, del diritto civile e fiscale, delle norme contabili e in generale di tutti i saperi che concorrono allo sviluppo delle imprese e della società civile, la Fondazione dei dottori commercialisti di Milano ospita al suo interno dal 2005 una camera arbitrale e di conciliazione per la risoluzione di controversie tramite queste procedure stragiudiziali. Ma in cosa consiste precisamente oggi la sua attività? Lo spiega con Aldo Stesuri, che di questa Camera è il segretario.

«Qui – spiega – nel 2010 le pratiche di conciliazione e arbitrato sono aumentate del 200% rispetto al precedente anno.

Certamente è possibile affermare che esiste una maggiore attenzione da parte degli utenti del sistema giustizia per i sistemi di Adr ed è ipotizzabile un trend crescente nel ricorso a tali strumenti alternativi alla giustizia ordinaria, soprattutto per quanto concerne la conciliazione».

Quali sono i principali tipi di controversie che vi trovate ad affrontare?

«Si tratta in particolare di controversie contrattuali, societarie e risarcitorie. In particolare si sono rivolti al nostro organismo sia privati, sia professionisti, sia società di grandi e di medie dimensioni. Anche i valori dei contenziosi trattati

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Sotto, Aldo Stesuri, segretario della camera arbitrale e di conciliazione della Fondazione dottori commercialisti di Milano

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Aldo Stesuri • Conciliazione

in più occasioni sono stati rilevanti».

Ma perché rivolgersi alla vostra camera? Quali i vantaggi rispetto agli altri enti conciliatori?

«I principali vantaggi sono la velocità dei procedimenti, le specifiche competenze dei professionisti che sono coinvolti come mediatori e l’esistenza contestuale presso la nostra sede di un organismo di formazione, riconosciuto dal Ministero, che garantisce un’adeguata preparazione pratica e teorica nonché l’aggiornamento costante anche della maggior parte di coloro che svolgono presso la nostra camera il ruolo di mediatore. E non dimentichiamo la possibilità di usufruire di tariffe del tutto concorrenziali».

Quali risultati ha portato finora il progetto “Conciliamo”?

«Purtroppo non sono stati monitorati in modo dettagliato. Ma ci pare che il progetto abbia già avuto un ruolo chiave per la diffusione della conoscenza della conciliazione: come noto, infatti, uno degli obiettivi del progetto è quello di facilitare l’accesso alla conciliazione indirizzando le parti verso organismi, diversi dal giudice, competenti a gestire la conciliazione.

Le potenzialità reali del progetto però saranno realmente apprezzabili solo nei prossimi mesi, e in particolare allorché dovesse rendersi effettiva la conciliazione obbligatoria».

A proposito, che effetti potrebbe avere l’avvio della C&P • GIUSTIZIA

riforma della mediazione civile e commerciale?

«La riforma favorirà lo sviluppo della conciliazione, ma un giudizio sull’attuazione della conciliazione stessa potrà essere dato solo dopo i primi mesi di applicazione. Certamente, nel caso in cui entrasse in vigore già dal mese di marzo la conciliazione di natura obbligatoria, si registrerà una crescita esponenziale del numero di conciliazioni trattate».

Ma quali sono ancora oggi le difficoltà nella gestione di questa procedura stragiudiziale?

«Il profilo da potenziarsi è quello della diffusione della conoscenza della conciliazione, attraverso la sua diffusione a un pubblico di utenti il più ampio possibile. Spesso le parti sono chiamate in conciliazione ma non hanno ancora una conoscenza corretta e completa dell’istituto e dei corretti comportamenti negoziali da tenere nel corso della mediazione. Un compito altrettanto importante è giocato dal ruolo informativo dei professionisti che assistono le parti: un ulteriore aiuto in questo senso dovrebbe essere garantito dalle associazioni di categoria. Di certo, solo attraverso una capillare informazione sulla procedura, sugli effetti e sui possibili vantaggi in termini di tempo e di risparmio fiscale si potrà determinare un diverso approccio e un ampio ricorso e utilizzo di tale istituto, che appare del tutto innovativo nel nostro panorama giuridico».

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Conciliazione • Aldo Rivela

Formazione continua All’interno dell’Istituto regionale “Arturo Carlo Jemolo” opera dal 2007 un organismo di conciliazione.

Ma la struttura si occupa soprattutto di preparare nuovi professionisti del settore: in tre anni oltre 250 persone hanno frequentato i suoi corsi di Riccardo Casini

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ato nel 1992, l’Istituto regionale di studi giuridici del Lazio “Arturo Carlo Jemolo” è un ente pubblico regionale che si occupa prevalentemente di formazione per neolaureati, dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni, della preparazione ai concorsi per magistratura e avvocatura e di alta formazione nelle materie giuridiche.

Al suo interno, dal 2007, opera però anche l’omonimo organismo di conciliazione, riconosciuto dal ministero di Giustizia: l’organismo, attualmente l’unico pubblico iscritto nel registro ministeriale a parte le Camere di commercio, gode di autonomia funzionale, e alla sua amministrazione concorrono rappresentati degli enti locali, dell’imprenditoria, della magistratura e degli avvocati. Della sua attività parliamo con Aldo Rivela, già segretario generale della Regione Lazio e oggi commissario straordinario dell’istituto.

«Attualmente – spiega – in attesa dell’auspicata obbligatorietà della conciliazione ai sensi del decreto ministeriale 180/2010, principalmente si rivolgono all’organismo gli studi legali che propongono volontariamente ai propri assistiti una via alternativa a quella giudiziale per risolvere le controversie, o anche i privati cittadini che già sono a conoscenza dell’opportunità della mediazione. Inoltre è importante ricordare che lo Jemolo è nel circuito continuo che si è costituito tra gli organismi di conciliazione di diverse città e regioni per lo scambio di competenze territoriali».

Cosa comporta questo? «È capitato che si sia rivolto a noi un organismo operante in Lombardia per far espletare il tentativo di conciliazione dal nostro organismo, poiché a Roma ha sede legale una delle parti della controversia».

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Aldo Rivela • Conciliazione

Ma quali sono le più frequenti materie delle controversie?

«Le più svariate materie dei diritti disponibili: successioni, proprietà, liti condominiali, rischio clinico, incidenti stradali, forniture di servizi, in particolare nei confronti dei gestori di telefonia e fornitori di luce e gas. Fino a oggi il nostro organismo di conciliazione ha avviato 44 controversie, di cui 5 andate a buon fine nel 2010».

Queste nuove forme di arbitrato possono veramente essere utili nello snellimento del sistema giudiziario?

«Sì, possono contribuire al deflazionamento delle cause pendenti nei tribunali civili e soprattutto, dando risposte concrete in tempi brevi alle parti, possono aiutare a riacquistare la fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia».

Quali sono i vantaggi e quali ancora oggi le difficoltà nella loro gestione?

«I vantaggi della giustizia alternativa sono quelli della celerità e dell’economicità, ma non solo: il meccanismo alla base della mediazione è il “win to win”, e ciò significa che al termine di una conciliazione non c’è un vincitore e un perdente, bensì ambedue le parti vedranno soddisfatto un loro interesse. Le difficoltà invece sono dovute alla lentezza con Sotto, Aldo Rivela, commissario straordinario dell’Istituto “Arturo Carlo Jemolo”.

Nella pagina a fianco, un’aula dell’istituto durante un corso

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la quale nel nostro Paese si sta diffondendo la cultura della mediazione, che a onor del vero è propria degli ordinamenti giuridici basati sulla Common Law, e all’incertezza dei tempi sull’entrata a regime dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione nelle materie previste dal legislatore».

L’Istituto però svolge anche un’importante attività formativa.

«Il percorso formativo è rivolto ai laureati nelle discipline giuridiche economiche o in possesso di un titolo accademico equipollente e si propone, da un lato, di fornire ai partecipanti – attraverso una metodologia teorico-pragmatica – tutti gli insegnamenti di carattere teorico relativi alle recenti evoluzioni legislative in materia di conciliazione; dall’altro tende ad arricchire le competenze anche trasversali dei discenti attraverso lo studio e la sperimentazione delle più moderne tecniche di negoziazione, conciliative e comunicazionali applicate alla soluzione delle liti e per la gestione delle situazioni più complesse durante la procedura conciliativa».

Quanti sono stati i partecipanti ai vostri corsi nel 2010?

«Nel 2010 abbiamo avuto 127 allievi che hanno seguito corsi per 230 ore complessive di lezione. Ma l’attività formativa dell’Istituto in questo settore è iniziata nel 2007 e ha formato complessivamente 252 allievi che hanno seguito corsi per 492 ore. L’organismo di conciliazione Jemolo poi ha un suo Albo di conciliatori e attualmente ha raggiunto un totale di 83 iscritti abilitati a svolgere attività di mediazione nei contenziosi di natura civile».

Quali sono i progetti dell’Istituto per il 2011?

«L’Istituto Jemolo dà un valido contributo nel settore formativo da quando, nel 2007, ha ottenuto l’accreditamento del Ministero della Giustizia come scuola professionale per i “conciliatori”. Sul Bollettino ufficiale del Lazio dello scorso 14 febbraio è stato poi pubblicato il bando per la selezione dei 30 partecipanti al prossimo corso per mediatori che inizierà a marzo. L’Istituto continuerà, quindi, sia a puntare sulla formazione, sia a incentivare la diffusione di una cultura della mediazione, contribuendo all’affermazione, nella Regione Lazio, delle procedure conciliative».

Non si tratta di una novità per voi.

«Negli scorsi anni quest’ultimo obiettivo è stato perseguito non solo promuovendo e organizzando convegni e seminari sulla giustizia alternativa, ma soprattutto attraverso un progetto pilota della Regione Lazio e del Tribunale civile di Roma, nell’ambito del quale l’Istituto Jemolo gestisce, fornendo il personale adeguatamente formato per dare informazioni al pubblico, un punto informativo sulla conciliazione aperto presso il Tribunale di Roma».

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Conciliazione • Tiziana Pompei

Evitare lo slittamento Unioncamere ha presentato al ministro della Giustizia Alfano un documento congiunto con le confederazioni imprenditoriali e gli ordini professionali per chiedere che venga rispettata la data di avvio del 20 marzo 2011 per il decreto su mediazione civile e arbitrale di Riccardo Casini

embrava certa l’entrata in vigore della riforma della mediazione civile e commerciale prevista per il prossimo 20 marzo. Poi, una serie di veti e l’ipotesi di uno slittamento contenuto nel decreto Milleproroghe: proprio a questo proposito nei giorni scorsi è arrivato sulla scrivania del ministro della Giustizia un documento contro il rinvio della riforma, nel quale si sostiene che questa «rappresenta un’occasione importante per ridurre il contenzioso e tutelare gli interessi del mercato» e che «sarebbe auspicabile che tutte le norme, comprese quelle sulla condizione di procedibilità e sui criteri per la determinazione delle indennità di mediazione, potessero essere oggetto di sperimentazione fin da subito». Tra i firmatari del documento, oltre a confederazioni imprenditoriali e ordini professionali, anche Unioncamere, che tramite le varie Camere di Commercio sul territorio nazionale, offre servizi di conciliazione e arbitrato. «Per quanto riguarda la prima – spiega Tiziana Pompei, vicesegretario generale di Unioncamere – la diffusione del servizio è molto capillare e riguarda ogni Camera di Commercio, e quindi tutte le 105 province italiane. Per l’arbitrato invece abbiamo 69 camere arbitrali sul territorio che coinvolgono in totale 81 Camere di Commercio, dal momento che alcune sono gestite in forma associata. Nel 2010 abbiamo gestito circa 18mila domande di conciliazione, di cui più di 4mila tra imprese e oltre 13mila tra imprese e consumatori. Ma se la gran parte resta in materia di consumo, il fatto che oggi siano

Foto Imagoeconomica

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Tiziana Pompei, vicesegretario generale di Unioncamere

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C&P • GIUSTIZIA

Tiziana Pompei • Conciliazione

Nei tempi e nella certezza del diritto l’Italia è molto indietro. E questo costituisce un limite, per non dire un deterrente, anche per le imprese estere che vogliono insediarsi nel nostro Paese

aumentate anche le prime è un segnale che registriamo positivamente».

Ma quali sono i principali tipi di controversie tra imprese? E tra imprese e consumatori?

«Tra queste ultime, la maggior parte è in materia di telecomunicazioni (78%), mentre quelle tra imprese riguardano soprattutto commercio, turismo e artigianato. Il valore medio delle conciliazioni concluse invece è stato di 14mila euro, e la durata media di 68 giorni: un dato lievemente superiore al 2009, giustificato dal valore medio e dalla tipologia di conciliazioni, indubbiamente più impegnative».

Come giudicate questi dati?

«Si tratta di dati soddisfacenti, ma ancora scarsi se pensiamo al numero di cause pendenti, che secondo il ministro Alfano in Italia sono ancora 5 milioni 600mila. La conciliazione non può assorbire tutte queste domande, ma se vi si facesse un maggiore ricorso tutto il sistema giustizia ne trarrebbe sicuramente giovamento».

Quale ruolo potrebbe avere allora l’introduzione della riforma che rende la mediazione obbligatoria nonché “condizione di procedibilità nel processo”?

«Secondo le stime del Ministero con questa riforma potrebbero arrivare subito 600mila controversie nei vari uffici, un numero enormemente maggiore rispetto a quello attuale. Il solo fatto poi che la riforma abbia introdotto una serie di norme chiare sulla conciliazione in materia civile e commerciale è di per sé positivo, anche se la vera grande novità è proprio la condizione di procedibilità. Ci auguC&P • GIUSTIZIA

riamo che questa riforma possa partire e avere quell’effetto culturale di diffusione della conciliazione, che noi abbiamo già cercato di favorire con iniziative di comunicazione e formazione. Insomma, si spera che, se la prima volta vi si ricorre perché obbligati, in seguito lo si faccia perché nel frattempo si è capito che si tratta di un vantaggio».

La vostra difesa si è concretizzata anche nel documento congiunto presentato al ministero della Giustizia.

«Di fronte alle richieste di slittamento avanzate dagli avvocati, abbiamo deciso di farci sentire: siamo contrari perché pensiamo che si tratterebbe di un’occasione mancata.

E dall’altra parte siamo preoccupati perché la maggior parte dei processi di conciliazione potrebbe riversarsi sulle Camere di commercio: sia chiaro, non ci tiriamo indietro, anzi ci stiamo organizzando. E su questo abbiamo fatto investimenti importanti da molti anni. Ma ci aspettiamo che anche altri ordini professionali facciano la loro parte, anche perché in Italia il rischio è sempre quello che poi le proroghe si perpetuino in eterno».

Ma quale tipo di convenienza garantisce per un’impresa una vostra camera arbitrale rispetto ad altri enti?

«Vi sono diversi vantaggi. Per la conciliazione garantiamo costi ridotti, tempi certi e regole predefinite; inoltre, facendo ricorso alla conciliazione amministrata, è possibile conoscere in anticipo aspetti come quello tariffario. Oltre a questo, non va dimenticato come le imprese abbiano spesso vita difficile a causa dei tempi della giustizia, per i quali spesso perdono competitività: non avere tempi certi nella gestione delle controversie, infatti, influenza l’operatività.

Poco tempo fa un’indagine ha mostrato come nei tempi e nella certezza del diritto l’Italia sia molto indietro. E questo è un limite, per non dire un deterrente, anche per le imprese estere che vogliono insediarsi nel nostro Paese».

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Fisco • Claudio Siciliotti

Più fiducia tra Stato e cittadino Un fisco equo e sostenibile.

Che persegue un obiettivo: «ottenere un Paese migliore».

Lo afferma Claudio Siciliotti, presidente dell’Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili

Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti e degli esperti contabili

di Francesca Druidi

ono quattro le proposte di legge avanzate dai commercialisti: innanzitutto inserire in Costituzione lo statuto del contribuente e poi la certificazione degli asset di un’azienda da parte di commercialisti iscritti in un apposito elenco della Camera di Commercio, per un rapporto fiduciario migliore tra banche e Pmi. Le altre proposte riguardano la liberazione dai debiti delle micro realtà economiche e le società per i professionisti. «I riscontri che abbiamo avuto sono stati tutti positivi – commenta Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili – ci è stata riconosciuta da tutti una capacità propositiva unica nel panorama delle categorie professionali». Certo, come ricorda Siciliotti, l’attuale contesto di instabilità politica non aiuta a fare in modo che questi progetti possano in tempi rapidi convertirsi in provvedimenti concreti. «Noi comunque faremo tutto quanto nelle nostre possibilità per non far calare l’attenzione sulle nostre proposte».

La semplificazione sembra essere la parola chiave della nuova riforma fiscale. Da quali temi non si potrà in alcun modo prescindere?

«La semplificazione è sicuramente una direttrice di riforma importante e posso assicurare che i primi a desiderare ardentemente un sistema fiscale più semplice sono coloro che, come i commercialisti italiani, si scontrano ogni giorno con le farraginosità talvolta ottuse del nostro sistema fiscale. Chi pensa che su quelle complicazioni categorie come la nostra fondino le proprie fortune, davvero non capisce nulla. Per quanto semplice, un sistema fiscale evoluto mantiene sem-

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pre un livello minimo di complessità che rende necessaria e utile al paese e ai cittadini la figura di un esperto fiscale. È la complessità inutile ed evitabile che ammazza il sistema e, in primis, chi se ne occupa in modo professionale. Ciò detto, ritengo che nel quadro attuale ci siano alcune direttrici d’azione ancora più importanti di quelle di semplificazione».

Ad esempio?

«Il nostro è un fisco iniquo che premia chi possiede e penalizza chi produce e che, attraverso imposte genuinamente demenziali come l’Irap premia chi esternalizza e delocalizza rispetto a chi garantisce occupazione e posti di lavoro. Il punto centrale oggi è il lavoro e la produzione: quella deve essere anche la principale direttrice della riforma fiscale».

Lei ha usato il significativo slogan “un fisco leggero con sanzioni pesanti” per chiarire l’idea di fisco che vorrebbe. Come sarà possibile raggiungere questi obiettivi?

«Creando un clima di fiducia tra cittadino e Stato, prima che tra contribuente ed Erario. In un Paese in cui i cittadini non credono davvero che chi li rappresenta si preoccupa dei loro problemi prima che dei propri, è assai difficile che la naturale propensione egoistica che fa da sfondo all’evasione fiscale, possa ridursi anziché esplodere ulteriormente. Mi lascia sempre stupefatto vedere i due pesi e le due misure con cui viene trattata l’evasione fiscale, da un lato, e una serie di altri riprovevoli comportamenti dall’altro. Metterla anche sul piano etico, quando addirittura non su quello religioso, ci può anche stare per quanto mi riguarda, ma perché allora su tutta una serie di altri comportamenti si ritiene di dover escludere l’etica dal novero C&P • GIUSTIZIA

Claudio Siciliotti • Fisco

dei parametri di giudizio? Quello fiscale, lo ribadisco, è solo una sfaccettatura patrimoniale del ben più ampio e pregnante rapporto che lega un cittadino al suo Paese».

Si sta aprendo in Italia una nuova stagione del rapporto tra contribuenti e fisco? In quale direzione si posiziona la vostra proposta di elevare a rango costituzionale lo Statuto del contribuente?

«Nel senso di creare un minimo comune denominatore di regole che non siano soltanto condivise, ma anche certe e inderogabili. In questi anni, lo Statuto del contribuente è stato derogato talmente tante volte, a danno del cittadino, per mere esigenze di cassa, da contribuire quasi di più ad accrescere nei cittadini l’indignazione e la consapevolezza dell’essere spesso trattati come sudditi, piuttosto che la soddisfazione di vivere in uno Stato di diritto. Elevando a norma di rango costituzionale i principi dello Statuto si ovvierebbe a questo drammatico inconveniente e si lancerebbe un chiaro segnale nel senso della creazione di quel clima di fiducia di cui abbiamo fatto cenno prima».

Federalismo fiscale e lotta all’evasione fiscale.

Leve fondamentali per il futuro del Paese. Quali le criticità ancora da affrontare?

«Per quanto riguarda il federalismo fiscale, ci sembra che sia troppo sbilanciata l’attenzione verso l’autonomia impositiva, ossia la possibilità per regioni ed enti locali di introdurre tributi propri. Molto più rilevante è, invece, l’autonomia finanziaria, ossia la diretta titolarità del gettito di tributi che, per il resto, possono anche rimanere concepiti a livello centrale, evitando tra l’altro in questo modo una vera e propria proliferazione di leggi di imposta che C&P • GIUSTIZIA

potrebbe portare a una “Babele fiscale” ingestibile. Per quanto riguarda la lotta all’evasione, le criticità sono due.

La prima: gli obiettivi di recupero sono talmente elevati da rendere altrettanto elevato il rischio che l’amministrazione finanziaria possa esasperare le situazioni di conflitto anche in situazioni dove la pretesa erariale è tutt’altro che certa.

Questo rischio esiste tanto più perché i nuovi mezzi messi a disposizione, dal redditometro che sembrerebbe venire trasformato in una sorta di studi di settore per famiglie, agli accertamenti direttamente esecutivi per la riscossione, sbilanciano non poco a favore del fisco il rapporto con il contribuente».

Mentre la seconda criticità?

«Se davvero vogliamo dare un senso al motto “pagare tutti per pagare meno” bisognerebbe allora cominciare a utilizzare almeno parte delle somme recuperate dall’evasione ai fini della riduzione delle imposte a chi già le paga. E, nonostante gli slogan, questo continua a non avvenire, quale che sia la maggioranza di turno al governo».

Si può parlare sempre più di un’evoluzione del ruolo dei commercialisti da fiscalisti a consulenti strategici delle aziende?

«In verità noi non siamo mai stati dei meri fiscalisti e siamo da sempre il principale consulente strategico delle aziende, grazie alla nostra formazione multidisciplinare.

L’avvocato segue una causa, il notaio segue un atto, il consulente del lavoro segue le paghe e le questioni concernenti la gestione del personale, ma chi da sempre segue l’azienda a 360 gradi è il commercialista. Anche per la consulenza fiscale, ovviamente, ma di certo non solo».

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Tra imposte, tributi e contributi • Antonello Prototipo

Diamo liquidità alle imprese Molte piccole aziende sono in crisi.

Quelle del Mezzogiorno faticano ancora di più. Secondo Antonello Prototipo, ai consueti piani di recupero del credito vanno affiancate riforme concrete di Lucrezia Gennari

Il dottor Antonello Prototipo nel suo studio di Napoli studioprototipo@libero.it

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anca liquidità alle piccole imprese. Soprattutto a quelle del Mezzogiorno che, parallelamente alla recessione, affrontano altre difficoltà congenite.

Alle problematiche indotte dalla crisi generale, secondo Antonello Prototipo, si aggiunge la scarsa capacità da parte degli istituti di credito a finanziare le aziende, aggravando ulteriormente situazioni forse già compromesse. «Inoltre - afferma Prototipo -, considerando che l’impresa con le diminuite risorse di cui dispone, tende a pagare in primis i fornitori e i dipendenti, può capitare, arretrandosi con i pagamenti di imposte, tributi e contributi, di far scadere anche i brevissimi tempi concessi per sanare bonariamente i propri debiti con l’erario». Spesso poi, illustra Prototipo «l’imprenditore che aspetta un bonifico da un cliente viene raggiunto da una comunicazione del cliente stesso che lo informa di non poter procedere al pagamento prima d’aver provata l’estinzione del debito esattoriale, in seguito a una procedura cautelare attuata dall’esattore Equitalia Polis».

Vista la scarsa liquidità è sempre più frequente l’utilizzo dello strumento del recupero del credito.

Quando interviene l’avvocato in questo senso?

«Interpellare il legale per l’iter di recupero resta una estrema ratio, da destinare a quel tipo di clienti con cui si mette in conto di non dover, e non poter più lavorare oltre. Le lungaggini dei tempi della giustizia, rendono spesso antieconomico l’iter legale, che richiede anticipi per spese e competenze, quando magari il debitore resta insolvente. Un ulteriore paradosso, tipico del nostro territorio».

Trova che ci siano sostanziali differenze in questo senso tra Nord e Sud? «La nostra nazione è divisa in territori, che giocano nello stesso mercato, ma con regole, termini e aliquote diverse e, quindi, con costi diversi tra loro. Sulla base di un breve sondaggio, eseguito confrontandomi con altri colleghi del nord, ho rilevato che, uno stesso istituto bancario, in una stessa operazione di affidamento su conto corrente, ad aziende di simili dimensioni, adotta differenti aliquote, e applica tassi d’interesse maggiori alle aziende del sud, anche del 20 - 30% in più».

Crede si stiano attuando delle riforme per favorire le imprese?

«In occasione della manovra correttiva, il governo ha emanato una serie di norme utili a fronteggiare la crisi, ma in realtà tutti i provvedimenti attuati si riferivano a come potesse essere agevolata la riscossione delle imposte e tributi da parte dello Stato. L’unica norma a favore delle aziende per superare la crisi era un provvedimento che prevedeva la possibilità per le aziende creditrici di compensare i propri crediti scaduti, vantati nei confronti di Enti pubblici, Stato, regioni, province, comuni. Per far partire questa provvedimento bisognava solo attendere le misure attuative, da emanare, a tema di legge, entro 180 giorni dalla pubblicazione del decreto. I 180 giorni sono scaduti nel novembre 2010. Nessuna misura attuativa è stata emanata».

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C&P • GIUSTIZIA

Fisco e tributi • Salvatore Rijli

L’avvocato tributarista come mediatore Secondo l’articolo 53 della Costituzione tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. L’avvocato Salvatore Rijli spiega perché questo principio costituzionale non funziona nel nostro paese di Nicoletta Bucciarelli

L’avvocato Salvatore Rijli esercita la professione forense a Reggio Calabria salvatorerijli@libero.it

on è facile affrontare l’argomento del fisco, una “scommessa” che viene da lontano e che non ha ancora trovato un assestamento soddisfacente». Parte con cautela Salvatore Rijli, avvocato calabrese e, a buon diritto, esperto della materia. Il punto su cui inevitabilmente si torna è sempre lo stesso: la crescita dell’evasione dell’Iva e il ciclone di fattori a catena che si innesca.

Numerosi e diversi sono stati i tentativi di allargare la platea dei contribuenti attraverso l’introduzione di regimi forfettari.

«Dopo tanto peregrinare, pur continuando a rinviare il macroscopico problema della grande evasione, si è deciso di utilizzare l’accertamento sintetico, meglio conosciuto come redditometro». Tramite questo sistema si risale al reddito attraverso un’analisi delle manifestazioni di capacità contributiva. I destinatari sono le persone fisiche che sulla base di elementi e circostanze di fatto certi, fanno presumere una capacità di spesa che deve però trovare giustificazione nel reddito imponibile dichiarato.

«Se si è arrivati a tutto questo viene da pensare che alcuni principi costituzionali, quale quello della solidarietà, esplicitamente richiamato dall’art.53 della Carta, non hanno avuto molti seguaci nel nostro Paese». Prosegue l’avvocato Rijli: «in altri Paesi dell’Unione europea, Francia e Germania ad esempio, molti obblighi sono puntualmente osservati dai cittadini senza lo stress vissuto dagli italiani. In Italia, occorre

invece sottoporsi ai vari gradi di giudizio, pur se il sistema offre diversi istituti alternativi per regolare le controversie».

Secondo l’avvocato Rijli è indispensabile compiere un salto di qualità notevole, «ossia occorre che ogni funzionario che firma un accertamento sostanziale abbia idonee credenziali, cioè la capacità e la responsabilità del giudice. Tale capacità si richiede anche per gli organi che collaborano con l’amministrazione civile. In tutto ciò si inserisce il difficile compito dell’avvocato tributarista che tenta di mediare una partita tra attori molto diffidenti l’uno dell’altro. Il dialogo è di per sé ostico perché la capacità decisionale viene frenata e racchiusa nel limbo della paura di incorrere in qualche procedimento. Pesa moltissimo infatti lo spettro della Corte dei Conti. Per cui, forse, non guasterebbe un tentativo di conciliazione gestito da un collegio di esperti a composizione mista».

La speranza secondo Rijli è che si arrivi a una normale dialettica tra le parti coinvolte. «Speranza che viene dalla Francia, dove i commercialisti sono 6000 circa (in Italia 130.000 ca), l’evasione si aggira intorno ai 10 mld (in Italia supera i 200 mld) e dove la dichiarazione viene compilata dal Fisco grazie ai dati trasmessi dal contribuente. Ma ciò che ci auguriamo veramente è che i governanti di tutti i Paesi rompano il muro di omertà che copre i movimenti di ricchezze occulte e si aprano alle informazioni e alle indagini provenienti dagli altri Paesi».

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C&P • GIUSTIZIA

Imprese e burocrazia • Angelo Bugané

Nuovi assetti societari Cambiano le strategie delle piccole e medie imprese. E, di conseguenza, cambia l’approccio del commercialista nei loro confronti.

Angelo Bugané analizza un quadro in cui il mercato detta i mutamenti alla categoria professionale di Nicoletta Bucciarelli

settori economici e fiscali si stanno sempre più evolvendo e specializzando. Questo richiede un importante e costante aumento di professionalità da parte del professionista che allo stesso tempo tende a stringere un rapporto sempre più stretto con l’assistito. «È come giocare una continua partita a scacchi in cui ogni mossa dell’imprenditore viene condivisa con il commercialista». Sono le parole di Angelo Bugané, dottore commercialista e revisore legale con studio in Milano. .Tra le attività che svolge spiccano consulenza societaria, assistenza e rappresentanza tributaria, revisione, risk management per Sim e Sgr. In attività dagli anni 80, ha eseguito centinaia di operazioni societarie straordinarie , assetti societari internazionali e non ha mai trascurato il contenzioso tributario, giudicato una grande prerogativa della professione.Tutto portato avanti con la stessa passione iniziale «Dopo trent’anni di professione sono ancora entusiasta dell’attività che svolgo. Lo studio di nuovi assetti societari o la discussione davanti ai Giudici tributari, con successo, di un ricorso particolarmente impegnativo mi danno ancora una grande soddisfazione».

Soprattutto sotto quali aspetti è mutata la sua professione?

«La specializzazione in atto in ogni settore, economico e fiscale, ha imposto un costante aggiornamento della professionalità. Il valore aggiunto del professionista si è incrementato in maniera esponenziale, l’assistenza al cliente è “personalizzata”.

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Il cliente e il professionista sono legati in maniera quasi indissolubile».

Come è cambiato il suo approccio nei confronti delle imprese?

«Come ho già detto, c’è un contatto costante e in questo siamo supportati, fortunatamente, dalle comunicazioni multimediali.

Le strategie economiche, finanziarie e fiscali sono oggetto di condivisione, ogni scelta deve avere una strategia studiata di medio-lungo periodo. La consulenza quasi quotidiana è all’ordine del giorno anche nelle piccole imprese. Quindi l’approccio nei confronti delle imprese è di offrire una consulenza continua con standard di qualità elevati e a largo raggio, non trascurando gli aspetti umani della relazione, insomma bisogna creare la migliore sintonia con il cliente».

In quali termini la crisi che stiamo vivendo ha ridisegnato gli assetti societari? «È notizia recente che ogni mese chiudono circa 500 attività (dati dell’anno 2010). Stiamo vivendo una crisi profonda e io sinceramente non vedo segnali positivi a breve. Il contenimento dei costi avviene in tutti i campi. Gli assetti societari si stanno velocemente snellendo; le costruzioni complesse e internazionali si stanno razionalizzando e si porge molta più attenzione alle prospettive future di permanenza dell’azienda sul mercato, sia con avvicendamenti generazionali che con strumenti adeguati di futuro mantenimento della proprietà. Le strategie sono orientate al maggior risparmio. Bisogna sottoliC&P • GIUSTIZIA

Imprese e burocrazia • Angelo Bugané

Il dottor Angelo Bugané, commercialista e revisore legale, esercita a Milano angelo.bugane@studiobugane.com

Molti nuovi adempimenti appesantiscono e rallentano le strutture aziendali. Costi inutili che non possono che ricadere sulla collettività

C&P • GIUSTIZIA

neare inoltre che il sistema economico italiano è “particolare” e tale peculiarità, ben assistita dai professionisti italiani tutti, ha consentito di meglio affrontare, fino ad ora, la drammatica crisi che attanaglia l’economia mondiale; non mi sento di esprimere un giudizio negativo sul nostro paese, anzi».

Dal suo punto di osservazione quanto la burocrazia e le incertezze del nostro sistema giuridico incidono sugli investimenti e sulle pianificazioni di business?

«Il mio maestro, Ettore Galliani, era solito ripetere che il peggior nemico dell’imprenditore è la burocrazia e non il fisco. Al di là della battuta capita ancora adesso di vedere “rallentare” realtà aziendali a causa dell’eccessiva burocrazia; è pur vero che ci sono stati e proseguono segnali positivi in proposito, ma l’introduzione di nuove norme tende sempre a creare ostacoli al rapido sviluppo economico. L’instabilità del sistema e in generale ogni variabile inserita in una pianificazione già iniziata allarma l’investitore; sicuramente sarebbe auspicabile una maggiore stabilità giuridica, in particolar modo nel settore tributario».

Cosa ne pensa della lotta che si sta portando avanti contro l’evasione fiscale?

«Non credo che la lotta all’evasione, così tanto pubblicizzata, porterà a grandi risultati. Molti nuovi adempimenti varati a tale scopo appesantiscono e rallentano le strutture aziendali. Costi inutili che non possono che ricadere sulla collettività e la cui utilità a livello di recupero di gettito è tutta da dimostrare».

Quali aspettative ripongono verso il federalismo fiscale le imprese con cui lavora?

«Ritengo che il federalismo voglia raggiungere l’obiettivo di una maggiore autonomia ed una migliore gestione delle entrate. Ma nessuna impresa vuole pagare un euro in più, a prescindere dal federalismo fiscale. Solo con l’ipotesi dell’Imposta Municipale Unica c’è stata una levata di scudi, figuriamoci cosa potrà accadere con la completa attuazione del federalismo sulle grandi imposte. La tassazione attuale dovrebbe sicuramente abbassarsi per dare maggiore possibilità di sviluppo all’economia e consentire l’auspicata ripresa. Garantire costanza di entrate urta contro questa esigenza e il federalismo fiscale è un percorso in itinere di non facile attuazione. È comunque una riforma di lungo respiro, ne sono consci i propositori ed è corretto che sia così».

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Proprietà Industriale • Loredana Gulino

Un nuovo codice per i brevetti Le novità del codice della proprietà industriale illustrate dall'avvocato Loredana Gulino, a capo della direzione generale per la lotta alla contraffazione del ministero dello Sviluppo economico di Nike Giurlani

Italia ha raggiunto un alto livello d’efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile», sottolinea l’avvocato Loredana Gulino, responsabile dell’Ufficio italiano brevetti e marchi della Direzione generale per la lotta alla contraffazione del ministero dello Sviluppo economico. Questa considerazione emerge alla luce del recente aggiornamento del decreto legislativo 131/2010 inerente il codice della proprietà industriale. Semplificazione dei tempi e novità a livello processuale sono gli aspetti prioritari. Ma importanti novità sono state registrate anche per le biotecnologie e in merito a trattamenti chirurgici e terapeutici.

Quali sono le innovazioni apportate nell’ambito delle procedure di registrazione per la validità dei brevetti e per la tutela amministrativa e processuale?

«Per la registrazione, la scelta è stata effettuata nell’ottica della massima semplificazione compatibile con le esigenze di verifica da parte dell’ufficio: in particolare, i termini previsti sono stati adeguati il più possibile alle esigenze dell’utenza ed è stata disciplinata in termini più favorevoli ai richiedenti la continuazione della procedura dopo la perdita di un termine. Ancora più importanti le novità processuali, che possono riassumersi in quattro linee guida: maggiore facilità nell’ottenere misure d’urgenza contro i contraffattori dei diritti di proprietà industriale; semplificazione delle procedure giudiziarie; efficienza e rapidità

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C&P • GIUSTIZIA

Loredana Gulino • Proprietà Industriale

Il Codice esclude dalla brevettazione “i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale”

Loredana Gulino, a capo della Direzione generale per la lotta alla contraffazione del ministero dello Sviluppo economico

della tutela; infine, “parità delle armi” tra chi accusa e chi si difende».

Quali sono le misure previste contro i contraffattori dei diritti di proprietà industriale?

«L’Italia ha raggiunto un alto livello d’efficienza negli strumenti giuridici per la lotta contro la contraffazione in sede civile. Specialmente a partire dal 2003, quando sono state istituite presso 12 tribunali e Corti d’appello altrettante sezioni specializzate in diritto della proprietà intellettuale, con competenza esclusiva a conoscere delle azioni civili in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e fattispecie di concorrenza sleale legate a questi diritti e alla loro violazione. Nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza, che vengono esaminate e concesse con estrema rapidità, e agli strumenti di ricerca giudiziaria delle prove. L’Italia è poi uno dei pochi Paesi nei quali, oltre al risarcimento del danno, è possibile chiedere la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore».

Quali le novità apportate dalla revisione del Codice?

«Tra le novità più significative in questa prospettiva segnalo anzitutto la riunificazione della competenza per l’emanazione di descrizione, sequestro e inibitoria in capo allo stesso giudice e l’estensione della possibilità di adottare provvedimenti cautelari inaudita altera parte».

Quali sono le azioni consentite per chi produce beni o servizi potenzialmente a rischio di violaC&P • GIUSTIZIA

zione di un brevetto altrui? Che cosa comporta l’introduzione dell’azione di accertamento negativo?

«A questi soggetti è consentito di rivolgersi al giudice senza aspettare di essere attaccati, chiedendo di verificare, naturalmente in contraddittorio col titolare del brevetto, se un prodotto o un procedimento è o meno contraffattorio.

Quest’azione non è una vera novità, perché già era praticata: la nuova norma servirà però a superare le incertezze che talvolta i giudici hanno manifestato al riguardo. La possibilità, che è stata ora espressamente codificata, di ottenere, anche in via d’urgenza, un accertamento di non contraffazione, rappresenta un’opportunità in più per chi si difende dalla contraffazione, utile per prevenire abusi e utilizzazioni strumentali dei diritti di proprietà industriale, e in particolare di brevetti per invenzione».

Esiste una normativa che consente di anticipare la difesa dei propri diritti su marchi e brevetti anche nella fase di registrazione dell’idea?

«Certamente. L’Italia è uno dei pochissimi Paesi che consente di chiedere provvedimenti d’urgenza anche sulla base di una semplice domanda di brevetto o di marchio, senza attendere la concessione. Naturalmente in questi casi i giudici sono molto più cauti ed infatti di questa possibilità non risulta che si siano verificati abusi».

Quali le novità per quanto riguarda le biotecnologie? E per i trattamenti chirurgici e terapeutici?

«In materie di biotecnologie il nuovo codice ha introdotto un’innovazione davvero importante. Nel 2006, in quanto 135

Proprietà Industriale • Loredana Gulino

Nel nostro Paese la reazione giudiziaria in sede civile contro la contraffazione è diventata estremamente efficace, con livelli di assoluta eccellenza per quanto riguarda il ricorso alle misure d’urgenza 136

inadempiente alla direttiva comunitaria, l'Italia ha varato un decreto legge d’attuazione della direttiva in cui, tra le altre cose, era specificata la necessità di depositare una serie di attestazioni sulla provenienza del materiale biologico, anche se non era richiesto dalla direttiva. Il nuovo codice ha reso questo deposito facoltativo, così rendendo di nuovo altamente competitiva la brevettazione italiana. Per i trattamenti chirurgici e terapeutici, il Codice si è pienamente uniformato alla convenzione sul brevetto europeo, che esclude dalla brevettazione “i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale”, ma ammette la protezione dei prodotti diretti all’attuazione di tali trattamenti, anche sotto forma di invenzioni di secondo uso terapeutico di tali prodotti».

Che cosa prevede la normativa in merito alle invenzioni universitarie?

«La disciplina è rimasta invariata, perciò i brevetti su queste invenzioni continuano ad essere riconosciuti in capo ai ricercatori, salvo diversi accordi con le Università, e soprattutto salvo i casi di ricerche finanziate da altri soggetti, pubblici o privati, nel qual caso è l’Università o l’istituzione pubblica di ricerca a disciplinare contrattualmente con il finanziatore la spettanza dei diritti sulle eventuali invenzioni conseguite».

C&P • GIUSTIZIA

Mario Tonucci • Proprietà Industriale

Tutelare la proprietà intellettuale È possibile difendere le opere dell’ingegno intellettuale e industriale di fronte al dilagare delle nuove tecnologie? La risposta, secondo l’avvocato Mario Tonucci è sì, ma bisogna fare i conti con le innovazioni del mercato di Nike Giurlani

L’avvocato Mario Tonucci dello studio legale Tonucci&Partners

C&P • GIUSTIZIA

e ci guardiamo intorno e consideriamo le bellissime piazze fiorentine invase da merci contraffatte in vendita ai turisti oppure, nella zona di Prato, le tante polemiche per la concorrenza sleale d’imprese straniere che sviliscono il nostro made in Italy, verrebbe da dire che la normativa vigente per quanto concerne i diritti di proprietà intellettuale non sia adeguata», spiega l’avvocato Mario Tonucci dello studio Tonucci&Partners. In realtà «la legge n. 633 sul diritto d’autore è stata negli ultimi anni oggetto di numerose modifiche proprio per adeguarla ai cambiamenti intervenuti in un mercato sempre più globalizzato e digitalizzato, ma non vi è dubbio che sia necessario rivedere e aggiornare l'intera materia attraverso un Testo unico». L’obiettivo è risolvere le numerose criticità che caratterizzano il settore, consentendoci di combattere efficacemente «tanto il “vù cumprà” che il più tecnologico hacker che opera su internet», sottolinea l’avvocato Tonucci. D’altra parte, la tecnica del Testo unico è stata proprio quella seguita per riformare la normativa sulla proprietà industriale che ha visto, fin dal 2005, l’adozione del Testo unico recante il Codice della Proprietà industriale che, anzi, è stato già oggetto di numerosi interventi; «da ultimo il decreto legge n. 131 del 2010, in vigore dal 2 settembre scorso, che lascia, però, in sospeso ancora alcune problematicità» evidenzia Tonucci.

Quando si parla di proprietà intellettuale si vanno a toccare vari settori. Quali a suo avviso sono più tutelati? Quali, invece, quelli più a rischio?

«Sicuramente quelli più legati ad opere dell’ingegno, tradizionali e non tecnologiche, come, ad esempio, le opere letterarie ed editoriali. Tuttavia, ritengo che a fronte dello sviluppo tecnologico i rischi riguardino indistintamente tutti i settori tutelati dalla legge.Vi sono, inoltre, alcune opere che nemmeno trovano una tutela diretta e specifica nella legge sul diritto d’autore, e che, però, hanno un rilevante impatto economico nel mercato: penso ai format televisivi, ai giochi oppure a innovative metodologie, come per esempio i metodi per l’apprendimento delle lingue straniere. Infine vi sono alcune opere dell’ingegno che sono esposte maggiormente a rischi sia per la loro intrinseca natura tecnologica, sia perché la tecnologia in se stessa rappresenta una forma di aggressione del copyright assai difficilmente evitabile solo mediante regole e norme ad hoc».

Come la proprietà intellettuale può rappresentare una possibilità di business per le pmi?

«In Toscana, per esempio, in base agli ultimi dati del 2010, la Direzione generale piccole e medie imprese ed enti cooperativi del ministero dello Sviluppo economico, nel tradizionale monitoraggio che effettua sulla base dei dati di Infocamere, ha rilevato che sono state registrate oltre 366.000 pmi. E, in tempi di crisi, la Toscana è la quarta regione italiana per crescita nel 2010 del numero di pmi. Il nostro studio, da tempo, cerca di au-

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Proprietà Industriale • Mario Tonucci

Vi sono alcune opere che non trovano una tutela specifica nella legge sul diritto d’autore: penso ai format televisivi, ai giochi oppure a innovative metodologie 138

mentare la consapevolezza degli imprenditori sull'enorme valore economico proprio dei loro assetti di proprietà intellettuale e industriale. Spesso rileviamo mancanza di consapevolezza sulla necessità - economica prima che giuridica - di tutelare tali diritti d’impresa.Anche per questo abbiamo strutturato, da tempo, servizi d’assistenza legale specialistica e personalizzata nel settore della proprietà intellettuale e industriale, come ad esempio il servizio di monitoraggio continuo anche sulle reti di comunicazione elettronica volto a rilevare tempestivamente eventuali indebiti utilizzi degli asset Ip dell’impresa cliente, oppure aiutando l’impresa a valutarne appunto l’importanza finanziaria, per poi strutturare un progetto personalizzato di efficace protezione legale».

Con l’avvento delle nuove tecnologie, come Internet, è ancora possibile tutelare la proprietà intellettuale?

«La norma, anche la più innovativa e recente, rischierà di essere sempre obsoleta se paragonata all'ultima tecnologia a disposizione e sappiamo quanto ogni giorno vengano diffuse tecnologie innovative, che possono anche essere utilizzate per violare i diritti di proprietà intellettuale e industriale.Tuttavia, questo scenario non porta sicuramente ad affermare che non è più possibile tutelare la Proprietà intellettuale. L’interrogativo che ci si pone oggi è: quanto efficacemente si può tutelare alla luce delle nuove tecnologie, e in quali modi. È una domanda che ci sentiamo ripetere spesso dai nostri clienti, in tutti i mercati dove il nostro studio è presente: sia in quello italiano, sia nei mercati esteri, perchè queste problematiche sono ovviamente globali e particolarmente sentite nei Paesi emergenti».

Ritiene importante rafforzare la tutela della proprietà intellettuale solo attraverso l'inasprimento continuo delle sanzioni penali e attraverso l'intervento repressivo?

«Questa metodologia è errata poiché rischia di irrigidire lo “scontro” tra legalità e hacker, che tra l’altro hanno un bagaglio tecnologico di cui sono totalmente privi i legislatori quando procedono a normare questo settore, con la conseguenza che le leggi possono essere facilmente aggirate. Purtroppo le finalità repressive caratterizzano le attuali scelte normative dell’Europa e degli Usa. Noi riteniamo invece che una prospettiva corretta sia basata su tre aspetti fondamentali: il primo è la necessità di regole giuridiche più chiare, il secondo - imprescindibile - è una diminuzione dei costi dell’opera dell’ingegno per l’utente finale, in modo da rendere la pirateria non solo rischiosa dal punto di vista legale, ma soprattutto non più conveniente dal punto di vista economico, nel rapporto tra acquisto legale dell’opera e rischi legali derivanti dalla contraffazione. Infine, il terzo, relativo alla necessità di efficaci campagne informative, sia dei titolari dei diritti, per fargli comprendere l’importanza di questi veri e propri asset dell’impresa, sia degli utenti e preventive di educazione dei consumatori soprattutto i più giovani».

C&P • GIUSTIZIA

Legalità • Pietro Grasso

Arginare quell’area grigia collegata alla mafia Per il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, il potenziamento del contrasto alla criminalità organizzata passa anche da aggiustamenti legislativi e politiche di sviluppo per il Sud. E soprattutto dalla collaborazione di tutti gli attori della società di Francesca Druidi

a natura insidiosa della criminalità organizzata risiede oggi nella sua propensione a essere meno visibile e spesso meno violenta, ma al contempo molto più capace di penetrare ogni ambito del sistema Paese e di infiltrarsi in profondità nei meandri dell’economia legale.

«Ritengo sia necessario recidere anche quelle relazioni esterne – spiega il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso – che la criminalità instaura con molti ambiti della società, quell’area grigia che permette alla mafia di fare gli affari». L’attuale condizione di Cosa nostra ne è un ulteriore, emblematico, esempio. La mafia è oggi in difficoltà sul piano militare, «Cosa nostra ha subìto i maggiori colpi da parte della repressione dello Stato» conferma Grasso, ma non per questo va resa meno intensa l’azione di contrasto. L’organizzazione, infatti, sta mutando volto, rendendo le sue attività meno visibili e maggiormente indirizzate a un approccio di tipo economico.

L’agenzia per la gestione dei beni confiscati creata a Reggio Calabria rappresenta un primo e fondamentale passo verso una razionalizzazione sempre più efficiente del tema della destinazione dei beni sottratti alla mafia. È questa la strada migliore da percorrere per arginare il potere economico delle cosche mafiose, ormai esteso a tutta Italia e anche all’estero?

«Il problema principale è in primis sequestrare e successivamente confiscare i beni, sottraendoli alla criminalità organizzata. Ciò costituisce una priorità, perché abbiamo potuto constatare che mentre le fila della criminalità, anche dopo gli arresti, vengono colmate da altri soggetti che ne prendono il

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C&P • GIUSTIZIA

Pietro Grasso • Legalità

posto, diventa invece molto più complesso sostituire i beni, immobili, aziende o terreni, che in maniera progressiva erano stati accumulati. L’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati individuano, dunque, la strategia prioritaria che si è messa in atto. Una strategia che mira a ottenere effetti anche sotto il profilo etico, come ad esempio riconquistare il consenso delle popolazioni, soprattutto del Mezzogiorno, che registrano la presenza della criminalità mafiosa e che spesso vivono di questa. È importante restituire i beni appartenuti alle cosche alla gente, in modo che ne possa godere: un terreno sottratto a un boss che diventa un parco giochi per bambini assume un enorme valore, innanzitutto simbolico. È però necessario che i tempi tra le confische e le destinazioni all’utilità sociale dei beni si accorcino il più possibile».

Quali sono le maggiori difficoltà nel processo di destinazione?

«Esiste tutta una serie di difficoltà, per cui i beni spesso non vengono immediatamente utilizzati perché si verificano contenziosi con le banche. Bisogna, quindi, accertare che le ipoteche che le banche accendono su determinati beni non siano mirate a evitare la destinazione all’utilità. In questi casi, si può avviare un contenzioso che però blocca di fatto l’iter.

Un altro ostacolo è dato dalle confische parziali, come avviene nel caso di quote di società.Vi sono, inoltre, beni non C&P • GIUSTIZIA

destinabili per motivi di idoneità e beni che vengono distrutti con atti di vandalismo da parte di quanti sono costretti ad abbandonarli. Succede, infatti, che danneggino l’impianto elettrico, scrivano sui muri, distruggano i servizi igienici.

Quando poi questi immobili o strutture vengono affidati ad associazioni o cooperative sociali, servono finanziamenti per rimetterli in sesto, rallentandone ulteriormente l’impiego.

Grazie all’azione svolta dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati, si potrà attuare un lavoro più razionale e diligente».

Come dare una ulteriore spinta alla lotta alla mafia?

«Ritengo che sia necessario, oltre a colpire la mafia da un punto di vista militare dell’organizzazione vera e propria, recidere anche quelle relazioni esterne che la criminalità instaura con molti ambiti della società, quali l’imprenditoria, la pubblica amministrazione, la politica e le categorie di professionisti che costituiscono quell’area grigia che permette alla mafia di fare gli affari. Occorre spezzare questi legami e confiscare i risultati di questi rapporti d’affari, che rappresentano in sostanza la vera forza della mafia. Bisogna sradicare gli intrecci e le reti criminali creati appositamente per gestire i comuni affari lucrosi».

Quanto conta l’appoggio della società civile in que143

Legalità • Pietro Grasso

sta battaglia? Si può alimentare la cultura della legalità, soprattutto tra le giovani generazioni?

«Certamente è un aspetto importante, ma in alcune zone diventa indispensabile prima di tutto eliminare le devianze sociali e creare lavoro, dando la possibilità di un’alternativa concreta all’adesione alla criminalità organizzata. Si tratta di un passaggio fondamentale, perché non è possibile parlare di cultura della legalità a chi ha il problema di sfamare i propri figli. Vanno prima risolti i bisogni essenziali, poi passare alla fase successiva: c’è bisogno di un diffuso consenso verso lo Stato, uno Stato che si presenta offrendo delle opportunità e che, quindi, si fa promotore della crescita. Servono politiche di sviluppo, in particolar modo al Sud, che favoriscano l’occupazione in modo tale che i giovani non siano in alcun modo attratti o spinti dall’opportunità di rinfoltire le fila delle cosche».

Se gli atti intimidatori compiuti dalla ’ndrangheta nel 2010 in Calabria possono essere considerati un sintomo evidente della reazione della criminalità organizzata nei confronti del lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine, quale dovrebbe essere la reazione dello Stato? Servono nuovi strumenti, anche legislativi, per affrontare una mafia sempre più transnazionale ed economicamente potente?

«L’atteggiamento dello Stato deve presupporre un’azione unitaria e condivisa nel suo complesso. Non sono soltanto magistratura e forze dell’ordine a dover agire per contrastare la mafia, ma è determinante che anche tutte le istituzioni cooperino nella legalità e rendano sempre più difficile alla criminalità organizzata l’opportunità di contare su privilegi o di innescare situazioni di monopolio in certi settori. Abbiamo bisogno dei cittadini, sia intesi come comunità che come individui. Abbiamo bisogno delle istituzioni. Ma serve anche qualche strumento legislativo che possa aiutarci».

Ad esempio?

«Introdurre il reato di autoriciclaggio. Occorre prevedere come reato il reinvestimento di capitale illecitamente percepito da parte dell’autore di un primo illecito. Cosa che oggi non si può fare, perché se una persona, un mafioso, è punito ad esempio per il reato di associazione mafiosa, non lo è per il riciclaggio dei proventi derivati da quel reato. Inoltre, visto 144

Servono politiche di sviluppo, in particolar modo al Sud, che favoriscano l’occupazione in modo tale che i giovani non siano attratti o spinti dall’opportunità di rinfoltire le fila delle cosche

lo stretto legame tra il consenso elettorale e le organizzazioni criminali, sarebbe opportuno ampliare il reato di scambio elettorale politico-mafioso, non solo all’erogazione di denaro, ma anche agli altri vantaggi e privilegi che vengono proposti in cambio del voto, quale l’offerta di un posto di lavoro.

Come abbiamo potuto constatare in alcune indagini, un voto in certe zone viene pagato 50 euro. Il che significa svilire lo stesso concetto di partecipazione democratica».

Cosa contraddistingue oggi in sostanza la criminalità siciliana da ‘ndrangheta e camorra?

«Cosa nostra ha subìto i maggiori colpi da parte della repressione dello Stato. L’organismo di vertice è stato destrutturato e, quindi, la struttura si è indebolita, ma bisogna proseguire su questa strada perché l’organizzazione cambia faccia, muta, cerca ormai di portare avanti un’attività meno visibile, preferendo buttarsi negli affari. Dipende però dai territori. A Partinico è ripresa una violenta opera di intimidazione ai fini delle estorsioni, per questo l’ultima operazione “The End” risulta importantissima nell’ottica di reprimere le attività criminali sul territorio. Per quanto riguarda Cosa nostra, si registra un passo avanti nell’attività repressiva rispetto alle altre organizzazioni. Inoltre, in Sicilia si stanno sviluppando parecchie iniziative che danno spera nza per un decisivo cambiamento: penso ai giovani di “Addiopizzo”; a Confindustria Sicilia che espelle quegli imprenditori che non denunciano il pizzo; alle varie fondazioni intitolate a Falcone, Borsellino, Caponnetto, che operano con l’obiettivo di diffondere la cultura della legalità, soprattutto tra i giovani; penso alla scuola che ha compiuto molti progressi. Sono esempi che ci fanno guardare con speranza al futuro ed è pensando a questi che bisogna continuare a lavorare».

C&P • GIUSTIZIA

Legalità • Salvatore Di Landro

Lottiamo per riavere una provincia bella e gentile Una delle leve fondamentali nell’azione di contrasto alla ‘ndrangheta è l’acquisizione dei patrimoni illeciti.

Gli uffici giudiziari di Reggio Calabria stanno adottando procedure che ne permettono un più agevole approccio.

Lo sforzo della magistratura reggina raccontato dal procuratore generale Salvatore Di Landro di Francesca Druidi

organizzazione mafiosa più potente e pericolosa, soprattutto per la sua capacità d’infiltrazione nel tessuto economico dei territori. Per questo, la lotta all’ndrangheta richiede uno sforzo unitario e duraturo che deve prescindere dai singoli, e specifici, fatti di cronaca, o dall’accendersi di polemiche che infuriano a corrente alternata sui palcoscenici mediatici. A esortare un incessante impegno nel contrasto alle ‘ndrine è Salvatore Di Landro, procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria. L’impegno e la professionalità della magistratura reggina e delle forze dell’ordine hanno conseguito importanti risultati nella lotta alla criminalità organizzata facente capo all’ndrangheta, anche attraverso l’aggressione ai patrimoni illeciti. Le ‘ndrine non hanno perciò esitato ad alzare il tiro. Il risultato è una serie di atti intimidatori che nel corso del 2010 hanno avuto come bersagli la Procura e Di Landro stesso. Il 26 agosto scorso, un ordigno è stato fatto esplodere durante la notte contro l’abitazione del Procuratore, fortunatamente senza provocare alcun ferito. Questi episodi di violenza, sottolinea Salvatore Di Landro, non sortiscono però il voluto effetto intimidatorio, quanto piuttosto servono da sprone al prosieguo delle attività antimafia. «La lotta alla ’ndrangheta – afferma il procuratore – non può declinarsi come una risposta occasionale, legata alla contingenza. Questa battaglia si deve protrarre nel tempo fino a

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Salvatore Di Landro, procuratore generale presso la Corte di appellodi Reggio Calabria; sopra, un’immagine della manifestazione “No ‘ndrangheta”, promossa il 25 settembre scorso a Reggio Calabria dal direttore del Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza 146

C&P • GIUSTIZIA

Salvatore Di Landro • Legalità

C’è una società civile che, nelle sue categorie più disparate, ci è vicina.

La manifestazione “No ‘ndrangheta” ha visto una presenza corale partecipata e intensa di circa 40mila persone

quando questa terra non avrà raggiunto un grado di civiltà accettabile».

Ha dichiarato che serve più continuità nell’azione di contrasto alle mafie. Cosa intendeva nello specifico? «È fondamentale tenere alta la tensione morale e professionale che si registra in questo momento. Momento di grande impegno corale da parte della Magistratura e delle Forze di Polizia, le cui azioni risultano particolarmente efficienti. Ed è, con ogni probabilità, proprio da questo nuovo clima che si respira a Reggio Calabria che scaturiscono le reazioni da parte della criminalità organizzata. Non è merito esclusivo dei singoli, ma di tutta la Magistratura che sta affrontando coralmente questa emergenza. È, quindi, necessario che la tensione non cali, concentrandosi nell’arco di un solo mese o semestre, ma che riesca a proseguire, pur con grande serenità e nel rispetto del concetto di giurisdizione, alimentando il momento di riscatto da parte della collettività».

La popolazione è, dunque, partecipe di questo clima?

«C’è una società civile che, nelle sue categorie più disparate, ci è vicina. La manifestazione “No ‘ndrangheta”, promossa a settembre dal direttore del Quotidiano della Calabria Matteo Cosenza, ha visto una presenza corale partecipata e intensa di circa 40mila persone. È una società civile convinta della necessità di reagire».

C&P • GIUSTIZIA

Come, secondo lei, è più opportuno intervenire per indebolire il potere economico dell’ndrangheta?

«Gli uffici giudiziari di Reggio Calabria si sono fatti promotori di procedure particolari che, pur previste dall’ordinamento, implicano un “iter” più spedito per ottenere la confisca dei beni.

In ciò è stato antesignano l’Ufficio di Procura Generale, anche su scala nazionale. Le procedure di confisca previste sia dalla normativa speciale che da quella ordinaria consentono un più agevole approccio per l’acquisizione dei patrimoni illeciti. Si tratta di un punto fondamentale dell’azione della Magistratura reggina».

All’1 novembre 2010, in Calabria sono state effettuate 1.544 confische complessive, di cui 1.431 gli immobili e 113 le aziende. Solo nel Reggino, si contano, sul totale dei beni confiscati, 948 immobili e 82 aziende. Un’altra indagine pone però la regione agli ultimi posti come riutilizzo dei beni confiscati. Qual è, a suo avviso, la situazione?

«Si registra ancora qualche difficoltà. Riattribuire i beni richiede tutta una serie di cure, prudenze e attenzioni. Grazie al nuovo organismo creato recentemente dal ministro dell’Interno Maroni, a cui va tutta la mia gratitudine per la vicinanza con cui segue i problemi di questa terra, ritengo che il settore del riutilizzo avrà un nuovo impulso. Certo, si sta ancora lavorando alla formazione della struttura portante dell’Agenzia, la quale ri147

Legalità • Salvatore Di Landro

Sopra, l’esplosione dell’ordigno il 26 agosto scorso contro l’abitazione di Salvatore Di Landro

chiede uomini e mezzi. A ogni modo, ribadisco che il problema non deve essere quello di vivere un “giorno da leoni”, ma quello di svolgere intensamente e con continuità la nostra azione per riportare la provincia di Reggio Calabria al livello di un Cantone della Svizzera in termini di correttezza e liceità. Questo è il nostro ideale: ritornare a vivere in una provincia “bella e gentile”, come recitava il titolo di un libro dedicato alla Reggio Calabria degli anni Cinquanta-Sessanta. Per tale motivo è necessario affrontare questa emergenza con grande vigore e passione civile».

Una situazione di emergenza, come l’attentato del 26 agosto scorso, risveglia il clamore, anche mediatico, sulla lotta alla criminalità. Ma forse è il periodo successivo quello che conta.

«Dopo l’esplosione dell’ordigno avvenuta il 3 gennaio scorso presso la Procura Generale di Reggio Calabria, si è verificato un grande momento di presenza e di impegno delle istituzioni.

Poi la curva dell’attenzione è lievemente calata, come era facile ipotizzare. Ora, a seguito dell’intensificarsi delle condotte criminose da un lato, e della reazione della Magistratura e delle Forze dell’Ordine dall’altro, si segnala un nuovo picco di attenzione nel contrasto al fenomeno della criminalità organizzata. Ma la lotta alla ’ndrangheta non può declinarsi come una risposta occasionale, legata alla contingenza».

Come muoversi allora?

«Questa battaglia si deve protrarre nel tempo fino a quando questa terra non avrà raggiunto un grado di civiltà accettabile.

Il male esiste nell’uomo fin dai tempi di Caino e permarrà, come diceva Foscolo, “...finché il sole risplenderà sulle sciagure umane...”. Una cosa però è prendere atto dell’esistenza del male individuale, un’altra è accettare che una società debba convivere con un sistema dominato dalla criminalità. Ciò è intollerabile. Faremo di tutto per riportare la città a criteri di civiltà e di correttezza nel vivere comune. Una città che non sia schiava, vittima del sopruso della ’ndrangheta. È intollerabile 148

che si voglia piegare l’uomo, il civis, al crimine, al male, all’oppressione, costringendolo a diventare un soggetto passivo di fronte alle cosche».

Immagino si sia posto delle domande sui motivi che stanno alla base dell’escalation di intimidazioni nei suoi confronti. Che risposte si è dato? Può essere considerata la controffensiva dell’ndrangheta alle azioni della Magistratura reggina?

«Bisogna distinguere due aspetti: da una parte l’attacco alla Procura Generale e alla mia persona in particolare, come testimoniano gli episodi del 3 gennaio, del 6 giugno, con lo svitamento dei bulloni dell’autovettura di servizio assegnatami, e del 26 agosto; dall’altra, l’aggressione alla Magistratura in generale con lo sciame di attentati verificatisi nella primavera scorsa. Perché questa concentrazione su di me? Ce lo devono dire gli inquirenti. Non esprimiamo ipotesi, aspettiamo i risultati delle indagini. Qualsiasi cosa io dica, potrebbe, infatti, essere smentita a breve. I fatti di cui dovevo riferire sono stati esposti più volte. Le valutazioni che dovevo fare sono state formulate. Ora compete a chi di dovere ufficializzare i risultati ottenuti, compatibilmente con la tutela del segreto istruttorio».

Per quanto riguarda, invece, la reazione della criminalità nel suo complesso?

«In ordine a questo secondo aspetto, evidentemente un nuovo impulso, conseguente alle recenti nomine ai vertici di importanti Uffici giudiziari, quali, ad esempio, quelle dei Procuratori di Reggio Calabria e Palmi, Giuseppe Pignatone e Giuseppe Creazzo, ha dato un notevole scossone allo scenario esistente. Inoltre, segnali di insofferenza da parte della criminalità sono riconducibili anche alla più intensa, unitaria risposta della magistratura sostenuta dalla stampa e dalla migliore opinione pubblica. Oggi si coglie un grande impegno a tutti i livelli. C’è una condivisione di indirizzo e di volontà di fare bene».

C&P • GIUSTIZIA

Legalità • Giuseppe Borrelli

Potenziare qualità e numero della polizia giudiziaria Costruire «un’attività di contrasto alla criminalità organizzata che muova secondo una linea strategica e che veda come elemento centrale il perseguimento dei reati di associazione mafiosa». Per Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Catanzaro, è la direzione giusta da intraprendere nella lotta alla ’ndrangheta di Francesca Druidi

l clima che si respira in questo momento in Calabria è di grande fermento per tutti i soggetti coinvolti nella lotta alla ’ndrangheta. Serve ora dare uno slancio decisivo all’azione. A partire dallo scardinamento di quei meccanismi che hanno permesso, e permettono tuttora, alla criminalità organizzata di penetrare efficacemente nel sistema produttivo e sociale. «Esistono caratteristiche del territorio calabrese in termini di sviluppo economico e di tendenza culturale che risultano particolarmente favorevoli al mantenimento dei gruppi criminali. Gruppi che, in sostanza, sono frastagliati e a base familistica», spiega Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. «Non può nemmeno essere trascurata la scarsa presenza in regione delle istituzioni dello Stato». Per Borrelli, la Calabria ha una conformazione, innanzitutto geografica, che richiederebbe un’importante presenza numerica di apparati finalizzati al contrasto della criminalità. «I reparti di polizia giudiziaria destinati a questo scopo sono attualmente pochi e in numero insufficiente rispetto alle necessità. E anche per quanto riguarda la magistratura, ci troviamo in una situazione di assoluto sottodimensionamento».

Può fare un esempio di questa situazione?

«La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sulla base di un numero complessivo di 13 sostituti procuratori presenti effettivamente in ufficio, non può contare su un numero di sostituti superiore a sei. Questi, però, gestiscono un territorio dove operano otto tribunali: c’è, quindi, meno di un sostituto per ogni circondario. Uno di questi è Rossano, che si trova a una distanza di circa 250 km da Catanzaro. Il che significa perdere diverse ore in trasferimenti per seguire le udienze in questa città. In un contesto simile, l’impegno dei singoli magistrati - che non manca di certo -

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Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto di Catanzaro

C&P • GIUSTIZIA

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Legalità • Giuseppe Borrelli

Tribunale di Catanzaro

L’attirare risorse straordinarie in funzione delle emergenze è il modo migliore per non risolvere i problemi. Il punto fondamentale è stabilire uno standard medio-alto di efficacia della magistratura e delle forze di polizia può riuscire a tenere sotto controllo la situazione, ma non può però dare un significativo colpo d’ala al contrasto alla criminalità».

Una delle misure da applicare, quindi, è l’aumento degli uomini destinati all’antimafia?

«Non amo particolarmente quest’espressione perché spesso ha costituito un alibi per la mia categoria, soprattutto negli anni passati. Ma oggi, quando si afferma che servono uomini e mezzi, nonostante si utilizzi una formula abusata, si dice la verità».

Rileva dei cambiamenti significativi nell’operazione di contrasto alla criminalità organizzata in regione?

«Per quanto riguarda il distretto di Reggio Calabria, non penso sia possibile sottovalutare il grandissimo lavoro che è stato compiuto da Pignatone e da tutta la Procura. Lavoro che ritengo condivisibile sotto molti profili e uno in parti150

colare: quello di aver finalmente costruito un’attività di contrasto alla criminalità organizzata che muova secondo una linea strategica e che veda come elemento centrale il perseguimento dei reati di associazione mafiosa, e non più soltanto di altri tipi di reati, ad esempio quelli legati al traffico di stupefacenti. L’inquinamento della società nasce dalla presenza delle organizzazioni mafiose sul territorio, presenza che va combattuta in quanto tale, non solo per i reati commessi da quest’ultima. Questa è la linea che stiamo seguendo anche noi a Catanzaro, con un’azione avviata con un po’ di ritardo rispetto a Reggio Calabria e con alcune oggettive differenze, anche in termini di risorse a disposizione».

Sono stati compiuti importanti passi avanti nell’ultimo anno?

«Per quello che riguarda la mia esperienza personale, ho assistito ad alcuni eventi molto positivi: in particolar modo un potenziamento qualitativo e l’individuazione dei comandanti di alcuni reparti di polizia giudiziaria. Ciò sta producendo e produrrà anche nell’immediato i suoi frutti. Mi domando però se questi interventi rispondano a una visione effettivamente strategica oppure non siano dettati dalle condizioni del momento».

L’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alle mafie è oggi un tema centrale. Qual è il bilancio che può trarre dell’attività della Dda di Catanzaro su questo fronte?

«Il contrasto ai patrimoni illeciti identifica un’attività che la Procura di Catanzaro e, in particolare il procuratore della Repubblica, ha investito fin dal primo giorno di presenza in C&P • GIUSTIZIA

Legalità • Giuseppe Borrelli

Non è possibile sottovalutare il grande lavoro compiuto da Pignatone e da tutta la Procura di Reggio Calabria. Lavoro che ritengo condivisibile sotto molti profili

Giuseppe Pignatone, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria

città di una rilevanza pregnante. È stato potenziato il settore delle misure di prevenzione e sono stati ottenuti anche significativi risultati in termini di sequestro dei beni. Tra l’altro, abbiamo rivitalizzato un istituto che esisteva già in precedenza, il 12 sexies in fase esecutiva: stiamo riprendendo le sentenze di condanna già diventate definitive per verificare la compatibilità delle situazioni patrimoniali dei soggetti condannati con i redditi che dichiaravano durante il periodo di militanza nelle istituzioni mafiose. Questo tipo di attività ha permesso di pervenire a risultati significativi per quanto riguarda il sequestro di patrimonio illeciti. Anche in questo caso però le risorse risultano abbastanza esigue».

Si registrano però ancora delle difficoltà sul versante del riutilizzo di questi beni. «È un problema che fuoriesce dalle competenze della Procura della Repubblica. L’esperienza insegna che il riutilizzo dei beni confiscati è estremamente farraginoso; ha incontrato in passato e spesso incontra ancora una serie di ostacoli nell’inerzia degli enti locali. Ma si tratta di un problema che non riguarda solo la Calabria ma tutta l’Italia».

Come rendere l’azione di contrasto alla ‘ndrangheta sempre più intensa, al di là della contingenza?

«L’attirare risorse straordinarie in funzione delle emergenze è il modo migliore per non risolvere i problemi. Le organizzazioni mafiose, una volta compreso di aver oltrepassato il limite oltre il quale lo Stato decide di mobilitarsi, si fermano per poi ricominciare non appena vengono C&P • GIUSTIZIA

meno quelle risorse eccezionali che erano state messe a disposizione. Il punto fondamentale è, quindi, stabilire uno standard medio-alto di efficacia della magistratura e delle forze di polizia. Sotto questo profilo, i ministeri della Giustizia e dell’Interno dovrebbero intervenire in maniera tale da potenziare, in limiti ragionevoli ma stabili, il numero e la qualità degli organici della polizia giudiziaria in Calabria e in particolare nel distretto di Catanzaro. Oltre ad avere una giustizia dai tempi più celeri, sarebbe necessario realizzare una pianificazione degli organici e delle strutture della magistratura tale da metterla nelle condizioni di funzionare normalmente».

Cos’è che oggi non funziona?

«In Procura lavorano 82 funzionari amministrativi e 18 magistrati, di cui 13 in organico. Ma il ministero della Giustizia ha provveduto di recente alla fornitura di soli 5 computer. Molti magistrati non hanno un computer dotato di masterizzatore dvd. Il che, in relazione all’introduzione della digitalizzazione del dibattimento, rappresenta un handicap insuperabile. Un’altra problematica riguarda il piano normativo, e nello specifico alcune disposizioni che vanno a incidere sulla composizione dei magistrati che operano nella sezione giudicante del Tribunale. Questa composizione può andare a precludere il buon funzionamento dell’intero tribunale. Ed è quanto avviene oggi a Catanzaro, con tutta una serie di conseguenze negative, dallo spostamento di testi da un punto all’altro della Calabria alla perdita di ore di lavoro da parte di ufficiali di polizia giudiziaria».

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Legalità • Nicola Gratteri

Dalle ‘ndrine al business globale È la mafia più globalizzata. La meno conosciuta. La più violenta. Ha superato Cosa Nostra per ricchezza e capacità di riprodursi in ogni dove. La ‘ndrangheta calabrese fa affari con tutti, dagli Usa all’Africa, trattando cocaina, armi e rifiuti. «I contadini sono diventati manager in giacca e cravatta», spiega Nicola Gratteri, magistrato antimafia di Reggio Calabria

uisburg, 15 agosto 2007. Quella passata alle cronache come la “strage di ferragosto” ha segnato anche un punto di non ritorno per la ‘ndrangheta, una delle mafie più antiche e radicate sul territorio. «Duisburg è stato un grande errore. Non solo l’evento ha costretto le polizie di mezza Europa a interessarsi della ‘ndrangheta, ma l’efferatezza della strage e il fatto che la stampa internazionale abbia scritto, detto e filmato l’episodio ha fatto sì che il mondo occidentale si accorgesse della pericolosità di questa organizzazione». Nicola Gratteri è uno che sa cos’è la ‘ndrangheta – «da piccolo giocavo a calcio con le stesse persone che, molti anni dopo, ho fatto arrestare e condannare all’ergastolo» – e ancor di più conosce ciò che è successo in quella cittadina della Germania dell’Ovest, perché da sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha coordinato le indagini sul caso. Il magistrato calabrese parla di una mafia dinamica, capace di infiltrarsi nei cinque continenti, ricalcando lo stesso modello organizzativo con cui è nata in Calabria. «Ci sono “locali” (l’unità fondamentale di aggregazione mafiosa su un territorio che, quasi sempre, coincide con un paese o con il rione di una città, ndr) nel Centro e nel Nord Italia, in Europa, in Australia. Dovunque essi si trovano fanno affari e comprano tutto ciò che

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di Camilla F. Gargano 152

C&P • GIUSTIZIA

Nicola Gratteri • Legalità A sinistra, Nicola Gratteri; a fianco, una panoramica della cittadina di San Luca, divenuto luogo simbolo della ‘ndrangheta

La ‘ndrangheta non compra solo fabbriche e alberghi, ma si preoccupa anche di pilotare certa informazione soprattutto quando si parla di appalti e piani regolatori

è in vendita».

Ma qual è il business principale?

«Sicuramente il traffico di cocaina, a cui segue il riciclaggio, perché l’obiettivo principale della ‘ndrangheta non è arricchirsi, ma giustificare la ricchezza attraverso immobili e beni di lusso o facendo grandi investimenti».

Quali sono i fattori che determinano l’estremo dinamismo e la pericolosità della ‘ndrangheta?

«Innanzitutto il fatto di essere quasi leader in Europa. È l’organizzazione più potente che ci sia perché non c’è il pericolo dei collaboratori di giustizia. Altri fattori sono la quantità di soldi liquidi di cui dispone e il fatto di essere molto più credibile e affidabile di altre organizzazioni».

Da Duisburg a oggi, cosa è cambiato nell’immaginario collettivo?

«Duisburg è stato il loro più grande passo falso, perché li ha resi visibili agli occhi dell’opinione pubblica. La collettività ha preso coscienza che la presenza oppressiva della ‘ndrangheta in Calabria – così come nel Nord Italia, in Europa, in America Latina e in Australia – tarpa le ali al progresso e allo sviluppo economico e culturale perché la ‘ndrangheta non compra solo terreni, fabbriche, alberghi, ma si preoccupa anche di pilotare certa informazione soprattutto quando si parla di appalti e piani regolatori».

Le intimidazioni sono frequenti, maggiori di C&P • GIUSTIZIA

quelle che vengono alla luce. Si sono succeduti diversi schieramenti politici al governo regionale, nonostante ciò poche situazioni sono cambiate.

«Intanto la ‘ndrangheta moderna non ha idee né di destra né di sinistra, ha come unica ideologia quella di saltare sul carro del vincitore per ottenere favori dal potente di turno.

Negli ultimi quindici anni abbiamo avuto governi sia di destra che di sinistra, ma dal punto di vista normativo non ci sono state grosse rivoluzioni per arginare il fenomeno mafioso. Ci sono stati dei piccoli passi, ma si è trattato di leggi di emergenza o di piccole modifiche. Le mafie, però, non sono un’emergenza come lo è stato il terrorismo, ma durano ormai da secoli e allora bisogna avere il coraggio, la libertà e la volontà di studiare e modificare i codici e gli ordinamenti giudiziari in modo proporzionale alla pericolosità di queste organizzazioni».

Per sconfiggere la criminalità organizzata è sufficiente solo inasprire le pene oppure si devono combattere gli stereotipi, sensibilizzando la società civile?

«Bisogna fare entrambe le cose: le modifiche normative servono per velocizzare e informatizzare i processi; inasprire le pene e far scontare interamente il carcere ai mafiosi è un ottimo deterrente perché gli ‘ndranghetisti non si ravvedono; non meno importante è investire nell’istruzione e nella cultura per diffondere messaggi positivi e far sì che i ragazzi scelgano le aule scolastiche anziché la strada o gli ambienti familiari dove si nutrono di cultura mafiosa».

Lei ha scritto tanto sulla ‘ndrangheta indagandone tutti gli aspetti. Cosa ha voluto mettere in luce con il suo ultimo libro?

«Ci sono autori molto bravi che hanno scritto tantissimo e bene sulla ‘ndrangheta, ma mancava un libro che ci potesse spiegare la ‘ndrangheta dalle sue origini. Con Antonio Nicaso e Valerio Giardina abbiamo colmato questo vuoto, riuscendo a dimostrare che la malavita esisteva già alla fine dell’Ottocento».

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Legalità • Mario Morcone

Beni sequestrati, bilancio positivo L’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata rappresenta «un punto unico di coordinamento e di decisione a livello nazionale».

Lo spiega il prefetto Mario Morcone, illustrando obiettivi e orizzonti di sviluppo della struttura di Francesca Druidi

ono 11.152 i beni definitivamente confiscati alle organizzazioni criminali al 1 novembre 2010, come segnala l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità. È la Sicilia, in base ai dati relativi alla distribuzione geografica, a dominare la classifica per regione con il 44,57% dei beni, seguita da Campania (15,06%), Calabria (13,85%) e Lombardia (8,58%). La Toscana si attesta all’undicesimo posto tra le regioni con lo 0,45%; qui il maggiore numero di beni tolti alla criminalità locale è a Firenze e provincia: 13 tra immobili e aziende, segue la provincia di Massa Carrara con 8 unità. «Una delle linee prioritarie sulle quali ci stiamo impegnando – ha spiegato il prefetto Morcone – è la creazione di una rete. Autorità giudiziaria, Prefetti, Demanio, Università, associazioni di categoria, Abi, fondazioni bancarie, terzo settore, Libera e governo del territorio sono la rete per creare quel lavoro comune e quelle sinergie necessarie per il contrasto alle mafie e per la restituzione al territorio dei beni sottratti alla criminalità organizzata, così da ricostruire quel tessuto connettivo di legalità. Un percorso difficile e non privo di ostacoli, ma che ci sprona a fare sempre di più» continua il prefetto.

L’agenzia nazionale sta ottenendo risultati importanti.

Qual è l’aspetto maggiormente innovativo che sta met-

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Sopra, il prefetto Mario Morcone, direttore dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità 154

C&P • GIUSTIZIA

Mario Morcone • Legalità

Sopra, beni sequestrati al boss brindisino Ciro Cannone

Sul fronte dei beni gestiti dall’Agenzia si può fare molto, anche di più di quello che stiamo già facendo, tramite un’attenta azione di monitoraggio

tendo in campo?

«L’Agenzia identifica finalmente un punto unico di coordinamento e di decisione a livello nazionale. Ha una visione ad ampio raggio e non si limita alla semplice destinazione di un bene, ma si occupa delle attività di monitoraggio e programmazione di quanto deve fare. E lo vuole fare - e questo costituisce il secondo punto di forza della struttura, sempre se saremo capaci di farlo - insieme ai diversi livelli di governo: Regioni, Province e Comuni, in un forte rapporto di collaborazione con l’Autorità giudiziaria. Si tratta di tessere una vera e propria rete di collaborazione finalizzata a restituire ai territori la ricchezza sottratta loro in maniera illegale e illecita».

Restano molte le difficoltà che l’Agenzia deve affrontare, in primis l’insufficiente disponibilità di uomini.

L’obiettivo della struttura è comunque quello di crescere, anche numericamente, e di radicarsi nei diversi territori, come dimostra l’annunciata apertura nel 2011 di alcune sedi secondarie?

«Abbiamo già deliberato, il 25 novembre scorso, l’istituzione delle sedi dell’Agenzia a Napoli, Palermo e Milano. L’obiettivo è quello di attrezzarle e renderle operative nell’arco di un paio di mesi. Per quanto riguarda, invece, il personale impiegato, il decreto legge in discussione alla Camera dei C&P • GIUSTIZIA

Deputati per la sua approvazione contiene due novità».

Quali nello specifico?

«La prima consiste nella possibilità di autofinanziamento dell’Agenzia che, attraverso le opportune procedure di garanzia - tra cui l’autorizzazione del ministero dell’Interno potrà mettere a reddito gli immobili, riuscendo così a potenziarsi. La seconda novità è lo stanziamento per le attività dell’Agenzia di 2 milioni di euro per il 2011, aggiuntivi al nostro bilancio ordinario, e di 4 milioni per il 2012. Questo dovrebbe permetterci di crescere e di rafforzarci, da qui la decisione di avviare le sedi secondarie».

La Provincia di Palermo ha proposto una modifica della normativa sui beni sequestrati, tra cui la possibilità di destinare una parte del Fondo, costituito con le somme sequestrate alla mafia, alle associazioni, alle onlus e alle cooperative che gestiscono i beni confiscati. Lei cosa ne pensa?

«In realtà, non ho alcun ruolo in questo. I fondi sequestrati e poi confiscati vengono assegnati direttamente a Equitalia giustizia, e quindi al Fug (Fondo unico giustizia), che li utilizza per finanziare il ministero della Giustizia, la magistratura, l’Autorità giudiziaria e le forze dell’ordine. Impiegare una parte, seppur minima, di questo fondo è al momento un po’ difficile, in un’ottica di suddivisione delle risorse che 155

Legalità • Mario Morcone

Sopra, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Gianni Letta, il prefetto Morcone, il ministro dell’Interno Maroni, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e il ministro della Giustizia Alfano all’inaugurazione, il 15 agosto scorso, della Bottega dei sapori, realizzata in una delle case confiscate alla famiglia del boss Bernardo Provenzano

risultano sempre inferiori alle necessità rivendicate dai soggetti coinvolti. Capisco il fascino della proposta, ma si tratta di una questione senza dubbio complicata. Basti pensare alla polemica, riproposta più volte anche dalla stampa, che riguarda le forze di polizia o la magistratura e le loro fondate richieste di risorse. Sul fronte dei beni, dei terreni e delle abitazioni gestiti dall’Agenzia si può fare molto, anche di più di quello che stiamo già facendo, tramite un’attenta azione di monitoraggio e di redistruzione di beni assegnati ma utilizzati con la dovuta efficacia».

A questo proposito un’indagine della Corte dei Conti ha rilevato che il 52,6% dei beni confiscati restano inutilizzati. Può indicare le criticità che ancora persistono?

«Le criticità sono di diversi tipi. Alcune dipendono dalla difficoltà di una decisione giudiziaria ineccepibile ma complessa sotto il profilo della sua applicazione, ad esempio il sequestro e la confisca per quote: quando viene confiscato il 50% di un’abitazione diventa difficile gestire la situazione, soprattutto se l’altro 50% appartiene a un congiunto della persona a cui la casa è stata sequestrata. Altra criticità è rappresentata dalle ipoteche. Bisogna oggi ridiscutere tutto questo con le banche, cercando dei momenti di tran156

sazione possibili e sopportabili. In difficoltà si trovano poi molti Comuni sul fronte dell’utilizzo dei beni. In alcuni casi, gli enti hanno effettivamente in mano un numero così alto di immobili o terreni da avere problemi nell’assegnarli tutti.

Spesso sono i paesi più piccoli a incontrare i maggiori ostacoli, proprio perché si tratta di ambiente circoscritti e magari inquinati».

Quali misure si dovrebbero, a suo avviso, adottare per ovviare a queste problematiche?

«In questo senso, stiamo avviando un accordo con alcuni sindaci, che ritengo estendibile a tutti i primi cittadini del Paese, sul monitoraggio delle situazioni più complesse per cercare di arrivare a una loro definizione: mutare la destinazione di un bene o assegnare quel bene in modo diretto.

Se ciò non dovesse succedere, disponiamo comunque di strumenti contenuti nella legge: ci riprendiamo il bene o inviamo un commissario ad acta. Fino ad oggi, non ho mai optato per quest’ultima scelta, perché mi sembrava fuori luogo e arrogante, dal momento che l’Agenzia è avviata da pochi mesi. Man mano che si scava a fondo nei problemi, cercheremo con i sindaci una corretta soluzione fin dove sarà possibile. Se si procederà oltre, interverremo direttamente».

C&P • GIUSTIZIA

Legalità • Luigi Giampaolino

Destinare i beni della mafia in tempi rapidi Da un’indagine della Corte dei Conti è emersa la complessità delle procedure che vanno dal sequestro alla confisca per finire alla destinazione e all’assegnazione dei beni sottratti alle organizzazioni mafiose.

A commentare il tema è il presidente Luigi Giampaolino di Nicolò Mulas Marcello

Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti

isultano inutilizzati il 52,6% dei beni confiscati alla criminalità organizzata. È quanto emerge dall’indagine effettuata dalla Corte dei Conti sulle attività svolte dalle amministrazioni competenti in ordine ai procedimenti di sequestro, confisca e assegnazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata nel biennio 2008-2009, con cenni relativi agli anni 2006-2007. «Come presidente della Corte dei Conti – dichiara Luigi Giampaolino – posso dire con orgoglio che questo tema assai delicato e di scottante attualità è all’attenzione della Corte che se ne è occupata in sede di controllo, offrendo il suo contributo propositivo al Parlamento e alle amministrazioni a vario titolo coinvolte nel procedimento».

Anche la Procura generale, aggiunge il presidente, si è interessata al tema in sede di giudizio di parifica con una sezione apposita, in quanto i beni confiscati identificano una rilevante quota del patrimonio pubblico.

In base alle indagini della Corte dei Conti, il percorso di assegnazione di un bene confiscato si presenta lungo e tortuoso. Quali le difficoltà che ancora si riscontrano?

«Innanzitutto va premesso che il concetto di confisca è ampio, in quanto può riferirsi sia alla confisca di prevenzione che alla confisca collegata a processi penali. Entrambe le misure sono

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C&P • GIUSTIZIA

Luigi Giampaolino • Legalità

A seguito della confisca definitiva, c’è un ulteriore iter amministrativo che serve per garantire l’uso pubblico del bene La sede della Corte dei Conti a Roma e un bene confiscato alla mafia

irrogate all’esito di un procedimento giurisdizionale regolato dalle norme processuali penali, i cui tempi tecnici ordinari prevedono tre gradi di giudizio, compreso il ricorso per Cassazione. È evidente che per ridurre i tempi bisogna proseguire sulla strada già intrapresa e adottare misure atte ad abbreviare i tempi processuali. È poi da chiarire che, una volta ottenuta la confisca definitiva, c’è un ulteriore iter amministrativo che, fino al 2010, era curato dall’Agenzia del demanio ed è ora divenuto di competenza della nuova Agenzia per la confisca dei beni. Questo iter serve per garantire l’uso pubblico del bene, compresa la sua destinazione agli scopi di interessi sociali previsti dalla legge. In questa fase possono verificarsi molte difficoltà dovute a situazioni di vario genere».

Può fare qualche esempio?

«Si pensi a un albergo confiscato da convertire in caserma.

L’ente che vuole acquisire il bene potrebbe doverlo ristrutturare a proprie spese prima dell’impiego, non avendo a disposizione le risorse necessarie. Altro caso è quello di un bene confiscato ancora occupato, anche da terzi in buona fede in qualità di inquilini o titolari di attività commerciali, che debbono liberarlo; altri casi possono riguardare beni gravati da ipoteche o in comproprietà con vari soggetti. I problemi sono tanti, senza dimenticare il tema di fondo rappresentato dalla pressione della criminalità, diretta a impedire che i beni venC&P • GIUSTIZIA

gano acquisiti».

Quali misure a suo avviso si possono adottare per rendere più efficace la gestione dei beni confiscati alle mafie?

«Il 13 agosto 2010 il Parlamento ha varato la legge 136, che contiene la previsione della redazione del codice antimafia, impostando altresì un piano straordinario contro le mafie e delegando il governo in materia di normativa antimafia. Questa legge, se tempestivamente e completamente applicata, potrebbe aprire nuovi e incisivi scenari nella lotta alla criminalità organizzata. È auspicabile, pertanto, che il governo dia un segnale forte all’applicazione immediata della normativa, senza indugi».

Ritiene che l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata possa contribuire a sbloccare la situazione?

«La neonata agenzia costituisce una buona soluzione. Certamente, questa struttura sarà chiamata a risolvere i molti problemi che ho posto in evidenza compreso quello, molto delicato, della gestione delle imprese confiscate. È chiaro, quindi, che la riuscita dell’azione dell’agenzia dipende strettamente dall’entità di risorse di cui essa potrà disporre. Ovviamente, l’organismo che presiedo monitorerà la sua azione: questo è il nostro compito».

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Legalità • Domenico Posca

Sostegno alle aziende sequestrate Rilevanti sono i problemi degli amministratori giudiziari dei beni e delle aziende sequestrati alla criminalità organizzata. A spiegarli è Domenico Posca di Francesca Druidi

on il decreto legislativo 14/2010 è stato istituito l’Albo degli amministratori giudiziari, i quali provvedono alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati. Come spiega Domenico Posca, presidente dell’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari, la nuova normativa disciplina in maniera regolamentare la professione e l’accesso all’albo. Tra i requisiti, per quanto riguarda la sezione dell’albo riservata agli esperti in gestione aziendale, è richiesto lo svolgimento, negli ultimi cinque anni, dell’attività di amministratore giudiziario in un’azienda sottoposta a sequestro penale o di curatore fallimentare. Per quanto concerne invece la sezione ordinaria, hanno diritto all’iscrizione quanti hanno risultano iscritti da almeno cinque anni nell’albo professionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili oppure in quello degli avvocati.

Quali funzioni ha nello specifico l’amministratore giudiziario?

«Un elemento da evidenziare è che si tratta di un’attività che non si rivolge a una vasta platea di professionisti. Oggi, in tutta Italia, i professionisti impegnati ad amministrare beni o aziende sequestrati alla criminalità si attestano attorno le 600700 unità. Basta fare un confronto con gli iscritti all’albo dei commercialisti, circa 120mila, e quelli all’albo degli avvocati, almeno 210mila. Le funzioni di un amministratore giudiziario includono la custodia e l’amministrazione di beni e aziende, con una sotto-distinzione: si può essere nominati amministratori di una singola azienda che fa a capo a un gruppo o a una società oppure si è amministratori della società stessa, occupandosi quindi di tutti i beni riconducibili a quella

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Domenico Posca, presidente dell’Istituto nazionale amministratori giudiziari 160

C&P • GIUSTIZIA

Domenico Posca • Legalità

Tra le criticità, rientrano la custodia e manutenzione dei beni e delle aziende In alto a destra, tenuta agricola Suvignano confiscata alla mafia

proprietà».

Quando possono essere disposti i sequestri?

«Nell’ambito di un procedimento penale, con sequestri preventivi ex lege n. 356/92: all’avvio di un procedimento penale nei confronti di uno o più soggetti, indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, viene disposto il sequestro preventivo di beni e imprese. Una tipologia che ha un suo iter e che segue il processo: se il tribunale del riesame non conferma il sequestro, questo termina oppure segue l’intero giudizio fino alla sentenza passata in giudicato. Gli stessi incarichi vengono disposti nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali, in base alla legge n.575/65 e successive modificazioni, che dispone l’apertura di un procedimento di tipo amministrativo, il quale tende ad attribuire in via definitiva allo Stato le aziende sequestrate. Spesso però si verifica un’anomalia».

Quale?

«Tale procedimento si sovrappone a quello penale. Si trovano così a operare al contempo due amministratori giudiziari, uno per conto del giudice penale e uno per conto del giudice della prevenzione. L’ultima ipotesi, relativa ai beni confiscati, vede l’amministratore giudiziario operare per conto dello Stato; quest’attività è stata modificata dall’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che prende in consegna tutti i beni gestiti dalle singole agenzie demaniali delle regioni.Va, infine, sottolineato come l’amministratore giudiziario si identifichi in una figura C&P • GIUSTIZIA

professionale complessa».

Sotto quale profilo?

«Deve possedere solide competenze giuridiche ed economiche, affiancandovi elevate capacità manageriali. Ma c’è anche il profilo delle responsabilità da considerare. Sul fronte delle competenze giuridiche ed economiche, risponde in sede civile e penale se non si opera correttamente. Sul versante aziendale, esistono anche responsabilità di risultato nella gestione di questi beni. Nella fase successiva al sequestro, infatti, nel momento in cui il bene è confiscato in via definitiva dallo Stato o quando magari viene restituito perché l’indagato ha risolto i suoi problemi, l’amministratore giudiziario è tenuto a rendere conto delle sue azioni in termini sostanziali».

Quali problematiche incontra l’amministratore giudiziario?

«Le criticità da affrontare sono diverse: custodia e manutenzione dei beni e delle aziende dal punto di vista materiale; il contenzioso tributario, legale e del lavoro; il profilo organizzativo e manageriale, il profilo di trasparenza nella rendicontazione dell’attività che viene posta in essere».

Può indicarmi i principali adempimenti a cui sono chiamati questi professionisti nelle varie fasi del processo di sequestro, confisca e amministrazione?

«Si parte dalla presa in possesso dei beni, con le autorità di polizia giudiziaria che eseguono il sequestro. Occorre innanzitutto inventariare e verbalizzare analiticamente ogni bene e ogni aspetto del bene che si va a sequestrare. È una prima fase molto delicata, da cui derivano conseguenze importanti. Occorre poi indicare il valore del bene in questione e relazionare 161

Legalità • Domenico Posca

Stiamo lavorando a stretto contatto con l’Agenzia nazionale del prefetto Morcone Domenico Posca con il prefetto Morcone, direttore dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata

all’attività giudiziaria eventuali correzioni rispetto a quanto contenuto nel provvedimento. Un altro delicato adempimento consiste nell’eseguire una sorta di due diligence sulla situazione generale dell’azienda o del bene, poiché deve emergere ogni tipo di irregolarità. E, di solito, se ne riscontrano molte, dalla sicurezza al lavoro sommerso, da pratiche fiscali elusive alla contabilità non proprio trasparente. Un ulteriore aspetto da prendere in esame è la sostituzione dell’organo amministrativo: l’amministratore giudiziario deve valutare se sostituire o meno il legale rappresentante dell’azienda sequestrata. Infine, tra gli adempimenti iniziali va segnalata l’introduzione immediata di ferree regole di controllo e di monitoraggio dei movimenti finanziari».

Nove aziende sequestrate su dieci finiscono in fallimento o in liquidazione. Perché avviene questo?

«Normalmente sono aziende che trovano un equilibrio economico muovendosi borderline rispetto agli adempimenti.

La stessa appartenenza a organizzazioni criminali consente a queste imprese di restare sul mercato in quanto godono di una serie di protezioni, riuscendo a operare in un ambiente irto di barriere all’ingresso. Quando però l’amministratore giudiziario lascia emergere ogni forma di irregolarità, magari denunciando l’azienda agli organi di controllo degli istituti di previdenza e del fisco, aumentano i costi che vengono scaricati sul conto economico di queste realtà. Si verifica, inoltre, un irrigidimento del rapporto con i fornitori e con il sistema bancario, quando occorre confermare le linee di credito. Questi fattori, insieme al rialzo dei costi, conduce alla “morte” di queste aziende. L’obiettivo dell’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari è, quindi, cercare di 162

invertire la tendenza: abbiamo coniato lo slogan “Sos; salvare l’azienda sequestrata”. Posti di lavoro, know-how, impianti produttivi, non possono andare dispersi. In questo senso stiamo lavorando a stretto contatto con l’Agenzia nazionale del prefetto Morcone, con la quale abbiamo sviluppato rapporti istituzionali ormai consolidati».

In che termini si declina questa collaborazione?

«Entrambi gli organismi sono nati all’inizio del 2010. Stiamo compiendo un percorso parallelo, l’Agenzia in quanto emanazione dello Stato che gli affida l’amministrazione dei beni già dalla fase del passaggio all’udienza preliminare nel corso del giudizio penale. Noi amministratori giudiziari, che abbiamo gestito il bene fino a quel momento, dobbiamo naturalmente raccordarci con chi prenderà poi il bene in consegna. Ci muoveremo sempre più in parallelo. Il nostro Istituto sta perciò stipulando un protocollo d’intesa con l’Agenzia nazionale finalizzato a determinati obiettivi: integrare le competenze per una gestione efficiente dei beni e delle aziende; elaborare procedure operative standard da tenere presenti su tutto il territorio nazionale; diffondere le best practice, le buone pratiche amministrative per ogni singola tipologia di bene; realizzare un aggiornamento professionale e metodologico che coinvolga ministeri, università, associazioni imprenditoriali, ma soprattutto tutelare il livello occupazionale e non disperdere gli impianti produttivi. Un conto è punire il mafioso che ha fatto nascere un’azienda tramite proventi illeciti, ma l’azienda in quanto tale ha diritto di andare avanti, se ha la forza di farlo. A prescindere dall’imprenditore mafioso, l’impresa deve proseguire il proprio percorso».

C&P • GIUSTIZIA

Usura • Alfredo Mantovano

La confisca è fondamentale per un’efficace lotta alle mafie L'azione del governo in materia di sicurezza sta dando ottimi risultati, ma sempre più preoccupanti sono i fenomeni di network tra le organizzazioni criminali italiane e internazionali. Il punto del sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano di Nike Giurlani

Sotto, il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano

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on solo arrestare e rendere i soggetti appartenenti alle organizzazioni criminali inoffensivi, ma anche sequestrarne i beni liquidi, immobili e le aziende e renderli così disponibili per attività istituzionali e sociali. Questa «la svolta che si è registrata in questa legislatura in virtù delle norme proposte dal governo e approvate dal Parlamento» come sottolinea il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano. «Grazie all’azione portata avanti dall'esecutivo è stato stimato che dal maggio 2008 sono stati sequestrati e confiscati alle organizzazioni mafiose 15 miliardi di euro».

Per rendere poi più efficace ed efficiente la gestione dei beni di provenienza illecita è stata anche istituita l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Molti gli interventi qualitativamente importanti realizzati. «Basti pensare all’operazione che qualche settimana fa ha permesso di sequestrare in Sicilia beni di vario tipo, per un valore di un miliardo e mezzo di euro, ad un imprenditore che si muoveva nell’ambito delle energie alternative» mette in rilievo il sottosegretario Mantovano.

Le organizzazioni mafiose sono dislocate solo in alcune regioni o si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutto il Paese?

«Il fenomeno della criminalità di tipo mafioso è ormai diffuso ovunque, in Italia e non solo. Nel nostro Paese, però, è presente una normativa, la 416 bis, che permette

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C&P • GIUSTIZIA

Usura • Alfredo Mantovano

Grazie all’azione portata avanti dal governo è stato stimato che dal maggio 2008 sono stati sequestrati e confiscati 15 miliardi di euro

STOP AL RACKET E ALL’USURA

di identificare in base a determinati indici, un’organizzazione criminale come mafiosa. Da tempo le organizzazione “tradizionali” come cosa nostra, 'ndrangheta e camorra hanno oltrepassato, almeno per quanto riguarda gli investimenti e i tentativi di penetrazione nella finanza e nell’economia, i confini della Sicilia, della Calabria e della Campania. “L’operazione crimine”, per esempio, condotta congiuntamente delle direzione distrettuale antimafia di Milano e di Reggio Calabria, ha interessato più la Lombardia che la Calabria e ha portato all’arresto di circa 120 soggetti appartenenti a vario titolo alla ’ndrangheta. Inoltre, sono stati sequestrati una quantità molto rilevante di beni immobili e di aziende ritenute possibili centrali di riciclaggio. Non c’è un’area del territorio nazionale che si può quindi ritenere esente da questo tipo di realtà».

Sempre più preoccupante è il fenomeno della criminalità organizzata transnazionale che mette a repentaglio lo sviluppo e la sicurezza della nostra società. Quali sono gli aspetti principali che caratterizzano lo scenario attuale?

«Un luogo comune da sfatare è che la mafia sia un fenomeno tutto italiano. Non lo è per due ragioni. Primo perché le organizzazioni criminali sono ormai presenti in tutto il mondo, secondo perché nello stesso territorio italiano insieme a cosa nostra, ‘nndrangheta e camorra operano in maniera spesso correlata anche organizzazioni, che si possono definire a pieno titolo mafiose, provenienti C&P • GIUSTIZIA

Il numero verde 800.999.000 contro l'usura e il racket risponde ai cittadini che hanno bisogno di avere informazioni su questi due temi per via telefonica. Il servizio accoglie le richieste dei cittadini interessati a ricevere dei chiarimenti, ma anche un sostegno per affrontare e prevenire il problema. Il call center fornisce informazioni alle vittime dell’usura e del racket, a chi tra loro non ha ancora denunciato o a chi vuole sapere in quale misura lo Stato può aiutarli ad uscire da questa situazione.

Oltre alle informazioni dettagliate sulle norme in vigore sulla materia, tra cui la legge numero 44 del 1999 e la numero 108 del 1996, i cittadini che chiamano il numero verde possono sapere a che punto è la domanda che hanno presentato al Fondo di solidarietà. «Questo servizio è attivo dal 2000 e ha fatto registrare una decina di migliaia di contatti – spiega il sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano – e serve in particolare per tastare il terreno, per capire se e quale aiuto può essere svolto dalle autorità». Il passaggio, però, decisivo «è il ruolo svolto dalle associazioni antiracket o antiusura che sono in grado di fornire quel conforto in grado di sostenere le vittime e aiutarle nella difficile decisione di sporgere denuncia» conclude il sottosegretario.

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Usura • Alfredo Mantovano

I traffici sui quali sono particolarmente concentrate le organizzazioni criminali sono le sostanze stupefacenti e il traffico di beni contraffatti

dalla Nigeria, dalla Romania, dalla Cina, dalla Russa, dall’Ucraina e dall’Albania. I traffici sui quali sono particolarmente concentrate queste organizzazioni sono le sostanze stupefacenti e il traffico di beni contraffatti. Alcuni mesi fa, per esempio, è stato sequestrato nel porto di Gioia Tauro un carico di 90mila paia di scarpe pseudo Nike che in realtà erano state fabbricate in Cina, alle quali era stato apposto il falso marchio nella repubblica Ceca e che, infine, dovevano essere stoccate nel porto di Gioia Tauro e quindi sotto la tutela, la vigilanza e il dazio dell’ ‘Nndrangheta che poi si incaricava di smistarle in giro per l’Europa. Stiamo quindi vivendo una dimensione di network che da tempo ha superato i confini nazionali».

Proprio di questi giorni sono le importanti operazioni messe a segno dalle autorità contro il fenomeno del racket nel Sud Italia. Quali sono le principali difficoltà incontrate dal governo nella lotta all’usura e al racket?

«Purtroppo le difficoltà continuano a essere la presenza a macchia di leopardo di sacche di omertà, anche se stiamo iniziando a registrare buoni risultati grazie alla presenze di sempre nuove associazioni, soprattutto di giovani e commercianti che si stanno battendo per sconfiggere questo male. Più si denuncia più si realizza un’attività di preven166

zione. Ho avuto, infatti, modo di leggere delle intercettazioni di una conversazioni tra due capi della camorra, i quali convengono di non passare in una certa via del centro di Napoli perché sono troppi i commercianti che in quella zona hanno aderito all’associazione antiracket del quartiere. Questo dimostra, inoltre, che c’è sempre più fiducia nelle istituzioni perché chi denuncia si sente tutelato e protetto tanto da compiere l’importante passo di incriminare i propri estorsori».

Cosa risponde a chi auspica un superamento della legge antiusura 108/96?

«Si tratta di una legge emanata 15 anni fa e che ha avuto tanti effetti positivi, ma che per certi aspetti risulta un po’ superata. Per questo, da tempo è in discussione una proposta di legge di ragionevole modifica, che non vuole smantellarne l’impianto originario, ma intende solo apportare alcuni miglioramenti per esempio nei rapporti tra le prefetture e l’autorità giudiziaria o snellimenti di carattere burocratico. Questa proposta è stata già approvata all’unanimità dal Senato e ora è in discussione alla Camera. L’auspicio è che ci sia un’accelerazione nell’iter in quanto, tra l’altro, tale proposta trova un consenso molto ampio, sia da parte delle forze politiche che delle associazioni più direttamente interessate».

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Stefano Lombardi • Usura

Vietato abbassare la guardia, il pericolo è sommerso Imprenditori medio-piccoli, famiglie e un recente filone “etnico”: l’usura è un fenomeno che tocca varie categorie. E le indagini partono spesso da segnalazioni per operazioni sospette.

Lo spiega il comandante della Guardia di Finanza di Milano, Stefano Lombardi di Riccardo Casini

C&P • GIUSTIZIA

on appena 25 denunce e 16 arresti nel corso del 2010 in tutta la regione, sarebbe facile pensare a un fenomeno marginale. In realtà i numeri resi noti dai reparti della Guardia di Finanza in relazione al reato di usura fotografano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che per molti risulta ancora difficile da far uscire allo scoperto, nonostante il lavoro dei militari; un lavoro che nell’anno in corso ha portato al sequestro di «titoli, depositi e contanti, oltre a beni di varie tipologie come autovetture, computer, quote societarie, mobili e soprattutto appartamenti per un valore complessivo di circa 2 milioni di euro», come racconta il tenente colonnello Stefano Lombardi, comandante del Gruppo tutela mercato dei capitali del nucleo di polizia tributaria della Gdf di Milano.

Qual è il trend rispetto agli anni precedenti?

«Dal punto di vista statistico il numero dei reati accertati è in lieve calo. Ma non per questo abbassiamo la guardia. È, infatti, difficile acquisire un quadro completo e attendibile del fenomeno, perché le vittime raramente si espongono, per paura di ritorsioni ma soprattutto perché temono un danno di immagine: magari hanno tenuto ben nascosto, anche a familiari e amici, prima il proprio stato di bisogno, poi il circolo vizioso del prestito usuraio. Fatti di reato, quindi, emergono di solito indipendentemente dalla denuncia delle vittime: o da altre indagini connesse, o dallo sviluppo delle segnalazioni per operazioni sospette, in forte incremento negli ultimi anni».

Qual è il profilo medio delle vittime di questo tipo di reati?

«La crisi dei mercati finanziari e la cosiddetta stretta creditizia da parte delle banche possono creare un terreno fertile per l’usura o per varie forme di abusivismo nell’esercizio dell’attività finanziaria. L’usura si presenta, quindi, come un fatto criminoso trasversale, in grado di colpire sia medio-piccoli imprenditori, sia le famiglie. Recentemente poi è stato scoperto un filone di usura “etnica”: si tratta di un’inchiesta condotta nei confronti di un’associazione per delinquere dedita all’erogazione di piccoli prestiti a connazionali, tutti cittadini extracomunitari, con interessi annui tra il 60 e il 70%. Un fenomeno in passato sconosciuto, indirizzato a soggetti deboli, assunti in nero o addirittura privi di un lavoro stabile, impossibilitati quindi a rivolgersi a intermediari abilitati per ottenere credito».

Quanto pesano nei reati di questo tipo le infiltrazioni della criminalità organizzata?

«La criminalità organizzata, grazie all’ingente quantità di denaro di cui dispone, riesce a infiltrarsi in tutte le attività economiche lecite. I soldi, che derivano dai guadagni realizzati grazie alla commissione di reati anche gravi come il traffico di stupefacenti, vengono riutilizzati anche per prestiti a tassi usurari, come forma di reimpiego in grado di generare altri utili. In alcune indagini è stata infatti riscontrata una contiguità tra episodi di usura e ambienti della criminalità organizzata».

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Editoriale

IL RICICLAGGIO E I SUOI INDICI SINTOMATICI di Stefano Maria Bortone Docente e avvocato, esercita a Roma segreteria@studiobortone.com

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i parla molto del riciclaggio e delle ricadute disastrose che tale reato ha sul libero sviluppo dell’economia. È un tema di attualità che, tuttavia, mette in evidenza anche una grande confusione tra gli operatori impegnati nella lotta al crimine economico, non sempre in grado di applicare tale norma in modo corretto. Basti pensare che fra gli errori più frequenti ricorre quello di individuare, quali possibili autori del delitto di riciclaggio, anche coloro che abbiano partecipato alla commissione del c.d. “reato presupposto”: e ciò, in palese difformità dalla norma penale che si limita a punire solo chi, "fuori dai casi del concorso nel reato”, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo. È, dunque, necessario che il riciclatore sia estraneo al fatto illecito “presupposto”.

Vediamo dunque di fare un po’ di chiarezza. Il riciclaggio consiste nelle operazioni volte a dare un’apparenza lecita a capitali la cui provenienza sia, in realtà, illecita: il fine dell’operazione è, ovviamente, quello di rendere più difficile l'identificazione della provenienza del denaro e il successivo eventuale recupero.

Proprio per questo motivo si usa comunemente la locuzione di riciclaggio di denaro sporco: “riciclare” denaro vuol dire investire i capitali illeciti in attività lecite. Il modo più comune per “pulire” denaro di provenienza illecita è, ad esempio, quello di effettuare passaggi di tale denaro tra vari istituti di credito (spesso accade col passaggio attraverso paradisi fiscali) per tornare poi pulito, pronto per essere usato, su qualche conto corrente; oppure quello di investire su beni immobili o in società offshore sparse nel mondo.

Purtroppo, i dati provenienti dell’esperienza giudiziaria dimostrano che il riciclaggio è un fenomeno di difficile individuazione, ragione per cui la Banca d’Italia con un provvedimento dell’agosto 2010 ha stilato un elenco di operazioni ritenute sospette in ragione delle quali passaggi di denaro o comportamenti anomali degli operatori finanziari possano rivelarsi indici sintomatici di un fenomeno di riciclaggio.

Sostanzialmente, tali “indicatori di anomalia” possono essere suddivisi in tre macro-categorie: indicatori di anomalia relativi a comportamenti del “cliente” o, più in generale, dell’interlocutore commerciale; indicatori di anomalia relativi al tipo di operazione effettuata; indicatori di anomalia connessi ai mezzi e alle modalità di pagamento.

Le “anomalie” che riguardano il “cliente” si manifestano in modi assai eterogenei all’inizio di un qualsiasi rapporto contrattuale, ad esempio, tutte le volte in cui egli si mostra in vari modi riluttante a fornire informazioni circa la propria identità, lo scopo e la natura del rapporto, l’attività esercitata o la sua situazione economica e finanziaria; oppure, tutte le volte in cui emerge che il cliente ha fornito informazioni significativamente difformi da quelle tratte da fonti affidabili e indipendenti (archivi camerali, albi, elenchi di soggetti autorizzati, dai

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Editoriale

Tra i principali indici sintomatici di un fenomeno di riciclaggio in action, si può annoverare l’utilizzo di carte di credito o di debito e, più in generale, di moneta elettronica

pubblicati su internet e così via); oppure, ancora, quando il cliente, a seguito della richiesta di informazioni, rinuncia ad avviare il rapporto commerciale, a eseguire la sua prestazione o chiede bruscamente di interrompere quella in essere.

Sempre relativamente al cliente, un'altra classe di anomalie è rappresentata dai suoi comportamenti lato sensu “stravaganti” rispetto all’ordinario, tutte le volte in cui egli, al fine di evitare qualsiasi contatto diretto con l’intermediario bancario, finanziario o commerciale, rilascia deleghe e procure a terzi in modo frequente e del tutto incoerente con l’attività svolta o – anche se può apparire banale – egli pone ripetuti quesiti in ordine alle modalità di applicazione della normativa antiriciclaggio o, ancora, cerca di stabilire relazioni eccessivamente o prematuramente confidenziali con l’operatore commerciale.Va da sé che l’anomalia per eccellenza in relazione ai comportamenti del cliente si riscontra tutte le volte in cui egli si ostina in qualsiasi modo a voler effettuare in contanti operazioni di significativo ammontare o con modalità del tutto inusuali (soprattutto quando egli è noto per essere stato sottoposto a procedimento penale o a misure di prevenzione).

Relativamente agli indicatori di anomalia connessi al rapporto commerciale o alle operazioni finanziarie, essi si possono identificare in tutti i casi in cui il rapporto o si configura in modo “illogico” (soprattutto perché è economicamente svantaggioso per il cliente) o non risulta in alcun modo giustificato o, ancora, quando risulta inusuale rispetto alla prassi corrente di mercato: ciò succede, tipicamente, quando vengo effettuate operazioni di acquisto o di vendita d’importo significativo, ma a prezzi palesemente sproporzionati rispetto ai correnti valori di mercato o al loro prevedibile valore di stima. Ulteriori indici sintomatici del movimento illecito di capitali possono essere rappresentati C&P • GIUSTIZIA

dalle seguenti ipotesi esemplificative: in primo luogo, dalle frequenti richieste di operazioni di qualsiasi genere da parte di aziende notoriamente e sistematicamente in perdita o comunque in difficoltà finanziaria e che continuano a mantenere la medesima gestione aziendale nonostante i numerosi cambiamenti negli assetti societari; in secondo luogo, dall’apertura di conti correnti utilizzati unicamente per realizzare operazioni in un breve lasso temporale e dalla loro successiva chiusura al termine di quella specifica operazione.

Infine, per ciò che concerne gli indici sintomatici di un fenomeno di riciclaggio in action, si può annoverare l’utilizzo di strumenti di pagamento (come carte di credito o di debito, carte prepagate e, più in generale, moneta elettronica) che, per modalità, ricorrenza o rilevanza economica non è affatto coerente con la normale operatività del cliente o dell’esercente: in particolare, è sospetto il frequente utilizzo di tali strumenti di pagamento connesso a volumi di vendita anomali da parte di un singolo esercente o operatore commerciale, soprattutto quando gli importi possano far supporre un anticipo di contanti sproporzionato da parte di un istituto di credito in relazione al volume d’affari dello stesso esercente.

Sia chiaro: il semplice ricorrere di uno dei comportamenti anomali sopra descritti non è motivo di per sé sufficiente per la segnalazione di operazioni sospette. Una sola di tale anomalie, singolarmente considerata, può essere assolutamente neutra da un punto di vista penalistico; tuttavia la stessa anomalia, considerata nel complessivo atteggiamento del “sospettato” e contestualizzata al tipo di rapporto in essere, può rivelarsi un indicatore assai efficace nella prevenzione dell’uso del sistema finanziario - e, più in generale, economico - a scopo di riciclaggio.

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Processi mediatici • Francesco Gigliotti

Nessun processo fuori dalle aule L’opinione pubblica spesso giudica ancora prima dell’esito di un processo.

Una tendenza che nasce da un’eccessiva esposizione mediatica.

Secondo Francesco Gigliotti, in questo contesto, l’avvocato deve fare in modo che il giudizio dell’uomo si consumi, sempre, nelle garanzie di legge di Luca Righi

L’avvocato Francesco Gigliotti. Nella pagina accanto è con la moglie avvocato Patrizia Procopio, contitolare dello studio avvfrancogigliotti@interfree.it

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recenti casi di cronaca ne sono un esempio eclatante.

Troppo spesso e sempre più frequentemente il diritto all’informazione tende a spostare fuori dalle aule di giustizia la celebrazione del processo, il cui esito è quasi indifferente alla convinzione formatasi nell’opinione pubblica che, informata minuziosamente di ogni particolare, crede di poter riconoscere la responsabilità degli indagati. «Se il rendere pubbliche determinate notizie ha il merito di promuovere un più ampio dibattito su importanti e spesso trascurate questioni di natura etica, politica, scientifica e sociale - afferma l’avvocato Francesco Gigliotti -, d’altra parte l’esasperata diffusione di immagini, conversazioni, testimonianze, apre un processo del caso concreto, parallelo a quello dell’aula, ma che si svolge in piazza e magari finisce anche prima». E così la sentenza viene accolta come l’atto finale di una procedura fine a se stessa. La folla giudica, assolve o condanna, senza appello.

Quale riscontro hanno i cosiddetti processi mediatici sullo svolgimento dell’attività della Giustizia?

«L’indagine diventa uno strumento di vendetta o di protagonismo. Non c’è contraddittorio, non c’è difesa.Tutti sono giudici, perché la difesa tecnica deve fare i conti con il rischio della sovraesposizione mediatica e il ruolo del difensore è praticamente assente. In questo contesto, l’avvocato e il processo, inteso quale strumento per la realizzazione del giusto contraddittorio, risultano dunque necessari e insostituibili per giungere a un risultato che possa essere accettato come giusto e, dunque, rispettato. Per quanto non abbia mai avuto riserve nel considerare nobile e imprescindibile il ruolo dell’avvocato, ancora oggi sono certo che la leggenda della toga, raccontata dal mio compianto maestro, rende la migliore versione dell’importanza della difesa e della necessità che il giudizio dell’uomo si consumi, sempre, nelle garanzie di legge. È proprio l’origine della leggenda della toga degli avvocati che rappresenta un monito all’agire di una società civile».

Che cosa narra nello specifico?

«Racconta la disavventura di un uomo ritenuto colpevole di un grave crimine e inseguito da una folla di malintenzionati urlanti e minacciosi che lo accusavano. L’inseguito, atterrito, sconvolto e tremante, aveva ormai i suoi nemici alle calcagna, non sapeva più a quale divinità raccomandarsi; le ultime forze lo stavano abbandonando, e in poco tempo gli inseguitori avrebbero fatto giustizia sommaria. Il suo destino sembrava ormai segnato, quando a un tratto apparve uno sconosciuto dal solenne portamento che accolse il fuggitivo tra le sue braccia e lo protesse avvolgendolo nel suo ampio mantello nero. Disorientata, come per prodigio, la folla si fermò davanti a quel gesto. Ad essa, divenuta silenziosa e attonita, il nero signore con gli occhi

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Processi mediatici • Francesco Gigliotti

lampeggianti di sdegno, rivolse queste semplici parole: “non giudicate, per quanto sia grave il delitto, prima di aver sentito la sua difesa”. Questa fu la prima arringa».

Cosa simboleggia, oggi, questa storia?

«Rende immediatamente consapevole chiunque del ruolo indefettibile dell’avvocato, in ogni tempo. Una società civile non può non garantire il diritto di difesa a tutti, per qualunque reato, per la tutela di ogni diritto e in qualunque momento.

Sempre più spesso, invece, con la complicità del diritto di cronaca, si assiste al sacrificio del diritto di difesa e della stessa celebrazione di un giusto processo. Una moltitudine di persone viene continuamente coinvolta a giudicare, senza garanzia alcuna, chiunque e dovunque, a beneficio dell’intrattenimento, oppure allo scopo del puro discredito pubblico o politico».

Quali sono le conseguenze di questo fenomeno?

«Naturalmente tutto questo dovrebbe essere accompagnato da un potere giudiziario indipendente, preparato, umile, non frustrato e non portatore di interessi diversi da quello dell’applicazione della legge. Anche su ciò, invece, si assiste sovente a un’eccessiva propensione del giustizialismo: una parte della società è portata all’erronea percezione di sé quale unica portatrice di ciò che è consentito ed è giusto, fenomeno che ovviamente rappresenta la negazione della giustizia. Il processo e l’avvocato rappresentano la massima garanzia a che la giustizia realizzi il suo corso. La tradizione dell’avvocatura è tutta incentrata in questo fondamentale elemento».

Oltre ad evitare la pubblicazione di atti di indagine e dichiarazioni e immagini dei protagonisti prima del processo, cosa si dovrebbe fare per risolvere gli innumerevoli problemi della giustizia?

«Per lavorare nel migliore dei modi, occorrerebbero degli aggiustamenti procedurali sia con riferimento al processo penale che a quello civile. Ci sono in corso importanti riforme ma non devono essere che l’inizio di un aggiustamento complessivo del sistema giustizia. Si deve per esempio completare la questione della parità delle parti tra accusa e difesa, per quanto riguarda il processo penale. Perché il cittadino è ancora lontano dal percepirla».

Quali altri cambiamenti auspica nel sistema?

«Servono strumenti idonei a velocizzare il più possibile i processi, però sempre con un controllo giurisdizionale oculato, competente e completo. E infatti quello che si chiede in una controversia non è solo una decisione che arrivi in tempi brevi, ma essenzialmente che il giudizio sia emesso con competenza, professionalità e obiettività, da persone che sappiano rappresentare quella libertà di giudizio, trasparenza e indipendenza da qualsivoglia condizionamento, che fanno di una comunità di persone una società civile che tutela innanzitutto l’individualità e la sacralità dei suoi componenti».

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Intercettazioni • Vincenzo Adamo

Disciplinare l’intercettazione telefonica Strumento prezioso per le indagini in ambito penale, l’intercettazione telefonica può ledere le garanzie del cittadino. Per Vincenzo Adamo è auspicabile un intervento legislativo che ne disciplini l’uso di Eugenia Campo di Costa

L’avvocato Vincenzo Adamo esercita a Cosenza vinc.adamo@virgilio.it

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rgomento quanto mai attuale e scottante, l’intercettazione telefonica costituisce tecnicamente un mezzo di ricerca della prova nel procedimento penale. Sicuramente, per via della sua efficacia, il più utilizzato. Con gli anni sono migliorati gli strumenti tecnici di percezione che hanno consentito di captare sempre più agevolmente le conversazioni utili alla ricerca della prova nel procedimento penale e ciò ha portato a un uso sempre più smisurato delle intercettazioni. «La disciplina tuttora in vigore che regola l’utilizzo di tale mezzo di ricerca della prova è ancorata a molti limiti - afferma l’avvocato Vincenzo Adamo -, imposti dalla necessità di rispettare il dettato dell’art. 15 della Costituzione che tutela la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Come spesso avviene quando si fa un uso eccessivo di un istituto giuridico, però, si verifica una sorta di eterogenesi dei fini: i limiti previsti dal codice di rito per l’uso delle intercettazioni non sono riusciti a impedire, troppo spesso, un utilizzo quasi ossessivo di questo imponente e invasivo mezzo di ricerca della prova, assecondando una finalità giustizialista».

Secondo lei c’è un abuso nell’utilizzo di questo strumento? Se sì, su quali aspetti bisogna intervenire per garantirne un utilizzo ottimale?

«L’utilizzo ossessivo delle intercettazioni che ho accennato è divenuto nel corso degli anni un abuso, con evidente lesione delle garanzie del cittadino, che pure il Legislatore, nell’introdurre la disciplina sulle intercettazioni aveva ben presenti. La pubblica accusa predilige la disposizione di quante più intercettazioni possibili per ricercare la prova della colpevolezza dell’indagato. È più comodo per gli inquirenti ascoltare una comunicazione tra due o più indagati, piuttosto che effettuare ispezioni e perquisizioni. Ciò, però, può costituire una compressione della libertà individuale. L’utilizzo smisurato di questo mezzo, sfugge ai limiti previsti dall’art. 267 c.p.p.: tra i presupposti per procedere ad intercettazione vi è quello dell’“assoluta indispensabilità” di tale strumento ai fini della prosecuzione delle indagini. Ma l’assoluta indispensabilità è stata sostituita nella prassi dall’“assoluta comodità” per la prosecuzione delle indagini. Sarebbe auspicabile un intervento legislativo che ristabilisca quelle garanzie costituzionali che l’abuso delle

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Intercettazioni • Vincenzo Adamo

Tra i presupposti per procedere all’intercettazione vi è quello dell’“assoluta indispensabilità” di tale strumento ai fini della prosecuzione delle indagini

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intercettazioni ha relegato nel dimenticatoio. Il ddl che è stato approvato alla Camera nello scorso luglio mi pare un buon testo in grado di rispolverare le garanzie individuali».

L’interferenza mediatica che sta avvenendo in tema di intercettazioni telefoniche incide sullo svolgimento dell’attività della Giustizia?

«Incide, innanzitutto, sull’indagato (o imputato) che si trova costretto a subire due processi: quello innanzi al giudice naturale precostituito per legge, con le garanzie previste dal nostro ordinamento, e anche il processo mediatico, in cui non è prevista alcuna sorta di garanzia e dove la sentenza di condanna può giungere ancor prima che si concludano le indagini. In questo secondo processo non sono previste pene detentive, ma il prezzo da pagare in tema di salute e di immagine è altissimo. Uno Stato di diritto deve munirsi di strumenti in grado di limitare al massimo lo svolgersi di processi mediatici che ledono i diritti costituzionali in tema di principio di non colpevolezza e di giusto processo. La pubblicazione delle intercettazioni durante la fase delle indagini sulla stampa e la divulgazione sui mezzi radiotelevisivi costituisce la celebrazione del più barbaro processo penale».

Quali elementi soprattutto definiscono l’illegittimità di un’intercettazione ai fini dell’indagine?

«Sono illegittime le intercettazioni quando sono disposte per delitti per i quali il loro utilizzo non è previsto. Così come le intercettazioni disposte quando non esistono gravi indizi di reato a carico dell’indagato».

Secondo lei è necessario rivalutare il livello di responsabilizzazione di pm e magistrati relativamente all’utilizzo dello strumento dell’intercettazione telefonica?

«Sono contrario a interventi punitivi nei confronti dei magistrati. Ritengo, invece, che la Magistratura insieme all’Avvocatura debba contribuire a migliorare il sistema Giustizia e a prestare il proprio apporto perché il processo penale sia il mezzo per il raggiungimento della verità, e al contempo presidio per le garanzie del cittadino, nell’ottica del principio del giusto processo, che trova tanto meritato spazio sulla Carta costituzionale e sui manuali di procedura penale, ma poco nella prassi delle nostre aule di Giustizia».

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Intercettazioni • Pierfrancesco Scatà

Occorre un uso responsabile delle intercettazioni Sono legittime o illegittime?

Morali o immorali? Necessarie o non necessarie? A parlarne, l’avvocato Pierfrancesco Scatà di Belinda Pagano

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

L’avvocato Pierfrancesco Scatà, titolare dell’omonimo studio di Pordenone studioscata@libero.it

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una tematica decisamente scottante. In questo periodo casi di cronaca hanno riportato alla luce discussioni relative alla legittimità di questi mezzi d’indagine giudiziaria. Ma qual è la posizione italiana? Abbiamo consultato l’avvocato penalista Pierfrancesco Scatà, già segretario della Camera Penale di Pordenone; docente, e componente del Consiglio Direttivo della Scuola Forense di Pordenone.

A che punto è l’iter parlamentare in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali?

«Il ddl Alfano è attualmente all’esame della Camera in seconda lettura e la discussione assembleare iniziata quest’estate dovrebbe proseguire nei prossimi mesi. Per la verità la necessità di intervenire sul tema risale alla XII legislatura e i disegni di legge che sono stati presentati durante gli anni quasi non si contano; solo nell’attuale legislatura sono stati presentati in materia di intercettazioni ben dieci disegni di legge alla Camera e al Senato. La conclusione che posso trarre è che il nostro paese non sembra ancora capace di esprimere un disegno politico all’altezza della situazione in una materia così delicata che entra in alcuni degli aspetti fondamentali della vita di relazione sociale degli individui».

Perché allora la legge di riforma sulle intercettazioni telefoniche tarda a essere approvata?

«Il tema delle intercettazioni telefoniche non può prescindere dal dettato costituzionale. L’art. 15 infatti stabilisce che la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge; in buona sostanza il dovere di prevenire e reprimere reati deve essere svolto nel più assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare l’inviolabilità e segretezza delle comunicazioni. La verità è che alcuni soggetti coinvolti nel sistema delle intercettazioni sembrano essere più forti, mi riferisco agli inquirenti e ai mass media i quali non hanno alcun concreto interesse alla riforma: questa è la ragione per la quale, a mio avviso, il sistema delle intercettazioni non è stato ancora riformato. Sono invece fermamente convinto che l’intercettazione costituisca una fattispecie talmente straordinaria da richiedere necessariamente un complesso di garanzie volte a tutelare l’indagato-imputato e il terzo estraneo».

Uno degli obiettivi del ddl Alfano è limitare o ridurre gli abusi delle intercettazioni da parte dei magistrati, che ne pensa?

«L’aspirazione del ddl Alfano è realizzare un “uso oculato” di questo importante mezzo di ricerca della prova e l’obiettivo viene raggiunto essenzialmente su due piani: da un lato con la modifica dei presupposti applicativi che legittimano le in-

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Intercettazioni • Pierfrancesco Scatà

tercettazioni, dall’altro mediante la consistente riduzione dei tempi di durata dell’attività di ricezione di comunicazioni riservate. Soggetti passivi del mezzo di ricerca della prova non sono attualmente solo gli indagati, ma anche i potenziali testimoni e un’indefinita molteplicità di soggetti non sottoposti a procedimento penale; non sembra corretto sottoporre a intercettazione una moltitudine di soggetti in maniera indiscriminata sulla base del solo presupposto dell’esistenza di un reato; si tratta di un aspetto molto critico, che dovrebbe trovare una soluzione. Ai fini di una corretta motivazione del provvedimento autorizzativo, non si richiede oggi l’accertamento di gravi indizi di colpevolezza o di reità in capo a qualche indagato, ma la sola presenza dei gravi indizi di reato sicché può essere intercettata anche una persona non indiziata del fatto.Tuttavia, affinché possa farsi luogo a intercettazione non è sufficiente accertare la sussistenza di gravi indizi, ma occorre anche dimostrare l’ulteriore presupposto della assoluta indispensabilità ai fini delle indagini».

Se dovesse essere approvato il ddl Alfano, si è parlato di attacco alla libertà di stampa...

«L’attualità ci restituisce una diffusa pratica dell’anticipazione di vere e proprie condanne.Verbali di conversazioni privi di C&P • GIUSTIZIA

qualsiasi rilevanza penale vengono sistematicamente pubblicati, cosa per molti versi intollerabile in un paese che tutela la legge per la privacy. L’indignazione credo sia più che giustificata. Il problema dei confini tra segreto istruttorio e diritto di cronaca dovrebbe essere affrontato con maggiore equilibrio. Nel nostro codice abbiamo una disciplina del divieto di pubblicazione contenuto nell’art. 114 c.p.p. che deve coordinarsi con un’altra norma, l’art. 329 c.p.p. che descrive quali atti sono coperti dal segreto, esigenza di protezione delle indagini per evitare che vengano inquinate.

Quando invece parliamo di divieto di pubblicazione ci riferiamo al fatto che gli atti del processo sono conoscibili in un certo momento nel quale diventano pubblici e possono essere divulgati all’esterno. Allo stato attuale il divieto di pubblicazione è legato a filo doppio al segreto interno, nel senso che fintanto che l’indagato non può avere conoscenza degli atti delle indagini che sono normalmente segrete, non può essere pubblicato nulla».

Cosa si può fare per colmare il divario tra la normativa interna e le indicazioni della giurisprudenza europea?

«Ci dovrebbe essere una precisa specificazione legislativa delle categorie di persone suscettibili di formare oggetto di intercettazioni. Occorre poi estendere ai terzi interlocutori delle conversazioni l’avviso relativo al deposito delle registrazioni presso la segreteria del PM, e consentire loro di prendere visione di quelle in cui essi sono coinvolti, salvo che vi ostino esigenze investigative. Il sistema di selezione delle intercettazioni va rivisto con l’indicazione di precisi criteri per stabilirne la loro positiva rilevanza. Dovrebbe essere previsto l’assoluto divieto di pubblicare il contenuto delle conversazioni intercettate prima dell’esaurimento delle procedure con l’introduzione di presisi strumenti dissuasivi rispetto alla violazione della privacy commessi mediante l’illecita pubblicazione di intercettazioni».

Da questo punto di vista la riforma in itinere è soddisfacente?

«Diciamo che sembra disinteressarsi di alcune questioni fondamentali come la specificazione delle categorie di persone assoggettabili al controllo, all’estensione ai terzi interlocutori delle conversazioni dell’avviso relativo al deposito delle relative registrazioni e del diritto a prenderne visione e la revisione dei criteri di selezione delle intercettazioni da introdurre nel materiale probatorio utilizzabile. Suscita perplessità anche la previsione che modifica radicalmente l’art. 114 c.p.p. estendendo sensibilmente il divieto di pubblicazione degli atti delle indagini preliminari, e soprattutto della documentazione relativa alle comunicazioni intercettate».

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Avvocatura • Guido Alpa

Per un sistema più efficace Riformare la giustizia. Alleggerendo i meccanismi, semplificando i riti, introducendo il processo telematico e aumentando il personale. Le proposte e le idee di Guido Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense di Lorenza Mazzotti

gevolare l’accesso alla giustizia e garantirne un buon funzionamento sono prerogative ormai imprescindibili. Gli strumenti messi in gioco per snellire i procedimenti giudiziari sono numerosi: la conciliazione, la mediazione, il procedimento telematico, la semplificazione dei riti, la cultura del processo e la possibilità di incrementare il numero di giudici indicendo concorsi riservati agli avvocati. «Ma servirà ancora molto tempo per sanare la macchina della giustizia». Anche perché rispetto al passato, oggi sono sorte problematiche inaspettate. Basti pensare al senso di insicurezza diffuso tra i cittadini che ha avuto come conseguenza un inasprimento dei controlli che hanno ridotto enormemente il diritto alla privacy, un principio che fino a dieci anni fa era considerato assolutamente inviolabile. Senza contare gli scandali provocati dai processi mediatici e la difficoltà di gestire le intercettazioni. Al centro di queste dinamiche si pone l’Ordine degli avvocati, chiamato con i suoi iscritti a mediare tra le leggi e i diversi attori coinvolti nei complessi meccanismi della giustizia. A un autorevole rappresentante di questo mondo professionale, il professor Guido Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense viene chiesto, allora, di approfondire questi temi.

Sono evidenti i segnali di una profonda crisi del sistema giudiziario italiano.

«L’Italia, dal punto di vista dei tempi e del numero dei procedimenti in corso, è il penultimo Paese per efficienza rispetto a tutti gli altri, e si colloca davanti alla Grecia, fanalino di coda dell’Europa. Le cause di questa situazione

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Guido Alpa, presidente del Consiglio nazionale forense 180

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Guido Alpa • Avvocatura

sono dovute a diversi fattori».

A suo parere, quali sono le radici di questo malfunzionamento?

«In primo luogo una cronica carenza di risorse finanziarie che ha contrassegnato da decenni il ministero della Giustizia e quindi gli uffici dei tribunali e che ha impedito da un lato una miglior organizzazione e dall’altro un aggiornamento tecnologico adeguato. In secondo luogo un’inefficienza grave determinata dal fatto che il personale è carente.

Per questo motivo si avverte un sovraccarico di lavoro e quindi la necessità di svolgere attività e mansioni non precipue. Alla carenza di personale si è cercato di provvedere con l’istituzione di giudici onorari, i quali affiancano i giudici togati».

C’è chi fa notare come una causa della lentezza del nostro sistema risieda nel numero di gradi di processo. Cosa ne pensa?

«Secondo il principio garantista della nostra Costituzione tutti possono ricorrere in giudizio e anche in Cassazione.

Purtroppo alla formulazione di questo principio non è seguita l’attivazione se non di recente, di metodi di risoluzione stragiudiziaria delle controversie, cioè di conciliazione e di mediazione, che possono supplire all’attività del giudice ordinario, prevenire le liti, risolvere in modo semplificato e con costi ridotti quelle cause che non meriterebbero di essere portate dinnanzi al giudice togato».

Quali sono le nuove frontiere del diritto cui guarda con attenzione?

«Innanzitutto bisogna mettersi nell’ottica di agevolare l’accesso alla giustizia. Nello stesso tempo, però, bisogna assicurare ai cittadini un sistema efficiente e rapido. Questo comporta che gli organismi devono essere rafforzati».

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Gli avvocati sono favorevoli alla conciliazione e alla mediazione?

«Senza dubbio. Perché questo è un metodo per assicurare giustizia a tutti e allo stesso tempo, si evita che la macchina della giustizia si perda nei meandri dei tempi e dell’inefficienza. Il ministro ha anche proposto di abbreviare i tempi delle scadenze che scandiscono il processo. Noi siamo favorevoli a una accelerazione dei tempi sempre che questo non significhi un sacrificio per il diritto di difesa. Per di più si pone il problema dell’organico che non si può mantenere incompleto e deve essere risolto il problema dei Giudici onorari che al momento hanno uno status precario.

Serve fare chiarezza e capire se debbano essere inseriti stabilmente nell’organico della magistratura. Infine c’è il processo telematico, un progetto proposto dallo scorso governo e portato avanti dall’attuale. Si tratta di una radicale rivoluzione che consentirà di eliminare la gravissima situazione legata alla difficoltà della notificazione, dell’iscrizione al ruolo della comunicazione, dei documenti. Inoltre renderà standard molti atti processuali, semplificandoli».

Come vede il rapporto tra giustizia e mass media in Italia?

«Il processo mediatico non credo sia un problema soltanto italiano ed è molto grave perché porta alla pre-costituzione, nella coscienza popolare, di giudizi che anticipano quelli, legittimi, del magistrato che, evidentemente, entrano in conflitto con quel principio sacrosanto della nostra Costituzione che afferma la necessità della presunzione di innocenza di chi è incriminato. Dobbiamo sempre tenere a mente che il colpevole è da considerarsi tale soltanto dopo la sentenza. Costruire processi attraverso televisioni e giornali, che seguono le indagini e pubblicano informazioni, è una pratica a mio parere scorretta e gravemente lesiva, non soltanto per le persone coinvolte, ma anche per le categorie professionali interessate».

E cosa pensa della questione spinosa delle intercettazioni? «È un argomento delicatissimo a cui adesso il Parlamento sta cercando di dare una risposta perché coinvolge diversi diritti in conflitto tra loro: il diritto dell’opinione pubblica di essere informata e il diritto della persona sulla quale vengono effettuate le indagini a conservare intatta la sua sfera privata».

Attualmente si sente parlare di allarmismo, dell’induzione strategica di un senso di insicurezza che fa percepire una situazione molto più grave dei fenomeni di microcriminalità e delinquenza in generale. Qual è il suo punto di vista?

«Dopo l’11 settembre c’è una richiesta di maggiore sicurezza sia per coloro che vivono fuori dai centri urbani, sia da parte di chi vive in periferia o in centro città. Questa sensazione di insicurezza è percepibile in ciascuno di noi.

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Avvocatura • Guido Alpa

Si sta restringendo il diritto alla privacy e la tutela dei dati personali contemplati nella Carta di Nizza. Principi fino a dieci anni fa considerati fondamentali

Bisogna capire come reagire. Se è sufficiente rafforzare la sorveglianza o integrare le forze di polizia. Ma anche chiarire in che forme, in che modi, questa insicurezza sia giustificata oppure no».

Cosa intende?

«Questo senso di insicurezza può essere utilizzato allo scopo di privare i cittadini della loro libertà, ridurre l’ampiezza dei loro diritti, fargli credere che viviamo in una realtà in cui tutti siamo osservati. Il bisogno di sicurezza, se esasperato, va quindi a scontrarsi con le libertà private e personali».

Quindi secondo lei c’è il rischio che le libertà personali vengano limitate?

«Ho la sensazione che il livello di tutela dei diritti fondamentali sia regredito anziché aumentato. Si sta restringendo il diritto alla privacy, alla tutela dei dati personali, che fino a dieci anni fa era considerato un diritto fondamentale, contemplato nella Carta europea dei diritti fondamentali, la Carta di Nizza. Oggi tale diritto soffre di questa sua nuova situazione di insicurezza, ed è ridotto nella sua dimensione.

I sistemi di sicurezza implicano l’intrusione nella vita privata, l’utilizzo di telecamere per spiare la vita delle persone, o di macchine fotografiche utilizzate nei centri in cui il controllo si è reso necessario per evitare o prevenire la criminalità. Inoltre stanno riemergendo o emergendo per la prima volta reazioni di carattere razziale. Sentimenti che il popolo italiano non ha mai avuto e che adesso per tante ragioni, dovute all’immigrazione incontrollata e alla criminalità diffusa suscitano forse reazioni decisamente spropositate».

Nell’ambito dell’Ordine, quali misure sono state prese per creare un sistema e una giustizia che finalmente funzioni?

«Il Consiglio nazionale forense aveva progettato da tempo delle misure per migliorare un sistema che, ovviamente, non si può risanare da un giorno all’altro. Servirà molto tempo per sanificare la macchina della giustizia. Il Consiglio ha promosso la conciliazione e la mediazione, il procedimento telematico, la semplificazione dei riti, la cultura del processo e anche la possibilità di colmare l’organico indicendo con182

corsi riservati agli avvocati. Perseguendo questo disegno, l’avvocato che vince un concorso per diventare giudice è un giurista ormai formato, che ha esperienza in tribunale. Per questo può dare maggiori garanzie di competenza e di efficienza. Queste proposte, purtroppo, però non sono state accolte da nessun governo, da quando sono state avanzate.

Noi stiamo cercando adesso di migliorare la nostra categoria attraverso una riforma complessiva che migliori la formazione dell’avvocato, la sua selezione per l’ingresso all’Ordine e poi l’aggiornamento professionale continuo, che è diventato un obbligo deontologico a cui devono sottostare tutti gli avvocati».

Tra i vari settori giuridici quali rileva siano i più penalizzati?

«Non siamo sicuri che il processo societario, rinnovato con la riforma, abbia prodotto effetti positivi. In secondo luogo ci chiediamo se non sia il caso di intervenire per unificare le competenze in materia di rapporti familiari. Ora le competenze sono divise, c’è il tribunale dei minorenni e quello ordinario che cambia a seconda che i rapporti familiari abbiano origine da una famiglia di fatto o fondata su un matrimonio. In aggiunta, c’è ancora c’è il problema delle locazioni e dei rapporti di lavoro. Poi c’è il problema dei contratti: l’economia ha oggi più che mai bisogno di certezze e la conflittualità in questa materia introduce invece solo maggiori incertezze».

Qual è la sua valutazione sulla riforma che dovrebbe essere varata a breve dall’Esecutivo?

«In merito alla riforma della giustizia stiamo esaminando il testo che è stato da poco approvato alla Camera e che prevede molte innovazioni sulle quali gli avvocati sono senz’altro d’accordo. Occorrerà fare ancora qualche ritocco al testo relativo al ricorso in Cassazione. Inoltre sarà necessario verificare se quello che è stato presentato è adeguato rispetto alle aspettative dell’avvocatura. Per quanto riguarda la riforma dell’ordinamento forense, mi auguro che, entro breve, tutte le componenti dell’avvocatura raggiungano un’intesa su un testo condiviso che riguarda la riforma della nostra professione».

C&P • GIUSTIZIA

Avvocatura • Ester Perifano

Ordine alla professione Accesso alla professione, libero e costante aggiornamento, tariffe professionali e previdenza.

Sono alcuni dei temi trattati da Ester Perifano, presidente dell’Associazione nazionale forense di Federico Borghi

na voce fuori dal coro. Ma mai contraria per partito preso. Ester Perifano, presidente dell’Associazione nazionale forense, quando parla dei problemi che affliggono la classe forense, lo fa guardando alla realtà dei fatti. È partendo da qui che a volte critica e a volte condivide le politiche messe in atto dagli organi ufficiali che rappresentano la categoria Un tema cruciale da affrontare oggi è quello dell’accesso alla professione dei giovani avvocati, sempre più numerosi e al contrario sempre con minori possibilità lavorative. Quali le soluzioni proposte in merito dall’Anf? «L’accesso alla professione è oggi il grande problema della classe forense, sia perché il numero degli abilitati cresce ogni anno a dismisura, ma soprattutto perché non sempre quelli che riescono poi ad avere l’abilitazione sono i migliori. A nostro avviso un primo, significativo intervento dovrebbe riguardare il corso di laurea in giurisprudenza, prevedendo un percorso specifico per chi in seguito vorrà dedicarsi a una delle tre professioni legali: avvocato, magistrato o notaio. Limitarsi a intervenire pesantemente solo sul tirocinio e sull’esame di stato, come vorrebbe il progetto di riforma in discussione, con test di ingresso, scuole forensi obbligatorie, prove di preselezione informatica e prova d’esame più selettiva, serve solo a raggiungere il fine indiretto della diminuzione di un numero che viene considerato esorbitante, ma

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non contribuisce certo a migliorare la preparazione dell’aspirante avvocato.Tutto ciò è ben chiaro all’Antitrust, per questo ha deciso di intervenire».

Quanto è importante la formazione e quali i suoi costi attuali? Come si sta muovendo a livello associativo la categoria per promuovere la formazione e l’aggiornamento senza gravare troppo sulle finanze dei giovani professionisti?

«Il costante aggiornamento professionale è fondamentale per la qualità della prestazione. E già il nostro codice deontologico prevede all’articolo 13 il dovere di aggiornamento professionale e al precedente articolo 12 il dovere di competenza, per effetto del quale è vietato all’avvocato assumere incarichi per i quali non abbia la competenza sufficiente. Inoltre, come spesso si sente ripetere, non è l’Europa a pretendere la formazione continua obbligatoria: esiste solo una risoluzione che lo auspica per tutte le professioni. Per esempio ancora oggi per gli ingegneri e gli architetti l’aggiornamento professionale è solo facoltativo e non per questo vengono sanzionati. Noi riteniamo che ogni avvocato dovrebbe potersi aggiornare liberamente, secondo le necessità e le possibilità di ciascuno, senza l’imposizione di obblighi che, alla prova dei fatti, si rivelano spesso del tutto inidonei. Il sistema dei crediti, poi, è assolutamente inefficace, oltre a essere anche piuttosto costoso. Le nostre sedi locali spesso intervengono con l’organizzazione di corsi tenC&P • GIUSTIZIA

Ester Perifano • Avvocatura

Il sistema dei crediti è assolutamente inefficace.

Nei Fori dove c’è una presenza associativa importante i costi sono, generalmente, assai più contenuti che altrove I CREDITI PER LA FORMAZIONE econdo il regolamento approvato dal Consiglio nazionale forense nel 2007 sulla formazione professionale continua degli avvocati è necessario maturare 90 crediti formativi ogni 3 anni. Tale obbligo si assolve attraverso la partecipazione a eventi promossi, organizzati o accreditati dal Consiglio nazionale forense, dai consigli dell’Ordine e dalla Cassa nazionale di previdenza. Gli eventi formativi più comuni sono: i corsi di ag-

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denzialmente gratuiti e il risultato è che nei fori in cui c’è una presenza associativa importante i costi sono, generalmente, assai più contenuti che altrove».

Altro tema di viva attualità è quello delle tariffe professionali, specie dopo la liberalizzazione dovuta alla legge Bersani. Quali sono gli aspetti più controversi in materia?

«Sull’argomento si è creata un po’ di confusione. Si fronteggiano due diversi orientamenti, ambedue autorevoli: l’uno, sostenuto dall’Antitrust nell’esercizio di una facoltà legittima di intervento, secondo il quale le tariffe minime inderogabili violano il principio della concorrenza; l’altro, della Corte di Giustizia, secondo cui la determinazione delle tariffe minime e massime inderogabili per gli avvocati, nel regime ante legge Bersani, non è in contrasto con le regole comunitarie in materia di concorrenza. Per cui gli avvocati invocano l’abrogazione della legge e il ripristino delle tariffe minime inderogabili. La verità è che le famose “lenzuolate”, almeno per quanto riguarda la nostra professione, hanno certamente favorito il grande capitale. Banche e assicurazioni hanno, infatti, immediatamente ridotto al di sotto del minimo le parcelle ai loro avvocati, mentre poco o nessun vantaggio hanno portato al consumatore, per il quale è importante poter contare su un avvocato di qualità e vincere la causa, e non pagare C&P • GIUSTIZIA

giornamento, i master, i seminari, i convegni, le giornate di studio, le tavole rotonde, le commissioni di studio, i gruppi di lavori istituiti da organismi nazionali e internazionali della categoria professionale e anche altri eventi individuati dal Cnf e dai singoli consigli dell’Ordine. Chi partecipa a questi eventi acquisisce crediti per ogni metà giornata di partecipazione con il limite massimo di nove crediti per ogni singolo evento formativo

poco l’avvocato».

Strettamente collegato a tutti questi argomenti c’è quello della previdenza. Quali i nodi cruciali da sciogliere?

«Il nostro ente previdenziale gode fortunatamente di ottima salute.Tuttavia, per espressa disposizione legislativa, è tenuto a garantire il pareggio di bilancio per i prossimi trenta anni per cui è in corso di approvazione una riforma del sistema. Si tratta di trovare il giusto equilibrio tra i diritti e i benefici già maturati e le aspettative di chi si iscrive oggi alla Cassa per la prima volta».

Come va riformato il vostro ordinamento per un allineamento con le mutate esigenze delle moderne società?

«Attraverso una serie di regole semplici e comprensibili anche all’esterno, che ci permettano di recuperare presso l’opinione pubblica un’immagine che oggi, purtroppo, è piuttosto sfavorevole».

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Avvocatura • Grazia Volo

Che la giustizia torni nelle aule Basta parlare solo di sè.

Basta apparire nei salotti televisivi.

Basta evitare i veri dibattimenti.

Con lo stesso metodo scientifico con cui vorrebbe veder affrontati i processi in tribunale, Grazia Volo compone la sua accusa all’avvocatura italiana di Giovanna Mingardi

Grazia Volo, avvocato penalista

orte, credibile e autorevole. Questa è l’essenza dell’avvocatura per Grazia Volo. Anzi, quello che dovrebbe essere. Perché da vent’anni a questa parte in Italia si è perso di vista il senso della professione. L’avvocatura, che dovrebbe rivestire - come è stato in passato - un ruolo da protagonista nel rinnovamento del sistema giudiziario e della giurisprudenza, si trova invece incapace di reagire per via di avvocati troppo concentrati ad apparire sui mass media, e un sistema di accesso alla professione, infine, troppo permissivo, che ha creato giovani impazienti di affermarsi, bruciando le tappe. La soluzione è solo una: «Rifondare la centralità del processo perché è questo il terreno dell’avvocato».

Quali cambiamenti vede nella professione, da quando lei ha iniziato a oggi?

«Oggi l’avvocatura affronta una profonda crisi, che è una crisi di assenza di pensiero. Sono circa trent’anni che arranca, a seguito delle iniziative che sono state prese dalla magistratura. Negli anni 70, quando ho iniziato io, in ogni città d’Italia c’erano due o tre avvocati famosi e autorevoli, molto più noti dei magistrati».

Quando parla di iniziative della magistratura a cosa si riferisce?

«Da trent’anni a questa parte la magistratura è stata delegata dalla politica alla risoluzione dei grandi problemi, esercitando un’attività di supplenza politica. E nella sostanza si è determinato il fatto che i pubblici ministeri sono diventati i gestori delle questioni più importanti che

hanno riguardato la vita del Paese: il terrorismo, la grande criminalità organizzata, i rapporti complessi tra politica e imprenditoria e tra politica e criminalità. Fino ad arrivare oggi a toccare i santuari della finanza, le banche, e a incriminarne le scelte strategiche. Mi riferisco alle ultime indagini sulle scalate. La centralità delle procure ha determinato la crisi della fase dibattimentale del processo, perché ormai tutto si concentra nella fase delle indagini preliminari. E gli avvocati non sono stati capaci, anzi non siamo stati capaci, di sviluppare un’efficace resistenza. A conseguenza di tutto ciò si è determinata la tendenza a risolvere i processi prima della fase dibattimentale, con una difesa debole e quindi con accordi come patteggiamenti e riti abbreviati. Questo ha determinato in via definitiva la perdita di prestigio dell’avvocatura».

Da dove inizierebbe per invertire questa tendenza?

«Intanto bisogna trovare il modo di far emergere forti opinioni da parte degli avvocati, che non si limitino a proporre in maniera strumentale e aggressiva la separazione delle carriere, un conflitto tra l’altro di modesta rilevanza. Occorre andare ai grandi temi. Sono convinta che uno di questi riguardi una grande degenerazione che è avvenuta nel nostro Paese: il giustizialismo, che è diventato di destra e di sinistra, e ha eliminato lo spazio del garantismo, che invece è profondamente liberale, legato alla centralità dei diritti dell’uomo. Su questo purtroppo c’è poca attenzione».

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C&P • GIUSTIZIA

Grazia Volo • Avvocatura

Ma dove risiedono le motivazioni principali di questo disinteresse?

«Purtroppo nell’avvocatura si è inserito un vizio, quello del desiderio di protagonismo personale. Avvocati che si pongono e si propongono come artefici di piccoli o grandi interventi su processi più o meno rilevanti: in questo si mostra un protagonismo secondo me gravemente criticabile, che combacia con l’interesse mediatico. Questo atteggiamento ha contribuito a determinare la perdita di centralità del processo: la sede propria del dibattimento, le aule giudiziarie, è scomparsa dall’interesse mediatico perché il processo si celebra, invece, nel teatrino televisivo».

Esiste quindi anche una responsabilità da parte della stessa avvocatura?

«Su questo noi avvocati dovremmo fare una severa autocritica. Se nei confronti dei mass media ci ponessimo tutti con un atteggiamento più riservato, non arriveremmo a certi eccessi. Sono convinta che si possa effettuare una critica profonda ed efficace nei confronti degli atteggiamenti sbagliati altrui, solo quando si è in condizione di farla su se stessi. È quindi sicuro che ci siano guasti nella magistratura troppo protagonista, ma guardando con attenzione quante interviste vengono rilasciate da magistrati e quante da avvocati, purtroppo queste ultime sono molte di più».

Un avvocato non dovrebbe esporsi mai sui mass media?

«Non voglio dire che in assoluto non si debba andare in televisione, ma comparire per spalancare l’archivio del proprio studio è una cosa che trovo agghiacciante. Sono fermamente convinta che il processo penale sia un trauma grave, e che chiunque lo subisca abbia diritto a essere “non esposto”. Figuriamoci quindi se può essere tradito dal suo avvocato, che va a raccontare i dettagli urbi et orbi. C’è una straordinaria intimità che deve essere tutelata: quella del rapporto tra avvocato e assistito e, dall’altra parte, quella tra avvocato e magistrato. Un criterio di riservatezza che è totalmente ignorato nei rapporti moderni, perché si pensa che tutto debba essere raccontato, preferibilmente alla televisione».

Talvolta, però, è lo stesso assistito che cerca visibilità.

«Posso dire per esperienza che più visibilità ha un soggetto C&P • GIUSTIZIA

inserito in un processo penale, peggio andrà il processo.

All’interno delle aule di tribunale, applicando un metodo scientifico, le questioni di diritto processuale e di diritto sostanziale si possono risolvere, e si risolvono. Se invece si propone un elemento esterno, come l’aula televisiva, che fa da catalizzatore, il punto principale della questione penale perde rilevanza. In questo modo in tribunale vengono riproposti solo temi rimasticati dai mass media e l’opinione che il pubblico si forma sul fatto delittuoso influisce negativamente sull’andamento del processo.

Secondo lei le nuove generazioni di giovani avvocati sono capaci di farlo?

«Purtroppo mi sembra che oggi i giovani vogliano tutto e subito. E in questo devo ammettere che sono stati agevolati dal legislatore, ma anche dai nostri Ordini, che hanno consentito che con due anni di pratica si possa acquisire il titolo di avvocato ed esercitare, meno che in Cassazione, in tutti gradi del processo. Invece la professione si impara attraverso l’esperienza, che per quanto riguarda l’avvocatura è lunga e prevede la rigorosa e paziente applicazione di un metodo, preferibilmente scientifico. E questo contrasta con l’ansia e l’urgenza che hanno i giovani di trovare un’immediata affermazione».

Quale dovrebbe essere, invece, l’approccio migliore alla professione?

«Quello che vorrei vedere nei giovani è una reale curiosità e una reale voglia di approfondire. Per raggiungere quella che è la vera caratteristica dell’avvocato: la capacità di “guardare oltre”. A un avvocato non è richiesto, come al giudice o come soprattutto al pm, l’analisi di un fatto criminale. All’avvocato è richiesto di più: capire chi ha commesso il fatto e perché, cercare le ragioni. E andare oltre. Questo si raggiunge con la capacità di concentrarsi e con lo sforzo quotidiano, costruendosi una struttura di nervi capace di reggere la tensione. E soprattutto con la cultura, giuridica e generale, che mi sembra purtroppo ormai da tutti trascurata. Occorre ricordarsi che il punto d’arrivo di un avvocato non è la televisione, ma sono le sezioni unite della Cassazione, è la Corte Costituzionale. A questo devono puntare i giovani».

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Avvocatura • Paolo Pollice

La vocazione per la meritocrazia Giudici impreparati, formazione insufficiente, atenei che regalano esami. Il sottile intreccio fra la crisi del mondo universitario e le difficoltà del sistema giudiziario spiegate da Paolo Pollice, docente universitario e giurista. Che riflette sui progetti di riforma proposti in entrambi i settori di Monia Savioli

progetti di riforma si innestano su processi da migliorare. Il mondo universitario e quello della giustizia sono, da questo punto di vista, protagonisti di un percorso simile. Da un lato gli studenti chiedono atenei diversi, dall’altro lo Stato cerca di migliorare gli ingranaggi della pesante macchina giudiziaria. Paolo Pollice, giurista e docente universitario, non risparmia impressioni e analisi, fornendo un quadro critico della situazione.

Da professore, cosa pensa della riforma universitaria e delle proteste che questo ha sollevato tra gli studenti?

«Credo che la riforma universitaria sia interessante e apprezzabile anche se va approfondito sotto vari aspetti. Dal mio punto di vista, gli studenti con la loro protesta non hanno individuato i problemi di fondo che riguardano l’ambito universitario, a partire dalla funzione formativa degli atenei. Dobbiamo tornare a una vocazione formativa di base per affidare quella specialistica alla formazione post-universitaria, quindi scuole di specializzazione, perfezionamento, stage all’estero, rapporti con l’industria privata. Ciò significa che l’università, da un punto di vista strettamente formativo, deve essere semplificata, evitando l’affollamento di corsi di

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laurea e sottocorsi che nascondono una vocazione specialistica sempre mal coltivata. Infatti non formano alcun tipo di professionalità reale. Quindi sarebbe opportuno tornare alla vecchia scelta della formazione di base sulla quale poi è possibile innestare il sapere specialistico».

E poi c’è il problema della ricerca.

«Infatti. L’altro tema vero è quello della ricerca scientifica. Le risorse sono poche e diminuiscono, certo. Manca però un progetto nazionale che si raccordi organicamente al settimo programma quadro della Comunità europea. Così come manca l’idea di una cooperazione fra le università al fine di realizzare una migliore sinergia fra strutture. Spesso ci troviamo di fronte a una duplicazione di mezzi a volte inutile.

Per ciò che riguarda la protesta, credo che gli studenti si muovano su questi temi con parole estremamente generiche e in maniera del tutto insoddisfacente oltre che scarsamente attrattiva. In fondo, e lo vedo ai miei corsi, sono poche le frange che si muovono e non riescono a sviluppare una capacità attrattiva tale da poter crescere».

Quanto l’università è ancora oggi in grado di preparare in modo adeguato gli studenti?

«Le università più importanti offrono ancora una buona preparazione. Ci sono, fortunatamente, studenti molto bravi che C&P • GIUSTIZIA

Paolo Pollice • Avvocatura Paolo Pollice, professore di diritto civile all’Università Federico II di Napoli

Alcuni atenei, per sopravvivere, regalano gli esami, offrono una didattica ridotta e si avvalgono di personale scarsamente motivato

hanno alle spalle un iter formativo di qualità. Alcuni atenei, per sopravvivere, regalano gli esami, offrono una didattica ridotta e si avvalgono di personale scarsamente motivato. Il problema non è la quantità delle lauree conferite ma come le si ottengono».

Quali limiti esistono nel nostro paese per la formazione universitaria?

«Mi accorgo che ci sono molti laureati frustrati nei confronti del pezzo di carta e non rispetto alle loro capacità reali. Persone che non sanno scrivere in italiano, non sanno parlare, non hanno letto niente, non conoscono una lingua straniera.

Queste persone serviranno sempre meno. Se ambiamo, come sembra, a omogeneizzare i sistemi giuridici europei, non possiamo contare su gente che non sa neppure parlare l’italiano».

Quali sono le criticità e i mali di cui oggi soffre il sistema giudiziario italiano?

«Prima di tutto soffre della lunghezza dei tempi dovuta, credo, a un forte formalismo.Tra l’altro si tratta di uno strano formalismo che penalizza più gli avvocati che i magistrati.

Ad esempio, nel processo civile si avverte una sorta di decadenza. Se l’avvocato non fa una cosa o non la chiede, il processo decade con grande pregiudizio per il cliente. Al C&P • GIUSTIZIA

giudice è invece consentito, magari, rinviare la causa di un anno oppure di depositare la sentenza ben oltre i termini previsti. Tale meccanismo si può quindi definire come punitivo nei confronti degli avvocati e certamente non sollecita una maggiore produttività da parte del sistema giudiziario».

Proseguendo, quali altri aspetti si potrebbero migliorare?

«Un altro aspetto importante riguarda il personale. I giudici togati sono pochi. I giudici di pace hanno ormai abbandonato la giustizia. Leggiamo di tutto, anche cose assurde. Il giudice di pace si trova a operare oggi in una fascia di scarsa tutela. Per questo dovrebbe aumentare il numero di magistrati togati. Poi sarebbe opportuno introdurre criteri obiettivi di produttività per capire cosa fanno i magistrati, come lavorano e perché. Fra l’altro, nell’ambito del personale statale, quello del magistrato è il ruolo meglio pagato».

Com’è la situazione in Campania sul fronte della giustizia?

«Solo a Napoli operano 11mila avvocati. Credo che in tutta la Francia ce ne siano 7-8mila. Bisogna evitare che l’avvocatura diventi un luogo in cui si rifugiano tutti coloro che non riescono a superare un concorso».

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Giustizia tributaria • Daniela Gobbi

Una materia in evoluzione «Rimodulare il sistema delle carriere e rivedere il sistema del compenso».

Sono alcune tra le questioni prioritarie per la magistratura tributaria individuate dalla presidente Daniela Gobbi di Renata Gualtieri

Daniela Gobbi, presidente Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria

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l sistema della giustizia tributaria è efficiente e qualificato. I dati statistici in possesso del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dimostrano, infatti, che i tempi medi di trattazione delle cause tributarie, nei giudizi di merito sono inferiore ai tre anni. Sempre le proiezioni statistiche ci confortano sulla percentuale delle cause impugnate in Cassazione che è inferiore al 15%. «Sono numeri importanti – sottolinea la presidente Daniela Gobbi – che dimostrano la validità del sistema vigente e l’importanza di mantenere, correttivi a parte, una giustizia tributaria efficiente e professionalmente qualificata».

Come si può superare la questione dell’incompatibilità del giudice tributario?

«La complessità, il tecnicismo e l’interdisciplinarietà della materia tributaria, in costante evoluzione, hanno indotto il legislatore a prevedere un moderno ed efficiente sistema giudiziario che contempla la partecipazione ai collegi giudicanti di magistrati e di professionisti esperti del settore. La presenza di varie tipologie di giudici (di professionisti e di magistrati) ha tuttavia reso più complessa la definizione delle ipotesi di incompatibilità del corpo giudicante perché occorreva tutelare la credibilità della funzione giudiziaria coniugando da un lato il diritto alla permanenza dello svolgimento dell’attività professionale dall’altro mantenendo operative le ipotesi di incompatibilità previste dall’ordinamento per i magistrati di carriera».

Quali i provvedimenti assunti dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria?

«Tra i primi provvedimenti assunti vi è stato quello di revisionare e riformulare il modello di autodichiarazione che i giudici devono rendere tutti gli anni dal quale emergono aspetti e dati importanti che consentono un controllo della posizione personale del giudice e che oggi, nella sua nuova formulazione, consente un controllo e una verifica delle posizioni personali più incisiva. Inoltre ai giudici è richiesto, oltre alla compilazione dell’autodichiarazione, l’aggiornamento obbligatorio, pressoché immediato, dei dati trasmessi in caso di variazioni. In questo modo il Consiglio può contare su un monitoraggio costante ed aggiornato a 60 giorni delle possibili situazioni di incompatibilità. Inoltre, abbiamo avviato un’intensa attività ispettiva che giustizia tributaria che consente di verificare l’esatto adempimento delle risoluzioni e il corretto svolgi-

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C&P • GIUSTIZIA

Daniela Gobbi • Giustizia tributaria

mento dell’organizzazione della funzione giurisdizionale il tutto, ovviamente, nell’interesse della giustizia, a tutela del cittadino e dello stato e a favore della credibilità della funzione giudiziaria».

Tra giudizio penale e tributario, i percorsi sono autonomi?

«Certamente, i percorsi sono autonomi anche se oggi si discute sulla possibilità di utilizzare le prove raccolte in sede penale, almeno come elementi indiziari, nel processo tributario».

Ci sono delle questioni prioritarie per la magistratura tributaria?

«Sicuramente. Le esigenze di rimodulare il sistema delle carriere aprendo l’accesso alla magistratura tributaria mediante concorsi che prevedano l’ingresso per tutti i concorrenti, indipendentemente dalla categoria di provenienza, dal ruolo di giudice della commissione provinciale, fino ad arrivare al ruolo di Presidente di Commissione tributaria regionale attraverso un percorso “verticale” che possiamo definire (anche se impropriamente) “carriera”, basato sulla professionalità acquisita presso le commissioni tributarie attraverso un sistema di valutazione interna. La revisione del sistema del compenso che premi il lavoro svolto dal relatore e le capacità dirigenziali dei presidenti di commissione abolendo il sistema attuale che permette anche a chi non ha redatto sentenze di essere comunque compensato».

C&P • GIUSTIZIA

C’è qualcosa da cambiare dal punto di vista procedurale e regolativo?

«Sarebbe importante regolamentare il procedimento cautelare anche in secondo grado. Sarebbe importante abolire le norme che vietano ai giudici di risiedere in una regione diversa da quella in cui svolgono la funzione, le norme che non consentono le applicazioni fuori regione, ma soprattutto la norma che impedisce al membro laico di ricoprire posizioni direttive e semi direttive. Norma che non vale per il Consiglio di Presidenza, organo di autogoverno dei giudici. Infatti, in quanto avvocato, sono di provenienza laica eppure ho l’onore di presidere il Consiglio di presidenza».

Perché i compensi dei giudici tributari sono inferiori a quelli degli altri magistrati onorari?

«Proprio in questi giorni abbiamo predisposto uno studio accurato e apprfondito nel quale si dimostra come rimoldulando i compensi attraverso un sistema più equo e dignitoso, tutti i giudici godrebbero di una retribuzione più dignitosa e il Ministero andrebbe a risparmiare. Trasmetteremo il nostro progetto al ministro per le sue valutazioni confidando in un riscontro positivo. Comunque bisogna considerare che le cause portate oggi all’attenzione del giudice tributario sono complesse, difficili, di elevato valore e spesso hanno riflessi comunitari. Eppure da circa otto anni il compenso è rimasto invariato: 13 euro».

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Giustizia tributaria • Adriano Di Pietro

Vocazione europea «Il ruolo della Scuola europea tributaria è formare professionisti dotati di capacità spendibili anche all’estero, guardando al mercato europeo, oltre che a quello nazionale». Lo assicura il direttore Adriano Di Pietro di Renata Gualtieri

Il professor Adriano Di Pietro, direttore della Scuola europea tributaria

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eppur collegata all’Università di Bologna, ha autonomia dipartimentale e di bilancio e come partner solo università non italiane. È la Scuola europea tributaria, la cui originalità consiste nel fatto che i partner sono presenti con i propri rappresentanti nel consiglio scientifico, che è l’organo deliberativo. La scuola dunque, gestita dall’Università di Bologna, è partecipata dalle università straniere, che «hanno accettato una limitazione di sovranità» perché le loro attività post laurea, di ricerca e formazione, dottorati, master, sono di fatto coordinate da una scuola che non è della stessa nazione di appartenenza.Tra i partner ci sono 4 università spagnole, 2 francesi, 1 olandese. «Il progetto – rivela il direttore Adriano Di Pietro – è di integrarci con l’università tedesca e portoghese. Allo stato attuale abbiamo 14 dottorandi italiani che vengono da tutte le regioni, cinque dottorandi brasiliani, un costaricano, due albanesi, due spagnoli e un cinese».

Tra i partner della scuola sul territorio nazionale e internazionale manca quindi il mondo anglosassone?

«Sì, perché tra noi e loro c’è un modo differente di intendere le attività di ricerca e formazione, che per le università inglesi, come per quelle americane sono un business, con alti costi d’iscrizione. Non sono mai riuscito a ottenere da queste università la condizione di reciprocità, perché gli iscritti al master

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C&P • GIUSTIZIA

Adriano Di Pietro • Giustizia tributaria

o al dottorato poi potessero iscriversi lì con il riconoscimento delle sole tasse universitarie pagate qui. Abbiamo però un accordo con le due università di Pechino e con il ministero delle Finanze spagnolo e stiamo verificando la disponibilità di collaborazione anche con quello brasiliano perché il nostro dottorato sia considerato un’occasione formativa per i suoi funzionari».

Quali le collaborazioni più interessanti avviate?

«I primi frutti derivano dal fatto che abbiamo sviluppato nella strategia della scuola due modelli formativi: valorizzare il master in Diritto tributario moltiplicando le forme di integrazione con gli altri corsi, quindi i nostri iscritti, dopo aver frequentato per sei mesi le nostre lezioni, seguono un altro master e dopo l’esame finale possono ottenere ben due titoli rilasciati da due università diverse. È quello che è avvenuto per la prima volta con l’Università di Lovaino, non appartenente alla Scuola; l’altro aspetto interessante è la moltiplicazione della cotutela dei dottorati che significa aver siglato convenzioni con altre università per permettere la libera circolazione di dottorandi tra le diverse realtà per poter scrivere la tesi, redatta nelle due lingue, discutendola davanti a una commissione integrata. Questo consente agli alunni di conseguire due titoli di dottore di ricerca spendibili nei due paesi a cui appartengono le università firmatarie».

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Cosa differenzia l’attività formativa in campo tributario europea da quella internazionale?

«L’attività formativa della nostra scuola è caratterizza da direttrici ben individuate: il master, il dottorato e il corso di alta formazione per giudici professionisti tributari realizzato in convezione con la Scuola superiore di economia e finanza, l’Associazione nazionale magistrati tributari e il Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria. Per i master la formazione è prettamente nazionale, che viene poi allargata all’estero con i master integrati; invece per il dottorato la formazione nasce già come europea con il dottorato in diritto tributario europeo».

Cosa cambierà nel mondo della formazione dei professionisti del futuro?

«Stiamo già immaginando un futuro che valorizzi tre filoni.

Il master dovrà diventare sempre più integrato in chiave europea. C’è bisogno di uno specialista in materia tributaria perché la figura del commercialista non è riconosciuta con la stessa ampiezza fuori dall’Italia; per il dottorato in Diritto tributario europeo occorre che la formazione di ricercatori che siedano nelle diverse università si integrino nelle istituzioni e negli studi professionali europei. Per il corso di alta formazione occorre un aggiornamento per giudici e professionisti tributari in una logica nazionale ma con un occhio al diritto comunitario, con la novità di integrare in una stessa aula delle esperienze diverse». È prevista l’attivazione di nuovi corsi?

«Sarà nostra preoccupazione per il master e per il dottorato potenziare la vocazione europea. Per il dottorato metteremo in campo quest’anno una modifica strutturale perché, invece di essere il dottorato dell’Università di Bologna alla quale aderiscono altre università straniere, diventerà un dottorato consorziato che prevede la partecipazione in prima persona di tutte le università che fino a ora l’hanno alimentato. L’evoluzione della nostra formazione è la nostra rivista informatica che si chiama Studi Tributari Europei, pubblicata in tre lingue, dove si affronta un tema con contributi comparati e comunitari per cercare di arrivare ad un risultato condiviso».

Quali le esigenze in termini di competenze più arrivano dal settore?

«Lo specialista legale in maniera tributaria non è spendibile solo in studi professionali, noi abbiamo avuto dottorandi o masteristi che si sono inseriti nell’Agenzia delle Entrate o che adesso occupano posti all’interno di studi professionali internazionali o altri che hanno fatto una carriera accademica in Spagna o in Belgio».

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Difesa dei consumatori • Massimiliano Dona

Risparmiatori meglio informati Le associazioni dei consumatori da sempre si battono per rafforzare il rispetto dei principi di trasparenza e di correttezza del sistema bancario nella relazioni con la clientela.

Massimiliano Dona illustra quali risultati si sono raggiunti quest’anno di Nicolò Mulas Marcello

er sensibilizzare i risparmiatori a una maggiore attenzione nei rapporti con le banche occorre sviluppare una cultura finanziaria già a partire dalle scuole. «Noi dell’Unione Consumatori – spiega il segretario generale Massimiliano Dona – abbiamo iniziato da anni a lavorare nelle scuole per informare».

I risparmiatori sono adeguatamente informati sui diritti che la legge riconosce loro?

«Fino a qualche anno fa erano poco informati. Da un paio di anni si sta facendo molto in questo senso. D’intesa con l’Abi (con il consorzio Patti chiari), ma soprattutto con una collaborazione intensa con i principali Gruppi bancari, si stanno producendo molte guide che informano tutti i consumatori, non solo la clientela delle banche, sulle caratteristiche di specifici argomenti bancari e finanziari cercando di fornire in modo semplice ma efficace quelle informazioni utili per arrivare ad avere consumatori informati anche della “cultura finanziaria”».

Buone regole, efficaci controlli e sanzioni severe, pur costituendo il necessario presupposto per una tutela veramente incisiva, non sono da soli sufficienti. Cosa occorre per incentivare un’educazione finanziaria?

«Le buone regole, i controlli efficaci e le sanzioni severe sono un rimedio a posteriori, ma quello che le associazioni auspicano è che l’educazione finanziaria inizi nelle

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scuole, insieme all’educazione civica (che oggi non viene più insegnata). Noi dell’Unione Consumatori abbiamo iniziato da anni a lavorare nelle scuole per informare, facendo cultura consumeristica, promuovendo lezioni, istituendo concorsi e dando premi ai più meritevoli.

Abbiamo sollecitato le banche con cui abbiamo migliori e più intensi rapporti a seguire il nostro esempio, per educare i nostri figli anche ai problemi finanziari, per educare coloro che domani si affacceranno nel mondo del lavoro».

Quanto ha inciso la crisi economica nei rapporti tra consumatori e sistema finanziario?

«In Italia non ha inciso molto proprio perché il sistema bancario italiano ha risentito meno della stessa crisi, essendo relativamente impegnato nei prodotti finanziari che maggiormente l’hanno provocata, contrariamente agli altri Paesi europei. Ha semplicemente rafforzato il convincimento che una maggiore trasparenza nell’offerta e nella vendita dei prodotti è indispensabile».

La Banca d’Italia ha emanato quest’anno alcuni provvedimenti che hanno lo scopo di rafforzare il rispetto dei principi di trasparenza e di correttezza del sistema bancario nella relazioni con la clientela. Tra questi l’arbitrato bancario finanziario.

Quali vantaggi apporterà questo provvedimento ai consumatori?

«L’introduzione di un arbitro imparziale è sempre stato un “cavallo di battaglia” delle associazioni dei consumaC&P • GIUSTIZIA

Massimiliano Dona • Difesa dei consumatori

Massimiliano Dona, presidente dell’Unione nazionale dei consumatori

Chiediamo chiarezza, trasparenza, correttezza nel mantenere gli impegni e una maggiore consapevolezza dei bisogni e delle esigenze del cliente C&P • GIUSTIZIA

tori maggiormente impegnate sul fronte bancario. In numerose occasioni era stato richiesto alla Banca d’Italia di intervenire per modificare o sostituire l’Ombudsman – Giurì bancario, considerato uno strumento privo dell’indispensabile “terzietà”. Infatti tale struttura, costituita dall’Abi, era stata salutata come una occasione per le banche di ridare dignità ai reclami della clientela, spesso ignorati o mal considerati dalle Aziende di credito. Il suo difetto principale era la mancanza di una concreta rappresentanza dei consumatori nel collegio di valutazione della disputa, composto esclusivamente da componenti del sistema bancario. L’Abf, arbitro bancario finanziario, invece, è un organismo terzo che rappresenta anche i consumatori e che consente a tutti coloro che non ricevono un riscontro (o non ne sono soddisfatti) ai reclami indirizzati alla propria banca un ricorso che costa solo 20 euro. Tale somma viene rimborsata in caso di accoglimento del reclamo. In questi primi mesi di funzionamento ha dimostrato ampiamente la propria validità ed è stato inondato dalle richieste dei risparmiatori. Inoltre il suo funzionamento si è dimostrato così valido da costringere, implicitamente, le banche a dare maggiore ascolto e riscontro ai reclami della propria clientela alla sola minaccia di ricorrere all’Abf».

Per le banche la fiducia dei clienti è un bene prezioso. I risparmiatori, le loro associazioni, l’opinione pubblica sono sempre più esigenti.

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Difesa dei consumatori • Massimiliano Dona

Le associazioni auspicano che l’educazione finanziaria inizi nelle scuole, insieme all’educazione civica

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Quali ulteriori interventi sono necessari per tutelare il consumatore?

«Chiediamo chiarezza, trasparenza, correttezza nel mantenere gli impegni, una maggiore consapevolezza dei bisogni e delle esigenze del cliente, l’adeguatezza delle soluzioni offerte, costi più contenuti per i servizi bancari che attualmente sono ancora troppo cari. Il rispetto di queste semplici regole capovolgerebbe l’attuale situazione e le Associazioni si occuperebbero solo marginalmente delle problematiche del credito. Oggi tutti sanno quali sono i problemi e le soluzioni, tutti le auspicano, soprattutto le banche. Ma perché non le attuano nella misura adeguata? Troppo spesso invece prevale la ricerca del profitto, degli obiettivi economici da realizzare, del rating che viene assegnato alle proprie azioni in funzione della “produttività”. E il rispetto per il consumatore ha un costo che non sempre è considerato come necessario per essere davvero etici sul mercato».

C&P • GIUSTIZIA

Difesa dei consumatori • Mimma Modica Alberti

Una giustizia più vicina ai cittadini Servono riforme strutturali urgenti per risolvere i mali della giustizia italiana. Razionalizzando per liberare risorse. Lo sostiene Mimma Modica Alberti di Cittadinanzattiva di Michela Evangelisti

arenza cronica di informazioni, inaccessibilità al servizio, deficit organizzativi, disomogeneità di funzionamento al nord come al sud, carenze di organico e di strumenti, prescrizione dei reati con gravi danni alle vittime, tempi lunghi e costi elevati. Sono queste le principali cause della “mala giustizia” in Italia, così come emergono dal II Rapporto sulla giustizia italiana di Cittadinanzattiva, movimento di partecipazione civica che opera in Italia e in Europa per la promozione e la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori. «Per il secondo anno consecutivo – illustra Mimma Modica Alberti, coordinatore nazionale di Giustizia per i Diritti di Cittadinanzattiva – i nostri dati confermano che la giustizia italiana sta male soprattutto al Sud. I processi civili durano in media 8,4 anni (nel Mezzogiorno, pur con alcune esperienze positive, 9,7 anni rispetto ai 7,1 del Nord); quelli penali in media 4,5 anni (al Sud 6,9, al Nord 3,7)». Sempre in base all’indagine, quella italiana appare ai cittadini come la giustizia del troppo: «troppe sedi giudiziarie (1292) e troppi uffici di giudici di pace (849), che attendono da anni una ormai non rinviabile revisione; troppi avvocati, se ne contano 332 per ogni 100mila abitanti (sono 133 nella UE a 27 paesi); troppe leggi, troppe liti (solo quelle condominiali sono 800mila l’anno), più al Sud che al Nord.

Quali gli aspetti più critici che emergono dall’ultimo rapporto sullo stato della giustizia italiana di Cittadinanzattiva?

«Per i cittadini, la giustizia italiana è un servizio in perenne crisi di efficienza. Tutto ciò si traduce in sofferenze, disagi

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Mimma Modica Alberti, coordinatore nazionale di Giustizia per i Diritti di Cittadinanzattiva

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C&P • GIUSTIZIA

Mimma Modica Alberti • Difesa dei consumatori

e sacrifici economici per i cittadini e per le famiglie; un costo insostenibile per le imprese e un danno ulteriore all’economia e al Paese, poiché i tempi lunghi dei processi scoraggiano gli investimenti stranieri. Quel che risulta ancora più grave, proprio in relazione alla situazione economica attuale, è che i tempi lunghi della giustizia non incoraggiano l’adozione di comportamenti corretti da parte di tutti gli attori interessati, con un risultato evidente: la propensione ad adottare comportamenti non proprio leciti sembra pervadere i settori in cui si muovono le maggiori risorse economiche (edilizia, grandi opere e infrastrutture, servizi)».

Su quali punti bisognerebbe intervenire per migliorare il sistema giustizia in Italia?

«Sui rimedi il conflitto si fa aspro. Per Cittadinanzattiva, alla giustizia italiana servono con urgenza riforme strutturali, con le quali ammodernare il sistema tagliando gli sprechi e utilizzando al meglio le risorse esistenti. Il governo dovrebbe varare un provvedimento straordinario in virtù del quale trattare la giustizia alla stregua di una grande opera, al fine di restituirla al Paese come un effettivo servizio pubblico, universale e indispensabile per il suo sviluppo economico e sociale. Serve un Piano straordinario per rafforzare il controllo di legalità sul territorio, da Nord a Sud, e quindi dotare di attrezzature e di tecnologie informatiche le sedi giudiziarie; arricchire le competenze della polizia giudiziaria e dei magistrati; qualificare sezioni dei tribunali per rispondere più celermente a specifiche e più ricorrenti domande di giustizia; aumentare l’organico ladC&P • GIUSTIZIA

dove sia necessario; scongiurare la prescrizione dei reati e rendere effettive le pene. L’obiettivo è razionalizzare per liberare risorse».

Come perseguirlo?

«Provvedendo a rivedere la geografia giudiziaria. In Italia ci sono 165 tribunali e relative procure, oltre a 220 sezioni distaccate di tribunali. Dei citati tribunali e procure, 93 rappresentano il 56% degli uffici giudiziari e hanno non più di 20 magistrati. Circa 60 hanno sede in territori che già possono contare sull’esistenza di un tribunale nella sede del capoluogo provinciale. Ci si attende dal governo e dal ministro della Giustizia la verifica urgente dello stato di salute, e quindi della loro utilità per i cittadini, degli uffici giudiziari italiani, i cui organici risultano sottodimensionati partendo da quelli con dotazione al di sotto delle 10 unità, ponendosi l’obiettivo di migliorare l’offerta di giustizia e, contemporaneamente, di procedere alla razionalizzazione delle risorse disponibili. Occorre, inoltre, ridurre e razionalizzare gli uffici dei giudici di Pace, procedendo per via amministrativa alla chiusura o all’accorpamento di almeno 100 uffici non utili ai cittadini».

Cosa fare per ovviare a una giustizia “a macchia di leopardo”?

«Una giustizia di questo tipo non è più accettabile né comprensibile se non si dispone di informazioni trasparenti e attendibili sul funzionamento dei tribunali e sulla loro organizzazione interna. L’esigenza è quella di sviluppare, anche nell’ambito del settore giustizia, un’iniziativa nazionale di valutazione civica dei tribunali attraverso la costitu203

Difesa dei consumatori • Mimma Modica Alberti

Quella italiana appare ai cittadini come la giustizia del “troppo”: troppe sedi giudiziarie e troppi uffici di giudici di pace, troppi avvocati, troppe leggi e troppe liti

zione di équipe miste (operatori e cittadini) adeguatamente formate e una metodologia di valutazione specificamente progettata, sulla base dell’esperienza ultra-decennale maturata da Cittadinanzattiva, per analizzare e comparare la qualità delle strutture e dei servizi erogati dal servizio giustizia italiano, a partire dai tribunali civili».

Come giudica l’operato del governo in termini di riforma della giustizia?

«Nel Rapporto, diamo anche conto di un 38% di casi che collochiamo in una sorta di area grigia del diritto negato e che riguardano materie importanti, quali l’errore medico e le liti familiari. Il cittadino rinuncia al diritto alla giustizia per difficoltà economiche, che diventano ostacoli insormontabili in assenza di strumenti agili e poco costosi. Cittadinanzattiva ha pertanto accolto con favore la nuova legge 28/2010 sulla mediazione obbligatoria. Con essa, l’Italia ha recepito e portato a termine, anche con la decretazione di attuazione, la direttiva comunitaria 2008/52 relativa alle controversie civili e commerciali».

Forti sono state però le pressioni dell’avvocatura.

«Gli avvocati svolgono un ruolo cruciale, ma non possono recuperare la crisi di fiducia che li investe “mettendosi di traverso” e rallentando l’avvio di processi di innovazione verso cui va tutta l’Unione europea. È evidente che, rispetto a talune tipologie di controversie, l’assistenza dell’avvocato è fondamentale e consigliata, ma ritenere che questa sia indispensabile anche, ad esempio, per le controversie di consumo relative ad addebiti in bolletta, ci pare davvero 204

pretestuoso e anacronistico. Ci saremmo però aspettati dal governo, e dal ministro della Giustizia, una maggiore fermezza nel difendere il provvedimento adottato e un attento monitoraggio della situazione, con l’obiettivo di superare le difficoltà che persino noi abbiamo registrato: tribunali non ancora attrezzati, cittadini ancora scarsamente consapevoli del nuovo strumento e organismi di mediazione non capillarmente diffusi».

Ultimamente sembrano moltiplicarsi i casi di malasanità: quali sono i rimedi giuridici per una tutela effettiva del danneggiato?

«I dati Ania, pubblicati a ottobre 2010 nel Manuale “La conciliazione in sanità”, risultano molto eloquenti: il numero delle pratiche di risarcimento derivanti da sinistri nell’area medica è passato dai 9.567 del 1994 ai 29.543 del 2007, con un incremento del 200 per cento. Sono così aumentati anche i costi delle polizze assicurative dei medici e delle aziende, determinando una situazione certamente difficilmente sostenibile. In tema di risarcimento da errore medico, la nuova legge sulla mediazione avrebbe meritato un maggiore approfondimento.

L’esasperazione del ricorso alla giustizia ordinaria, nel settore della responsabilità medica, non solo non è efficace rispetto all’effettiva domanda di tutela, ma finisce per avere gravi effetti indiretti, quali ad esempio il ricorso di fatto alla cosiddetta medicina difensiva. È, quindi, auspicabile una revisione della normativa, con la previsione di una migliore delimitazione del campo di applicazione della mediazione in tale settore, come ad esempio ipotesi di danno di lieve entità».

C&P • GIUSTIZIA

Mercato del falso • Lara Comi

Tracciabilità dei prodotti Molte delle proposte per contrastare il mercato del falso in Europa partono dall’Italia. Lara Comi, europarlamentare del Pdl, illustra tutti i progetti che si stanno discutendo a Bruxelles per arginare questo malcostume ed educare i consumatori di Nicolò Mulas Marcello

econdo una recente relazione dell’Ocse, i profitti annuali derivanti dalla vendita di beni contraffatti e piratati ammontano a 200 miliardi di dollari su scala mondiale. A livello europeo si sta cercando di affrontare il problema sia sul piano normativo sia in termini di educazione. Proposte importanti vengono dall’Italia. L’onorevole Lara Comi, europarlamentare del Gruppo Ppe, ha presentato varie iniziative tra cui un microchip da inserire nei prodotti: «è un progetto molto importante perché offre una tracciabilità costante e dà la possibilità al consumatore di conoscere tutte le informazioni sul prodotto, anche su problematiche legate alle allergie. Un prodotto contraffatto non potrà mai avere questo tipo di informazioni. Inoltre stiamo cercando di incentivare e migliorare l’Osservatorio europeo della contraffazione. Abbiamo firmato una lettera congiunta con il commissario Barnier insieme al Comune di Milano, la Provincia, la Regione e lo Stato nella persona di Santo Versace, proprio per far capire che è necessario un cambiamento. Siamo disposti a renderci promotori di un progetto pilota anti contraffazione».

Cosa si sta facendo in concreto a livello europeo?

«Attraverso azioni mirate stiamo cercando di ridurre notevolmente la contraffazione. Innanzitutto è stato riattivato l’Osservatorio europeo della contraffazione attraverso il com-

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C&P • GIUSTIZIA

Lara Comi • Mercato del falso

missario Barnier; inoltre, stiamo svolgendo diverse attività concrete. Recentemente ho presentato una draft opinion attraverso la commissione Industria ricerca ed energia, che diventerà legge, nella quale sottolineo la necessità di avere una tracciabilità completa dei prodotti. Questa tracciabilità avverrà attraverso un microchip più avanzato rispetto a quelli che ci sono oggi. È uno strumento che stiamo studiando con agenzie di ricerca e che avrà dei costi bassissimi ma consentirà di avere al suo interno tutte le informazioni necessarie. E non potrà essere contraffatto a differenza di tutti gli altri strumenti attuali come gli ologrammi, che sono più facilmente riproducibili. Il secondo step è quello dell’educazione nelle scuole.

Stiamo procedendo con un progetto che è già iniziato in Francia e in Germania. Stiamo cercando di istruire i giovani delle scuole medie a non comprare prodotti contraffatti».

L’Osservatorio europeo della contraffazione e della pirateria dovrebbe svolgere un ruolo operativo importante. Secondo lei può essere migliorato?

«Non mi ritengo soddisfatta di questa struttura perché rappresenta solo una raccolta di dati. Per questo ho avanzato la richiesta al commissario Barnier di trasformarlo in una sorta di autorithy, ovvero un organo che possa avere anche una capacità legislativa».

Esiste una strategia specifica sulla lotta ai beni conC&P • GIUSTIZIA

traffatti e piratati attraverso il commercio elettronico da parte della Commissione europea?

«Proprio su questo tema abbiamo votato circa due mesi fa una direttiva che prevede che i siti internet abbiano un marchio di garanzia che farà riferimento all’Unione europea. Solo i siti che rispondono a determinate caratteristiche potranno avere questo marchio. Il soggetto che vende merce su internet deve fornire tutte le indicazioni sul suo esercizio online.

Tutto deve essere specificato e il venditore deve essere identificabile. Il prodotto venduto deve avere garanzie e devono esserci attenzioni anche sul pagamento. Una volta che tutti questi criteri saranno rispettati verrà concesso il marchio».

Il Parlamento europeo ha adottato le norme sul “made in” nel settore tessile. Questo costituisce uno strumento di contrasto alla contraffazione, ma cosa occorre per disincentivare concretamente il mercato del falso?

«Innanzitutto l’educazione del consumatore è importante perché l’offerta esiste per rispondere alla domanda. Questo è un problema che va risolto all’origine. In secondo luogo, occorre dare al consumatore la consapevolezza che il prodotto contraffatto è pericoloso per la propria salute. I prodotti tessili contraffatti, ad esempio, contengono spesso coloranti altamente tossici e dannosi per la salute del consumatore».

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Il made in Italy nel mondo • Giancarlo e Alessandro Pelosi

Diritto e business internazionale L’attività forense si fa rappresentante dell’eccellenza italiana anche oltreoceano e diventa portavoce di un nuovo concetto di made in Italy.

L’esperienza di Giancarlo e Alessandro Pelosi in Italia e in America di Erika Facciolla l concetto di made in Italy sta gradualmente allargandosi a tutte quelle attività che rappresentano in maniera significativa il prodotto d’esportazione italiano nel mondo. È per questo che l’eccellenza italiana all’estero viene riconosciuta anche nel know how che i nostri “ambasciatori” esportano oltreoceano. Uno di questi è senza dubbio Giancarlo Pelosi, che dal 1975 pratica l’attività forense a Milano e nelle principali città italiane.

Successivamente, lo studio ha esteso la propria attività a Lugano, Nizza, Fort Lauderdale, Los Angeles, New York e, dal 2001, ha aperto un proprio studio, Pelosi Law Firm & Partners LLC, con sede a Miami. Giancarlo Pelosi, infatti, è uno dei pochi avvocati italiani a essere abilitato all’esercizio della professione anche negli Stati Uniti, dove dal 2001, su autorizzazione dalla Corte Suprema, è regolarmente iscritto all’Ordine degli Avvocati della Florida con la qualifica di Foreign Legal Consultant.

Sia in Italia che in America lo Studio Legale Pelosi & Partners si avvale di un team di consulenti interni ed esterni specializzati in diverse aree del diritto, forti di una consolidata rete di contatti e partner internazionali. Nel corso degli anni, lo Studio ha saputo farsi portavoce di tante aziende italiane operanti anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti. «In Florida il mercato è diventato più appetibile per tutti gli operatori del settore interessati sia agli Stati Uniti che ai paesi dell’America latina. Non a caso Miami viene oggi definita “portaerei” per il Sud America. «Da circa un

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C&P • GIUSTIZIA

Il made in Italy nel mondo • Giancarlo e Alessandro Pelosi

Le operazioni internazionali non richiedono solo competenze tecniche, ma anche una conoscenza delle leggi e delle procedure commerciali locali

In apertura, l’avvocato d’affari Giancarlo Pelosi all’interno del suo studio milanese. Nella stessa pagina, veduta esterna della sede di Miami www.pelosilawfirm.com

anno, supportati dalle locali autorità italiane e americane, come il Consolato Generale Italiano di Miami, l’Ice, lo Stato della Florida, la Camera di Commercio Italo-Americana, Enterprise Florida e la Miami University, abbiamo creato validissimi contatti necessari a livello industriale, politico e amministrativo per aprire canali di comunicazione privilegiati».

Uno stretto rapporto quello che lega, dunque, i professionisti di Miami con quelli di Milano «tanto che una importantissima Camera di Commercio Americana, Italy- America Chamber of Commerce South East con sede a Miami, ha recentemente aperto un ufficio di rappresentanza in Italia la cui sede è proprio presso il nostro Studio di Milano». Lo Studio Legale ha ottenuto importanti riconoscimenti internazionali oltre a essere stato inserito dalle principali directories europee e americane tra i primi studi italiani specializzati nel settore del diritto internazionale. «Tra i nostri clienti – aggiunge Alessandro Pelosi, socio dello studio legale – figurano grandi aziende attive nel settore produttivo, terziario, della distribuzione, commerciale, immobiliare, assicurativo, alberghiero, finanziario, nonché aziende emergenti di medie e piccole dimensioni. Forniamo loro una gamma completa di servizi, tra cui la strutturazione e la documentazione di complesse operazioni commerciali di qualsiasi tipo». Le aree di competenza sono molteplici: finanza, acquisizioni, valori mobiliari, antitrust, intermediazione immobiliare, cause tributarie e arbitrati, brevetti, C&P • GIUSTIZIA

concessione di licenze, proprietà intellettuale e settore assicurativo. «Lo Studio di Milano rappresenta clienti italiani e stranieri in attività nazionali o dirette all’estero e su operazioni finanziarie. I nostri collaboratori, infatti, vantano un’esperienza in un’ampia gamma di aree internazionali e hanno assistito clienti in relazione a investimenti esteri negli Stati Uniti, investimenti statunitensi all’estero, joint venture internazionali, operazioni di finanziamento, immobiliari e progetti edilizi».

Pelosi Law Firm & Partners in Florida si è fatto portavoce anche delle tante aziende italiane che operano nell'ambito delle energie rinnovabili, smaltimento dei rifiuti e trasporti su rotaia ad alta velocità, con l'obiettivo di esportare le loro tecnologie oltreoceano. «Nei nostri numerosi incontri, le autorità americane hanno sempre dimostrato grande interesse tanto che speriamo entro fine anno di concretizzare positivamente il progetto». Ma in America, Pelosi Law Firm & Partner è anche sinonimo di consulenza legale a trecentosessanta gradi: «Il nostro studio è fondamentale per le aziende italiane che vogliono ampliarsi all’estero. Le operazioni internazionali non richiedono soltanto competenze tecniche e linguistiche, ma anche una conoscenza delle leggi e delle procedure commerciali locali. Per questo avere un avvocato italiano che sia legittimato a operare anche in Florida, in particolare a Miami, significa soprattutto assicurarsi un notevole risparmio economico e di tempo».

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Tutela dei marchi • Daniela Mainini

Tuteliamo il made in Italy Proprietà intellettuale e rischio contraffazione: temi globali e urgenze strettamente italiane. Daniela Mainini, esperta di tutela marchi e brevetti, affronta i retroscena penali di chi commercializza il falso di Erika Facciolla

L’avvocato Daniela Mainini, presidente del Consiglio Nazionale Anticontraffazione daniela.mainini@maininiassociati.it

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innovazione è una delle sfide determinanti per l’economia. Il governo e le istituzioni devono fare sistema con le imprese che rappresentano il made in Italy nel mondo, promuovendo, stimolando e proteggendo l’innovazione e l’originalità del marchio dai tentativi di contraffazione e imitazione. In un mercato globalizzato come l’attuale, il marchio e l’indicazione dell’origine dei prodotti, infatti, costituiscono fattori commerciali essenziali, non ancora armonizzati a livello europeo e sottostimati dalle stesse aziende italiane. Affrontiamo questi aspetti con Daniela Mainini, avvocato milanese specializzata in tutela penale della proprietà intellettuale e presidente del Centro Studi Grande Milano, nominata nel gennaio 2011 dal ministro Paolo Romani, presidente del Consiglio Nazionale Anticontraffazione. Un organismo interministeriale con funzioni di indirizzo, impulso e coordinamento delle azioni strategiche nella lotta nazionale alla contraffazione.

Si parla molto del made in Italy come risorsa da tutelare e valorizzare in Italia e nel mondo. Ma che cosa si intende, oggi, per prodotto made in Italy?

«Mi pare che nessun motto sia più calzante del galileiano “misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è”. Per meglio definire il concetto, il legislatore si è mosso nel tentativo di trovare un giusto equilibrio tra normativa europea, lobby imprenditoriali ed evoluzione giurisprudenziale, cercando di definire il quantum di una certa “italianità” dei prodotti in un’economia ormai sempre più delocalizzata. Ciò ha creato un’indubbia destabilizzazione dell’imprenditore italiano che ha difficoltà a muoversi in una materia tanto specializzata».

Quali sono i rischi a cui il prodotto italiano è esposto attualmente?

«I rischi sono tanti e direttamente collegati alla cosiddetta globalizzazione che moltiplica i casi di contraffazione e non solo. Mai come negli ultimi anni, si è assistito a un incremento di procedimenti di falso made in Italy con la contestazione di vendita di prodotti industriali con segni

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C&P • GIUSTIZIA

Tutela dei marchi • Daniela Mainini

Difendere la proprietà intellettuale significa difendere l’intero sistema produttivo italiano e dare nuovo smalto al made in Italy

mendaci, reato a tutela dell’ordine economico e dei consumatori da frodi perpetrate nei loro confronti».

Il made in Italy è contraffatto anche nelle fiere?

«Certo. Per questo è fondamentale nelle Fiere etiche e libere da contraffazione garantire un servizio permanente di controllo e intervento a tutela della IP nei pochi giorni a disposizione degli espositori. Penso ad Expo 2015, come un mirabile esempio di Expo counterfeiting free».

La contraffazione è in generale un fenomeno molto diffuso, ma al tempo stesso anche sottovalutato. Perché?

«Perché per troppi anni è stata tollerata. Nelle nostre città e lungo le nostre spiagge assistiamo a vendite massicce di prodotti contraffatti. Utili i sequestri, ma inutile intervenire solo per spegnere i numerosi incendi. Le norme esistono: è l’applicazione che non è mai stata rigorosa. Per troppi anni si è sottostimato il problema relegandolo come fenomeno che colpiva esclusivamente il “lusso” e di cui era inutile occuparsi».

A suo parere, come si combatte efficacemente la contraffazione?

«Accanto a un sistema scolastico che formi le giovani generazioni alla cultura della legalità, occorrono l’esempio in famiglia ad acquisti legali oltre a una mirata sinergia tra imprese, forze dell’ordine, istituzioni e magistratura. Trasformare la lotta alla contraffazione intesa solamente come lotta ai “vu cumprà”(ultimo anello di organizzazioni criC&P • GIUSTIZIA

minali che certamente vanno represse con forza) a lotta nazionale, europea e globale per la promozione e la tutela della proprietà intellettuale e del made in Italy. In sintesi si tratta di riappropriarsi politicamente del ruolo strategico della tutela della IP».

A tal proposito, un aspetto cruciale è la tutela della proprietà intellettuale e industriale. Quali sono le risposte delle Istituzioni?

«La recentissima creazione del Consiglio Nazionale Anticontraffazione presso il Ministero dello Sviluppo Economico, interlocutore tra istituzioni, imprese e associazioni di categorie al fine di migliorare l’insieme dell’azione di contrasto della contraffazione a livello nazionale, è la risposta di un Italia capace di dialogare con l’Europa e con il mondo, in un percorso comune».

In sintesi, quali iniziative normative possiamo aspettarci?

«Bisogna concentrare le energie sulla produzione normativa comunitaria, dimostrando un rinnovato impegno in Europa. Per quanto riguarda la tutela del made in Italy, se il punto di osservazione sull’indicazione d’origine dei prodotti deve giustamente rimanere la normativa europea, ben venga un dettato chiaro e di cogente applicazione per tutti i Paesi e che possa costituire valido strumento di indirizzo per le aziende italiane che devono poter giocare la partita di trasparenza della filiera in un’equa competizione».

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Diritto d’autore • Domenico Latino

Il diritto d’autore nell’era telematica La materia del diritto d’autore, negli anni, ha subìto diversi ritocchi. Specialmente in seguito allo sviluppo telematico e alla “fruizione selvaggia” di opere musicali e cinematografiche.

Il punto dell’avvocato Domenico Latino di Eugenia Campo di Costa

L’avvocato Domenico Latino nel suo studio di Milano www.studiolatino.com

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utelare le opere d’ingegno di carattere creativo. Assicurando al realizzatore i relativi diritti morali ed economici. Il diritto d’autore protegge un’ampissima varietà di opere, di qualsiasi forma di espressione: dalla letteratura alle arti figurative, dall’architettura alla cinematografia, dal teatro alla musica. In particolare, nell’ambito musicale, viene tutelata la creatività sia sotto il profilo del diritto di autore in senso stretto, dunque il diritto di colui che crea l’opera, intesa sia come brano musicale, che come melodia o come testo abbinato alla musica, sia l’aspetto dei diritti conseguenti all’utilizzazione della creatività musicale, vale a dire i diritti di sfruttamento dell’opera stessa. «Con la diffusione di internet e della telematica – osserva l’avvocato Domenico Latino, specializzato in diritto commerciale e industriale, in diritto di autore e dell’immagine – la tutela del diritto di autore relativo alle opere musicali ha dovuto far fronte a non pochi cambiamenti». La materia del diritto d’autore in Italia è disciplinata dalla legge 22 aprile 1941, n.

633 che negli anni ha subito diversi ritocchi, in linea con i cambiamenti sociali.

Quali le principali modifiche intervenute sulla legge a tutela del diritto di autore in ambito musicale?

«Gli aggiornamenti più importanti sono stati fatti negli anni tra il 2000 e il 2003, alla luce soprattutto dello “sviluppo selvaggio” della fruizione della musica in ambito telematico, in seguito al boom di internet e dei programmi che permettono di “scaricare” pezzi e canzoni gratuitamente online.Altre importanti modifiche sono derivate dalle direttive comunitarie. Al

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Diritto d’autore • Domenico Latino

Con la diffusione di internet la tutela del diritto di autore relativo alle opere musicali ha dovuto far fronte a non pochi cambiamenti

momento si stanno valutando altri ritocchi, che riguardano ad esempio l’estensione temporale dei diritti di autore e di riservatezza delle opere dell’ingegno, temi che attualmente giacciono nei cassetti della Commissione Europea e trovano il consenso di alcuni paesi tradizionalmente legati alla musica come l’Italia, la Francia, la Germania e soprattutto la Spagna.

Svezia, Finlandia e Danimarca, invece mostrano un totale dissenso e addirittura vorrebbero liberalizzare completamente il diritto alla creatività, rendendo le opere d’ingegno fruibili da chiunque in maniera indiscriminata».

Molte modifiche alla legge sul diritto d’autore sono intervenute con l’avvento dell’era telematica. Quali cambiamenti ha comportato l’avvento di internet?

«La telematica ha aperto un problema totalmente nuovo e inesplorato, vale a dire, come utilizzare la musica senza danneggiare l’avente diritto (l’autore o l’editore). Da sempre la musica, con l’acquisto del disco, deve essere utilizzata in maniera libera in ambito familiare. L’arrivo di sistemi di ascolto diversi ha però sollevato il problema dell’equo compenso a beneficio sia degli autori che dei titolari dei diritti di sfruttamento, quindi degli editori. Il web ha permesso a tutti un facile accesso al mondo della musica, e il problema è che non si sa se, e in quale misura, debba corrispondere un compenso a chi quella musica la crea».

Si sta cercando di trovare una soluzione?

«Le organizzazioni rappresentanti il mondo musicale stanno cercando di raggiungere degli accordi con i grandi utilizzatori di musica, quali i social network, i grandi portali e tutte le altre piattaforme di distribuzione di contenuti nel web. In alcuni C&P • GIUSTIZIA

casi si è ammessa l’effettiva necessità di riconoscere un compenso a colui che crea, perché diversamente, si rischia di far morire la creatività, e cessando questa, cessa anche di fatto il prodotto musicale. Altre realtà invece sono più restie perché la pensano come quei paesi del Nord Europa per i quali, una volta creata, la musica diventa un bene comune che deve essere accessibile a tutti senza corrispondere niente a nessuno».

Le recenti direttive sulla mediazione obbligatoria coinvolgono anche le controversie relative al diritto di autore?

«La mediazione obbligatoria impone, per una serie di controversie, l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione prima di rivolgersi a un giudice. Riguarda le materie relative ai cosiddetti diritti disponibili, vale a dire tutto ciò che ha a che fare con obbligazioni pecuniarie, successioni ereditarie, transazioni commerciali, societarie, ma anche patti di famiglia, locazioni, comodati e risarcimenti di varie tipologie di danni: la stragrande maggioranza delle controversie. Il diritto d’autore sembra non rientrare nella mediazione obbligatoria, ma d’altra parte le controversie del diritto di autore rappresentano solo il 6,5% del totale».

Come ha impattato la mediazione obbligatoria sulla figura dell’avvocato?

«Ritengo che la professione forense stia subendo svilimenti continui, non solo a causa dell’obbligatorietà della mediazione, che senz’altro conferma la tendenza a non considerare più l’avvocato come un elemento fondamentale di tutela. Questa figura perde di credibilità anche per una certa disaffezione verso il sistema giustizia. Visti i tempi della giustizia, quando il cittadino sente che non si sa quanto tempo la sua causa potrebbe durare, pensa a vie alternative che in qualche modo svincolano da meccanismi eccessivamente burocratici. Ne deriva la nascita incontrollata e ingiustamente tollerata di alcune società di recupero crediti o di consulenza, che il più delle volte sono poco professionali e conquistano il cittadino con costi bassi o pagamenti posticipati. La tolleranza verso questo tipo di realtà mette ancora più da parte la professione forense».

Cosa si può fare secondo lei per migliorare la situazione?

«Credo sarebbe necessaria una presenza più importante da parte dei nostri organi di rappresentanza. Un primo passo potrebbe essere proprio una riforma che rendesse l’ordine degli avvocati parte attiva di un confronto diretto con le istituzioni, che abbia voce in capitolo quando si discute delle leggi. Il parlamento italiano spesso, quando legifera, non tiene conto degli esperti o riduce la loro presenza a pochi soggetti che godono della fiducia del ministro di turno. Bisognerebbe svincolare il sistema da questo meccanismo attuando riforme dei processi, che tengano realmente conto della parola di chi è sul campo e lavora».

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L'errore medico • Nino Marazzita

La malasanità può essere sconfitta Occorre «focalizzare l’attenzione sui temi fondamentali della società civile» afferma Nino Marazzita. Il medico deve riacquistare «la capacità di elaborare la diagnosi clinica».

Per migliorare invece il risultato delle perizie occorre tipicizzare il comportamento del medico in caso di omicidio colposo di Elena Ricci

L’avvocato Nino Marazzita

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a quando, anni fa, ha contribuito a creare il Tribunale per i delitti del malato, l’avvocato Nino Marazzita ha seguito tantissimi casi di malasanità.

L’iter classico di questo tipo di processi prevede prima di tutto la denuncia alle autorità che faranno partire le perizie mediche opportune. «Da quel momento comincia la guerra delle consulenze tra le parti» e la situazione viene spesso aggravata dalla presenza di più medici indagati. Due sono le proposte mosse dall’avvocato affinché pazienti e familiari ricevano effettivamente Giustizia: la tipicizzazione del comportamento del medico in caso di omicidio e scindere in due ambiti differenti, «il ruolo e il comportamento assunto dal medico indagato, da quello della struttura ospedaliera in generale».

Da anni si occupa di malasanità. Quali sono le carenze principali di questo settore?

«Le carenze sono sia di natura professionale che strutturale.

Da una parte i medici non sono sempre in grado di formulare una diagnosi corretta. Mi ricordo che fino a una ventina di anni fa il medico prima di tutto visitava in maniera approfondita un paziente, poi stabiliva la diagnosi e infine cercava la conferma nelle analisi. Ora non è più così. Se da una parte dobbiamo ritenerci soddisfatti dei passi avanti che sono stati compiuti a livello di strumentazioni e macchinari, dall’altra parte il medico ha perso la sua capacità di elaborare la diagnosi clinica. Un altro aspetto che va preso poi in considerazione sono le strutture ospedaliere sia pubbliche che private. Quello che ho potuto constatare negli anni è che c’è poca attenzione verso il paziente nella fase post operatoria, che invece è un momento molto delicato nel corso del quale possono sorgere complicazioni e lesioni gravi che in alcuni casi possono portare anche alla morte».

Qual è l’iter di un processo che riguarda la sanità?

«Quando c’è una lesione o peggio la morte di un paziente causata da una mancanza da parte del medico o della struttura ospedaliera, bisogna denunciare il fatto alla Procura, ai carabinieri o alla Polizia di Stato. A questo punto l’autorità giudiziaria inizia a svolgere le prime indagini e quindi a richiedere una consulenza medico legale. Da quel momento comincia la guerra delle consulenze tra le parti. A rendere il processo ancora più complesso è che, sempre con maggior frequenza, i medici indagati sono più d’uno e spesso vengono coinvolti anche i dipendenti paramedici. Tra tutte le perizie richieste, sarà giudicata valida quella che riuscirà a stabilire con certezza il nesso di casualità tra la morte o il ferimento del paziente e il comportamento colposo, negligente, superficiale del medico, causato per esempio da un mancato ri-

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C&P • GIUSTIZIA

L'errore medico • Nino Marazzita

spetto dei protocolli o in casi peggiori per non essere intervenuto prontamente e adeguatamente nella diagnosi del paziente. L’ultima parola spetta sempre e comunque al giudice che è il peritus peritorum che deve emanare il verdetto definitivo».

I pazienti mal curati o i familiari delle vittime riescono di solito a ottenere un giusto risarcimento per tutta la sofferenza che hanno dovuto subire?

«Tutti i medici e tutte le strutture ospedaliere, specialmente le Asl, sono assicurate. L’atteggiamento tipico delle assicurazioni è quello di prendere tempo, di non pagare fino a che la condanna non è alle porte. Alla fine, dopo una lunga attesa, arriva il momento della trattativa con le assicurazioni. Le vittime o i loro familiari, di solito per stanchezza, accettano la proposta delle assicurazioni e, per quello che ho potuto riscontrare in questi anni, quasi mai si tratta di un risarcimento adeguato. Da qualche anno la Cassazione, quando riconosce la colpa medica, ha esteso il concetto di danno. Non si limita più al risarcimento del danno morale, ma ha iniziato a identificare anche il danno biologico, psicologico ed anche la perdita di chance come per esempio restare disoccupato anche solo per un certo periodo».

Riguardo al tema di malasanità dovrebbero essere emanate nuove leggi o modificate quelle esistenti per garantire una maggior tutela alle vittime?

C&P • GIUSTIZIA

«Il problema di base in Italia è che abbiamo una legiferazione folle rispetto ad altri Paesi europei come la Gran Bretagna. Quello che ritengo sia utile per la giustizia italiana è che vengano eliminate tutta quella serie di leggi inutili e superflue. Occorre invece focalizzare l’attenzione su quei temi fondamentali all’interno di una società civile.

Io avevo riposto molta fiducia nella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla malasanità e sui disavanzi sanitari regionali che venne instituita nel 2008. Inizialmente ho pensato che qualcosa potesse effettivamente cambiare perché mi era sembrato che questa Commissione fosse celere, ma come spesso accade in Italia, a un certo punto anche questa struttura si è arenata. Eppure sarebbe stata un buon punto di partenza per iniziare a visionare quelle leggi che andrebbero riformate. Nell’ambito della malasanità sono due gli aspetti che secondo me sono cruciali: il primo è che occorre tipicizzare il comportamento del medico in caso di omicidio colposo perché altrimenti si fa riferimento alla norma generica valida anche per altri casi. È invece importante analizzare in maniera approfondita le mancanze di un medico così i periti possono risalire alle cause effettive. L’altro aspetto che andrebbe affrontato è quello che occorre scindere, e analizzare in due ambiti differenti, il ruolo e il comportamento assunto dal medico indagato, da quello della struttura ospedaliera in generale».

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Editoriale • Luca Conti

L’EVOLUZIONE DELLA RESPONSABILITÀ SANITARIA di Luca Conti Avvocato civilista del Foro di Trento www.avvocatolucaconti.com

radizionalmente, la responsabilità degli operatori sanitari era inquadrata come un’obbligazione di mezzi e non come un’obbligazione di risultato; di più, la “responsabilità sanitaria” era ricondotta nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che incombeva sul danneggiato l’onere di provare la colpa (grave) dell’operatore e il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno alla salute sofferto per effetto di un trattamento sanitario errato.

Nel corso degli ultimi anni la responsabilità sanitaria ha subìto una profonda evoluzione, avvicinandosi per molti aspetti all’obbligazione di risultato. La fonte della responsabilità (extracontrattuale) per danni era incardinata sulla colpa; l’accertamento della responsabilità dell’operatore era subordinata all’inosservanza della diligenza qualificata, la cui prova però doveva essere fornita dal paziente. Chi assumeva di avere subìto un danno alla salute quale conseguenza di un trattamento sanitario errato, doveva allegare non solo la prova del rapporto intercorso con l’operatore sanitario e l’aggravamento del proprio quadro clinico, ma anche la prova che il danno sofferto era diretta conseguenza del fatto colposo altrui. L’inquadramento giuridico oggi verte nell’ambito della “responsabilità contrattuale” e delle “obbligazioni di risultato”: l’operatore sanitario si obbliga nei confronti del paziente a raggiungere un determinato risultato avuto riguardo del pregresso quadro clinico, il cui mancato conseguimento, ovvero l’aggravamento della pregressa patologia, costituisce un inadempimento contrattuale e lo obbliga al risarcimento del danno, la cui esclusione è subordinata alla prova che l’impossibilità di eseguire correttamente la prestazione è dipesa da cause a lui non imputabili (art. 1218 c.c.).

Nell’ottica che precede, la responsabilità sanitaria delle strutture

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organizzate è fondata sull’art.1228 c.c. (responsabilità per fatto degli ausiliari). Il rapporto che lega il paziente alla struttura sanitaria può essere inquadrato come un “contratto a prestazioni corrispettive, atipico con effetti protettivi a favore di terzo”; ne segue che in presenza di un contratto di spedalità, allorché sia dedotta in giudizio una fattispecie di responsabilità per inadempimento dell’attività medico-chirurgica a carico dell’operatore sanitario e della struttura, l’inquadramento è da ricondursi alla responsabilità per inadempimento (art.1218 c.c.) e a quella per fatto degli ausiliari (art.1228 c.c.).

La Sentenza della Corte di Cassazione 8826/2007 ha sancito la responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero sia in relazione ai fatti propri d’inadempimento sia in relazione alla condotta degli operatori di cui si avvale. Tuttavia, vertendosi in un contratto atipico “con effetti protettivi a favore di terzo”, alla responsabilità della struttura sanitaria per il fatto degli ausiliari, può benissimo concorrere anche la responsabilità fondata sulla colpa, allorché l’evento dannoso in capo al paziente sia conseguenza di disfunzioni o carenze organizzative della struttura stessa.

Tale quadro ha portato notevoli benefici ai pazienti non solo in termini di “prova”, ma anche in tema di prescrizione dell’azione di risarcimento e di scelta del Foro competente: mentre nel precedente inquadramento giuridico (responsabilità extracontrattuale) l’azione risarcitoria si prescriveva in cinque anni dal fatto, attualmente la prescrizione è decennale trovando fondamento nell’inadempimento contrattuale; e attesa la natura contrattuale del rapporto che lega il paziente all’operatore sanitario, il Foro competente a conoscere la causa di risarcimento non sarà più quello canonico del convenuto, ma piuttosto quello dove risiede il paziente/consumatore come previsto dall’art. 33 del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005).

C&P • GIUSTIZIA

Indennità • Amerigo Maggi

Indennizzo dallo Stato a norma CEE I medici che frequentavano scuole di specializzazione dai primi anni Ottanta ai Novanta aspettano ancora le borse di studio da parte dello Stato.

L’avvocato Amerigo Maggi analizza una pronuncia della Corte di Cassazione che rende loro giustizia di Nicoletta Bucciarelli

L’avvocato Maggi esercita la professione forense presso il suo studio di Trani (BA) amerigo.maggi@libero.it

el caso di ritardata ricezione di direttive comunitarie da parte dello Stato, ai cittadini che subiscono pregiudizi spetta il pagamento di un’indennità. Lo ha stabilito un’innovativa pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, la numero 9147 del 17 aprile 2009, utile per tutti, ma ancora poco conosciuta “ai non addetti ai lavori”.

Per la Suprema Corte, lo Stato è obbligato a indennizzare chi subisce pregiudizi a causa del ritardo del Legislatore nella ricezione di norme di diritto comunitario.

«Per la Cassazione, detto ritardo, in quanto comportamento antigiuridico rispetto all’ordinamento comunitario, costituisce un vero e proprio inadempimento da parte dello Stato, da cui scaturisce l’obbligo automatico all’indennizzo».

Questa importante sentenza analizzata da Amerigo Maggi, avvocato civilista del foro di Trani, che si occupa di diritto comunitario, fa finalmente luce sull’annosa questione del mancato pagamento di borse di studio ai medici ammessi alla frequenza di Scuole di Specializzazione post laurea dall’anno accademico 1983/84 all’anno accademico 1990/91.

«La direttiva 82/76/CEE imponeva agli Stati membri di prevedere un’adeguata remunerazione in favore degli specializzandi a partire dal 31 dicembre 1982. Malgrado la presenza di questa direttiva comunitaria la problematica era stata per anni inevasa nel nostro Paese». Tutto questo aveva provocato una serie di contenziosi da parte di diverse centinaia di medici specializzandi producendo esiti spesso contrastanti tra di loro.

«Lo Stato Italiano ha recepito le relative norme comunitarie

in grave ritardo, solo dieci anni dopo – informa Maggi –, con il decreto legislativo 8 agosto 1991 e, per di più, prevedendo il pagamento delle borse di studio solo a favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione a partire dall’anno accademico 1990/91». Restava pertanto in sospeso il pagamento dei sussidi dei medici specializzandi dal 1983/84 all’anno accademico 1990/91.

In virtù della pronuncia della Corte di Cassazione, «oggi, i medici ammessi a scuole di specializzazione tra l’A.A. 1983/84 e l’A.A. 1990/91 possono finalmente rivendicare nei confronti dello Stato il diritto a un congruo indennizzo, per la mancata percezione di un’adeguata remunerazione ai tempi della frequenza delle scuole nonché per il mancato adeguamento delle stesse agli standard di formazione comunitaria».

La norma infatti sentenzia che a seguito di omessa o tardiva attuazione di direttive comunitarie il diritto degli interessati al risarcimento ha natura indennitaria. La stessa norma inoltre ribadisce che il relativo risarcimento prescinde da accertamenti sulla sussistenza di dolo o colpa, aggiungendo la necessità di assicurare comunque un’idonea compensazione della perdita subita.

«Partendo da questa prospettiva – spiega l’avvocato Maggi –, le Corti di merito iniziano ad accogliere i numerosi ricorsi collettivi e “class action” già pendenti, in contenziosi che, se non interverrà un apposito provvedimento legislativo di sanatoria, si preannunciano, nel loro complesso, multimilionari.

Sembra, difatti, che i medici interessati alla vicenda siano in numero molto elevato, nell’ordine di alcune migliaia».

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Responsabilità civile • Angelo Iannaccone

Chi risponde del danno subìto Quella della responsabilità civile è una materia molto articolata, che spazia dalla responsabilità del professionista a quella del produttore per i danni causati dal difetto del prodotto. Il quadro dell’avvocato Angelo Iannaccone di Eugenia Campo di Costa

L’avvocato Angelo Iannaccone avvocati@studiolegaleiannaccone.it

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l sistema della responsabilità civile regola i criteri in forza dei quali si determina il soggetto, che deve rispondere di un danno quando questo si verifica. Le ipotesi di responsabilità sono molteplici, tra queste: la responsabilità del professionista, come quella in ambito sanitario, la responsabilità degli amministratori e dei sindaci di società, quella dell’imprenditore nei confronti dei dipendenti per infortuni sul lavoro, quella per i danni arrecati da cose in custodia o la responsabilità del proprietario di edifici per i danni causati dalla rovina degli stessi. Si può essere responsabili, oltre che del fatto proprio, anche del fatto di un soggetto di cui si è chiamati a rispondere per legge. È la responsabilità per fatto altrui che può competere ai genitori per il fatto dei figli, agli insegnanti per il fatto degli allievi, all’imprenditore per il fatto dei dipendenti e collaboratori, al professionista per il fatto dei sostituti e degli ausiliari. Infine, si può essere responsabili anche in assenza di dolo o colpa, a titolo di responsabilità oggettiva: il produttore per i danni cagionati dai prodotti, gli esercenti un’attività pericolosa. «In materia di responsabilità sanitaria – afferma l’avvocato Angelo Iannaccone - negli ultimi anni la giurisprudenza si è andata modificando in senso più favorevole al danneggiato, elaborando criteri, che è prevedibile siano applicati anche agli altri professionisti, quali notai, commercialisti, avvocati».

Come si sviluppa oggi la giurisprudenza in tema di responsabilità sanitaria?

«Non compete al paziente provare la colpa del sanitario-professionista, ma è questi che deve provare, di aver diligentemente adempiuto la propria prestazione. In particolare al paziente è sufficiente allegare l’inadempimento e provare il danno, mentre il sanitario, per risultare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver adempiuto correttamente all’obbligazione assunta o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa a sé non imputabile, oppure ancora la mancanza del nesso di causalità materiale tra il proprio inadempimento e l’evento dannoso».

Il paziente gode quindi di una posizione avvantaggiata.

«Sì, anche sotto il profilo del nesso di causalità tra danno e comportamento del professionista, che oggi per la giurisprudenza sussiste anche qualora non si raggiunga la certezza assoluta. A ciò si aggiunge poi l’obbligo di informazione nei confronti del cliente gravante sul professionista fin dal mo-

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Responsabilità civile • Angelo Iannaccone

In materia di responsabilità del professionista, negli ultimi anni la giurisprudenza si è modificata in senso più favorevole al danneggiato L’avvocato Angelo Iannaccone con i collaboratori nello studio di Milano: da sinistra, gli avvocati Laura Anselmi, Maria Luisa Catano, Giuseppe Sorgente, Francesca Papetti, da destra, la dottoressa Giulia Sciacca, gli avvocati Arturo Semprevivo, Ludovico Lucchi, Giuseppe Mantovani

mento dell’assunzione dell’incarico, da cui può derivare altro titolo di responsabilità per quest’ultimo. Non si tratta solo dell’obbligo di informazione sui rischi dell’intervento, sulle possibilità di successo e sulle cure alternative, ma anche dell’obbligo di informare il cliente fin dal momento dell’assunzione dell’incarico riguardo le questioni ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive di un rischio di effetti dannosi.Tale obbligo di informazione, secondo la giurisprudenza, grava ex art. 1176 2° comma c.c. anche sull’avvocato, sul notaio, sul commercialista e sul professionista in genere, che è tenuto a invitare il cliente a fornire gli elementi utili alla soluzione positiva delle questioni stesse e anche a sconsigliarlo dall’iniziare o proseguire una lite ove appaia improbabile un epilogo favorevole».

Altra materia molto attuale in tema di responsabilità civile riguarda la responsabilità del produttore per i danni causati da difetti del prodotto.

«Il produttore è responsabile sia nei confronti del consumatore sia nei confronti di altri imprenditori, a cui il prodotto sia stato fornito. Tale responsabilità si allarga anche ad altre figure, che sono intervenute nella catena di produzione e commercializzazione del prodotto difettoso, quali il fornitore della materia prima, l’intermediario del fabbricante/fornitore, l’importatore del bene o servizio, la persona fisica o giuridica che si presenta come produttore. Va poi ricordata l’incidenza che può avere sulla responsabilità del produttore la certificazione del sistema di qualità aziendale secondo la Uni En Iso 9001. La presenza di un sistema qualità certificato nell’azienda e la serietà dei suoi C&P • GIUSTIZIA

controlli possono, nei casi dubbi, far pendere la valutazione del Giudice a favore dell’impresa convenuta per il risarcimento del danno. Non solo, ma un’efficiente gestione di un sistema qualità aziendale certificato è importantissima nel caso in cui il danno all’utilizzatore sia stato causato, solo o anche, da un componente difettoso del prodotto fornito al produttore o assemblatore finale da un subfornitore o da un rivenditore a marchio proprio o da un importatore che possono essere chiamati in causa dal primo per diminuire o escludere la sua responsabilità nei confronti del cliente danneggiato».

Ovviamente non basta avere un sistema di gestione della qualità aziendale certificato, questo deve essere gestito in modo efficiente, altrimenti la colpa del produttore è suscettibile d’essere valutata addirittura in maniera più grave.

«Il Giudice può, nel caso in cui venga dimostrato che il sistema di qualità certificato non è stato utilizzato o è stato utilizzato male, anche riconoscere l’esistenza di grave imperizia e imprudenza, in quanto il produttore, proprio per la presenza di un sistema qualità certificato, era a conoscenza di tutte le azioni da intraprendere per non realizzare o limitare al minimo il rischio di prodotti difettosi, ma non ha provveduto a metterle in atto.

Esistono sul mercato numerosi prodotti assicurativi a copertura di tali tipi di responsabilità, ma non può tacersi che non sempre le compagnie, nella gestione dei sinistri, dimostrano di avere piena consapevolezza delle problematiche relative, e ciò non contribuisce certo al contenimento del contenzioso in materia».

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Diritto alla difesa • Davide Barillà

Atti ripetibili formati all’estero L’articolo 24 della Costituzione riguarda il diritto inviolabile della difesa. L’avvocato Davide Barillà spiega i casi in cui questo diritto viene violato nell’utilizzabilità degli atti compiuti all’estero di Nicoletta Bucciarelli

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na delle tematiche giurisprudenziali poco dibattute, ma sempre attuali visto anche il particolare momento storico, è l’utilizzabilità degli atti compiuti nei paesi membri dell’Unione Europea ed effettuati senza garanzie difensive, quindi in violazione dell’art. 24 della Costituzione italiana e versati - a mezzo di rogatoria internazionale - agli atti di un processo penale italiano. L’avvocato Davide Barillà fa il punto della situazione sottolineando come è importante che «l’assunzione, negli stati facenti parte dell’Unione Europea, degli atti ripetibili si verifichi assicurando al difensore la possibilità di esercitare le facoltà conferite dalla legge processuale penale italiana».

Quale legge tratta questo argomento?

«La Legge del 22.04.2005 n.69, nella quale il Parlamento ha varato le nuove disposizioni riguardanti il mandato d’arresto europeo e le procedure di consegna tra stati membri. L’argomento in questione è stato approvato anche dalla Suprema Corte la quale ha stabilito il principio secondo cui “Ai fini dell’acquisizione di deposizioni testimoniali all’estero a mezzo di rogatoria internazionale, nell’ambito di un procedimento per il reato di violenza contro privati nemici, deve ritenersi corretta l’effettuazione della rogatoria con le forme prescritte dalla Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959. Resta infatti inoperante la clausola di esclusione stabilita dall’articolo 1 con riferimento ai reati militari che non costituiscono reati di diritto comune, in quanto il reato previsto dall’art. 185 C.p.mil.g. presenta gli stessi elementi costitutivi dei reati comuni di omicidio o di strage, dai quali si differenzia solo per la presenza di taluni elementi specializzanti”. Sempre continuando, la Suprema Corte ha affermato che, “in materia di assistenza giudiziaria penale, gli atti compiuti all’estero su rogatoria sono assunti secondo le forme del paese richiesto, salvo l’eventuale contrasto con norme inderogabili di ordine pubblico e buon costume».

Che cosa accade quindi se gli atti vengono assunti in palese inosservanza dell’evoluzione legislativa?

«In questi casi gli atti vengono dichiarati inutilizzabili in quanto assunti in evidente violazione del diritto di difesa. Infatti, la clausola di sbarramento per l’attività di acquisizione di dichiarazioni testimoniali assunte all’estero in violazione delle norme di legge di diritto interno, è rappresentata esclusivamente dal fatto che i reati che vengono perseguiti non siano reati comuni ma reati di tipo militare. Bisogna aggiungere che l’interpretazione del dato normativo è avvallata anche dalla costante Giurisprudenza del Supremo Collegio dove viene tratteggiata la definizione di reato militare in tempo di guerra e in tempo di pace e reato comune. Inoltre, quando si tratta di atti ripetibili, vale il principio della prevalenza delle lex loci. Il tema oggetto di dissertazione incontra un fermo sbarramento con quella che è la

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C&P • GIUSTIZIA

Diritto alla difesa • Davide Barillà

L’avvocato Davide Barillà, 29 anni, esercita la professione forense a Reggio Calabria davidebarilla@libero.it

La clausola di sbarramento è rappresentata esclusivamente dal fatto che i reati che vengono perseguiti non siano reati comuni ma reati di tipo militare C&P • GIUSTIZIA

contraddittorietà all’ordine pubblico processuale dell’ordinamento giuridico italiano, essendo prescritto che l’assunzione all’estero degli atti ripetibili si verifichi assicurando al difensore la possibilità di esercitare le facoltà conferite dalla legge processuale penale italiana».

In quali casi si va incontro a una violazione del diritto di difesa?

«Se lo strumento rogatoriale viene utilizzato non al fine di formare la prova, si compie una violazione del diritto di difesa stabilito dalla costituzione italiana. Il tutto si verifica infatti in assenza del difensore e in violazione di un diritto costituzionalmente sancito. Inoltre si va contro al codice di rito straniero quando si tratta di un atto realizzato dall’Autorità inquirente straniera al fine di assumere l’interrogatorio di un soggetto indagato. In tal caso l’interrogatorio sarebbe ammissibile se e solo se venisse dato avviso a un difensore di fiducia. Occorre aggiungere che con la Proposta di Decisione Quadro del Consiglio in materia di prove acquisite tenutosi a Lussemburgo, l’autorità di esecuzione, ovverossia quella che recepisce e reperisce l’atto di indagine, deve attenersi alle formalità e alle procedure indicate dall’autorità di emissione. Non deve essere quindi in conflitto con i principi fondamentali dello stato di esecuzione. È evidente quindi che le prove acquisite secondo la legge del luogo sono sottratte alla disciplina per facilitare la compatibilità della raccolta probatoria con la Legge dello stato di emissione, prevista per i casi in cui il mandato sia precedente alla raccolta delle prove che si richiedono».

Come vengono introdotti gli atti nel processo italiano?

«Sebbene la modalità di trasmissione di richieste aventi ad oggetto gli atti di un procedimento penale straniero siano informate alla disciplina rogatoriale, si deve rilevare che le regole d’introduzione di questi atti nel processo italiano si distinguono rispetto alle regole previste in via generale per le prove ottenute tramite rogatoria. La regola dispone che la documentazione degli atti di un procedimento penale estero può essere acquisita al fascicolo del dibattimento a norma dell’art. 238 C.p.p., il quale disciplina l’acquisizione e l’utilizzabilità di verbali di prove di altri procedimenti, formalmente inquadrati in quella parte di codice dedicata alla prova documentale. Il codice di rito infatti, al fine di acquisire la prova allogena di provenienza tanto domestica quanto estera, richiede che queste prove siano assunte in incidente probatorio o in dibattimento. Nel caso di recupero di prove dichiarative, si richiede invece che il difensore dell’imputato nel procedimento di destinazione abbia partecipato all’assunzione nel procedimento di origine. E infatti l’importazione in un procedimento di dichiarazioni formate in altro procedimento esige non solo contesti garantiti di formazione della prova, ma anche il concorso del difensore di colui nei cui confronti possono essere utilizzate».

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Il ruolo del difensore • Carlo Morace

La giustizia è su un doppio binario?

Carlo Morace parla del ruolo del difensore tra novità legislative nel sistema penale e lotta alla criminalità organizzata. Ed esprime la sua opinione sulla “moda” della diffusione del contenuto delle intercettazioni di Nicoletta Bucciarelli

Carlo Morace, avvocato penalista, docente di diritto penale presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, attualmente è anche Presidente della Camera Penale “G. Sardiello” di Reggio Calabria. Ha studio a Reggio Calabria e Milano carlomorace1972@libero.it

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l settore penale negli ultimi anni ha visto l’introduzione di norme a tutela della sicurezza. Allo stesso tempo si è mosso sul tema della lotta alla criminalità. Con la legge del 13 Agosto 2010 n.136, entrata in vigore il 7 settembre, è stato varato il piano straordinario contro le mafie.

La legge contiene la delega al Governo per l’adozione del Codice delle leggi antimafia, delle misure di prevenzione e delle certificazioni antimafia, e prevede anche il regime fiscale dei beni sequestrati. Sia che si tratti di norme in tema di criminalità organizzata, sia di reati comuni, l’avvocato Carlo Morace sottolinea come il compito del difensore sia sempre lo stesso. Egli infatti «esercita un diritto inviolabile, è posto a presidio delle garanzie dell’individuo».

Come valuta gli interventi legislativi nel settore penale negli ultimi anni?

«Le uniche innovazioni sono state introdotte in ragione dell’emergenza sicurezza. Si tratta di interventi dettati da esigenze contingenti, che non seguono un filo conduttore e che sono tendenzialmente indirizzati a inasprire le pene e ampliare i margini di applicabilità della carcerazione preventiva. Il ricorso alla custodia cautelare in carcere da extrema ratio è stato trasformato in strumento di risocializzazione antecedente rispetto all’irrogazione della pena. Non vi è da meravigliarsi se nel volgere di un anno la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime l’introdotta circostanza aggravante della clandestinità e la norma procedurale che prevedeva l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per talune categorie di reati».

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C&P • GIUSTIZIA

Il ruolo del difensore • Carlo Morace

In tema di lotta alla criminalità organizzata si è molto discusso sulle novità concernenti l’aggressione ai patrimoni illeciti.

«Le modifiche in tema di misure di prevenzione patrimoniale rispondono all’esigenza di inasprire e rendere più efficiente l’aggressione nei confronti delle ricchezze accumulate illecitamente. Non si può, però, condividere la novità che consiste nella scissione tra prevenzione personale e patrimoniale. Tale innovazione, infatti, fa venire meno il requisito principale sul quale si fonda l’istituto delle misure di prevenzione, ossia l’attualità della pericolosità sociale. Si consideri, poi, che in questa materia la confisca non implica la commissione di un reato.

Si tratta di una riforma che sicuramente ha ridotto ulteriormente le garanzie per la difesa rispetto al passato e che pone problemi di armonizzazione con i principi comunitari in tema di tutela della proprietà privata». È diverso il ruolo del difensore nei processi di criminalità organizzata rispetto a quelli per reati comuni?

«Non vi è dubbio che in Italia esista un doppio binario con regole processuali e sostanziali diverse. Da un lato le norme in tema di criminalità organizzata, dall’altro quelle per i reati comuni. Il difensore in ambedue esercita un diritto inviolabile, è posto a presidio delle garanzie dell’individuo. Nei processi per reati di criminalità organizzata, come ormai avviene in ogni ambito professionale, si richiede al difensore di essere specializzato. Si tratta di reati per i quali la disciplina è peculiare sia nella fase cautelare, sia in quella dibattimentale e finanche in C&P • GIUSTIZIA

quella esecutiva. Questi delitti coinvolgono sempre di più, la storia e la prassi giurisprudenziale lo insegnano, i politici, gli imprenditori, i professionisti e i cittadini comuni».

Giudica appropriato l’uso dell’istituto del “concorso esterno” in associazione mafiosa?

«La delineazione dell’istituto ad opera della sentenza delle Sezioni Unite Mannino del 2005, se interpretata correttamente, lo rende applicabile soltanto a determinate condizioni. Nella prassi, però, si registra una resistenza, soprattutto in fase cautelare, ad adottare correttamente e in modo garantista i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità. Negli ultimi anni vi è una tendenza, da parte di alcune procure, a preferire la contestazione della fattispecie di partecipazione ad associazione mafiosa piuttosto che il “concorso esterno”. Tale scelta è agevolata dagli elementi di prova a disposizione degli inquirenti, costituiti di frequente da intercettazioni telefoniche e ambientali, l’interpretazione delle quali è spesso dilatata e va oltre il dato emergente dal contenuto delle stesse. In questi casi il compito del difensore è ancora più delicato in quanto ci si scontra con le presunzioni di appartenenza all’associazione formatesi nella prassi giurisprudenziale da oltre venti anni e che spesso comportano vere e proprie inversioni dell’onere della prova.

Nei prossimi anni si assisterà all’ulteriore inasprirsi del dibattito sulla delineazione della condotta di partecipazione e sugli indizi necessari a fondare un giudizio di intraneità».

Si discute molto sulla diffusione delle intercettazioni tramite i media. Lei che opinione si è fatto?

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Il ruolo del difensore • Carlo Morace

Le indagini sembrano seguire due percorsi distinti. Da un lato quello del pubblico ministero, dall’altro quello mediatico.

Spesso tra i due vi è una sovrapposizione e una contaminazione con grande danno per la giustizia 230

«La libertà di manifestazione del pensiero e di informazione ha rilievo costituzionale e la giustizia è amministrata in nome del popolo, quindi il controllo pubblico sul processo è contemplato dalla nostra Costituzione. Bisogna però distinguere tra le varie fasi del procedimento, in particolare tra il momento della formazione della prova in contraddittorio e la precedente fase delle indagini. In quest’ultima fase, infatti, è necessario tutelare la riservatezza delle indagini e impedire la divulgazione di atti che non sono ancora prove. Nell’ultimo periodo, però, non si assiste soltanto alla divulgazione sulla stampa di atti di indagine, tra i quali le intercettazioni ancora non trascritte da un perito, ma si assiste a un fenomeno nuovo. Le indagini, infatti, sembrano seguire due percorsi distinti. Da un lato quello del pubblico ministero, dall’altro quello mediatico. Spesso tra i due vi è una sovrapposizione e una contaminazione con grande danno per la giustizia. È necessario, pertanto, stabilire precise regole che impediscano la celebrazione anticipata dei processi in televisione o sulla carta stampata. Urge anche la fissazione di codici comportamentali per i difensori, i quali spesso nelle varie trasmissioni televisive finiscono per male interpretare il loro ruolo e la loro funzione. Bisognerebbe evitare che le valutazioni di attendibilità dei testimoni, e in generale di innocenza o colpevolezza dell’imputato, vengano demandati all’opinione pubblica e si tramutino in giudizi sommari celebrati prima ancora dell’inizio dei processi».

Quali sono a suo avviso gli interventi legislativi non procrastinabili? «È necessaria una riforma complessiva che riordini l’intero diritto penale e il sistema processuale, che sono strettamente connessi. Si è accentuato, infatti, il numero di norme incriminatrici che trovano la loro collocazione fuori dal codice, con ovvia frammentazione della disciplina ed eccessivo ricorso al diritto penale anche per fatti di minore offensività.

Urge, a tal fine, una riforma che reintroduca l’immunità parlamentare già prevista dalla Costituzione nel 1948, unico strumento in grado di bilanciare i rapporti di forza tra potere politico e giudiziario e garantire ai governi quella stabilità che consenta di dedicarsi alle riforme. Non è ammissibile, infatti, che indagini giudiziarie possano condizionare la libertà di opinione o voto dei parlamentari. Inoltre deve trovare concreta attuazione il principio costituzionale di imparzialità e terzietà del giudice. Ciò può realizzarsi attraverso la separazione delle carriere dei magistrati requirenti e giudicanti e una riforma che riguardi la struttura del CSM. È evidente che il gioco dei contrappesi deve entrare in funzione per impedire che il ruolo del pubblico ministero sia sacrificato a beneficio delle attività della polizia giudiziaria e che ciò determini un ampliamento dei poteri dell’esecutivo».

C&P • GIUSTIZIA

Appalti pubblici e privati • Danilo Boffi

Durc: garanzie e opportunità Il documento unico di regolarità contributiva, Durc, è fondamentale per le imprese, per operare nell’ambito degli appalti pubblici e privati, e per poter accedere alle sovvenzioni comunitarie.

Il punto di Danilo Boffi di Lucrezia Gennari

ntrodotto per la prima volta nel nostro ordinamento dalla Regione Umbria allo scopo di rendere effettivo ed efficiente il rispetto della legge 61 del 30/03/1988, cioè la norma che subordinava la concessione di finanziamenti per la ricostruzione dopo i sismi del 1997 in Umbria, il Durc è il certificato che, sulla base di un’unica richiesta, attesta contestualmente la regolarità di un’impresa per quanto concerne i pagamenti regolari degli adempimenti previdenziali e assicurativi. «Oggi il Durc è diventato lo strumento indispensabile per un’impresa al fine di poter operare nel settore degli appalti pubblici e degli appalti privati, e di poter accedere ai benefici e alle sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti». A parlare è Danilo Boffi, il cui studio di consulenza è specializzato nella gestione contabile, assistenza amministrativa, societaria, fiscale e del personale a favore delle micro e piccole aziende di servizi, commerciali e artigiane.

A quale scopo è nato il Durc?

«L’oggetto del Durc è la regolarità contributiva concernente tutti gli appalti pubblici nonché i lavori privati in edilizia soggetti al rilascio di concessione, ovvero a denuncia inizio attività (DIA). Inoltre il Durc è necessario per il rilascio dell’attestazione SOA e per l’iscrizione all’Albo dei Fornitori, in cui è necessario ai fini dell’assegnazione di agevolazioni, finanziamenti e sovvenzioni. Il Durc è oggi strumento utile anche al contrasto del lavoro sommerso e irregolare, alla tutela dei diritti dei lavoratori in materia di sicurezza sul lavoro, a favorire la concorrenza tra le imprese in quanto evita che possano essere avvan-

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C&P • GIUSTIZIA

La dottoressa Barbara Boffi e il dottor Danilo Boffi, membro della ANCOT Associazione Nazionale Consulenti Tributari barbara.boffi@tiscali.it daniloboffi@fastwebnet.it www.studioboffi.it

taggiate quelle che non rispettano gli obblighi previdenziali e assicurativi».

Come avviene il rilascio del Durc?

«Avviene in seguito alla richiesta del soggetto interessato attraverso il canale telematico direttamente alle sedi Inps, Inail e Cassa Edile competenti. Il documento contiene i dati identificativi del datore di lavoro con l’indicazione anche dei codici identificativi di iscrizione agli enti previdenziali e assicurativi di competenza territoriale. Normalmente la risposta perviene all’impresa richiedente entro 30 giorni e, se tutti gli adempimenti contributivi sono regolari, la risposta è positiva e l’impresa richiedente può concorrere all’ottenimento dei lavori o parte dei lavori. In caso contrario la risposta è negativa e l’impresa richiedente è esclusa dall’elenco dei fornitori. Il Durc ha validità mensile».

Cosa succede in questi casi?

«L’impresa debitrice deve saldare agli enti risultanti creditori il dovuto a quella data, anche mediante procedure di rateizzazione, al fine di poter richiedere un nuovo Durc con risposta positiva e poter far parte dell’elenco dei fornitori. L’iscrizione di crediti a ruolo non impedisce la richiesta di un Durc regolare; in questi casi, prima della richiesta, occorre accordasi con gli enti creditori sulle possibili modalità di rateizzazione del dovuto».

Che utilizzo trova oggi il Durc?

«Visti i risultati positivi in termini di recupero dei crediti pendenti da parte degli enti previdenziali e assicurativi e di tutela dei lavoratori, oggi il Durc è utilizzato come strumento di controllo anche in altri settori economici».

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Offerta formativa • Gian Galeazzo Monarca

li avvocati italiani si stanno avvicinando all’e-learning. Spesso genericamente definita Fad, formazione a distanza, mentre l’e-learning, o teledidattica, dispone di una specifica piattaforma tecnologica, che permette la trasmissione di videocorsi via web, nonché tutte le procedure di monitoraggio e tracciamento degli ascoltatori dei videocorsi. «Il sistema e-learning sta avendo grande sviluppo negli Stati Uniti e in Europa, dove paesi come Germania, Francia e Gran Bretagna rappresentano da soli quasi il 50 per cento degli investimenti complessivi» afferma l’avvocato Gian Galeazzo Monarca, direttore scientifico del programma e-learning di Tva Italia Web Television. «In Italia – continua – la diffusione della teledidattica è notevolmente più difficoltosa e lenta ma alcuni Consigli dell’Ordine, nonché il Consiglio Nazionale Forense che ha emanato una specifica normativa per l’e-learning sia come formazione di gruppo che come autoformazione, rendono evidente il crescente interesse da parte dell’avvocatura verso questo sistema». La formazione continua degli avvocati è un’esigenza più volte richiamata anche dal Consiglio di Europa e, come sottolineato dal Consiglio Nazionale Forense, l’aggiornamento deve essere un processo culturale di crescita professionale. Agli Ordini spetta il diritto/dovere non solo di accertare ed eventualmente sanzionare gli iscritti inadempienti all’obbligo formativo, ma anche il compito di predisporre programmi formativi adeguati. In tale prospettiva, il tradizionale sistema dei corsi in aula è risultato inadeguato. «Gli Ordini si sono spesso trovati a dover affrontare insormontabili problemi di organizzazione, sia nel reperimento di aule che di docenti in numero adeguato» sottolinea l’avvocato Monarca. In questo senso l’e-learning può offrire notevoli vantaggi, risolvendo i problemi logistici di reperimento delle aule, e il problema di reperimento di un numero adeguato di docenti, ottimizzando il loro impiego. «Solo con l’e-learning l’avvocatura italiana può usufruire delle tante eccellenze che la compongono, presenti in Fori grandi e piccoli, il cui patrimonio altrimenti non potrebbe essere adeguatamente usufruito a vantaggio di tutta la classe forense».

Inoltre presenta l’ulteriore vantaggio di permettere, con la tracciabilità della frequenza di ogni videocorso, il miglioramento dell’offerta formativa con l’introduzione di test durante il videocorso, «una tecnica irrealizzabile in aula per motivi di tempo, soprattutto in aule spesso troppo affollate».

L’e-learning per la sua flessibilità permette all’avvocato di dedicare alla formazione il tempo necessario, rendendolo compatibile con gli impegni professionali e personali. «Infine – conclude l’avvocato Monarca -, ma non ultimo, l’e-learning gestito dagli ordini professionali, è per definizione un’attività no-profit che permette il contenimento e l’ottimizzazione dei costi richiedendo all’avvocato solo poche decine di euro l’anno, quale contributo spese per il conseguimento di un’adeguata crescita professionale».

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C&P • GIUSTIZIA

Le opportunità dell’e-learning La formazione professionale continua può essere agevolmente messa in atto attraverso il sistema e-learning. L’avvocato Gian Galeazzo Monarca illustra le prospettive che la teledidattica può offrire all’avvocatura di Carlo Gherardini

L’avvocato Gian Galeazzo Monarca, civilista del Foro di Milano, direttore scientifico del programma e-learning Tva Italia Web Television – Fondazione Forense Milano www.tvaitalia.it

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Risarcimento danni • Giuseppe Panuccio

L’effettivo danno subìto Il danno conseguente a un’azione o a un comportamento è di facile individuazione. Più difficile è la valutazione del danno derivante da un’omissione o da un non legittimo uso dei propri poteri e delle proprie facoltà, come può accadere per la pubblica amministrazione. La parola a Giuseppe Panuccio di Belinda Pagano

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l problema principale che si riscontra nel risarcimento danni è che sovente il cittadino quantifica il danno economico secondo suoi parametri e spesso le sue pretese economiche non coincidono con le quantificazioni giudiziarie o con l’effettivo danno subito o con l’effettivo danno che si riesce a dimostrare». È così che l’avvocato Giuseppe Panuccio introduce l’argomento.

Panuccio esercita la professione forense dal 1982 presso lo Studio Legale Associato Panuccio con gli avvocati Alberto e Roberta Panuccio, avvalendosi di collaboratori e svolgendo la professione fra Reggio Calabria e Roma. «Il danno conseguente a un’azione o un comportamento è di facile individuazione, ciò che invece impone un’attenta valutazione è il danno derivante da un'omissione, o da un non legittimo uso dei propri poteri e delle proprie facoltà, come può accadere per la pubblica amministrazione che manchi di vigilare nell’espletamento di un suo compito o dovere istituzionale ovvero usi, senza la dovuta diligenza, poteri e facoltà alla stessa attribuiti». È qui che diventa di fondamentale importanza il ruolo del legale. «Non sempre è facile individuare un danno da omissione e riuscire a comprendere se ci sia effettivamente una correlazione fra l’omissione e il danno subìto. Il ruolo dell’avvocato è proprio quello di affiancare l’assistito, dare indicazioni specifiche e riuscire a documentarsi per ottenere elementi che possano agevolare l’affermazione di responsabilità e l’effettiva quantificazione del danno». I casi concreti da citare quali esempi sono innumerevoli. Il caso che tuttavia risulta di attualità rivelante nel sud Italia è quello legato alle norme sulla criminalità mafiosa. «L’ipotesi di notifica di provvedimento interdittivo ex art. 10 dpr. 252/98 è conseguenza dell’applicazione di una disposizione normativa per contrastare la criminalità mafiosa e consente al Prefetto, sulla base di presunzioni normative o di rapporti stilati dagli organi di polizia, di inibire l’espletamento di attività di impresa a soggetti che si abbia il sospetto di essere contigui alla mafia o assoggettabili all’infiltrazione mafiosa. L’ambito di valutazione è estremamente delicato: da un lato, infatti, l’esigenza di impedire che la criminalità organizzata possa annidarsi o infiltrarsi nel tessuto economico, dall’altro l’esigenza che il provvedimento colpisca effettivamente i soggetti “a rischio” senza coinvolgere soggetti che, invece, sono esenti. È vero che il provvedimento interdittivo può essere rimosso dallo stesso organo emanante o dal Giudice Amministrativo ma il pregiudizio immediato che lo stesso arreca è di difficile rimozione. La discrezionalità e la finalità del provvedimento non possono costituire un salvacondotto per escludere il risarcimento del danno in favore del soggetto che subisce, ingiustamente, un provvedimento di interdizione». Il ruolo dell’avvocato, dunque, è riuscire a ottenere giustizia e conseguire un risarcimento là dove è difficile individuare il confine tra provvedimento legittimo e provvedimento assunto con omissione o senza la necessaria e dovuta diligenza.

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C&P • GIUSTIZIA

Procedure espropriative • Marcello Damiata e Giuseppe Lentini

Garantire le ragioni dei creditori Lunghezza e farraginosità sono i principali problemi delle procedure giudiziarie nel sistema italiano.

Un esempio lampante è quello sulle procedure espropriative.

A parlarne gli avvocati Marcello Damiata e Giuseppe Lentini

Da sinistra, gli avvocati Giuseppe Lentini e Marcello Damiata, soci titolari che esercitano la professione forense a Palermo dal 1981 m.damiata@katamail.com

di Belinda Pagano

e ci si sofferma sulla recente attualità, pare obbligo focalizzare l’attenzione su una problematica attinente al settore delle esecuzioni immobiliari per alcuni interventi legislativi di riforma che rischiano di produrre rilevanti effetti sulle procedure espropriative. L’avvocato Marcello Damiata e l’avvocato Giuseppe Lentini, soci titolari dell’omonimo studio palermitano, sottolineano come questo sia uno dei settori della giustizia civile con maggior sovraccarico di pendenze e durata spesso ultraventennale. «L’esproprio è uno dei rimedi principali offerti dal nostro sistema per garantire le ragioni dei creditori, spesso ottenute a seguito di processi lunghi ed estenuanti» esordisce Damiata. «La recente L.69/2009 ha introdotto infatti gli art.2668 bis e 2668 ter modificando così la disciplina dell’efficacia della trascrizione della domanda giudiziale nonché dei sequestri e dei pignoramenti che, secondo tali disposizioni normative, perdono efficacia trascorso un ventennio in caso di mancato tempestivo rinnovo».

Ma quali sono in realtà gli effetti della fissazione di una limitazione temporale? «Il legislatore» risponde Lentini «nulla ha disposto in ordine agli effetti che tale limitazione produce sulle procedure esecutive, disponendo soltanto, in via transitoria, che i pignoramenti trascritti venti anni prima della entrata in vigore della legge, o ancor prima, conserveranno i loro effetti se rinnovati entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore.Tale termine è scaduto nel luglio del 2010, provocando pertanto la perdita di efficacia di tutti quei pignoramenti trascritti da oltre un ventennio, pur con procedura esecutiva in corso, ma non

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rinnovati. La stretta connessione che lega la trascrizione del pignoramento con la procedura, potrebbe avere, e in alcuni tribunali già sta avendo, l’effetto di portare direttamente all’estinzione le procedure legate a un pignoramento divenuto inefficace».

«Come si è detto» sottolinea l’avvocato Damiata «la durata ventennale purtroppo diventa problematica laddove inerisce a procedure che hanno molto spesso durata superiore». Come fare, dunque? «Un’interessante soluzione viene offerta dal Tribunale di Larino che mira a salvare la procedura, pur applicando rigorosamente il limite temporale di efficacia previsto per la trascrizione del pignoramento». L’avvocato Lentini spiega come, «partendo dalla considerazione della ratio legis, nonchè della natura non costitutiva della trascrizione e inoltre dal rilievo della mancata sanzione specifica della improcedibilità del processo esecutivo, tale Giudice dell’Esecuzione ha ritenuto che l’inefficacia colpisca solo la pubblicità e il suo effetto prenotativo, stabilendo che il processo esecutivo potrà ben proseguire verso il suo sbocco naturale, salvi gli effetti di trascrizioni di terzi avvenuti medio tempore, ma salvi anche gli effetti di una nuova trascrizione dello stesso creditore procedente. Il Giudice dovrà pertanto invitare il creditore a rinnovare la trascrizione del pignoramento per poter utilmente proseguire la procedura esecutiva. Il dato che emerge resta dunque quello dell’eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie, poco efficacemente contrastata dagli interventi legislativi, penalizzando i cittadini, gli operatori e le imprese e rendendo l’intero sistema economico italiano niente affatto competitivo».

C&P • GIUSTIZIA

Giurisdizioni speciali • Mario Esposito

Il puzzle delle giurisdizioni L’avvocato Mario Esposito riflette su come le giurisdizioni speciali stiano espandendo la loro area di azione ottenendo sempre di più i caratteri di quella generale.

Tutto questo a scapito del riparto costituzionale di giurisdizione di Nicoletta Bucciarelli

Il professore avvocato Mario Esposito insegna a Lecce ed esercita la professione forense a Roma marioesposito@mac.com

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principi per individuare il giudice al quale rivolgersi, in modo particolare se si vuole intentare una causa contro la pubblica amministrazione, sono regolati dal riparto costituzionale di giurisdizione. Si sta però assistendo ad un degrado del riparto che sta diventando «mera questione di competenza». A parlare è l’avvocato Mario Esposito, esperto del settore. Per scongiurare questo pericolo, spiega l’avvocato, occorrerebbe che la dottrina recuperasse «il suo ruolo e la sua dignità di “giurisprudenza”».

Che cosa sta accadendo a suo avviso alla giurisdizione italiana?

«Assistiamo da qualche tempo ad un fenomeno surrettizio di unificazione della giurisdizione, attraverso la volontaria riduzione dell’ambito di quella ordinaria, che la Costituzione vuole generale, al netto delle eccezioni di quelle speciali (essenzialmente amministrative e contabili) in essa previste, e la non contrastata o inutilmente contrastata espansione dell’area di queste, che vanno così progressivamente ad acquisire carattere generale concorrente».

Quali sono i sintomi di tutto questo?

«In tale direzione sembra andare tanto la giurisprudenza della Cassazione sul giudicato implicito sulla giurisdizione, che sterilizza la portata dell’art. 37 c.p.c., quanto il nuovo codice del processo amministrativo, che ha finito col canonizzarla e, sott’altro non meno rilevante aspetto, la superfetazione della giurisdizione della Corte dei Conti in tema di responsabilità erariale, essa pure assecondata dalla Cassazione».

Lei cosa suggerisce?

«In evenienze simili, e in altre ancora, la dottrina, coniugata o non con l’esercizio dell’avvocatura, dovrebbe recuperare il suo ruolo e la sua dignità di “giurisprudenza”. Questa, come insegnavano gli antichi e ormai inascoltati Maestri, si componeva anzitutto dell’“auctoritas” dei giuristi, specie se dedicati all’insegnamento e alla produzione scientifica e poi della “potestas” dei giudici, valendo anche per loro la primazia della scienza che li forma negli studi, ancorché non assistita da altra forza che quella loro propria».

Quali sono le branche del diritto sulle quali è richiesta la sua esperienza?

«Le questioni che trattiamo sono tante e di vario genere, dal civile al commerciale, dall’appaltistica pubblica e privata al costituzionale e all’amministrativo in ogni sua declinazione, compreso il “regolatorio” con le autorità di garanzia nei settori dell'antitrust, delle comunicazioni e della privacy. In ogni caso, sia che si tratti di questioni di formidabile impatto patrimoniale o di principio e di imprese ai vertici del sistema economico (industriale, finanziario, commerciale, nel mercato dei servizi, dei lavori, delle forniture, e altro ancora) o di controversie, di minor valore ma di pari o maggiore complessità, delicatezza e “sensibilità”, tra persone fisiche o piccoli imprenditori, ritengo che sia di primaria importanza la cura personalizzata di ogni singolo affare e cliente e un rapporto osmotico di arricchimento tra esperienza pratica e riflessione teorica».

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C&P • GIUSTIZIA

Diritto successorio • Claudio Michelon

Eredità e controversie Se nell’asse ereditario sono incluse attività imprenditoriali, le lungaggini giuridiche previste per controversie successorie divengono epocali. Per Claudio Michelon le possibili diatribe vanno individuate preventivamente di Adriana Zuccaro

L’avvocato Claudio Michelon, civilista esperto in diritto di successione, nel suo studio di Padova c.michelon@studiomichelon.com

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esa nota dalla legislazione romana applicata al diritto matrimoniale, la locuzione latina “mors omnia solvit”, ovvero “la morte scioglie tutto”, è stata con il tempo estesa a qualsiasi tipo di contesa giudiziaria e impegno contrattuale. Oggi, però, l’esperienza sul campo degli avvocati civilisti porta ad affermare che «troppo spesso, all’evento “morte” si accompagna l’insorgere di controversie che vedono i successori scontrarsi in epiche tenzoni per spartirsi le spoglie del de cuius». Lo sa bene l’avvocato Claudio Michelon che nel corso della sua esperienza più che trentennale, ha specificatamente affrontato le problematiche connesse alle successioni ereditarie, in particolar modo sotto forma di consulenza preventiva, relativa altresì al sempre più frequente caso di famiglie “parallele” e figli naturali. «È a tutti noto come le diatribe familiari legate ai diritti sull’eredità, siano destinate a stabilizzarsi, per conforme interpretazione giurisprudenziale, solo con l’eventuale “terzo grado”, cioè all’esito della decisione della Cassazione, e come abbiano dunque, durate epocali». Recentemente l’avvocato Claudio Michelon ha visto pronunciare una sentenza di primo grado per una causa ereditaria sorta nel 1984. «Simili lungaggini, che comportano difficoltà inaudite per gli eredi, costretti a permanere in una sorta di limbo per periodi lunghissimi, se costituiscono gravi problemi nel caso in cui i partecipi siano privati, divengono invece esiziali, quando, nell’ambito dell’asse ereditario siano ricompresse un’azienda o partecipazioni in attività imprenditoriali – spiega l’avvocato Michelon –. Non è raro infatti il caso in cui alle “guerre successorie” si associ la distruzione dell’azienda stessa».

Di qui la richiesta sempre più pressante di intervenire prima che l’evento “morte” si verifichi, soprattutto in presenza di imprese condotte da una sola persona che assomma in sé tutte le funzioni direttive e decisionali: fenomeno tipico, in particolare, nel Nord-Est, territorio in cui opera lo studio dell’avvocato Michelon, caratterizzato da un tessuto economico di Piccole e Medie Imprese. «Nel corso degli ultimi anni il nostro legislatore ha colto la sussistenza di tali problematiche e ha iniziato a dare corso a interventi legislativi che sia pure suscettibili di integrazioni e, probabilmente, della creazione di un quadro complessivo più chiaro e organico, hanno introdotto istituti in un certo senso impensabili nell’ambito dei tradizionali principi del diritto ereditario – asserisce Michelon –. Citiamo ad esempio il cosiddetto “patto di famiglia”, introdotto dalla legge 55 del 14 febbraio 2006 che, modificando l’articolo 458 del codice civile, ha recepito le esigenze del contesto economico e sociale per agevolare l’eventuale necessità di ricambio generazionale nell’azienda raccolta dagli eredi».

L’avvocato Michelon, sta dunque portando avanti il disegno di sensibilizzare privati o imprenditori sulla necessità di «prevenire possibili controversie successorie attraverso lo studio di strumenti che non possono avere forme standardizzate, ma devono essere “cuciti addosso” al cliente».

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Diritto di famiglia • Mario Marzorati

Se un genitore nega il suo ruolo all’altro Separazioni e figli contesi.

La situazione si complica se subentra la pretesa di trasferirsi altrove, costringendo i minori a un’ingiusta lontananza dal padre. Mario Marzorati fa luce su un fenomeno in crescita di Paola Maruzzi

Mario Marzorati (in piedi) e Andrea Marzorati, all’interno del loro studio di Milano studio@marzorati.org

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he siano sposate o di fatto, molte coppie – specie se di nazionalità diversa – vanno incontro alla rottura, portandosi dietro drammi personali, acuiti dalla presenza di figli minori. La situazione si complica se, oltre alle ferite della rottura del nucleo familiare, si aggiunge la distanza geografica. È frequente, infatti, che uno dei genitori chieda di trasferirsi in un'altra città, o talvolta persino all’estero, “pretendendo” di portare con sé i figli. Si innesca così un meccanismo vizioso, che rischia di vedere la figura paterna irrimediabilmente lontana. Infatti, nella maggior parte dei casi è la madre ad avanzare la proposta. L’avvocato matrimonialista Mario Marzorati fa chiarezza sulla situazione.

Di fronte a una richiesta di trasferimento, qual è la prima reazione che si scatena?

«Un comprensibile senso di sgomento. Si ha la sensazione che, con tale istanza, il genitore voglia togliere all’altro la possibilità di continuare a svolgere il proprio ruolo e le proprie funzioni. Devo constatare che il fenomeno è in aumento e, spesso, vede le madri come protagoniste».

Cosa spinge una madre a chiedere di trasferirsi insieme al figlio? Il padre può opporsi a tale decisione?

«I motivi possono essere di diversa natura e giuridicamente rilevanti, tanto da giustificare il trasferimento. A volte però sono legati alla mera convinzione che continuare a vivere nello stesso posto, che magari ha fatto da cornice alla brusca fine di un rapporto, possa simbolicamente ostacolare un nuovo inizio. È proprio in tal senso che l’opposizione del padre diventa maggiormente efficace, perché risulta evidente che la decisione di cambiare “sede” di vita non tiene in considerazione le esigenze dei minori, che hanno bisogno di stabilità e di entrambe le figure genitoriali».

Come può il Tribunale accertare se il trasferimento del figlio è legittimo o meno?

«Esistono molti fattori che, interagendo tra di loro, possono condurre a risultati diversi. È pertanto sempre necessario valutare le singole e peculiari specificità di ogni caso. Va premesso che il soggetto che deve essere posto al centro dell’indagine è sempre e comunque il minore. Risulta dunque indispensabile che venga disposta dal Tribunale una consulenza tecnica d’ufficio esperita da uno psicologo, al fine di valutare la corrispondenza della domanda di trasferimento all’effettivo e superiore interesse della prole, perizia che sarà poi valutata con prudente apprezzamento da parte del giudice, unitamente agli scritti difensivi dei legali. Un trasferi-

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C&P • GIUSTIZIA

Diritto di famiglia • Mario Marzorati

Con il trasferimento, c’è il rischio che la madre possa togliere al padre la possibilità di continuare a svolgere il proprio ruolo nei confronti del figlio C&P • GIUSTIZIA

mento va certamente evitato quando è di per sé causa di un trauma e pregiudizio per il bambino, in quanto idoneo a impedire di fatto il mantenimento di un significativo rapporto con il padre. Ciò viene ulteriormente amplificato quando con il trasferimento si ha anche uno sradicamento dall’ambiente in cui il minore ha sempre vissuto».

I dati Istat e Eurispes dimostrano che i matrimoni misti hanno maggiori probabilità di andare in crisi rispetto a quelli tra connazionali. Perché la tutela dei minori è più complessa nel caso coinvolga genitori con nazionalità diverse?

«La dissoluzione del rapporto di coppia coinvolge anche persone che hanno nazionalità diversa. A volte è proprio tale diversità che diviene motivo di contrasto e scontro.

Quando poi il conflitto diviene insanabile e il rapporto è ormai irrimediabilmente deteriorato, la separazione appare l’unica soluzione. In questi casi, tuttavia, la domanda fatta dalla madre è, generalmente, quella di trasferirsi con il minore non in un’altra città bensì nel paese estero d’origine. Si deve notare che i diritti della persona in tema di matrimonio, separazione, divorzio e filiazione sono diversamente regolati dai vari ordinamenti giuridici mondiali e non tutti i paesi hanno sottoscritto convenzioni internazionali. A volte vengono individuati elementi di connessione con il paese straniero e vengono così incardinati procedimenti in entrambi i paesi. È evidente che la materia diventa sempre più complessa, oltre che specialistica, potendo essere, ad esempio, sollevate eccezioni sulla giurisdizione, sulla legge applicabile, sul riconoscimento e l’esecuzione dei provvedimenti.

Dunque per affrontare tali casi è necessario che l’avvocato sia anche esperto in diritto internazionale».

Altra problematica è quella della sottrazione internazionale di minori. Avvocato Marzorati, esistono tuttavia degli strumenti giuridici che tutelano il genitore “vittima” della sottrazione?

«In tema di sottrazione internazionale di minori e di illecito trasferimento esistono validi strumenti. Valida tutela viene conferita, a titolo meramente esemplificativo, dalla Convenzione dell’Aja del 1980 e dal regolamento Ce n.

2201/2003. È necessario, tuttavia, verificare che esistano i presupposti per l’applicazione. Non è detto, infatti, che sussistano i motivi che possono giustificare l’emissione dell’ordine di rimpatrio. Certamente bisogna agire tempestivamente, perché situazioni che giuridicamente potrebbero trovare positiva soluzione, se non prese per tempo, di fatto tendono a cristallizzarsi».

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Real estate • Antonio Belvedere

A tutela del valore dell’immobile Il real estate, settore giuridico concernente l’acquisto, la gestione e la tutela dei beni immobili, è strettamente legato al diritto amministrativo. Antonio Belvedere spiega il valore aggiunto della “doppia” competenza legale di Adriana Zuccaro

L’avvocato Antonio Belvedere esercita la professione forense a Milano dove è titolare dell’omonimo studio associato www.studiolegalebelvedere.com

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ell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano il real estate, termine di derivazione anglosassone, non ha un riscontro preciso ma «tende ad abbracciare tutti i rapporti civilistici che riguardano l’acquisto, la gestione, la valorizzazione e la tutela dei beni immobili». L’avvocato Antonio Belvedere, dell’omonimo studio legale associato di Milano, con trentennale esperienza nel diritto amministrativo e nel real estate, spiega la compenetrazione tra le due sfere giuridiche e l’importanza di saper affrontare entrambe le materie per offrire agli assistiti un servizio più completo. Difatti, oltre a tutti gli aspetti che gravitano intorno al real estate, «per valorizzare un immobile e tutelarne il valore è necessario al contempo affrontare e gestire anche i rapporti con la pubblica amministrazione».

In quali ambiti si può apprezzare questo connubio tra real estate e diritto amministrativo?

«Nel settore immobiliare sono ormai tantissimi gli argomenti che hanno subito questa reciproca “contaminazione”. Si pensi a categorie tradizionali come la proprietà, l’illecito, l’invalidità del negozio giuridico e dell’atto amministrativo, il procedimento, la teoria dell’organizzazione dei soggetti pubblici e privati, la responsabilità. Di conseguenza, uno studio legale che comprenda i meccanismi di entrambe le sfere giuridiche è fortemente agevolato nel seguirne le continue evoluzioni e nel padroneggiarne i meccanismi».

Può fare qualche esempio?

«Si può pensare a come è cambiato il diritto di proprietà con l’introduzione della cosiddetta perequazione urbanistica, ormai ampiamente applicata nelle più importanti regioni italiane.

Oggi la proprietà fondiaria può esprimere nuovi valori economici, i cosiddetti diritti edificatori, che possono essere anche commercializzati e trasferiti in altre parti del territorio comunale. La perequazione amplia così le facoltà di soggetti pubblici e privati. Da una parte, infatti, i Comuni possono acquisire le aree per i servizi pubblici senza dover ricorrere ai costosi meccanismi espropriativi. Dall’altra parte, inoltre, i proprietari, possono pianificare una nuova gamma di operazioni immobiliari aventi a oggetto, appunto, i predetti diritti edificatori».

A fronte dei nuovi piani di governo del territorio che molti comuni lombardi stanno approvando, qual è il ruolo dei privati?

«Il piano di governo del territorio è uno strumento molto in-

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Real estate • Antonio Belvedere

Non basta verificare il reddito che può derivare da un investimento immobiliare, ma è opportuno che siano esaminate anche le possibilità di trasformazione dell’immobile

novativo, che stravolge la precedente impostazione urbanistica. Non è facile comprendere le nuove potenzialità di questo strumento e i tentennamenti delle amministrazioni locali sono quindi comprensibili. In tale contesto, i privati hanno un’importante possibilità di coadiuvare il Comune nel processo di nuova pianificazione territoriale con diversi strumenti, dai contributi preliminari alle osservazioni vere e proprie. Ecco perché un monitoraggio tempestivo del procedimento di approvazione dei PGT e l’attivazione di tali strumenti può consentire di aggiornare l’assetto urbanistico dei propri immobili ma anche di aprire nuove potenzialità ancora inesplorate».

Cosa può offrire l’assistenza dell’avvocato esperto in urbanistica ma anche di real estate?

«L’avvocato che si occupa solo di diritto amministrativo può assistere il cliente nella redazione di osservazioni al PGT, chiedendo maggiore volumetria o diverse destinazioni, ma spesso, non avendo il polso delle negoziazioni commerciali, non è in grado di adeguare l’assetto urbanistico dell’immobile alle reali esigenze del mercato. Ecco perché l’avvocato che tratta anche il real estate può orientare le modifiche del regime urbanistico degli immobili seguendo le logiche del mercato e assicurando al cliente le migliori prospettive di guadagno».

Anche nelle contrattazioni fra privati le competenze di diritto amministrativo sono essenziali?

«Certamente. Gli adempimenti amministrativi legati agli immobili danno vita ormai a veri e propri “fascicoli del fabbricato”, che portano con sé innumerevoli aspetti da tenere in considerazione, dal rendimento energetico in edilizia, alla conformità degli impianti, fino alla gestione della sicurezza, C&P • GIUSTIZIA

dell’igiene e dell’ambiente. Sarà sempre più necessario procedere ad approfondite due diligence che affrontino tutti questi aspetti, oltre che i tradizionali profili proprietari e ipotecari. Il mercato, inoltre, richiederà che tali due diligence siano svolte molto più rapidamente e a costi inferiori rispetto al passato. Uno studio legale in grado di seguire tutti questi aspetti può senz’altro agevolare il cliente per acquisti sicuri e a costi ridotti».

Nella fase di due diligence vengono anche esaminati profili di convenienza dell’investimento?

«In un certo senso sì. Un soggetto interessato a un investimento immobiliare, non deve limitarsi a verificare il reddito che può derivare dall’investimento stesso, ma è opportuno che esamini anche le possibilità di trasformazione dell’immobile al momento in cui dovesse rendersi libero per cessazione del contratto di locazione. È chiaro che, a parità di condizioni locative e di reddito, tra due immobili si dovrà preferire quello che presenta le maggiori potenzialità edilizie e urbanistiche, nell’ottica della sua futura ed eventuale trasformazione».

La “doppia” competenza legale assicura anche un risparmio di costi al cliente?

«Certamente, e sotto diversi aspetti: si ipotizzi, ad esempio, che lo studio legale abbia una conoscenza già acquisita della gestione patrimoniale del cliente perché lo ha seguito nello svolgimento di una due diligence; in tal caso, se allo stesso studio legale possono essere affidati anche gli incarichi legati all’acquisizione di nuovi permessi o autorizzazioni, si potrà risparmiare moltissimo tempo in termini di studio e analisi della pratica, visto che questa è già ben conosciuta».

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Comunione e condominio • Renato Damiano e Felicita Guariglia

L’inconciliabilità delle liti condominiali La nuova mediaconciliazione obbligatoria è incompatibile con le norme in materia di condominio, anche alla luce della recente sentenza della Cassazione che ha ridimensionato il ruolo dell’amministratore condominiale. Gli avvocati Renato Damiano e Felicita Guariglia spiegano l’urgenza di una riforma che armonizzi i due istituti di Adriana Zuccaro

Gli avvocati Renato Damiano e Felicita Guariglia esercitano nella città di Napoli con patrocinio in diritto civile e amministrativo www.studiolegaledamiano.it avv.renatodamiano@libero.it

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l nuovo istituto della “mediaconciliazione” ed il recente orientamento della Cassazione sui poteri dell’amministratore condominiale rischiano di generare un grave squilibrio nell’ambito delle controversie condominiali che, come noto, rappresentano la principale fonte di contenzioso civile. L’avvocato Renato Damiano, civilista, esperto in comunione e condominio, proprietà e locazioni, mediaconciliatore ed esperto in diritto delle comunicazioni radiotelevisive, unitamente all’avvocato Felicita Guariglia, spiega gli effetti della mediaconciliazione obbligatoria applicata alle controversie condominiali. «La recente sentenza n.

18331/10 delle Sezioni Unite della Cassazione ha interpretato restrittivamente l’articolo 1131 del codice civile, ed ha attribuito all’amministratore condominiale un mero potere di rappresentanza nelle materie che esulano dalle sue attribuzioni, rimettendo quindi ogni potere decisionale all’assemblea. Nella pratica, l’orientamento delle S.U. provoca un pericoloso squilibrio nei giudizi in cui è parte un condominio, per il quale quasi ogni lite dovrà quindi essere preventivamente autorizzata dall’assemblea. Si consideri che le delibere relative ai giudizi dovranno comunque essere approvate con la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, e che i condòmini presenti in assemblea dovranno essere ancora di più, non potendosi tener conto dei contrari, degli astenuti, dei dissenzienti e di chi non può partecipare al voto: ciò rende di frequente impossibile deliberare per mancanza delle mag-

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Comunione e condominio • Renato Damiano e Felicita Guariglia

La mediaconciliazione in materia condominiale non sortirà altro effetto se non quello di prolungare i tempi dei giudizi

gioranze necessarie». L’avvocato Guariglia, civilista, esperta in diritti reali e condominiali, precisa che «se è vero che l’amministratore può prima far costituire in giudizio il condominio e poi far ratificare il proprio operato dall’assemblea, è altrettanto vero che la mancata ratifica esporrebbe l’amministratore a sostenere in proprio tutte le spese della causa, rendendo per lui “imprudente” attivarsi per la difesa del condominio, senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea».

Allo stato vi è, quindi, il rischio della paralisi delle gestioni condominiali, soprattutto allorché una parte del giudizio sia un condominio di grandi dimensioni o un supercondominio, per i quali è difficile raggiungere alte percentuali di presenti alle assemblee. L’avvocato Damiano denuncia allarmanti previsioni.

«La situazione non potrà che aggravarsi allorché interverrà l’obbligatorietà della mediaconciliazione in materia condominiale, a cui dovrà partecipare l’amministratore, soggetto privo della titolarità e della disponibilità dei diritti oggetto della conciliazione. Viene, quindi, da domandarsi come possa essere gestito un tentativo di conciliazione da parte di un amministratore condominale, visto che le S.U. ne hanno lasciato intatta la rappresentanza, ma lo hanno privato di ogni potere in merito alla gestione delle controversie. L’amministratore non potrà che riservarsi di sottoporre all’assemblea ogni singola proposta per l’approvazione, o dovrà assumere una sterile posizione inflessibile, non disponendo di alcun potere per la conciliazione, la quale verrà quindi in ogni caso vanificata».

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A tal proposito l’avvocato Guariglia evidenzia che «l’amministratore non potrà neppure assumere una posizione tempestiva sulla proposta di conciliazione comunicata dal mediatore atteso che, per legge, l’accettazione e il rifiuto di tale proposta devono pervenire al mediatore entro 7 giorni e che, in mancanza di risposta entro tale breve termine, la proposta si ha per rifiutata. Non è stato considerato che, con tale brevissima scadenza, l’amministratore non ha neppure il tempo di convocare i condòmini, dovendo concedere agli stessi il termine di almeno 5 giorni tra convocazione e assemblea». Secondo l’avvocato Damiano «l’assemblea necessiterà comunque di elevate maggioranze per approvare l’adesione alla proposta conciliazione, e ciò con una delibera che, nei trenta giorni successivi, sarà comunque esposta a impugnative da parte dei condomini contrari e assenti. La mediaconciliazione in materia condominiale non sortirà, quindi, altro effetto se non quello di prolungare i tempi dei giudizi, atteso peraltro che la prima udienza non potrà tenersi prima di un anno rispetto all’inizio della controversia, tenuto conto dei quattro mesi per il tentativo di conciliazione, dei tre mesi per i termini a comparire e, probabilmente, dei 46 giorni di sospensione feriale. Risulta, quindi, palese che la normativa in tema di mediaconciliazione è, allo stato, incompatibile con quella condominiale. È, pertanto, urgente una riforma che compatibilizzi i due istituti, alla vigilia della mediaconciliazione obbligatoria che, salvo proroghe, entrerà in vigore dal 20 marzo 2011».

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LE SEZIONI UNITE CIVILI E IL GIUDICATO PENALE NEL GIUDIZIO CIVILE di Armando Rossi Avvocato del Foro di Napoli www.studioavvocatorossi.it

on la sentenza del 26 gennaio 2011 numero 1768, il massimo consesso dei Giudici della Suprema Corte di Cassazione ha sancito il principio secondo cui soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, (“il fatto non sussiste”,“l’imputato non ha commesso il fatto”, “il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima”), emessa a seguito dello svolgimento della fase dibattimentale, ha efficacia di giudicato esterno nel giudizio civile o amministrativo per ottenere le restituzioni, ovvero il ristoro dei danni subiti. Pertanto, alla luce del pregresso indirizzo nomofilattico ne deriva de plano, secondo il plenum degli ermellini, il difetto assoluto di efficacia extrapenale, ovvero pan processuale, alle sentenze di “non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia”, benché il giudice abbia accertato e valutato la fattispecie concreta a seguito, per l’appunto di un’accurata fase dibattimentale.

In queste ultime ipotesi, il giudice fornito della giurisdizione civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti, e nel caso di cui trattasi in sede penale, dovrà riconsiderare l’intera questione sulla base di un’originaria e indipendente attività asseverativa svolta dalla parti in causa. È da escludersi in nuce l’applicazione analogica dell’articolo 652 del codice di procedura penale.

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza del 26 gennaio 2011 numero 1768 hanno chiarito un contrasto giurisprudenziale relativo all’efficacia del giudicato penale, tout court, nel processo civile e amministrativo enucle-

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ando l’orientamento univoco secondo il quale la ratio della valenza extrapenale della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno non può essere analogicamente applicata al di là dei casi tipici contemplati dalla norma succitata trattandosi, infatti, di un’eccezione al principio dell’autonomia “relativa” e della separazione “assoluta” dei giudizi penale e civile. Nella fattispecie concreta, la vicenda oggetto di causa, prende le mosse dal decesso post partum di una donna dal quale scaturì un procedimento penale per omicidio colposo nei confronti del ginecologo e dell’ostetrica che l’avevano assistita durante la fase del travaglio. Il giudice penale, di prime cure, all’esito del procedimento di primo grado pronunciò una sentenza di condanna nei confronti del ginecologo e assolse per insufficienza di prove l’ostetrica. Il giudice penale del gravame condannò, invece, entrambi i professionisti per omicidio colposo sulla base di un loro concorso nella realizzazione del fatto: il medico nella misura del 60% e l’ostetrica nella misura del 40%. Ma vi è di più. Con la statuizione de qua, il giudice d’appello, acclarati i fatti materiali posti a fondamento del reato a essi ascritto e riconoscendo ad entrambi i sanitari le circostanze attenuanti generiche dichiarò per effetto di queste ultime prescritto il reato e nel decidere sulle domande delle parti civili, condannò gli imputati nella loro diversa misura al risarcimento dei danni.

La parola passava quindi alle Sezioni Semplici penali. La VI sezione penale della Corte Suprema, con la sentenza del 1992 numero 5665 confermava parzialmente la sentenza d’appello; infatti, con essa gli ermellini esimevano l’ostetrica dalla conC&P • GIUSTIZIA

Editoriale

Con la sentenza 1768 del 26 gennaio 2011 le Sezioni Unite civili hanno chiarito un contrasto giurisprudenziale relativo all’efficacia del giudicato penale nel processo civile e amministrativo

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danna al risarcimento del danno sulla base della considerazione che nei suoi confronti non era stata pronunciata alcuna sentenza di condanna in primo grado.

Tra gli sviluppi in sede civile, i congiunti della vittima, di fronte ad una decisione di tal guisa e dopo avere transatto la lite con il ginecologo, citavano innanzi al giudice civile l’ostetrica per ottenere il risarcimento del danno. Il Tribunale di Latina nell’accogliere la domanda di risarcimento danni, condannava l’ostetrica nella misura del 40% già statuita dal giudice penale. La Corte d’appello di Roma, invece, ritenendo non vincolante la statuizione del giudice penale condannava la donna nella misura del 10%. La III sezione civile della Corte di Cassazione, davanti alla quale fu depositato il relativo ricorso, sin dalle prime battute processuali sottolineava il contrasto di legittimità avente ad oggetto gli effetti del giudicato penale nel giudizio civile di risarcimento del danno; a tal uopo rimetteva gli atti al Primo Presidente della Suprema Corte per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite. In particolare, nella materia per cui è causa, nel corso degli anni si sono formati due orientamenti contrastanti secondo cui la sentenza del giudice penale: a) di proscioglimento, emessa a seguito di una fase dibattimentale, “ha efficacia vincolante per il giudice civile quanto alla materiale sussistenza dei fatti accertati dal giudice penale”; b) che dichiari il reato estinto per prescrizione non avrebbe alcuna efficacia vincolante nel giudizio civile di risarcimento danni. A dipanare i contrasti di legittimità, pertanto, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte, le quali con la sentenza del 26 gennaio 2011 numero 1768 hanno evidenziato come sia venuta meno con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito penale la cosiddetta pregiudiziale penale; pertanto, le conseguenze logico ineliminabili di tale epurazione sono state il venir meno del “postulato” dell’unitarietà delle giurisdizioni civile e penale e della conseguente prevalenza del giudizio penale sul giudizio civile. Il tutto secondo le Sezioni Unite si è tradotto nel “principio della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi, ad eccezione di determinati tipi formali di pronuncia per ipotesi tassativamente prescritte”. Il nucleo concettuale forte che deriva dalle argomentazioni del massimo consesso, a parere dello scrivente si è trasfuso nel seguente principio di diritto: la disposizione normativa di cui all’articolo 652 del codice di procedura penale costituisce un’eccezione flagrante al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile; come tale essa è insuscettibile di applicazione analogica oltre i casi tassativamente elencati.

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