Sommario
EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .13 Angelino Alfano Gabriele Fava Victor Uckmar LAVORO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26
Salvatore Trifirò Franco Toffoletto Maurizio Sacconi Pietro Ichino IL MODELLO FIAT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .36
Sergio Marchionne CRONACA GIUDIZIARIA . . . . . . . . . . . . . . . . . .42
Raffaele Guariniello DEFICIT PUBBLICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .46
Renato Brunetta ANTITRUST . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .48
Antonio Catricalà SERVIZI PUBBLICI LOCALI . . . . . . . . . . . . . . .52
Giulio Napolitano FONDI PUBBLICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .54
Ugo Ruffolo BANDA LARGA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .58
Corrado Calabrò DIRITTI D’AUTORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .62
Giorgio Assumma RIFORMA FORENSE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .66
EMERGENZA CARCERI . . . . . . . . . . . . . . . . . .94
Maria Elisabetta Alberti Casellati GUARDIA DI FINANZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . .98
Guido Zelano, Maurizio Tolone Ignazio Gibilaro, Attilio Iodice MALPRACTICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .106
Giuliano Pompa Enrico Caroli RAPPORTO MEDICO PAZIENTE . . . . . . . . . .110
Simona Pollarolo DOTTRINA PENALISTICA . . . . . . . . . . . . . . .112
Carlo Federico Grosso DIRITTO FALLIMENTARE . . . . . . . . . . . . . . .114
Grazia Volo Maurizio De Tilla
Giovanni Borgna
LA PAROLA AGLI ORDINI . . . . . . . . . . . . . . . .72
Gianni Nunziante Piero Venturini Luigi Vita Samory Luigi Arturo Bianchi
Paolo Giuggioli TRA POLICA E GIUSTIZIA . . . . . . . . . . . . . . . .74
Nicolò Ghedini IL FASCINO DELL’AVVOCATURA . . . . . . . . . .78
Gaetano Pecorella I GRANDI PROCESSI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .84
Giocchino Sbacchi IL RUOLO DEL PENALISTA . . . . . . . . . . . . . . .88
Franco Coppi
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LEGALITÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .92
Alfredo Mantovano
M&A . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .118
FINANZA STRUTTURATA . . . . . . . . . . . . . . .128
Francesco Gianni QUOTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .134
Stefano Bianchi Enrico Giordano, Ferigo Foscari PROPRIETÀ INDUSTRIALE . . . . . . . . . . . . . .138
Giorgio Mondini
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Sommario
DINAMICHE D’IMPRESA . . . . . . . . . . . . . . . .142
PATTI PREVENTIVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .180
Ivan Pera La responsabilità penale degli enti
Anna D’Agostino
DIRITTO BANCARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .150
Francesco Innocenti EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .152
Francesca Maria Alberti ENTI NO-PROFIT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .154
Laura Lunetta RECUPERO CREDITI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .156
TUTELA DELLA LEGALITÀ . . . . . . . . . . . . . .184
Giampaolo Maria Cogo EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .186
Marcello Vecchio PROCEDURE CONCILIATIVE . . . . . . . . . . . . .188
Massimo Vita DONNE E AVVOCATURA . . . . . . . . . . . . . . . .190
Alessandra Di Fronzo
Cesare Bruzzone IL MOBBING . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .158
Alessandra Zabotto DIRITTO INTERNAZIONALE E COMUNITARIO . . .160
Simone Lazzarini DIRITTO DELL'AMBIENTE . . . . . . . . . . . . . . .162
Claudia Pasqualini Salsa DIRITTO DI FAMIGLIA . . . . . . . . . . . . . . . . . .164
Annamaria Bernardini De Pace Cesare Rimini VIOLENZE DOMESTICHE . . . . . . . . . . . . . . . .170
Gian Ettore Gassani Vincenzo Mastronardi L’AFFIDO CONDIVISO . . . . . . . . . . . . . . . . . . .176
Virginio Manfredi Frattarelli Marianna De Cinque
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Editoriale
GIUSTIZIA DALLA GIUSTIZIA di Maria Elena Golfarelli
processi più controversi del 2010. Le grandi storture del sistema giudiziario italiano. La lotta tenace dello Stato alla criminalità. La cronaca puntuale dei processi penali più significativi degli ultimi anni. La nuova epoca delle vaste e improrogabili riforme della giustizia che il Paese e il Governo dovranno affrontare. Le grandi problematiche del vecchio Statuto dei lavoratori e della sua riforma. I conflitti giuridici nel mondo del lavoro. Questo numero di Giustizia è dedicato ai migliori professionisti del diritto, a quegli avvocati che si sono distinti in un anno così difficile come quello che sta per concludersi. Interviste esclusive, approfondimenti sul panorama legale, analisi curate da autorevoli firme giornalistiche, esperti del diritto e giuristi di chiara fama. Negli ultimi anni, i difficili scenari economici internazionali e del nostro Paese hanno imposto nuove ristrutturazioni e pianificazioni, soluzioni aziendali sempre più responsabili e concrete, immediate e spesso severe. In questa realtà in divenire Giustizia vuole porre l’accento, in primo, sulla cultura della legalità e l’operato delle forze armate contro una criminalità nuova e sempre più agguerrita. Poi, sulla cultura e gestione d’impresa perché la giustizia sta anche nel lavoro quotidiano di chi crea ricchezza e occupazione. Nessuna impresa può crescere e tutelarsi senza il prezioso supporto di quelle professionalità - dall’avvocato all’advisor - in grado di accompagnare e sostenere l’imprenditore nella sua attività quotidiana. La rivista dà ampio risalto ai giuslavoristi. Il cui supporto è indispensabile per qualsiasi
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azienda, media, piccola o grande. L’attenzione e la capacità di questi professionisti garantisce la crescita dell’impresa nella sua interezza. È uno dei fattori per i quali riteniamo che la sinergia consulente-imprenditore sia oggi essenziale per la vita stessa dell’azienda. Centrale l’intervista al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, sul nuovo Statuto dei lavoratori e il ritratto della nuova Fiat di Sergio Marchionne. Le vaste problematiche delle relazioni industriali, con ricadute in campo giudiziale, stragiudiziale, sindacale e previdenziale sono trattati da giuslavoristi di valenza nazionale. In questo numero i protagonisti della giustizia fanno proposte concrete e suggeriscono soluzioni perché il nuovo possa avanzare. Contemporaneamente vengono responsabilizzate le istituzioni, perché lo strumento della politica possa dare veste giuridica al nuovo che avanza. Uomini e donne di legge per i quali la giustizia rappresenta un valore imprescindibile per la vita democratica. Un Paese che voglia dirsi giusto non può fare a meno di regole certe entro le quali promuovere il proprio sviluppo economico. Giustizia è la voce chiara e forte di chi si sta mettendo in gioco per un sistema giudiziario migliore e più giusto che garantisca i diritti di tutti i cittadini contro chi invece intende ridurlo a mero strumento di potere e di lotta politica. Prendiamo come punto di riferimento e facciamo nostre le parole del presidente del Consiglio quando dice: “è un compito a cui non possiamo sottrarci, convinti come siamo che la difesa della libertà sia la missione più alta e più nobile a cui possiamo essere chiamati”. 13
Editoriale
I SUCCESSI DELLO STATO di Angelino Alfano Ministro della Giustizia
el contrasto alla criminalità di stampo mafioso, il governo Berlusconi ha varato nei primi venti mesi il più efficace e rilevante pacchetto di norme antimafia dai tempi successivi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La legge n. 94 del 15 luglio 2009, il cd. Pacchetto Sicurezza, contiene importanti provvedimenti in materia di misure di prevenzione antimafia, di sequestro e confisca. Questa legge introduce due nuove figure di reato volte ad arricchire la punibilità delle condotte rilevanti nel sostegno illecito delle associazioni mafiose, tra cui spicca il nuovo articolo 391-bis del codice penale che punisce l’attività di chiunque consente a un detenuto sottoposto a particolari restrizioni di comunicare con altri. Ma soprattutto la legge 94 del 2009 fornisce alle forze dell’ordine e alla magistratura strumenti di straordinaria efficacia nell’azione di recupero dei beni frutto delle attività criminali delle associazioni mafiose, ampliando l’ambito di applicazione delle misure di prevenzione. Si prevede che le misure di sicurezza patrimoniali possano essere applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto: il principio è che si deve colpire il bene in quanto pericoloso in sé. In tema di sequestro e confisca, si è proceduto al rafforzamento delle ipotesi della cosiddetta “confisca estesa”, per fare in modo che - disperso il denaro o i beni illecitamente acquisiti - il giudice possa ordinare la confisca per un valore equivalente, incidendo sul
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patrimonio posseduto dal reo anche per interposta persona. Sono, inoltre, disciplinate finalmente in modo chiaro le modalità di esecuzione dei sequestri preventivi ed è istituito l’albo nazionale degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati che garantirà una specifica professionalità nelle gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata in grado - dunque - di produrre economie legali, assicurando il mantenimento dei posti di lavoro. Le forze di Polizia saranno dotate dei beni mobili registrati sequestrati che potranno essere loro affidati per lo svolgimento dei compiti di istituto. Queste modifiche legislative stanno già producendo risultati straordinari, mai conseguiti in passato, dei quali le forze dell’Ordine e la magistratura sono i primi testimoni. Il 28 gennaio scorso, poi, è stato presentato, nel Consiglio dei ministri tenutosi a Reggio Calabria, il nuovo piano antimafia che prevede, tra l’altro, l’adozione di un testo unico delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione; la costituzione di un’agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali; nonché interventi in materia di certificazione antimafia, di tracciabilità dei flussi finanziari per prevenire le infiltrazioni criminali nel settore degli appalti pubblici che torneranno utili anche in questa sede ove è già vigile l’attenzione delle istituzioni per intercettare tempestivamente ogni tentativo di infiltrazione della criminalità organizzata nell’ambito dei lavori per la ricostruzione. 15
Editoriale
UNNUOVOSISTEMA DI RELAZIONI INDUSTRIALI di Gabriele Fava Giuslavorista e docente universitario
li anni Duemila hanno rappresentato un periodo immportante e a tratti travagliato per le relazioni industriali nel nostro Paese. Le grandi realizzazioni degli anni Novanta, il protocollo del luglio 1993 e la contrattualizzazione del lavoro pubblico, sono state al centro di un ampio dibattito, che ne ha evidenziato, oltre agli aspetti innovativi, alcuni limiti significativi, alimentando richieste di riforma. Il decennio si è chiuso con l’introduzione di correttivi rilevanti all’impianto delle relazioni industriali fondato negli anni Novanta. Infine, la crisi economica ha contribuito a modificare in modo sostanziale il quadro e le prospettive delle relazioni sindacali e negoziali rendendo impellente la necessità di una riforma. Il sistema di relazioni industriali vigente nel nostro Paese è, infatti, una delle cause della bassa produttività, della scarsezza di investimenti stranieri e della riluttanza agli investimenti nel Mezzogiorno. A ciò è da aggiungere che attualmente ogni singolo lavoratore può aderire a qualsiasi sciopero, anche se proclamato contro un contratto di cui beneficia e anche se indetto da un comitato che rappresenta lo 0,1% del personale interessato. Inoltre, se il contratto aziendale contiene una deroga al contratto nazionale, è alta la probabilità che un giudice del lavoro la disapplichi. Si avverte, pertanto, oggi la necessità, al fine di recuperare competitività a livello internazionale, che le relazioni industriali non si basino più sul conflitto tra operai e padroni, così come non è più possibile tollerare che la volontà di pochi di scioperare possa bloccare la produzione e impedire agli altri colleghi di lavorare contro l’interesse dell’azienda e dello stesso Paese. Il modello di relazioni industriali degli anni 70, della conflittualità permanente, delle contrapposizioni rigide e degli
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strascichi giudiziari, che ha affossato la produttività del nostro Paese, è ormai superato ed è pertanto necessario costruire nuovi modelli di relazioni industriali per poter reggere il confronto con la competizione internazionale sempre più agguerrita. Il problema della pace sindacale è, infatti, il vero punto dolente per gli imprenditori, in quanto il contratto aziendale, nella prassi ormai consolidata della contrattazione continua, turba il processo produttivo con costanti scioperi, anche in vigenza del contratto nazionale. Nello scontro sia la direzione d’impresa sia le organizzazioni dei lavoratori si rivelano sempre drammaticamente incapaci di sviluppare strategie efficaci e di lungo periodo. La prima è infatti preoccupata esclusivamente di ripristinare il proprio comando esclusivo sulla produzione, minacciato dai comportamenti conflittuali degli operai, mentre le seconde sono prigioniere di concezioni ideologiche e massimalistiche del conflitto che si sviluppa nella fabbrica e costantemente alla ricerca di un ruolo non solo sindacale ma anche politico o istituzionale. È pertanto necessario costruire un nuovo sistema di relazioni industriali in cui un sindacato maggioritario possa contrattare in azienda un piano industriale innovativo, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti, come avviene in tutti gli altri paesi occidentali. Al fine di recuperare competitività a livello internazionale e attrarre gli investimenti stranieri in Italia bisogna trovare un compromesso tra le ragioni del mercato e la condizione e i diritti dei lavoratori, un obiettivo perseguibile solo attraverso un contratto nazionale più largo e generale e un secondo livello di contrattazione effettivamente più diffuso che consentano di passare dai circa quattrocento contratti attuali a qualche decina di contratti nazionali. 17
Editoriale
LA FINE DELLE OFF-SHORE? residenti in Italia, dal 1990, a seguito della liberalizzazione delle operazioni finanziarie all’estero imposta dal Trattato dell’Unione europea (sino allora erano consentite solo quelle autorizzate dal ministero del Commercio Estero), hanno la libertà di effettuare investimenti in qualsiasi parte del mondo (compresi i c.d. paradisi fiscali), ma debbono osservare le regole fiscali e le norme antiriciclaggio, ormai generalizzate quanto meno in tutta l’Europa, e nei paesi appartenenti all’Ocse. In particolare, per quanto riguarda le regole fiscali, le persone fisiche sono obbligate a indicare nella dichiarazione annuale, nel quadro RW le attività possedute all’estero, nonché i flussi che quindi concorrono alla formazione dell’imponibile agli effetti della imposta personale (con attenuazione per effetto del credito di imposta ovvero delle eventuali convenzioni contro le doppie imposizioni) con gravi sanzioni in caso di omissione. Per quanto riguarda l’antiriciclaggio, le operazioni sono sottoponibili a verifica di competenza della Banca d’Italia, con particolare attenzione alle operazioni in e out quando superino il valore di euro 12.500. Nel dopoguerra si verificarono notevoli trasferimenti monetari dall’Italia verso l’estero (specialmente in Svizzera) determinati dall’incertezza sulla evoluzione politica (timore del consumismo), e poi ancora per l’inasprimento delle imposte sul reddito e sulle successioni, in parte anche di somme che avevano già scontato le imposte in Italia. Il Governo nel 2002 emanò un provvedimento-condono per indurre al rientro in Italia, poi ripetuto (lo scudo fiscale) nel 2009 contemporaneo a un vasto movimento internazionale per riportare in patria le attività collocate all’estero. Numerose erano le multinazionali, specie statunitensi, che avevano sede in paradisi fiscali per sfuggire alla tassazione dei loro redditi: la spinta fu sollecitata anche per il reperimento di conti “riservati” in Svizzera e nel Liechtenstein. Tale movimento era stato promosso dall’Oecd (Organization for economic cooperation and development), che nel 1998 aveva approvato la direttiva contro l’harmful tax competition (cioè la concorrenza fiscale illecita) e in parallelo operò l’Unione europea (sospinta dal commissario Mario Monti) che prevedeva fra l’altro lo smantellamento dei c.d. paradisi fiscali dove operano le off-shore inizialmente individuate in Paesi o territori (come il Cantone di Zugo) in tassazione inferiore a quella normale, specialmente se accordata ai soli operatori stranieri. La lista iniziale era di oltre un centinaio di Paesi, ma poi ridotta a 47 di solito di limitate dimensioni territoriali, ma assai attivi nel facilitare l’evasione e il riciclaggio di moneta “sporca” e cioè derivante da attività illecita; erano inoltre caratterizzati dal segreto bancario,
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di Victor Uckmar Emerito nella Università di Genova
dalla mancanza di trasparenza per la costituzione e la gestione di società, dall’assenza di pubblicità anche dei bilanci, da azioni al portatore, dal rifiuto di fornire informazioni e così via. E vi era sempre la connivenza dei governi locali, interessati alla tutela dei capitali e dei redditi facenti capo alle suddette società spesso contrassegnate da una “targa”, ma senza operatività. In un’inchiesta svolta, per incarico della Comunione europea, da parte della Bocconi e della Università di Trento, denunciammo l’illusione di ottenere collaborazione dai Governi, e suggerimmo un provvedimento, a livello internazionale, per un embargo nei confronti di banche, istituzioni finanziarie e professionisti habituè in tali Paesi (tuttora spesso pubblicizzati da Economist), ma non se ne fece nulla. Purtroppo, dopo l’iniziale presa di posizione, l’Oecd ha rallentato la morsa e ha limitato la black list solo a pochi Stati (ridotti a quattro e cioè Liechtenstein, Principato di Monaco, Liberia e Marshall Island) e cioè a quelli che non consentivano lo scambio di informazioni. Con gli altri come San Marino, Monaco e addirittura Liechtenstein, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno stipulato convenzioni per lo scambio di informazioni e, per vero, senza una precisa indicazione di contenuto (generalmente con la conservazione del segreto bancario); anche le recenti integrazioni dell’articolo 26, Modello Oecd, sono di scarso contenuto. L’Italia è stata uno dei pochi Stati che non hanno stipulato convenzioni di tal genere e rimangono ancora nella black list un centinaio di Stati e territori indicati nel Dm 4 maggio 1999, nell’elenco a partire da Alderney fino a Samoa e in mezzo la famosa Saint Lucia; un ministro di questa per vero, a leggere i giornali (mi sembra poco credibile conoscendo costumi e usanze dei paradisi fiscali) avrebbe svelato il beneficial owner di due società offshore aventi sede nell’isola stessa con investimenti a Montecarlo. L’utilizzo dei paradisi fiscali porta gravi conseguenze, come l’inversione della prova a carico del contribuente: nel caso di trasferimento dagli Stati si deve dimostrare di aver effettivamente installato la nuova residenza (nel senso ampio e cioè centro degli interessi non solo economici, ma anche affettivi); e il disconoscimento dei costi per acquisizione di beni o servizi di imprese o professionisti residenti in paesi black list e ancora l’assoggettamento al regime delle Cfc (Controlled Foreign Companies). Di certo ci sarà più attenzione per evitare di cadere nella “trappola”, ma temo che sia ben difficile scoprire le nefandezze di operatori che mirano a tenere occulte più che le evasioni fiscali, i movimenti derivanti dal commercio di droga, di armi e di corruzione. 19
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Un nuovo assetto per i contratti collettivi L’Italia dibatte sull’evoluzione dei contratti di lavoro, sempre più orientati verso una gestione “aziendale” anziché nazionale. Ma tra conflittualità e crisi produttiva, la farraginosità, congenita, dei rapporti di lavoro italiani non è più sostenibile. Parlano gli esperti di LabLaw, Luca Failla, Francesco Rotondi e Nicola Petracca di Andrea Moscariello
i è aperta la strada alla deroga, “controllata” a livello locale, del contratto collettivo nazionale. E con il caso di Fiat e Pomigliano D’Arco si è andato a creare «un importante precedente per le imprese italiane e per l’intero sistema delle relazioni industriali». Ma c’è di più nell’analisi che gli avvocati Luca Failla, Francesco Rotondi e Nicola Petracca propongono su uno degli episodi più significativi della storia contemporanea del lavoro italiano. Gli esperti di LabLaw, tra le più note firme legali italiane rivolte all’ambito del giuslavoro e dei rapporti industriali, osservano gli effetti che la riforma degli assetti contrattuali comporta sul panorama nazionale. Effetti che vanno a inserirsi in un contesto economico drammatico. Ed ecco che Pomigliano si trasforma in un grandissimo casus belli, capace di evidenziare i difetti congeniti del dialogo tra le parti sociali italiane, le cui “liturgie” pare non rispondano adeguatamente all’evolversi del quadro economico e di mercato. «In questi due anni la crisi economica ha sottoposto le aziende a pressioni organizzative di grande rilevanza, oltre che a sollecitazioni decisionali e strategiche senza precedenti in termini di costi, riorganizzazione, protezione degli investimenti e del capitale intellettuale» spiega Luca Failla. «Allo stesso tempo - aggiunge Nicola Petracca -
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Sotto, da sinistra, gli avvocati Francesco Rotondi e Luca Failla, soci fondatori dello studio LabLaw, con sedi a Milano e Roma, specializzati in diritto del lavoro - www.lablaw.com
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è divenuta prioritaria la necessità di trovare strumenti idonei a favorire la ripresa, in un’ottica di rafforzamento della competitività nazionale e internazionale e, quindi, di rilancio della produzione e dell’occupazione». Strumenti che comprendono ovviamente anche quelli contrattuali. Secondo Francesco Rotondi, «l’accordo Fiat di Pomigliano del 15 giugno 2010 e il successivo referendum del 22 giugno 2010, costituiscono il primo esempio di attuazione degli spazi che l’accordo quadro del 22 gennaio 2009, sulla riforma degli assetti contrattuali ha concesso alle parti sociali, soprattutto a livello di contrattazione aziendale». Un accordo che, come è noto, non è stato sottoscritto dalla Cgil suscitando non poche polemiche. Nello specifico perché l’accordo quadro del gennaio 2009 è così rilevante? Luca Failla: «In quanto precisa il fatto che, per consentire l’ottenimento di specifiche intese atte a governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi, possono essere raggiunti specifici accordi a livello locale. Così come è avvenuto a Pomigliano. Intese che potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria». C&P • GIUSTIZIA
Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, ha puntato il dito contro Confindustria e Federmeccanica, colpevoli, a detta del sindacalista, di alimentare il conflitto. Francesco Rotondi: «Sì, ma il conflitto fa parte della storia del diritto sindacale ed è qualcosa che accompagna da sempre i periodi di passaggio come quello che stiamo vivendo in Italia e nel mondo. Già con l’accordo del luglio 1993 si era voluto fissare un sistema organico di regole che guidasse la contrattazione decentrata. L’accordo quadro del 2009 costituisce ora, a parere di molti, lo strumento per assicurare al sistema economico italiano un’effettiva possibilità di ripresa. Ripresa che nei fatti appare ancora lontana». Dunque voi lo osservate positivamente? L.F.: «Pur con la consapevolezza di quanto sia delicata la negoziazione o il mancato accordo su questioni cruciali, non può che apprezzarsi il tentativo di prospettare un diverso modello di relazioni industriali, indirizzato, si spera, verso la ripresa dell’economia, il rilancio della produzione e lo sviluppo occupazionale. Inoltre, guardando proprio al settore metalmeccanico, non bisogna dimenticare che già nel 2003 si era determinata una prima frattura con la Fiom-Cgil. Infatti quest’ultima non aveva accettato il nuovo contratto collettivo, sot21
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DALL’ITALIA AL MONDO abLaw è una realtà nata nel 2006. Specializzata in diritto del lavoro e relazioni industriali si è ormai consolidata sul panorama italiano e internazionale. «Affianchiamo le imprese con un prodotto assolutamente custom made, senza ricorrere a una standardizzazione, ma ricercando sempre il miglior risultato per ogni specifica situazione» afferma Luca Failla. Nella strategia del gruppo vi è una grossa attenzione al territorio, tant’è che a luglio 2009 ha aperto i nuovi uffici anche a Roma, dove oggi opera un team di dieci professionisti sotto la guida di Nicola Petracca, Managing Partner della sede capitolina. E non sono escluse ulteriori ipotesi di sviluppo sul territorio. In linea con questa strategia, LabLaw ha allargato le proprie strategie di crescita mediante l’ingresso di esperti provenienti da prestigiose realtà sia italiane che internazionali. Nel 2009 è entrato a far parte dello studio l’avvocato Piergiovanni Mandruzzato, proveniente, con il suo team, da Allen & Owery. Inoltre, nell’aprile di quest’anno il team romano è stato incrementato dall’arrivo degli avvocati Nicolò Schittone,
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Filippo Zazzera e Carla Zarlatti, provenienti dallo Studio Legale Vesci di Roma. «Ci siamo integrati con professionisti motivati, che hanno voglia di condividere il nostro progetto di sviluppo, rafforzando i settori di intervento dello studio, fra cui certamente l’attività di knowledge management demandata al nostro Centro Studi e Formazione interno» spiega Failla. Ma l’interesse di questa law firm abbraccia anche il settore internazionale. Su questo versante LabLaw ha consolidato importanti relazioni professionali con alcuni dei più affermati studi legali stranieri, in Europa come in America e in Asia. Realtà specializzate in materia lavoristica con cui la struttura condivide l’approccio di una consulenza e un’assistenza specialistiche globali in favore delle aziende, sia italiane che multinazionali. «Il nostro obiettivo, da sempre, è quello di assistere al meglio le imprese nella gestione e soluzione delle problematiche giuslavoristiche sia in Italia che all’estero - conclude Francesco Rotondi -. Questa è la strada che abbiamo intrapreso e che vogliamo continuare a percorrere».
toscritto all’epoca da Federmeccanica, Assistal, Fim–Cisl e Uilm–Uil. Frattura poi parzialmente ricomposta grazie alla dichiarazione delle parti stipulanti di voler riconoscere i diritti in esso previsti anche ai sindacati stipulanti l’accordo sulle RSU del 2 febbraio 1994, tra cui appunto anche la Fiom– Cgil. Questa situazione, tuttavia, aveva rappresentato un primo esempio di spaccatura nel nuovo sistema di relazioni industriali delineato dall’accordo del 1993, ponendo già un problema di rappresentatività in ordine all’applicabilità di alcuni istituti previsti dal nuovo contratto collettivo». Quale posizione potrebbe assumere la giurisprudenza italiana per definire in maniera più esaustiva il rapporto tra industria, lavoratori e associazioni di categoria? Nicola Petracca: «La giurisprudenza del lavoro non può certo prendere posizione sul rapporto tra i diversi attori. Compito dei giudici è quello di dirimere il conflitto tra le parti attraverso l’interpretazione delle norme. Certamente anche l’interpretazione dei contratti collettivi potrà essere sottoposta al loro esame, secondo i principi che governano l’interpretazione della volontà delle parti e in base alle regole processuali che sono previste dal nostro ordinamento giuridico in materia.Tuttavia, i giudici del lavoro potrebbero essere chiamati a pronunciarsi sull’efficacia degli accordi dato che la C&P • GIUSTIZIA
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Nelle immagini, manifestazioni sindacali di oggi e di ieri; nella pagina accanto, in basso, Nicola Petracca, partner della sede romana di LabLaw
Il conflitto fa parte della storia del diritto sindacale ed è qualcosa che accompagna da sempre i periodi di passaggio come quello che stiamo vivendo C&P • GIUSTIZIA
vicenda impatta sicuramente su diversi ambiti, primo e non ultimo, l’influenza e l’efficacia che un accordo separato potrà avere sulla rappresentatività e sulla regolamentazione e gestione del rapporto di lavoro dei lavoratori coinvolti». La vostra categoria si ritrova nel mezzo, dovendo rappresentare gli attori economici chiamati in causa. Quali strumenti richiedete al legislatore per poter risolvere le controversie in maniera più rapida e costruttiva? F.R.: «La situazione generata dalla crisi economica ha complicato il tutto. La necessità di fronteggiare con strumenti contrattuali adeguati situazioni di rilevanza globale richiede, a detta di molti e certamente delle aziende, un sistema di relazioni industriali più flessibile e idoneo a rispondere alle sollecitazioni del mercato. Da qui l’accordo quadro del 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali e l’Accordo interconfederale del 15 aprile 2009. In questo contesto assume fondamentale importanza il rispetto dei ruoli dell’azienda, delle associazioni di categoria e dei lavoratori coinvolti». E come deve comportarsi l’avvocato del lavoro? L.F.: «Soprattutto se opera in favore dell’azienda, non può certo supplire a una funzione che compete necessariamente all’impresa. Dovrà però assisterla in un momento di passaggio 23
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In questo contesto assume fondamentale importanza il rispetto dei ruoli dell’azienda, delle associazioni di categoria e dei lavoratori coinvolti importante e delicato. Oggi la figura dell’avvocato giuslavorista è di grande supporto ed è cambiata radicalmente rispetto all’inizio della professione, anche solo rispetto a dieci anni fa. Noi, come avvocati di azienda, siamo sempre più chiamati a supportare e affiancare le imprese per affrontare al meglio le problematiche di tutti giorni, anticipando i problemi e, ove possibile, la loro soluzione, anche su importanti e delicate questioni di ordine collettivo o sindacale». Al recente convegno nazionale di Confindustria, Emma Marcegaglia ha posto l’accento su come la Germania vanti un 60% di contratti aziendali, non nazionali. Una differenza significativa rispetto al panorama italiano. Il modello tedesco potrebbe essere un esempio, un traino, per il futuro dei rapporti contrattuali delle grandi aziende nostrane? F.R.: «Non è possibile fare un paragone su ordinamenti giuridici che sono affini ma sicuramente molto diversi, anche se traggono ispirazioni comuni dall'appartenenza all’Unione Europea. La situazione economica della Germania, poi, non è eguagliabile alla nostra, avendo vissuto in un passato relativamente recente il “trauma” della riunificazione con importanti ripercussioni sul versante economico, avendo inoltre un ordinamento sindacale differente da quello italiano. Resta il fatto che l’accordo decentrato, il cosiddetto contratto aziendale o territoriale, è stato probabilmente interpretato come lo strumento migliore per assicurare risultati di medio e lungo periodo. Sostenendo le imprese nel quadro dei particolarismi regionali che in Germania sono ancora oggi molto marcati. Da questo punto di vista si tratta di un esempio che assume una certa rilevanza. Nella nostra esperienza possiamo dire che, in molti casi, le aziende che hanno concluso accordi aziendali hanno potuto così risolvere importanti tematiche e questioni che non avrebbero potuto mai trovare una soluzione a livello 24
nazionale». In Italia il ruolo del diritto sindacale ha subito più evoluzioni o involuzioni? F.R.: «Il compito del diritto sindacale in sé non è cambiato negli ultimi anni. È cambiato invece il ruolo del sindacato. Da questo punto di vista si può parlare di un’evoluzione, e non potrebbe essere altrimenti. Il mondo globalizzato richiede, oltre alle tradizionali capacità manageriali e decisionali, anche una più marcata attitudine a gestire, con flessibilità e grande celerità, le relazioni industriali, possibilmente senza fratture, nel dialogo con le aziende. Sempre nel rispetto dei diritti riconosciuti alle parti. Il compito del sindacato dovrebbe essere quello di assicurare, anche nel nuovo contesto economico, che il lavoro e le persone che lo svolgono costituiscano in senso effettivo quel valore che la carta costituzionale pone a fondamento del nostro ordinamento giuridico». Parlando invece di Collegato Lavoro, le Camere si apprestano a discutere nuovamente il Ddl. E puntualmente si sono risollevate le polemiche legate all’arbitrato e alla certificazione del ruolo del giudice del lavoro, punti ritenuti da molti ancora poco chiariti e delineati nelle loro competenze. N.P.: «Gli obiettivi del Collegato Lavoro, ora definitivamente approvato, sono certamente condivisibili, trattandosi di un provvedimento che mira a ridurre il contenzioso in essere mediante l’introduzione di strumenti alternativi al giudizio ordinario. L’arbitrato in sé, quindi, non è uno strumento negativo, a patto però di assicurare il rispetto del diritto di difesa alle parti attraverso l’assistenza di avvocati specializzati in materia. Con queste premesse, l’obiettivo di deflazione del contenzioso è sicuramente meritevole. Tuttavia sarà poi la pratica quotidiana che darà gli spunti per poter dire con maggiore concretezza se la riforma sarà o meno effettivamente positiva». C&P • GIUSTIZIA
Lavoro • Salvatore Trifirò
Una riforma necessaria Semplificare il più possibile l’impianto normativo, adeguando il nostro mercato del lavoro alle regole dell’Europa. Puntando sulla flessibilità. Le priorità indicate dall’avvocato Salvatore Trifirò per risollevare le sorti dell’occupazione di Francesca Druidi
Sotto, il giuslavorista Salvatore Trifirò
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on si arresta la crescita del tasso di disoccupazione. Ad agosto, secondo i dati dell’Istat, ha raggiunto l’8,2%. A incidere, per Salvatore Trifirò, è stata innanzitutto la grave crisi economica globale, che ha colpito a prescindere dalle pregresse situazioni di ciascuno Stato. Ma non è la sola ragione. «Nel caso del nostro Paese la crisi ha contribuito a evidenziare il problema, già esistente, rappresentato dall’esigenza di coniugare la flessibilità, di cui le imprese hanno necessità, con un adeguato livello di sicurezza-protezione per i lavoratori». L’attuale sistema in vigore soddisfa solo in parte tali esigenze e la congiuntura negativa mondiale ne ha quindi evidenziato, ancor di più, i limiti. Il sistema di ammortizzatori sociali nel nostro Paese ha difeso durante la crisi, e continua a difendere, alcune categorie di lavoratori. Un sistema dal quale sono però escluse altre tipologie di lavoratori. Come arginare il divario? «Con la crisi si è accentuato il divario tra operai, impiegati, quadri, da una parte, e i dirigenti e i cosiddetti “precari” dall’altra. I primi, infatti, godono di maggiori garanzie anche grazie alla tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ed è a tali categorie che si rivolgono, per lo più, gli ammortizzatori sociali. I secondi, invece, non dispongono di tutele e dunque le aziende, per contenere i costi, tagliano proprio su di loro.Va da sé che un sistema fondato su un tale divario, sempre più crescente, rischia il collasso anche perché le aziende per tornare a essere competitive
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C&P • GIUSTIZIA
Salvatore Trifirò • Lavoro
hanno bisogno dell’esperienza dei manager così come dell’entusiasmo e della vitalità dei giovani». Cosa servirebbe? «Occorrerebbe una riforma non solo degli ammortizzatori sociali, che dovrebbero essere concessi con criteri molto più selettivi e premianti per le sole aziende virtuose, con l’esclusione delle aziende in stato di crisi cronico, ma ancor prima dell’articolo 18. Il vincolo della “stabilità reale” ostacola la mobilità del lavoro nell’ambito dell’azienda, facendo sì che il datore di lavoro sia spinto a stipulare contratti a tempo determinato. Al contrario, liberando le aziende dalla rigidità della reintegrazione nel posto di lavoro, si disincentiverebbe la parte datoriale dal ricercare la flessibilità a mezzo di contratti a termine e contratto a progetto e si eliminerebbe, anche concettualmente, il “lavoro precario” con effetti politici-sociali e psicologici di grande impatto. Inoltre le aziende, in un’ottica di riduzione dei costi, avendo minori restrizioni, potrebbero fare scelte più ponderate e mirate, anziché vedersi costrette a sacrificare, come spesso accade oggi, anche bravi e validi manager, i soli a essere licenziabili senza il rischio della reintegrazione. Con ciò non si vuol dire che la tutela dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori debba venir meno del tutto». Come andrebbe modificato a suo avviso? «La tutela andrebbe limitata al solo caso di nullità del licenziamento per violazione della forma, come ad esempio la mancata contestazione nell’ambito di un licenziamento disciplinare, perché palesemente ritorsivo: si pensi alla lavoratrice che venga licenziata dopo aver rifiutato le avance del C&P • GIUSTIZIA
proprio superiore. In tutti gli altri casi, bisognerebbe prevedere la possibilità per il datore di lavoro di corrispondere al prestatore di lavoro un’indennità in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, tanto più pesante quanto più illegittimo è il licenziamento». Il governo si appresta ad avviare la riforme del lavoro. Quali a suo avviso le principali linee da seguire? «A quanto già detto poc’anzi, aggiungo che occorrerebbe rifondare il diritto del lavoro abbandonando la cultura del rapporto di lavoro subordinato quale unica forma garantista e lasciare spazio al lavoro autonomo anche nell’ambito dell’impresa. Ciò che fa la differenza non è il posto fisso, ma le prospettive di crescita e di arricchimento professionale e non. Se un’azienda funziona e continua a crescere, perché mai un lavoratore dovrebbe guardarsi attorno? E perché mai l’azienda dovrebbe privarsi di un valido collaboratore? Insomma, la perdita del posto fisso intimorisce proprio quei lavoratori che concepiscono il posto di lavoro non come un punto di partenza, ma come un approdo e che, una volta assicuratisi l’assunzione a tempo indeterminato, si adagiano in attesa di maturare il diritto alle pensione. Ma chi sa di valere non teme nulla, avendo come unica preoccupazione quella di riuscire a dare sempre il meglio di sé». La legge sul’arbitrato contenuta nel collegato al lavoro è al centro di accese polemiche. Come questo strumento è destinato a cambiare il quadro occupazionale? «Alla luce della mia lunga esperienza sul campo, sono un convinto assertore del fatto che per deflazionare il contenzioso la sola strada da intraprendere sia quella di comporre i conflitti e non di esasperarli. Andare in tribunale, considerando i tempi lunghi della giustizia, è in qualche modo una sconfitta. È meglio mettersi d’accordo prima, giungendo a una conciliazione equa, che contemperi gli opposti interessi delle parti. Il ricorso all’arbitrato potrebbe essere, dunque, una soluzione. Nutro, tuttavia, grandi perplessità in merito alle novità che il collegato lavoro si propone di introdurre». Quali? «Allo stato attuale, sono previste molteplici forme di arbitrato, che potrebbero disorientare e così disincentivare a ricorrervi, ottenendo l’effetto opposto. Ciò che preoccupa maggiormente è, da un lato, la possibilità di comporre la lite “secondo equità”, che non è tale senza il rispetto delle leggi, e dall’altro lato, la mancata individuazione della figura degli arbitri. Il Collegato lavoro sul punto tace e, anzi, nel suo silenzio sembra aprire la strada anche a chi non sia operatore del diritto. Con grave pregiudizio per i diritti di tutti. Non è, infatti, pensabile far amministrare la giustizia in una materia così delicata a chi sia privo di studi e di esperienza adeguati». L’allungamento dell’età pensionabile inciderà in 27
Lavoro • Salvatore Trifirò
Occorrerebbe rifondare il diritto del lavoro abbandonando la cultura del rapporto di lavoro subordinato quale unica forma garantista e lasciare spazio al lavoro autonomo anche nell’ambito dell’impresa 28
qualche modo? «Ritengo di sì, se l’allungamento dell’età pensionabile non si accompagnerà anche alla possibilità di adibire ad altre mansioni un lavoratore nella stessa azienda in maniera più elastica di quanto non si sia fatto nel passato, indubbiamente si creerà una barriera per i più giovani. Tuttavia, nel quadro di una politica complessiva che dia ampio respiro alla ricerca, allo sviluppo, a nuovi job, si potrebbero attenuare gli effetti provocati dall’allungamento dell’età pensionabile. In ogni caso, il nodo della questione resta quello della flessibilità. Quanto più ci sarà circolarità del lavoro tanto più ci sarà possibilità di occupazione». Si possono azzardare previsioni sul futuro andamento del mercato del lavoro? «È difficile fare previsioni in questo momento. C’è grande incertezza sotto il profilo normativo. Negli ultimi anni si sono susseguiti troppi provvedimenti che hanno creato una grande confusione, introducendo spesso istituti del tutto inutili e subito abbandonati. L’obiettivo che, invece, dovrebbe proporsi il legislatore è semplificare il più possibile l’impianto normativo, adeguando il nostro mercato del lavoro alle regole dell’Europa e realizzando le riforme strutturali di cui necessita da anni». Basandole su quali fondamenta da un punto di vista normativo? «Si dovrebbe, in primo luogo, ridurre la pressione fiscale e contributiva al fine di incentivare la competitività delle imprese e il recupero del potere d’acquisto dei salari. In secondo luogo, prevedere incentivi per le piccole o medie imprese virtuose, evitando che la crisi economica abbia effetti sull’occupazione, poiché ciò comporterebbe un’ulteriore ripercussione sui consumi con conseguente aggravamento della situazione. È fondamentale combattere l’evasione fiscale, intensificare le liberalizzazioni e infine aumentare i salari. Il lavoro è il bene più prezioso che abbiamo: genera ricchezza per noi e per il nostro Paese. Per questo deve essere ben retribuito con oneri fiscali sopportabili e ci deve permettere di crescere e progredire sotto il profilo professionale ed economico, guardando soprattutto all’impresa del futuro che molto verosimilmente sarà un’impresa virtuale. Ed è in questa direzione che il mercato del lavoro dovrà andare». Come si può arginare la piaga del lavoro nero che colpisce in maggioranza gli immigrati? «L’unico modo è quello di abbattere i costi del lavoro. In Italia c’è un’eccessiva pressione fiscale che spinge le aziende, specialmente quelle di piccole dimensioni con meno risorse a disposizione, a non mettere in regola i lavoratori. In molti suggeriscono un inasprimento delle sanzioni, ma ciò potrebbe non bastare finché non si riformerà l’attuale sistema fiscale. Ci sono tanti imprenditori che preferiscono rischiare, sperando magari in un condono, piuttosto che regolarizzare sin da subito i propri dipendenti, esponendosi a tutti gli oneri che ciò comporta». C&P • GIUSTIZIA
Lavoro
QUANTO INCIDE IL COLLEGATO AL LAVORO? di Franco Toffoletto Senior partner dello studio Toffoletto e Soci
opo innumerevoli passaggi tra Camera e Senato, è in approvazione il Collegato al lavoro che introduce una serie di nuove norme, peraltro di scarsa efficacia e di minima concreta rilevanza. Un provvedimento di limitato rilievo pratico. Le novità più significative sono l’abolizione del tentativo obbligatorio di conciliazione quale condizione di procedibilità per l’avvio del contenzioso in materia di lavoro e l’introduzione di un termine di decadenza di 270 giorni dall’impugnazione del licenziamento (o del recesso dai contratti a progetto) per poter instaurare il giudizio. Lo stesso trova applicazione nel caso di comunicazione di trasferimento e di azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro. Ulteriore novità è la previsione secondo cui in caso di conversione dei contratti a tempo determinato il giudice potrà condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno stabilendo un’indennità compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mesi della retribuzione. Per il resto, nel Collegato vengono disciplinate diverse modalità di risoluzione delle controversie mediante sistemi di conciliazione e di arbitrato ma che, in concreto, si dubita troveranno una diffusa applicazione. Il provvedimento introduce anche la possibilità, a certe condizioni, di pattuire clausole arbitrali nei contratti di la-
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voro. Gli arbitrati non sono una novità nell’ambito dei rapporti di lavoro. Si pensi all’arbitrato previsto dal contratto collettivo dei dirigenti, in relazione al quale - da oltre vent’anni - non vi è alcuna applicazione concreta. L’arbitrato, infatti, da un lato comporta dei costi significativi, che talvolta il valore stesso della controversia non giustifica, e dall’altro in quanto irrituale, cioè non secondo diritto ma secondo equità - , si conclude con un lodo che non é una decisione, ma un contratto che ha dei limiti sull’eventuale impugnazione. Come per il collegio arbitrale dei dirigenti, dunque, anche il ricorso al collegio arbitrale di nuova introduzione non avrà grande fortuna, e anche se il lavoratore vi facesse ricorso, il datore di lavoro, assai probabilmente, ne declinerà la competenza in favore dell’autorità giudiziaria. Quanto alle altre procedure di conciliazione previste, non può che evidenziarsi come tale sistema non abbia mai funzionato. Se i legali che assistono le parti non riescono a trovare un accordo transattivo per evitare di instaurare un giudizio, non si vede perché dovrebbe riuscirci una commissione che tendenzialmente non ha elementi di valutazione e non è, per definizione, preparata sul caso di specie. Sarebbe stato molto più saggio prevedere, come da anni viene purtroppo inutilmente proposto, di rendere non impugnabili, ai sensi dell’articolo 2113 del codice civile, le transazioni sottoscritte dai legali di parte. Come si fa in Inghilterra. Ma forse è troppo semplice... C&P • GIUSTIZIA
Lavoro • Maurizio Sacconi
Il nuovo statuto dei lavori L’accordo Fiat per Pomigliano e il Piano triennale per il lavoro hanno trasformato l’estate appena trascorsa in una stagione calda sul fronte delle relazioni industriali. «Una svolta come per la scala mobile», sottolinea il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Maurizio Sacconi, che traccia le linee guida del Piano di Francesca Druidi
iviamo in un momento storico caratterizzato dall’incertezza e dalla discontinuità. I processi di globalizzazione e il deflagrare della crisi economica internazionale stanno sollecitando un incessante aggiustamento, nonché aggiornamento, delle categorie interpretative della realtà e dei modelli di funzionamento economico, così come delle relazioni sociali e, non ultimo, industriali. Le nuove sfide competitive a livello mondiale richiedono il definitivo completamento di questo percorso. Approvato il 30 luglio scorso dal Consiglio dei ministri, il Piano triennale per il lavoro elaborato dal ministro Maurizio Sacconi, è stato inviato alle parti sociali con l’obiettivo di costituire la base per un confronto. Confronto che servirà a formulare ipotesi condivise di riforma del settore, mirando alla ripresa e a «produrre lavori di qualità», non dimenticando mai l’obiettivo primario della stabilità della finanza pubblica. Il ministero ha sviluppato il Piano triennale del lavoro. Quali le sue premesse? «Il Piano triennale per il lavoro, come l’Agenda bioetica presentata con i colleghi Fazio e Roccella e tutta l’attività di governo, si ispira a quella che io chiamo “antropologia positiva” che vuol dire innanzitutto avere fiducia nella per-
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sona e nelle sue proiezioni relazionali, dalla famiglia alle imprese ai corpi intermedi, e nella sua attitudine a potenziare l’autonoma capacità dell’altro. L’esatto opposto di quell’antropologia negativa basata sul presupposto hobbesiano dell’homo homini lupus e, quindi, sulla malfidenza verso la persona e la sua attitudine verso gli altri. Quel presupposto sul quale è stato costruito il Leviatano, lo Stato pesante e invasivo che conosciamo e che vogliamo cambiare». Quali scelte implica l’antropologia positiva di cui parla? «La prima è quella relativa alla promozione del valore, anche economico, della vita dal concepimento alla morte naturale. Il riconoscimento, anche empirico, della ricchezza e dell’unicità della persona consente di individuarne l’attitudine alla socialità. E ciò conduce ad assegnare alla famiglia e a tutti i corpi intermedi il giusto rilievo per la coesione della società. Ciò comporta la realizzazione diffusa della pratica del principio di sussidiarietà secondo il quale lo Stato, le amministrazioni pubbliche centrali e locali, operano per sollecitare il libero gioco delle aggregazioni sociali. E ancor più nelle nuove condizioni prodotte dalla crisi, la crescita deve essere sostenuta non tanto dalla leva della spesa pubblica quanto dalla vitalità delle persone, C&P • GIUSTIZIA
Maurizio Sacconi • Lavoro
Una delle linee del Piano è l’occupabilità attraverso lo sviluppo delle competenze richieste dal mercato del lavoro, con particolare attenzione ai giovani e alle donne
Sotto, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Maurizio Sacconi
C&P • GIUSTIZIA
delle famiglie, delle imprese, e delle loro forme associative. Si tratta, insomma, di stimolare una sorta di rivoluzione nella tradizione quale risultato di comportamenti istituzionali, politici e sociali coerenti con la visione di “meno Stato, più società”. È comunque la collaborazione tra governo e popolo, tra istituzioni e corpi intermedi, la fonte fondamentale dello sviluppo economico e civile del Paese». Tutto questo come si traduce nel Piano triennale? Che cosa vuol dire “liberare il lavoro per liberare i lavori”? «Liberare il lavoro significa esattamente liberare i lavori. Vale a dire, incoraggiare nelle imprese l’attitudine ad assumere e a produrre lavori di qualità. A cogliere ogni opportunità di crescita, ancorché incerta. A realizzare, attraverso il metodo della sussidiarietà orizzontale e verticale, e quindi il flessibile incontro tra le parti sociali nei luoghi più prossimi ai rapporti di lavoro, le condizioni per more jobs, better jobs». Attraverso quali vie? «Fondamentalmente tramite tre grandi linee di azione: l’emersione dell’economia informale e un’efficace azione di contrasto dei lavori totalmente irregolari; la maggiore produttività del lavoro attraverso l’adattamento reciproco delle esigenze di lavoratori e imprese nella contrattazione 33
Lavoro • Maurizio Sacconi
In alto, lo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco
di prossimità, le forme bilaterali di indirizzo e gestione dei servizi al lavoro, l’incremento delle retribuzioni collegato a risultati e utili dell’impresa; in terzo luogo, l’occupabilità delle persone attraverso lo sviluppo delle competenze richieste dal mercato del lavoro, con particolare attenzione ai giovani e alle donne». In che modo il Piano anticipa e prepara il terreno al nuovo Statuto dei lavori? «Il Piano triennale contiene senz’altro le prime indicazioni, ma l’importante, ai fini del passaggio dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori, è capirne l’idea ispiratrice. Vogliamo far rivivere lo Statuto dei lavoratori nella realtà che cambia. Una parte del nuovo Statuto, attinente ai diritti fondamentali della persona e del lavoro, deve restare ferma come norma inderogabile di legge. Un’altra parte, attraverso la contrattazione collettiva, si adeguerà meglio alle diverse condizioni e situazioni, così da rendere più efficaci quelle tutele. Il vecchio Statuto, che pure quarant’anni fa noi riformisti vivemmo come una grande conquista, è stato costruito per un’Italia che oggi non c’è più e per un’economia fordista, della grande fabbrica e delle produzioni seriali. Oggi i lavori sono “tanti” ed è doveroso proteggere, oltre che i lavoratori dipendenti, anche quelli indipendenti caratterizzati da 34
debolezza socio-economica». Quali strumenti offre il Codice della partecipazione? «Il codice raccoglie la normativa comunitaria e nazionale, i disegni di legge, gli accordi sindacali, le buone pratiche realizzate in materia di partecipazione dei lavoratori ai risultati e agli utili delle imprese. Esso rappresenta peraltro la base di partenza per eventuali sviluppi legislativi e contrattuali relativi al tema». L’accordo di Pomigliano è una svolta storica nelle relazioni industriali italiane o una sorta di ultimatum a senso unico per i lavoratori? «Quell’accordo rappresenta senza dubbio una svolta, come a suo tempo avvenne per la scala mobile. Il referendum di giugno 2010, così come quello per l’accordo di San Valentino del 1985, ha chiesto ai lavoratori di dare il proprio consenso a scelte difficili. Allora si chiedeva se volessero rinunciare, attraverso il congelamento dei punti di scala mobile, a 300 mila lire in più all’anno. E i lavoratori, per fortuna, vi rinunciarono. A Pomigliano si è chiesto loro se fossero disposti ad accettare una riorganizzazione della vita in cambio di un rilancio dello stabilimento. E anche questa volta i lavoratori hanno scelto con lungimiranza». Segna una svolta in quanto potrebbero verificarsi C&P • GIUSTIZIA
Maurizio Sacconi • Lavoro
Oggi i lavori sono “tanti” ed è doveroso proteggere, oltre che i lavoratori dipendenti, anche quelli indipendenti caratterizzati da debolezza socio-economica
accordi simili oppure rimarrà un caso isolato? «Segna una svolta nel metodo più che nei contenuti, che dipendono in larga misura dalle singole realtà aziendali e locali. Ma il caso Pomigliano è innovativo nel metodo e resterà come una pietra miliare nelle relazioni industriali. Perché, con esso, le parti hanno scelto di assumere a baricentro delle loro relazioni il livello aziendale. Più in generale, Pomigliano è un simbolo evidente del “meno Stato, più società”. Un tempo la Fiat investiva nel Mezzogiorno se incoraggiata da incentivi pubblici. Oggi non chiede incentivi allo Stato, ma cerca nella stessa comunità dei lavoratori la convenienza a realizzare l’investimento. Come diceva Marco Biagi, “non c’è incentivo finanziario che possa compensare un disincentivo regolatorio da norme o da contratti”. Solo i lavoratori e le loro organizzazioni possono determinare quella produttività che garantisce il ritorno dell’investimento». Che cosa farete per sostenere la realizzazione dell’investimento? «Con l’accordo, che prevede turni di notte e straordinari, un operaio di terzo livello finirà per percepire mediamente circa 3.200 euro lordi in più l’anno. Ora, proprio grazie alla detassazione del salario di produttività introdotta dal governo, con un’aliquota secca al 10 per cento, finiranno C&P • GIUSTIZIA
quasi tutti nelle tasche dei lavoratori». Lei è autore, insieme a Gianni De Michelis, di Dialogo a Nord Est. Nel libro sostiene, tra l’altro, che un futuro ambizioso “potrà essere costruito solo dai popoli e non dalle elite ciniche e indifferenti”. Quali sono queste oligarchie e che cosa occorre fare per contrastarle? «Si tratta di quegli interessi particolari espressi da tecnocrazie e gruppi di interesse che sono legittimi quando rappresentano in modo trasparente una ragione di parte, ma non lo sono quando hanno la pretesa di imporla come interesse generale, di sostituirsi o di condizionare la volontà popolare. Gruppi contro i quali è oggi indispensabile riaffermare il primato della politica, e con esso della volontà popolare». Il Nordest, terra di contraddizioni. Del cattolicesimo che guarda a sinistra, della forte vocazione imprenditoriale, delle spinte autonomiste. A lungo ha costituito un modello. Lo è ancora? «Il Nordest è innanzitutto collocato in una posizione che lo rende piastra logistica naturale dell’intera Unione europea, nelle due direzioni del possibile sviluppo futuro dell’Europa, quella orientale e quella mediterranea. Un popolo che viene dall’antica tradizione di una straordinaria esperienza politica come quella della Serenissima, che ha rinnovato nel tempo la sua attitudine alle relazioni globali. Ha profonde radici cristiane che lo aiutano all’incontro, perché l’incontro è sempre figlio di una robusta identità. Quindi il Nordest è una terra che può dare molto all’intero Paese e all’intera Europa». In quale direzione deve, dunque, guardare? «Dobbiamo pensare a una nuova stagione di crescita e sviluppo in cui il Nordest si ponga come interlocutore con la Russia a est e con il Nord Africa nel Mediterraneo. Cina, India e Brasile sono, infatti, tre mercati emergenti e il Mediterraneo può diventare il quarto. Quindi, il Nordest non può chiudersi in se stesso. Abbiamo di fronte a noi la possibilità di prendere il treno dei grandi cambiamenti, e qui deve intervenire la politica. Serve un Veneto forte, che corra assieme a una leadership politica altrettanto forte perché non succeda, come negli anni Novanta, che dopo la caduta del muro non siamo stati in grado di recepire i mutamenti. Questa seconda chance non possiamo lasciarcela sfuggire». 35
Il modello Fiat • Sergio Marchionne
Mister Fiat Marchionne è un mistero gaudioso di questo nostro capitalismo che fu sempre ben vestito ma straccione nell’animo (la definizione di “capitalismo straccione” fu coniata da Enrico Cuccia). Ora in lui trova a livello di megamanager l’inventiva finora ritenuta tipica dei nostri piccoli e medi imprenditori. Ma chi è davvero quest’uomo? di Renato Farina
In alto, Marchionne con il presidente Obama durante la visita agli stabilimenti Chrysler
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Sergio Marchionne recentemente è scappata una battuta un po’ urticante. Incalzato dai giornalisti che gli facevano notare come lui guadagnasse, suppergiù, quattrocento volte una tuta blu della Fiat, è sbottato nel peggiore dei modi. «Vorrei vedere quanti farebbero una vita come la mia». Marchionne lavora molto, moltissimo. Intendiamoci, la sua era un’uscita sbagliata. Non si può paragonare il lavoro di fino di Marchionne, che è il più bravo e meticoloso dei manager, ma pur sempre un manager, in cima alla montagna, con il panorama sotto di sé, con il rischio di sfracellarsi, ma vicino alle stelle, con il mestiere duro di chi sta sotto, in catena di montaggio; un’attività che con terminologia sindacale è “usurante” di sicuro e che in una tradizione di pensiero marxiana si sarebbe definito non a torto “alienante”; sempre lo stesso ripetitivo gesto. L’unica cosa che ha invece di ripetitivo e sempre uguale Sergio Marchionne sono i maglioncini, tutti identici, tutti blu scuro, solo diversi per peso e materiale nel quale sono confezionati, altrimenti sarebbero una ben grama divisa. A Torino, c’è sempre stato chi sussurrava che l’Avvocato, uomo su cui si è scritto tutto e di più ma cui nessuno ha mai pensato mancassero ironia e autoironia, ammettesse fra pochi intimi, fra il serio e il faceto: non saprei gestire nemmeno un’edicola. E
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C&P • GIUSTIZIA
Sergio Marchionne • Il modello Fiat
A scommettere su Marchionne è stato Umberto Agnelli, con la lungimiranza che gli era propria infatti Gianni Agnelli era uomo di glamour, di fuori serie portate al massimo, di donne collezionate a centinaia fra le più belle e affascinanti di tutto un secolo. Le sue irriverenze di stile erano studiate intemperanze di un sovrano che sapeva benissimo che l’orologio non si allaccia sul polsino: ma che si divertiva a studiare l’apprezzamento servile di chi lo circondava. Agnelli non ha mai “guidato” la Fiat conoscendone fino all’ultima vite e bullone, come invece Vittorio Valletta da cui l’aveva ereditata. E nemmeno sapeva immaginarne un futuro poliforme, nei rami di business più diversi, come Cesare Romiti. Ma Agnelli non era un manager: era un aristocratico della lamiera e del lamé, l’ultimo principe di questo Paese. Marchionne di aristocratico non ha nulla, a cominciare dal guardaroba. È monomaniacale in modo vezzoso, ma siccome - come ben sanno gli eccentrici - ci si veste sempre per dire qualcosa, il suo maglioncino blu apparentemente malconcio e liso (e sicuramente di cachemire e delle migliori marche) vuole “segnalare” qualcosa. La differenza fra Marchionne e quell’altro mondo, quello dell’Avvocato, fatto di pochette che spuntano fuori dal taschino e di buoni sigari e di Bas Armagnac d’annata e della gioia di vivere che sovrasta il dovere del trabaco. Marchionne si presenta tutto stropicciato e dice: io sono altro. Con più eleganza di quanta non gliene venga a parole, il C&P • GIUSTIZIA
modo in cui si veste è studiato per affermare quella verità cui tiene tanto: io lavoro, lavoro tantissimo. E proprio perché lavoro tantissimo, tantissimo posso pretendere dal resto della mia impresa. Questa è la divisa del nostro tempo. Chi l’avrebbe mai detto, che Marchionne avrebbe scoperchiato la Fiat, fino a toglierla con orgoglioso sprezzo dall’alveo delle imprese variamente sussidiate dallo Stato italiano, per imporla regina delle nostre multinazionali. Chi ci avrebbe scommesso, su questo abruzzese emigrato in Canada a sei anni? Una sola persona, e gliene va reso il merito grande; un merito su cui purtroppo, perché non c’è materiale su cui i ricordi sbiadiscano con la velocità della carta da giornale, troppo spesso sottaciuto. A scommettere su Marchionne è stato Umberto Agnelli, con la lungimiranza che gli era propria. Umberto era il fratello meno glamour, meno chic dell’Avvocato, perseguitato per tutta la vita da pettegolezzi sgradevoli, ma al contrario dell’Avvocato un lavoratore indefesso, più curioso del mondo dell’impresa che di quello delle belle donne e delle macchine sportive. È noto che Umberto pensasse da tempo che la famiglia dovesse uscire dall’automobile: diversificare, assumere un ruolo più finanziario e meno industriale, sul modello di altri grandi casati dell’impresa europea che si erano ritagliati partecipazioni lucrose ma meno monolitica37
Il modello Fiat • Sergio Marchionne
E sempre Umberto insiste per mettere in consiglio d’amministrazione questo Marchionne, di cui nulla si sapeva se non che dirigesse la Société Générale de Surveillance In alto, l’avvocato Gianni Agnelli< nella foto piccola, la città di Toronto
mente legate al destino di un singolo business. Epperò, quando ci fu da salvare la Fiat dopo la morte di Gianni, fu Umberto a trovarsi col cerino fra le mani. E fece con coraggio sabaudo quello che sapeva essere il suo dovere. Ebbe intuizioni geniali. Su tutte, due: assunse Giuseppe Morchio come amministratore delegato, una scelta che avrebbe causato qualche malumore (alla morte di Umberto, Morchio tenterà di fare l’asso pigliatutto: respinto, andrà paciosamente a godersi la pensione) ma che ha dato alla Fiat grandi innovazioni e modelli eccellenti, tutti gli ultimi, che di Morchio portano ancora la firma. E sempre Umberto insiste per mettere in consiglio d’amministrazione questo Marchionne, di cui nulla si sapeva se non che dirigesse la Société Générale de Surveillance (Sgs), un’azienda svizzera leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica e certificazione, di cui l’Exor (la finanziaria della famiglia) era un importante azionista. Per la verità, sull’uomo avevano già messo gli occhi anche altri: per esempio, Marchionne era già stato cooptato nel consiglio d’amministrazione della Serono, la biotech di Ernesto Bertarelli, magnate della farmaceutica noto ai più per la conquista dell’America’s Cup con la “Alinghi”. Il curriculum di Marchionne non era altisonante. Classe 1952, nato a Chieti, si era laureato in legge alla Osgoode Hall 38
Law School di Toronto - una buona università, per carità, ma mica Harvard o Yale -. Aveva poi conseguito un Mba alla University of Windsor del Canada. Aveva cominciato come commercialista, a Deloitte and Touche, una società di revisione, e nel mondo della revisione aveva continuato a crescere professionalmente, in Canada, per poi diventare chief financial officer di alcuni gruppi di medio livello. Poi, il salto alla Sgs e quindi, alla Fiat. I grandi manager di multinazionale vengono da scuole ben precise. I più, nell’area finanziaria, sono cresciuti nella consulenza. Tutti i grandi banchieri italiani della generazione dei coetanei di Marchionne, per dire, vengono da McKinsey. Altri, vengono da quei colossi commerciali che parimenti sono noti per essere grandi “forni” di competenze preziose (nel rapporto col cliente, nella comprensione delle dinamiche delle reti di distribuzione, eccetera). Per esempio il grande conglomerato della Procter and Gamble. Ma che un commercialista salisse tutti i gradini fino a diventare l’amministratore delegato della Fiat, fece alzare qualche sopracciglio. E invece a indovinare che il vecchio Umberto ancora una volta aveva visto giusto, furono i due “saggi” destinati a succedergli, come silenziosi e affettuosi sherpa della grande famiglia: Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’AvC&P • GIUSTIZIA
Sergio Marchionne • Il modello Fiat
In senso orario, Umberto Agnelli, Cesare Romiti e Giulio Tremonti
vocato, e Gianluigi Gabetti, raffinatissimo uomo di finanza internazionale. Gabetti, Marchionne l’ha detto più volte, è il suo “migliore amico”, a dispetto della differenza d’età e di formazione. Grande Stevens e Gabetti hanno trovato in Marchionne il Valletta del terzo millennio, tutor ideale di quel giovane Yaki Elkann che, tanto diverso dall’Avvocato (serio e coscienzioso quanto l’Avvocato era pirotecnico e incapricciato del mondo), si è trovato in qualche modo a condividerne la biografia. La Fiat che Marchionne ha preso in mano, a dispetto dei primi sforzi messi in atto da Morchio, era ancora quell’impresa omnibus in cui tanto grasso colava, qua e là, in una macchina complessa perché messa assieme, in tanti anni, con ambizioni talora confliggenti.Troppi marchi, troppe divisioni, troppe distrazioni dall’auto, troppe sacche di potere piccole e grandi. Marchionne ha fatto quello che fanno i grandi personaggi che di tanto in tanto s’avvicendano sulla scena della storia: ha accentrato. Come Valletta, conosce tutto della sua azienda. E decide quasi tutto, con un numero sterminato di manager che, anche per questioni di dettaglio, riporta direttamente a lui. Uno stile che un amministratore uscito dal cilindro delle banche d’affari forse non avrebbe condiviso, ma con lui, e solo con lui (guai a copiarlo, certe giocate riescono solo a C&P • GIUSTIZIA
Maradona) funziona benissimo. È in questo modo che è riuscito a rendere più fluidi e d efficienti i processi. È in questo modo che si è imposto nel mondo come l’unico vero funambolo dell’automotive in questo scorcio di secolo: tant’è che Obama ha voluto mettergli nelle mani la disastrata Chrysler, sapendo che era l’unico al mondo in grado di rianimarla. La sua Fiat è un’impresa più ambiziosa, aperta al mondo. È un’impresa che ha saputo dire no ai sussidi, l’eterna panacea ai mali dell’auto, per scommettere sulla propria capacità di creare valore. Ed è un’impresa che è pronta a impostare un rapporto nuovo col sindacato, perché non ha più scheletri nell’armadio. Si può dire che Sergio Marchionne, su questo punto, un poco ha oscillato. È passato da posizioni concilianti con un sindacato che forse si illudeva di potere cambiare, la Cgil, a una forte sintonia con quelli, Cisl e Uil, che vogliono una Fiat italiana e forte sui mercati internazionali. A Pomigliano gioca la partita della vita. Che vale oro anche per un’Italia che ha bisogno di scuotersi, di dimostrare che ripensare le relazioni industriali non è solo uno slogan. Tutto questo, grazie a un “commercialista” venuto dal Canada. (E commercialista viene definito con un certo spregio, Tremonti. Dieci, cento, mille commercialisti…) 39
Lavoro • Pietro Ichino
PER LA RIFORMA DEL DIRITTO DEL LAVORO di Pietro Ichino Giuslavorista e senatore Pd
ropongo di promuovere una grande intesa tra lavoratori e imprenditori, nella quale questi ultimi rinunciano al lavoro precario in cambio di un contratto di lavoro a tempo indeterminato reso più flessibile con l’applicazione di una tecnica di protezione della stabilità diversa da quella attuale per i licenziamenti dettati da motivo economico-organizzativo. La cosa può funzionare così: d’ora in poi tutti i nuovi rapporti di lavoro, esclusi soltanto quelli stagionali o puramente occasionali, si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che si apre con un periodo di prova di sei mesi; la contribuzione previdenziale viene rideterminata in misura uguale per tutti i nuovi rapporti, sulla base della media ponderata della contribuzione attuale di subordinati e parasubordinati; una fiscalizzazione del contributo nel primo anno per i giovani, le donne e gli anziani determina la riduzione del costo al livello di un rapporto di lavoro a progetto attuale; la semplificazione degli adempimenti riduce drasticamente i costi di transazione; dopo il periodo di prova, si applica la protezione prevista dall’articolo 18 dello Statuto per il licenziamento disciplinare e contro il licenziamento discriminatorio, per rappresaglia, o comunque per motivo illecito; in caso di licenziamento per motivi economici od organizzativi,
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invece, il lavoratore riceve dall’impresa un congruo indennizzo che cresce con l’anzianità di servizio; viene inoltre attivata un’assicurazione contro la disoccupazione, di livello scandinavo: durata pari al rapporto intercorso con limite massimo di quattro anni, con copertura iniziale del 90% dell’ultima retribuzione, decrescente di anno in anno fino al 60%), condizionata alla disponibilità effettiva del lavoratore per le attività mirate alla riqualificazione professionale e alla rioccupazione; l’assicurazione e i servizi collegati, affidati ad enti bilaterali, sono finanziati interamente a carico delle imprese (con un contributo il cui costo medio è stimato intorno allo 0,5% del monte salari): più rapida è la ricollocazione del lavoratore licenziato, più basso è il costo del sostegno del reddito per l’impresa: donde un forte incentivo economico all’efficienza dei servizi di outplacement; il compito del giudice è limitato a controllare, su eventuale denuncia del lavoratore, che il licenziamento non sia in realtà dettato da motivi illeciti (per esempio: licenziamento squilibrato a danno di persone disabili, donne, lavoratori sindacalizzati, ecc.); il “filtro” dei licenziamenti per motivo economico è costituito invece essenzialmente dal suo costo per l’impresa; costo che la legge o il contratto collettivo stabiliscono in misura tanto più alta quanto maggiore è il livello di stabilità che si vuol garantire. C&P • GIUSTIZIA
Cronaca giudiziaria • Raffaele Guariniello
Thyssenkrupp, l’attesa per la verità Una ferita tuttora aperta, un processo ancora in corso. Il caso Thyssenkrupp continua a rivestire un’importanza non solo mediatica ma anche sul piano giurisprudenziale in attesa di una sentenza che accerti le responsabilità di Nicolò Mulas Marcello a notte del 6 dicembre 2007 nello stabilimento ThyssenKrupp di Torino si verificò un terribile incidente a seguito del quale morirono sette operai e uno rimase ferito. Una vasca di olio bollente prese fuoco e gli operai presenti, nonostante stesse per iniziare la quarta ora di straordinario del loro turno, tentarono di domare le fiamme ma il sistema antincendio era fuori uso e anche gli estintori risultarono vuoti. L’unico sopravvissuto ha potuto successivamente testimoniare le gravi carenze riguardo le norme di sicurezza all’interno dello stabilimento. Un risparmio che finì però per costare la vita a sette persone. Il processo iniziò il 15 gennaio 2009, sul banco degli imputati i sei dirigenti della Thyssen e, per la prima volta, la stessa azienda in qualità di persona giuridica. A oltre un anno e mezzo dalla prima udienza, si è arrivati alla fase finale del dibattimento. Secondo l’accusa dei pm, tra cui Raffaele Guariniello: «L’amministratore delegato del gruppo, Harald Espenhahn, agì con dolo eventuale, ovvero nella consapevolezza e nell’accettazione del rischio». Dopo 68 udienze, il processo Thyssenkrupp si avvia alla fase finale, con la requisitoria. Può stilare un bilancio di questo processo? «È stato un processo molto laborioso, in cui le indagini preliminari sono state fatte in un anno, ma il dibattimento ha ri-
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chiesto quasi due anni, anche perché i temi da affrontare erano tanti e la Corte d’Assise li ha approfonditi in maniera esaustiva. È un processo giusto per le parti, che hanno potuto esprimere tutte le loro ragioni, adesso dobbiamo portare a conclusione una discussione che comporterà parecchie udienze». Dopo l’ordinanza di rinvio a giudizio dei sei imputati lei parlò di decisione storica. Vuole spiegare perché? «Soprattutto per due ragioni. La prima è che si tratta di un processo svoltosi per la prima volta davanti alla Corte d’Assise. Non mi era mai capitato prima ed è successo perché si è contestato a uno degli imputati il reato di omicidio doloso, naturalmente nel senso di dolo eventuale. Secondo la nostra accusa - spetterà poi alla Corte valutare se questa sia o meno fondata - uno degli imputati avrebbe agito nella consapevolezza del rischio e secondo l’accettazione di questo rischio che è la forma tipica del dolo eventuale. La seconda ragione riguarda la contestazione della responsabilità amministrativa dell’ente, la forma di responsabilità introdotta dal nuovo Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro. Questo ha fatto sì che ci sia un processo penale a carico delle persone fisiche e un procedimento amministrativo a carico della società. E anche questa è una novità». Lei ritiene che lo stabilimento Thyssenkrupp di Torino C&P • GIUSTIZIA
Raffaele Guariniello • Cronaca giudiziaria
Questo è il primo grande processo in materia di sicurezza sul lavoro che si celebra in corte perchè uno degli imputati ha agito con dolo
Il pm Raffaele Guariniello durante una fase del processo Thyssenkrupp
C&P • GIUSTIZIA
rientrava nella categoria di industrie ad alto rischio ma era sprovvisto di certificato antincendio ed era in stato di grave e crescente insicurezza. «Sicuramente anche in questo caso i controlli non sono stati adeguati però vorrei sottolineare che a nostro avviso questo incendio non poteva che capitare nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino e non, ad esempio, a Terni perché lo stabilimento di Torino era destinato a essere chiuso e pertanto abbandonato a se stesso. Credo che gli investimenti per la sicurezza antincendio sulla linea 5 che è stata teatro di questo infortunio fossero stati programmati ma poi si decise di investire solo quando la linea 5 sarebbe stata portata a Terni, a seguito della chiusura dello stabilimento di Torino». Per lei, l’amministratore delegato di Thyssenkrupp aveva accettato consapevolmente il rischio. Guardando a tutti i processi che lei ha seguito, l’omessa cautela così grave da parte dei dirigenti Thyssenkrupp è un caso isolato? «La caratteristica che differenzia questo processo da tutti gli altri riguarda la politica aziendale che, a nostro avviso, ha abbandonato a se stesso lo stabilimento torinese, ormai destinato alla chiusura. Siamo riusciti a ricostruire questa politica, cosa che non è stato possibile fare in casi precedenti, grazie anche a ricerche rapide e strumenti più penetranti, che in genere non vengono adoperati in processi di sicurezza sul lavoro. Le perquisizioni nei computer dello stabilimento ci hanno consentito di mettere in luce tutta una serie di messaggi che si scambiavano i dirigenti e che vanno a delineare la consapevolezza del rischio e la decisione di accettarlo, ovvero quello che la giurisprudenza ha messo in luce come dolo eventuale». Arrivati a questa fase del processo cosa si aspetta dalla sentenza? «Non lo so, e non mi metto nei panni dei giurati e dei giudici. Sarà interessante vedere all’opera questa Corte d’Assise in quanto non è mai stata chiamata a giudicare nell’ambito di un processo riguardante la sicurezza sul lavoro; devo dire che ha dato prova di un’attenzione esemplare sia alle nostre valutazioni sia a quelle della difesa». In Italia è diffusa l’idea che l’incidente sul lavoro sia legato a una fatalità e come tale non sia preventivabile. Secondo lei dopo questa tragedia è cambiato qualcosa? «Questa era una filosofia di alcuni decenni fa, negli ultimi anni fortunatamente è venuta meno. Ormai con la legge 626 e con il Testo unico è cresciuta la consapevolezza che gli infortuni possono essere evitati attraverso una politica di prevenzione come non era mai stata fatta in passato. Ormai questa politica è una realtà per le aziende italiane». 43
Deficit pubblico • Renato Brunetta
IL DIFFICILE COMPITO DELLA MANOVRA di Renato Brunetta Ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione
a manovra di correzione del deficit pubblico varata dal Governo risponde a una decisione europea di contrastare movimenti speculativi innescati dalla crisi debitoria di alcuni Stati e, più in generale, dall’esplodere dei debiti e dei deficit pubblici. Questo ha creato una situazione nuova per tutti i Paesi avanzati, compreso il nostro. L’Italia presenta oggi uno dei deficit più bassi, ma ha uno dei debiti più elevati. Nel corso dell’ultimo decennio il nostro Paese ha dimostrato di essere in grado di sostenere questo debito, seppur oneroso, ma il peggioramento della posizione debitoria del resto del mondo aumenta il nervosismo dei mercati finanziari e questo richiede un sovrappiù di prudenza. La manovra non è quindi discutibile. D’altra parte è l’azione coordinata di consolidamento fiscale di tutti i Paesi avanzati che rischia di innescare un processo deflattivo, non la manovra italiana. Ci si chiede, tuttavia, in che misura questa manovra risponda solo all’emergenza e in che misura affronta, o inizia ad affrontare problemi strutturali. È infatti strutturale il problema della riduzione del debito pubblico, andando oltre la sua semplice stabilizzazione. È strutturale la necessità di un consolidamento fiscale basato su una tendenziale riduzione della spesa pubblica in percentuale del Pil, premessa di una riduzione della pressione fiscale. È strutturale la necessità di ritrovare la strada della crescita senza la quale i primi due problemi non sono affrontabili, ma che proprio da questi problemi è ostacolata. La correzione del deficit per meno di due punti percentuali di Pil nei prossimi due anni, obiettivo della manovra in corso, non risolve di per sé i problemi strutturali ricordati ma il modo in cui verrà perseguito questo obiettivo - seppur par-
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C&P • GIUSTIZIA
Deficit pubblico • Renato Brunetta
ziale e limitato nel tempo - può rappresentare l’inizio della correzione strutturale. Una buona metà della manovra graverà sul settore pubblico. Attraverso i diversi provvedimenti, che riguardano essenzialmente la dinamica dei salari unitari e il turn-over (altri Paesi sono stati invece costretti a provvedimenti non selettivi, come il taglio degli stipendi pubblici), si persegue l’obiettivo della riduzione tendenziale strutturale della massa salariale nel settore pubblico rispetto al Pil. Occorre però che al contempo aumenti la produttività del lavoro pubblico, mantenendo la funzionalità e l’ammontare dei servizi offerti ai cittadini-clienti. Altrimenti, alla riduzione della spesa per i salari corrisponderebbe la riduzione corrispondente della quantità e della qualità dei servizi in settori fondamentali quali la burocrazia, la sicurezza, la giustizia, l’istruzione e la salute. E poiché ciò si rifletterebbe sul tasso di crescita dell’intera economia, non si avrebbe in definitiva aggiustamento strutturale. Sono tanto convinto di questo, che non ho aspettato la crisi che stiamo attraversando per varare una riforma profonda della Pubblica amministrazione orientata al recupero di produttività attraverso l’incentivo al merito e alla responsabilità. I salari nel settore pubblico, come in quello privato devono crescere, ma solo con l’aumento della produttività. D’altra parte si tratta della chiave di volta per incidere anche sull’alC&P • GIUSTIZIA
tra grande componente della spesa, cioè quella dei consumi intermedi. Anche qui si tratta di capire se alla riduzione della spesa nominale deve corrispondere anche la riduzione della spesa in termini reali. In altri termini, la valutazione dei risultati, l’attenzione alla trasparenza e la digitalizzazione dei processi implicano che si acquistino dal settore privato beni e servizi a prezzi minori e di qualità più elevata. Non si avrebbe, quindi, una riduzione e decadimento dei servizi, che richiedono per la loro produzione acquisto di beni e servizi, ma solo una riduzione del loro costo di produzione. Certo è facile fare le riforme con risorse crescenti, perché si possono mettere risorse dove servono senza ridurle contemporaneamente dove servono meno. Ma quando è facile, spesso non c’è lo stimolo a farle e quindi non si fanno. Più difficile fare le riforme quando servono di più, e cioè quando è necessario saper scegliere e selezionare con il fine non solo di ridurre la spesa ma di ridurla favorendo la crescita. Più difficile e impopolare perché si tratta di intaccare forti interessi precostituiti senza l’alibi dei sacrifici uguali per tutti e senza trincerarsi dietro una presunta imparzialità imbelle. Ma questo è appunto il compito alto della politica nei momenti difficili ed essa deve dimostrare non solo di essere capace di consolidare il bilancio pubblico, ma anche di lavorare per la crescita migliorando le aspettative di tutti. 47
Antitrust • Antonio Catricalà
Le sfide a tutela degli utenti Antonio Catricalà fa un bilancio alla luce dei primi vent’anni dalla creazione dell’Antitrust che, come ricorda il presidente, è «all’avanguardia nella tutela dei consumatori» di Nike Giurlani
un’istituzione nata appena vent’anni fa, sul modello della Commissione europea, ma ha già dimostrato di essere in grado di portare a termine importanti traguardi. «Siamo all’avanguardia nella tutela dei consumatori – tiene a precisare il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà –, abbiamo procedimenti veloci, un contact center che rappresenta il filo diretto tra l’Autorità e i cittadini». Ancora molte, però, le sfide da affrontare, in particolare per quanto concerne le Poste, i trasporti su ferrovia e la governance bancaria. Ma il presidente dell’Antitrust è fiducioso, «abbiamo gli strumenti necessari per operare al meglio e un grado di autonomia che molte altre Autorità dell’Ue non hanno». Accordi illegittimi tra aziende produttrici di beni o fornitrici di servizi a danno dei consumatori. Quali sono stati i principali successi messi a segno in questi ultimi anni dall’Antitrust? «Non sta a me fare un elenco, ma sicuramente, abbiamo ottenuto buoni risultati nel settore del latte dell’infanzia: nel 2005 abbiamo dato sanzioni per quasi 10 milioni di euro ai produttori che avevano fatto cartello per mantenere elevati livelli di prezzo, superiori agli altri Paesi europei anche del doppio o del triplo. L’iniziativa dell’Antitrust, al di là della
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Sotto, il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà
C&P • GIUSTIZIA
Antonio Catricalà • Antitrust
multa, ha cambiato il mercato: la grande distribuzione e le farmacie hanno iniziato a vendere latte con il loro marchio a prezzi più bassi. Nello stesso periodo, in occasione della concentrazione tra due grandi aziende, abbiamo imposto misure per garantire un rilevante incremento della presenza del latte in polvere nei supermercati e praticare una riduzione dei prezzi: i risparmi per le giovani famiglie, sia pur a termine, sono stati pari a 40 milioni di euro l’anno. Nel 2009 sono state sanzionate, con multe complessive superiori ai 12 milioni di euro, le aziende produttrici di pasta che si erano messe d’accordo sui prezzi. Ma non ci sono solo le sanzioni». Che intende dire? «L’Autorità ha applicato, credo con equilibrio, lo strumento degli impegni: le aziende presentano misure a favore della concorrenza e se l’Antitrust le ritiene utili per concorrenti e consumatori le accetta, chiudendo l’istruttoria senza multa. È grazie a questo meccanismo che le compagnie petrolifere hanno ridotto i prezzi sul self service, o le Poste hanno accettato di rendere possibile, per i consumatori, il pagamento delle bollette presso altri sportelli, internet compreso». Dal confronto con gli altri Paesi europei quali pratiche andrebbero fatte nostre e quali invece esportate? «Credo che l’Antitrust funzioni bene così. Siamo un’istituC&P • GIUSTIZIA
zione giovane, di appena vent’anni, nata sul modello della Commissione europea: abbiamo gli strumenti necessari per operare al meglio e un grado di autonomia che molte altre Autorità dell’Ue non hanno. Anzi, a dirla tutta, siamo all’avanguardia nella tutela dei consumatori: abbiamo procedimenti veloci, un contact center che rappresenta il filo diretto tra l’Autorità e i cittadini. È la stessa Commissione a considerarci un esempio per come ci siamo mossi su alcuni settori». Qualche esempio? «Le suonerie che si scaricavano sui cellulari e che invece nascondevano costosi abbonamenti impossibili da disdettare. Siamo stati i primi a comprendere le potenzialità connesse all’accettazione degli impegni presentati dalle aziende e siamo stati seguiti dalle altre Autorità. Questa politica è stata oggetto di critiche nel nostro Paese: qualcuno l’ha interpretato come un atteggiamento benevolo dell’Antitrust nei confronti delle aziende che non rispettano le regole della concorrenza. Non è così: le misure che l’Antitrust rende obbligatorie rappresentano comunque un costo per le imprese che s’impegnano ad attuarle e, in più, hanno un effetto immediato sul mercato a favore dei concorrenti e dei consumatori». Recentemente ha sottolineato che la liberalizzazione dei servizi pubblici locali sta frenando in modo preoccupante. Quali saranno le iniziative portate avanti dall’Antitrust? «Ho fatto il punto su un’ottima riforma che rischia di naufragare per l’incapacità degli amministratori locali. La legge prevede per i servizi pubblici locali l’obbligo di gara, salvo la possibilità di deroga, e quindi di affidamento diretto, previo parere dell’Autorità. L’Antitrust ha espresso 120 pareri e in 118 casi ha detto agli amministratori: fate le gare. Di questi 118 pareri, un terzo è stato rispettato, un altro terzo è stato ignorato e le amministrazioni hanno continuato ad affidare direttamente, in house, i servizi alla propria azienda; infine, per l’ultimo terzo dei casi il parere ha portato all’immobilismo: nel 10% dei casi, addirittura, si è avuta l’interruzione del servizio». Che cosa emerge da questi dati? «L’analisi svolta dagli uffici dell’Autorità dimostra che occorre portare in periferia la tutela della concorrenza. Anche perché, gli amministratori che non rispettano il nostro parere, rischiano di finire nel mirino della Corte dei Conti per danno erariale. Avevo chiesto al legislatore di riconoscere all’Antitrust il potere di impugnare direttamente davanti al giudice amministrativo gli atti amministrativi lesivi della concorrenza: questo ci avrebbe consentito di intervenire con 49
Antitrust • Antonio Catricalà
Per il trasporto su ferrovia occorre separare il ruolo di chi è proprietario della rete da quello di chi fa viaggiare i treni 50
maggiore efficacia ogni qual volta, a livello locale, le regole competitive vengono ignorate. Fino ad oggi la nostra richiesta è rimasta lettera morta». Quali sono i settori in cui si avverte maggiormente la necessità di regolamentazione a favore di una maggiore concorrenza? «Innanzitutto le Poste, per le quali è alle porte l’entrata in vigore della direttiva europea di liberalizzazione. Serve un regolatore e l’Autorità garante delle comunicazioni è la candidata naturale per assumere un ruolo che sarà cruciale. Poi i trasporti. Per quanto riguarda quello su ferrovia occorre separare con chiarezza il ruolo di chi è proprietario della rete da quello di chi fa viaggiare i treni; diversamente i concorrenti avranno difficoltà a entrare con successo in un settore fondamentale per l’economia italiana e per i cittadini. Anche in questo caso occorre un regolatore, se lo chiedono, l’Antitrust è pronta, perché ha le competenze necessarie e non costerebbe un euro in più. Si tratta di pensare a una struttura ‘a termine’, che detti il quadro regolamentare utile a rendere possibile la concorrenza. Infine le banche. Abbiamo chiesto con insistenza una legge che introduca nuovi principi sulla governance bancaria, per recidere quei conflitti di ruolo esistenti quando un amministratore siede in più consigli di amministrazione di banche tra loro concorrenti». C&P • GIUSTIZIA
Servizi pubblici locali • Giulio Napolitano
La gestione dei pubblici servizi Dal monopolio pubblico alle leggi di privatizzazione e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Come è cambiata la normativa e quali sono le criticità rilevate dal professore Giulio Napolitano di Nike Giurlani
e leggi di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici approvate vent’anni fa hanno cambiato molto il nostro sistema di gestione, tradizionalmente basato sul monopolio pubblico. «Amministrazioni autonome e enti pubblici sono stati trasformati in società per azioni efficienti e moderne e, in diversi casi, – spiega Giulio Napolitano, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Roma Tre – la partecipazione statale si è progressivamente ridotta». Lo Stato resta comunque l’azionista di controllo di società importanti «come Enel ed Eni, che sono quotate, o come Ferrovie e Poste, che invece non lo sono», rileva Napolitano. «Parallelamente, la riserva pubblica in molti settori è stata cancellata o comunque circoscritta e il mercato è stato così aperto alla competizione di operatori italiani e stranieri». Risultato? «La concorrenza si è sviluppata ampiamente recando effettivi benefici in favore di utenti e consumatori soltanto in alcuni campi, come il trasporto aereo, le telecomunicazioni e, in misura minore, l’energia elettrica» fa presente il professore. L’apertura dei mercati dei servizi pubblici locali, infine, «è rimasta sostanzialmente bloccata nonostante le numerose riforme, tra cui l’ultima del 2008-2009 che, stabilendo nuove norme per l’affidamento dei servizi, dovrebbe finalmente incentivare maggiori efficienze di gestione» conclude il docente di Istituzioni di diritto pubblico.
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Nel suo libro Regole e mercato nei servizi pubblici mette in luce che le criticità del settore dipendono non solo dalla difficile congiuntura economica, ma anche dalle molte contraddizioni dell'assetto istituzionale. Può farci qualche esempio? «I problemi maggiori riguardano i rapporti tra politica e tecnica e quelli tra centro e periferia. E purtroppo non sono stati risolti in questi ultimi anni. Sul primo versante, basti pensare al fatto che non si è completato il disegno della regolazione indipendente. Sono state istituite soltanto due autorità indipendenti: l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Negli altri settori, la regolazione è rimasta affidata a organi ministeriali privi di adeguati poteri e competenze. A livello locale, permane il conflitto d’interesse in capo agli enti locali che spesso si ritrovano a esercitare più ruoli contemporaneamente: committenti, gestori e regolatori. Quanto ai rapporti tra centro e periferia, la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione ha fatto confusione in questo campo, moltiplicando il contenzioso tra Stato e regioni e rendendo così molto difficile il processo d’apertura alla concorrenza e la costruzione delle necessarie infrastrutture d’interesse nazionale». Alla luce delle modifiche introdotte dal decreto legge n. 135 del 25 settembre 2009, convertito in legge il 20 C&P • GIUSTIZIA
Giulio Napolitano • Servizi pubblici locali
In basso, Giulio Napolitano, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Roma Tre
novembre 2009, quali sono gli aspetti chiave del quadro normativo in merito al conferimento della gestione dei servizi pubblici locali? «In base alla nuova disciplina, le gestioni in essere potranno essere salvate soltanto se saranno cedute ai privati, quote rilevanti del capitale sociale oggi in mano agli enti locali. I nuovi affidamenti, poi, dovranno avvenire attraverso gara pubblica e dovranno privilegiare soggetti terzi rispetto all’ente locale oppure soci privati di quest’ultimo, cui siano affidati specifici compiti operativi. Soltanto in casi eccezionali, per motivi economici, sociali e ambientali, si potrà ricorrere alla gestione pubblica in house e anche questa, in ogni caso, dovrà essere incentivata a raggiungere più elevati standard di efficienza e di efficacia. Su questi casi, comunque, dovrà pronunciarsi l’Autorità garante della concorrenza e del mercato». Quali sono i settori toccati da questa normativa? Quelli, invece, rimasti esclusi? «La nuova normativa non si applica ai settori della distribuzione del gas e dell’energia elettrica, le cui discipline particolari già prevedono principi concorrenziali. Sono, inoltre, esclusi il trasporto ferroviario regionale e le farmacie comunali, oltre ai servizi non economici. I maggiori cambiamenti si potranno invece avere nel campo dei trasporti, dei servizi idrici e dello smaltimento dei rifiuti. Per far funzionare le riforme, il governo e le C&P • GIUSTIZIA
autorità di vigilanza settoriale dovranno seguirne da vicino l’attuazione, in particolare aiutando gli enti locali a svolgere al meglio i propri compiti di programmazione e di regolamentazione su base contrattuale. In questo modo, sarà possibile fissare benchmark comparativi e standard minimi e garantire il corretto funzionamento delle gare sul territorio, ad esempio attraverso il coinvolgimento dell’Autorità per i contratti pubblici nella predisposizione dei bandi di gara». Quali altre iniziative andrebbero intraprese, anche alla luce del contesto europeo? «Bisogna estendere e rafforzare la regolazione indipendente, come ci chiede l’Unione europea, sia nelle direttive di settore, sia nei regolamenti istitutivi delle nuove agenzie comunitarie, dall’Acer (che si occuperà d’energia) al Berec (il board che riunisce i regolatori delle telecomunicazioni). A tal fine, si dovrebbero estendere le competenze delle autorità già esistenti (ad esempio, l’Agcom potrebbe occuparsi del mercato postale). Inoltre, occorre procedere finalmente all’istituzione di un’Autorità per i trasporti che sia in grado di assicurare un’adeguata regolazione del trasporto aereo e ferroviario e di dettare criteri generali e standard minimi per i trasporti locali. Infine, individuare un’Autorità realmente indipendente che si occupi della regolazione e della vigilanza sui servizi idrici (potrebbe essere la stessa Autorità per l’energia elettrica e il gas)». 53
Fondi pubblici • Ugo Ruffolo
Appalti e bandi di gara Bandi e gare d’appalto. Il complesso mondo dei finanziamenti pubblici illustrato dal professore e avvocato Ugo Ruffolo. Punto di partenza di questa indagine è il Codice degli appalti del 2006 di Nike Giurlani
uando si parla di finanziamenti pubblici, si entra in una sfera d’azione complessa, all’interno della quale il principio della trasparenza non sempre viene rispettato. L’erogazione di denaro per la realizzazione d’opere pubbliche prevede varie fasi e un iter abbastanza articolato. Non è, inoltre, raro che a vincere le gare d’appalto siano sempre gli stessi soggetti. Ma il problema, come sottolinea l’avvocato Ugo Ruffolo «non è che vincano sempre gli stessi, ma che vincono i soggetti sbagliati». Come uscire da questo circolo vizioso? «Più che guardare ai singoli consumatori come “controllori” – fa notare Ruffolo – occorre forse sollecitare sia una maggiore attenzione da parte della pubblica amministrazione contro le proprie “mele marce”, sia una maggiore reattività degli imprenditori concorrenti illecitamente esclusi». Qual è il quadro normativo di riferimento in materia di appalti pubblici? «Secondo il Codice degli appalti del 2006, i lavori pubblici possono essere affidati esclusivamente all’esito di procedure d’evidenza pubblica: gare nelle quali il bando può prevedere, per l’aggiudicazione, diversi gradi di discrezionalità, sempre finalizzata alla scelta dell’operatore economico migliore, sotto il profilo del prezzo più basso o dell'offerta
Q Il professore e avvocato Ugo Ruffolo
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C&P • GIUSTIZIA
Ugo Ruffolo • Fondi pubblici
Secondo il Codice degli appalti del 2006, i lavori pubblici possono essere affidati esclusivamente all’esito di procedure d’evidenza pubblica
economicamente più vantaggiosa, anche in termini qualitativi. La procedura è articolata in diverse fasi - dalla pubblicazione del bando di gara all’affidamento, dall’aggiudicazione provvisoria a quella definitiva - tutte amministrate dalla stazione appaltante, chiamata a svolgere funzioni di controllo e verifica. Si comprende come i criteri “automatici” (il “minor prezzo”) siano sempre i più trasparenti, ma non sempre i più efficienti (bilanciare prezzo e qualità dell’offerta, cosa spesso essenziale, implica necessariamente una certa discrezionalità)». Perché sovente le gare si chiudono con la vittoria dei medesimi operatori economici? «Talora, ma non sempre, perché sono “amici degli amici”. Il problema non è che vincano sempre gli stessi, ma che vincono i soggetti sbagliati. Altro è se la scelta ripetuta di quell’impresa scaturisce dall’apprezzamento di peculiari caratteristiche di natura obiettiva, quali l’elevata specializzazione produttiva, ovvero la garanzia di continuità con le precedenti fasi di lavorazione; altro è invece se qualcuno “bara”. In tale ipotesi, i rimedi legali sono anche ma non solo quelli penali. È possibile impugnare davanti al Tar, tutti gli atti amministrativi illegittimi, quali bandi di gara cuciti “su misura”, o aggiudicazioni viziate da favoritismi. È possibile, per il concorrente ingiustificatamente escluso, agire C&P • GIUSTIZIA
sia per concorrenza sleale contro chi ha vinto “barando”, sia per danni contro coloro che hanno governato con parzialità la procedura di gara, ed allora anche della pubblica amministrazione quale stazione appaltante, che risponde vicariamente degli illeciti di costoro». Quali strumenti sono concessi ai cittadini per verificare se il denaro pubblico viene speso correttamente? «Secondo il Consiglio di Stato (2002) “l’accesso agli atti delle gare d’appalto è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano avvalere per la tutela di una posizione soggettiva, la quale non può identificarsi con il generico e indistinto interesse d’ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa”. Potrebbe essere diverso per una qualificata associazione di consumatori. Più che guardare ai singoli consumatori come “controllori”, occorre forse sollecitare sia una maggiore attenzione da parte della Pubblica amministrazione contro le proprie “mele marce”, sia una maggiore reattività degli imprenditori concorrenti illecitamente esclusi (ma ancora, troppo spesso, “cane non mangia cane”)». Come l’attuale normativa può essere migliorata al fine di garantire un maggior grado di trasparenza? «Piuttosto che norme nuove, occorrerebbe una nuova coscienza civile, ed un nuovo coraggio civile, nell’utilizzare quelle esistenti. Far vincere la gara al concorrente sbagliato significa spesso pregiudicare il concorrente “giusto”. Ed è anzitutto da quest’ultimo che può derivare un impulso al controllo: sia mediante l’impugnazione di singoli provvedimenti amministrativi, sia attraverso azioni anche risarcitorie. Ma ciò accade di rado. Persino per Tangentopoli, vi sono state iniziative penali per appalti truccati, ma quasi nessun concorrente illecitamente escluso è poi andato fino in fondo anche con azioni di concorrenza sleale nei confronti del concorrente che, “barando”, era stato ingiustamente preferito. E si badi che la legge accorda tale azione anche alle associazioni imprenditoriali (il cui silenzio resta, in tali casi, assordante)». 55
Banda larga • Corrado Calabrò
L’autostrada per l’economia del futuro
Dal passaggio al digitale terrestre allo sviluppo della banda larga, dal recente codice di autoregolamentazione per i programmi di informazione ai controlli sul mercato della telefonia mobile. Sono molti i compiti dell’Agcom, li spiega il presidente Corrado Calabrò di Nicolò Mulas Marcello ondamentale per lo sviluppo sociale, economico e anche politico di un paese, è l’attenzione alle nuove tecnologie e alla comunicazione. Anche la crescita delle piccole e medie imprese passa attraverso questi due vettori. Grazie a internet, infatti, le pmi possono farsi conoscere, creare rete e raggiungere uno spettro di clienti molto più vasto di quello regionale. Per questo, come sottolinea il presidente di Agcom Corrado Calabrò, «lo sviluppo della banda larga è fondamentale. È questa l’autostrada per l’economia del futuro». L’Autorità per le garanzie delle comunicazioni promuove questo sviluppo indicando come passo indispensabile il passaggio alla fibra ottica che, con la sua capacità quasi illimitata, consentirebbe un maggiore respiro alla rete in rame ormai satura. Anche l’Italia quindi, se non vuole perdere terreno, dovrà operare investimenti nelle infrastrutture così come hanno già fatto Stati Uniti, Giappone, Cina e molti Paesi europei. La diffusione della banda larga in Italia potrebbe fare risparmiare 30 miliardi di euro ogni anno. La vasta disponibilità di connessioni a banda larga consentirebbe minori spese e una maggiore efficienza e produttività per tutto il sistema economico italiano, a sostenerlo è un documento firmato da Confindustria servizi innovativi. Avere il 100% degli isti-
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tuti scolastici in rete, l’80% delle famiglie e degli insegnanti consentirebbe un risparmio di circa il 50% sull’acquisto dei testi scolastici per le famiglie con figli alle medie inferiori e superiori. Inoltre, risparmi dal 3 al 13% sarebbero conseguibili anche nella sanità: con il 100% dei medici in rete, ricette e certificati digitali, servizio farmaceutico informatizzato e cartelle cliniche elettroniche si potranno risparmiare fino a 8,7 miliardi di euro. E altri 500 milioni all’anno potrebbero essere risparmiati anche nella Giustizia, grazie al processo civile telematico. L'Autorità garante per le telecomunicazioni necessita di una riforma che la adegui ai nuovi standard di indipendenza richiesti dall'Unione europea. Che tipo di riforma immagina? «Le Autorità indipendenti non rappresentano un fine in sé ma uno strumento di garanzia di diritti sensibili. Questo sia sul piano politico-sociale per il peso che esercitano le televisioni e i contenuti audiovisivi, sia sul piano socio-economico per quanto riguarda le telecomunicazioni, in cui rilevano le relazioni tra mercato e istituzioni, ma anche il desiderio di comunicare degli individui. Sono due versanti entrambi delicati e per questo che è stata creata l’Agcom. Il Governo, infatti, viene considerato un giocatore perché è responsabile della politica industriale. L’Agcom, al contraC&P • GIUSTIZIA
Corrado Calabrò • Banda larga
Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni
Le infrastrutture vanno eseguite perché è questa l’autostrada per l’economia del futuro: è una exit strategy
C&P • GIUSTIZIA
rio, deve essere un arbitro e non un arbitro-giocatore. Detto questo, il quadro esistente si può e si deve migliorare. E c’è un’occasione che non ci deve sfuggire: il recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 140 del 2009 della Comunità Europea, la quale mira a rafforzare i criteri di indipendenza delle Autorità di regolazione e dei loro rappresentanti. Purtroppo, abbiamo perso l’occasione per farlo nella legge comunitaria 2009; per questo abbiamo scritto al Governo affinché non si perda anche il treno della legge comunitaria 2010». Per quanto riguarda il digitale terreste sembra che i tempi dello switch off per tutta l’Italia si siano allungati rispetto a quelli previsti. Quando si concluderà la procedura? «C’è stato solo un breve rinvio al secondo semestre di quest’anno per la Lombardia e per alcune regioni del Nord, dovuto anche alle elezioni regionali e ai mondiali di calcio. È un piccolo differimento tollerabile che non modifica il programma complessivo e i traguardi che ci si è prefissi. Il passaggio al digitale era obbligato e consente una crescita del pluralismo nell’informazione. A regime, Mediaset e Rai ridurranno le loro reti da cinque a quattro, Telecom Italia da quattro a tre e i piccoli operatori manterranno quelle che hanno. Avremo cinque nuove reti multiplex che verranno 59
Banda larga • Corrado Calabrò
messe a gara con un beauty contest. Solo per due di queste potranno competere Rai e Mediaset e quindi ci sarà spazio per nuovi soggetti. In più, se uno dei due operatori maggiori si aggiudicherà una rete sarà costretto a cedere il 40% della capacità trasmissiva ad altri operatori. Quanto poi al posizionamento delle reti sul telecomando, stiamo ultimando un’istruttoria per definire l’assegnazione delle posizioni alle emittenti, dato che i primi 9 numeri sono i più ambiti perché di più facile accesso». Parliamo di processi mediatici. L’Agcom si è schierata contro questo tipo di giornalismo, ma dove finisce la libertà di informazione e incomincia la spettacolarizzazione mediatica? «Il punto di partenza è che la riproduzione dei processi in Tv porta a una sovrapposizione della televisione alla funzione di giustizia. Convengo con lei che il tema è delicato perché si tratta di conciliare principi costituzionali opposti: da una parte la libertà di informare e di essere informati e dall’altra la salvaguardia della dignità della persona umana, che risulta compromessa quando, a seguito di iniziative giudiziarie puramente preliminari come le misure cautelari, qualcuno viene sbattuto in televisione. Anche se poi risulterà assolta, quella persona 60
non si toglierà più di dosso quel marchio affibbiato dalla Tv come presunto colpevole. Noi abbiamo preso un’iniziativa che è stata molto apprezzata dal Csm e anche dal presidente della Repubblica. È stato adottato dalle emittenti televisive, dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa un codice di autoregolamentazione, in base al quale i giornalisti e i conduttori, nelle loro trasmissioni, potranno dare delle informazioni ma senza scambiare queste con la celebrazione del processo, che non può essere riprodotto e mimato in televisione. In caso di inosservanza ne risponderanno innanzitutto all’Ordine dei giornalisti». Per quanto riguarda la banda larga lei ha affermato che può dare una spinta allo sviluppo del Mezzogiorno. L’obiettivo del piano sul digital divide è quello di fornire a tutti una connessione di almeno 2 megabit. A che punto siamo? «Bisogna distinguere tra la fornitura di 2 megabit a tutti, che certamente è un diritto del Paese, e lo sviluppo della banda larga. L’Unione europea ha annunciato in questi giorni un’agenda che prevede, entro il 2020, un collegamento in banda larga sopra i 30 megabit e che raggiungerà anche i 100 megabit per il 50% della popolazione. Il minimo di 2 megabit non basta più né ai professionisti, né alle piccole e medie imprese. Ormai la fornitura minima necessaria è di 20 C&P • GIUSTIZIA
Corrado Calabrò • Banda larga
Le autorità indipendenti non rappresentano un fine in sé ma uno strumento di garanzia dei diritti sensibili sia sul piano politico sociale, sia sul piano socio economico megabit; anche perché vi è un fenomeno trasversale che intasa la rete: il download di audiovisivi, purtroppo molte volte abusivo. Questo fenomeno abbassa la qualità della rete in rame che è ormai satura. La fibra ottica, che ha una capacità quasi illimitata, va realizzata perché è l’autostrada per l’economia del futuro. In più rappresenta una exit strategy. Obama, nonostante i problemi finanziari, ha investito 30 miliardi nella banda larga, l’Australia altri 30, il Giappone 50, la Cina qualche centinaio; anche in Europa, in Germania e in Inghilterra gli investimenti sono cospicui. L’Italia non può restare indietro perché rischia di perdere ancora una volta il treno del progresso». È vero che abbiamo le tariffe telefoniche più care d’Europa? «Per fortuna no. Dal 1996 al 2009 i servizi delle telecomunicazioni hanno registrato una diminuzione dei prezzi del 31% a fronte di una dinamica in ascesa dei servizi che complessivamente hanno registrato un aumento di prezzi del 39%. Lo sviluppo dei servizi di tlc in Italia è stato esponenziale e ci pone a livelli di leader mondiale. Come full unbundling siamo il Paese più sviluppato in Europa dopo la Germania e abbiamo tariffe più basse rispetto alla Francia, Germania, Belgio e alla maggior parte dell’Europa. Nel comparto mobile, dal 2002 al 2009 più di 21 milioni di C&P • GIUSTIZIA
utenti hanno cambiato gestore. È un dato unico in Europa sia in termini assoluti che pro-capite e questo esprime la vitalità del mercato. In Italia il settore della telefonia mobile è il più competitivo al mondo, c’è una media del 152% della diffusione delle sim mentre la Francia ha l’88%. Fino ad adesso questo settore è andato bene ma è arrivato un po’ al capolinea per la saturazione della rete. Senza il passaggio alla fibra ottica rischia il declino». Lei ha ribadito le sue perplessità sul filtro a internet posto dal decreto Romani in materia di rete. Quale può essere per lei una soluzione alternativa a evitare che certi siti internet delinquano? «Il problema è enorme. Le mie riserve sul decreto Romani non riguardavano l’obiettivo indicato ma le modalità su come perseguirlo. Modalità inefficienti. I siti si rigenerano continuamente come le teste dell’Idra. Oggi internet è un problema planetario, un problema del quale deve farsi carico la Comunità europea perché rischiamo di non difendere i nostri bambini, i prodotti dell’ingegno, e di non riuscire a sostenere uno sviluppo di investimenti nella rete che ha bisogno di un ritorno economico nel medio-lungo periodo. Per quanto mi riguarda non ho la soluzione però penso che se il problema viene affrontato con la mentalità pre-digitale il tentativo fallisce in partenza». 61
Diritto d’autore • Giorgio Assumma
Diritti d’autore compensi, non tasse Il web è un efficace veicolo di diffusione delle opere di ingegno, ma anche uno strumento che permette di aggirare la questione dei diritti d’autore. A illustrare le ultime strategie di tutela è Giorgio Assumma, presidente della Siae di Francesca Druidi
l dibattito si riaccende periodicamente: meglio il monopolio o il libero mercato, nell’intermediazione per la gestione dei diritti d’autore? L’attività in Italia è affidata in via esclusiva alla Siae. Il Belpaese non è l’unico Stato europeo dove vige il monopolio legale, Danimarca e Paesi Bassi ci fanno compagnia. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato una ricerca effettuata dall’Istituto Bruno Leoni che sottolinea la minor efficienza della collecting society italiana rispetto agli equivalenti organismi esteri. Dal canto suo, il presidente dell’organo Giorgio Assumma, ne ribadisce l’importante funzione di tutela: «aderire alla Siae significa avere a disposizione un’organizzazione capillare, in Italia e nel mondo, che provvede a verificare dove e come un’opera viene utilizzata, per poi concedere le relative autorizzazioni, incassare i compensi e attribuirli agli aventi diritto». Quali sono realmente i benefici dell’iscrizione alla Siae per artisti e autori di opere di scarso successo commerciale e di limitata notorietà? «L’iscrizione alla Siae non è obbligatoria, ma io ritengo che, a prescindere dalla notorietà o dal successo delle opere, gli autori debbano essere innanzitutto facilitati nel riconoscimento della paternità delle loro opere, sia nei rapporti con gli utilizzatori, sia nel panorama artistico in genere. La Siae stipula anche accordi con i principali utilizzatori, ad esempio Rai e Mediaset, e con le associazioni delle varie categorie interessate, per fissare i compensi relativi alle molteplici utilizzazioni del repertorio tutelato e per semplificarne i pagamenti». A gennaio è stato emanato il decreto di rideterminazione dei compensi di copia privata. È un passo decisivo? «Sì, in quanto segna un capitolo di rilevante importanza per la tutela dei contenuti culturali in Italia, poiché ha colmato un vuoto normativo che sacrificava il ruolo dei titolari dei diritti sulle opere dell’ingegno (autori, produttori fono, produttori
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Giorgio Assumma, presidente della Società italiana degli autori e degli editori (Siae)
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Giorgio Assumma • Diritto d’autore
cinema e video, artisti) da più di 6 anni. Il decreto enuncia, infatti, il principio per cui i diritti sulle opere dell’ingegno, che non sono tasse, vanno difesi e promossi in misura proporzionale al successo economico dei prodotti tecnologici che li veicolano. Rispondendo così ai principi e alle regole che l’Unione europea ha da tempo indicato a tutti i paesi, il decreto ha allineato l’Italia alle realtà economico-commerciali nelle nazioni europee più vicine al nostro paese, come Francia, Germania e Spagna». Quali sono le forme più insidiose di pirateria oggi in Italia? «Le opere dell’ingegno subiscono un indiscriminato saccheggio soprattutto attraverso internet, sebbene non sia ancora finita la riproduzione illegale di supporti contenenti opere musicali e cinematografiche. Gli autori di qualsiasi genere, non solo ne sono danneggiati sul piano economico, ma si sentono anche derubati della sacra libertà di gestire autonomamente la circolazione e l’uso dei frutti del loro lavoro. Ciò sta progressivamente uccidendo lo stimolo a creare nuove opere, con il rischio di un declino della cultura che da tale creatività viene alimentata. Gli editori, d’altro canto, investono meno, soprattutto nella ricerca di giovani talenti. Inoltre, imponenti risorse vengono sottratte all’erario dello Stato, sotto forma di impo-
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ste non riscosse». Cosa fare allora? «È necessaria un’attività di sensibilizzazione e di educazione dei giovani al rispetto della legalità e del lavoro intellettuale, un impegno che la Siae sta portando avanti nelle scuole ormai da diversi anni, per far capire l’importanza del lavoro creativo e i danni causati agli autori e agli editori dai download illegali. In base alle recenti stime della Federazione Italiana dell’Industria Musicale, le perdite causate a quest’ultima nel nostro paese dai download illegali sono di oltre 300 milioni di euro». Quanto la politica italiana sta facendo per tutelare il diritto d’autore dalla pirateria? «Ad oggi non esiste ancora un vero progetto delle forze parlamentari per risolvere i gravi problemi delle costanti e ripetute lesioni dei diritti degli autori, perpetrate ogni giorno da milioni di contatti illegali attraverso internet. La Francia, la Spagna e l’Inghilterra hanno già assunto le loro iniziative legislative che, se pur basate soltanto su interventi repressivi, costituiscono già un considerevole passo in avanti. Ogni giorno di ritardo nel regolamentare la materia significa aumentare sempre più la commercializzazione non autorizzata delle opere, con una diretta incidenza sulla perdita di posti di lavoro, soprattutto nelle imprese cinematografiche, fonografi-
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Diritto d’autore • Giorgio Assumma
L’accordo con YouTube vuole assicurare agli autori e agli editori un compenso che tenga conto dell’intensità di utilizzo delle loro opere su una piattaforma molto popolare
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che e dell’audiovisivo». Perché l’accordo siglato con YouTube individua una svolta nell’attività di tutela della Siae? «Perché vuole assicurare agli autori e agli editori un compenso che tenga conto dell’intensità di utilizzo delle loro opere su una piattaforma molto popolare, che costituisce oggi uno dei principali veicoli di diffusione e di valorizzazione del repertorio musicale. L’intesa dimostra innanzitutto che un operatore importante come YouTube ha riconosciuto la fondatezza delle richieste avanzate dagli autori, ma indica anche come, in assenza di una normativa che regolamenti la materia, i privati possano autodisciplinare le loro posizioni. La licenza, che ha una durata di tre anni, copre l’uso in Italia in modalità streaming, di musica e opere audiovisive del repertorio Siae nei video presenti sulla piattaforma YouTube». In base ai dati presentati nell’Annuario dello spettacolo, lo spettacolo in tutte le sue forme tiene le sue posizioni, nonostante la crisi. «Il pubblico italiano nel 2009 ha dimostrato di continuare ad amare la cultura, lo spettacolo e lo sport e di essere disponibile a sostenerne i costi e a investire in questo settore. In linea generale, è aumentata la spesa del pubblico (+ 6,8%), superando i 3 miliardi di euro ed è rimasto invariato l’afflusso ai luoghi di spettacolo, nonostante l’aumento di quasi tutti i prezzi medi d’ingresso. Il settore in cui gli italiani hanno speso di più è quello del ballo (oltre un miliardo di euro), anche se in calo rispetto al 2008. La maggiore spesa al botteghino si è registrata nel cinema (664 milioni di euro), con un aumento del 4%». È possibile incrementare la competitività del comparto? «Sono fiducioso sullo stato di salute dello spettacolo nel nostro Paese e soprattutto sulle capacità creative e produttive degli italiani, ma credo che sia necessario aiutare e stimolare queste capacità, per rafforzarne sempre più l’identità culturale. Un buon modo potrebbe essere quello di incentivare le sponsorizzazioni da parte dei privati, con agevolazioni fiscali per chi aiuta la cultura e i giovani autori». C&P • GIUSTIZIA
Riforma forense • Grazia Volo
Una garanzia che chiude il cerchio Introdurre la separazione delle carriere dei giudici, per garantire la parità tra le parti nel processo accusatorio. I tempi ormai sono maturi. Ora tocca alla politica trovare la strada per varare finalmente la riforma. La parola alla penalista Grazia Volo di Elena Pini l ministro della Giustizia Angelino Alfano lo ha promesso fin dal primo giorno in cui ha messo piede a Palazzo Piacentini: in questa legislatura, tra i provvedimenti di riforma della giustizia che intende varare, non mancherà quello sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e pubblici ministeri. Lo ha ripetuto più volte anche il premier Silvio Berlusconi, sottolineando che si tratta di una riforma fondamentale e che i tempi sono ormai maturi per una separazione delle funzioni di giudici e pm. La riforma quindi si farà, anche se l’iter si preannuncia abbastanza complesso, dovendosi in una sua parte dare corso a una riforma di carattere costituzionale. Oltre a questo ostacolo c’è da registrare la nota ostilità a riguardo da parte di una consistente fetta di magistratura. Sull’argomento interviene l’avvocato Grazia Volo che, da quasi trent’anni, veste da protagonista la toga del difensore in processi penali passati alla storia. Da anni in Italia si lamenta uno squilibrio tra difesa e accusa a livello processuale. Secondo lei il problema esiste? «Esiste un problema di incompiuta attuazione di uno dei capisaldi dell’ordinamento giudiziario così come rinnovato nel 90, secondo il quale, nella parte relativa al processo accusatorio, si prevedeva che l’accusa e la difesa non solo siano pari, ma anche che il loro sia un rapporto tra strutture autonome. In concreto, però, questa parte della riforma non ha trovato attuazione, per cui l’ufficio del pubblico ministero, che appunto rappresenta la pubblica
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Grazia Volo è avvocato penalista. Tra i processi eccellenti, quello per il massacro del Circeo nel 1974, la difesa di Silvia Baraldini, condannata per reati politici in Usa, dell’ex brigatista pentita Cinzia Banelli e dell’immobiliarista Stefano Ricucci
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C&P • GIUSTIZIA
Grazia Volo • Riforma forense
Purtroppo in Italia, come sempre, si è fatto il passo più lungo della gamba, e già venti anni fa si è introdotta una riforma che il mondo giudiziario non era pronto ad accogliere accusa, è rimasto all’interno nell’ordinamento giudiziario, il che comporta che oggi i Pm sono ancora magistrati a tutti gli effetti». Pensa che in questa legislatura la separazione delle carriere potrà essere finalmente varata? «La riforma in tal senso si annuncia abbastanza complessa. Laddove si va a trattare la separazione dell’ufficio delle procure dalla magistratura giudicante, si incide sul criterio dell’autonomia della magistratura, che è garantito costituzionalmente. Sono fermamente convinta che il processo accusatorio debba essere celebrato all’interno di un meccanismo in cui le parti, accusa e difesa, siano parimenti equidistanti dal giudice. Questa visione comporta una netta separazione delle carriere, tra magistratura giudicante da una parte e magistratura requirente dall’altra, per cui l’ufficio della pubblica accusa deve essere completamente fuori dal meccanismo dell’ordinamento giudiziario. È chiaro che bisognerà individuare poi dove questo vada a collocarsi, se sotto un dipartimento del ministero di Giustizia o altro. L’importante, in ogni caso, è garantirne l’indipendenza. Purtroppo nel nostro Paese, come sempre, si è fatto il passo più lungo della gamba, e già venti anni fa si è introdotta una riforma che il mondo giudiziario, al quale essa era indirizzata, non era pronto ad accogliere. Tanto è vero che le prime sentenze della Corte Costituzionale sono state dei colpi di accetta a quella riforma». Parte della magistratura e delle forze politiche del nostro Paese paventano che introducendo la seC&P • GIUSTIZIA
parazione delle carriere si creerebbe un legame troppo stretto, e anche pericoloso, tra pubblico ministero e poteri di polizia. Pensa che questo rischio esista davvero? «Non le vedo tutte queste dietrologie. Non credo che la preoccupazione degli uffici di procura del nostro Paese sia quella di finire sottomessi ai poteri di polizia. Il rischio che in realtà si paventa dietro l’argomento dell’intimità dei pubblici ministeri con le forze di polizia, è che questi vadano a finire in un dipartimento del ministero di Giustizia o direttamente alle dipendenze dell’esecutivo. In sostanza la preoccupazione principale è quella della perdita dell’autonomia. Secondo me la magistratura è parzialmente disposta ad accettare questo cambiamento. In realtà, dopo venti anni di vita del processo accusatorio, l’esigenza dell’equidistanza delle parti è ormai largamente condivisa». Quali altre riforme reputa utili al fine di una maggiore garanzia della difesa nel nostro ordinamento? «Penso che il nostro sistema rispetto ad altri ordinamenti sia molto attento alle garanzie. Solo che alcune volte accade che la loro applicazione venga meno. Il problema riguarda esclusivamente alcune emergenze che, sull’onda di pressioni giustizialiste esercitate dall’opinione pubblica, sono all’origine di estemporanei interventi legislativi demolitori o, comunque, fortemente limitativi delle garanzie difensive. E queste fibrillazioni del sistema non aiutano nessuno». 67
Riforma forense • Maurizio De Tilla
Avvocati di qualità a vantaggio dei cittadini L’eccessivo numero dei consulenti legali, sproporzionato rispetto a quello dei magistrati, è uno degli snodi chiave su cui lavorare. Il focus di Maurizio De Tilla di Ezio Petrillo
Maurizio De Tilla, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura
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esercizio della professione forense merita dei correttivi molto precisi. A partire dalla formazione universitaria, per finire con un maggiore riconoscimento dell’autonomia del ruolo dei consulenti legali. Pertanto l’Organismo unitario dell’avvocatura si sta attrezzando a dovere proponendo, punto per punto, gli interventi necessari per ridare lustro a una professione che, causa precarietà giovanile, assoggettamento ai “poteri forti”, numero eccessivo di avvocati, sta perdendo quell’aura di prestigio di cui si era forgiata negli anni addietro. Ne discute Maurizio De Tilla, presidente dell’Oua. Qual è l’aspetto che potrebbe migliorare l’intero percorso di formazione della professione forense? «Il sovraffollamento degli albi forensi deriva principalmente dagli sbocchi universitari. Abbiamo proposto il numero programmato all’università e un’ulteriore selezione nell’accesso alla professione di avvocato. L’obiettivo è quello di avere non più di tremila nuovi avvocati all’anno. Dovremmo avvicinarci al sistema francese dove, dopo la laurea, si fa un altro anno di università propedeutico all’accesso alla scuola di formazione forense e lì, già dall’università, fino alla scuola di formazione, c’è una forte selezione. Solo i migliori possono accedere al percorso formativo dell’avvocatura. Questa, a mio avviso, è la soluzione che bisogna adottare per avere una riduzione del numero di avvocati e un’avvocatura di qualità a tutto vantaggio dei cittadini, che, in questo modo, avrebbero dei consulenti legali maggiormente preparati. I primi risultati di tale riforma potranno avere effetti positivi entro dieci anni a mio avviso quando ci saranno 80mila avvocati iscritti in meno. In sostanza, è necessaria una formazione diversa, e introdurre un pilastro di serietà sull’accesso al mondo della nostra professione. Ma bisogna partire dall’università». In questo senso, quali sono gli altri punti cardine del percorso di riforma della professione? «Di sicuro l’abrogazione della legge Bersani. Occorre ripristinare i minimi di tariffa, così come il divieto del patto
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Maurizio De Tilla • Riforma forense
Dovremmo avvicinarci al sistema francese dove, dopo la laurea, si fa un altro anno propedeutico all’accesso alla scuola di formazione forense
di quota lite, necessari per garantire una retribuzione adeguata. Oggi troppi giovani colleghi avvocati, a causa di questa legge, vivono in una condizione di precarietà, costretti ad accettare pagamenti forfettari che non coprono le spese. Il secondo punto nevralgico su cui occorre lavorare è il ritiro del patto di quota lite che è già realizzato in Europa, tranne che nel mondo anglosassone. Questo determina una maggiore indipendenza dell’avvocatura, necessaria, nell’interesse primario del cliente. Un altro nodo da sciogliere è relativo alla consulenza legale esclusiva». Di cosa si tratta? «Oggi ci sono i giuristi d’impresa per affrontare tipologie di problemi che riguardano le aziende, ma certamente, l’intervento di un avvocato al fianco di un imprenditore, può garantire una maggiore attenzione per fornire pareri legali volti magari a evitare processi, e a far trovare una ricomposizione della lite. La funzione di consulenza esclusiva è riconosciuta, tra l’altro, dal resto d’Europa tramite la direttiva Bolkestein, che recita che la consulenza legale deve essere fuori dalle regole della concorrenza. L’avvocato, dunque, non può essere un imprenditore, né tantomeno un prestatore di servizi, ma, instaurando col cliente un rapporto stretto di tipo fiduciario, può certamente essere in C&P • GIUSTIZIA
grado di svolgere il ruolo di consulente. In questo senso il supporto legale esclusivo per le imprese può essere un’interessante via per intraprendere una maggiore tutela della professione forense». In relazione alla condizione dei giovani consulenti legali, quali sono gli aspetti su cui bisognerebbe incentrarsi? «I giovani avvocati vivono certamente un momento duro a causa dell’imposizione dei minimi di tariffa. Come spiegavo prima la sovrabbondanza di offerta ha causato il fatto che la professione sta perdendo parte della sua immagine. Oggi i “poteri forti” vorrebbero assoggettare i professionisti, e non è da trascurare una situazione di profonda precarietà che si registra soprattutto in quegli studi legali che utilizzano i giovani pagandoli come dipendenti a tutti gli effetti. Tutto ciò che ho già evidenziato, la riduzione del numero di avvocati, l’esclusività della consulenza, una maggiore autonomia, possono contribuire al miglioramento della professione. Aggiungerei anche che occorre che la Cassa nazionale di previdenza intervenga affinché vengano stanziati adeguati ammortizzatori sociali per i consulenti legali». A cosa è dovuto l’incremento esponenziale, negli ultimi anni del numero di avvocati iscritti all’Albo? «Nel nostro Paese abbiamo l’assurdo di avere pochi magi69
Riforma forense • Maurizio De Tilla
Bisognerebbe riformare la macchina giudiziaria, ad esempio con l’inserimento di figure come i manager della giustizia o attuando la razionalizzazione delle risorse 70
strati e moltissimi avvocati. In questo senso vorremmo riformare l’ordinamento forense anche con le specializzazioni e con l’effettività dell’esercizio. Per quel che ci riguarda, il problema è a monte, ossia in un numero di giovani che accedono al mondo universitario, eccessivo rispetto alla reale “domanda” di avvocati da parte della collettività». Qual è il parere dell’Oua, in merito alle necessarie riforme per migliorare l’efficienza del sistema giustizia? «Noi pensiamo che bisognerebbe riformare la macchina giudiziaria, in diversi modi, attraverso, ad esempio, l’inserimento di figure come i manager della Giustizia, la razionalizzazione delle risorse e, estendere in tutti gli uffici giudiziari, l’informatizzazione. Abbiamo proposto, inoltre, che i praticanti abilitati più meritevoli possano entrare a far parte dell’ufficio del Giudice per un certo periodo così come i migliori classificati all’esame di accesso alla professione, nello specifico, i primi venti. Ciò ovviamente comporterebbe un problema di remunerazione, ma ci sono fondi sia europei che regionali con cui si potrebbe ovviare alle spese. Infine pensiamo che debba andare avanti anche la nostra proposta sul giudice laico, per garantire a tale figura una retribuzione non a cottimo, ma una previdenza, e un inquadramento parificato a quello dei magistrati togati». C&P • GIUSTIZIA
La parola agli ordini • Paolo Giuggioli
Più dignità a giustizia e avvocatura I limiti strutturali del sistema giustizia rallentano lo sviluppo produttivo del Paese. Ecco perché occorre applicare un efficace sistema di verifica sull’operato degli uffici giudiziari. E in questo la categoria forense potrebbe rivestire un ruolo centrale di Paolo Giuggioli Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano er affrontare il tema della Giustizia occorre necessariamente partire dalla constatazione del carattere strutturale e generalizzato della crisi del sistema giudiziario, le cui radici hanno trovato finora terreno fertile nell’incapacità del sistema stesso e del mondo politico di dare risposte concrete e adeguate. L’obiettivo di un’efficace politica giudiziaria è quello di riorganizzare, potenziare e migliorare la capacità di risposta alla crescente domanda di giustizia proveniente dalla società. L’eccessiva durata dei processi, principale conseguenza dell’inefficienza della Giustizia, sta provocando danni enormi all’economia italiana, condizionando sensibilmente la competitività e la capacità di crescita delle nostre aziende. Ciò accade sotto diversi profili. I creditori, non potendo confidare su una tutela del proprio credito, sono tentati di concederne sempre meno o di pretendere tassi di interesse più elevati, influenzando il grado di facilità d'accesso al mercato dei capitali da parte degli investitori. Una Giustizia inefficiente scoraggia anche la creazione di nuovi progetti imprenditoriali e disincentiva gli investimenti delle aziende sia estere che nazionali. L’inadeguatezza del sistema, impedendo sostanzialmente la pronta tutela in sede giudiziaria, determina gravi distorsioni delle condizioni di mercato nonché limitazioni alla concorrenza, vanificando la funzione economico-sociale che l’accesso alla Giustizia dovrebbe sempre garantire. Al 30 giugno 2009 l’Italia vanta un arretrato composto da 5.625.057 processi civili e da 3.270.979 processi penali, per
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C&P • GIUSTIZIA
Paolo Giuggioli • La parola agli ordini
All’avvocatura dovrebbe essere consentito di intervenire con proprie valutazioni sul concreto andamento degli uffici giudiziari
un totale di quasi 8.900.000 processi complessivamente pendenti. Anche secondo il Rapporto annuale della Banca Mondiale Doing Business 2010, la lentezza dei processi è causa d’incertezza negli scambi e costituisce uno dei principali fattori di rallentamento dello sviluppo produttivo dell’Italia e di allontanamento degli investitori dal nostro mercato. Il nostro Paese si posiziona al 78° posto della classifica generale e al 156° per quanto riguarda lo specifico parametro relativo all’efficienza della giustizia civile. Le priorità su cui dobbiamo concentrarci sono diverse. A partire dalla separazione delle carriere, in quanto è necessario dare effettiva attuazione ai principi della terzietà del giudice, del giusto processo e della parità tra accusa e difesa avanti al giudice. La complessità dell’organizzazione giudiziaria impone anche di dare finalmente attuazione al decentramento del Ministero della Giustizia previsto dal d. lgs. 240/2006. Tale norma, a tutti gli effetti vigente, è rimasta però lettera morta. Infatti, non è stato dato seguito alle disposizioni relative all’istituzione delle Direzioni regionali del Ministero cui dovrebbero essere affidate le attribuzioni in materia di personale amministrativo e formazione, sistemi informativi automatizzati, risorse materiali, beni e servizi, statistiche. Inoltre non è stato dato seguito all’attivazione dell’Ufficio del direttore tecnico presso i distretti delle Corti d’appello di Milano, Roma, Napoli e Palermo, che consentirebbe l’efficiente organizzazione tecnica e gestionale dei servizi non aventi carattere giurisdizionale, nonché la gestione e il controllo delle risorse umane, C&P • GIUSTIZIA
finanziarie e strumentali di supporto agli uffici giudicanti e requirenti di ciascun distretto. Occorre inoltre restituire dignità al ruolo dell’avvocatura quale soggetto della giurisdizione, attraverso una più incisiva partecipazione dei suoi rappresentanti istituzionali all’interno del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari. Va altresì evidenziata l’importanza di dar vita a un serio ed efficace sistema di verifica della professionalità operante all’interno degli uffici giudiziari. È necessario mettere a punto un efficiente sistema di monitoraggio delle attività e della produttività degli uffici giudiziari che consenta di rilevare le situazioni di maggiore criticità e le performance d’eccellenza. Allo sviluppo di tali sistemi dovrebbe poter contribuire anche l’avvocatura cui dovrebbe essere consentito di intervenire con proprie valutazioni sul concreto andamento degli uffici giudiziari. A tale fine, occorre consentire alle rappresentanze istituzionali dell’avvocatura, quindi agli Ordini locali, l’accesso al sistema informativo della Giustizia per la consultazione delle banche dati delle cancellerie e la rilevazione statistica dell’andamento delle attività degli uffici. Più in generale, occorre fissare criteri uniformi di raccolta dei dati statistici, in modo da rendere omogenei e confrontabili i dati emergenti dalle elaborazioni statistiche periodicamente diffuse dal Ministero e dalle diverse sedi giudiziarie. Infine, è ormai indispensabile realizzare la riforma dell’ordinamento professionale forense, categoria che in Italia conta oltre 280mila iscritti. Il disegno di legge proposto dalla Commissione Giustizia del Senato nel novembre 2009, basato sul testo elaborato dall’Avvocatura, deve poter concludere l’iter parlamentare senza stravolgimenti che ne snaturino il contenuto. Occorre, in particolare, rendere operative le nuove regole disciplinanti le modalità di accesso alla professione e di svolgimento dell’esame di abilitazione, in modo da consentire la verifica delle effettive qualità e attitudini professionali degli aspiranti avvocati. Gli altri aspetti essenziali sui quali l’Avvocatura non intende retrocedere sono l’istituzione delle specializzazioni, la reintroduzione delle tariffe minime a salvaguardia della qualità della prestazione professionale, il procedimento disciplinare più efficiente, la formazione professionale continua per gli avvocati e la riserva professionale di consulenza legale, che assicura la maggiore protezione dell’affidamento del cittadino. 73
Tra politica e giustizia • Niccolò Ghedini
L’avvocato e il senso di utilità Avvocato e politico. Due professioni distinte ma con un’unica radice: la giustizia. Ne parla Niccolò Ghedini di Alessandro De Martino
ai primi processi come avvocato penalista d’ufficio all’ingaggio nei collegi di difesa delle principali cause che hanno visto coinvolto Silvio Berlusconi. Poi l’ingresso in politica, a fianco del Cavaliere, riprendendo una passione per la “cosa pubblica” che lo aveva portato, da studente, a militare nella Gioventù Liberale. Niccolò Ghedini si racconta nella sua duplice veste di uomo di legge e politico. Lei è avvocato e uomo politico. Cosa accomuna queste due professioni? «C’è una tradizione antica che accomuna l’avvocatura e la politica. Risale all’epoca romana. Alla base c’è il fatto che uno dei punti nodali della nostra vita è la giustizia. L’avvocatura si occupa dell’applicazione della legge in tutto l’arco della nostra vita. Chi si occupa di applicazione delle norme deve conoscere i bisogni che stanno dietro la loro creazione. La parentela tra chi fa le leggi e chi le applica si rivela, quindi, sia a livello etico che etimologico». Più uomini di legge tra i legislatori, quindi, equivale a maggiore garanzia per i cittadini di vedere risolti i loro problemi? «Non sempre. Purtroppo anche l’attenzione degli avvocati eletti in Parlamento finisce spesso per essere più attratta
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Niccolò Ghedini, deputato del Pdl e avvocato penalista
C&P • GIUSTIZIA
Niccolò Ghedini • Tra politica e giustizia
dagli aspetti “deteriori” delle dinamiche politiche a discapito delle problematiche tecniche». Lei si sente più a suo agio quando veste la toga o quando siede a Palazzo Madama? «Io mi sento a mio agio dappertutto. Amo molto la mia professione perché mi dà un senso di utilità. Lo stesso sentimento lo provo in modo notevole anche quando faccio politica. Soprattutto quando gli aspetti tecnici prevalgono su quelli politici». Come è cambiato il panorama forense dai suoi esordi a oggi? «Non sono uno di quelli che considerano i tempi passati sempre migliori di quelli attuali. Quello che posso dire è che, quando ho iniziato io, c’erano molti meno avvocati di adesso. Era più facile che ci conoscessimo tra di noi. Almeno tra noi penalisti, che non eravamo moltissimi. Al di là di questo fenomeno non vedo grandi cambiamenti. Però ritengo che la crescita del numero degli avvocati ponga un problema di qualità degli stessi. Per questo il Consiglio Nazionale Forense si sta impegnando molto nell’organizzazione di corsi, con l’obiettivo appunto di innalzare la qualità delle nuove leve». Recentemente qualcuno ha affermato che l’aumento degli avvocati induce una crescita delle cause. C&P • GIUSTIZIA
«Non credo all’equazione più uomini di legge più vertenze legali. Certo è che è aumentato il tasso di litigiosità. A fronte di questo bisognerebbe aumentare il ricorso agli arbitrari, all’arbitraria giurisdizione. In altri Paesi esistono meccanismi più semplici e rapidi per affrontare le controversie. E la spesa pro-capite per risolvere le liti è inferiore». Tornando a lei, qual è stato il suo primo caso? «Come tutti gli avvocati, anch’io ho iniziato seguendo difese d’ufficio. L’ho fatto lavorando nello studio avviato da mio padre, anche lui avvocato penalista, che però al momento dell’inizio della mia attività era già deceduto. Lo studio era stato preso in mano da mia sorella, e le prime esperienze le ho fatto con un altro avvocato, il professor Piero Longo. Uno dei primi casi fu la difesa di un rapinatore seriale, un uomo che aveva effettuato 17 rapine ad altrettanti uffici postali». Quello più importante? «Rientrava nella stessa categoria criminale. Si trattò del caso Ludwig (sigla dietro la quale stavano due ragazzi della Verona bene che, tra il 1977 e il 1984 si resero responsabili di 15 omicidi accertati. Soprattutto di omosessuali, prostitute, tossicodipendenti e appartenenti al mondo religioso, ndr.)». Come è maturata la sua scelta di scendere in politica? «Ho sempre fatto politica, fin da ragazzino. Le prime espe75
Tra politica e giustizia • Niccolò Ghedini
Ho lavorato in diversi processi di respiro europeo e posso affermare che le basi del nostro diritto non hanno niente da invidiare a quelle degli altri Paesi
rienze le ho vissute come militante nella Gioventù Liberale. Un’esperienza che ho interrotto dopo la laurea. Quindi ho iniziato a occuparmi di politica di categoria, a cominciare dalle camere penali fino a diventare segretario generale dei penalisti. Poi ho conosciuto Berlusconi per motivi di lavoro, legati al processo Sme. Da lì è nata anche un’amicizia e poi anche la collaborazione sul piano politico». In Italia il rapporto tra politica è giustizia è molto delicato. Alcuni sottolineano che il motivo sia da ricercare nella totale autonomia della magistratura. Secondo lei è così? «La magistratura deve essere autonoma: se finisse nelle mani della politica sarebbe deleterio. E deve essere preservata l’obbligatorietà dell’azione penale. Il vero problema è che i giudici si giudicano tra loro e la magistratura è quella che si usa chiamare una autodichìa. Quando il loro operato deve essere valutato, vanno sempre davanti a un collega. Il Consiglio Superiore della Magistratura non è un organo terzo. È governato da magistrati e non è estraneo da logiche di carriere. Ci vorrebbe un organo veramente autonomo. La separazione delle carriere non è sufficiente per limitare questo problema. I magistrati diverrebbero sì più indipendenti ma resterebbero “irresponsabili”. Oggi non ci rimettono mai neanche a fronte di casi gravissimi. Accade troppo 76
spesso che si mette in carcere gente innocente e poi la si lascia lì. Quando poi la giustizia si occupa della politica possono venire fuori contrasti enormi. Un magistrato può fare cadere un governo. Per ritrovare un esempio notevole di come il comportamento dei magistrati può avere una valenza politica basti ricordare l’avviso di garanzia recapitato a Silvio Berlusconi nel 1994 proprio mentre presiedeva la riunione del G7 a Napoli e il caso Mastella». C’è qualche modello estero a cui si ispirerebbe per le riforme necessarie? «Ho lavorato in diversi processi di respiro europeo e posso affermare che le basi del nostro diritto non hanno niente da invidiare a quelle degli altri Paesi. Quelli che ci servirebbero sono alcuni aggiustamenti in armonia con la nostra Costituzione. La Corte d’Assise, per esempio, si basa su una legge del 1913. Nel nostro ordinamento i giudici popolari sono equiparati a quelli togati.Trovo più giusta la formula anglosassone della giuria popolare, chiamata a giudicare il fatto dopo che i giudici hanno affrontato gli aspetti tecnici per i quali sono più competenti». Le piacerebbe diventare il prossimo Guardasigilli? «Assolutamente no, perché amo moltissimo il mio lavoro di avvocato e non potrei praticarlo da ministro. In compenso mi piace anche fare politica e continuerò a farla». C&P • GIUSTIZIA
Il fascino dell’avvocatura • Gaetano Pecorella
Quarant’anni di intelligenza forense Un penalista deve studiare e avere intuito. Gaetano Pecorella ripercorre la sua lunga carriera. Tra ricordi, riflessioni e scelte importanti di Gabriella Spitaleri
on era nei miei propositi diventare avvocato. Il mio sogno era fare lo psichiatra». Parole che hanno un suono insolito se a pronunciarle è Gaetano Pecorella, deputato azzurro e penalista milanese il cui nome è legato ai grandi processi del nostro Paese: da Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din al caso di Patrizia Gucci, dalla difesa di Renato Squillante prima e di Silvio Berlusconi poi, passando per cause di uomini e donne che, nel bene e nel male, sono stati protagonisti della storia processuale degli ultimi quarant’anni. La voce narrante non è quella dell’avvocato i cui toni severi e perentori risuonano nelle aule di tribunale. Ma è la voce pacata e sincera dell’uomo che, guardandosi indietro, coglie l’occasione per riflettere sul suo ruolo professionale che non si perfeziona solo nell’applicazione sistematica delle leggi, ma che si alimenta anche di una forte componente emotiva. Il risultato di questo connubio è ciò che egli stesso definisce «intelligenza forense», caratteristica che individua nei grandi giuristi del secolo scorso, da Gian Domenico Pisapia, il “grande vecchio” della procedura penale italiana, a Giacomo Delitala, riconosciuta icona di diverse generazioni di penalisti. «Maestri di vita e di pensiero – sottolinea Pecorella – cui devo tutto quello che ho imparato dal punto
N Gaetano Pecorella, avvocato e deputato del Pdl
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C&P • GIUSTIZIA
Il fascino dell’avvocatura • Gaetano Pecorella
La prima regola per essere un buon avvocato è lo studio. Ogni processo deve essere esaminato nei dettagli. Senza tralasciare nulla
di vista professionale e umano». Quali sono le competenze che un bravo avvocato deve possedere? «La prima regola per essere un buon avvocato è lo studio. Ogni processo deve essere esaminato nei dettagli. Senza tralasciare nulla. È stato Gian Domenico Pisapia a insegnarmelo. “Devi leggere anche la copertina” mi ripeteva sempre. Perché solo se hai una visione globale e completa dei fatti puoi svolgere al meglio il tuo lavoro. Un’altra dote importante è l’umiltà. E fin troppo spesso noto come alcuni avvocati, soprattutto penalisti, assumano in aula un atteggiamento arrogante. Ma quando si ha in mano il destino di un essere umano non ci si può permettere il lusso di pavoneggiarsi con la toga». Esistono anche delle caratteristiche innate? «Sì. Innanzitutto l’intuito. Inteso come la capacità di capire chi hai di fronte: il tuo cliente, il giudice, i testimoni. Poi viene la correttezza nei confronti del magistrato: perché un avvocato corretto sarà rispettato e, con lui, saranno rispettate le sue tesi. Per quello che mi riguarda, curo molto il rapporto personale con coloro che assisto, perché sono consapevole che spesso i miei clienti non hanno semplicemente bisogno di una difesa tecnica ma anche, o soprattutto, di sostegno e comprensione in un momento così C&P • GIUSTIZIA
delicato della loro vita». Sembra riaffiorare il suo interesse per la psiche umana. Come mai ha deciso di dedicarsi all’avvocatura abbandonando la sua prima vocazione, quella di diventare psichiatra? «Terminato il liceo classico mi iscrissi alla facoltà di Medicina. Avevo un’idea “romantica” di questa professione, idea che si è scontrata inesorabilmente con la realtà. Il mondo della medicina implica un certo distacco nei confronti dell’essere umano, giustificabile con il fatto che un medico, per svolgere al meglio il suo lavoro, non deve essere emotivamente coinvolto. Ma questo atteggiamento era insopportabilmente lontano dal mio modo di essere. Per questo motivo abbandonai Medicina e mi iscrissi a Giurisprudenza. Una materia che mi avrebbe comunque consentito di restare in contatto con le problematiche dell’uomo». Il suo nome oggi è legato a cause di rilevanza nazionale. Eppure la sua carriera è iniziata in sordina. «Dopo la laurea a pieni voti in diritto penale nel 1963 decisi che, per un po’, il mio mondo sarebbe stato quello dell’università. Ho fatto il ricercatore per qualche anno e, nel 1970, sono diventato professore di ruolo. Ho insegnato a Milano, sia all’interno della facoltà di Giurisprudenza che 79
Il fascino dell’avvocatura • Gaetano Pecorella
Noto con rammarico che i magistrati, dimenticandosi che hanno nelle loro mani la vita di un uomo, non si preoccupano di andare oltre i fatti
in quella di Scienze politiche». Come è avvenuto il passaggio dalle aule dell’università a quelle dei tribunali? «Iniziai l’attività professionale spinto da due episodi, entrambi di natura politica, che mi toccarono molto da vicino. Un mio amico avvocato si ritrovò erroneamente coinvolto nel processo che seguì la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Mi sentii in dovere di patrocinare la sua difesa e ottenni la piena assoluzione. L’altro avvenimento riguardava la vicenda di un mio studente colpito a morte durante una manifestazione. La sua famiglia mi chiese di occuparmi del caso. Così vestii la toga e iniziai la mia carriera da penalista». Una carriera molto intensa. «I primi anni mi dedicai soprattutto a processi legati a questioni di principio, reati politici, sulla libertà di stampa, sul diritto di contestazione. Poi arrivarono i grandi casi come quello di Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din. La difesa di Renato Squillante prima e di Silvio Berlusconi poi e, oggi, quella di Danilo Coppola. Ma ho anche preso parte a processi contro le cosche mafiose e a casi di sequestri di persona». Cosa ricorda con maggior soddisfazione di quei tempi? «La possibilità che ho avuto di confrontarmi con alcune persone protagoniste di gravi reati. Erano gli anni del terrorismo ed ebbi modo di aprire con loro una sorta di “dibattito costruttivo” sull’errore storico di queste forme di violenza fine a se stessa. E vedere che per alcuni di loro è 80
stato possibile dissociarsene. Questo è stato il periodo più bello dal punto di vista umano». Cos’è cambiato da quando era un giovane avvocato? «A quei tempi difendevo studenti e, in generale, persone che si erano macchiate sì di reati odiosi, ma credendo in un ideale. Adesso i criminali operano con cinismo, con una crudeltà che non trova alcuna giustificazione, nemmeno nella loro mente. Non c’è più rispetto per l’essere umano». Ricorda un processo in particolare che le ha dato un’emozione forte? «La difesa di Patrizia Reggiani, accusata di essere la mandante dell’omicidio del marito Maurizio Gucci. Era un processo in Corte d’Assise e la tensione era palpabile. Minuto dopo minuto, si materializzava la possibilità di una condanna o dell’assoluzione, di un ergastolo o di una pena minore. Un altro processo davvero straordinario dal punto di vista emotivo è stato quello in cui difendevo Ovidio Bompressi accusato dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Lì ho avuto la piena consapevolezza di come un intervento giusto o sbagliato possa cambiare le sorti di un processo». Quest’ultima è una riflessione che si può estendere anche nei confronti di chi la giustizia la deve applicare? «Noto con rammarico che i magistrati, dimenticandosi che hanno nelle loro mani la vita di un uomo, non si preoccupano di andare oltre i fatti. Non cercano di capire C&P • GIUSTIZIA
Il fascino dell’avvocatura • Gaetano Pecorella
chi hanno di fronte, di comprendere le motivazioni del gesto criminale, mostrando indifferenza. Lo stesso codice penale prevede che un magistrato approfondisca la personalità di un imputato, che gli chieda cosa facesse prima di commettere il reato, che racconti quali fossero i suoi rapporti con la famiglia, con gli amici. Un magistrato deve preoccuparsi di conoscere chi sta giudicando. Ma oggi questo atteggiamento è una rarità». Cosa la affascina maggiormente del lavoro della professione? «Capire. Capire per convincere e per vincere». Qual è, invece, l’aspetto che le piace meno? «Il momento in cui viene letta la sentenza. Ancora oggi quando arriva la lettura del verdetto, in modo un po’ vigliacco invento una scusa per abbandonare l’aula. Per me è un momento molto stressante. E la motivazione mi è molto chiara: in quel momento si decide la vita di un essere umano. Non si può restare indifferenti». C’è una difesa del passato che le sarebbe piaciuto assumere? «Tutti i grandi processi in Corte d’Assise, quelli che ormai non ci sono più. Negli anni ho avuto modo di prendere parte ai processi storici come quello riguardante la strage di Piazza della Loggia o quella di Piazza Fontana. Una diC&P • GIUSTIZIA
fesa che mi sarebbe piaciuto assumere? Sicuramente quella de L’Espresso accusato di aver incolpato il generale Giovanni De Lorenzo di tentato golpe. Una difesa assunta proprio da Gian Domenico Pisapia. Si trattava di un processo che esaminava a fondo i lati oscuri del nostro Paese e ne rimasi affascinato. Ma all’epoca ero solo un giovane neolaureato». Ci sono casi in cui si è rifiutato di difendere un cliente? «Ho una regola. Non assumo la difesa di una persona se non sono profondamente convinto della sua innocenza. Ci sono alcuni reati che mi ripugnano, soprattutto se coinvolgono donne e bambini. E se dovessi difendere una persona di cui dubito, non svolgerei bene il mio lavoro perché in fondo, una parte di me, vorrebbe che fosse condannata. In quei casi preferisco lasciare la difesa a un collega». Guardandosi indietro, cambierebbe qualcosa nella sua vita professionale? «Se potessi tornare indietro, interverrei sulle cause alle quali non ho prestato sufficiente attenzione e su quelle in cui, al contrario, mi sono fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo. Ma questa è la vita. E, a ben guardare, non ho alcun rimpianto». 81
Grandi processi • Gioacchino Sbacchi
Il mio ideale di libertà
Ha avuto importanti maestri dai quali ha imparato i fondamenti della professione. Rigore e severità verso sè stessi. Le riflessioni di un grande avvocato: Gioacchino Sbacchi di Antonella Girardi
processi mediatici. Quelli che dalle aule di tribunale passano senza possibilità di appello alle corti televisive. Ma quali e quante sono state le stagioni dei grandi processi, in Italia? E chi sarebbe in grado di ricordarne qualcosa al di là di condanne, opinioni e assoluzioni consegnate alla memoria collettiva attraverso pezzi di cronaca? Non si tratta degli infiniti dibattimenti condotti fuori dalle aule di giustizia, ma delle pretese disquisizioni sulla giustizia stessa. Magari, sulle sue forme processuali. Prova a farlo Gioacchino Sbacchi, penalista palermitano con una lunga carriera in processi eccellenti. Avvocato Sbacchi, è possibile ricostruire la storia d’Italia a partire dai grandi processi? «È una bella pretesa volere riscrivere la storia del Paese attraverso i grandi processi come, per esempio, quello a Giulio Andreotti. Penso che sia un’idea sbagliata, meglio non farlo proprio. Ho avuto un impatto violento con un libro, La vera storia d’Italia, che è una sintesi del materiale raccolto sul processo a carico del senatore a vita. Ciò che mi sgomenta è che gli autori trattano la materia come se nell’aula bunker fosse stato possibile rintracciare tutta la trama e l’ordito di complotti, assassinii e collusioni tra i poteri forti di un certo periodo della Repubblica. Invece la trattazione
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Sopra, l’avvocato Gioacchino Sbacchi
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C&P • GIUSTIZIA
Grandi processi • Gioacchino Sbacchi
Penso che sia necessaria una riforma per temperare i poteri assoluti del pm e che vada anche rivisitata la materia delle prove
non è completa, perché il materiale è unilaterale: il Procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli e i suoi Pm propongono una loro visione e una valutazione personale del materiale raccolto che è solo una parte della storia. A monte di tutto questo c’è poi una tesi che considero molto fuorviante, quella che io chiamo l’idea del “grande vecchio” che muove le fila. La mafia non è questo ma un’organizzazione criminale il cui apparato tiene in scacco lo Stato. Lo sbaglio sta nella pretesa di uscirne dando un giudizio politico. È questo che io riassumo nell’errato concetto sincretico del grande vecchio». Come si è formato in lei il concetto di giustizia? «Io non ho una tradizione familiare nell’avvocatura. Mio padre era un commerciante che ha allevato quattro figli, insegnandomi il lavoro e la dedizione assoluta. Mi ha dato una scala di valori, sui quali ho costruito con entusiasmo giovanile il mito dell’uomo libero che tutela con ogni mezzo l’ideale di libertà di cui è portatore. E l’ho identificato con la figura dell’avvocato. Io non ho mai pensato di fare il magistrato. Attraverso l’ammirazione per le figure di incomparabili professionisti del secolo scorso, il mio entusiasmo ha continuato ad alimentarsi. Penso a Francesco Carnelutti e ad Alfredo De Marsico, impareggiabili personaggi che hanno onorato l’avvocatura in Italia, scrivendone la storia. C&P • GIUSTIZIA
Ecco, così è nata l’idealità giovanile del sistema di giustizia, coltivata attraverso le letture e lo studio universitario. Ma, già dal secondo anno di università, la teoria si è congiunta alla pratica: sono entrato nello Studio di Paolo Seminara, che posso considerare il mio maestro, per confrontarmi il prima possibile con la realtà». Quali sono state le difficoltà che ha incontrato nel lavorare a Palermo? «Lo studio delle carte è alla base di tutto, a inizio o a fine carriera, a Palermo come a Torino. Bisogna leggerle, dalla prima all’ultima. Quando ho iniziato, l’avvocato stava in cancelleria e schizzava appunti personali, apprendendo nell’immediato tutte le fasi del processo con le relative mancanze e storture. Il mio maestro mi ha insegnato a essere come lui: uno studioso rigoroso ed estremamente severo con se stesso. Sono arrivato così al mio primo processo». Ipotizzando un “punto di vista siciliano”, quale immagine di Palermo verrebbe fuori dalla storia processuale locale? «Siamo in una regione che non ha visto direttamente gli effetti del terrorismo e del Sessantotto. Gli anni Settanta segnano in Sicilia l’attenzione della magistratura inquirente per la Cosa pubblica, quindi sono i reati contro la pubblica amministrazione a essere all’ordine del giorno, sommando 85
Grandi processi • Gioacchino Sbacchi
gli aspetti contingenti del “posticino garantito per il figlio” alle distorsioni vere e proprie, come il sacco di Palermo: migliaia di licenze concesse in pochi anni per costruire palazzoni al posto delle splendide ville Liberty del centro cittadino. Ma i processi nella sostanza non ebbero grossi risultati: qualche condanna per corruzione e basta. Mentre fu proprio da questo episodio che il fenomeno mafioso cominciò a crescere in modo spaventoso. Palermo ha conosciuto sindaci che facevano i propri affari, tanti processi e pochi risultati. Spesso si è confuso il giudizio politico con quello penale, senza ottenere niente sul piano della giustizia». In tutto questo s’intuisce una incrinatura di fondo. «In Sicilia si sono sempre pagate le spese della sottovalutazione della mafia e delle strutture inadeguate per combat-
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terla: le commissioni antimafia non hanno risolto niente. Si riteneva, secondo una sconsiderata scelta di politica, che i mafiosi si uccidessero tra loro. Quindi si rimaneva quasi a guardare. Poi nel 1969 la strage di viale Lazio ha svegliato tutti e i fatti degli anni Settanta e Ottanta hanno aperto il sipario sul vero palcoscenico siciliano. Nascono i primi processi di mafia, ma la risposta giudiziaria continuava a essere una lotta contro i mulini a vento: processi su prove articolate grazie alle rivelazioni di confidenti e sforzi inauditi da parte delle forze dell’ordine. Ho visto queste cose da vicino. Ho assunto la difesa nel processo alla strage di viale Lazio e ho fatto anche il cosiddetto processo ai 114, prima svolta epocale nei processi di mafia. L’idea brillante venne però al giudice Falcone, durante gli anni Ottanta, quelli del delirio di onnipotenza mafiosa. Il denaro lascia traccia e allora si possono ottenere prove attraverso la ricostruzione dei rapporti fra i vari soggetti basati proprio sui passaggi di denaro individuati». Venendo alla professione, a che punto pensa possano spingersi le indagini dell’avvocato? «Le indagini difensive passano spesso attraverso i consulenti, C&P • GIUSTIZIA
Grandi processi • Gioacchino Sbacchi
In Sicilia si sono sempre pagate le spese della sottovalutazione della mafia e delle strutture inadeguate per combatterla: le commissioni antimafia non hanno risolto niente
in caso di necessità bisognerebbe quindi assicurarsi livelli di consulenza altissimi. L’imputato lo può sempre sostenere questo sforzo economico? Non si può guardare alle indagini difensive come al toccasana, il pubblico ministero dispone di mezzi smisurati e può assicurarsi immediatezza di risposte a qualsiasi livello di qualità. Pensiamo poi che se il pm convoca una persona informata sui fatti, questa è obbligata a rispondere, mentre può rifiutarsi di farlo nei confronti dell’avvocato. Nella pratica, non c’è comunque condizione di parità tra le parti. Io penso che il sistema giudiziario presenti delle distorsioni. Un’indagine preliminare, per come è congegnata oggi, è la visione particolare del pm: una raccolta di carte che segue un determinato percorso, il quale di sovente si traduce in una richiesta di provvedimenti cautelari. Credo che occorra intervenire proprio sull’indagine preliminare, perché si assicuri la difesa al di là di quelli che sono gli atti cosiddetti assistiti, i soli a cui può partecipare il difensore. Il pm può svolgere fino a due anni di indagini, senza che nessuno sappia niente e può chiedere l’arresto a seguito di un’attività svolta nel segreto più assoluto». Lei cosa modificherebbe? C&P • GIUSTIZIA
«Se il pm conduce alcune indagini rispetto alle quali il giudice non conosce nulla o quasi, sarei dell’opinione che non sia il Gip a dover emettere il provvedimento cautelare, sommerso all’improvviso da un oceano di carte da vagliare in tempi brevi. Situazione ardua per effettuare un controllo a tutela del cittadino, spesso accusato di reati gravissimi che postulano interventi immediati. I Gip sono oltretutto in rapporto numerico di inferiorità, a Palermo sono una decina a fronte di più di settanta magistrati. È mia opinione che la materia della custodia cautelare debba essere riformata. Il provvedimento di restrizione della libertà a garanzia del cittadino indagato dovrebbe essere sottratto al Gip e affidato a un tribunale diverso da quello del riesame, cioè un organo collegiale non condizionato dalle tempistiche». E quali riforme proporrebbe? «Penso che sia necessaria una riforma per temperare i poteri assoluti del pm e che vada anche rivisitata la materia delle prove. Nell’ordinamento processuale è stata introdotta una sorta di prova legale in materia di dichiarazioni rese da coimputati, collaboratori di giustizia nella quasi totalità dei casi. Questa si presta a valutazioni soggettive e illiberali con quanto ne consegue sul piano della giustizia sostanziale. Comunque è proprio tutta la strutturazione del processo penale che andrebbe rivista. Posso dire che il processo Contrada è stato proprio la somma algebrica delle peggiori deformazioni processuali. Se si creano regole di valutazione della prova per cui basta la somma di dichiarazioni inutili, inconsistenti, per determinare la colpevolezza di un cittadino, è chiaro che si possa soccombere. Penso che sia anche necessario dare attuazione ai principi fissati dall’articolo 111 della Costituzione, dalla tutela del contraddittorio alla garanzia del diritto alla prova, fino all’effettivo esercizio del diritto di difesa e della parità delle parti. Tutto questo è però rimasto lettera morta». 87
Il ruolo del penalista • Franco Coppi
La passione della giustizia Ha assunto la difesa di imputati eccellenti così come di manager, imprenditori o semplici cittadini. Con un convinzione: «Ciò che mi conquista dell’avvocatura – spiega Franco Coppi – è la possibilità di contrastare un’ipotesi accusatoria per contribuire a evitare che un’ingiustizia possa essere consumata» di Gloria Baldini n’avvocatura “artigianale”, quasi in bianco e nero, fatta sulle carte. Una filosofia che si respira già entrando nel suo studio, condiviso con pochi e fidati collaboratori. «Mi piace poter seguire i processi dalla prima all’ultima battuta – ammette Franco Coppi – e confrontarmi alla pari con i collaboratori, ai quali chiedo soltanto preparazione, passione e spirito di sacrificio». E questo metodo di lavoro si traduce anche in un modo d’essere. Tutt’altro che verboso, il noto penalista italiano fa suo uno stile essenziale, stringato. È chiaro, arriva sempre dritto al punto. Forse perché è abituato a dividere la sua professione tra le aule dei tribunali e quelle dell’università. Ad arringare e, al contempo, a spiegare. Due facce di una stessa professione. «Una lezione ben riuscita, un allievo che elabora una buona tesi o vince un concorso universitario – assicura – sono grandi soddisfazioni. Pari a quelle che si possono provare quando, sapendo di aver combattuto una giusta battaglia, si ha la consapevolezza di aver contribuito all’affermazione della verità e della giustizia». Professor Coppi, la docenza universitaria quanto è importante nella sua vita? «Il rapporto con gli studenti è ricco di un particolare significato umano. Esso obbliga il docente a rinnovarsi con-
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C&P • GIUSTIZIA
Franco Coppi • Il ruolo del penalista
tinuamente e a mettersi in discussione e lo aiuta a sentirsi coetaneo dei propri allievi. È questo forse il profilo più significativo dell’esperienza universitaria». In cosa sono diversi gli studenti di oggi da quello che era lei? «Nei miei allievi vedo le stesse speranze, preoccupazioni e timori che avevo anch’io quando frequentavo l’università. Forse il livello della preparazione di base, fatte le debite eccezioni, oggi è meno ricco di quello di un tempo; questo rende più difficile e meno proficuo il rapporto tra docente e studenti». Lei ha raccontato di avere intrapreso l’avventura forense “tanto per fare qualcosa”. A parte la scelta fortunata, cosa l’ha conquistata e cosa la continua a conquistare della professione? «La possibilità di rifiutare tesi preconcette e di contrastare un’ipotesi accusatoria, esaltando anche il particolare più piccolo, in favore dell’imputato per contribuire a evitare che un’ingiustizia possa essere consumata». A proposito di ingiustizie, spesso per poter contare su di una buona difesa, serve molto denaro. Questo significa che la legge funziona meglio per chi è ricco? «Una difesa efficiente in un processo di media complessità C&P • GIUSTIZIA
costa indubbiamente parecchio e non c’è dubbio che chi ha maggiori disponibilità economiche può sostenerne meglio il peso.Vale la pena di aggiungere che non sempre gli onorari del difensore costituiscono la voce più cara». Dalla politica all’alta finanza, nella sua carriera ha avuto spesso a che fare con i cosiddetti poteri forti. Ma quali sono le loro maggiori debolezze? «L’incapacità, specialmente nei momenti più delicati e nei quali maggiormente si sente la necessità di assumere responsabilità, di respingere soluzioni demagogiche, di rispondere “no” a richieste farneticanti e di assumere decisioni anche impopolari nell’interesse generale, mettendo da parte quello personale o della propria parte». Lei ha seguito tanti processi celebri che hanno fatto storia. Che Italia le hanno restituito? «Nella misura in cui è lecito generalizzare, lo spaccato che emerge, specialmente nei processi in materia di criminalità economica e dei colletti bianchi, è quello di un Paese nel quale la corruzione è molto praticata, i furbi e gli improvvisatori hanno rapidi successi, e altrettanto rapide cadute devastanti per la collettività, per l’efficienza degli apparati pubblici e per le loro capacità di vigilanza, controllo e intervento piuttosto limitate». C’è un caso, una difesa, che nel passato le sarebbe piaciuto assumere? «Ne ricordo qualcuno, ma sono stati trattati da avvocati così grandi da farmi passare qualsiasi voglia». Quanto è importante il rapporto umano con l’assistito? «Non è necessario un particolare feeling con l’assistito. L’importante è che non sia del tutto antipatico e che soprattutto sia corretto nei confronti del proprio legale e consapevole dei limiti che lo stesso suo difensore deve osservare nell’esercizio della difesa». In due casi eccellenti ha rinunciato alla difesa. Cosa viene a mancare quando questo accade? «Le ragioni per le quali si rinuncia alla difesa possono essere le più varie. In genere può intervenire una divergenza di opinioni sulla linea di difesa da seguire e in questo caso deve prevalere la volontà dell’assistito». 89
Legalità • Alfredo Mantovano
Togliere risorse alla criminalità a favore del territorio
Le priorità del ministero dell’Interno per la sicurezza si fondano in particolare su quattro campi ben precisi. Il sottosegretario Alfredo Mantovano elenca le attività svolte fino a oggi e i risultati ottenuti di Nicolò Mulas Marcello
olti sono i punti su cui il ministero dell’Interno ha basato le proprie attività dall’inizio della legislatura a oggi. Attraverso modifiche legislative, le iniziative proposte e poi approvate dal Parlamento hanno portato effetti in vari ambiti: dalla lotta alla mafia fino alla sicurezza stradale. La confisca di ingenti patrimoni alle associazioni criminali sono una prova tangibile del lavoro svolto che continua con la collaborazione delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria. Anche in Puglia l’attività di lotta alla criminalità è costante e si sta investendo in maniera massiccia sulla sicurezza. L’obiettivo è quello di sottrarre ossigeno alla mafia per ridarlo al territorio, anche sotto forma di investimenti per combatterla più efficacemente. Come sottolinea il sottosegretario Alfredo Mantovano: «Togliere risorse alla criminalità e consegnarle all’autorità giudiziaria e alle forze di polizia operanti nella medesima area geografica nella quale avvengono i sequestri e le confische non è solo una opportuna partita di giro, ma è un modo di riappropriazione del territorio da parte delle istituzioni». Se dovesse stilare un bilancio delle attività del ministero dell’Interno dall’inizio della legislatura in materia di sicurezza cosa emergerebbe? «Si è lavorato su quattro priorità: il contrasto alle mafie, la pre-
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venzione dell’immigrazione clandestina, la sicurezza urbana e la sicurezza stradale. Per ciascuna di queste voci il governo ha proposto e il parlamento ha approvato significative modifiche legislative, mentre si sono intensificate le iniziative sul territorio. I risultati non sono mancati, grazie anzitutto al lavoro delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria: l’aggressione alla criminalità organizzata ha visto dall’avvio del governo in carica, la cattura di 26 dei 30 latitanti più pericolosi (uno al mese), ma soprattutto la sottrazione alle mafie di beni mobili, immobili, aziende e risorse finanziarie per 12 miliardi di euro tra sequestri e confische. Privare le organizzazioni mafiose dei capi e delle ricchezze equivale a metterle in ginocchio. E non ci accontentiamo di successi parziali; se soddisfa vincere la battaglia di patrimoni cospicui che passano dalle cosche allo Stato, il nostro obiettivo finale è di vincere la guerra contro mafia, camorra e ‘ndrangheta». Nello specifico qual è la situazione pugliese per quanto riguarda la criminalità e quali risultati sono stati raggiunti fino a oggi? «La situazione pugliese è varia: non si può mettere tutto sullo stesso piano. La classifica delle aree a più forte penetrazione criminale vede al primo posto il Gargano, per una serie di ragioni, in primis giudiziarie, che hanno provocato deficit non semplici da recuperare. Preoccupano anche alcuni territori C&P • GIUSTIZIA
Alfredo Mantovano • Legalità
Dall’avvio del governo, l’aggressione alla criminalità organizzata ha visto la cattura di 26 dei 30 latitanti più pericolosi
dell’entroterra barese, diventati basi operative per clan che hanno ripiegato dal capoluogo regionale, su cui si sta investendo massicciamente in sicurezza. Dovunque circolano quantità di denaro di provenienza illecita, che vengono reimpiegate o in attività lecite, a cominciare dagli insediamenti turistici, o in settori borderline, come le sale da gioco e le slot machine, o in giri di usura, resi più floridi dalla crisi e dai rigidismi del sistema bancario. Preoccupa anche cogliere, in qualche fascia di popolazione o in qualche testata giornalistica locale, elementi di consenso sociale verso i nuovi soggetti criminali». Sui respingimenti i numeri sembrano dare ragione a Maroni: lo sbarco dei clandestini è diminuito del 96%. In che modo si è riusciti a raggiungere questo risultato? Qual è stata la strada tecnicamente più efficace intrapresa in questo senso? «Si è trattato di una paziente azione di governo, che ha preso le mosse da un accordo concluso nel dicembre 2007 fra i ministri dell’Interno di Libia e Italia (ministro per l’Italia era ancora Amato), e ne ha cercato con tenacia l’applicazione. La chiave risolutiva è simile a quella che, sempre con un governo guidato da Berlusconi, ha permesso nel 2002 di bloccare gli arrivi dall’Albania, e subito dopo i transiti dal Canale di Suez: e cioè l’accordo con gli Stati di passaggio. Nel caso della Libia, C&P • GIUSTIZIA
non si tratta di respingimenti in senso tecnico, ma della riconsegna dei barconi con i clandestini alle autorità di Tripoli, che segnalano le partenze, e ciò accade nelle stesse acque libiche, o in acque internazionali». Il procuratore di Bari Laudati propone una sorta di autofinanziamento della giustizia penale attraverso le risorse provenienti dal sequestro dei beni alla criminalità organizzata. Cosa ne pensa? «È un’ottima proposta che va resa concreta, se necessario, con una rettifica normativa, e comunque con protocolli di intesa che coinvolgano tutte le parti in causa. Togliere risorse alla criminalità e consegnarle all’autorità giudiziaria e alle forze di polizia operanti nella medesima area geografica nella quale avvengono i sequestri e le confische non è solo una opportuna partita di giro, ma è un modo di riappropriazione del territorio da parte delle istituzioni». L'Agenzia nazionale per la confisca dei beni alla mafia è una novità introdotta dal ministero dell'Interno. È possibile tracciare già un primo bilancio? «È necessario attendere ancora qualche mese. Costituire, come abbiamo fatto, l’Agenzia con un decreto legge e affrontare in corso d’opera i problemi organizzativi che una struttura così impegnativa ha avuto il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Dalla piena operatività dell’Agenzia, che tuttavia ha necessità di qualche mese, ci si attende nella fase del sequestro, che continua a svolgersi sotto il controllo dell’autorità giudiziaria e col ruolo deattivo dell’amministratore nominato dal giudice, soluzioni ai problemi più seri che interessano soprattutto le aziende. Nella fase della confisca invece l’obiettivo è far sì che la destinazione dei beni si realizzi abbattendo tempi che finora sono stati troppo lunghi». 93
Emergenza carceri • Maria Elisabetta Alberti Casellati
Piano strutturale del governo Una popolazione carceraria di 67mila persone a fronte di una capienza regolamentare di 45mila unità. Queste le cifre di un dramma che sembra endemico alla storia italiana. Il sottosegretario al ministero della Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati, commenta i dati e spiega i piani del ministero di Luca Boccaletti
ono nella memoria di ciascuno di noi le notizie di cronaca che con cadenza settimanale, se non giornaliera, parlano di suicidi negli istituti di pena italiani. Una realtà dura quella del carcere, aggravata da un sovraffollamento che produce nei detenuti condizioni di alienazione e disagio psicologico devastanti e che mina la possibilità di un reinserimento sociale. Nel passato, anche recente, ogni qualvolta il numero dei detenuti diventava oggettivamente ingestibile, si preferiva un’amnistia o un indulto generale (ben 30 negli ultimi 60 anni) invece di affrontare concretamente un problema divenuto dramma costante. È per questi motivi che Maria Elisabetta Alberti Casellati, sottosegretario alla Giustizia con delega all’edilizia carceraria, si trova infatti ad affrontare e risolvere il sovraffollamento cronico negli istituti di pena italiani. Il recente piano varato dal governo prevede una riforma strutturale del settore con un investimento di 600 milioni di euro per aumentare la ricettività dei 360 istituti di pena, potenziare gli effettivi di polizia penitenziaria e, contestualmente, ripristinare quelle condizioni minime di umanità che spettano a qualunque persona. Quali sono i numeri dell’emergenza carceri in
S Sopra, Maria Elisabetta Alberti Casellati
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C&P • GIUSTIZIA
Maria Elisabetta Alberti Casellati • Emergenza carceri
La certezza della pena e l’espiazione degli errori sono elementi cruciali per la tenuta di una società, ma la privazione della libertà non è fine a se stessa perché funzionale alla rieducazione
Italia? «Oggi i detenuti sono poco più di 68mila su una capienza regolamentare di 44.608 posti e una tollerabilità stimata in 67mila unità. Le cifre parlano chiaro: ci troviamo di fronte a una situazione di sovraffollamento della popolazione carceraria che provoca un grave disagio personale e sociale, tant’è che abbiamo dichiarato lo stato di emergenza. Bisogna rilevare, però, che la crescita annuale degli ingressi in carcere si è ridotta rispetto al 2008, del 17% nel 2009 e, dato numericamente ancora più significativo, del 62% con riferimento al maggio del 2010. Dati che confortano, ma che non fanno abbassare l’attenzione, che resta massima. Misure come l’indulto che negli ultimi 60 anni sono state adottate per svuotare le carceri - nonostante il valore morale che può essergli attribuito, quale precipitato istituzionale di una virtù come la clemenza - non sono oggi socialmente accettate e non sono perciò ripetibili. Urgono perciò risposte precise, efficaci e non dilazionabili». Quali misure intende adottare il governo? «Il governo ha varato un piano strutturale che poggia su tre pilastri fondamentali: gli interventi di edilizia penitenziaria per la costruzione, in prima battuta, di 47 C&P • GIUSTIZIA
nuovi padiglioni e successivamente di 8 nuovi istituti; gli interventi normativi che introducono la possibilità della detenzione domiciliare per chi deve scontare solo un anno di pena residua; l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di Polizia penitenziaria, per cercare di ridurre i tanti disagi del personale che quotidianamente si adopera con sacrificio per l’assistenza dei detenuti. Stiamo poi attuando accordi bilaterali con vari Stati per far sì che gli stranieri scontino la pena nel loro Paese d’origine». Esistono delle concrete possibilità per un reinserimento in società al termine del carcere? «È giusto che il detenuto saldi il suo debito nei confronti dello Stato e delle vittime del reato; è importante però che lo stesso sia messo nelle condizioni di non tornare a delinquere una volta lasciato il carcere. La certezza della pena e l’espiazione degli errori sono elementi cruciali per la tenuta di una società, ma la privazione della libertà non è fine a se stessa perché funzionale alla rieducazione. Questa è la missione di uno Stato moderno, questo è ciò che contraddistingue una nazione civile. La riabilitazione è un percorso complesso che comprende gli aspetti del lavoro, della cultura e della formazione». 95
Guardia di Finanza • Ignazio Gibilaro, Attilio Iodice
Un territorio più sicuro Gli ultimi dati relativi alla lotta contro la contraffazione, l’evasione fiscale e il lavoro sommerso, commentati dal generale Ignazio Gibilaro, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Roma di Renata Gualtieri o sforzo profuso dalla Guardia di Finanza della Capitale contro la contraffazione è testimoniata dal fatto che, nel primo semestre 2010, i sequestri operati nella provincia di Roma rappresentano il 36,14% del totale dei prodotti contraffatti individuati dalla Guardia di Finanza sul territorio dello Stato e il numero dei responsabili denunciati a piede libero è pari all’11,96% del dato nazionale. Vari sono i fenomeni evasivi ed elusivi che la Guardia di Finanza è impegnata a fronteggiare nel territorio provinciale ed in relazione ai quali ha potenziato il proprio dispositivo di controllo. Quanto al lavoro sommerso nei primi nove mesi del corrente anno sono stati individuati circa 250 lavoratori irregolari, 760 “in nero” e verbalizzati complessivamente 237 datori di lavoro. Il generale Ignazio Gibilaro, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Roma, delinea un quadro dell’attività finora svolta. In che modo viene assicurata l’attività di prevenzione e contrasto della contraffazione? «Viene garantita, in prima battuta, nell’ambito della quotidiana attività di controllo economico svolta dai Reparti dipendenti, presenti sul territorio della Provincia di Roma.Tale attività consente, attraverso un costante monitoraggio, in particolare delle aree commerciali, artigianali ed industriali pre-
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senti nella circoscrizione di competenza di questo Comando provinciale, di acquisire elementi utili alla ricostruzione della “filiera del falso” e del commercio abusivo: canali di approvvigionamento, magazzini di deposito, laboratori di produzione ed assemblaggio. In tale contesto, a seguito della definizione del “Patto per Roma Sicura”, sottoscritto dal Prefetto e dai rappresentanti degli Enti locali, il Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma ha assunto specifiche iniziative volte a rafforzare ulteriormente le misure di presidio del territorio prevedendo, tra l’altro, l’impiego di un contingente aggiuntivo di 50 militari per il controllo delle aree adiacenti alla Città del Vaticano e del centro storico, maggiormente interessate dalla presenza di venditori ambulanti di prodotti contraffatti, anche in ragione dell’elevato afflusso di turisti e visitatori». Quali le strategie e gli spunti informativi emersi? «Gli spunti informativi emersi nel corso dell’attività di controllo del territorio costituiscono la base per le successive investigazioni - sviluppate soprattutto dal nucleo di polizia tributaria, reparto ad elevata specializzazione - finalizzate all’individuazione ed alla disarticolazione delle compagini criminali che gestiscono i traffici illeciti in esame ed alla ricostruzione dei patrimoni illeciti accumulati, quale frutto delle attività illegali. La strategia è quella di intervenire “a C&P • GIUSTIZIA
Ignazio Gibilaro, Attilio Iodice • Guardia di Finanza
In apertura, operazioni svolte dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma; qui sotto, il colonnello Ignazio Gibilaro, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Roma
L’esperienza operativa nella provincia di Roma evidenzia la capacità dell’industria del falso di adeguarsi rapidamente ai gusti dei cittadini e alle mode C&P • GIUSTIZIA
monte” sulle strutture produttive e distributive, andando a colpire i principali responsabili del fenomeno, cioè coloro che ne traggono i maggiori profitti. Particolare attenzione viene prestata anche all’individuazione di casi di sfruttamento di manodopera irregolare o in “in nero”. Il dispositivo di contrasto attuato è completato dai servizi a tutela degli interessi doganali, effettuati principalmente presso i porti di Civitavecchia e gli scali aeroportuali di Fiumicino e Ciampino, nell’ambito dei quali particolare attenzione viene rivolta alla prevenzione ed alla repressione dei reati inerenti all’introduzione di beni contraffatti, in violazione al made in Italy o non conformi alla normativa in tema di sicurezza dei prodotti. L’azione sviluppata dalla Guardia di Finanza è stata resa ancor più efficace grazie ai nuovi strumenti normativi introdotti dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 in tema di aggressione dei patrimoni e dei profitti realizzati mediante l’attività illecita in esame, analogamente a quanto avviene sul versante della lotta alle organizzazioni di tipo mafioso». Avete registrato un incremento di questo reato negli ultimi anni? «I dati di cui disponiamo non rivelano un incremento del fenomeno nel suo complesso. Va comunque evidenziato che il Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma, consapevole dei riflessi negativi prodotti dalla contraffazione sul99
Guardia di Finanza • Ignazio Gibilaro, Attilio Iodice
ORGANIZZAZIONE CAPILLARE E OTTIMI RISULTATI Il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Milano Attilio Iodice fa un bilancio dell’attività di monitoraggio del territorio in materia di evasione fiscale, contraffazione e lavoro sommerso n merito al reato di contraffazione, l’attività di prevenzione e controllo della Guardia di Finanza di Milano si estrinseca attraverso: l’esecuzione di mirate indagini di polizia giudiziaria finalizzate a contrastare le organizzazioni che pongono in essere tale illecito fenomeno sia mediante l’importazione dall’estero (di contrabbando) di prodotti contraffatti, in special modo dalla Cina, sia mediante la produzione, “in nero”, nel territorio nazionale di materiale contraffatto; l’organizzazione capillare di servizi di controllo e monitoraggio del territorio eseguiti presso gli esercizi commerciali ubicati in Milano e provincia allo scopo di scongiurare la ven-
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dita di prodotti contraffatti o non sicuri (cioè in violazione alle norme europee sulla sicurezza dei prodotti); l’esecuzione di controlli nei mercati rionali cittadini allo scopo di individuare soggetti dediti alla vendita dei menzionati prodotti; lo sviluppo di attività informativa derivante dalle segnalazioni dei cittadini effettuate attraverso il numero di pubblica utilità 117. «Per quanto concerne l’attività anti contraffazione, nel quale si ricomprende anche l’attività volta a tutelare i diritti d’autore, il Comando provinciale di Milano – spiega il comandante Attilio Iodice (nella foto) – nel corso del 2010 ha sottoposto a sequestro oltre 15 milioni di prodotti contraf-
fatti denunciando oltre 162 persone. Tra i più commercializzati spiccano giocattoli, calzature e abbigliamento in genere. Sono stati sequestrati anche 100 mila tra supporti magnetici ed informatici, in violazione della normativa che tutela il diritto d’autore. Il fenomeno della contraffazione è in aumento». Nel corso del 2010 sono stati eseguiti anche diversi interventi finalizzati a contrastare il lavoro sommerso. «In particolare, il Comando provinciale di Milano – precisa il comandante – anche in attuazione di specifiche direttive impartite dal Comando generale della Guardia di Finanza, ha effettuato 80 interventi nel settore del sommerso da lavoro scoprendo 168 lavoratori “in nero” e 155 lavoratori irregolari. Sono state accertate 95 violazioni di vario tenore». In ordine all’attività di contrasto all’evasione fiscale, il Comando provinciale di Milano, nel corso del 2010 ha effettuato oltre 2.300 controlli. «Queste operazioni hanno permesso di conseguire i seguenti lusinghieri risultati: 5 miliardi di euro di ricavi d’esercizio d’impresa sottratti alla tassazione, 8 miliardi di euro di costi d’esercizio illecitamente dedotti dal bilancio delle imprese, 600 milioni di euro frodati all’Imposta sul Valore
Aggiunto, quasi 700 persone denunciate per evasione fiscale». Particolare attenzione è stata poi rivolta all’evasione fiscale internazionale nel cui ambito sono stati individuati oltre 2,2 miliardi di euro di evasione relativi a violazioni delle norme antielusive per il conseguimento di indebiti risparmi d’imposta. «Si tratta sostanzialmente di estero-vestizioni, cioè società italiane operanti in Italia ma con sede all’estero per approfittare di regimi fiscali agevolati, e configurazioni di stabili organizzazioni sul territorio nazionale di società straniere, ma operanti in Italia che dichiarano redditi all’estero al fine di corrispondere minori imposte. Sono stati individuati, inoltre, 220 evasori totali, vale a dire soggetti economici completamente sconosciuti al fisco che hanno fatturato “in nero” oltre 3 miliardi di euro». La Guardia di Finanza di Milano nel contrasto al fenomeno dell’evasione fiscale si avvale di un’importante struttura organizzativa composta da un nucleo di Polizia tributaria e numerosi reparti dislocati sul territorio provinciale: Milano, Monza, Legnano, Rho, Magenta, Corsico, Melegnano, Paderno Dugnano, Gorgonzola, Seveso, Seregno, Sesto San Giovanni e Linate.
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Ignazio Gibilaro, Attilio Iodice • Guardia di Finanza
A destra, un’operazione di controllo merce contraffatta svolta dal comando provinciale della Guardia di Finanza di Milano
l’economia legale, ha aumentato, negli ultimi anni, le risorse destinate all’attività di contrasto al fenomeno illecito. L’efficacia del dispositivo attuato è testimoniata dalla significativa crescita registrata, nell’ultimo triennio, dei prodotti illeciti sequestrati. Si è passati dai 9,5 milioni di prodotti contraffatti, non sicuri o in violazione della disciplina sul made in Italy sequestrati nell’anno 2008 dai reparti del Comando provinciale Roma, ai 15,8 del 2009, per giungere agli oltre 24,5 milioni sequestrati nei primi nove mesi del corrente anno». Quali categorie di merce sono più oggetto di contraffazione? «Per quanto attiene alle categorie merceologiche maggiormente soggette al fenomeno della contraffazione, l’esperienza operativa maturata nella provincia di Roma evidenzia la capacità dell’industria del falso di adeguarsi rapidamente ai gusti dei cittadini ed alle mode. Infatti, sul mercato viene proposta una vasta gamma di articoli, nell’intento di attrarre un’ampia fascia di consumatori. I principali prodotti illeciti individuati e sequestrati sono i capi di abbigliamento ed i relativi accessori, articoli di pelletteria (borse, cinture, ecc.), giocattoli, software, cd musicali, prodotti di cartoleria ma anche beni quali cosmetici, prodotti per l’igiene e perfino medicinali». Quali sono state le operazioni più significative realizzate contro il lavoro nero? «L’attività di contrasto al fenomeno del sommerso di lavoro viene svolta dai Reparti operativi del Comando provinciale di Roma in concomitanza con l’azione di controllo presso le imprese. Inoltre, vengono predisposti periodici interventi “massivi” sul territorio, attuati anche in aderenza agli impegni assunti dal Corpo nell’ambito del citato “Patto per Roma Sicura”. Nei primi nove mesi del corrente anno sono stati individuati circa 250 lavoratori irregolari, 760 “in nero” e C&P • GIUSTIZIA
verbalizzati complessivamente 237 datori di lavoro. Tra le principali attività di servizio svolte, spiccano due indagini che sono state avviate nel 2009 da parte delle dipendenti Compagnie di Pomezia e di Tivoli e si sono concluse nei primi mesi del 2010». A quali risultati hanno portato le operazioni di controllo dell’ultimo anno in materia di evasione fiscale? «Nell’ambito del territorio della provincia di Roma, assumono rilevanza il sommerso d’azienda e di lavoro e le frodi fiscali - in particolare nel settore dell’evasione dell’I.v.a.. Grande attenzione viene rivolta, inoltre, anche all’evasione e dell’elusione connessa ai rapporti internazionali con Paesi a regime fiscale privilegiato, specialmente per effetto di casi di “esterovestizione” della residenza fiscale di società operanti in Italia, di stabili organizzazioni nel nostro Paese di multinazionali straniere non dichiarate al fisco italiano, di fittizio trasferimento di residenza all’estero di persone fisiche e di disponibilità finanziarie e patrimoniali all’estero non dichiarate. Nei primi nove mesi del 2010, l’azione di controllo sviluppata dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma si è sostanziata in oltre 30 mila accessi ispettivi presso i contribuenti sottoposti a vigilanza. Gli interventi eseguiti hanno permesso di individuare 562 evasori totali. Inoltre, è stata constatata Iva evasa per oltre un miliardo di euro, a fronte dei 700 milioni di euro rilevati nell’intero 2009, con un incremento del 49% rispetto all’anno precedente. Gli elementi positivi di reddito recuperati a tassazione nel 2010 (a tutto il mese di settembre) sono 2,8 miliardi di euro. Quest’ultimo dato rappresenta l’80% circa del risultato conseguito nell’intero 2009, pari a 3,5 miliardi di euro. Infine, nel 2009 e nel 2010 sono state complessivamente denunciate 1.050 persone per reati tributari (D.Lgs. 74/2000)». 101
Guardia di Finanza • Guido Zelano, Maurizio Tolone
Strategie operative
«Un controllo capillare basato sulla conoscenza del territorio e delle sue dinamiche». A dirigere le attività è il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Udine, colonnello Guido Zelano di Renata Gualtieri Il comandante provinciale della Guardia di finanza di Udine, Colonnello Guido Zelano
ontrollo del territorio, intelligence, attività operativa per contrastare il reato di contraffazione ma tra gli obiettivi che si sono date le Fiamme Gialle di Udine vi è anche l’attenzione al rispetto delle norme a tutela del made in Italy e alla sicurezza dei prodotti. Periodici controlli coordinati anche a contrasto del lavoro “sommerso” e attività di verifica e controllo fiscale, circa 1.250 quelle condotte in un anno, nell’ambito di progetti locali e nazionali, nel rispetto dello Statuto del contribuente. Ad illustrare tutte le operazioni interviene il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Udine, Guido Zelano. Come avviene l’attività di controllo e prevenzione sul territorio provinciale da parte della Guardia di Finanza in merito al reato di contraffazione? «Per la posizione del Friuli Venezia Giulia, passato da frontiera a cuore delle vie di comunicazione da e verso l’est, la Guardia di Finanza di Udine attua un sistema permanente di presidio e controllo sulle principali arterie stradali. L’attività si realizza poi su tutta la provincia, a seguito di un’accurata azione d’intelligence fondata sulla conoscenza del
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territorio e delle sue dinamiche. Particolarmente monitorata nel periodo estivo è la città di Lignano Sabbiadoro, dove il commercio illegale si è evoluto da una condizione di sporadicità, a opera di pochi, a una vera e propria gestione organizzata di tipo imprenditoriale. Significativo un sequestro di circa 15.000 prodotti contraffatti di grande valore commerciale, nei confronti di soggetti che dimoravano in pieno centro, in un appartamento affittato “in nero”, che veniva utilizzato anche come deposito della merce». Avete registrato un incremento di questo reato negli ultimi anni e quali sono i prodotti quali categorie di merce sono più oggetto di contraffazione? «I sequestri effettuati dalla Guardia di Finanza di Udine nell’anno in corso sono aumentati di oltre dieci volte rispetto allo stesso periodo del 2009. Gli oggetti maggiormente contraffatti sono giocattoli, capi e accessori di abbigliamento delle più rinomate marche italiane, anche se occorre evidenziare che la produzione illegale si adegua in maniera molto rapida alle mode dei consumatori: abbiamo anche sequestrato migliaia di braccialetti, abilmente contraffatti del logo “power balance”, divenuti oggetto cult nell’estate C&P • GIUSTIZIA
Guido Zelano, Maurizio Tolone • Guardia di Finanza
LAVORO NERO ED EVASIONE FISCALE Il comandante provinciale della Guardia di Finanza di Genova, colonnello Maurizio Tolone indica le priorità del suo Nucleo operativo a piena consapevolezza degli effetti negativi che il “lavoro nero” produce per i lavoratori e per l’economia del Paese spinge la Guardia di Finanza a mantenere alta l’azione di contrasto, adottando una strategia operativa che mira a colpire tutte le diverse azioni illecite connesse all’impiego dei lavoratori irregolari e non solo a recuperare il risparmio indebito, ottenuto dai datori di lavoro che impiegano dipendenti “non in regola”. «A livello provinciale - sottolinea il comandante, colonnello Maurizio Tolone (nella foto) - la Guardia di Finanza di Ge-
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nova ha, pertanto, incrementato la lotta al “sommerso”, sviluppando sinergie con gli altri attori istituzionali per il contrasto agli illeciti di settore, riservando un’attenzione specifica alle aziende che svolgono attività stagionali connesse al turismo, di particolare rilevanza per l’economia della provincia, nonché organizzando piani sistematici di controlli d’iniziativa che hanno coinvolto tutti i Reparti territoriali dipendenti. In tale settore, nell’anno in corso i Reparti della provincia di Genova hanno eseguito 104 interventi con esito irregolare, conclusisi con il riscontro di 123 violazioni e l’individuazione di 212 lavoratori irregolari, di cui 140 completamente in nero». In attuazione delle linee di indirizzo fissate dall’Autorità di Governo nel corrente anno l’attività del Corpo è stata orientata prioritariamente alla repressione delle forme di evasione più pericolose, quali l’economia
2010. Grande l’attenzione sul rispetto delle norme a tutela del made in Italy e sulla sicurezza dei prodotti. In questo settore, negli scorsi mesi, sono state sequestrate decine di migliaia di occhiali per la correzione della presbiopia. Prodotti privi dei requisiti previsti per legge che, se immessi in commercio, avrebbero potuto costituire un rischio per la salute degli ignari acquirenti». Nell’ambito dei servizi volti a contrastare il lavoro sommerso nel territorio provinciale, la guardia di finanza quali importanti operazioni ha realizzato? C&P • GIUSTIZIA
sommersa, le frodi fiscali punite con sanzioni penali, nonché l’evasione internazionale. La Guardia di Finanza fonda la propria attività di prevenzione e repressione degli illeciti sull’azione di intelligence, puntando sulla ricerca, acquisizione e successiva elaborazione di dati e notizie concernenti ipotesi di evasione da accertare con interventi palesi. A tal fine ha realizzato e messo in linea un nuovo software finalizzato a rendere più veloce e puntuale il flusso di notizie concernenti le “ricchezze visibili” rilevate da tutti i reparti territoriali ed aeronavali durante i servizi d’Istituto. «L’obiettivo finale dell’azione del Corpo – spiega il comandante provinciale Maurizio Tolone – è di rendere sempre più stringente il raccordo fra i controlli effettuati e le successive fasi di accertamento e riscossione dei tributi evasi, in modo tale da supportare l’efficacia e l’efficienza di
tutta la “filiera”della lotta all’evasione fiscale, per ottenere un incremento del livello di “tax compliance”. In quest’ottica, l’azione di contrasto all’evasione da riscossione è stata rafforzata, rendendo più incisiva la collaborazione già in essere con Equitalia, mediante l’esecuzione di accessi congiunti presso imprese e lavoratori autonomi iscritti a ruolo per debiti superiori a 25.000 euro, allo scopo di individuare le attività patrimoniali da aggredire per garantire l’effettivo pagamento delle imposte». Nei primi mesi del 2010, i dipendenti Reparti che operano a Genova e provincia hanno scoperto 89 evasori totali, ovvero, soggetti economici sconosciuti all’erario, e 3 evasori paratotali cioè soggetti economici che hanno celato gran parte della materia imponibile. Le persone denunciate per illeciti di natura tributaria, fiscalità generale, ma anche accise e imposte sui consumi, sono state 113.
«In due operazioni, sono state scoperte una quarantina di imprese nazionali ed estere che avevano utilizzato personale, spesso straniero, messo a disposizione da terzi, impiegandolo nei propri stabilimenti o cantieri, senza assolvere i previsti obblighi fiscali, previdenziali ed assistenziali. Si tratta dell’illecito appalto di manodopera: una pratica illegale finalizzata ad abbattere i costi del personale attraverso la predisposizione di finti contratti di appalto, che simulano l’affidamento di un’opera o di un servizio ad altre imprese che si limitano, invece, a fornire solo la manodopera. In un’altra circostanza operai specializzati impiegati erano alle 103
Guardia di Finanza • Guido Zelano, Maurizio Tolone
Braccialetti contraffatti del logo “power balance” sequestrati la scorsa estate
I sequestri effettuati dalla Guardia di Finanza di Udine nel 2010 sono aumentati di oltre dieci volte rispetto allo stesso periodo del 2009 104
dirette dipendenze di altre società con contratti non regolari. Se detto personale fosse stato regolarizzato per la mansione effettivamente svolta, a carico delle società sarebbero ricaduti maggiori oneri derivanti da un livello contributivo e retributivo superiore a quello rilevato». Sono tanti gli episodi di evasione fiscale nel nostro Paese. Come si rapporta a questo problema la Guardia di Finanza provinciale e a quali risultati hanno portato le vostre operazioni di controllo dell’ultimo anno? «Utilizziamo moderni criteri di selezione delle posizioni da sottoporre a controllo, basati sulla conoscenza economica del territorio e su metodi di analisi di rischio applicati alle banche dati. Le condotte evasive vanno dal tentativo di non risultare un contribuente occultando completamente la propria attività o simulando di risiedere all’estero, all’abbattimento della base imponibile utilizzando fatture false alle frodi all’Iva, come le frodi carosello, particolarmente diffuse per i prodotti ad alto valore aggiunto, che vengono contrastate con la collaborazione degli organi di controllo degli altri Stati membri. Nel 2010 gli evasori totali individuati sono il 20% in più dell’anno precedente. Nel biennio la nuova base imponibile scoperta ammonta a oltre 150 milioni di euro e l’Iva a 25 milioni». C&P • GIUSTIZIA
Malpractice • Giuliano Pompa
Errore medico: chi ne risponde? Sempre più spesso le case di cura sono chiamate a rispondere dei casi di malpractice avvenuti all’interno delle loro strutture. A tal proposito, l’avvocato Giuliano Pompa sottolinea un aspetto della giurisprudenza italiana che, a suo parere, stride con la realtà dei fatti di Andrea Moscariello
umentano sulle prime pagine dei giornali i casi di malpractice e di accuse rivolte soprattutto alle strutture ospedaliere private. Ma occorre certamente fare luce su un ambito in cui le responsabilità non appaiono poi così chiare agli occhi dell’opinione pubblica. «La clinica privata è ritenuta responsabile in solido con il chirurgo dei danni derivanti da un intervento operatorio eseguito all’interno delle sue strutture, non riuscito per “colpa medica” dell’operatore. Anche qualora l’operazione sia stata effettuata da un chirurgo libero-professionista di fiducia del paziente e che ne abbia con questi direttamente concordato l’esecuzione, indicandogli anche la struttura sanitaria presso la quale l’avrebbe eseguita». A spiegarlo è l’avvocato Giuliano Pompa, esperto nella tematica e impegnato nell’assistere importanti realtà sanitarie nazionali. Avvocato cosa succede quando è il chirurgo che, autonomamente, indica al paziente la struttura presso la quale intende operare? «In questo caso, contrariamente a quanto ritenuto dalla corrente giurisprudenza, è da escludere che la responsabilità per eventuali errori possa ricadere sulla casa di cura solo perché l’intervento è stato eseguito presso la stessa. Le ragioni appaiono evidenti. Il paziente instaura due differenti rapporti giuridici, con oggetti e soggetti diversi. Il primo con il medico avente a oggetto le cure e l’intervento. Il secondo, con og-
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getto del tutto diverso, con la casa di cura che assume l’impegno solo di fornire le strutture necessarie all’esecuzione dell’operazione, come ad esempio la sala operatoria». Per cui lei sostiene che in molti casi la struttura non c’entra. «È chiaro che né il medico può rispondere dell’operato della clinica né, soprattutto, quest’ultima dell’operato del medico. La struttura sanitaria potrà essere chiamata a rispondere nei confronti del paziente solo in ipotesi di carenze e malfunzionamento degli impianti e delle sue strutture, personale compreso: non altro». La nostra magistratura, però, la pensa diversamente. «La giurisprudenza, forzando i principi generali in materia di responsabilità, si è letteralmente inventata l’anomala categoria di un “contratto di assistenza sanitaria” avente a oggetto la fornitura sia della prestazione medica che quella di assistenza sanitaria. Ma a fornire le due prestazioni a favore del paziente sono soggetti diversi, ciascuno dei quali risponderà per quel che gli è stato chiesto e che ha promesso: il chirurgo la propria opera professionale e la casa di cura le sue strutture. Ci si è letteralmente inventati per il chirurgo-operatore la qualifica di “ausiliario” della casa di cura al fine di radicare, in capo a questa, la responsabilità prevista dall’articolo 1228 del codice civile. Ma il chirurgo non è in realtà un ausiliario della clinica perché è totalmente estraneo alla sua attività imprenC&P • GIUSTIZIA
Giuliano Pompa • Malpractice
La struttura sanitaria dovrebbe essere chiamata a rispondere nei confronti del paziente solo in ipotesi di malfunzionamento o carenza degli impianti
L’avvocato Giuliano Pompa esercita a Roma studiolegale@giulianopompa.it
ditoriale. Non si vede perché non possa la stessa casa di cura, a questo punto, essere qualificata “ausiliario” del medico». Dunque cosa suggerisce? «Se l’obiettivo è quello, encomiabile e socialmente dovuto, di assicurare al paziente danneggiato un adeguato risarcimento, deve e può essere raggiunto ipotizzando altri rimedi. Ad esempio imponendo all’operatore-medico un’adeguata copertura assicurativa della sua attività che garantisca al paziente i dovuti risarcimenti, a prescindere dalla consistenza del patrimonio del professionista. Esiste un progetto di legge in questo senso. Di contro è da annotare che, con l’attuale giurisprudenza, le compagnie che assicurano per la responsabilità civile le case di cura pretendono premi commisurati anche al rischio di “malpractice” da parte dei chirurghi-operatori. Tutti costi che le cliniche trasferiscono sul consumatore-paziente». Gli utenti generalmente denunciano il medico o la struttura? «Gli utenti, intelligentemente, attesa la giurisprudenza ormai consolidata che vede anche la casa di cura responsabile solidalmente con il chirurgo, preferiscono denunciare solo la struttura in quanto questa, pervenuta la richiesta di risarcimento del danno, la “gira” semplicemente alla compagnia assicuratrice che provvede a difenderla, in modo per lo più routinario. Il medico, al contrario, si difenderebbe con assai maggiore incisività perché ne va della sua C&P • GIUSTIZIA
immagine professionale». In questo ambito su quali punti ritiene necessario un ulteriore intervento da parte del legislatore? «Occorre rendere obbligatoria l’assicurazione da parte del medico con obbligo di esposizione della polizza all’interno dello studio. Dico di più. Legislativamente andrebbe previsto che tali polizze contengano una clausola per cui la compagnia, al pervenimento della documentazione probatoria sull’“an” (sussistenza della colpa e del danno) e sul “quantum” (misura del danno), sia obbligata a definire stragiudizialmente il sinistro entro un certo termine. Le liti si ridurrebbero e la parte lesa conseguirebbe il dovuto risarcimento in tempi brevi. Per altro verso, ove la compagnia non provveda, questa sarebbe responsabile anche nei confronti del medico per inadempimento contrattuale e così tenuta a risarcirlo per il danno alla sua immagine professionale derivato dall’eventuale pubblicità della lite». Generalmente quale iter e quali tempi occorrono per ottenere una sentenza e un eventuale risarcimento? «I tempi sono quelli della nostra giustizia, almeno un paio d’anni. Modifiche al codice di procedura civile, come l’articolo 696 bis che ha introdotto la “consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite”, ovvero l’obbligatorietà del previo procedimento di mediazione di recente previsto, in realtà ritengo creino solo confusione». 107
Malpractice • Enrico Caroli
Camici bianchi sotto “inchiesta” Liti in sala parto, diagnosi clamorosamente sbagliate, complicazioni postoperatorie. La malasanità è solo un fenomeno mediatico? Scalzando falsi allarmismi, l'avvocato Enrico Caroli si interroga sulle responsabilità legali del medico di Paola Maruzzi camici bianchi rappresentano ancora una categoria immacolata e incontrastata? Numeri alla mano pare di no. Nel 2001 le richieste di risarcimento danni avviate da pazienti nei confronti di medici italiani sono state 12 mila. Secondo i dati Ania le denunce montano a 30 mila, con un trend di crescita del 150 per cento. La responsabilità professionale del medico rappresenta il 5 per cento dell’intero ramo della responsabilità civile trattato dalle assicurazioni private. Secondo le stime, il totale dei danni provocati da malpractice è di 260 milioni di euro. L’aumento delle richieste di danni ha provocato il diffondersi della medicina difensiva con una conseguente ripercussione su costi, accessibilità e qualità tecnica delle prestazioni sanitarie. Con l'avvocato Enrico Caroli per chiarire alcune questioni fondamentali. Quale ritiene sia stata la principale chiave di volta dell’ultimo decennio in tema di responsabilità professionale? «Il riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità civile del medico nei confronti del paziente e della struttura sanitaria. Ne è derivata un'evidente posizione di privilegio del danneggiato in tema di distribuzione dell’onere della prova, restando a carico dell’obbligato (sia esso il sanitario o la struttura) la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Da tale impostazione è inoltre scaturito il lungo periodo a disposizione del paziente per la richiesta di risarcimento dei danni con la previsione del ter-
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C&P • GIUSTIZIA
Enrico Caroli • Malpractice
La professione del medico è “rischiosa”: la possibilità di recare danno al paziente è alta. Ritengo necessaria l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria
L’avvocato Enrico Caroli esercita a Roma posta@studiolegalecaroli.it
mine decennale, a partire dal momento in cui il vulnus si è realizzato o ha dato segni manifesti delle sue conseguenze dannose». Quali accorgimenti, non solo di natura giuridica, potrebbero migliorare il rapporto tra medico e paziente? «Senz’altro il dialogo. Il medico deve saper comunicare con il proprio paziente, rendendolo partecipe e consapevole di ciò che gli sta succedendo. Troppo spesso il consenso viene svilito a mero atto burocratico, che si risolve apportando un firma qualche minuto prima della sedazione. Invece questa è una fase delicata dell'iter terapeutico. Dovrebbe quindi implicare un'esauriente rappresentazione dei rischi, dei vantaggi e delle prospettive. Il più delle volte qualche minuto in più durante la visita o prima di un intervento può dimostrarsi determinante per ridurre la possibilità di errore. Una buona anamnesi permette un rapporto di fiducia e favorisce oltretutto una corretta diagnosi». Ultimamente sembrano moltiplicarsi i casi di malasanità. A suo avviso a cosa è dovuta questa esplosione? E quali sono le cause più frequenti di errore? «A essere mutato è prima di tutto l'atteggiamento del paziente nei confronti del medico: non c'è più quel timore reverenziale che connotava il rapporto sino a qualche decennio fa. Il malato si fida di meno. Di rimando i camici bianchi si sentono continuamente “sotto esame”. E poi, a mio avviso, l'attività ospedaliera è diventata talmente routinaria che il livello di attenzione si è abbassato. Per quanto C&P • GIUSTIZIA
riguarda le cause degli errori, la principale risiede nel mancanza di uno scambio di informazione tra un medico e l’altro. Eppure basterebbe una corretta compilazione sia della cartella clinica, medica e infermieristica, che della scheda di dimissione, peraltro obbligatoria. Altre volte la causa è da rinvenirsi nella scarsa attenzione al postoperatorio: il rispetto dei principi di diligenza e buona fede imporrebbe al medico un costante monitoraggio delle condizione del paziente. Ma spesso ciò non accade». Quali i rimedi giuridici per una tutela effettiva del danneggiato? «Ritengo auspicabile l’introduzione dell'assicurazione obbligatoria sia per le strutture (pubbliche o private) che per i medici. Quella medica è da considerarsi a tutti gli effetti un’attività ad alto rischio e potenzialmente produttiva di danno, per cui il risarcimento non può dipendere dalla capacità patrimoniale del danneggiante, ovvero dalla sua libera determinazione di provvedere alla stipulazione della polizza assicurativa. Ma deve essere distribuito sulla collettività attraverso il meccanismo di eliminazione del danno insito nella natura dell’assicurazione obbligatoria. Oltretutto la consequenziale previsione dell'azione diretta in favore del danneggiato, determinerebbe la partecipazione obbligatoria della compagnia assicurativa alla fase della mediazione, la cui funzione è spesso vanificata dalla non opponibilità dell’accordo raggiunto tra medico e danneggiato all’assicuratore che non vi ha preso parte. Con la necessità a quel punto di dover ricominciare da capo in tribunale». 109
Rapporto medico paziente • Simona Pollarolo
Responsabilità medica, serve più chiarezza Aumentano le cause legate al rapporto medico paziente. Ma questo non significa che siano in crescita gli errori medici. L’avvocato Simona Pollarolo evidenzia l’importanza del consenso informato di Lucrezia Gennari
ono quasi all’ordine del giorno le notizie di cronaca relative alla malasanità o, comunque, legate al rapporto medico paziente. Negli ultimi anni, in effetti, è aumentato il numero delle cause relative a responsabilità professionale medica. Lo conferma l’avvocato milanese Simona Pollarolo: «dopo decenni di staticità, l’elaborazione e l’evoluzione giurisprudenziale in questi ultimi quindici anni è stata continua e l’ampia casistica ha fatto sì che a Milano una delle sezioni civili si occupi specificamente proprio di queste problematiche» afferma. Questo non significa che siano in aumento gli errori medici, in Italia vantiamo la presenza di centri di eccellenza di fama internazionale: «a fronte di un numero molto elevato di domande di risarcimento, le richieste vengono spesso respinte proprio per assenza di responsabilità del medico o del nosocomio citato in giudizio». Come si determina la responsabilità medica? «C’è responsabilità ogniqualvolta l’operatore sanitario violi le regole della migliore arte medica in vigore all’epoca in cui agisce. La colpa professionale è pur sempre riferita al momento in cui il medico tiene il comportamento sottoposto all’attenzione del giudice». Perché in ospedale il paziente deve firmare un modulo di consenso informato? «Nel nostro ordinamento nessuno può essere sottoposto a un
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C&P • GIUSTIZIA
Simona Pollarolo • Rapporto medico paziente
Nel nostro ordinamento nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza aver manifestato il proprio consenso
In apertura, l’avvocato Simona Pollarolo. Esercita a Milano studio.pollarolo@tiscali.it
C&P • GIUSTIZIA
trattamento sanitario senza aver manifestato il proprio consenso. Ove il consenso manchi, si concretizza una violazione dell’integrità psico-fisica dell’individuo, come tale vietata ai sensi della Costituzione, di per sé fonte di responsabilità professionale. Ovviamente non sussiste violazione quando il medico agisce in stato di necessità o quando il paziente è in pericolo di vita». Cosa si intende con consenso informato? «Significa che al paziente deve essere illustrata la patologia accertata o sospetta, gli esami necessari, la terapia, gli effetti collaterali, i rischi di insuccesso. Perché il consenso sia valido, il paziente deve essere consapevole della propria situazione. La giurisprudenza sottolinea che deve svilupparsi tra medico e paziente un costruttivo dialogo basato su informazioni chiare e precise, espresse in modo comprensibile. Il cittadino deve abituarsi a domandare e chiedere informazioni: è un suo diritto e una manifestazione di libertà e autodeterminazione. La valorizzazione del consenso informato comporta minore discrezionalità da parte del medico e quindi l’individuazione di protocolli operativi uniformi a livello internazionale. Il problema più rilevante tuttavia si pone con riguardo alla formazione della prova all’interno del processo: l’avvenuta informativa da parte del medico al paziente, può essere data anche attraverso testimoni, ma è proprio l’esibizione di un documento sottoscritto dal paziente a costituire la prova più efficace». Cosa deve fare chi ritiene di essere stato vittima di un errore professionale medico/sanitario e a chi deve rivolgersi? «Gli interlocutori del paziente in questo caso sono l’avvocato e il medico-legale: se il primo muovendosi sul piano strettamente giuridico individua l’eventuale esistenza di un diritto al risarcimento del danno tutelato dall’ordinamento e le modalità per far valere questo diritto, il medico-legale fornisce una valutazione sul piano della tecnica medica e accerta l’eventuale violazione delle regole dell’arte medica». Il paziente deve necessariamente rivolgersi al tribunale per ottenere giustizia? «No: la tutela giudiziaria è prevista solo quando altre strade si sono rivelate inefficaci. Normalmente il paziente danneggiato riesce a ottenere il risarcimento del danno in via stragiudiziale mediante un accordo privato con la struttura ospedaliera o con il medico singolo, con il fondamentale intervento delle compagnie assicuratrici degli operatori sanitari. In alternativa, il cittadino può accedere al processo di mediazione attuato da organismi a ciò preposti al di fuori del processo. Peraltro una recentissima legge ha reso obbligatorio dal 2011 in ambito sanitario tale tentativo di conciliazione: dall’anno prossimo chi vorrà chiedere il risarcimento del danno per colpa professionale medica dovrà innanzitutto esperire il procedimento di mediazione e solo in caso di fallimento di quest’ultimo potrà intentare causa avanti al tribunale». 111
Dottrina penalistica • Carlo Federico Grosso
La responsabilità della persona giuridica
La crisi del principio “societas delinquere non potest”. L’avvocato Carlo Federico Grosso illustra come progressivamente si è evoluta la dottrina penalistica in questo ambito di Nike Giurlani
esponsabilità delle persone giuridiche: com’è cambiata la dottrina penalistica. «All’inizio, nel 2001, i reati previsti agli effetti della responsabilità delle persone giuridiche erano pochi, ma con successive integrazioni legislative il loro numero è stato molto ampliato», spiega l’avvocato Carlo Federico Grosso. Si va dalla truffa a danno dello Stato, ai delitti informatici, al trattamento illecito dei dati, ai delitti di criminalità organizzata a quelli di concussione e corruzione, fino ad arrivare a taluni delitti contro l’industria e il commercio, ai reati societari e numerosi altri. «L’arco della possibile responsabilità delle società è pertanto ampia ed esaustiva» rileva l’esperto. Tra i processi più noti per quanto concerne la responsabilità delle persone giuridiche, Grosso menziona due casi ai quali ha partecipato personalmente in qualità di difensore di una delle parti: Parmalat e il processo contro alcune banche per truffa al Comune di Milano. Il nostro diritto positivo basato sul principio “societas delinquere non potest” esclude che si possa configurare una responsabilità penale in capo alle persone giuridiche. A cosa è dovuto lo sgretolamento di questo principio? «Il principio “societas delinquere non potest” ha costituito per decenni un pilastro della scienza giuridica penalistica. A
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L’avvocato Carlo Federico Grosso; in alto, un momento del processo Parmalat
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Carlo Federico Grosso • Dottrina penalistica
Tra i processi per quanto concerne la responsabilità penale delle persone giuridiche è noto il caso Parmalat
partire dagli anni 80 e 90 del Novecento, ha cominciato tuttavia a essere messo in discussione dalla dottrina penalistica, a cominciare da un celebre scritto del professore Franco Bricola. Progressivamente è emerso, come dominante, l’orientamento opposto, e cioè il presupposto che fosse opportuno colpire direttamente, anche sul terreno penale, e ovviamente con sanzioni penali confacenti di natura pecuniaria o interdittiva, le condotte illecite societarie riconducibili a carenza di un’adeguata organizzazione di prevenzione dal crimine». Com’è disciplinata la responsabilità delle persone giuridiche nell’ordinamento italiano? Quali sono i presupposti per l’attribuzione della responsabilità? «Nell’ordinamento italiano la responsabilità delle persone giuridiche è stata configurata come “responsabilità amministrativa da reato”, e non come “responsabilità penale”. In ogni caso, competente a giudicare è il giudice penale in un processo che ha le caratteristiche del processo penale (codice di procedura penale, con le modificazioni specificamente previste dal decreto legislativo 231/2001). Presupposto per l’attribuzione di responsabilità amministrativa da reato alle società è che sia stato commesso uno dei reati specificamente previsti dalla legge agli effetti di tale tipo di responsabilità, e che non sia stato adottato, ed efC&P • GIUSTIZIA
ficacemente attuato, un modello d’organizzazione adeguato a prevenire i reati». Quali sono i reati per i quali le persone giuridiche sono chiamate a rispondere? Quali altri reati andrebbero inseriti? «All’inizio, nel 2001, i reati previsti agli effetti della responsabilità delle persone giuridiche erano pochi, ma con successive integrazioni legislative il loro numero è stato molto ampliato. Oggi le società possono rispondere di truffa in danno dello Stato e reati simili, di delitti informatici e di trattamento illecito di dati, di delitti di criminalità organizzata, di concussione e corruzione, di falsità in monete, di taluni delitti contro l’industria e il commercio, di reati societari, di delitti con finalità di terrorismo o d’eversione, di numerosi delitti contro la personalità individuale, dei cosiddetti abusi di mercato, d’omicidio e di lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e della tutela della salute. L’arco della possibile responsabilità delle società è pertanto ampia ed esaustiva». Quali sono gli espedienti che possono trovare le aziende al fine di essere esentati dalle responsabilità? «Le società sono comunque esenti da responsabilità se, come ho già accennato, hanno adottato e attuato un modello d’organizzazione, di gestione e di controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi». Quali sono i casi più noti per quanto concerne la responsabilità penale delle persone giuridiche? «Con riferimento a processi ai quali ho partecipato personalmente in qualità di difensore di una delle parti, posso ricordare i processi Parmalat per aggiotaggio celebrati, o in corso di celebrazione, davanti alle sezioni I e II del Tribunale di Milano e il processo contro alcune banche per truffa al Comune di Milano, che è in corso di celebrazione anch’esso davanti alla sezione IV dello stesso tribunale». 113
Diritto fallimentare • Giovanni Borgna
La legge del crac I reati fallimentari, come spiega l’avvocato Giovanni Borgna, «riguardano comportamenti che costituiscono già fatti illeciti, ma dopo l’apertura di una procedura le eventuali pene si inaspriscono». Uno sguardo sulle recenti modifiche normative di Riccardo Casini
a Parmalat a Lehman Brothers, la cronaca nazionale e internazionale dell’ultimo decennio è piena di crac fragorosi, i cui strascichi, in campo finanziario ma anche legale, si protraggono ancora oggi. Giovanni Borgna, avvocato e docente di Diritto penale dell’Economia presso la facoltà di Economia e commercio dell’Università di Trieste, traccia i contorni dei reati di tipo fallimentare, dall’apertura della procedura alle possibili pene. «Si tratta di reati – spiega – previsti nella giurisdizione italiana dal regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942 e hanno come presupposto il fallimento dell’imprenditore, ovvero altra procedura concorsuale. Riguardano comportamenti che, in generale anche se non sempre, costituiscono già fatti illeciti, i quali assumono rilievo, sotto il profilo che qui interessa, nel momento in cui si apre un fallimento o un’altra procedura concorsuale. Per fare un esempio, condotte quali l’irregolare tenuta o la soppressione delle scritture contabili, ovvero l’appropriazione di beni dell’impresa, assumono una particolare valenza penale e divengono appunto reati fallimentari, quindi in generale puniti più gravemente, nel momento in cui l’impresa si trova in stato di insolvenza e ciò viene formalmente dichiarato dall’autorità competente. Possono essere rilevate a tal proposito, in presenza di parti-
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In apertura, Giovanni Borgna; in alto, la sede della Lehman Brothers e, a fianco, un suo dipendente dopo la bancarotta (la più grande della storia degli Stati Uniti) annunciata nel 2008
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C&P • GIUSTIZIA
Giovanni Borgna • Diritto fallimentare
Nelle relazioni dei curatori fallimentari sono segnalate con una certa frequenza bancarotte semplici e bancarotte preferenziali
colari requisiti, anche condotte che sarebbero lecite al di fuori del fallimento, come il pagamento preferenziale soltanto ad alcuni creditori». Nel reato può entrare in concorso anche il dipendente dell’imprenditore. In quali casi? «Il dipendente dell’imprenditore può essere coinvolto nei reati fallimentari, a titolo di concorso, soltanto in presenza di una solida prova di una partecipazione causale determinante, sul piano soggettivo e su quello oggettivo, alla condotta principale dell’autore del reato. Negli altri casi i reati fallimentari sono propri del solo imprenditore». Ma quale deve essere il corretto comportamento di quest’ultimo in seguito all’apertura di una procedura? «In seguito all’apertura di una procedura concorsuale l’imprenditore deve collaborare rigorosamente con gli organi di giustizia, fornendo ad esempio al curatore fallimentare tutte le informazioni richieste e la regolare e completa documentazione contabile, e consentendo la ricostruzione delle operazioni. I dati patrimoniali dell’impresa devono essere ricostruibili, ovviamente senza che risultino operazioni anomale di alcun tipo». Parliamo di bancarotta. Quali tipi si registrano maggiormente in Italia? «Innanzitutto va detto che il reato di bancarotta rappresenta C&P • GIUSTIZIA
la fattispecie più comune nel diritto penale fallimentare. Nelle relazioni dei curatori fallimentari, che costituiscono quasi sempre il punto di partenza dei procedimenti penali in materia fallimentare, sono segnalate con una certa frequenza bancarotte semplici e bancarotte preferenziali. Ma anche la bancarotta fraudolenta, che è il più grave dei reati fallimentari, non costituisce un’ipotesi rara. Si tratta di un delitto che richiede un comportamento doloso dell’imprenditore o atto a impedire la ricostruzione dell’attività dell’impresa, tramite le scritture contabili della stessa, ovvero tale da depauperare, nei modi tipici previsti dalla legge, la consistenza patrimoniale dell’impresa medesima, diminuendo così la possibilità che i creditori recuperino i loro crediti». Cosa la distingue dalla bancarotta preferenziale o semplice? «La bancarotta preferenziale concerne l’ipotesi del favore concesso ad alcuni creditori a danno di altri in presenza di un’insolvenza dell’impresa. Invece la bancarotta semplice, in estrema sintesi, consiste in condotte meno gravi, secondo la giurisprudenza anche, in determinati casi, di natura colposa, che hanno rilievo nell’aggravare lo stato di dissesto o, comunque, che consistono in atteggiamenti irregolari tenuti dall’imprenditore, quale l’incompleta tenuta delle scrit115
Diritto fallimentare • Giovanni Borgna
Ci sarebbe bisogno a mio avviso di una rimeditazione del sistema sanzionatorio, con importanti depenalizzazioni e interventi repressivi miti
ture contabili nei tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento. Vi sono poi una serie di ulteriori distinzioni, quali quella fra bancarotta antecedente e susseguente alla dichiarazione di fallimento. Gli articoli 223 e 224 della legge fallimentare estendono l’applicabilità delle pene previste per i reati di bancarotta semplice e fraudolenta anche agli organi apicali delle società dichiarate fallite». Come è cambiato il diritto fallimentare con i vari decreti legislativi degli ultimi anni che hanno modificato il decreto del 1942 che ancora oggi regola la materia? «La legge fallimentare del 1942 è tuttora in vigore, ma ha subito diverse modifiche, anche molto rilevanti. Per quanto riguarda le sanzioni penali, però, la normativa non è molto cambiata. Una delle modifiche più rilevanti, introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 12 aprile 2002, riguarda la contestabilità della bancarotta fraudolenta agli organi della società responsabili di un precedente falso in bilancio: il legislatore ha correttamente previsto che il falso in bilancio possa, in presenza di fallimento della società, rilevare ai fini della bancarotta fraudolenta soltanto se è causalmente connesso al dissesto della società stessa». In generale, la legislazione italiana in materia penale fallimentare è adeguata? «La normativa ha sicuramente bisogno di alcune revisioni, anche se l’impianto fondamentale è correttamente impo116
stato. Soprattutto, si sente l’esigenza di adeguare la legislazione con riferimento al recente sviluppo degli strumenti finanziari che consente, come si è visto anche a proposito di rilevanti fatti di cronaca, una serie di operazioni che non sempre è facile riportare con chiarezza alle tradizionali ipotesi dei reati fallimentari codificati anche ove tali operazioni abbiano avuto un rilievo nel dissesto dell’impresa». A proposito di cronaca, di recente nei casi più eclatanti si è registrato da più parti disappunto per le sanzioni troppo “miti”. Come valuta le pene previste per i reati fallimentari? «Non credo siano troppo miti: basti pensare che la bancarotta fraudolenta è punita, a parte la presenza di possibili aggravanti, con la reclusione da tre a dieci anni. Il vero problema, che credo riguardi l’intero settore del diritto penale, mi sembra consistere, soprattutto quando si tratta di fatti complessi e di difficile accertamento, nella gestione del processo penale. Ci sarebbe bisogno a mio avviso di una rimeditazione del sistema sanzionatorio, con importanti depenalizzazioni e, comunque, interventi repressivi miti; questo però in presenza di un processo efficiente, rapido, adeguatamente gestito, che consenta, ove necessario, la punizione congrua e rapida dei colpevoli, senza necessità di eccessi punitivi. Cioè esattamente l’opposto di quello che sta avvenendo». C&P • GIUSTIZIA
M&A • Gianni Nunziante
Operazioni guidate Il ruolo dell’advisor nelle operazioni di fusione e acquisizione assume maggiore importanza in questo momento di timida ripresa del mercato. Gianni Nunziante illustra le principali criticità nei suoi compiti e le strategie da seguire per le società di Riccardo Casini
Sotto, Gianni Nunziante, consulente e già socio fondatore dello studio legale Ughi e Nunziante; nella pagina a fianco, Sergio Marchionne: l’accordo Fiat - Chrysler ha ricevuto il premio speciale “operazione dell’anno” all’M&A Award 2010
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rascorso un 2009 nel quale il mercato M&A italiano ha toccato i suoi minimi storici in termini di volumi di attività e di controvalore (197 operazioni per appena 34 miliardi di euro), le difficoltà proseguono nel 2010, da molti definito come un anno di transizione. Gianni Nunziante, consulente e già socio fondatore dello studio legale Ughi e Nunziante, delinea il ruolo dell’advisor in questa fase. «Il suo – spiega – è un compito insostituibile. Anzitutto compie un’analisi dell’impresa con metro professionale e atteggiamento distaccato rispetto al giudizio dell'imprenditore, il più delle volte mosso comprensibilmente da fattori determinati dalla sua immedesimazione con la propria azienda, soprattutto nel caso di piccole imprese. In secondo luogo, l’advisor conosce – o si suppone conosca – le particolarità dell’impresa assistita che devono essere evidenziate all’attenzione della controparte, e in questo senso è la persona maggiormente indicata per identificare e dialogare con un potenziale candidato all’operazione. Nel corso della trattativa, poi, i consigli dell'advisor dovrebbero evitare al cliente percorsi impropri o non convenienti, mantenendo la negoziazione nei giusti confini e cioè evitando pretese eccessive o cedimenti non richiesti». La due diligence è un’attività di verifica che interessa non solo l’ambito finanziario di un’azienda, ma anche quello industriale, legale, fiscale, ambientale e delle risorse umane. In quali si riscontrano le difficoltà maggiori nel reperimento di informazioni? E quali sono ritenuti più meritevoli di attenzione da parte dei vostri clienti? «La due diligence legale non è solitamente tra le più difficoltose. Peraltro, nell’era odierna è possibile reperire informazioni in qualsiasi campo con relativa facilità, considerate l’abbondanza di fonti e la facilità di accesso alle stesse. Le difficoltà maggiori nel costruire un’immagine dell'impresa esaminata quanto più possibile aderente al modello si riscontrano, a mio avviso, in quegli ambiti ove il fattore umano è preponderante rispetto all'elemento tecnico: un'azienda nel settore della moda è sicuramente più ardua da valutare nella sua interezza di quanto non lo sia un’azienda manifatturiera o un’impresa di costruzioni, e ciò per l’intuibile maggior valore che alla prima di esse è apportato dalla creatività, dal gusto e dalla sensibilità dei rispettivi player. Fattori, questi, che una due diligence per quanto accurata non riesce a identificare e valutare». In quali casi è consigliabile per un’azienda, di grandi
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C&P • GIUSTIZIA
Gianni Nunziante • M&A
o piccole dimensioni, puntare alla cessione? «I casi di scuola sono quelli del ricambio generazionale e degli aspetti dimensionali. Nel primo caso la continuità aziendale è una diretta conseguenza di fattori soggettivi. Ovviamente ciò ha maggior valore quando si tratta di una piccola azienda, ma non soltanto. La decisione, in questi casi, è più frutto di un convincimento personale dell’imprenditore che del consiglio di un advisor. Situazione ben diversa è quella di un’impresa che regge nelle sue attuali dimensioni e nel suo posizionamento, ma trova difficoltà nel seguire il trend dei concorrenti sia per quanto riguarda dimensione o penetrazione nel mercato, sia per un gap tecnologico, per citare i casi più frequenti. Ovvero, esempio di particolare attualità, quando l’irresistibile concorrenza di prodotti provenienti da paesi con costi di produzione inferiori a quelli del nostro paese pone a repentaglio la continuità aziendale. In tutti questi casi, la tempestività della percezione da parte dell’imprenditore e la consapevolezza dell’impossibilità o difficoltà di rimediare alla situazione sono fondamentali per pervenire a una vendita nel giusto momento». Allo stato attuale, è più semplice puntare su fusioni e acquisizioni con aziende target italiane o estere, indipendentemente dal settore di riferimento? Quali sono le differenze a livello burocratico? «Fusioni e acquisizioni tra imprese di diversi paesi del mondo occidentale non presentano differenze significative. Questo a causa della progressiva uniformità delle regole contabili, ormai pervenuta a livelli avanzatissimi, ma anche della migliore comprensione di sistemi giuridici diversi ma C&P • GIUSTIZIA
lentamente convergenti, dell’internazionalizzazione dei modelli finanziari e della regolamentazione in settori come l'antitrust, ormai entrato a far parte della disciplina giuridico-economica di tutti i paesi a economia avanzata». Lei si occupa anche di M&A bancarie. Quali sono le principali differenze tra operazioni societarie e tra istituti di credito? «Certamente l’operazione diviene più complessa quando interessa un istituto di credito. In aggiunta all’ormai sacrosanta clearance antitrust, nel caso di fusione tra banche occorre, come immaginabile, munirsi dell’autorizzazione preventiva della Banca d’Italia, che è tutto fuorché un provvedimento di routine. Infatti, come è giusto che sia, le informazioni che occorre fornire per pervenire al risultato sono pervasive e dettagliate. In aggiunta la Banca d'Italia richiede il piano industriale del soggetto che intende assumere il controllo della banca, piano che viene esaminato e discusso in dettaglio. Qualora si tratti di acquisire una partecipazione non di controllo nel capitale di una banca, l’autorizzazione preventiva è sempre richiesta in corrispondenza di soglie scaglionate - dall’entrata in vigore della Direttiva comunitaria del 2007 - al 10 per cento del capitale ciascuna dalla successiva. Con le differenze che attengono alla particolare natura e funzione degli istituti di credito, il processo di M&A si svolge secondo il percorso usuale: la maggiore complessità può essere rappresentata dall’attentissima e complessa verifica dei rapporti intercorrenti tra una banca e la propria clientela, alla quale è solitamente riservato, giustamente, un meticoloso controllo». 119
M&A • Piero Venturini
Consulenza integrata Nelle operazioni di M&A per un advisor è sempre più indispensabile avere una buona conoscenza della materia fiscale, finanziaria e contabile. E a volte è necessario coinvolgere altri attori. È questo il parere di Piero Venturini di Riccardo Casini
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opo la crisi dei mercati finanziari, oggi le attività di fusione e acquisizione societaria sono in ripresa, anche se tutti gli addetti ai lavori del settore sono cauti nel definirlo un trend vero e proprio. Piero Venturini, partner di Legance studio legale associato e specializzato in diritto commerciale e societario, illustra le motivazioni che spingono gli operatori a condurre un’operazione di M&A e il ruolo svolto dal consulente legale. «I clienti che tipicamente si rivolgono al nostro studio per operazioni di M&A – spiega – si possono distinguere in due categorie principali: i fondi di private equity e i clienti industriali. Mentre le operazioni condotte dai primi sono principalmente volte a ottenere un ritorno economico in un periodo medio-breve (3-5 anni) con la successiva rivendita dell’asset acquisito, nel caso degli operatori industriali l’acquisizione è solitamente volta a sviluppare o consolidare la propria posizione sul mercato di riferimento. Le fusioni sono invece operazioni decisamente più sporadiche rispetto alle acquisizioni, e hanno quasi sempre la finalità di unire le forze per rendere più competitivo il business delle società che vi partecipano». L’acquisizione rappresenta una strada sempre consigliabile per una società che intende svilupparsi? Quali sono i rischi e le controindicazioni da tenere in considerazione? «Un’acquisizione rappresenta solitamente l’alternativa a una crescita organica del proprio business. È evidente che la scelta fra le due opzioni è condotta dal cliente anche tenendo conto della propria disponibilità economica o delle proprie capacità a far fronte all’indebitamento derivante dall’operazione. I rischi sono solitamente legati a una non corretta valutazione di quest’ultimo elemento o a eventuali problematiche relative alla precedente gestione della società target. A quest’ultimo riguardo gioca un ruolo essenziale in un’acquisizione la conduzione di un’accurata e approfondita due diligence preventiva che permetta di individuare eventuali aree critiche da gestire, ove possibile, contrattualmente». Qual è il ruolo dell’advisor lungo il processo di fusione o acquisizione? «L’advisor legale si occupa della stesura della documentazione precontrattuale, come lettere di intenti e offerte non vincolanti, e contrattuale; inoltre suggerisce la strategia negoziale, supporta il proprio cliente nelle discussioni sui punti business della trattativa e negozia in prima persona con il legale di controparte le parti più tecniche della documentazione contrattuale. Un’operazione di dimensioni medio-grandi richiede solitamente il coinvolgimento di più advisor con diverse competenze. Oltre al legale possono, infatti, essere chiamati a partecipare anche un consulente finanziario, un esperto di fiscalità, un revisore contabile e altri a seconda del tipo di attività svolta dalla società oggetto di acquisizione: può rendersi necessario, ad esempio, l’intervento di un consulente in materia ambientale».
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Piero Venturini • M&A
In apertura, Piero Venturini, partner dello studio associato Legance e specializzato in diritto commerciale e societario
Un’acquisizione rappresenta l’alternativa a una crescita organica del proprio business. La scelta deve basarsi sulla propria disponibilità economica C&P • GIUSTIZIA
Ma quali sono i requisiti di un buon advisor? «Pur nella necessaria distinzione dei ruoli, è diventato sempre più importante che un legale dimostri di avere una buona conoscenza delle principali tematiche di natura finanziaria, contabile e fiscale connesse a un’operazione di M&A. Proprio con riferimento alle tematiche di natura fiscale, nelle operazioni di M&A si fa sempre maggiore attenzione a ottimizzare l’impatto fiscale. Per questo Legance ha da sempre puntato molto sullo sviluppo del proprio team di fiscalisti ed è oggi in grado di prestare una consulenza integrata legale e fiscale di ottimo livello che risulta essere particolarmente apprezzata dalla clientela». Quali sono le strategie da seguire? «Non esistono strategie precodificate: l’andamento della trattativa spesso dipende dalle caratteristiche delle parti (salvo rare eccezioni un cliente industriale non ha la stessa struttura specializzata dedicata a queste operazioni che ha invece un fondo di private equity), dai rapporti di forza fra le parti (un soggetto in una situazione di nota difficoltà economica potrebbe essere tenuto ad assumere un atteggiamento più prudente) e dal tipo di processo (una trattativa fra due parti ha caratteristiche diverse da una procedura competitiva che vede coinvolti più soggetti)». Che conseguenze ha avuto il riconoscimento della legittimità del leveraged buy out introdotto dalla riforma del 2003? «Il riconoscimento della legittimità di questo tipo di operazioni ha certamente semplificato l’attività degli operatori del mercato evitando loro la necessità di elaborare strutture a volte particolarmente complesse, cui nel passato si faceva ricorso per evitare contestazioni di violazioni delle norme sulla financial assistance. Negli anni passati si è fatto ampio ricorso a questo tipo di operazione con l’assunzione da parte degli acquirenti di un indebitamento spesso eccessivo che la crisi dei mercati del 2007/2008 ha chiaramente evidenziato. Dopo un periodo in cui si è pensato più a ridiscutere i termini dell’indebitamento che a nuove operazioni, negli ultimi mesi si è visto un primo seppur timido risveglio di operazioni di Lbo». In generale, il quadro legislativo italiano è adeguato o è possibile apportarvi qualche miglioria? «La riforma del 2003 e altri successivi interventi posti in essere dal nostro legislatore nel diritto societario hanno certamente migliorato il quadro legislativo italiano, eliminando alcuni ostacoli e rendendo disponibili anche da noi strumenti già da tempo utilizzati in altre giurisdizioni straniere. Tuttavia ritengo che non siano ancora state sfruttate appieno tutte le potenzialità offerte da alcune di tali novità: mi sarei atteso per esempio un maggiore ricorso ai patrimoni dedicati, alle azioni riscattabili o gli strumenti partecipativi. Credo che alcune di queste novità potranno risultare uno strumento importante per l’ulteriore sviluppo del mercato dell’M&A in Italia». 121
M&A • Luigi Vita Samory
L’importanza di chiamarsi advisor Dalla due diligence alla riorganizzazione aziendale, il legale deve affiancare l’imprenditore in tutte le fasi dell’operazione di M&A, come spiega Luigi Vita Samory: «Serve una visione globale. Il consiglio più frequente? Quello di agire con calma» di Riccardo Casini
n ogni processo di fusione o acquisizione il ruolo dell’advisor riveste un’importanza fondamentale. Ma quali devono essere i compiti e i requisiti di un legale impegnato in questo settore? Ne parliamo con Luigi Vita Samory, fondatore dell’omonimo studio legale con sede a Milano, e da diversi decenni impegnato nel settore M&A. «Una volta che si sia individuata la società che si intende acquisire – spiega – deve anzitutto essere avviata l’attività di indagine conoscitiva (due diligence) sull’impresa oggetto di acquisizione o di fusione, in modo da conoscere preventivamente eventuali criticità della stessa. La due diligence non sarà ovviamente limitata agli aspetti legali, ma dovrà avere a oggetto gli ambiti più diversi, tra cui quello giuslavoristico, fiscale, di business e ambientale. Esaurita tale attività, anche in funzione delle risultanze della stessa, dovrà essere individuata la struttura dell’acquisizione che meglio risponda alle esigenze del cliente: in particolare si dovrà stabilire se sia preferibile procedere tramite un acquisto di partecipazioni, un acquisto di azienda, ovvero attraverso una fusione». E a quel punto? «Una volta che la società target sia entrata nell’orbita dell’acquirente o dell’incorporante, essa dovrà essere integrata in quest’ultima. A tal fine potrà essere necessario modificare gli statuti sociali, così come stilare, o perfezionare, appositi patti paraso-
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ciali con gli eventuali soci di minoranza.Va da ultimo precisato che tutte queste fasi non sono, nella pratica, così nettamente distinte tra loro, ma spesso, in ossequio alle sempre più frequenti esigenze di sveltezza da parte del cliente, hanno luogo parallelamente, in modo da abbreviare il più possibile i tempi». Qual è, in ognuna di queste fasi, il ruolo dell’advisor? «Il ruolo principale dell’advisor, oltre ovviamente a fornire una qualificata assistenza legale, è quello di affiancare l’imprenditore in tutte le fasi dell’operazione di M&A, avendo una visione globale che consenta di non limitare la propria consulenza agli aspetti più prettamente tecnico-legali, ma di essere per il cliente un riferimento unico che coordini i vari consulenti tecnici nelle diverse aree». Quali sono i requisiti di un buon advisor? «L’eccellenza nella competenza tecnica è ovviamente il punto di partenza. Il valore aggiunto di un buon advisor è a mio avviso dato dall’avere un approccio non limitato agli aspetti tecnico-giuridici dell’operazione, ma multidisciplinare, quasi imprenditoriale, in modo da poter offrire una consulenza a più ampio spettro e poter costituire un punto di appoggio il più possibile completo per l’imprenditore». Ogni processo di fusione o acquisizione implica una successiva fase di ristrutturazione. Quali sono le C&P • GIUSTIZIA
Luigi Vita Samory • M&A
Luigi Vita Samory, fondatore dell’omonimo studio legale con sede a Milano
C&P • GIUSTIZIA
difficoltà che si possono incontrare a quel punto? «Più che di ristrutturazione, che si ha quando oggetto delle operazioni di M&A sono imprese in stato di crisi, parlerei di riorganizzazione. È evidente infatti che l’integrazione dell’impresa target nell’impresa - o nel gruppo - dell’acquirente comporta la necessità di interventi, a volte anche profondi, sull’organizzazione aziendale. In particolare nelle operazioni di fusione, diverse attività e funzioni devono essere amalgamate sia dal punto di vista strutturale che da quello sostanziale, rendendo omogenee realtà che hanno sempre operato autonomamente. Nelle operazioni di acquisizione non totalitarie, inoltre, si ha a che fare con i soci di minoranza della target, con i quali andranno negoziati idonei patti parasociali che consentano di tutelare le minoranze, pur garantendo un efficiente funzionamento dell’impresa». Attualmente quali sono i vantaggi per chi vuole dar vita a un processo di M&A nei confronti di un’azienda target estera? Quali sono invece i rischi? «Fino a qualche tempo fa, il rapporto di cambio estremamente vantaggioso dell’euro nei confronti delle principali valute ha consentito di effettuare operazioni a prezzi particolarmente bassi, il che ha effettivamente portato molti imprenditori a guardare all’estero per le operazioni di M&A. Inoltre va detto che in molti paesi i costi della produzione e gli oneri finanziari che le aziende devono sostenere sono senz’altro molto inferiori rispetto a quelli che vi sono in Italia. I vantaggi, quindi, sono principalmente economici, oltre che dati dalla possibilità di internazionalizzare il proprio business, aprendo a nuovi mercati, potenzialmente in grande crescita. Quanto ai rischi, deve essere attentamente - e preventivamente - valutato l’impatto della legislazione locale, che spesso prevede limitazioni o vincoli più forti rispetto a quelli domestici. A tal fine, l’advisor legale dovrà fare da “interprete” per l’imprenditore, in modo da consentire una comprensione della normativa che sarà applicata all’azienda target, anche in relazione alla normativa, anche fiscale, italiana sulle partecipazioni straniere». In generale, quali sono i consigli che date ai vostri clienti che vogliono intraprendere un processo di M&A? «Il consiglio che mi trovo più spesso a dare è quello di agire con calma. È sorprendente, infatti, come spesso nel corso della trattativa le parti, nella fretta di chiudere, a volte trascurino anche consapevolmente aspetti che poi si riveleranno importanti o problematici a operazione conclusa. Credo che un’operazione di M&A debba invece essere attentamente pianificata in modo tale da avere, nei limiti del possibile, tempo e modo di valutare e risolvere tutte le potenziali fonti di futuri contenziosi».
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M&A • Luigi Arturo Bianchi
La gestione di fusioni societarie Accrescere l’equilibrio economico delle imprese. Secondo il professor Luigi Arturo Bianchi, è questo l’obiettivo ultimo delle integrazioni societarie di Nicolò Mulas Marcello
ttivare un processo di fusione o acquisizione, quindi di integrazione di una società, rappresenta una delle modalità per sviluppare un vantaggio competitivo sul mercato. L’impresa che risulta dalla fusione è un’entità economica diversa rispetto a quella delle imprese da cui viene generata e, comunque, non equiparabile alla semplice sommatoria delle singole componenti. Infatti, l’integrazione economica porta, in tempi non brevi, a un organismo del tutto nuovo, differente per identità giuridica, per organi direttivi e per strutture organizzative. Una fusione validamente progettata dovrebbe di regola far conseguire un beneficio economico, determinato dalla creazione di un sistema produttivo che ha un valore economico superiore alla somma dei valori economici assegnabili alle due o più aziende partecipanti, se restassero sistemi indipendenti. Per affrontare questo tipo di operazioni occorre valutare attentamente molti fattori che potrebbero rivelarsi rischi. «Nell’acquisizione – sottolinea Luigi Arturo Bianchi, docente all’università Bocconi e partner dello studio legale d'Urso Gatti e associati – la fase più delicata dal lato del compratore è soprattutto quella della due diligence, ossia dell’attività dalla quale poi possono derivare richieste di una serie di cautele di tipo negoziale, soprattutto in termini di garanzie e di meccanismi di revisione del prezzo» Quali sono i fattori che una società deve tenere sotto
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controllo prima di effettuare questo tipo di operazione e quali sono le valutazioni necessarie? «Nella mia esperienza di professionista e componente di consigli di amministrazione di società quotate, il fattore vincente delle integrazioni è dato dalla possibilità di realizzare effettivamente le sinergie soprattutto di costo e conseguentemente di incremento della redditività, che sono all’origine delle operazioni di m&a.Ad esempio la fusione tra Intesa e San Paolo è, da questo punto di vista, un’operazione di successo perché ha consentito dei risparmi di costi molto significativi e in tempi brevi. In campo bancario ci sono state invece fusioni in cui vi sono state sovrapposizioni di attività che non sono state risolte, problematiche legate all’utilizzo di diversi sistemi informatici, esubero di personale e non chiara segmentazione dei mercati, oltre alle rivalità personali tra i manager. Questi nella mia esperienza sono i fattori più critici delle integrazioni». Dal punto di vista giuridico il panorama normativo offre uno scenario chiaro per affrontare questo percorso o ci sono lacune? Come si potrebbe migliorare o rendere più snello l’iter di fusione? «Con la riforma del 2003 si è verificata una significativa apertura alle operazioni di acquisizione grazie al riconoscimento della legittimità del leveraged buy out, del quale il mercato ha fatto un ampio e talvolta non sempre oculato uso, specie nelle C&P • GIUSTIZIA
Luigi Arturo Bianchi • M&A
Sotto Luigi Arturo Bianchi, professore ordinario di Diritto commerciale presso l'Università Bocconi di Milano e partner dello studio legale d'Urso Gatti e associati
Nel caso di fusioni che riguardano il risparmio gestito e quindi reti di distribuzione, è molto importante cautelarsi rispetto al rischio di perdita di clientela e di avviamento C&P • GIUSTIZIA
operazioni dei fondi di private equity. D’altra parte, i principi contabili internazionali per le società quotate, da una parte hanno favorito le acquisizioni e le fusioni, dall’altra, a seguito della crisi, creano oggi problemi delicati alle società, soprattutto nella contabilizzazione degli avviamenti. Infatti, gli avviamenti e gli altri valori “intangibili” devono formare oggetto dell’impairment test, il che impone spesso una pesante svalutazione del loro valore. Quali sono i passi attraverso i quali il legale accompagna l’azienda nel percorso di fusione e acquisizione? «Nell’acquisizione la fase più delicata dal lato del compratore è soprattutto quella della due diligence, ossia dell’attività dalla quale poi possono derivare richieste di una serie di cautele di tipo negoziale, soprattutto in termini di garanzie e di meccanismi di revisione del prezzo. E ovviamente la fase più significativa è quella della negoziazione delle condizioni delle operazioni. Il mio suggerimento è quello di stabilire i criteri di valutazione del prezzo ai fini soprattutto della sua revisione in maniera il più possibile precisa. Ad esempio, come si stabilisce la posizione finanziaria netta perché su questo si possono innescare delle liti giudiziarie o arbitrali». Quali sono i rischi nei quali una società può incorrere attraverso un’operazione di questo tipo? «Dipende sicuramente dal settore. Ad esempio, per parlare di 125
M&A • Luigi Arturo Bianchi
Nelle acquisizioni la fase più significativa è quella della negoziazione delle condizioni delle operazioni. Il mio suggerimento è quello di stabilire i criteri di valutazione del prezzo 126
operazioni attuali, nel caso di fusioni che riguardano il risparmio gestito e quindi reti di distribuzione, è molto importante cautelarsi rispetto al rischio di perdita di clientela e di avviamento. Se prendiamo un’altra tipologia di operazioni, quelle di acquisizione di imprese industriali, occorre grande attenzione soprattutto in fase di diligence per valutare i rischi di contestazioni in materia ambientale». Spesso si sottovalutano le conseguenze gestionali e organizzative che derivano da una fusione societaria. Dalla sua esperienza cosa si sente di consigliare agli imprenditori che vogliono affrontare questo tipo di percorso? «Si tratta soprattutto di valutare se in alternativa a acquisizioni o fusioni, possa esservi la creazione di legami di tipo commerciale che sono meno impegnativi ma che possono dare lo stesso buoni risultati. Quindi occorre valutare bene il trade off tra i costi e le complicazioni di un’integrazione societaria rispetto ai vantaggi che ci possono essere creando dei legami di tipo commerciale, mantenendo in tal modo l’autonomia legale e operativa tra i due soggetti. In generale vanno valutati bene i rischi di sovrapposizione di attività, e le problematiche derivate dalla gestione di piattaforme informatiche che oggi rappresentano un tema molto importante anche dal punto di vista dei costi di implementazione». C&P • GIUSTIZIA
Finanza strutturata • Francesco Gianni
La qualità del bene fa la differenza
L’implementazione di operazioni di finanza strutturata è caratterizzata da un’elevata complessità. A delineare alcune tendenze dell’attuale scenario è Francesco Gianni, senior partner dello studio Gianni Origoni Grippo & Partners di Francesca Druidi
Sotto, Francesco Gianni, senior partner dello studio Gianni Origoni Grippo & Partners; nella pagina a fianco, in alto, interno della Banca centrale europea e, sotto, l’agenzia di rating Fitch Ratings
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invito a ridurre l’automatica fiducia del sistema finanziario nelle agenzie di rating è arrivato dal presidente del Financial Stability Board e governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in occasione del Plenary meeting di Seul in previsione del G20. Draghi ha, inoltre, rimarcato la necessità di conferire più poteri alle autorità di vigilanza: una raccomandazione che sarà rilanciata proprio al G20, in programma il prossimo 12 novembre, durante il quale verranno presentate una serie di proposte per la riforma del sistema finanziario globale. D’altro canto, da mesi il tema dell’attendibilità delle agenzie di rating è all’ordine del giorno, oggetto di diverse riflessioni. «Ritengo che il ruolo delle agenzie di rating non sia eliminabile tout court e che in operazioni caratterizzate da forti asimmetrie informative tra l’originario titolare dei beni sottostanti l’operazione e l’investitore finale, sia assolutamente necessario un parametro di giudizio che permetta una valutazione e una confrontabilità tra i vari prodotti offerti nel mercato», è l’opinione di Francesco Gianni, senior partner dello studio Gianni Origoni Grippo & Partners, che si sofferma anche sull’attuale andamento delle operazioni di finanza strutturata. In questa fase caratterizzata ancora dagli strascichi della crisi economica, quali sono le operazioni di finanza strutturata che vengono oggi in prevalenza predisposte? «Di recente in Italia abbiamo assistito a numerose e ingenti emissioni di obbligazioni bancarie garantite, i cosiddetti covered bond, da parte dei principali istituti di credito italiani. Sono continuate le cartolarizzazioni pubbliche caratterizzate dallo
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C&P • GIUSTIZIA
Finanza strutturata • Francesco Gianni
Il mercato della finanza strutturata sta evolvendo verso la valutazione di ulteriori asset da utilizzare come sottostante per operazioni di cartolarizzazione
sconto dei titoli emessi, mediante meccanismi di tipo Repo, presso la Banca centrale europea, nonché operazioni di ristrutturazione di titoli emessi da società del gruppo Lehman Brothers. Non sono mancati poi alcuni episodi, seppur estremamente isolati, di cartolarizzazioni di mutui ipotecari relativi a immobili siti in Italia. Il mercato della finanza strutturata sta evolvendo verso la valutazione di ulteriori asset da utilizzare come sottostante per operazioni di cartolarizzazione, quali ad esempio i crediti sorti nell’ambito di operazioni di project financing, settore che sta attraversando una fase di notevole espansione». Quali sono i principali fattori di complessità che contraddistinguono un’operazione di finanza strutturata? «Le operazioni di finanza strutturata sono, come indicato dalla C&P • GIUSTIZIA
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Finanza strutturata • Francesco Gianni
Non è possibile prescindere dai giudizi di rating che siano espressi sulla base di stringenti e attente valutazioni
stessa dizione, operazioni estremamente complesse, in cui intervengono svariati attori e che possono presentare delle criticità sotto numerosi punti di vista, tra cui quello civilistico, regolamentare, contabile e fiscale. A mio giudizio, un’analisi particolarmente approfondita, sia dal punto di vista giuridico che economico, deve riguardare il bene sottostante l’intera operazione. Questa non è un’attività di facile realizzazione, ma come le più recenti esperienze hanno dimostrato, è dalla qualità del bene sottostante che dipende la bontà dell’intera operazione: pertanto è proprio dalla corretta valutazione di quel bene che si dovrà partire per definire la struttura dell’intera operazione» Il mercato della finanza strutturata si basa sui rating. In uno scenario dove il rischio sistemico è ancora elevato, in che modo e su quali basi si può valutare l’affidabilità dei rating? «Molto è stato detto negli scorsi mesi circa l’affidabilità dei giudizi sul merito di credito espressi dalle società in questo specializzate. La situazione attuale testimonia che nell’attribuzione di alcuni giudizi l’impatto di una crisi sistemica su determinate operazioni non è stato tenuto in passato nella debita considerazione. È altrettanto innegabile, peraltro, che i beni sottostanti e gli strumenti finanziari di cui si tratta sono di difficile valutazione e che, quantomeno a mio avviso, non è possibile prescindere dai giudizi di rating che siano espressi sulla base di stringenti e attente valutazioni». Un eccessivo affidamento sui rating e il rischio di modello comportano l’eventualità di perdite impreviste. Come evitare questo problema? «A meno di ipotizzare un’indagine specifica da parte dell’investitore che consideri anche le caratteristiche e le criticità dei beni sottostanti, ritengo che anche in futuro si dovrà fare affidamento su giudizi espressi da soggetti terzi e indipendenti specializzati nella valutazione di tali beni. D’altra parte, a mio giudizio, un preciso adattamento del modello di valutazione 130
alla specifica situazione oggetto di analisi potrebbe mitigare il rischio di modello, pur non potendolo eliminare completamente o definitivamente». I conflitti d’interesse nell’operatività delle società di rating sono amplificati dal ruolo che queste svolgono nel promuovere lo sviluppo degli strumenti di finanza strutturata. Per questo sono in molti a metterne in discussione l’esistenza e la funzione. Lei cosa ne pensa? «Le società di rating non sono i soli soggetti che hanno un interesse nello sviluppo delle operazioni di finanza strutturata; questo è un interesse comune a molti altri operatori del mercato. Ciò non significa, però, che l’indipendenza di giudizio e la professionalità di tali operatori nello svolgimento delle proprie funzioni siano necessariamente inficiate da tale circostanza. Ritengo che il ruolo delle agenzie di rating non sia eliminabile tout court e che in operazioni caratterizzate da forti asimmetrie informative tra l’originario titolare dei beni sottostanti l’operazione e l’investitore finale sia assolutamente necessario un parametro di giudizio che permetta una valutazione e una confrontabilità tra i vari prodotti offerti nel mercato». Se e in che modo il trattamento del rischio di credito deve essere maggiormente modificato e/o regolamentato? «Io sono tra chi ritiene deleteria un’eccessiva regolamentazione, il cui principale effetto sarebbe di “strozzare” il mercato e di impedire che anche operazioni meritevoli rimangano intrappolate nelle strette maglie di una normativa troppo rigida. A mio giudizio, l’intera vicenda dovrebbe essere inquadrata sulla base del criterio della diligenza e della professionalità nello svolgimento del proprio incarico. Dovrebbero essere previste, quindi, specifiche fonti di responsabilità a carico dei soggetti che abbiano svolto le proprie mansioni con leggerezza, imperizia o addirittura in virtù di interessi propri configgenti con il principio di terzietà e indipendenza connaturato al proprio incarico». C&P • GIUSTIZIA
Quotazione • Enrico Giordano, Ferigo Foscari
Nuovo impulso per Piazza Affari L’Ipo di Enel Green Power può rivitalizzare il mercato delle nuove quotazioni in Borsa. A illustrarne l’andamento e le prospettive future sono Enrico Giordano e Ferigo Foscari dello Studio Chiomenti di Francesca Druidi ulvio Conti, ad di Enel, l’ha definita “la più grande Ipo in Europa dal 2007”. La quotazione sul mercato telematico azionario di Borsa Italiana delle azioni di Enel Green Power, società del Gruppo Enel interamente dedicata allo sviluppo e alla gestione delle attività di generazione energetica da fonti rinnovabili, può dare una scossa decisiva al mercato. «L’Ipo di Egp sarà un test importante per l’Italia e non solo», conferma Enrico Giordano, esperto di mercati dei capitali e socio dello Studio Chiomenti, studio che «ha avuto l’onore di assistere Enel ed Enel Green Power in tutte le fasi dell’operazione, sin dalla costituzione della nuova società». Enel Green Power, ricorda il legale, è una società di grandi dimensioni, con oltre 10 miliardi di capitalizzazione attesa, appartenente al Gruppo Enel, da sempre molto vicino al pubblico retail e agli investitori istituzionali internazionali. «Dopo la crisi del 2007, il successo di questa quotazione potrà fornire un’ulteriore iniezione di fiducia e molti emittenti potrebbero rimettersi in coda a breve, sulla scorta delle trimestrali in ripresa». Del resto, il settore dell’energia è stato uno dei pochi a risultare trainante e dinamico in questa fase congiunturale non ancora del tutto positiva. «In questo momento storico – prosegue Giordano – il settore delle energie rinnovabili è in particolare fermento e sotto i riflettori, anche per il grande contenuto sociale e tecnologico dei progetti in cui queste società investono». Il legale ri-
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marca, inoltre, il respiro internazionale dell’Ipo: «le azioni, oltre a essere offerte agli investitori istituzionali europei, statunitensi e canadesi, saranno offerte e quotate in Italia e in Spagna. Quest’anno è la seconda volta che il Gruppo Enel offre i propri strumenti finanziari al pubblico retail in Europa, utilizzando la tecnica della cosiddetta “passaportazione comunitaria” del prospetto informativo approvato dalla Consob». Già lo scorso febbraio, Chiomenti ha assistito Enel nell’offerta pubblica di obbligazioni, rivolta al retail in Italia, Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo. «E il successo dell’operazione fu enorme». La quotazione identifica oggi un’opportunità importante per le società, in quanto consente di diversificare le fonti di finanziamento per la crescita dell’impresa, imponendo un modello di gestione aziendale e di corporate governance improntato alla trasparenza, con immediati effetti positivi. «Il management con la quotazione si dota di strumenti di reporting, analisi e controllo del proprio business molto più sofisticati ed efficaci, aprendosi al confronto quotidiano con gli analisti specializzati e gli investitori professionali: normalmente ciò porta a vedere la propria azienda e l’arena competitiva in modo nuovo, moderno e privilegiato». Questo processo non manca però di difficoltà, che si concentrano per Giordano soprattutto nella fase antecedente alla quotazione, anche a causa del grande sforzo che tutte le strutture aziendali sono chiamate a compiere per rispettare i tempi riC&P • GIUSTIZIA
Enrico Giordano, Ferigo Foscari • Quotazione
A sinistra, la centrale solare termodinamica “Archimede” avviata da Enel a Priolo Gargallo (SR); in alto, Francesco Starace, amministratore delegato di Enel Green Power, la cui quotazione è stata seguita dallo Studio Chiomenti; sotto Fulvio Conti, ad del Gruppo Enel
chiesti dalla procedura. «Per questo bisogna essere seguiti da advisor finanziari, legali e contabili competenti e di primario livello. Dopo la quotazione, tutto diventa più semplice e naturale e il management ritorna a concentrarsi sul business con energie rinnovate, nuovi stimoli e nuovi obiettivi». Secondo i dati di uno studio effettuato da Ernst & Young, il mercato mondiale delle nuove quotazioni in Borsa torna a crescere. Ma se per Stati Uniti ed Europa il settore rimane volatile, è la Cina a dominare nel terzo trimestre dell’anno. E in Italia qual è la situazione? «Anche nel nostro Paese – risponde Enrico Giordano – il mercato sembra rimanere volatile. Alcune operazioni europee, che non sono andate particolarmente bene, non hanno contribuito a dare fiducia agli investitori». Molti emittenti e molte operazioni su cui lo Studio Chiomenti ha lavorato nel corso dell’anno hanno, infatti, rimandato la quotazione, in attesa di un mercato più favorevole. «La volatilità dei mercati è il nemico numero uno per tutte le operazioni di capital market e in particolare per le offerte azionarie». Parlando di Cina, la bolognese Ima, leader nella produzione di macchine automatiche per il processo e il confezionamento di prodotti farmaceutici e cosmetici, tè e caffè, ha ipotizzato uno sbarco alla Borsa di Shanghai. «Oggi l’unica Borsa cinese aperta alle società straniere è quella di Hong Kong», spiega Ferigo Foscari, altro socio dello Studio Chiomenti esperto di mercati dei C&P • GIUSTIZIA
capitali. «Shanghai ha annunciato l’intenzione di aprire a breve la quotazione alle società non cinesi, per diventare il secondo polo di riferimento nella “terra di mezzo”. Molti ritengono, tuttavia, che ci vorrà molto tempo prima che Shanghai possa togliere a Hong Kong il ruolo di principale mercato di quotazione asiatico, attualmente conteso con la Borsa di Tokyo». D’altronde, rileva Foscari, le società europee e americane con presenza operativa in Asia o con progetti di espansione in quei mercati, guardano con grande interesse alle borse asiatiche. «La grande liquidità presente su quei mercati, non solo degli investitori istituzionali ma anche di quelli retail, e la maggiore comprensione da parte degli investitori asiatici dei programmi di espansione di queste aziende nella regione, consentono spesso agli offerenti di realizzare un prezzo di Ipo con multipli superiori rispetto ad altri mercati». Il legale fa notare come proprio recentemente una delegazione guidata dal presidente della Borsa di Hong Kong abbia condotto il suo primo roadshow in Italia, per presentare la Borsa a società potenzialmente interessate alla quotazione ad Hong Kong. Il tema è, dunque, di grande attualità. «Chiomenti – conclude Ferigo Foscari – è l’unico studio italiano presente già da diversi anni in Cina e ad Hong Kong con avvocati specializzati nel capital market. Negli ultimi mesi, numerose società e banche d’affari ci hanno chiesto di approfondire la materia della quotazione e del cosiddetto dual listing». 133
Quotazione • Stefano Bianchi
Pmi quotate, uno scenario ancora critico
Sono poche le Pmi a Piazza Affari. Per Stefano Bianchi, partner dello studio legale Pavia e Ansaldo, servono una maggiore propensione culturale da parte delle aziende e una più mirata comunicazione di Francesca Druidi
e piccole e medie imprese costituiscono la spina dorsale del sistema produttivo italiano. Ma risultano scarsamente propense alla quotazione in Borsa. A fine giugno, il presidente uscente della Consob, Lamberto Cardia, ha sottolineato come negli altri maggiori mercati dell’Unione europea le piccole società con capitalizzazione inferiore ai cento milioni di euro, rappresentino oltre il 60% delle quotate rispetto al 40% dell’Italia. «Il punto focale – evidenzia Stefano Bianchi, esperto di diritto societario e partner dello Studio legale Pavia e Ansaldo – è la promozione di una cultura della trasparenza e della governance, prerequisito necessario per avere una storia di successo in Borsa, con vantaggi diretti e indiretti sotto il profilo della reputazione, del consolidamento dell’immagine dell’azienda sul mercato, del merito di credito che l’impresa acquista agli occhi delle istituzioni finanziarie, banche e fondi». La quotazione in Borsa identifica realmente una strada per la crescita delle pmi? «Non penso sia un bene in sé per qualsiasi piccola e media impresa. Per incentivare bisogna comunque che ci sia una selezione. Una realtà produttiva che debba compiere degli investimenti i cui ritorni non siano immediati o che abbia l’esigenza di una crescita dimensionale per competere su un mercato più ampio di quello nazionale, avverte la necessità di dotarsi di risorse finanziarie che non possono provenire solo dalla pro-
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Sotto, Stefano Bianchi, esperto di diritto societario e partner dello studio legale Pavia e Ansaldo; sopra, Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa Italiana
C&P • GIUSTIZIA
Stefano Bianchi • Quotazione
Per svilupparsi Aim Italia richiede un’attività di promozione che ha un suo costo e i cui esiti non sono scontati prietà, dalla famiglia o dalle banche che tradizionalmente hanno rapporti con l’impresa, come accade di solito in Italia. Perché ciò avvenga occorre, più che in passato, prestare attenzione al rapporto tra l’appello al pubblico o privato risparmio e gli obiettivi industriali che l’impresa intende conseguire». Aim Italia è il mercato di Borsa Italiana rivolto espressamente alle piccole e medie imprese. Lo ritiene efficace? «Lo strumento è ben concepito. Ma è utile se lo si rende noto in maniera adeguata, dimostrando che è veramente un’opportunità. Il piccolo e medio imprenditore ha necessità di avere informazioni approfondite e mirate alle specifiche esigenze della sua azienda. Il passo successivo è quello poi di capire se l’impresa in questione risponda all’identikit di potenziale società quotabile, ma ciò dipende dal settore, dall’azienda e dal momento di mercato. La questione fondamentale riguardo all’Aim è che per svilupparsi richiede un’attività di promozione che ha un suo costo e i cui esiti non sono scontati». Quali cambiamenti normativi sarebbero necessari per incentivare la quotazione delle pmi? «Prima dei cambiamenti normativi, occorrerebbe una vera e propria svolta nella promozione dei valori della buona governance e dell’apertura degli assetti proprietari. Ciò che a mio parere manca, al di là dei pur lodevoli sforzi di Borsa Italiana, è un più intenso e capillare utilizzo dei mezzi di comunicazione, da pubblicazioni C&P • GIUSTIZIA
specializzate a workshop, tesi a dimostrare agli imprenditori del segmento di mercato delle piccole e medie imprese che il gioco vale la candela. I costi della quotazione in termini economici e i disincentivi, rappresentati dai vincoli che la quotazione può comportare dal punto di vista della necessità di dar conto della propria gestione, scoraggiano in misura rilevante. Il vantaggio è così percepito come poco chiaro, mentre lo svantaggio risulta, invece, immediato. Questa è però una prospettiva di breve periodo, perché disporre di una gamma di possibilità di reperimento di risorse alternative al credito bancario è essenziale». Cosa fare allora? «Il reperimento di capitale sul mercato, anziché essere descritto puramente in termini generici, andrebbe adeguatamente promosso, ad esempio evidenziando come lo status di quotata dell’azienda possa indurre non solo gli investitori, ma anche altri potenziali finanziatori a intervenire a sostegno dell’impresa: le stesse banche mostrano maggiore interesse a finanziare società che manifestano una più elevata propensione alla trasparenza e, quindi, alla possibilità di essere controllate nella loro gestione. Tra gli investitori, un ruolo significativo potrebbe essere svolto dai fondi di private equity che, spesso interessati a rilevare soltanto pacchetti azionari di minoranza, possono consentire agli imprenditori delle pmi di conseguire il notevole vantaggio di rafforzare l’azienda, evitando lo shock della perdita del controllo. A questo punto, anche i possibili cambiamenti normativi sul 135
Quotazione • Stefano Bianchi
Facendo in particolare riferimento alle pmi, le banche dovrebbero concentrare maggiormente gli sforzi nell’erogazione del credito
piano delle agevolazioni fiscali avrebbero senso, a condizione che fossero agevolazioni specifiche, ad esempio per pmi orientate a quotarsi per investire in innovazione e sviluppo». Il divario con le altre nazioni europee deriva, quindi, dalla mancanza di una cultura radicata? «Sì, ma c’è un ulteriore elemento da sottolineare. Il sistema italiano, come noto, è peculiare non solo per la rilevanza economica delle Pmi, ma anche perché le loro strutture proprietarie sono in prevalenza a carattere familiare. Il che non necessariamente individua un punto di debolezza, anzi spesso si è rivelato un punto di forza. In altri casi, invece, temo che la resistenza, la remora tipicamente italiana, sia determinata dal fatto che esiste una scarsa propensione delle famiglie, da un lato a consentire controlli vissuti come ingerenze nella gestione e, dall’altro, ad accettare senza riserve la cultura dell’accountability. In sostanza, si rileva una sorta di allergia rispetto all’esigenza di dar conto agli stakeholder e a una più vasta platea di interessati alle sorti dell’azienda, del modo in cui questa viene gestita. Tuttavia, proprio questa cultura dell’accountability è la premessa indispensabile per poter fare appello al pubblico risparmio. Se per certi versi, la struttura familiare della proprietà delle imprese italiane ha assicurato stabilità e camere di compensazione impensabili in altre realtà, ha però anche frenato l’apertura sul fronte della quotazione». Come favorire il cambiamento culturale verso l’apertura della proprietà delle imprese? 136
«Un punto interessante potrebbe essere identificato da un fattore che spesso, invece, viene visto come un impedimento, ossia le opportunità offerte dai passaggi generazionali. Questi, infatti, potrebbero incentivare il passaggio dalla posizione di azionisti e gestori esclusivi dell’impresa tipica dei fondatori, a un ruolo di soci di controllo di discendenti ed eredi, che pur rimanendo coinvolti nella gestione - auspicabilmente solo qualora siano dotati delle capacità e dei talenti a tal fine necessari - dimostrino una più spiccata sensibilità per la valorizzazione delle risorse manageriali esterne nella gestione aziendale, risorse che è ragionevole ritenere siano più attratte da una società quotata che non da un’impresa di tipo familiare dagli equilibri diversi». Quale atteggiamento dovrebbero assumere le banche? «Facendo in particolare riferimento alle Pmi, le banche dovrebbero concentrare maggiormente gli sforzi nell’erogazione del credito, contribuendo così in modo essenziale allo sviluppo dell’economia reale. Mi parrebbe, quindi, necessario, a tale scopo, ri-orientare capacità, intelligenze e risorse interne alle banche in modo da ridimensionare l’impegno verso la finanza creativa e il perseguimento di profitti a volte meramente speculativi. La priorità rimane la valutazione del merito di credito dei singoli progetti. Questa è, infatti, la prima vera garanzia di rimborso. Se più banche svolgessero con meno titubanza il loro mestiere, dotandosi delle giuste competenze, la quotazione delle imprese sarebbe agevolata». C&P • GIUSTIZIA
Proprietà industriale • Giorgio Mondini
Una tutela al passo coi tempi
La proprietà industriale ha avuto negli ultimi anni una particolare attenzione dal punto di vista legislativo a seguito anche dell’avanzare del mercato del falso. Giorgio Mondini ne spiega l’attuale disciplina di Nicolò Mulas Marcello
Giorgio Mondini, fondatore dello studio Mondini Rusconi
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renetici cambiamenti del mercato, l’evoluzione tecnologica, l’aumento della contraffazione e della pirateria, hanno indotto il legislatore ad apportare modifiche al decreto legislativo 30 del 10 febbraio 2005, recante il Codice della proprietà industriale per aumentarne la tutela. «C’è stato sicuramente – sostiene l’avvocato Giorgio Mondini, fondatore dello studio legale Mondini Rusconi – uno sforzo del legislatore di cercare di adeguare gli strumenti di tutela e anche lo stesso linguaggio alle nuove tecnologie. Purtroppo è una corsa impari, visto che il legislatore è sempre costretto a rincorrere le trasformazioni tecnologiche che si susseguono a velocità impressionante». Proprietà industriale e diritto d’autore sono due materie diverse? Qual è la differenza? «Oggi si tende a definire l’intera materia dei diritti su beni immateriali (comprendente marchi, brevetti, modelli, design e diritti d’autore) come proprietà intellettuale, mentre con proprietà industriale si fa riferimento alla sola materia di marchi, disegni e modelli. Negli ultimi decenni il diritto d’autore, che è stato a lungo considerato un “parente povero” del diritto industriale, ha conosciuto un notevolissimo sviluppo a livello nazionale, comunitario e internazionale, essendo stato esteso a tutela delle cosiddette creazioni d’utile (software, banche dati e design), in quanto ritenuto uno strumento più flessibile ed efficace per il ritorno degli investimenti nel campo dell’industria dell’innovazione tecnologica (soprattutto con riferimento a Internet e new media)». Negli ultimi 10 anni è aumentato esponenzialmente il problema della contraffazione. Qual è la tutela della proprietà industriale e intellettuale di fronte a questo problema? «Per effetto della globalizzazione dei commerci e dello sviluppo delle innovazioni tecnologiche il fenomeno della
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C&P • GIUSTIZIA
Giorgio Mondini • Proprietà industriale
contraffazione ha in effetti conosciuto una crescita esponenziale. La proprietà industriale ha quindi cercato di apprestare strumenti quali azioni in campo civile e penale, contrasto attraverso strumenti doganali, misure tecniche di protezione quali i digital rights management (la gestione dei diritti digitali), atte ad arginare il fenomeno contraffattivo». I marchi spesso se non vengono propriamente contraffatti, vengono imitati. Esiste una tutela dalle imitazioni? «Quella tra contraffazione e imitazione è una differenza che, in realtà, non trova riscontro nella legge. Il Codice della proprietà industriale tutela il marchio sia contro l’utilizzo di marchi identici che contro l’utilizzo di marchi semplicemente “simili” o, come si suol dire, confondibili, ossia i segni che, pur diversi, riprendono gli elementi distintivi del marchio anteriore. In relazione ai marchi rinomati tale tutela è ulteriormente ampliata, nel senso che è sufficiente che il pubblico, pur non confondendo i due marchi tra loro in conflitto, sia indotto a istaurare un “nesso”, un collegamento mentale tra essi: un esempio che illustra bene tale nesso tratto dalla nostra giurisprudenza penso possa essere quello del famoso marchio enogastronomico “Gambero Rosso” parodiato (illecitamente, seC&P • GIUSTIZIA
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Proprietà industriale • Giorgio Mondini
La proprietà industriale ha cercato di apprestare strumenti quali azioni in campo civile e penale, contrasto attraverso strumenti doganali, misure tecniche di protezione atte ad arginare il fenomeno contraffattivo
condo i giudici) da una guida alle trattorie economiche dal titolo “Gambero Rozzo”». Recentemente è entrata in vigore la normativa che introduce modifiche al decreto legislativo 30 del 10 febbraio 2005, recante il Codice della proprietà industriale. Quali sono le principali novità? «Il decreto correttivo del 2010 ha in realtà introdotto numerose modifiche, di forma e di sostanza al Codice citato. Mi limito qui a ricordarne due che mi stanno particolarmente a cuore: a livello processuale, la previsione dell’obbligo per il giudice di disporre un’udienza di conferma alla presenza di entrambe le parti nel caso di misure di descrizione, ossia misure volte ad acquisire la prova della pretesa contraffazione. Previsione che dovrebbe evitare o quantomeno limitare l’uso distorto di tale misura che, nella prassi, veniva spesso utilizzata come mezzo per carpire i segreti dei concorrenti; a livello sostanziale, la nuova disciplina della tutela del design con il diritto d’autore mette fine a un anomalo (oltre che in contrasto con la disciplina comunitaria) regime transitorio volto essenzialmente a consentire a chi copiava gli oggetti di design prima dell’introduzione di tale nuova tutela, di continuare a farlo». La proprietà intellettuale è un tema su cui si riper140
cuotono, necessariamente, fenomeni come la globalizzazione e la diffusione di internet. Negli ultimi anni, di fronte a queste trasformazioni, cosa è cambiato dal punto di vista dell’approccio legislativo? «C’è stato sicuramente uno sforzo del legislatore di cercare di adeguare gli strumenti di tutela e anche lo stesso linguaggio alle nuove tecnologie. Purtroppo è una corsa impari, visto che il legislatore è sempre costretto a rincorrere le trasformazioni tecnologiche che si susseguono a velocità impressionante. Basti pensare che alla diffusione della banda larga che rende ormai a chiunque possibile usufruire illecitamente di opere dell’ingegno in modalità “streaming”, senza più bisogno di scaricare pesanti file sul proprio computer, e che rischia, in assenza di adeguati strumenti di repressione, di assestare un colpo mortale all’industria dell’home video». A livello europeo, c’è una copiosa produzione normativa nel campo della proprietà intellettuale. Si parla ora della nascita di un brevetto comunitario. Quali obiettivi sono stati raggiunti e quali sono le carenze ancora da colmare per garantire il rispetto effettivo dei diritti di proprietà intellettuale all’interno dell’Unione europea? «Sì, effettivamente c’è stata una grande produzione normativa a livello comunitario che si è espressa attraverso direttive e regolamenti, a partire da quelli sui marchi fino al software, alle banche dati, ai disegni e modelli, e alla cosiddetta direttiva enforcement. Sul brevetto comunitario c’è stato un lunghissimo dibattito incentrato soprattutto sulla giurisdizione e sulle lingue utilizzabili nel processo, dibattito che è tuttora in corso. A mio avviso, i maggiori problemi tuttora sul tappeto sono quelli legati all’effettiva attuazione e al rispetto delle norme di tutela, in relazione anche all’enorme sviluppo che hanno avuto le forme di pirateria, anche online, nonché i problemi legati alla tutela extraterritoriale dei diritti». C&P • GIUSTIZIA
Dinamiche d’impresa • Ivan Pera
La chiave giuridica del business Ivan Pera passa in rassegna le strategie che fanno di un professionista del foro un buon “consigliere” per gli affari. E suggerisce una regola d’oro: far calzare contratti e consulenze su misura di ogni impresa di Paola Maruzzi
Ivan Pera, avvocato esperto in diritto commerciale di Busto Arsizio (Va) ivan.pera@studiolegalepera.com
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a stipula di contratti è uno dei momenti più delicati nella vita aziendale. Nero su bianco vengono definite le clausole che regolano gli equilibri e i rapporti commerciali o professionali, sia interni che esterni. Non sempre però l’imprenditore, sopraffatto da una mole di impegni, riesce a star dietro a questioni strettamente legali. A venirgli incontro ci sono, per le grandi imprese, il legale interno o, per le Pmi, l’avvocato esterno all’azienda. Trovare la formula ideale non è cosa da tutti. Bisogna avere un solido background giurisprudenziale per riuscire a individuare e prevenire le problematiche che si potranno verificare nel corso del rapporto contrattuale. Solo così si potrà sperare di risolvere le criticità senza ricorrere al contenzioso giudiziario. E soprattutto solo così si rimane sulla cresta dell’onda di un mercato competitivo in termini di prodotto e di approccio al business. L’opinione di Ivan Pera, consigliere nazionale Anf. Quali devono essere le qualità di un bravo consulente? «Il consulente ideale deve essere capace di coniugare le esigenze di business dell’impresa con le tutele giuridiche, fiscali e amministrative. È indispensabile che il legale dell’azienda abbia un’organizzazione di studio tale da riuscire a fornire risposte in tempi brevi e compatibili con quelli della trattativa contrattuale. Qualora poi i rapporti contrattuali da “curare” riguardino anche in parte aziende straniere è indispensabile una spiccata preparazione in diritto internazionale. Infine ritengo che il bravo consulente sia colui che
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C&P • GIUSTIZIA
Ivan Pera • Dinamiche d’impresa
Tutela del credito e certezza dell’adempimento, prima ancora che del business. Così la crisi ha cambiato volto alla contrattualistica
riesce a comprendere e successivamente a conciliare le regole del mercato di riferimento – spesso non scritte – con le tutele giuridiche». In cosa consiste, a grandi linee, il rapporto tra legale e impresa? «Per quanto riguarda il lavoro non strettamente correlato ai procedimenti giudiziari, il rapporto si traduce in un confronto costante tra le parti. A seconda delle dimensioni dell’azienda, i responsabili che si avvalgono direttamente della collaborazione dell’avvocato possono essere i membri del Cda, il credit manager o, laddove presente, il giurista d’impresa responsabile dell’ufficio legale interno. Da parte sua il consulente è chiamato a prevenire o risolvere, nel più breve tempo possibile, le problematiche contrattuali che abbiano implicazioni giuridiche. È però anche vero che, trascorso il tempo fisiologico necessario per comprendere l’ambito del business trattato da ogni nuovo committente, capita spesso che questi si rivolga all’avvocato anche per ottenere format della tipologia dei contratti utilizzati in ambito aziendale». Su internet circolano tante versioni e modelli di contratti. Questo non rischia di “svilire” il lavoro del consulente? «Si tratta di un fenomeno diffuso. Pensiamo a quanti surrogati di contratti di distribuzione, di agenzia, di trasporto, di licenza di marchio o brevetto e di secrecy agreement si trovano già belli e pronti online, reperibili a bassissimo costo. Ma questo non deve far pensare che sia sufficiente compilarli meccanicamente. Molti imprenditori lo hanno capito da C&P • GIUSTIZIA
tempo. Avvalersi di acritiche versioni di contratto, tramandate da decenni di “pratiche aziendale” senza che il testo sia stato adeguato, non consente di affrontare con serenità le variabili patologiche del rapporto contrattuale con clienti e fornitori. Anche nell’era digitale, resiste la figura dell’avvocato consulente d’impresa». Come la crisi ha cambiato il “volto” della contrattualistica d’impresa? «Nell’attuale situazione di incertezza congiunturale, nella stipula dei contratti si vanno delineando clausole e condizioni mirate innanzitutto alla tutela del credito e della certezza dell’adempimento prima ancora che del business. Inoltre sempre maggiore attenzione viene posta, nei limiti del possibile, verso la prevenzione di situazioni patologiche e di criticità che non debbano trovare poi soluzione necessariamente nel contenzioso giudiziario. Ciò nell’ottica non solo di trovare nel contratto la soluzione dei conflitti maggiormente prevedibili, ma anche di limitare il ricorso all’autorità giudiziaria, che si rivela con l’andare del tempo sempre più imprevedibile nell’esito, oneroso nei costi e, soprattutto, incompatibile con i tempi dettati dal mercato». Anche nel caso delle Pmi il contributo del consulenti si dimostra utile per rimanere competitivi? «Esatto, ma ci sono delle precisazioni da fare. Per venire incontro all’esigenza di contenere i costi e prevenire il contenzioso contrattuale, la personalizzazione dei contratti è doverosa. E si rivela un vero e proprio investimento nel tempo. Non si può trascurare che un comune contratto, 143
Dinamiche d’impresa • Ivan Pera
Non è sufficiente reperire online forme preconfezionate di contratti. Solo il professionista è capace di coniugare il business con le tutele giuridiche 144
come ad esempio quello di concessione di vendita, non può essere indifferentemente utilizzato da un’azienda senza i necessari inserimenti e adattamenti delle singole clausole alle esigenze specifiche del business prima e delle parti poi. Non potrà infatti essere redatto con il medesimo testo qualora la parte interessata risulti concedente o concessionario, ovvero ancora nel caso che le parti risiedano in Paesi diversi. Il discorso vale anche per contratti come quelli di agenzia, di compravendita, di appalto, di licenza di marchio e brevetto e via dicendo. È irrealistico pensare che l’imprenditore si rivolga all’avvocato ogni volta che la sua azienda ha necessità di concordare le clausole di un contratto. Non vi sarebbero i tempi e neppure l’utilità economica considerati i costi connessi all’intervento del professionista». È così che entrano in gioco i format personalizzati? «Certamente. Dal rapporto impresa-avvocato e dalla conoscenza approfondita da parte del professionista dei modelli di business scaturiscono, laddove possibile, dei format personalizzati di contratto. In tali format, intesi come veri e propri “vestiti su misura” per le esigenze del cliente, sarà presente un articolato di clausole che, con semplicità e sintesi, consentano di regolamentare i possibili sviluppi del rapporto commerciale in linea con i “desiderata” del cliente. L’utilizzo quotidiano da parte del cliente dei suddetti format personalizzati non potrà e non dovrà essere acritico. Ho però riscontrato che una tale impostazione del lavoro consente all’imprenditore e ai suoi “commerciali” di individuare con agio gli aspetti di novità del singolo rapporto contrattuale rispetto ai format concepiti per l’azienda così da apportare con tempismo e con l’aiuto del legale i singoli correttivi e integrazioni da apportare al format stesso». Per concludere, in che senso è fondamentale una collaborazione costante fra l’impresa e il legale? «È chiaro che una simile impostazione della contrattualistica aziendale impone una stretta collaborazione tra l’imprenditore e l’avvocato di riferimento, oltre che uno sforzo da parte di entrambi per costruire una serie di articolati al tempo stesso esaustivi e duttili rispetto alle mutevoli esigenze del mercato.Tutto deve giocarsi su una ponderata analisi della situazione: né l’avvocato può improvvisarsi esperto conoscitore di ogni singolo aspetto del modello di business del proprio cliente, né quest’ultimo può credere che il professionista possa elaborare una serie di modelli personalizzati di contratto in assenza di un confronto con la realtà specifica di ciascun imprenditore e in assenza di un’attenta opera di revisione e commento da parte dello stesso in merito a quanto predisposto dal professionista». C&P • GIUSTIZIA
Dinamiche d’impresa • La responsabilità penale degli enti
I penalisti e la 231 La responsabilità penale degli enti e delle società commerciali ha cambiato profondamente la vita tanto alle imprese, quanto ai professionisti chiamati ad affiancarle. Parlano gli avvocati dello Studio Bana di Aldo Mosca
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introduzione della 231/2001 costituisce la principale innovazione del diritto penale di impresa negli ultimi dieci anni e la responsabilità da reato delle persone giuridiche, tra cui le società commerciali, ha certamente inciso anche sulle dinamiche organizzative delle aziende italiane. Su questo tema abbiamo chiesto il parere dello Studio Bana, che da anni si occupa di diritto penale d’impresa assistendo clienti italiani e stranieri. «Si è iniziato, come ormai molti sanno, nel 2001, con i reati contro la Pubblica amministrazione - ricorda l’avvocato Fabio Cagnola, socio dello Studio e recentemente nominato Segretario del Business Crime Committee dell’IBA -. Quindi corruzione, ma anche indebita percezione di pubbliche erogazioni e truffa. Nemmeno un anno dopo la responsabilità da reato delle persone giuridiche è stata estesa ai reati societari. Poi è venuto il turno dei market abuse, della ricettazione, del riciclaggio e dell’impiego di denaro o beni di provenienza illecita, dei delitti informatici e in materia di privacy, dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime nel caso siano commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Di recente, la contraffazione di marchi e brevetti, i delitti contro l’industria e il commercio e quelli di violazione del diritto di autore. Non è difficile prevedere ulteriori estensioni, tra l’altro già annunciate, per i reati tributari e ambientali».
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C&P • GIUSTIZIA
La responsabilità penale degli enti • Dinamiche d’impresa
Da sinistra, gli avvocati Antonio e Luigi Bana, Giacomo Gualtieri, Giovanni e Giuseppe Bana, Francisca Buccellati, Fabio Cagnola e Marcello Bana info@studiobana.it
Dai reati contro la Pubblica amministrazione, la 231 ha poi riguardato i market abuse, il riciclaggio e le violazioni delle norme sulla tutela della sicurezza dei lavoratori C&P • GIUSTIZIA
«L’illecito previsto dalla legge 231 richiede, sul piano oggettivo, che la persona che riveste per l’ente funzioni di rappresentanza, di amministrazione, direzione o vigilanza, abbia commesso un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso - sottolinea l’avvocato Giacomo Gualtieri, altro socio dello studio -. Sotto il profilo organizzativo, prevede invece che l’ente non abbia predisposto o non abbia attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire la commissione del reato, oppure che non si sia dotato di un organismo di vigilanza che abbia effettivamente esercitato la sua funzione». E sono piuttosto gravi le sanzioni previste. Come ricorda l’avvocato Antonio Bana, «vi è la possibilità che vengano applicate misure pesanti, quali l’interdizione dal contrattare con la Pubblica amministrazione o, nei casi più gravi, dall’esercizio dell’attività e la confisca del profitto del reato». Anche per questo l’introduzione del decreto tocca da vicino tanto il quadro economico, quanto quello giuridico italiano. «L’introduzione della responsabilità da reato delle persone giuridiche ha richiesto un notevole sforzo innovativo, sia per i soggetti interessati, sia per i professionisti che li assistono - ci tiene ad evidenziare l’avvocato Fabio Cagnola -. In un primo momento la novità è stata forse sottovalutata. Infatti, in alcuni casi, i modelli organizzativi mancavano del tutto, in altri c’erano, ma, nonostante fossero stati faticosamente elaborati, non erano impostati in maniera efficace. In quelle situazioni, quindi, si era costretti a chiedere il patteggiamento della 147
Dinamiche d’impresa • La responsabilità penale degli enti
pena. Le cose, però, stanno cominciando a cambiare. Oggi si può iniziare a verificare se e come gli attuali modelli organizzativi “tengano” in giudizio. Il Tribunale di Milano, in un recente caso, ha ritenuto che il modello adottato dall’azienda sotto processo fosse idoneo. Le aziende - anche quelle medie e piccole -, dopo un iniziale periodo di smarrimento dovuto alla necessità di maturare l’adeguamento alle nuove richieste, si stanno rendendo conto che la predisposizione di adeguati modelli organizzativi è un investimento utile ad alimentare un circuito virtuoso, che è nell’interesse di tutti». Il legislatore, da parte sua, ha cercato di introdurre dei parametri di valutazione più obbiettivi, quali i criteri previsti in materia di infortuni sul lavoro dall’articolo 30 del decreto legislativo 81 del 2008. I penalisti, quindi, sono sempre più coinvolti nelle dinamiche imprenditoriali. Come spiegano gli avvocati Giovanni e Giuseppe Bana, «il diritto penale di impresa richiede certamente di conoscere i meccanismi propri di queste realtà, ma è molto importante anche l’esperienza viva e personale che ci si è fatti sul campo, per tanti anni, nelle gestione delle vicende giudiziarie. L’esperienza in materia di diritto penale d’impresa è il primo requisito essenziale per poter affrontare il tema della responsabilità da reato della persona giuridica. Noi abbiamo sempre operato in questo settore, seguendo vicende processuali rilevanti che hanno segnato la storia di questa disciplina». Giovanni, Giuseppe e Luigi Bana hanno raccolto l’eredità del padre Antonio, fondatore dello studio negli anni venti, che fin da quell’epoca si occupava di questa materia in continua evoluzione. È questa, dunque, la base da cui partire e su cui devono poggiarsi la capacità di collaborare con altre realtà e le competenze altrettanto necessarie alla predisposizione di un efficace modello organizzativo. «Non esistono infatti modelli standard validi per qualsiasi azienda - interviene Giacomo Gualtieri -. Il modello organizzativo va fatto su misura, partendo dalla mappatura dei rischi propri di ogni singola realtà. Sia in questa fase preliminare, che durante l’elaborazione del modello, l’avvocato penalista può offrire la sua esperienza, derivante dalla conoscenza delle situazioni concrete che si sono verificate in passato e di come sono state risolte. Lo stesso supporto può risultare necessario o utile, quali consulenti esterni, agli organismi di vigilanza, per mantenere il modello aggiornato e per affrontare eventuali violazioni».
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DALL’IMPRESA ALL’AMBIENTE Quasi novant’anni di attività tra il diritto penale e, grazie a Giovanni Bana, la difesa dell’ambiente Lo studio Bana è stato fondato a Milano nel 1923 dall'avvocato Antonio Bana, divenendo poi un’associazione tra professionisti che oggi conta nove avvocati. La struttura opera su tutto il territorio nazionale avvalendosi anche della collaborazione di studi professionali locali. Collabora abitualmente con altre law firm internazionali, anche extraeuropee. È principalmente il diritto penale d’impresa il core di questa consolidata realtà milanese. Realtà che, tra i suoi volti, annovera anche l’avvocato Giovanni Bana, noto per l’impegno profuso negli anni sul fronte della salvaguardia ambientale. Già presidente nel 1988 della fondazione europea Il Nibbio – Fein – per la conservazione e la salvaguardia dell’ambiente naturale, nel 2000 è stato nominato presidente della Commissione per il Diritto Penale Europeo e dell’Ambiente dell’Uae (Unione degli Avvocati Europei). Ha fondato a Como, nel 2001, il CSPDE – Centro Studi di Diritto Penale Europeo – con la collaborazione della Camera Penale locale e dell’Università dell’Insubria di Como-Varese. Tra le altre cose, ha istituito la Giornata del Verde Pulito, per la protezione e la salvaguardia degli habitat naturali, proposta nel marzo 1996 al Parlamento europeo di Strasburgo per farla divenire “giornata europea”. Nel 1989 è stato inoltre insignito dal Presidente della Repubblica Francese del titolo di Chevalier de l’Ordre du Mérite per poi diventare Officier nel 1995, analogo riconoscimento è pervenuto nel 2008 anche dal Presidente della Repubblica Italiana.
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La responsabilità penale degli enti • Dinamiche d’impresa
Le cose stanno cambiando. Oggi si può verificare se e come gli attuali modelli organizzativi “tengano” in giudizio C&P • GIUSTIZIA
Lo studio è impegnato anche sul fronte della formazione e tiene presso le aziende corsi sui principi della 231, sui reati presupposto, su ruoli e funzioni dell’organismo di vigilanza e sulle regole da rispettare. L’intervento dell’avvocato penalista diventa poi indispensabile in caso di risvolti giudiziari. «Si tratta anzitutto di valutare come debba essere condotta la difesa delle persone accusate e come debba difendersi la società – spiega l’avvocato Marcello Bana -. Sono infatti previste due responsabilità distinte e autonome. Quindi, ci sono casi dove la difesa può essere unitaria, o almeno coordinata, e casi nei quali invece sussiste un conflitto di interessi, specie nelle società in cui il manager e la proprietà non siano fra loro identificabili». Per ora, l’esperienza giudiziaria ha riguardato soprattutto i reati dolosi. «In materia di infortuni sul lavoro, invece, si pongono problemi specifici, teorici certo, ma anche pratici e un ruolo importante dovranno assumerlo anche i consulenti tecnici con i quali, d’altra parte, il nostro studio è abituato a collaborare nella difesa in questo settore, che ci vede attivi da sempre» evidenzia ancora Antonio Bana. Anche il tema della contraffazione, con lo sviluppo della globalizzazione e l’aumento dei soggetti economici presenti sul mercato, è centrale. Secondo Giacomo Gualtieri, «l’introduzione fra i reati presupposti dei delitti di contraffazione, contro il mercato e l’industria nazionale e contro il diritto d’autore, aprirà senz’altro una nuova prospettiva. Le sanzioni previste dalla 231, infatti, che fino a oggi sono state viste solo come un male da evitare, possono diventare per le imprese uno strumento utile ed efficace per la lotta alla contraffazione, aprendo nuove prospettive in un ambito che seguiamo con particolare attenzione». 149
Diritto bancario • Francesco Innocenti
Tra banche e imprese Da una parte le banche, preoccupate per i bilanci, hanno stretto le maglie del credito. Dall’altra i debitori hanno messo in pericolo o visto aggredito il loro patrimonio familiare o aziendale e rischiano di essere estromessi dal sistema bancario. Il punto dell’avvocato Francesco Innocenti di Eugenia Campo di Costa
L’avvocato Francesco Innocenti, specializzato in diritto bancario, esercita a Roma www.studiolegaleinnocenti.com
n tempi di crisi economica i rapporti tra banche creditrici e clienti debitori si fanno sempre più delicati. Nell’anno 2010, secondo le stime Abi, sono aumentate del 27% le sofferenze bancarie e le previsioni ipotizzano un ulteriore aumento del 9,5% nel 2011. Il problema riguarda soprattutto i crediti da recuperare. «Tale situazione è cagionata dal fatto che privati e imprese non riescono a mantenere un rapporto con la banca in linea con le obbligazioni assunte» afferma l’avvocato Francesco Innocenti, esperto nel diritto bancario. Uno scenario che desta preoccupazione sia agli istituti di credito che ai debitori, imprese o privati che siano e che porta, chi si trova a difendere, di volta in volta, l’una o l’altra parte del rapporto, a gestire situazioni estremamente critiche. «Se da una parte le banche, preoccupate per i propri bilanci, hanno stretto le maglie del credito, rendendo ancor più difficile l’accesso ai finanziamenti e dando il via ad azioni giudiziarie per il recupero del credito, d’altro canto i debitori si vedono aggrediti nel proprio patrimonio familiare o aziendale e vengono estromessi dal sistema bancario, rischiando di perdere sempre più lucidità nella gestione dello stato di tensione finanziaria in cui si trovano » spiega l’avvocato Innocenti. Quali conseguenze può portare un simile con-
trasto tra banca e cliente? «Il contrasto tra banca e cliente può giungere ad inasprirsi ulteriormente fino a non trovare altra soluzione che una vendita forzata dei beni da parte del debitore, vendita che lascia comunque insoddisfatta la banca sia sotto il profilo dei tempi di recupero del credito che della percentuale del credito recuperato. Una simile soluzione, del resto, lascia largamente insoddisfatto anche il debitore, che si vede privato, in parte o del tutto, del patrimonio familiare o di qualche asset aziendale, spesso strategico per il core business dell’impresa». Quali sono i casi più comuni che comportano tale contrasto? «Il rapporto banca-cliente va in tensione quando il cliente non ottiene ulteriori finanziamenti o l’ampliamento di finanziamenti già in essere, oppure quando non restituisce le somme prestate. Si innesca così un meccanismo per cui un soggetto non si fida più dell’altro: la banca si preoccupa perché non riesce a ottenere restituzioni o perché le vengono chiesti ulteriori finanziamenti mentre ritiene che il cliente non sia in grado di restituirli. D’altra parte il cliente, che deve fare nuovi investimenti o è in tensione finanziaria, chiede aiuto alla banca, trova le porte chiuse e il rapporto si incrina». In quale momento quello che è stato un “cir-
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Francesco Innocenti • Diritto bancario
Spesso privati e imprese non riescono a mantenere un rapporto con la banca in linea con le obbligazioni assunte
colo virtuoso” di prestito e restituzione diventa un “circolo vizioso” tale da portare le due parti in tribunale? «Il meccanismo del prestito/ finanziamento è virtuoso fin quando è virtuosa l’azienda. La banca arresta il finanziamento all’impresa nel momento in cui ritiene che l’azienda non sia più in grado di restituirlo. Un comportamento legittimo perché non bisogna dimenticare che la banca è un operatore professionale nel settore del credito e, come tale si comporta da imprenditore a tutti gli effetti. Quando attraverso l’analisi degli indici economici e patrimoniali, l’istituto di credito rileva una certa difficoltà ad ottenere la restituzione di quanto prestato, i rapporti diventano tesi, la banca resta alla finestra, non eroga ulteriori prestiti e comincia a valutare le azioni per il recupero del credito». La soluzione migliore è affidarsi a professionisti che conoscono queste dinamiche, si muovono con disinvoltura tra le pieghe del processo esecutivo e individuano rapidamente i possibili percorsi finalizzati alla soluzione della vicenda. Come agisce il legale che difende la banca? «Quando il legale si trova a difendere il creditore, con la sua specializzazione in questo settore, può consentire alla banca o a qualunque creditore di accelerare i tempi, C&P • GIUSTIZIA
usare tutti gli strumenti a disposizione del creditore per rendere più efficiente il recupero del credito, non solo in termini di tempi ma anche per quanto concerne il risultato economico, grazie all’individuazione delle strategie migliori. L’obiettivo è quindi recuperare di più nel minor tempo possibile». Come si agisce, invece, nella tutela del debitore? «La conoscenza da parte del legale dei comportamenti della banca e in special modo dei “punti deboli” di tale condotta, gioca a favore del debitore che si è affidato al professionista esperto. Conoscendo le modalità di azione degli istituti di credito, il professionista può ottimizzare notevolmente il risultato in favore del debitore. Il primo obiettivo è sovente quello di frapporre ostacoli all’azione della banca, in modo da ritardarne l’azione allungando, nel contempo, i tempi, così consentendo al debitore di programmare una nuova pianificazione finanziaria del debito. Inoltre il professionista riesce a ricercare la soluzione migliore anche sotto il profilo economico - in termini di abbattimento del debito creando, nel contempo, meccanismi atti a salvaguardare il patrimonio del debitore. Si ottiene quindi un triplice risultato: si allungano i tempi, si mette al sicuro il patrimonio e si paga di meno». 151
Editoriale • Francesca Maria Alberti
LETTERA DI INTENTI STRUMENTO DI TUTELA di Francesca Maria Alberti Avvocato in Verona e Legnago francesca_alberti@hotmail.com www.avvocatoalberti.com
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empre più frequentemente le imprese si trovano a dover ricorrere, nella fase che precede la conclusione dei contratti, a dover esplicare nel modo più chiaro possibile la loro volontà di obbligarsi e le condizioni. Di qui il ricorrere a dichiarazioni di intenti in cui vengono inserite notizie sullo stato dell’affare, l’oggetto della trattativa, la struttura, un’eventuale due diligence e la sua durata. Questo accade soprattutto quando si cristallizzano accordi preliminari, che preludono transazioni più complesse e ciò può verificarsi, a titolo esemplificativo, per stabilire il comportamento precontrattuale delle parti, per determinare le spese da sostenere, per motivare la prosecuzione di un negoziato economicamente e strutturalmente impegnativo, per distinguere in una trattativa le questioni decise da quelle da deliberare, per documentare un’intesa raggiunta, lasciando precisati aspetti più marginali da trattare in futuro e per avere prova documentale, da utilizzare eventualmente in giudizio. Le lettere di intenti si inquadrano, pertanto, nel contesto dei contratti a formazione progressiva o successiva, la cui caratteristica è una forte incertezza per insufficiente regolamentazione, in formalità e velocità nelle relazioni commerciali. Sono estremamente utili, pertanto, in quella casistica di contratti che non sono istantanei, basati su un semplice meccanismo di proposta e di accettazione, ma risentono della necessità di una lunga e difficile trattativa. La valenza giuridica di questi “writings in confirmation” è controversa non quando permettano di ridurre per iscritto accordi definiti, ma quando contengano punti di discussione da sviluppare. Nell’ordinamento italiano queste lettere dovranno essere necessariamente riconosciute come proposte contrattuali modificative di negoziazioni precedenti, diversamente dagli Stati Uniti e dalla Germania ove, qualora non vi sia rifiuto entro un termine ragionevole e un sostanziale mutamento dei termini dell’accordo precedente, diventano parte del contratto. È qui che le lettere di intenti, soprattutto nelle negoziazioni tra imprenditori di diversi paesi, rappresentano il documento – radiografia della conduzione delle trattative, dello stato delle parti, dei problemi risolti e da risolvere, delle clausole che limitano il rischio di recesso: in definitiva sono uno degli strumenti di tutela nella corretta e veloce gestione degli affari. Questi accordi aiutano, pertanto, le imprese che stanno valutando un impegno economico importante e hanno la necessità di ridurre per iscritto, nel modo più dettagliato possibile, le clausole relative alla fase precontrattuale. Nei contenuti minimi è necessario vi sia la parte delle imprese contraenti, la dichiarazione delle motivazioni di inizio trattativa, gli accordi già siglati, la precisazione dell’insorgenza di diritti e obblighi solo a raggiungimento di accordo finale, il termine e le elencazioni delle motivazioni che potrebbero far sospendere la trattativa e l’obbligo di riservatezza.
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Enti no-profit • Laura Lunetta
Il futuro del terzo settore Nonostante la crisi, gli enti no-profit aumentano. Laura Lunetta ne analizza problematiche e prospettive, spiegando in che misura, effettuando donazioni, si possano ottenere importanti vantaggi fiscali di Carlo Sergi
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l terzo settore risente della crisi economico-produttiva. Sono molte, infatti, le organizzazioni no-profit che registrano una sensibile flessione nella raccolta dei fondi. Una congiuntura negativa che Laura Lunetta, esperta nella gestione fiscale per questa particolare tipologia di enti, osserva ormai da qualche anno. «Trattandosi di un settore estremamente vasto e caratterizzato da realtà molto diverse tra loro, è evidente che la crisi ha colpito i vari comparti in modo differente» sottolinea la dottoressa. I donatori hanno ridotto il proprio sostegno, primi tra tutti i privati, senza considerare i tagli effettuati dalla Pubblica amministrazione e dalle Fondazioni bancarie». Soprattutto quali realtà stanno soffrendo la crisi? «Sono state colpite sopratutto le organizzazioni no-profit operanti al Sud, realtà piccole e meno autonome rispetto al resto d’Italia e, di conseguenza, maggiormente dipendenti dai fondi pubblici. Tuttavia, anche per il 2010 permane il 5 per mille, vale a dire una quota di imposta che le persone fisiche, nell’ambito della propria dichiarazione dei redditi, destinano alle organizzazioni impegnate in attività socialmente rilevanti. Per cui il terzo settore potrà contare sicuramente su questo importante aiuto. Anche se, pur essendo inserito nella legge finanziaria annualmente, non rappresenta comunque lo strumento di sostegno primario per tali organizzazioni. Ritengo, ad ogni modo, che in tale ambito, così come nelle altre attività economiche, la crisi potrebbe rappresentare talvolta un’opportunità di crescita e di miglioramento». Un privato cittadino, volendo, può verificare la trasparenza delle scritture contabili riferite a enti religiosi e no-profit? «Il privato cittadino può richiedere all’ente informazioni sulla missione e sulle finalità che questo persegue, oltre che sulla natura e la modalità dei servizi prestati. Il sistema contabile di cui si sono dotate le organizzazioni appartenenti al terzo settore assolve al dovere etico della trasparenza.Va garantita l’informazione sull’andamento della gestione dei soci e dei terzi con i quali i no-profit hanno rapporti. Le disposizioni tributarie, inoltre, ai fini della deducibilità delle
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Laura Lunetta • Enti no-profit
Le realtà locali hanno bisogno di essere coadiuvate da enti che abbiano acquisito un’adeguata specializzazione nel sociale
In apertura, Laura Lunetta. La dottoressa esercita a Roma nell’ambito della consulenza tributaria e societaria llunetta@studiodca.it
erogazioni liberali a favore dei donanti, in alcuni casi impongono a questi ultimi di ottenere e conservare il bilancio di esercizio, lo stato patrimoniale e il rendiconto gestionale dell’ente percettore». Lei ha dichiarato che in futuro aumenteranno gli enti operanti nel terzo settore. A tal proposito come può la sua categoria rispondere alle nuove necessità scaturite dall’aumento della presenza di tali attori sul mercato? «Questo aumento è già sotto i nostri occhi. Ciò avviene perché, soprattutto le realtà locali, hanno sempre più bisogno di essere coadiuvate da enti che abbiano acquisito nel tempo un’adeguata specializzazione nel sociale. Occorrono attori in grado di rispondere concretamente alle richieste ogni giorno più pressanti della società. All’interno della nostra categoria, sempre attenta alle evoluzioni del mercato, assistiamo al crescente aumento di professionisti che si dedicano a tale settore, condividendone valori e missione, in grado di accompagnare con professionalità e competenza tali organizzazioni nello sviluppo del loro operato». Questo incremento può essere visto anche come motore di crescita occupazionale? «Il terzo settore, soprattutto in questa fase di crisi economica, rappresenta una valida opportunità di occupazione nelle diverse aree di intervento che caratterizzano gli enti, dal culturale all’assistenziale, dal socio-sanitario alla forC&P • GIUSTIZIA
mazione e lo sport. Emerge la necessità di avvalersi di figure professionali in grado di alimentare i progetti, organizzare le risorse impiegate, coordinare l’attività del personale occupato, sviluppare il “fund rising”. Insomma, occorrono figure professionali nuove. Per questo, ribadisco, a mio giudizio, che lo sviluppo del Terzo settore garantirà una stabilizzazione ed un aumento dell’occupazione». Quali sono i vantaggi fiscali riconosciuti a coloro che effettuano erogazioni liberali a favore degli enti no profit? «Questa domanda è particolarmente ricorrente, specie tra chi intende effettuare tali erogazioni. I vantaggi fiscali sono indubbi, considerato che sono previste agevolazioni che variano a seconda di chi sia il donante. Se questo è una persona fisica, l’erogazione liberale può essere, a seconda dei casi, detraibile dall’imposta, parliamo del 19% dell’importo erogato, o deducibile dal reddito imponibile. Se, invece, il donante è una persona giuridica, l’erogazione in denaro o in natura è esclusivamente deducibile dal reddito imponibile. Particolarmente interessante è la legge nota come “più dai meno versi”, che prevede la deduzione delle liberalità in denaro e in natura erogate da persone fisiche o da persone giuridiche, con un limite del 10% del reddito complessivo dichiarato e, comunque, fino a un massimo di 70mila euro all’anno. L’erogazione è deducibile fino al minore dei due limiti. Tali operazioni devono avvenire sempre attraverso il circuito bancario». 155
Recupero crediti • Cesare Bruzzone
Nell’era del contenzioso Velocità dei percorsi stragiudiziali. Velocità nelle attività processuali. Velocità nell’effettivo recupero dei crediti. Il sistema può essere migliorato a vantaggio anche delle imprese. L’esperienza di Cesare Bruzzone di Giulio Conti
L’avvocato Cesare Bruzzone, civilista esperto in diritto d’impresa, esercita la professione a Genova cesare.bruzzone@tiscali.it
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ell’attuazione del diritto inviolabile della difesa, la centralità del ruolo dell’avvocato, in questa nostra “era del contenzioso”, diviene sempre più esplicita. Per questo, «accanto alla riforma della professione forense, ormai non più rinviabile, ritengo sia anche giunto il momento di inserire nella Costituzione Italiana l’Avvocatura quale servizio indipendente interno al sistema giudiziario finalizzato alla consulenza giuridica, alla rappresentanza e alla difesa di ogni diritto riconosciuto». L’avvocato Cesare Bruzzone, civilista esperto in assistenza legale alle imprese, rileva le incongruenze del sistema normativo applicato all’economia. Cosa induce le aziende a richiedere assistenza legale? «In questi ultimi anni le aziende hanno richiesto assistenza legale al fine di recuperare in via giudiziale/arbitrale il credito insoluto quando ormai la situazione era segnata. I meccanismi previsti dalla legge per il concreto ed effettivo recupero del credito sono infatti lenti e farraginosi e determinano una sorta di premio per il debitore che quasi sempre riesce ad evitare di pagare il dovuto. La tutela del credito “a posteriori” non è assolutamente efficace, anzi molte volte inutile e anti-economica». In che modo il legale migliora la gestione del credito? «In tale quadro normativo la consulenza del legale è determinante per la predisposizione di testi contrattuali efficaci, nell’introduzione di strumenti di tutela preventiva del credito quali garanzie reali e personali finalizzate a rendere effettivo l’adempimento delle singole obbligazioni, e nell’attività di monitoraggio dei crediti esigibili con predisposizione di diffide e messe in mora». Con quali mezzi stragiudiziali è possibile affrontare le controversie aziendali? «Il decreto legislativo 28/2010, che ha introdotto la mediazione e la conciliazione delle controversie civili e commerciali, anche se presenta alcune criticità, rappresenta un valido strumento di risoluzione delle controversie. Tempi stretti, di massimo 4 mesi, e costi predeterminati e contenuti sono i punti forti della riforma. Un altro mezzo alternativo molto efficace è l’arbitrato, anche se poi tutti gli strumenti vanno bene purché si agisca velocemente». Dove intervenire allora? «Visto che le risorse sono limitate partirei da interventi a costo zero quali ad esempio la redazione di un nuovo codice di procedura civile che preveda un solo rito per tutte le controversie basato su massimo due atti per parte, da depositarsi prima della prima udienza di comparizione e l’introduzione di tempi ragionevoli, ma perentori, sia per le parti che per i giudici e ausiliari, per l’espletamento dell’attività processuale».
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Il mobbing • Alessandra Zabotto
Un reato da inquadrare Il mobbing in Italia rappresenta ancora un reato privo di una reale identità giuridica. Ecco perché, secondo Alessandra Zabotto, urge un intervento da parte del legislatore su uno dei fenomeni più attuali del mondo del lavoro
L’avvocato Alessandra Zabotto esercita a Milano studio_zabotto@libero.it
di Pierpaolo Marchese
arliamo di una vera e propria forma di terrore psicologico nel posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori». È grave il fenomeno del mobbing, come sottolinea l’avvocato Alessandra Zabotto. E gravi sono le carenze normative che il legale milanese, esperto in questa tematica, denuncia. Sul tema del mobbing è stato realizzato un modello, composto da sei fasi (H.Ege “Il fenomeno del mobbing: prevenzione, strategie, soluzioni” in www.personaedanno.it, 2007). «Queste sono precedute da una “condizione zero”, che ancora non è mobbing, ma ne è il presupposto». Ciò a cui si riferisce l’esperta è il cosiddetto conflitto fisiologico, normale o accettato, finalizzato a elevarsi rispetto agli altri, normalmente presente in Italia. «La prima fase, invece, è quella del conflitto mirato, che si concretizza nella manifestata volontà di fare le scarpe a qualcuno. La seconda prevede proprio l’inizio del mobbing. Qui gli attacchi vengono percepiti dal mobbizzato come inasprimento delle relazioni. A seguire, nella terza fase, la vittima comincia a manifestare problemi di salute. Nella quarta emergono errori e abusi dell’amministrazione del personale. Nella quinta vi è l’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica della vittima, con ricorso a farmaci, e il problema sul lavoro tende ad aggravarsi. Infine, il sesto step, consiste nell’esclusione dal mondo del lavoro». L’esito finale del mobbing è, purtroppo, l’uscita della vittima dal contesto lavorativo, il più delle volte tramite dimissioni volontarie o li-
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cenziamento. Ovviamente, oltre a interessare il settore giuslavoristico, questo fenomeno riguarda anche l’ambito penalistico. L’avvocato Zabotto, però, testimonia le criticità che incontrano tutti coloro che affrontano in concreto, come lei, i casi di mobbing. «In primo luogo vi è un’assenza di inquadramento giuridico. Il reato di mobbing non esiste nel nostro ordinamento. Esiste però il fenomeno, che per essere rappresentato in un “capo di imputazione” dovrà richiamare di volta in volta diverse fattispecie, quindi ingiurie, minacce, lesioni, maltrattamenti. Ma queste, essendo dotate di una propria tipicità, sono inadatte a rappresentare la condotta di mobbing, che presenta le proprie caratteristiche». Non solo, l’assenza di un addentellato normativo genera notevoli difficoltà di ordine probatorio, sia nella fase della individuazione delle fonti di prova, sia nella fase successiva alla loro assunzione nel corso del giudizio. «Qui urge un intervento legislativo. Sebbene molteplici siano i disegni di legge riguardanti il mobbing, questo reato è ancora privo di una propria autonomia e identità. Certamente il fenomeno merita di essere inquadrato, inserendolo, per ipotesi, nello stesso Testo Unico sulla sicurezza e salute dei lavoratori, rendendo più facilmente perseguibili i fatti. In tal modo si favorirebbe l’emersione del fenomeno, la comprensione e la presa di coscienza del problema all’interno di ciascuna realtà lavorativa, evitando derive e con maggior soddisfazione e minor danno per le persone offese». C&P • GIUSTIZIA
Diritto internazionale e comunitario • Simone Lazzarini
Verifichiamo le norme europee Analizziamo le conseguenze della ratificazione del trattato di Lisbona sulle normative nazionali. Le norme della Convenzione Europea divengono, infatti, operanti immediatamente negli ordinamenti nazionali degli stati membri. L’analisi di Simone Lazzarini di Ezio Petrillo
L’avvocato Simone Lazzarini si occupa prevalentemente di diritto amministrativo e penale, con particolare riguardo al ramo societario e ambientale, e di diritto civile, con particolare attenzione al tema della responsabilità civile www.studiolegaleIrs.it
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a strada che conduce all’unificazione degli Stati membri sotto un’unica grande nazione europea passa anche attraverso l’introduzione di normative sovra-nazionali che possono influenzare quelle già previste all’interno dei singoli Stati. Per gli avvocati, in particolare quelli che si occupano principalmente di diritto civile o amministrativo, si sono aperti negli ultimi mesi nuovi e interessanti scenari che richiedono competenze sempre più specifiche in tema di diritto internazionale e comunitario. Nel Dicembre dello scorso anno è entrato in vigore il Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. «Fra le più rilevanti novità dell’accordo, ratificato anche dal nostro Paese, vi è l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con l’ulteriore precisazione che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali“». A parlare è l’avvocato Simone Lazzarini. «Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 11 della Costituzione». Il giudice ha quindi il “nuovo compito” di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta, alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario. Questo comporta il fatto che «si aprono inedite prospettive per l’interpretazione conformativa, ovvero per la possibile disapplicazione, da parte del giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenzino un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Con queste premesse diventa fondamentale, per l’avvocato, esaminare le questioni che vengono sottoposte alla sua attenzione anche sotto l’angolo visuale della normativa sovranazionale. «Diventa fondamentale verificare, ad esempio, - conclude Lazzarini - se una determinata prestazione assistenziale, negata da modifiche introdotte dal legislatore nazionale, possa essere ripristinata in applicazione dei principi comunitari o ancora se l’indennizzo proposto ad un soggetto espropriato sia congruo o non, oppure eccessivamente ridotto e così via e, conseguentemente, poter sollecitare il giudice a prendere una decisione che tenga conto anche dei principi sovranazionali».
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Diritto dell'ambiente • Claudia Pasqualini Salsa
Chiariamo la disciplina sull'ambiente Il diritto dell'ambiente è una materia relativamente giovane. In Italia le normative volte a tutelare l'ecosistema, sono tuttora in divenire. Per questo è importante chiarire diversi aspetti. Il focus di Claudia Pasqualini Salsa di Ezio Petrillo
L'avvocato Claudia Pasqualini Salsa è Managing Partner dello Studio Legale Pasqualini Salsa, boutique specializzata in diritto dell’ambiente e sicurezza del lavoro www.studiolegale-pasqualinisalsa.com
insieme normativo che costituisce il diritto dell'ambiente è la risposta a fatti tipici della nostra epoca e della nostra organizzazione sociale, quali l'inquinamento e il degrado ambientale. «Definire il diritto dell'ambiente come insieme di norme generali e di leggi speciali appartenenti a differenti rami del diritto, significa evidenziare l'autonomia scientifica di una disciplina che raggruppa norme di diritto pubblico e norme di diritto privato». A parlare è l'avvocato Claudia Pasqualini Salsa, la prima ad aver pubblicato un manuale in materia nel 1988. «Scopo dichiarato della normativa ambientale è quello di prevenire le varie forme di inquinamento e di degrado, fornendo maggiore tutela all'ambiente inteso come bene giuridico. Ciò deve avvenire attraverso la disciplina delle attività umane sul territorio dello Stato, anzitutto l'attività industriale, di cui peraltro deve rammentarsi la valenza sociale alla luce del'art. 41 della Costituzione». Oggi il mondo industriale mostra una particolare attenzione verso le tematiche ambientali prima relegate in secondo piano rispetto a ragioni produttive. «Le scelte dell'azienda sulle tematiche ambientali sono effettuate e hanno un senso all'interno di una politica ambientale predefinita che comporta conoscenza della norma e della sua interpretazione. Ogni volta che un pm contesta all'azienda un'ipotesi di reato ambientale, la risposta di quest'ultima non potrà non essere che la difesa della propria scelta, sottolineando la bontà della propria inter-
pretazione». In realtà ciò accade raramente. «Nella maggioranza dei casi, la difesa, secondo vecchie concezioni, si fonda sui rituali dei cavilli, delle prescrizioni, secondo un'immaginaria partita a scacchi con l'accusa. Il tutto su un principio aberrante: non importano i fatti, gli elementi dell'imputazione ma conseguire il rinvio, la prescrizione, l'oblazione. Oppure "addormentare" il tutto con un incidente probatorio, meglio se fondato su un quesito complesso.Accade dunque che talora, in caso di indagine penale, venga in evidenza una netta frattura tra il dichiarato sistema aziendale di gestione ambientale integrata e il comportamento della dirigenza. Molto nuovo e avanzato il primo, obsoleto il secondo. In questo quadro nell'attività dell'avvocato difensore si racchiude la chiave per dare la dimostrazione all'esterno che l'azienda è consapevole delle proprie scelte ambientali e intende difenderle anche per creare un precedente». La tematica è tanto più attuale in quanto, entro il prossimo 26 Dicembre, dovrà essere recepita anche in Italia una direttiva comunitaria dell’anno 2008 che detta l'obbligo per gli Stati membri di prevedere sanzioni penali in relazione a gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell'ambiente. «La stessa direttiva richiama il principio di responsabilità della persona giuridica disciplinato dal d.lgs. 231/01. Ciò significa che anche per la prevenzione dei reati ambientali, l'azienda dovrà adottare un appropriato modello di gestione e nominare l'Organismo di vigilanza».
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C&P • GIUSTIZIA
Diritto di famiglia • Annamaria Bernardini de Pace
Luci e ombre della bigenitorialità
Affidamento condiviso: secondo l’avvocato Annamaria Bernardini de Pace la legge è soltanto una sovrastruttura. Al di là delle decisioni del giudice quello che conta, infatti, è la qualità dei padri e delle madri di Michela Evangelisti
L’avvocato Annamaria Bernardini de Pace
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a legge 54 del 2006 ha introdotto in Italia il diritto del minore alla bigenitorialità. Oggi i giudici valutano prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori, relegando le altre forme di affidamento a un ruolo meramente residuale. Nel 79% delle separazioni e nel 62% dei divorzi si sceglie il regime dell’affido condiviso, per garantire al minore il diritto di mantenere con entrambi i genitori rapporti equilibrati e continuativi. Una grande conquista a favore dell’interesse morale dei bambini, che però nasconde anche molte insidie. Il principio di bigenitorialità trova effettiva applicazione nella pratica? Quali sono i suoi limiti? «La bigenitorialità ha un senso solo se nasce dalla consapevole competenza e responsabilità di entrambi i genitori nello svolgere il proprio ruolo con dedizione, solidarietà e abnegazione. Infatti, gli ex coniugi continuano a essere genitori nonostante il fallimento del matrimonio, e indipendentemente dalle reciproche colpe. La bigenitorialità è, invece, un limite quando i genitori sono sempre stati incapaci, anche durante la convivenza, di dialogare e di valutare concretamente e congiuntamente tutti gli aspetti connessi alla crescita dei figli. In questo caso, bisogna solo sperare che l’obbligo della condivisione li aiuti a superare queste
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C&P • GIUSTIZIA
Annamaria Bernardini de Pace • Diritto di famiglia
difficoltà, ma purtroppo non è sempre così. Anzi». In tutta Italia sono fiorite associazioni per la difesa della bigenitorialità, soprattutto promosse da padri che si sentono privati delle proprie prerogative. Come la legge risponde a questo disagio? «Innanzitutto, bisognerebbe chiedersi se le istanze di certi padri sono davvero frutto di un vero e reale disagio genitoriale e non di rivendicazioni fini a se stesse e residui di recriminazioni coniugali. Infatti, queste associazioni spesso trascurano di dire che, in realtà, i padri che vogliono essere concretamente attivi nella vita dei figli sono davvero pochi. I padri che sanno dimostrare di essere in grado di esercitare attivamente e quotidianamente il loro ruolo genitoriale trovano senz’altro nella legge n. 54/2006, e addirittura nelle richieste delle compagne, l’occasione per mantenere il sano e continuativo rapporto con i figli». Nella separazione consensuale il giudice prende atto dell’accordo tra i genitori, adattando il provvedimento ad abitudini familiari esistenti. Cosa succede quando tra i genitori la situazione è fortemente conflittuale o quando uno dei due ha sempre riservato ai figli uno spazio marginale? «Il giudice di norma dispone l’affido condiviso, anche nella separazione giudiziale, e salvo casi particolari. Addirittura, la C&P • GIUSTIZIA
giurisprudenza è orientata nel senso di riconoscere preferenza all’affido condiviso anche nelle situazioni conflittuali, affinché ciò sia di stimolo per i genitori, nella ricerca di una possibile alleanza educativa. Certo è che in situazioni di tragica conflittualità, come ne esistono tante, l’affido condiviso è ancora più dannoso per i figli, che rischiano di rimanere nello stallo perpetuo quando i genitori non trovano l’accordo sulle scelte di vita. Solo la qualità dei padri e delle madri garantisce ai figli la vita serena. La legge, in realtà, è una sovrastruttura». L’ascolto nel minore come strumento di tutela dello stesso è un principio introdotto con la convenzione europea di Strasburgo del 1996 e ratificato in Italia nel 2004. Come trova applicazione oggi in vista dei provvedimenti di affidamento? «Bisogna precisare che l’ascolto del minore non va inteso quale mezzo istruttorio, cioè strumento per provare un qualsiasi fatto, ma come occasione di dargli spazio perché si capiscano i suoi bisogni e le sue esigenze. L’articolo 155 sexies del codice civile, introdotto con la legge n. 54/2006, precisa che: “il giudice dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. Di norma e preferibilmente, non è il giudice che ascolta direttamente il minore, ma è uno psicologo, 165
Diritto di famiglia • Annamaria Bernardini de Pace
Non si può usare un bimbo come una torta da dividere a pezzi uguali per far felici due genitori egoisti
nominato dal magistrato stesso, che attraverso colloqui clinici e la somministrazione di test, sa far emergere la volontà vera dei minori e anche eventuali condizionamenti». Ciascun genitore ha comunque il diritto di richiedere l’affido esclusivo. Come agisce il giudice per evitare che questa facoltà venga strumentalizzata? «Il giudice della separazione o del divorzio può, anche se in casi estremi e residuali, disporre l’affidamento esclusivo del minore a uno solo dei genitori. Ed è un affidamento molto più “esclusivo” di quanto non lo fosse con la passata legge. Vale a dire che il genitore affidatario è infinitamente più responsabilizzato. Tuttavia, la richiesta non ragionevole, strumentale e dispettosa di affidamento esclusivo, e dunque non accolta dal tribunale, può far rischiare al richiedente multe, sanzioni e anche la perdita dell’affido condiviso». Il giudice ha il potere di suggerire la mediazione familiare per gestire nel modo migliore possibile la fase patologica del rapporto e lo scioglimento della fami166
glia, rinviando l’adozione di provvedimenti relativi alla prole. Come valuta l’efficacia di questo strumento? «Io personalmente non credo all’istituto della mediazione familiare, soprattutto se imposta. Tuttavia, devo ammettere che, talvolta, alcuni importanti centri di mediazione familiare, con serietà e competenza, hanno trovato soluzioni creative che giudici e avvocati faticavano a individuare, aiutando così le parti a superare equivoci e incomprensioni». In commissione Giustizia del Senato sta per arrivare un nuovo Ddl sull'affido condiviso, che potrebbe diventare legge in un anno e che dispone il doppio domicilio per il bambino e la sostituzione dell’assegno di mantenimento con contributi per capitoli di spesa. Cosa ne pensa? «La mia opinione è molto negativa. Non si può usare un bimbo come una torta da dividere a pezzi uguali per far felici due genitori egoisti e non rispettosi della dignità, serenità e stabilità del loro figlio». C&P • GIUSTIZIA
Cesare Rimini • Diritto di famiglia
Le scelte del divorzio
Divorzio. Un momento delicato, e spesso troppo protratto nel tempo, che porta con sé complesse implicazioni economiche ed emotive. Ne parla uno dei più noti matrimonialisti d’Italia, l’avvocato Cesare Rimini di Michela Evangelisti
Cesare Rimini, avvocato matrimonialista
C&P • GIUSTIZIA
l fallimento di un matrimonio, già difficile da digerire, in caso di divorzio si aprono per l’ex coppia estenuanti trattative. «Molte volte il divorzio a istanza congiunta presuppone la scelta dell’unica forma che chiude gli aspetti economici del matrimonio a catenaccio, senza lasciare aperti rapporti economici di nessun genere – spiega Cesare Rimini, che da quasi cinquant’anni si occupa di separazioni e divorzi con un occhio al diritto e uno ai sentimenti – è una formula spesso consigliata dagli avvocati, quando possibile, proprio perché è la parola “fine”». Divorzi congiunti e divorzi giudiziali: qual è ad oggi la via più utilizzata per mettere fine a un matrimonio? «Il momento di scontro giudiziale è molto più frequente in fase di separazione che in fase di divorzio. Le acque in tre anni spesso si sono calmate ed è più facile che le parti trovino un accordo, certamente anche con l’intento di risparmiare i costi che una causa fatalmente comporta». Le leggi che regolano in Italia separazioni e divorzi sono idonee e rispecchiano una situazione sociale in continua evoluzione? «Certamente ci sono spazi per i miglioramenti. Basta considerare, ad esempio, che le liti relative ai figli nati dalla coppia fuori dal matrimonio devono svolgersi avanti il tribunale per i minorenni e le stesse identiche liti per i figli legittimi (nati dal matrimonio) si devono svolgere di fronte al tribunale ordinario. Nessuno riuscirà mai a spiegarmi il motivo di questa bipartizione». Quale prassi tutela maggiormente l’interesse dei figli? «L’interesse dei figli è tutelato soprattutto da una separazione prima e da un divorzio poi che non siano contenziosi, perché poche persone sanno proteggere i figli nonostante i loro litigi. Quando c’è un accordo è meglio per i figli in quanto la situazione è emotivamente più distesa». Quali sono i tempi e i costi di un divorzio giudiziale e di un divorzio congiunto? «Il divorzio congiunto ha i costi connessi al tempo che si è dedicato per raggiungere l’accordo e all’entità degli interessi in gioco. Lo stesso discorso vale per il divorzio giudiziale, con l’evidente considerazione che in questo caso i tempi sono fatalmente lunghi. A volte infiniti». Si sta parlando proprio in questi giorni di ottocentomila nuovi poveri a causa delle separazioni e dei divorzi. «Una cosa è certa: la famiglia che si divide in due nuclei comporta praticamente un raddoppio delle spese. Se questa vicenda grava su coniugi, entrambi benestanti, è chiaro che non avverrà un detrimento economico tale da scombussolare la vita delle persone. Ma quando il menage è invece al limite, il passo verso la povertà è fatale».
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Violenze domestiche • Gian Ettore Gassani
Quando la famiglia non è più un’isola felice
In Italia la famiglia uccide più della malavita. Secondo Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione avvocati matrimonialisti italiani, contro i delitti tra le mura domestiche la legge non basta. Occorre cambiare la cultura del maschio italiano e concedere a tutte le persone in difficoltà sostegno economico e psicologico di Michela Evangelisti
ccuparsi delle persone e dei loro diritti, cercando di dare un contributo alla formazione di quanti intendono tutelarli. Questo lo scopo primario dell’associazione avvocati matrimonialisti italiani. Di fronte al dilagare delle violenze domestiche, l’Ami raccoglie dati attraverso il suo centro studi, per tenere monitorata la situazione, e promuove iniziative per cercare di sostenere la famiglia italiana, oggi più che mai in difficoltà. Secondo i dati resi noti dall’Ami, l’Italia è il paese in Europa con il maggior numero di omicidi tra le mura domestiche. «Esatto. Negli ultimi cinque anni la violenza intrafamiliare ha fatto registrare un picco davvero allarmante. Dal 2006 i delitti consumati in famiglia hanno superato in termini numerici quelli prodotti da tutta la malavita organizzata. La famiglia italiana quindi non è più un’isola felice, ma spesso è teatro dei fatti più raccapriccianti: anche l’ultimo episodio avvenuto ad Avetrana si è rivelato una questione intrafamiliare. Si tratta di una violenza trasversale, non più appannaggio dei quartieri malfamati di periferia, ma che si consuma anche tra le mura domestiche di persone altolocate. La violenza colpisce soprattutto al Nord, fenomeno di difficile codificazione: abbiamo sempre ritenuto che il Nord, dal punto
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Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione avvocati matrimonialisti italiani
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Gian Ettore Gassani • Violenze domestiche
Quando si perde la dignità e non si hanno vie d’uscita, si può arrivare a gesti estremi
di vista della civiltà dei rapporti, fosse un passo avanti rispetto al sud. Solo la metà di tutti gli omicidi in famiglia, invece, si consuma dal Rubicone in su». Chi sono le principali vittime di questi delitti? «Nel 75% dei casi la vittima è donna, moglie o convivente per lo più. Anche gli infanticidi sono una piaga in Italia: negli ultimi 40 anni circa 400 bambini sono stati uccisi, nel 90% dei casi l’autrice del delitto è la madre. Anche i mariti muoiono: circa 30 all’anno, ammazzati da conviventi e mogli. Ma si tratta comunque di dati non sovrapponibili a quelli riguardanti le donne. La violenza si consuma in corso di matrimonio ma anche dopo: l’uomo spesso non accetta di essere lasciato. È ancora diffusa una cultura maschilista per la quale la donna non può decidere della propria vita, non può troncare un rapporto coniugale o d’amore: l’uomo lo legge come un affronto, come un attacco al proprio orgoglio. Il movente della donna invece è di solito diverso: può essere legato a una depressione, soprattutto quando uccide i figli, oppure a un rancore, a una follia, quando ad esempio uccide il marito con l’aiuto di complici o ci sono in ballo questioni economiche». In alcuni suoi interventi ha messo in stretta relazione i delitti privati con la situazione economica delle famiglie colpite. «Accanto alla mancata accettazione dell’abbandono da parte C&P • GIUSTIZIA
dell’uomo stanno subentrando dei nuovi fenomeni, ovvero le nuove povertà. I barboni degli ultimi tempi sono soprattutto i padri separati. Parliamo ovviamente di quei lavoratori che non superano i 1300 euro al mese di stipendio, e che, quando la coppia si spezza, devono continuare a provvedere al mantenimento della famiglia e trovare una nuova sistemazione abitativa. Per prevenire la violenza, oltre a cambiare la cultura del maschio italiano, bisogna concedere a tutte le persone una possibilità di sopravvivenza. Ci sono provvedimenti regionali o comunali, in Liguria, Piemonte, Roma, Bolzano, che predispongono per padri e madri separati alloggi, sussidi economici, sostegni psicologici. Purtroppo queste iniziative sono frutto di uno spontaneismo locale e non di una politica nazionale che andrebbe posta in essere. Credo che lo Stato dovrebbe intervenire per far sì che questa gente non perda la dignità, perché quando si perde la dignità e non si hanno vie d’uscita, si può arrivare a gesti estremi». Ci sono strumenti validi a disposizione di chi subisce violenze per denunciare la propria situazione, scongiurando il rischio di tragedie irrimediabili? Cosa ne pensa della legge sullo stalking? «La legge sullo stalking è bella dal punto di vista contenutistico ma di difficile applicazione, perché non esistono le misure di prevenzione. Una donna che denuncia il proprio stalker quasi sempre viene lasciata sola; lo stalker, se è uno psicolabile, dopo la denuncia si accanisce ancora di più. Così una denuncia spesso diventa una condanna a morte. Sono necessari un potenziamento dei centri anti violenza, dei servizi sociali, una specializzazione degli avvocati e dei magistrati, una protezione fisica delle persone vittime di stalking. A Cremona, nel mese di luglio, uno stalker ha ucciso nella stessa giornata due donne, nonostante tante denunce. Viva quindi la legge sullo stalking, ma attenzione a pensare che da sola possa bastare: è inutile se rimane una vuota enunciazione di principio, se non c’è tutta una serie di organizzazioni di rete tra le varie figure professionali che possono darle un senso». I delitti tra le mura domestiche sono spesso conseguenza di profondi disagi e si lasciano alle spalle 171
Violenze domestiche • Gian Ettore Gassani
LA CRISI DELLA FAMIGLIA ITALIANA
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uccisione di Sarah Scazzi è l’ultimo caso di delitto familiare balzato alle cronache. La vicenda della ragazzina uccisa per strangolamento ad Avetrana, con il coinvolgimento, si suppone, dello zio Michele Misseri e della cugina Sabrina, per moventi ancora da definirsi con certezza, dimostra ancora una volta la terribile realtà delle violenze che si consumano nell’ambito familiare (non necessariamente quelle tra moglie e marito). «Esse testimoniano, mai come in questi ultimi periodi, la crisi degli affetti e dei rapporti tra persone della stessa famiglia – sostiene Gian Ettore Gassani -. Le rivalità, le gelosie, i vuoti spiriti di competizione sono spesso alla base di fatti di sangue efferati nelle modalità di esecuzione. Tra le peggiori tragedie familiari vanno annoverate quelle scaturite da futili motivi o da questioni legate all’eredità. In Italia occorre distinguere tra le violenze che si consumano nell’ambito del singolo nucleo familiare e quelle esplose nella famiglia in senso lato (entro il quarto grado di parentela). Le carte processuali dimostrano quanto spesso, in ordine alle violenze consumate nella cerchia dei parenti, si rea-
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lizzino fenomeni di connivenza e omertà da parte di soggetti estranei alle violenze stesse. In tema di reati a sfondo sessuale è statisticamente dimostrato che almeno nel 40% dei casi il marito o la moglie coprono e tollerano le malefatte del coniuge a danno dei parenti abusati, figli e nipoti compresi. Per alcuni coniugi prevale l’interesse a conservare l’unità familiare piuttosto che quello a interrompere la violenza. Occorre una politica seria di sensibilizzazione che miri a combattere ogni sorta di omertà e complicità, frutto di una sottocultura del tutto trasversale che riguarda, da nord a sud, tutti i ceti sociali. È indubbio – conclude Gassani - che la sovraesposizione mass mediatica della terribile vicenda della povera Sarah Scazzi abbia contribuito in maniera determinante a fare luce, sebbene parzialmente, su un dramma intrafamiliare che altrimenti sarebbe rimasto del tutto irrisolto come tanti altri. Esistono tante tragedie simili a quella di Sarah che non hanno portato alla identificazione dei presunti responsabili e sono migliaia i minori che in Italia ogni anno spariscono senza lasciare traccia di sé».
una scia di parenti sconvolti e rabbiosi. Come far fronte a queste situazioni delicate? «Quello che manca soprattutto in Italia è la cultura dell’intervento di varie figure professionali che possano dare una mano al diritto di famiglia: lo psicologo, lo psichiatra, il sociologo. La separazione da molti è vissuta come un lutto. Questo sostegno dovrebbe esserci fin dall’inizio della procedura e dovrebbe continuare anche dopo la causa: molti gravi delitti si consumano anche a distanza di anni dalla fine della celebrazione del processo. Il rancore e la disperazione non vengono messi da parte perché un giudice ha emesso un ordine: devono essere monitorati e prevenuti. Mediazione familiare e psicoterapia possono restituire alla gente tranquillità e fiducia». Quali battaglie porterà avanti l’Ami nei prossimi mesi per la tutela dei minorenni e della famiglia? «Una proposta per la quale l’Ami si sta battendo è quella di sancire il diritto dei nonni, che dimostrano di avere costruito un rapporto solido con i nipotini, di adire le vie legali per ottenere un minimo di tempo da trascorrere con loro. Quattro milioni di bambini da 0 a 13 anni in Italia sono affidati per molte ore al giorno ai nonni. I nonni però hanno solo doveri ma non diritti: se i genitori dei nipoti decidono senza motivo di interrompere i rapporti, i nonni non possono farsi valere nelle sedi competenti, anche se spesso vengono trascinati in giudizio per essere condannati a pagare l’assegno di mantenimento quando i genitori dei bambini non lo fanno. L’Ami sta poi preparando un disegno di legge sui patti prematrimoniali, richiestoci dalla commissione Giustizia del Senato, verso i quali in Italia le resistenze sono forti. Non devono essere considerati come sostitutivi del codice civile ma come una possibilità in più che si dà alle coppie, per evitare di spendere soldi per una causa di separazione e il crearsi di tensioni spesso fatali.Tutto, comunque, nel rispetto del divieto di iniquità: chi vorrà stipulare i patti potrà farlo, purché non ci siano clausole vessatorie nei confronti del coniuge più debole». C&P • GIUSTIZIA
Vincenzo Mastronardi • Violenze domestiche
L’orologio del crimine Bassa soglia di tolleranza allo stress, stimoli ambientali penalizzanti e un’identità maschile tutta da riorganizzare.Vincenzo Mastronardi, docente di Psicopatologia forense alla prima facoltà di Medicina dell’Università di Roma La Sapienza, entra nelle dinamiche dei delitti in famiglia di Michela Evangelisti
Vincenzo Mastronardi, docente di Psicopatologia forense alla prima facoltà di Medicina e direttore del master in Criminologia clinica dell’Università di Roma La Sapienza
C&P • GIUSTIZIA
micidi tra le mura domestiche. Un argomento che, purtroppo, domina sempre più le cronache e che entra prepotentemente anche nelle nostre case attraverso il telegiornale della sera. Episodi che ci colpiscono, dettagli che ci fanno inorridire: vicende familiari che suscitano, in maniera inevitabile, la nostra curiosità. C’è chi, come il criminologo Vincenzo Mastronardi, questi casi cerca di approcciarli con razionalità, dati alla mano; per entrare nei meccanismi mentali della vittima e del carnefice, ma anche per lanciare, attraverso quegli stessi media che a volte speculano sulle stragi, dei messaggi che possano avere una valenza formativa. Evitando di creare inutili allarmismi. La famiglia in Italia uccide più della criminalità, soprattutto al Nord. Dobbiamo aspettarci un’ulteriore crescita del fenomeno? «Innanzitutto voglio sottolineare che il fenomeno è rimasto abbastanza costante, con alti e bassi, attraverso gli anni.Anzi, ha registrato tra il 2005 e il 2008 una flessione minima, ma comunque significativa e confortante. Il time clock degli omicidi in famiglia nel 2005 era di 2 giorni, 2 ore, 20 minuti e 41 secondi; nel 2008, invece, (ultimo anno per il quale possediamo dati ben sistematizzati) si sono consumati 171 omicidi in famiglia, cioè uno ogni 2 giorni, 3 ore, 13 minuti e 41 secondi. Questo significa che non dobbiamo pensare necessariamente a un incremento, con terrorismo sociale». È possibile tracciare un identikit dell’autore delle tragedie domestiche e della sua vittima? Quali sono i principali moventi? «La vittima è per il 60,8% femmina, e rispetto all’autore è convivente o coniuge nel 32,7% dei casi, genitore nel 12,2%, figlio nel 12,3%, ex coniuge o ex partner nell’11,1%. L’autore dell’omicidio è nell’83% dei casi maschio, d’età compresa tra i 25 e i 34 anni per il 20,1% dei delitti. Il movente passionale, che comprende anche i delitti a sfondo sessuale, interessa la maggior parte dei casi (26,3% del totale); seguono come cause scatenanti della violenza le liti e il denaro. I disturbi psichici, a differenza di quello che generalmente si pensa, uccidono solo nell’8,8% dei casi». A uccidere sono soprattutto gli uomini. Ha influito il cambiamento negli ultimi decenni del ruolo dell’uomo nell’economia domestica e la sua progressiva perdita di controllo sulla donna e sulla gestione dei figli? «Alcuni autori sostengono questa teoria. Durante l’ultimo convegno tenutosi all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa un
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Violenze domestiche • Vincenzo Mastronardi
LA LEGGE SULLO STALKING all’entrata in vigore della legge sullo stalking, il 25 febbraio 2009, che ha istituito il reato di atti persecutori e molestie insistenti, è emerso un fenomeno dalle dimensioni allarmanti. «Le donne sono consapevoli del fatto che hanno uno strumento in più per difendersi», ha affermato il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, che ha poi insistito sull'importanza della legge come mezzo di prevenzione per evitare che le minacce reiterate possano sfociare in reati più gravi, come la violenza fisica, sessuale e, in ultima istanza, anche l'omicidio. «Si tratta di una legge ottima – sostiene Vincenzo Mastronardi – anche se l’articolo 8, quello riguardante l’ammonimento, suscita dubbi a livello applicativo. Molti componenti della polizia di Stato mi hanno chiesto aiuto in merito. Ci sono infatti persone per le quali l’ammonimento è sufficiente, ma non tutti gli stalker sono uguali. Lo stalker rancoroso o sadico proprio in seguito all’am-
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monimento reagisce ancor più violentemente. Alcuni studi lascerebbero pensare che per alcuni reati, come ad esempio quelli stradali, il controllo funzioni. In altri casi, però, il controllo può essere addirittura stimolante ed esasperante. Ogni caso è un caso a se stante e i progetti vanno adeguati di volta in volta. Le leggi possono essere buone, ma devono essere anche applicate in modo equilibrato e intelligente. Gli stalker – prosegue Mastronardi – sono stati classificati dall’Fbi in quattro categorie, una delle quali non è permeabile all’articolo 8. La deterrenza colpisce solo alcune fasce di persone: i santi e gli eroi, ad esempio, non sono permeabili, perché sono talmente convinti di quello che fanno che lo fanno comunque. Un’altra fascia non permeabile è costituita dalla criminalità organizzata. Permeabile invece è solitamente l’uomo comune, scoraggiato dalle conseguenze infamanti dei suoi gesti».
anno fa circa, il direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, Antonino Calogero, presentò una ricerca incentrata sull’ambito psicopatologico legato alla sua struttura, ovvero quello dei folli rei. Emerse che l’uomo mal sopporta il ruolo di imposizione della donna, che è sempre meno succube e sempre più dominante, esprimendo coordinate valutative pregnanti. Il giudizio della donna oggi si avverte prepotentemente in casa. Non che prima la donna non avesse un ruolo in famiglia, ma consentiva all’uomo di esprimere la propria valenza maschile, non intaccava il prototipo del maschio che fende la realtà. Viceversa oggi, stando a quella ricerca, il ruolo del maschio dominante nella maggior parte dei casi è saltato, e l’uomo non è riuscito a compensare, a costruirsi delle sicurezze alternative. E noi, da social network, da persone che si relazionano con il pubblico non solo registrando quello che avviene ma fornendo spunti e idee, dobbiamo stimolare l’uomo a effettuare una riorganizzazione mentale ed esistenziale su nuove basi. Così come i grandi investitori sanno, se si punta tutto su un’azione sola e questa crolla, si perde tutto e ogni sicurezza viene a mancare». La tensione accumulata in coppia si può sfogare poi anche sull’esterno? «Sì, in molti casi l’uomo che uccide per strada un altro automobilista che gli ha fatto un torto, dirotta su una vittima secondaria le tensioni domestiche. Queste problematiche possono poi C&P • GIUSTIZIA
Vincenzo Mastronardi • Violenze domestiche
Vedere il nero che c’è fuori di noi per distinguerlo dal bianco che abbiamo dentro ha stimolato la curiosità umana in tutti i tempi. I mass media soddisfano appieno questa necessità ovviamente essere esasperate da altri fattori, come la droga, la subcultura, il fatto di vivere in rioni dove l’aggressività determina quasi un contagio psichico». È d’accordo con chi teorizza un’escalation dei crimini in corrispondenza del crollo delle borse? «Durkheim già parecchie decine d’anni fa notò che il maggior tasso di suicidi si aveva nei periodi di massima fertilità o di massima indigenza economica: i due estremi si toccano. Da Durkheim a oggi gli studi psicopatologici e criminologici si sono perfezionati e hanno aggiunto altre varianti.Tra queste la soglia di tolleranza allo stress, che si è abbassata sempre di più, e gli stimoli socio ambientali: oggi i fattori interni non reggono più a quelli esterni, che si sono esasperati. È sufficiente una multa salata, che va a incidere enormemente sullo stipendio, per determinare il crollo delle sicurezze e l’esasperazione in casa. Ai risultati di Durkheim, applicabili non solo ai suicidi ma ad ogni atto di violenza domestica, dobbiamo aggiungere oggi queste considerazioni sugli stress e gli stimoli socio ambientali fortemente penalizzanti». Come spiega l’interesse morboso della gente per i delitti domestici, raccontati dai media con dovizia di dettagli? «Come diceva Groddeck, riuscire a vedere il nero che c’è fuori di noi per distinguerlo dal bianco che c’è dentro di noi ha stimolato la curiosità umana in tutti i tempi. Al giorno d’oggi abC&P • GIUSTIZIA
biamo una modalità comunicazionale, attraverso i mass media, che soddisfa appieno questa necessità». L’amplificazione data a questi episodi può generare emulazione? «A questo proposito esistono tre teorie. Bandura sostiene la relazione diretta tra il vedere un atto aggressivo e l’imitarlo. Alcuni autori sono convinti invece che si tratti di un procedimento catartico: nel vedere un film violento si sfoga l’aggressività propria accumulata. Io sono concorde con alcuni, pochissimi, autori nel ritenere che a percepire l’aggressività intorno a noi è il super ego, o la coscienza morale, che ci hanno inculcato i nostri cari, le suore, i preti. Si tratta di un giudicante interno che percepisce i limiti. Adesso è come se si veicolasse, grazie all’aggressività che si percepisce molto più accentuata attorno a noi, un messaggio del tipo “è consentito qualcosa in più”: è subentrato il super ego massmediatico. Io sono uno psichiatra, prima di essere un criminologo, e noto che l’aggressività si va esasperando progressivamente e le persone la avvertono. Ci sono sempre più agorafobici, uomini e donne che hanno paura del mondo circostante. Sicuramente si tratta di pazienti che hanno bisogno di fortificare il proprio io, di costruire le proprie sicurezze interne: ma nelle persone che si stanno ancora evolvendo e non hanno raggiunto stabilità, l’influenza esterna ha un notevole peso». 175
Diritto di famiglia • Virginio Manfredi Frattarelli
Criticità dell’affido condiviso L’intervento del legale, nei casi di crisi coniugale, parte dalla valutazione dei margini di riconciliazione. L’istituto della mediazione familiare, è sempre molto utile «a riorganizzare le relazioni familiari», secondo Virginio Manfredi Frattarelli, particolarmente quando esistono le premesse di Simona Langone
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a crisi di un matrimonio rappresenta un’esperienza traumatica, tanto per i genitori, quanto per i figli. Il compito del legale parte solitamente dall’esame dei possibili elementi di riconciliazione. Quando sussiste questa condizione, spiega l’avvocato Virginio Manfredi Frattarelli, «è opportuno consigliare ai coniugi di rivolgersi all’istituto della mediazione familiare. Si tratta di esperti, privati o pubblici, che coadiuvano la coppia nella riorganizzazione delle proprie reti relazionali per evitare quando possibile la fine del matrimonio». Ma, soprattutto, la mediazione familiare è utile per elaborare un programma di separazione soddisfacente per i genitori e che consenta ai figli di vivere con equilibrio la nuova situazione familiare. Per il divorzio in un anno si avvicina il primo via libera. In commissione Giustizia alla Camera si sta concludendo l’iter del disegno di legge che punta a un drastico taglio dei tempi delle separazione. Quali vantaggi apporterebbe il divorzio breve? «Si tratta di una riforma che andrebbe accolta con favore, poiché consentirebbe alle coppie in crisi di chiudere con relativa velocità una fase dolorosa della loro vita. In proposito va tenuto presente l’evolversi dei costumi, dell’opinione comune e anche del diritto. Quando venne introdotto nel nostro ordinamento il divorzio, la separazione era considerata una situazione patologica del matrimonio e si cercava di difendere in ogni modo la famiglia e la possibilità, anche remota, di una ricomposizione della crisi coniugale. Basti pensare a quanta importanza assumeva l’obbligo alla fedeltà anche dopo la separazione. Naturalmente con il trascorrere degli anni ci siamo allontanati da questa concezione, tanto che il divorzio rappresenta la naturale conseguenza alla separazione, come inevitabile conclusione di una frattura verificatasi nella coppia. Oggi non ha più alcun senso attendere tre anni prima di sancire la fine di un rapporto matrimoniale». Quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge 54, che sancisce l’applicazione dell’affidamento condiviso sulla base del rivoluzionario principio della bi-genitorialità, se ne decreta il fallimento. Paradosso fra i paradossi, l’aumento dei contenziosi. Qual è la sua opinione a riguardo? «Considero la riforma assolutamente valida ma di difficile attuazione pratica. Non credo che i principi ispiratori siano rimasti inapplicati per una sorta di ritrosità da parte dei magistrati a staccarsi dalle precedenti prassi ma, piuttosto, per l’oggettiva difficoltà di realizzarla. La ratio della riforma va, infatti, individuata nella necessità di riconoscere ad entrambi i genitori pari dignità, in linea con quanto previsto dal 1° comma dell’articolo 155 c.c.. Precedentemente, infatti, il genitore non affidatario era, di fatto, privato quasi totalmente del proprio ruolo. Questa giusta esigenza deve, però, essere conciliata con problema-
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Virginio Manfredi Frattarelli • Diritto di famiglia
In apertura, l’avvocato Virginio Manfredi Frattarelli. Il legale svolge la professione forense a Roma vmfrattarelli@libero.it
Il coniuge che si è allontanato dalla casa coniugale spesso non ha la possibilità economica di garantire al figlio una sistemazione soddisfacente C&P • GIUSTIZIA
tiche non semplici». Quali ad esempio? «In primo luogo occorre tenere presente che moltissime separazioni non sono consensuali e sono caratterizzate da accesissima conflittualità tra i coniugi, i quali talvolta non riescono più a confrontarsi, si rifiutano di utilizzare strumenti quale la mediazione familiare e arrivano a polemizzare e ad aggredirsi per questioni del tutto banali e di secondo piano. In casi del genere è estremamente difficile per loro mettere da parte l’animosità, sedersi ad un tavolo ed esaminare con la necessaria serenità le problematiche anche importanti riguardanti i figli. A ciò si aggiungano altre difficoltà che possono essere di diverso genere e che vanno ad incidere nella sfera economica delle parti». Quali incongruenze presenta l’applicazione concreta del principio di bigenitorialità? «L’articolo 155 del codice civile prevede che il giudice determini i tempi e le modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore. In realtà molto frequentemente ciò non è possibile perché il coniuge che si è allontanato dalla casa coniugale non ha la possibilità economica di trovare una nuova abitazione sufficientemente grande per ospitare anche i figli o, viceversa, va ad abitare presso un nuovo compagno/a, nella cui casa non c’è spazio per altre persone. La conseguenza è che, nella maggioranza dei casi, il magistrato affida la prole a entrambi i genitori che mantengono come riferimento abitativo la casa coniugale, dove continua a vivere, il più delle volte, la mamma, proprio perché i figli abitano con lei». Nelle attuali cause di separazione che importanza ha la relazione extra coniugale di uno dei coniugi? «Sull’argomento si è più volte espressa la Suprema Corte acclarando che l’infedeltà può essere ritenuta causa della separazione soltanto se risulta con evidenza che sia stata il principio della crisi. Il comportamento infedele, se successivo a condizioni di incompatibilità non è di per se stesso rilevante. In altre parole la separazione non può essere addebitata a uno dei coniugi soltanto perché è stato infedele, ma si deve provare che il tradimento determina la causa diretta o prevalente della frattura coniugale». Nella separazione succede talvolta che ai nonni venga delegata l’educazione dei figli. Può l’altro genitore chiedere al giudice che ciò sia evitato? «Come affermato dalla Corte di Cassazione, i minori hanno un vero e proprio diritto ad avere un rapporto continuativo e sereno con i nonni e che questi hanno, a loro volta, un diritto scontato e irrinunciabile a vedere i propri nipoti. Ma se i nonni tentano di sostituirsi ai genitori sconfessandone l’autorità e se invadono con pericolosa ambivalenza il loro spazio educativo, le loro visite dovranno essere regolamentate perché potrebbero risultare dannose per l’equilibrio e la serenità dei minori». 177
L’affido condiviso • Marianna De Cinque
Il minore innanzitutto L’affidamento condiviso stabilisce il diritto del bambino a un rapporto stabile con entrambi i genitori. Ma, per l’avvocato Marianna De Cinque, l’idea di introdurre nella norma la condizione di un rapporto paritempo, può essere un azzardo di Eugenia Campo di Costa
L’avvocato Marianna De Cinque, matrimonialista, esercita a Roma m.decinque@iol.it
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he sia consensuale o voluto da una sola delle parti, il divorzio di una coppia con figli apre questioni giuridiche estremamente delicate, che riguardano nello specifico l’affidamento dei minori. La legge 54 dell’8 febbraio 2006, attualmente in vigore, afferma il principio della bigenitorialità.Al bambino viene cioè riconosciuto il diritto di vivere un rapporto profondo, continuativo e stabile sia con la mamma che con il papà. È stato un passo decisivo, una svolta non solo giuridica ma anche culturale. «La legge sull’affidamento condiviso, sebbene abbia subito molte critiche, si è rivelata fortemente innovativa – afferma l’avvocato Marianna De Cinque, matrimonialista -. Sottolinea infatti il ruolo centrale dei diritti del minore in tema di separazione e di divorzio e tutela i genitori, che hanno entrambi il diritto a trascorrere del tempo con il proprio figlio». Recenti iniziative mirano però a rivedere la norma sull’affidamento condiviso introducendo l’idea che il bambino debba stare paritempo con la madre e con il padre. «Trovo che introdurre novità di questo tipo possa rivelarsi azzardato – commenta l’avvocato – e che, se è vero che il bambino ha bisogno di mantenere un rapporto stabile ed equilibrato con ciascuno dei genitori, è altrettanto importante analizzare ogni singolo caso, valutando quella che era la situazione della famiglia precedente alla separazione, in modo che il minore possa mantenere una condizione il più simile possibile a quella cui è abituato». Le probabili future modifiche alla legge tenderebbero, in effetti, ad imporre previsioni uguali per ogni famiglia, «invece bisognerebbe considerare sempre di più quelle che sono le abitudini della famiglia nella quale il bambino è abituato a vivere, valutando quindi i tempi che ogni singolo genitore può dedicare al proprio figlio» continua l’avvocato De Cinque. «Affermare in linea teorica che il bambino deve trascorrere con il padre e con la madre la stessa quantità di tempo, può essere controproducente per il bambino stesso: basti pensare al caso, assai comune, di un genitore troppo impegnato con il lavoro che non può seguire adeguatamente il figlio». Ribadendo la necessità dare uno spazio sempre maggiore al diritto di famiglia nonché di introdurre un tribunale dedicato alla materia, l’avvocato De Cinque trova assolutamente giusto che i papà possano, alla luce della norma sull’affidamento condiviso, trascorrere più tempo insieme ai loro bambini e che i minori non siano più affidati esclusivamente alla mamma ma possano godere pariteticamente della presenza di entrambi i genitori, «tuttavia credo che non si debba generalizzare e che sia dovere del tribunale analizzare la realtà di ogni singola famiglia e di ogni singolo caso. È fondamentale - conclude l’avvocato - definire la soluzione migliore nell’interesse dei genitori ma, soprattutto, dei bambini e cercare di ricreare, dopo la patologia della famiglia, un clima che per il minore sia il più possibile simile al contesto in cui è nato e cresciuto».
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Patti preventivi • Anna D’Agostino
Tutelare il patrimonio di chi divorzia “Sposando” il regime della separazione dei beni, moltissime coppie adottano la più evidente delle precauzioni matrimoniali che, in sede di divorzio, evita serie diatribe. Anna D’Agostino spiega l’importanza dei patti preventivi di Adriana Zuccaro
Anna D’Agostino è avvocato civilista del foro di Pordenone segreteria@studiodagostino.eu
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uando si decide di porre fine al matrimonio, non è solo la sfera intima e privata del nucleo familiare a essere compromessa perché improvvisamente, si manifesta una vasta serie di problematiche legate anche alla spartizione dei beni. Per evitare quindi incongruenze o iniquità, è possibile per i coniugi fare un accordo che regoli le loro sorti economiche e patrimoniali in caso di crisi del vincolo coniugale? Anna D’Agostino, civilista particolarmente attenta al diritto di famiglia e agli impliciti interessi economici che derivano dalla separazione e divorzio, fa luce sulla validità dei patti stipulati fra coniugi e sulle dinamiche sottese alla legittima assegnazione di beni e patrimoni “condivisi” in matrimonio. Nell’ambito dei rapporti economici che intercorrono fra ex coniugi, quali potrebbero essere validamente regolati? «Un accordo di tipo economico-patrimoniale potrebbe essere definito, astrattamente, prima o durante il matrimonio, nel corso della procedura di separazione oppure dopo la separazione ma prima del divorzio. Con limiti più o meno ampi, i patti in questione - considerati validi e normalmente stipulati in larga parte del mondo occidentale - possono andare dalla definizione dei criteri, sommari o dettagliati, in base ai quali i coniugi ripartiranno il patrimonio familiare in caso di crisi, alla previsione minuziosa di come saranno suddivisi i guadagni, per garantire un certo reddito da parte di un coniuge nei confronti dell’altro».
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Anna D’Agostino • Patti preventivi
Anche se nullo, l’accordo preventivo, potendo talvolta mantenere una valenza morale, può influire sul comportamento e sulle richieste che i coniugi si rivolgono l’un l’altro in sede di separazione o di divorzio
Cosa prevede a riguardo la normativa italiana? «In Italia non vi è una norma specifica che bolli di nullità i patti volti a regolare preventivamente la crisi del matrimonio. Tuttavia la giurisprudenza della Cassazione, quando si è occupata del problema, ha sempre affermato che, nei limiti in cui vanno a toccare il rapporto con i figli e i diritti connessi allo status di coniuge o di figlio, si tratta di patti nulli, per contrarietà all’ordine pubblico o per illiceità della causa. I diritti in gioco sono considerati indisponibili e perciò la loro gestione non è rimessa solo alla volontà delle parti, ma deve corrispondere a un interesse sovraordinato rispetto al quale il giudice può sempre controllare che siano conformi». Quali sono gli strumenti preventivi che le coppie possono scegliere per non ritrovarsi, nell’eventualità di un divorzio, a combattere per la divisione dei beni? «Nonostante siano sostanzialmente vietati gli accordi preventivi tra i coniugi finalizzati alla regolamentazione della crisi prima che la stessa si manifesti, in Italia moltissime coppie adottano già la più evidente e diffusa delle precauzioni optando cioè per il regime della separazione dei beni. Anche questo meccanismo, infatti, consente di ridurre notevolmente le problematiche che possono insorgere in sede di separazione e divorzio ed elimina una prima diatriba, quella di chi debba rimanere proprietario dei beni acquistati durante il matrimonio». Cosa può succedere quando i coniugi in via di separazione sono anche soci? «Nell’ipotesi in cui all’impresa partecipino in qualche forma C&P • GIUSTIZIA
societaria entrambi i coniugi, sarebbe opportuno stabilire preventivamente quale sarà la sorte dell’impresa in caso di crisi, definendo ad esempio, nello statuto della società dei diritti di opzione o di prelazione in capo a uno o a entrambi i coniugi, l’obbligatoria cessione delle quote di minoranza a un coniuge a un prezzo predeterminato o la determinazione dei parametri, sufficientemente precisi, in base ai quali sarà calcolato il corrispettivo di cessione delle quote». E se solo uno è imprenditore? «Se uno dei due coniugi è imprenditore, o se i coniugi partecipano a un’impresa ad esempio di tipo familiare, sarebbe bene fare ricorso a qualche strumento giuridico o tecnico che consenta di tenere conto del contributo dell’altro coniuge se quest’ultimo formalmente non fa parte dell’impresa. Se la moglie, ad esempio, è una casalinga che si occupa della gestione della casa e dei figli, e il marito è imprenditore, può prevedersi l’attribuzione al coniuge di una parte degli utili a scadenze fisse, oppure di un assegno mensile». Nonostante la possibilità che gli accordi preventivi siano considerati nulli, può essere comunque utile stipularli? «Si perché anche se sono attualmente considerati nulli, non è detto che la giurisprudenza non cominci a considerare valide talune clausole o che utilizzi il contenuto di tali accordi quale elemento indiziario al fine di determinarsi nell’esercizio dei suoi poteri.Vi è già peraltro qualche pronuncia che utilizza gli accordi nulli per il loro valore indiziario in ordine alle possibilità economiche o reddituali del coniuge obbligato, senza quindi che sia necessario svolgere difficili e complesse indagini per individuare il reddito effettivo del coniuge obbligato». Cosa è consigliabile ai coniugi? «Per quanto sia “infelice” pensarlo, sarebbe bene che i coniugi, anche e soprattutto quando vanno d’accordo, tenessero sempre presente l’eventualità della crisi, provvedendo quindi, se possidenti, a ripartirsi gli incrementi patrimoniali che si realizzano durante il matrimonio secondo criteri di equità o comunque secondo principi concordati che tengano conto degli interessi e delle esigenze di entrambi i membri della coppia. Anche se nullo, l’accordo preventivo, potendo talvolta mantenere una valenza morale, può influire sul comportamento e sulle richieste che i coniugi si rivolgono l’un l’altro in sede di separazione o di divorzio». 181
Tutela della legalità • Giampaolo Maria Cogo
Fuori dal formalismo «In Italia la legalità è a rischio». Colpa di un confronto democratico sterile e formale. Giampaolo Maria Cogo, in controtendenza rispetto a un diritto sempre più autoreferenziale, apre la discussione sulla società. E sulla speranza di produrre cambiamenti di Paola Maruzzi
Giampaolo Maria Cogo, avvocato e professore di diritto amministrativo presso l’Università Roma Tre gmcogo@tiscali.it
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risi delle istituzioni pubbliche e dei rapporti tra gli Stati. Scadimento delle relazioni intersoggettive. Inadeguata tutela dei diritti della persona. Incertezza dell’attuazione delle leggi. Criticità dell’applicazione nelle giurisdizioni internazionali, comunitarie e interne». Risponde così Giampaolo Maria Cogo alla “semplice” domanda su quale piega stia prendendo il nostro presente. L'architrave della legalità dà segni di cedimento, portandosi dietro un corollario di deterioramenti. Vale la pena approfondire la questione assieme al professore e avvocato Cogo che nella sua lunga carriera ha maturato anche ripetute esperienze come consigliere di ministri nelle attività di governo. Ha accennato alla svalorizzazione della legalità sul piano degli assetti istituzionali e dei poteri pubblici. A grandi linee, a cosa è dovuto? «Sicuramente a un insieme di fattori. Tra questi la decrescente importanza dei valori posti a fondamento della convivenza civile. Questi sono ormai lontani dai principi del diritto naturale fondati sul riconoscimento del primato della persona e volti alla promozione del bene individuale e comune. La legittimazione delle regole poggia sul riscontro della correttezza formale del procedimento di produzione delle leggi, sostanzialmente sostenute dalla loro autoreferenzialità etica». In un quadro del genere, che fine fanno i diritti fondamentali e la loro tutela? «Rischiano di ridursi a buone intenzioni, contraddette da leggi in contrasto con i diritti proclamati, disarmoniche nella graduazione dei valori e nella composizione dei conflitti (aborto, eutanasia, divorzio), accomunate dalla legittimazione dell’azione
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Giampaolo Maria Cogo • Tutela della legalità
Il nostro sistema legislativo soffre di precarietà. Lo dimostrano le ripetute e contraddittorie riforme giudiziarie
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indiscutibilmente lesiva di un soggetto nei confronti di un altro, indipendentemente dalla volontà contraria di quest’ultimo, ovvero dell’impossibilità di opporvisi». In questo modo il confronto democratico rischia di diventare di facciata? «Esattamente. La dialettica dei rapporti di forza scivola sul mero piano procedimentale, piuttosto che nella ricerca di valori condivisi. Ed è naturale che possa prevalere il formalismo anche nel campo delle funzioni giurisdizionali. A scapito della tutela delle situazioni soggettive secondo canoni accettati». Secondo lei di cosa “soffre” il nostro sistema legislativo? «Di precarietà. Lo dimostrano le ripetute e contraddittorie riforme in materia processuale: un settore che dovrebbe attenersi alla connaturale e quasi immodificabilità della codificazione e che, invece, viene assoggettato a scossoni e ribaltamenti inutili. Lo stesso può dirsi dell’incessante intervento legislativo sugli interessi e i diritti sostanziali, sui rapporti intersoggettivi, sulla sfera dell’autonomia dei privati, nonché nell’ambito della tutela dei diritti e degli interessi in tutti i campi dell’azione umana». Cosa ha comportato lo scadimento della legalità sostanziale? «Ha attenuato l’autorità e la certezza del diritto. La sterilità del dibattito confinato al positivismo procedimentale sembra essere approdata alla consapevolezza del punto morto dal quale non si è riuscito a fare passi in avanti. Si pensi ai dibattiti senza esito sulla riforma delle istituzioni politiche, sui diversi riassetti delle forme di governo, sulle regole che dovrebbero risolvere i problemi della bioetica. Non si fa altro che registrare opinioni strampalate e cervellotiche, caratterizzate dal rifiuto del richiamo alle tradizioni della nostra civiltà e alle radici cristiane dell’intera Europa». Dove si registrano segnali positivi? «Nella normativa comunitaria volta all’armonizzazione non solo della tutela dei diritti delle persone e, si auspica, della famiglia, ma anche nell’ambito della disciplina delle attività economiche e giustiziali. Le finalità primarie dell’Europa comunitaria per la garanzia della concorrenza e del mercato hanno innescato processi normativi connotati da disposizioni decisamente radicate nell’etica delle due finalità, sotto la specie delle regole della pubblicità, della trasparenza, della correttezza e della buona fede contrattuale, protette da un sistema giustiziale e sanzionatorio severo, ma anche temperato dal ricorso all’equità, come nei casi in cui prevalga l’interesse generale». Esistono speranze di recuperare la legalità sostanziale? «Le negatività non intaccano il processo di recupero della legalità sostanziale avviato attraverso la porta secondaria delle più recenti normative, che possono confortare la speranza dell’utile cammino verso la riacquisizione della concezione del diritto, quale rappresentazione della legalità sostanziale, fedele al bene comune». 185
Editoriale • Marcello Vecchio
INCIVILTÀ GIUDIZIARIA di Marcello Vecchio avvocato di Roma vecchiomarcello@virgilio.it
oglio partire da una provocazione, che a mio avviso rispecchia lo stato comatoso del nostro Paese: buona parte dell'opinione pubblica è convinta dell'inutilità delle leggi. Queste non solo non vengono rispettate, ma rendono vano il nostro ordinamento giuridico, talmente “abbondante” da non essere tenuto in considerazione. In uno Stato di diritto degno di questo nome, l’obbedienza e la soggezione alle leggi rappresentano i principi essenziali della civiltà giuridica. In Italia questi pilastri stanno cedendo a causa della negligenza dei governanti, sia presenti che passati. Da troppo tempo nel Belpaese la giustizia è in uno stato di emergenza, tanto che ci troviamo oltre un punto di rottura: siamo in procinto di uscire dal novero delle cosiddette nazioni civili. Secondo Álvaro Gil-Robles, commissario per i Rapporti umani dell'Unione europea, su un totale di 183 paesi, l’Italia occupa la centocinquantaseiesima posizione in tema di rispetto della giustizia. E l'Ocse ci fa addirittura precedere da Sudan, Ruanda, Nicaragua e Uganda. L’inefficienza cronica della giustizia – sia essa civile, penale, amministrativa, contabile e tributaria – si ripercuote sull’economia e lo sviluppo del Paese. Quindi la necessità di riformare l'apparato giudiziario non è più procrastinabile. Tra le tante cose, al Congresso nazionale forense di Genova si discute appunto del giudice inteso come “terzo”,
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L’Italia occupa la centocinquantaseiesima posizione in tema di rispetto della giustizia. L'Ocse ci fa precedere da Sudan, Ruanda, Nicaragua e Uganda 186
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cioè equidistante da tutte le parti processuali. Inoltre viene data rilevanza al fatto che l’obbligatorietà dell’azione penale sia effettiva. Non è più tollerabile la discrezionalità delle Procure. Quest’anno pare che le proposte di rinnovamento avanzate siano condivise anche dall’Associazione nazionale magistrati, e da tutte quelle organizzazioni che si battono per un Paese più democratico. Un processo civile rapido, giusto e conforme al dettato costituzionale, farebbe progredire la nostra civiltà verso l'agognata pax sociale. Al contrario, un processo civile lento e inadeguato a tutelare i diritti soggettivi produce sfiducia nelle istituzioni e avvalora la limitazione dell’autonomia della funzione giudiziaria. Inoltre viene avallato il progetto che prefigura la magistratura ordinaria con compiti residuali, rispetto ad altre “stanze di compensazione” che non sono solo arbitrati o magistrature “atipiche”, magistrature politiche o authority, ma anche altri oscuri metodi di regolazione dei conflitti, che costituiscono la negazione del diritto vigente. Un processo civile che non funziona spinge il cittadino a trovare altri più rapidi mezzi di regolamento dei conti, rispetto ai quali non debba più intromettersi quel “terzo” e inutile incomodo: il giudice. Tentare di mettere a nudo i problemi irrisolti del nostro sistema giudiziario, non vuol dire prendere posizione contro qualcuno, ma piuttosto schierarsi dalla parte dei citta-
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dini che chiedono la certezza del diritto. L’amministrazione della giustizia deve essere rapida, efficiente e giusta. Attualmente il più semplice dei processi civili non riesce a terminare prima di 10-13 anni, ammesso che si completi dinanzi alle Corti d’Appello. In caso contrario ne occorrerebbero almeno altri 5. La maggior parte delle recenti innovazioni che avrebbero dovuto contribuire ad accelerare le procedure giudiziarie, hanno completamente fallito lo scopo per cui erano state promulgate. Basterà ricordare l’errore della soppressione delle Preture nei centri più importanti. Mentre, unificando il primo grado di ogni giudizio dinanzi al Tribunale e aumentando il numero dei giudici non togati, si è giunti a intasare tutte le Corti d’Appello, specialmente civili, che non riescono più a smaltire il carico dei processi senza che trascorrano almeno altri 7 anni. L’aspirazione a essere giudicati da un “terzo”, cioè estraneo a tutte le parti, costituisce un diritto soggettivo perfetto, mentre una delle garanzie fondamentali del giusto processo, consiste nell’enunciazione dei motivi e dei singoli presupposti sui quali si basa qualsiasi provvedimento amministrativo e giudiziario. Soprattutto nel processo penale, si esige la motivazione delle decisioni per consentire il controllo sulle stesse, attraverso le impugnazioni. E in tal modo, si sostanzia la cosiddetta funzione endoprocessuale della motivazione, ossia l’esigenza di garantire le parti sull'esattezza e correttezza della decisione; così come a essa si aggiunge la cosiddetta funzione extraprocessuale, consistente nel rendere controllabile l’esercizio della giurisdizione da parte della collettività, rispettando il precetto costituzionale che vuole la giustizia amministrata in nome del popolo. In Italia non tutti amano osservare fedelmente la legislazione. Di tanto in tanto, qualcuno si allontana da un certo modo di pensare, di decidere, di giudicare, per seguire nuovi indirizzi, che possono essere innovativi, avveniristici o persino sovversivi. Da una quindicina di anni ho constatato un mutamento di indirizzi e di metodi decisionali soltanto da pochi soggetti del nostro sistema giudiziario, ma i casi sono in aumento. Tra le tante cose mi è persino capitato di leggere sentenze talmente contorte che sembrano essere scritte da persone che non abbiano mai frequentato un corso di giurisprudenza. 187
Procedure conciliative • Massimo Vita
Il dibattito sulla conciliazione L’istituzione delle procedure conciliative ha sollevato un dibattito molto acceso nel mondo forense e non solo. Occorre trovare nuove soluzioni per contrarre i costi. L’opinione dell’avvocato Massimo Vita di Ezio Petrillo
L’avvocato Massimo Vita esercita la professione presso il Foro di Roma da 25 anni vita.avv@tiscali.it
econgestionare la giustizia ordinaria dall'enorme numero di controversie che vengono iscritte a ruolo ogni anno, rappresenta il problema principale che si pone oggigiorno per chi lavora nel settore. Le procedure conciliative sono al centro di un dibattito che riguarda soprattutto il mondo forense. Il parere dell’avvocato Massimo Vita. Come valuta l'istituzione della conciliazione extragiudiziale anche detta "alternative dispute risolution"? «La sempre crescente tendenza a voler concepire procedure alternative al fine di dipanare alcune tipologie di controversie, dinanzi a soggetti con funzioni conciliative, in una posizione di terzietà, mi lascia alquanto perplesso. L'esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità nelle controversie di lavoro, ha dimostrato che tale istituto non è riuscito a decongestionare i ruoli dei giudici ordinari. La nostra grande propensione a rivolgerci alla Giustizia, che forse non trova eguali in altri Paesi occidentali, presuppone, di per sé, che la soluzione venga ricercata nell'ambito delle istituzioni già esistenti». Cosa intende con quest'ultima affermazione? «Gli avvocati, ad esempio, potrebbero, ove legittimati, contrapponendosi nel rappresentare una parte, esperire un tentativo di conciliazione attraverso la redazione di un verbale nel quale vengano rappresentate le rispettive posizioni. Ove non si arrivi a una soluzione, la parte che avesse interesse, potrebbe adire il giudice ordinario. In buona sostanza sa-
rebbe un tentativo obbligatorio di conciliazione ma demandato all'attività degli avvocati». Ritiene che vi possano essere anche altri strumenti di conciliazione? «Gli strumenti di conciliazione già esistono nel nostro ordinamento processuale ma andrebbero valorizzati. Sia nel rito del lavoro che nel rito ordinario, infatti, il giudice può esperire il tentativo di conciliazione ma, nella pratica, esso avviene in modo non ritualmente consacrato. Mi spiego meglio. Alcuni giudici spesso si sforzano di infondere alle parti l'opportunità di trovare una soluzione compositiva della controversia, sia perché il tutto si risolve in un risultato immediato, sia per ragioni di contrazione dei costi del sistema. Ritengo, pertanto, che il tentativo di conciliazione già previsto in rito, debba essere utilizzato con maggiore forza e il giudice dovrebbe sollecitare tale risultato con un contributo di argomenti che nella pratica non vengono utilizzati. Naturalmente, ove il tentativo non portasse nessuna soluzione, la causa avrebbe il suo naturale corso». Pare che lei non abbia molta fiducia nella giustizia privata. «È vero. Ritengo il giudice togato una grande garanzia per una corretta applicazione della legge. Nel sistema processuale vi sono tutte le possibilità perché si addivenga a una composizione della controversia prima della sentenza. Le numerose riforme del processo civile di questi ultimi anni hanno solo generato confusione senza risolvere nulla. Voglio solo aggiungere, per finire, che lo Stato deve investire di più e meglio per la Giustizia. Senza investimenti qualsiasi riforma sarà destinata a fallire».
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Donne e avvocatura • Alessandra Di Fronzo
Meritiamo più fiducia Il mondo della professione forense è caratterizzato ancora da forti discriminazioni nei confronti delle avvocate. Analizziamo il rapporto Censis, in merito, con Alessandra Di Fronzo di Ezio Petrillo
li stereotipi, frutto dei pregiudizi e figli di una mentalità pigra che induce a schematizzare a tutti i costi una realtà molto più articolata, proliferano anche nel mondo della professione forense. Secondo un recente rapporto del Censis sulle discriminazioni che avvengono nel mondo dell’avvocatura, le donne vengono comunemente considerate più idonee a occuparsi di persone piuttosto che di affari, ovvero adatte a risolvere controversie familiari o condominiali. La ricerca evidenzia come sussistono ancora forti disparità di retribuzione tra avvocati uomini e le loro colleghe donne. Ne discutiamo con Alessandra Di Fronzo. «Il lavoro a cui lei fa riferimento, che ha visto impegnati anche la Commissione Pari Opportunità del CNF e l’AIGA, mette l’avvocatura di fronte a dati oggettivi che ciascuna professionista vive sulla propria pelle ogni giorno. Questo rapporto crea un’occasione di confronto indispensabile per la rivalutazione del ruolo sociale dell’avvocatura femminile in un momento socio-economico difficile in cui si dibatte di riforma della professione. Il fatto che si contesti alle avvocate di peccare di determinazione e lasciarsi coinvolgere emotivamente nell’esercizio della professione è senza dubbio uno stereotipo maschile. Le donne sono dotate di senso pratico perché abituate a trarre da ogni situazione il maggior profitto nel minor tempo». Per superare tali pregiudizi basta fare un’operazione molto semplice secondo la Di Fronzo ossia «osservare le donne nello svolgimento quotidiano delle loro attività, e rivol-
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Alessandra Di Fronzo, componente del comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bari, esercita la professione nel suo studio legale di Bari studiolegaledifronzo@libero.it
gersi a esse con la stessa fiducia che viene loro riconosciuta nei campi di tradizionale pertinenza». I dati del Censis, testimoniano come per il 50% delle donne avvocato intervistate la professione risulta come una passione, mentre solo per il 20% una fonte di profitto. «Quando l’interesse culturale che si nutre nei confronti delle materie giuridiche trova realizzazione pratica in termini di soddisfazione della clientela e giusto riconoscimento economico, la libera professione è davvero gratificante. Quando invece, nonostante una preparazione adeguata, subiamo una considerazione sociale limitante, allora la passione spesso non basta e molte di noi abbandonano la professione». Per quel che riguarda le differenze di reddito, poi, c’è da sottolineare un dato interessante. «Dopo un primo momento in cui la retribuzione tra uomini e donne si equivale, dopo un certo numero di anni (7-10) il reddito femminile è la metà di quello maschile. Questa è la conseguenza degli stereotipi di cui dicevamo. Gli interventi per superare questa situazione di disparità riguardano sia la diffusione della cultura di genere che riforme concrete, come l’inserimento della variabile di genere negli studi di settore, la previsione di agevolazioni fiscali che favoriscano l’associazione professionale tra donne, ma anche una riforma della previdenza forense e l’adozione di quote paritetiche negli organismi di rappresentanza. Alla base, ovviamente, urgono politiche di sostegno alla famiglia che aiutino le donne a conciliare vita privata e professionale e godere di entrambe». C&P • GIUSTIZIA