Dossier Giustizia 12 2011

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Sommario

L’INTERVENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .13 Filippo Ritondale IN COPERTINA

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FormaMed MEDIAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .22 Il quadro italiano DIRITTO DI FAMIGLIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26 Adriana Boscagli Annamaria Bernardini de Pace Luisella De Cataldo Neuburger Milena Pini Francesco Alberoni Manuela Tirini e Claudia Grassi Giuseppe Pascali Lorenza Cracco DISAGIO GIOVANILE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .44 Maria Teresa Spagnoletti Gino Rigoldi SALONE DELLA GIUSTIZIA

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .58

Maurizio De Tilla Dario Greco Marco Ubertini Antonio Conte MERCATO DEL LAVORO

Pietro Ichino Gabriele Fava

RESPONSABILITÀ MEDICA

. . . . . . . . . . . . . . . . .86

Francesco Lauri Antonello Patanè

. . . . . . . . . . . . . . . . .50

Filippo Berselli RIFORMA FORENSE

DIRITTO DEL LAVORO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .76 Andrea Stanchi Massimo Paradisi Vincenzo Fabrizio Giglio Wanni Torresani

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .70

EVASIONE FISCALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .92 Cinzia Romagnolo Claudio Siciliotti Daniela Gobbi Carlo Federico Grosso Studio Bana REATI FISCALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .108 Alessio Scarcella Alessio Lanzi SOCIETÀ DI COMODO

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .114

Victor Uckmar SOCIETÀ OFFSHORE

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .116

Giovanni Briola Giuseppe Marino . . . . . . . . . . . . . . . .120

LA LEGGE FALLIMENTARE

Tommaso Pietrocarlo NUOVI ISTITUTI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .122 Adalberto Castoro IL FONDO PATRIMONIALE

. . . . . . . . . . . . . . . . .124

Giovanna Iraci NUOVE FORME GIURIDICHE

. . . . . . . . . . . . . . .128

Gian Piero Geminiani

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Sommario

DIRITTO D’IMPRESA

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .130

Luigi Ragno

DELITTI IRRISOLTI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .174

Nino Marazzita Luciano Garofano

DIRITTO D’AUTORE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .132

Gaetano Blandini Maurizio Mandel Giovanni Flora

LA PROVA E IL PROCESSO

. . . . . . . . . . . . . . . .180

Franco Coppi IL DIRITTO ALLA DIFESA . . . . . . . . . . . . . . . . . .182

TUTELA DEL BRAND

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .140

Adriano Vanzetti Fabrizio Bianchi Schierholz

Carmelo Pepe EMERGENZA CARCERI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .186

Anna Chiusano TRA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IMPRESE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .146

Cristina Lenoci APPALTI PUBBLICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .148 Maurizio Steccanella

REATI INFORMATICI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .190

Ugo Ruffolo Antonio Apruzzese Marco Strano PROCEDURA PENALE

ESPROPRI PER PUBBLICA UTILITÀ . . . . . . . .150

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .198

Michele Priolo

Pier Costanzo Reineri SEQUESTRO E CONFISCA DI BENI TERRENI EDIFICABILI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .152

. . . . . . . . .200

Francesco Calabrese

Vittorio Paolucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .154 Giuseppe Caruso Giancarlo Trevisone Antonio Laudati Claudio Peciccia Andrea De Martino Antonio Reppucci LEGALITÀ

STALKING . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .204 Marialuisa Capuani DIRITTI DEI DISABILI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .208

Roberto Speziale Raffaele Della Valle INFORTUNISTICA STRADALE

. . . . . . . . . . . . . .212

Fernando Santoni de Sio CRIMINOLOGIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .168 Carmelo Lavorino Francesco Bruno Nicodemo Gentile

CONSULENZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .214 Sandro Callegaro AMMINISTRAZIONE CONDOMINI . . . . . . . . . . .216

Gabriele Calvetto IL COMMENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .218 Raffaele Guariniello GUARDIA COSTIERA

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Marco Brusco

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Principi del Foro

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Principi del Foro

ECCELLENZE NELL’UNIVERSO DEL DIRITTO

l 2011 ormai è giunto al termine e la nostra testata, anche in occasione dell’importante Salone della Giustizia di Roma, ha deciso di attribuire un riconoscimento a quelle che, a nostro giudizio, sono alcune delle migliori personalità che operano nell’ambito del Diritto. Professionisti che hanno dimostrato di poter contribuire in maniera concreta a una diffusione sempre più capillare della cultura della legalità sul territorio italiano, rendendo la Giustizia più accessibile a cittadini, famiglie e imprese. Sulla testata abbiamo scelto di mostrare i migliori studi legali e le migliori associazioni del Paese impegnate sui fronti civile, penale e stragiudiziale. Tra questi, anche Adriana Boscagli, certamente uno tra gli avvocati più autorevoli nell’ambito del Diritto di Famiglia. Una battaglia, quella al fianco delle famiglie, e soprattutto dei minori, che ha visto nel 2011 protagonista anche Annamaria Bernardini de Pace. Marialuisa Capuani, dell’omonimo studio legale di Torino, esperta in diritto penale, si è imposta per il suo sostegno al fianco delle vittime di stalking. Sempre sul penale, si conferma l’autorevolezza dell’avvocato Carlo Federico Grosso. Giovanna Iraci, del foro di Milano, è invece tra i professionisti più competenti nell’ambito della tutela patrimoniale di famiglie e imprese. Tra i più accreditati anche il professor Alessio Lanzi, ordinario di Procedura Penale presso l’Università Statale di Milano, punto di riferimento sullo scenario del diritto tributario. Con

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lui anche il noto tributarista e fiscalista Victor Uckmar. Passando al diritto del Lavoro, merita una menzione il milanese Studio Legale Stanchi, realtà che trova al suo interno alcuni tra i professionisti più affermati sulla scena meneghina, come Andrea, Vincenzo e Romolo Stanchi e Annamaria Pedroni. Sempre nel Giuslavoro, non potevamo non contemplare anche l’avvocato e senatore Pietro Ichino e il milanese Gabriele Fava. Tra gli amministrativisti, è stato riconosciuto l’impegno di Cristina Lenoci, con studio legale a Roma e Taranto. E tra i civilisti, si conferma la competenza di Ugo Ruffolo, avvocato e professore presso l’ateneo bolognese. Anche sul fronte della Mediazione alcuni professionisti hanno contribuito in maniera sostanziale allo snellimento del sistema giudiziario e ad un’accessibilità più rapida alla Giustizia. Il caso della società FormaMed, che vanta al suo interno professionisti del calibro di Adriano De Luca, Lorenza Morello, Alberto Mascia, Stefano Paderni e Vittorio Guidotti in questo è esemplare. L’avvocato Nicodemo Gentile, del Foro di Perugia, si è dimostrato estremamente competente in alcuni dei casi giudiziari più discussi degli ultimi anni. Con lui, un altro “colosso” dell’universo giudiziario, l’avvocato Nino Marazzita. Merita una menzione speciale, poi, Raffaele Della Valle, per il suo impegno rivolto alla difesa dei diritti dei disabili. Infine, il presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura, Maurizio De Tilla. 13



L’intervento

DENUNCIARE PER LIBERARSI DELL’USURA di Filippo Ritondale Comandante della Guardia di Finanza del Lazio

dati del rapporto Eurispes sull’usura nel 2011 danno del Lazio una descrizione se non proprio ottimistica quanto meno non eccessivamente allarmante: secondo l’indice di rischio usura la nostra regione si posiziona al nono posto, con un Iru pari a 50,2, a metà tra quello della Calabria (97,2) e Trentino Alto Adige (2,8). Stando sempre all’indice di rischio elaborato dall’Eurispes, basato sull’analisi delle variabili economiche, bancarie, imprenditoriali e criminali ritenute in grado di influenzare la vulnerabilità rispetto all’usura emerge che, su una media nazionale pari a 45,2, le province laziali più colpite sono nell’ordine: Viterbo (58,5), Rieti (56,5), Frosinone (55,4), Latina (54) e Roma (26,5). È difficile quantificare il giro d’affari derivante da questo fenomeno, comunque è potenzialmente vicino ai numeri dati da Sos racket: 3,3 milioni di euro. Del resto, nella sola città di Roma, tra il 2010 e il mese di agosto 2011, la Guardia di finanza ha individuato e denunciato 44 usurai, di cui ben 18 tratti in arresto, operando nei loro confronti il sequestro di beni e disponibilità finanziarie per 2.895.685 euro. Il tallone d’Achille nella lotta all’usura è sempre la paura che gli usurati hanno delle ritorsioni, unita a una malcelata sfiducia nell’attività repressiva delle forze dell’ordine. In alcuni casi le vittime di questo aberrante crimine subiscono, a detrimento della scoperta di casi anche eclatanti, la vergogna di aver dovuto percorrere una via che, da subito, si era rivelata in salita e fitta di ostacoli. La direzione da seguire per rendere certa ed efficace la lotta all’usura è nel rapporto con il territorio, da approfondirsi con una

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costante azione informativa istituzionale, ma, viepiù, con un’azione coordinata tra le associazioni impegnate nel settore e gli organi dello Stato deputati a contrastare il fenomeno. Seppure si tratti di numeri ancora modesti, le denunce segnano un leggero aumento di circa il 10%, anche grazie all’azione persuasiva che proprio le associazioni impegnate nel settore svolgono nei confronti dei malcapitati caduti nella rete del racket. L’acquisizione degli elementi informativi sull’usuraio è possibile solo avvicinando le vittime alle forze di polizia, in maniera tale da impostare, grazie a una rinnovata fiducia vittima-Stato, un lavoro di indagine che, in poco tempo, riesca ad affrancare l’usurato dal criminale e consenta un’efficace aggressione del patrimonio da quello illecitamente accumulato. Per le nostre ricerche ci avvaliamo di approfonditi strumenti di indagine patrimoniale, attraverso i quali, alla stessa stregua delle analisi operative fatte nel settore dell’evasione fiscale, la Guardia di Finanza è in grado di rilevare le anomale sproporzioni tra le effettive proprietà, mobiliari e immobiliari, e il reddito dichiarato ai fini fiscali. Ancorché, infatti, sia le vecchie generazioni di usurai, o “cravattari”, tendessero a occultare i proventi dei loro illeciti introiti, non palesando stili di vita abnormi, nell’attuale scenario, disporre e non spendere equivale a una sorta di ossimoro ideologico. Lo stile di vita consumistico, indotto dalla globalizzazione, sedotto dalla moda e trasmesso dai mezzi di comunicazione, aiuta, paradossalmente, le forze dell’ordine a individuare gli autori dei crimini economici. Ai vari filtri frapposti fra i titolari e gli effettivi fruitori rispondiamo dicendo che con il tempo ogni muro viene giù. 15


In copertina • FormaMed

L’Italia al tempo della mediazione

Aumentano sensibilmente i ricorsi alle soluzioni stragiudiziali, una reazione scaturita dalla lentezza del sistema giustizia. Ma questo non basta. Anche per le Adr, ora, occorrono regole certe e condivise a livello europeo. Parlano Lorenza Morello, Adriano De Luca,Vittorio Guidotti, Alberto Mascia e Stefano Paderni

di Andrea Moscariello

resce l’impatto delle Adr sulla giustizia italiana. Le Alternative dispute resolution sono forse il più efficace antibiotico contro il virus della lentezza sistemica che attanaglia il nostro apparato giudiziario. Sono state soprattutto le imprese ad aver digerito per prime le novità introdotte dal tentativo di conciliazione e dalla mediazione obbligatori. Ma non è stato il diktat del legislatore a spingere verso l’utilizzo massiccio di questo strumento. Sono in primis i cittadini a richiedere strategie alternative alle procedure giudiziarie. Le ragioni? Basta osservare i dati: secondo un recente rapporto della Commissione Europea per l’efficienza della giustizia, in Italia occorre attendere in media 533 giorni per una sentenza civile di primo grado. E se calcoliamo che le nostre cause, rispetto alla media europea, sono circa il doppio (si stimano quasi 4800 cause ogni 100mila abitanti) il dado è tratto. Uno scenario che ha favorito la nascita di associazioni, istituti e studi di consulenza sempre più strutturati e predisposti per fornire servizi nel campo delle Adr. «I mediatori hanno una responsabilità e un peso significativi, non solo per la capacità e la competenza che mettono a disposizione, ma anche per la grande opportunità di veicolare un messaggio di straordinaria importanza: i conflitti possono essere trasformati in dinamiche

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relazionali positive e gestiti con dialogo e confronto». A parlare è Lorenza Morello, presidente dell’Associazione Avvocati per la Mediazione nonché tra i fondatori di FormaMed, affermata società capitolina che ha saputo riunire al suo interno notai, avvocati, docenti universitari, professionisti di diversa provenienza e specializzazione. Un’operazione che funge ancora oggi da apripista e che ha rappresentato un’ispirazione per molte altre realtà di advisoring italiane. Le fanno eco anche gli altri soci, gli avvocati Alberto Mascia, Stefano Paderni, il dottor Vittorio Guidotti e il presidente Adriano De Luca. La sensazione, parlando con loro, è soprattutto quella che la mediazione, in un momento di crisi e rinnovo istituzionale debba necessariamente compiere ulteriori passi in avanti. Qual è la lezione più importante che gli operatori della giustizia devono trarre da questa crisi? Lorenza Morello: «Concetti quale semplificazione, flessibilità, operatività, partecipazione dovrebbero contraddistinguere ogni progetto legato al sistema Paese e al sistema giustizia. Troppo spesso l’Italia è fuori da logiche di sviluppo e di modernità, anche per la poca importanza che viene data alle reali esigenze della collettività, alle priorità del territorio, tutti fattori che devono segnare la storia di un Paese realmente civile». C&P • GIUSTIZIA


FormaMed • In copertina

Sopra, Lorenza Morello e Alberto Mascia, tra i soci fondatori di FormaMed www.formamed.it

La mediazione rompe gli schemi, getta un potente macigno nello stagno finora governato da logiche processuali, da cavilli, da rigidità procedurali C&P • GIUSTIZIA

Su quali aspetti i cittadini che si rivolgono a voi si stanno dimostrando più sensibili? Alberto Mascia: «La crisi che stiamo vivendo, tanto economica quanto valoriale, rappresenta un banco di prova non indifferente per sondare la reale volontà di cambiamento di cittadini e imprese. Il ricorso a soluzioni di tipo stragiudiziale si fonda sulla necessità di consentire un ampliamento dei canali di accesso alla giustizia, rendere conoscibili gli strumenti operativi, quali la mediazione, in grado di dare risposte rapide ed efficaci in tempi ragionevoli. Minor tempo e minori risorse economiche da investire costituiscono due elementi in grado di agevolare la diffusione della mediazione, alla base della quale, però, occorre porre sempre un approccio culturale convinto e consapevole». In particolare le imprese quali aspettative ripongono nei confronti della mediazione? Stefano Paderni: «Le imprese si avvicinano al mondo della mediazione e, in generale, agli strumenti di definizione stragiudiziale dei conflitti, con la forte convinzione di voler migliorare i metodi di risoluzione delle dispute, scegliere il migliore degli accessi possibili alla giustizia, non delegando, ma prendendo in prima linea le decisioni sul proprio futuro». Sul fronte internazionale quale gioco ricoprono gli avvocati mediatori nell’affiancare le aziende italiane 17


In copertina • FormaMed

Da sinistra, Lorenza Morello e Alberto Mascia; il presidente di FormaMed Adriano De Luca; Stefano Paderni; Vittorio Guidotti

Lo stragiudiziale consente un ampliamento dei canali di accesso alla giustizia

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dinanzi a controversie con soggetti stranieri? Lorenza Morello: «Giocano un ruolo determinante per una crescita culturale costante del fenomeno “mediazione” e per il suo utilizzo sotto il profilo pratico. Sul fronte globale le aziende italiane vanno accompagnate ed educate al dialogo, al confronto costruttivo, alla negoziazione, per essere al passo delle più moderne ed efficienti società estere». Ma perché, allora, su più fronti sono emerse opinioni non proprio favorevoli all’aumento della mediazione? Alberto Mascia: «Il fatto è che la mediazione rompe gli schemi, getta un potente macigno nello stagno finora governato da logiche processuali, da cavilli, da rigidità procedurali. La mediazione è snella, economica, rapida, partecipata, è un momento di responsabilità nella gestione dei conflitti e di intensi scambi negoziali, in un procedimento in cui massimo è il controllo delle parti sull’iter da seguire e sul risultato da raggiungere». In passato avete denunciato alcune reticenze culturali, se non vere e proprie diffidenze, nei confronti della vostra categoria da parte di alcuni professionisti. Lo riscontra tutt’oggi oppure la vostra riconoscibilità sul mercato è mutata? Stefano Paderni: «La figura dei mediatori professionisti e lo strumento della mediazione si stanno affermando e difC&P • GIUSTIZIA


FormaMed • In copertina

fondendo con crescente consenso in vari contesti. Uno schiaffo morale verso tutti coloro che hanno espresso reticenze e diffidenze nei nostri confronti e che si ostinano a criticare, spesso e volentieri senza conoscerne le dinamiche, i vantaggi e i contenuti di una mediazione. Il sistema giustizia non ha bisogno di lotte di potere, né tantomeno di cavilli burocratici, ha bisogno di essere percepito come parte integrante di un progetto più ampio diretto a modernizzare, semplificare, migliorare l’immagine stessa che il sistema Italia ha al di fuori dei confini nazionali. La mediazione è un metodo di giustizia percorribile e alla portata di tutti, è di facile accesso e può davvero aprire la strada verso una nuova cultura del dialogo e del confronto». A tal proposito, la vostra struttura ha espresso un maggiore avvicinamento, rispetto al passato, alle posizioni dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura. Alberto Mascia: «FormaMed è una realtà sempre più radicata nel territorio. Siamo impegnati in progetti di grande importanza a livello nazionale e sovranazionale. È chiaro dunque che abbiamo a cuore la salute del sistema e questo comporta una collaborazione sinergica con tutti gli attori coinvolti». La mediazione è oggi protagonista anche nell’ambito della Pubblica amministrazione. Quale impatto economico potrebbe avere un maggior utilizzo delle C&P • GIUSTIZIA

Adr in ambito pubblico? Lorenza Morello: «Proporre la mediazione nell’ambito delle attività della Pa è una sfida che deve trasformarsi ben presto in progetti che operino per il bene della collettività. FormaMed ha predisposto, proprio per le realtà territoriali locali, piani di sviluppo della cultura della mediazione, mediante l’istituzione di uno Sportello della Mediazione presso l’ente locale, quale punto informativo in grado di sensibilizzare tutti i diretti protagonisti della vita di un’area territoriale – i cittadini, le imprese, le associazioni, gli enti stessi – alla conoscenza e utilizzo di questo strumento». L’Italia sta vivendo un momento storico e delicatissimo. Cosa vi aspettate dal nuovo Governo Monti? Vittorio Guidotti: «Al Governo chiediamo di continuare con convinzione, determinazione e costanza nel sentiero inaugurato con il decreto 28/2010, che ci ha portato a essere primi in Europa nel recepire la direttiva 2008/52/CE sulla mediazione trasfrontaliera, aprendo un tavolo di confronto costruttivo con tutti i protagonisti del sistema giustizia. La mediazione non deve essere più contestata con procedure che possono minare la ratio dell’intero progetto, che è quella di modernizzare, semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia. La mediazione fa ormai parte della quotidianità della vita di imprese, enti, persone che devono 19


In copertina • FormaMed

Il Ministero della Giustizia deve potenziare il ricorso alla mediazione in altre materie, come quelle legate alla Pubblica amministrazione

poterne cogliere le potenzialità e opportunità sotto il profilo operativo. La serietà degli organismi e la presenza di controlli capillari costituiscono ottimi alleati per dare forma e sostanza a una mediazione di qualità». A vostro giudizio cosa dovrebbe inserire in agenda il nuovo ministro della Giustizia? Lorenza Morello: «In primis la pianificazione di tavoli congiunti con gli organismi di mediazione per raccogliere idee, proposte, iniziative, suggerimenti su come migliorare il decreto ministeriale di attuazione (180/2010, già modificato dal D.M. 145/2011), i cui contenuti incidono in modo significativo sull’attività degli organismi stessi. Occorre attuare procedure per la certificazione di qualità degli organismi di mediazione, valide in un contesto nazionale ma anche comunitario e transfrontaliero». Vittorio Guidotti: «Il Ministero della Giustizia deve comunicare maggiormente con gli altri dicasteri e con le istituzioni nazionali al fine di potenziare il ricorso alla mediazione in altre materie, come quelle legate alla Pubblica amministrazione, così come in altri contesti, pensiamo ad esempio a scuole e università». Dunque chiedete la creazione di un sistema più collaborativo tra gli enti coinvolti? Adriano De Luca: «Bisogna fare sistema. Sarà utile, a nostro parere, la creazione di una rete sul modello della Fin-Net e Eej-Net, che miri a mettere in collegamento l’esperienza degli organismi nazionali e internazionali provider di mediazione, al fine di condividere le varie esperienze». 20

La giustizia tradizionale, specie in ambito internazionale, ha dimostrato le difficoltà che scaturiscono dalla discrasia di regole. Non credete possa accadere lo stesso anche sul fronte delle Adr? Stefano Paderni: «Questo è un fattore fondamentale. Dobbiamo puntare alla creazione di regole e principi unitari, sotto il profilo della formazione, all’interno dell’Ue. Bisogna passare allo studio tutti i passaggi da seguire per utilizzare il titolo di mediatore a livello comunitario. Sarà utile, in questo, anche l’elaborazione di progetti per consentire di affiancare, senza sostituirla, la formazione frontale a quella gestita tramite e-learning, anche nei corsi per mediatori professionisti. In pratica va concretizzato un “nocciolo duro” di principi da seguire nelle procedure di mediazione in ambito comunitario e trasfrontaliero, una sorta di “mediation rules”». Quali prospettive avete per il futuro di FormaMed? Adriano De Luca: «Il prossimo è un anno di grandi obiettivi. Continueremo a procedere sulla strada della formazione, che ci vede impegnati da anni nella ricerca dell’eccellenza professionale e della proposizione di una mediazione ispirata alla qualità, serietà ed efficienza. Prospettive, dunque, di ampio respiro, con progetti mirati a formare specialisti della mediazione esperti in determinati settori e con precise competenze e abilità, ma anche ad aprire sedi operative su tutto il territorio nazionale per fornire il proprio contributo allo sviluppo costante della cultura della mediazione». C&P • GIUSTIZIA



Mediazione • Il quadro italiano

Una risposta efficace alle esigenze delle imprese Dare a cittadini e imprese risposte efficaci e meno costose in tempi ragionevoli: questo l’obiettivo della recente riforma della mediazione civile. E i primi risultati non hanno tardato ad arrivare: gli italiani in sei mesi hanno risparmiato circa 80 milioni di euro di Viola Leone

onciliare conviene e gli italiani, pian piano, sembra se ne stiano accorgendo. Questo, in sintesi, il messaggio lanciato nel corso dell’VIII settimana nazionale della conciliazione delle Camere di Commercio. I primi dati sulle procedure di mediazione condotte a termine dalla rete camerale dei servizi di conciliazione tra il 21 marzo - data in cui è entrata in vigore la mediazione obbligatoria introdotta dal decreto legislativo 28 del 2010 - e il 30 settembre scorso parlano chiaro: nei 194 giorni presi in considerazione dall’osservatorio di Unioncamere sulla conciliazione le richieste di mediazione complessivamente depositate presso gli uffici camerali sono state 8.709, il 73% delle quali al 30 settembre risultava già definito. Di queste, nel 44% dei casi la controparte ha accettato di presentarsi davanti al mediatore e quattro volte su dieci la mediazione si è conclusa con un accordo ritenuto soddisfacente da entrambe le parti, con una durata media di 43 giorni lavorativi e un costo pari - sempre in media - a circa il 3,5% del valore della controversia. «Una giustizia rapida, poco costosa e al tempo stesso rispettosa dei diritti

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Il quadro italiano • Mediazione

Natura della controversia Materie obbligatorie

Ministero della Giustizia Direzione Generale di Statistica Dati aggiornati al 27/10/2011

delle parti è possibile e lo stiamo dimostrando – ha commentato il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello –. L’attività delle Camere di Commercio dimostra che la mediazione civile e commerciale è una risposta efficace che incontra le esigenze delle imprese e dei cittadini e che può alleggerire il carico di lavoro dei tribunali e, dunque, contribuire concretamente a rendere più snella ed efficace l’amministrazione della giustizia, uno degli obiettivi richiamati nella recente lettera d’intenti dell’Italia all’Unione Europea». Tra marzo e settembre le richieste di procedimenti di mediazione depositate presso gli 83 organismi istituiti dalle Camere di Commercio - iscritti all’apposito registro presso il Ministero della Giustizia - è cresciuto a un ritmo medio di quasi 1.500 richieste al mese. L’affluenza maggiore di richieste di conciliazione (il 34% del totale) si è registrata nelle Camere di Commercio del Nord-Est. Oltre un quarto hanno riguardato quelle del Nord-Ovest, più di un quinto quelle del Sud e delle Isole e solo una su 6 (il 18%) ha interessato le Camere di Commercio del Centro Italia. Entro la fine dell’anno si prevede che alle C&P • GIUSTIZIA

Camere di Commercio giungeranno circa 13.000 richieste che, sommate a quelle pervenute nei primi tre mesi, portano il totale atteso a circa 20.000 procedimenti per l’intero 2011. «Le quasi 9 mila richieste depositate presso i servizi di conciliazione delle Camere di Commercio in questi primi sei mesi della riforma rappresentano una quota di mercato pari al 26% del totale delle mediazioni – ha precisato Dardanello -. Un dato ancora più significativo considerando che gli organismi di mediazione accreditati dalle Camere di Commercio rappresentano solo il 13% dei circa 600 organismi del registro del Ministero della Giustizia. È un risultato importante, perché testimonia il ruolo di sistema di riferimento che le Camere di Commercio hanno costruito in questi anni sul territorio e perché certifica la bontà dei nostri sforzi per diffondere la cultura della giustizia alternativa, in risposta alla congestione di quella ordinaria». Ma quali sono i principali temi per i quali gli italiani si rivolgono alla mediazione? Nell’ultimo trimestre il 69% dei procedimenti ha riguardato materie per le quali il ricorso alla mediazione è obbligatorio. Analizzando la distribu23


Mediazione • Il quadro italiano

zione delle mediazioni giunte allo stadio della definizione della controversia, la categoria più gettonata dai ricorrenti è quella dei diritti reali. Quasi una controversia su sei (il 16,2%) tra quelle sottoposte ai servizi di conciliazione camerali e giunta alla definizione ha avuto a che fare con la proprietà o l’uso di beni immobili. Tutte le altre – ad eccezione della categoria dei contratti di locazione, che rappresenta il 10,2% dei casi – si collocano al di sotto della soglia del 10%, a testimonianza che la mediazione non si presta a risolvere solo poche tipologie di vertenze ma che, invece, riesce a dare risposte concrete alla domanda di giustizia di cittadini e imprese in numerosi settori. Se le risposte efficaci in tempi ragionevoli sono uno dei cardini del successo della mediazione, anche l’aspetto del risparmio economico non è da sottovalutare. Il confronto tra il costo medio di una procedura di mediazione presso le Camere di Commercio e quello di una causa davanti al giudice ordinario - stimato dalla Banca Mondiale nel suo tradizionale rapporto Doing Business - dimostra come la prima incida per circa il 3,5% del valore della controversia, mentre nel secondo caso, far valere il proprio diritto costa il 29,9% del valore della causa. In altri termini, ciò significa che in media ogni conciliazione costa quasi dieci volte di meno di una causa che finisca in tribunale. Considerando che il valore medio delle conciliazioni gestite dalle Camere 24

di Commercio tra la fine di marzo e la fine di settembre è stato pari a 73.700 euro, si può concludere che il ricorso alla conciliazione presso le Camere abbia generato un risparmio effettivo di oltre 21 milioni di euro. Applicando gli stessi parametri all’intero mercato delle mediazioni del periodo si può stimare che il risparmio realizzato a livello complessivo si avvicini agli 80 milioni di euro. Il Ministero della Giustizia ha infatti indicato in 33.808 i procedimenti iscritti dall’entrata in vigore della mediazione obbligatoria fino alla fine di settembre. Nel 75% dei casi si tratta di mediazione obbligatoria, nel 23% di mediazione volontaria, nell’1% di mediazione obbligatoria in quanto prevista da clausola contrattuale e nel restante 1% di mediazione demandata dal giudice. Il prossimo appuntamento importante è fissato per il 20 marzo 2012. Se dal 21 marzo 2011, infatti, la mediazione è obbligatoria nei casi di una controversia in materia di diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento danni da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, dal 20 marzo prossimo l’obbligatorietà verrà estesa anche alle numerosissime controversie in materia di condominio e risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti. C&P • GIUSTIZIA



Diritto di famiglia • Adriana Boscagli

Il diritto cambia insieme alla famiglia È tra gli esponenti di spicco dell’avvocatura specializzata in diritto di famiglia. Adriana Boscagli riflette sulle evoluzioni di questo delicato segmento giuridico, tanto ampio quanto complesso. E spiega come, attraverso le evoluzioni legislative, si possano mettere a fuoco i cambiamenti della società italiana di Aldo Mosca

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esta, a tutti gli effetti, uno degli ambiti più sensibili ai mutamenti sociali ed economici. Il Diritto di famiglia è cambiato negli ultimi decenni, profondamente. Così come sono cambiati i soggetti giuridici cui si rivolge. La famiglia italiana oggi è al centro di una profonda revisione: culturale, economica, istituzionale. Un’evoluzione che Adriana Boscagli ha vissuto in prima persona. Il noto avvocato romano celebra infatti trent’anni di carriera. Un anniversario importante nella disciplina dei rapporti familiari: parentela e affinità, matrimonio e relazioni personali fra i coniugi, aspetti patrimoniali nella famiglia, filiazione e adozione, disconoscimento e riconoscimento, separazioni e divorzi. Queste ultime due, in particolare, rappresentano le tematiche più delicate verso cui la giurisprudenza è chiamata a predisporre strumenti idonei, in primis per la tutela dei minori coinvolti. Il diritto cambia insieme alle famiglie. Come sta mutando il quadro di riferimento? «Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento di ruoli ed equilibri tra coniugi. Marito e moglie hanno raggiunto una parità domestica e sociale: contribuiscono entrambi al ménage economico della famiglia. Questo perché, ormai è indiscutibile, la donna lavora fuori casa e guadagna. Entrambi educano e accudiscono i figli in misura uguale, organizzano e gestiscono in modo paritario la vita di coppia. Questo bilanciamento, più recente di quanto si possa immaginare e frutto di un equilibrio che nasce e si consolida

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Diritto di famiglia • Adriana Boscagli

Il bilanciamento di ruoli tra marito e moglie, che hanno raggiunto una parità domestica e sociale, ha delle conseguenze anche in sede di separazione e divorzio

L’avvocato Adriana Boscagli coordina e dirige il lavoro del suo studio con sedi a Roma e Milano. Alcune delle sue cause di divorzio hanno dominato le cronache giornalistiche degli ultimi anni a.boscagli@boscaglilex.com

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durante la vita matrimoniale, ha delle conseguenze anche in sede di separazione e divorzio». A quali conseguenze si riferisce? «La moglie è sempre più economicamente indipendente e non chiede il contributo al mantenimento per se stessa. Il marito rivendica il proprio ruolo di padre presente e pretende delle modalità di frequentazione più assidue; padre e madre hanno pari voce in capitolo nell’educazione e nella crescita dei figli. Un’altra novità è rappresentata dall’aumento delle coppie formate da persone di nazionalità diversa. In questo caso, per la gestione dei problemi tra coniugi è necessaria una competenza in diritto internazionale privato: nel campo del diritto di famiglia, delle successioni, dei contratti commerciali». A proposito della condivisione tra coniugi, separati o divorziati, delle scelte per i figli, hanno avuto un forte impatto le leggi relative all’affido condiviso. «L’affido condiviso, introdotto con la Legge 54/2006 che tanto ci ha fatto discutere e dubitare all’inizio, è un esempio più che calzante: la condivisione delle scelte che riguardano i figli, quale regola di prassi adottata dai Giudici che decidono sulle famiglie che si rompono, è una delle conseguenze più significative, in ambito giuridico, dell’evoluzione sociale che ho appena descritto. Ma attenzione, pensare che sia stata la diffusione dell’affido condiviso a provocare la parificazione dei ruoli padre/madre nella gestione dei figli di coppie scoppiate è un grossolano errore di valutazione. Il rapporto di 27


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causa effetto è esattamente opposto». Rispetto al passato sono mutate le motivazioni di rottura del rapporto coniugale? «Non in senso stretto, perché non siamo alla presenza di un nuovo fenomeno che porta a un aumento delle separazioni, siamo invece alla presenza dell’ineludibilità della rivelazione di un fenomeno che è sempre esistito e sempre esisterà». Vale a dire? «I figli naturali, i cosiddetti “illegittimi” di un tempo, sono sempre esistiti quali conseguenza di infedeltà, tradimenti e relazioni extraconiugali. Quello che è cambiato sono gli strumenti a disposizione per rivendicare e vedere riconosciuto lo status di figlio. Fino all’anno 2000 la prova di paternità poteva essere raggiunta solo attraverso il prelievo del sangue del presunto padre, sangue che veniva poi utilizzato per l’esame del Dna. L’ostacolo era rappresentato dalla facoltà, lasciata al padre, di sottoporsi o meno al prelievo: di fronte a un suo rifiuto, per paura o disinteresse, la prova non era raggiunta e la paternità non veniva appurata a discapito di un figlio che finiva per pagare errori e leggerezze commessi da altri. Oggi, e sottolineo finalmente, l’aria è cambiata: il presunto padre ha sì il diritto di opporsi all’esame del sangue, ma tale rifiuto può essere considerato dal Giudice quale elemento sufficiente per desumere la paternità naturale». 28

La scienza, poi, oggi mette a disposizione maggiori strumenti per il riconoscimento. «Anche questo è vero. L’evoluzione scientifica degli ultimi anni ha portato a un allargamento del ventaglio di strumenti che la legge riconosce ai figli naturali nella loro ricerca della verità. Da una parte abbiamo così la prova del Dna, che può essere svolta anche su campioni non ematici, come capelli e saliva, dall’altra vi sono tecniche di esame del Dna sempre più raffinate. Queste ultime permettono di ritenere idoneo e sufficiente il Dna dei familiari del presunto padre, anche se nel frattempo questo è defunto e magari cremato. Insomma, sono ormai veramente poche le chance che un padre ha di sfuggire agli obblighi emergenti da una filiazione fuori dal matrimonio. Sono poche le probabilità di tenere nascosto, agli occhi di una moglie, un figlio frutto di una relazione extraconiugale. Da qui, la maggiore incidenza della filiazione extramatrimoniale quale motivo di separazione di coniugi». Quali sono le ricadute giuridiche di questo fenomeno? «La sopravvenienza di figli naturali comporta un ampio spettro di azioni giuridiche da intraprendere: dai procedimenti di disconoscimento e riconoscimento di paternità alle azioni su asse ereditario e successioni. Si crea un vero e proprio nuovo legame giuridico tra i due soggetti, padre e figlio, che la legge consente di regolamentare in modo capillare. Inoltre, il Legislatore ha garantito al figlio naturale tutti gli strumenti necessari per poter rivendicare i propri diritti nei confronti del nuovo padre e nei confronti di tutti i soggetti che sono legittimati a interagire giuridicamente con lui». Tutte queste novità richiedono alla categoria forense un aggiornamento disciplinare? «Esatto, un individuo che si trova coinvolto in un caso di riconoscimento di paternità e in tutto quello che precede e che ne consegue, deve affidarsi, più che mai, ad avvocati specializzati in materia. Ciò è fondamentale al fine di non vanificare l’opportunità di vedere riconosciuti i propri diritti. Un legale che abbia una conoscenza estremamente dettagliata delle azioni da svolgere e delle modalità con cui farlo può fare la differenza. Ricordiamoci che anche in questo ambito si annidano cavilli processuali e di diritto sostanziale che possono giocare un ruolo quasi fondamentale nel vanificare o comunque danneggiare l’azione intrapresa. Contemporaneamente, l’avvocato deve essere in grado di muoversi con disinvoltura nei diversi settori del diritto civile e commerciale». C&P • GIUSTIZIA


Diritto di famiglia • Adriana Boscagli

Sono ormai veramente poche le chance che un padre ha di sfuggire agli obblighi emergenti da una filiazione fuori dal matrimonio C&P • GIUSTIZIA

Può farci un esempio? «Il riconoscimento di paternità può portare alla necessità di una modifica nella distribuzione di quote societarie trasmesse con successione ereditaria, e il legale non può e non deve, nell’interesse del cliente, farsi trovare impreparato. Insomma, quello dell’avvocato che assiste una parte in una vicenda di disconoscimento e riconoscimento di paternità è un ruolo estremamente delicato, impegnativo sia da un punto di vista giuridico che squisitamente umano. Non mi stancherò mai di ripetere che la materia del diritto di famiglia, in tutte le sue sfaccettature, va ben oltre la separazione in senso stretto». Dunque qual è, per la sua professione, l’approccio più idoneo da adottare in questo ambito? «L’approccio alla materia deve presupporre un’ampia conoscenza del diritto civile, per meglio indirizzare scelte professionali, commerciali, aziendali e lavorative, scelte per acquisti o donazioni o per la gestione appropriata di un asse ereditario. Tutte conoscenze indispensabili per essere “coach” nelle crisi familiari o per la loro prevenzione. Ma, soprattutto, per le ricadute sui figli, che con i loro dolori, rancori o amarezze, cresceranno più o meno sereni e saranno adulti diversi anche in relazione a quanto e cosa hanno saputo fare gli avvocati che hanno seguito i genitori in sede di separazione». 29


Tutela dei minori • Annamaria Bernardini de Pace

Separazioni e divorzi agli avvocati Annamaria Bernardini de Pace critica la proposta, contenuta nell’ultimo rapporto Eurispes, di trasferire le competenze in questo campo ai notai: «sono materie che richiedono competenze specifiche e un’esperienza maturata sul campo» di Riccardo Casini n incremento del 61% di separazioni e del 101% di divorzi nel periodo compreso tra il 1995 e il 2008, anno nel quale le separazioni sono state 84.165 e i divorzi 54.351 (rispettivamente il 3,4% e il 7,3% in più rispetto al 2007): il rapporto Eurispes pubblicato lo scorso mese di maggio, oltre a evidenziare il boom di cause di questo tipo nel nostro Paese, ha lanciato una proposta per alleviare il carico della giustizia civile, ovvero trasferire le competenze in materia di divorzi, separazioni e volontaria giurisdizione ai notai. Una proposta che ha già trovato l’opposizione di molti avvocati, tra i quali Annamaria Bernardini de Pace, secondo cui «senza nulla voler togliere alla professionalità della categoria notarile, materie quali la separazione, il divorzio e la volontaria giurisdizione, proprio per i profili complessivamente coinvolti, richiedono competenze specifiche che sono il risultato non solo di una laurea in giurisprudenza, ma anche dell’esperienza maturata sul campo. Una riflessione, questa, che bisogna estendere anche all’interno della medesima categoria degli avvocati». Secondo Eurispes però il fatto che le separazioni con rito consensuale siano più del doppio di quelle con rito giudiziale induce a pensare che si tratta spesso di cause prive di elementi di elevata conflittualità, che potrebbero quindi essere discusse e risolte senza ricorrere al tribunale. «Non credo che un contesto di natura diversa, quale quello

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offerto dagli studi notarili, alimenterebbe una minore conflittualità rispetto al tribunale, facilitando una più rapida risoluzione delle questioni: infatti, le questioni si risolvono con il tempo, la competenza e la palestra psicologica, non con il ruolo giuridico. I notai certificano il già fatto, gli avvocati familiaristi costruiscono il da farsi». Recentemente però anche il sostituto procuratore di Milano, Francesco Greco, ha puntato il dito contro la lentezza della giustizia civile, citando il collega Piercamillo Davigo secondo cui “è più facile uccidere la moglie che venire a capo di un divorzio difficile”. Paradosso a parte, come snellire i tempi per le procedure di cause ormai sempre più frequenti? «È vero, molto spesso si arriva al termine di una causa sfiniti ed esasperati da lunghi anni di contenzioso: una tortura ingiusta, determinata dalla giustizia-lumaca. Una prima possibile soluzione del problema potrebbe essere rappresentata proprio dal cambio di approccio nelle cause da parte degli avvocati, che sovente hanno una grave responsabilità nel momento in cui assecondano i clienti in sterili battaglie, più personali che giudiziarie, invece di aiutarli a comprendere gli indubbi vantaggi di un accordo consensuale. Un’altra soluzione potrebbe essere quella, pur nell’ambito del contenzioso, di rimettere sin dall’inizio la decisione al giudice solo in merito alle questioni sulle quali le parti non sono riuscite a trovare un accordo, limitando così gli spazi

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© foto di Bob Krieger

Annamaria Bernardini de Pace • Tutela dei minori

L’avvocato Annamaria Bernardini de Pace

Spesso gli avvocati hanno una grave responsabilità nel momento in cui assecondano i clienti in sterili battaglie C&P • GIUSTIZIA

di conflittualità e i tempi di decisione. E interessante sarebbe anche l’introduzione del divorzio, in alternativa alla preliminare separazione, se i coniugi sono d’accordo». In un articolo lei ha denunciato gli eccessivi casi (ben 32mila) di figli allontanati dai genitori da parte della magistratura. Quali sono in questo senso le buone regole da seguire per un’equilibrata applicazione delle norme del diritto di famiglia? «L’intervento della pubblica autorità volto all’allontanamento del minore dalla famiglia d’origine, proprio per la sua gravità, dovrebbe essere limitato solo a quei casi di vero abbandono materiale o morale, come prescrive la legge. Ove possibile, invece, bisognerebbe perseguire fino in fondo la tutela dell’interesse del minore a non essere allontanato dalla sua famiglia e dai luoghi in cui svolge la sua abituale vita quotidiana, fornendo piuttosto alla famiglia un adeguato supporto, ad esempio un educatore. In questo meccanismo un ruolo molto importante rivestono, quali ausiliari dell’autorità giudiziaria, i servizi sociali, i cui operatori dovrebbero avere una formazione autentica, adeguata e specifica nel campo e dovrebbero applicare rigorosamente i principi di legge, tutelando il più possibile il diritto del minore a crescere nel suo contesto familiare, salvo ovviamente i casi limite». Molti avvocati matrimonialisti, tra cui lei, hanno espresso forti perplessità sul ddl 957 sull’affido condiviso, attualmente in discussione alla Commissione Giustizia del Senato. Quali sono i suoi punti critici? «Diversi sono gli elementi non condivisibili del ddl 957: tra questi, in particolare, l’introduzione del diritto “paritetico” dei genitori ad avere i figli presso di sé, con la previsione del doppio domicilio e della divisione del tempo dei figli in misura uguale presso ciascun genitore. Credo che tale soluzione potrebbe essere praticabile solo in alcuni e limitati casi e solo dopo una concreta e positiva ponderazione di almeno questi parametri: le condizioni lavorative dei genitori, soprattutto in termini di disponibilità di tempo, così come la distanza tra le loro abitazioni e l’età dei figli. In caso contrario, la previsione di un “collocamento prevalente” rimane a mio parere la scelta sempre preferibile». Per quale motivo? «Ciò che dev’essere perseguito in via prioritaria è l’interesse del minore, anche a non vedersi la vita spaccata in due. Non condivido poi assolutamente la previsione del mantenimento diretto e per capitoli di spesa da parte di ogni genitore, con l’evidente conseguenza, nota a chi è abituato a operare in questi ambiti, di aumentare in modo esponenziale la litigiosità, anche per quanto riguarda gli strumenti azionabili a tutela del rispetto degli oneri assunti, e creando enormi difficoltà organizzative in contesti familiari già di per sé conflittuali. Non ritengo nemmeno corretta l’eliminazione dalla valutazione del costo dei figli del parametro relativo al “tenore di vita della famiglia antecedente la separazione”: così si legittimerebbero strumentali meccanismi di depauperamento in vista della causa». 31


Tutela dei minori • Luisella De Cataldo Neuburger

Minori, istruzioni per l’uso L’avvocato Luisella De Cataldo Neuburger illustra le modifiche introdotte dall’ultimo aggiornamento della Carta di Noto: «La competenza dell’esperto nei campi della psicologia e psicopatologia forensi dev’essere sempre garantita e certificata» di Riccardo Casini

vvocati ma anche psicologi: la tutela dei minori richiede un’attenzione particolare da parte del sistema forense. A livello deontologico, uno dei documenti fondamentali in questo senso in Italia è costituito dalla Carta di Noto, elaborata nel 1996 e rivista una prima volta nel 2002. All’ultimo aggiornamento, lo scorso mese di giugno, ha contribuito anche l’avvocato Luisella De Cataldo Neuburger: un aggiornamento, dice oggi, «imposto dalla necessità di adeguare il contenuto del documento a importanti mutamenti che nel frattempo si sono verificati, dai progressi delle neuroscienze nello studio del cervello e dei processi cognitivi, percettivi e mnestici nel campo della psicologia evolutiva che hanno interessato il mondo giovanile alle modifiche di modelli sociali, culturali ed economici, soprattutto in relazione alla massiccia presenza di nuovi strumenti tecnologici e di comunicazione». Le attuali difficoltà economiche pesano infatti anche sull’ambiente familiare, divenuto «teso, nervoso, litigioso: un ambiente dal quale i bambini cercano di allontanarsi perché sentono che non c’è posto per loro. La soluzione è quella di isolarsi, di allontanarsi dalla conflittualità». E qui intervengono le nuove tecnologie: secondo l’Indagine conoscitiva sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia stilata da Eurispes nel 2010, molti bambini (46%) cercano rifugio nel computer, «finendo per sapere più cose di quelle che possono capire».

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A questo proposito un altro punto critico riguarda la capacità dei minori di testimoniare, anche nelle cause di separazione e divorzio conflittuale: se infatti secondo l’articolo 196 del codice di procedura penale «ogni persona» ha questa capacità, diverse sono ancora le avvertenze da tenere in considerazione. Nel caso del minore «la valutazione – spiega De Cataldo – deve riguardare l’idoneità psichica del soggetto a rendere testimonianza. L’accertamento deve riguardare le specifiche caratteristiche dello stadio di sviluppo del soggetto, la complessità degli eventi che è chiamato a raccontare, le inferenze che implicitamente deve effettuare e le sollecitazioni o manipolazioni che possono aver costruito o ricostruito il suo ricordo. Ognuna di queste competenze è connessa non solo a fattori neuropsicologici e cognitivi, ma anche a fattori sociali e relazionali: in questa prospettiva, essendo il processo della suggestione legato a vari fattori di rischio interni o esterni al soggetto, potrà essere utile indagare ed esplorare i diversi contesti comunicativi nei quali il soggetto ha avuto modo di riferire e rivisitare la propria esperienza». In particolare «il contesto familiare richiede un’approfondita esplorazione», «proprio al fine di escludere l’eventualità del ricorso da parte del genitore, nel contesto giudiziario, ad accuse false finalizzate a favorire una decisione favorevole», soprattutto «considerato che il minore è un soggetto facilmente suggestionabile». Infatti, «l’ascolto di una conversazione tra adulti, una notizia della televisione, le

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Luisella De Cataldo Neuburger • Tutela dei minori

chat sui computer, il bisogno di protagonismo, una domanda mal posta dai genitori, una confidenza tra bambini o l’esposizione alle dicerie possono portare i bambini a fare affermazioni su eventi che non hanno mai esperito. Una volta indotto il comportamento di accettazione, le narrazioni si impiantano stabilmente come ricordi nella mente del bambino. E più la narrazione è ripetuta, più stabile diventa il ricordo indotto». Per questo è importante «la scelta delle modalità con cui viene ascoltato, che dipende dalla competenza e dall’aggiornamento dell’esperto», visto anche «che non esistono a oggi strumenti o costrutti psicologici che consentano di discriminare un racconto veritiero da uno non veritiero». Ma allora, in sintesi, la legislazione italiana è in grado oggi di tutelare adeguatamente i minori? Secondo De Cataldo «la normativa vigente in tema di attività di indagini preliminari e incidente probatorio è sostanzialmente inadeguata a garantire l'equilibrio fra il rispetto della personalità in evoluzione del minore e l'osservanza delle garanzie del giusto processo, di solito riservata, tra l’altro in forma ridotta, solo alle fasi giudiziali avanzate. Questo dato si riflette sulla eccessiva libertà d’azione concessa agli organi inquirenti nello svolgimento delle indagini preliminari che vanifica buona parte degli sforzi profusi dal legislatore e rende prive di efficacia le misure da esso introdotte». Non basta: «un altro punto critico è quello della competenza professionale delle figure che vengono a

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contatto con il bambino e che richiederebbero specifiche e controllabili competenze, requisito generale e uguale per tutti i possibili ruoli che l’esperto venga chiamato a ricoprire. Poco importa infatti la fase in cui in cui è nominato, o che sia ausiliario, consulente o perito: sempre e comunque l’esito finale dipenderà dalla sua specifica competenza che deve essere documentata, non solo per i casi di consulenza o perizia». I protocolli che regolano questa materia però «sono molti»: «Le linee guida per l’acquisizione della prova scientifica nel processo penale, di recente elaborate nel convegno tenuto presso l’Isisc di Siracusa, richiedono che la competenza dell'esperto nei campi della psicologia e psicopatologia forensi debba essere sempre garantita e certificata. Il punto 1 della Carta di Noto aggiornata precisa le metodologie, gli strumenti e le pratiche che garantiscono l’aggiornamento professionale e la competenza dell’esperto. Di particolare interesse il richiamo contenuto nel punto 2: “è diritto delle parti processuali, in occasione del conferimento di ogni incarico peritale, interloquire sull’effettiva competenza dell’esperto e sul contenuto dei quesiti”». Questo anche perché «il professionista che opera e interviene nel contesto giudiziario non può lavorare con gli stessi criteri e modalità d’impostazione dei problemi caratteristici del contesto clinico: il ruolo dell’esperto – conclude De Cataldo – richiede una serie di competenze che differiscono da quelle della maggior parte degli altri contesti in cui lo psicologo solitamente opera».

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Tutela dei minori • Milena Pini

Una riforma necessaria Procedimenti più snelli e uno svecchiamento del codice. Sono le proposte di Milena Pini, presidente dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori. E sulla mediazione: «Un’importante occasione per le parti in conflitto» di Michela Evangelisti

l diritto di famiglia è per definizione un diritto vivente, mentre da tempo la nostra legislazione non rispecchia più le esigenze delle persone». Milena Pini, presidente dell’Aiaf, Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori, invoca una seria riforma. Se, infatti, dal 1975 il codice di diritto di famiglia è rimasto pressoché immutato, i rapporti tra le persone sono profondamente cambiati, così come è mutata la sensibilità verso numerose questioni che riguardano la vita di coppia, la scelta del regime patrimoniale, le scelte di vita e di cura, le terapie al termine della vita. «Gli italiani vanno in Francia per le pratiche di inseminazione eterologa, vanno in Svizzera a morire, vanno in Romania a divorziare, vanno in Olanda a contrarre nozze omosessuali – esemplifica l’avvocato Pini –. Sono ormai un popolo in fuga e il nostro Parlamento dovrebbe riflettere seriamente su quanto sta avvenendo». Quali le priorità da seguire in una riforma del diritto di famiglia? «Occorrerebbe prevedere un unico status di figlio, eliminando ogni differenza tra i figli nati da persone coniugate o meno; riformare la legge sul divorzio, consentendo la possibilità di ottenerne la pronuncia, in determinati casi, senza dover previamente promuovere il giudizio di separazione personale, e prevedere comunque tempi più brevi

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per la domanda di divorzio rispetto a quelli attuali; modificare la normativa in materia di scioglimento della comunione legale, così che decorra dalla data del provvedimento del presidente che autorizza i coniugi a vivere separati; dare piena applicazione alla legge 149 del 2001, consentendo l’effettiva nomina dell’avvocato del minore nei procedimenti di adottabilità e di decadenza o sospensione della potestà genitoriale; riconoscere la possibilità per i coniugi di redigere accordi prematrimoniali e per le coppie conviventi di stipulare “patti” cui attribuire efficacia giuridica e, infine, riconoscere pienamente la volontà delle persone in relazione alle terapie e alle disposizioni di fine vita». Per quanto riguarda, invece, il profilo processuale e della giurisdizione? «È certamente necessaria una riforma del procedimento, che lo renda più snello e consenta tempi più celeri. Quanto alla giurisdizione, occorre istituire un giudice specializzato, che sia competente per le materie che riguardano la separazione, il divorzio, le modifiche delle condizioni, lo scioglimento della comunione legale, la capacità delle persone, la tutela dei minori, e assorba le competenze attuali del giudice tutelare e del tribunale per i minorenni, cui vanno lasciate le sole competenze che riguardano la decadenza della potestà genitoriale, l’adottabilità dei minori e l’adozione». C&P • GIUSTIZIA


Milena Pini • Tutela dei minori

La negoziazione e la mediazione stanno progressivamente prendendo piede come strade per la definizione dei conflitti in ambito familiare. Con quali risultati? «La consensualizzazione del conflitto è una tendenza in continua crescita: secondo le più recenti rilevazioni Istat, nel 2009 si sono concluse consensualmente l’85,6% delle separazioni e il 72,1% dei divorzi. Questi dati confermano l’esigenza delle persone di trovare una soluzione conciliativa del conflitto di coppia e familiare, ed evidenziano anche l’intervento di negoziazione degli avvocati finalizzato alla ricerca dell’accordo tra le parti. La mediazione, e in particolare la mediazione familiare, è senza dubbio un’importante occasione per le parti in conflitto per trasformare le loro relazioni; aiuta i genitori, nella separazione legale o di fatto e nel divorzio, a ritrovare reciproca fiducia, capacità di comprensione e riconoscimento del ruolo genitoriale dell’altro. Tuttavia la mediazione familiare è ancora poco utilizzata». Come mai? «Secondo i principi che la disciplinano, la mediazione non può essere resa obbligatoria e deve restare una libera scelta. Non può quindi essere imposta dal giudice o prevista per legge come condizione preliminare alla proposizione del giudizio. Semmai è necessario che gli avvocati svolgano un intervento di informazione e di sollecitazione verso le parti rispetto a questa opportunità». Come sta cambiando, di conseguenza, il ruolo dell’avvocato di famiglia e quali nuove sfaccettature sta assumendo? «L’avvocatura sinora non ha pienamente compreso la potenzialità dello strumento della mediazione, in ambito civile e familiare, che non solo risponde a un’indubbia esigenza delle persone di privilegiare il percorso della soluzione del conflitto in sede stragiudiziale e in tempi brevi rispetto a un procedimento contenzioso, ma offre anche un potenziale ampliamento dell’attività e delle competenze dell’avvocato. In particolare l’avvocatura teme che l’introduzione della mediazione comporti lo smantellamento del sistema giudiziario e dello stato di diritto, con la conseguente sminuizione del diritto di difesa. È una preoccupazione a mio parere eccessiva, e comunque non si può non tenere conto del nuovo contesto determinato dalle avvenute trasformazioni sociali, culturali ed economiche. Fermo restando che l’attività dei privati nella gestione dei propri interessi non può andare completamente esente dal controllo sulla rispondenza alla legge dell’accordo raggiunto. In questo nuovo contesto, il ruolo di tu-

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La conflittualità tra i genitori non si risolve con la divisione a metà del tempo dei figli o con la sostituzione dell’assegno periodico con il mantenimento diretto

In apertura, Milena Pini, presidente dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e i minori

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Tutela dei minori • Milena Pini

tela e difesa dei diritti delle persone dell’avvocato non solo trova spazio, ma anche nuovi ambiti ove esplicitarsi». L’associazione ha espresso preoccupazione nei confronti dei Ddl 957 e 2454 sull’affido condiviso di minori in caso di separazione. Quali sono gli aspetti che vi lasciano più perplessi? «L’affidamento dei figli nella separazione, legale o di fatto, e nel divorzio deve avere come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale dei figli. I dati socio-economici evidenziano che la separazione è un costo e comporta spesso una riduzione dei redditi e del tenore di vita per entrambe le parti, ma è pur vero che nel nostro Paese la parità effettiva tra donna e uomo è ancora ostacolata da fattori di natura economica e sociale che spesso condizionano lo sviluppo della famiglia e causano la crisi del rapporto di coppia. L’affidamento dei figli è dunque una questione assai delicata, che deve tenere conto di tutti questi fattori e un’eventuale modifica della legge 54 del 2006 non può essere fondata sull’esaltazione mediatica di singoli casi. Di certo la conflittualità tra i genitori non si risolve con proposte quali la divisione a metà del tempo dei figli con ciascun genitore o con la sostituzione dell’assegno periodico con il mantenimento diretto».

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I dati confermano l’esigenza delle persone di trovare una soluzione conciliativa del conflitto di coppia e familiare

Come favorire allora una migliore applicazione del principio di bigenitorialità? «Servono un più efficace intervento culturale sulle responsabilità familiari e genitoriali e un concreto sostegno alle famiglie, interventi di tipo psicologico e relazionale a sostegno della genitorialità, soprattutto nei casi di conflittualità tra i genitori, e una fattiva politica di ampliamento dei servizi sul territorio».

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Francesco Alberoni • Tutela dei minori

Nuovi modelli di famiglia Coppie sposate, conviventi o “amorose”. «L’insieme delle istituzioni che regolano i rapporti sessuali e coniugali – dice Francesco Alberoni – dovrà subire nei prossimi decenni una radicale trasformazione» di Michela Evangelisti

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ggi si studia moltissimo il divorzio; stranamente ci si sofferma molto meno sulla nascita della famiglia: qual è la sua base?». È questa la domanda che incuriosisce il sociologo Francesco Alberoni. La storia è nota: un tempo il matrimonio era un contratto tra due famiglie, poi, a partire dall’Ottocento, il costituirsi della coppia coniugale è andato sempre più basandosi sull’innamoramento tra due persone e la sua durata si è legata alla durata del sentimento. «Finché si viveva mediamente 40 anni era naturale avere un amore e un corredo per tutta la vita – spiega Alberoni –. Ora la formula “finché morte non ci separi” pronunciata da un ventenne è quasi uno spergiuro. La sua vita sarà lunga e, nel 99% dei casi, cesserà di amare quell’uomo o quella donna». Il matrimonio è dunque, secondo Alberoni, un rituale obsoleto e il divorzio diventa «la conseguenza logica di un’unione fondata su una cosa abbastanza labile come l’amore». Nella fine di un matrimonio sono spesso coinvolti anche figli piccoli. Il loro modo di reagire sta cambiando? «Per i figli la separazione dei genitori è totalmente incomprensibile. È come se in una città improvvisamente si creasse una spaccatura nel terreno e non si potesse più passare da una parte all’altra. Certo essere figli di divorziati non è più un trauma come un tempo, i bambini non si sentono più mostri in una società diversa, ma ciò non toglie che siano molto provati. Sta nell’abilità dei genitori far sì che il loro conflitto non venga trasferito ai figli e non usare i bambini per ricattarsi a vicenda». Quale ruolo ha oggi la famiglia? Si può dire che sia ancora alla base del nostro tessuto sociale? «Sì lo è ancora, per un motivo semplice: non c’è altro. La famiglia rimane comunque l’unico luogo di rapporti forti. Anche i single hanno pur sempre un padre e una madre, e qualche volta dei fratelli, ai quali si rivolgono nel momento del bisogno. Si parla tanto dell’amicizia, ma è raro che un amico venga a casa tua ad assisterti quando sei malato: è più facile che lo faccia un ex marito! Non è detto, infatti, che la rottura del matrimonio spezzi tutti i legami e i doveri». Quali sono i nuovi modelli di famiglia che si stanno affermando? «Il più importante è il single; che magari ha degli amori anche lunghi, ma non tenta né la convivenza né di avere figli. Poi ci sono famiglie con alle spalle uno o due divorzi, con figli di diversi mariti o mogli, in cui o ci si divide o con grande buon senso si fa in modo che il mondo dei bambini non sia conflittuale. La convivenza tra poco diventerà un terzo tipo di matrimonio, perché c’è la tendenza, da parte di chi convive, a chiedere forme di riconoscimento legale. Ma accanto alle coppie sposate e a quelle conviventi sono in aumento le coppie “amorose”, che non danno luogo a una famiglia ma funzionano come tali nel bisogno. La coppia amorosa non vuole riconoscimenti formali, perché considera la mancanza d’obbligo come la base dell’amore».

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Tutela dei minori • Manuela Tirini e Claudia Grassi

Sottrazioni internazionali di minori Un problema che negli ultimi dieci anni ha assunto una crescente rilevanza. Quali sono gli strumenti ad oggi in mano al genitore vittima della sottrazione? Abbiamo approfondito la questione con gli avvocati Manuela Tirini e Claudia Grassi del Foro di Bologna

L’avvocato Claudia Grassi e l’avvocato Manuela Tirini dello Studio legale Tirini Grassi di Bologna fanno parte di numerose importanti associazioni, nazionali e internazionali specializzate nel diritto di famiglia e minorile nazionale ed internazionale www.tirinigrassi.it

di Nicoletta Bucciarelli

on il termine «sottrazione internazionale di minore» si intende l’atto con cui un genitore decide volontariamente, senza il consenso dell’altro, di sottrargli il figlio con l’intenzione di trattenerlo presso di sé in un altro Paese in modo permanente. È questa una delle materie su cui si è specializzato lo studio Tirini Grassi con sede a Bologna. «Fin dal 1995 ci occupiamo prevalentemente di diritto di famiglia e minorile, diritto delle persone e diritto internazionale privato, in attività contenziosa e stragiudiziale di ambito nazionale, comunitario e internazionale», spiega l’avvocato Claudia Grassi. Lo Studio fornisce assistenza legale alla famiglia, in ogni suo aspetto, dal rapporto con i minori, alle pratiche di separazione e divorzio, fino alle questioni prettamente patrimoniali, avvalendosi della collaborazione di professionisti qualificati. «Negli anni» approfondisce la questione l’avvocato Manuela Tirini, «lo studio ha maturato una competenza di rilevanza primaria e internazionale, anche in materie complesse e inconsuete, concernenti coniugi di diversa cittadinanza e regime giuridico di unioni miste». Lo studio ha seguito, raggiungendo ottimi risultati, numerosi casi di sottrazione internazionale di minori (child abduction). «Abbiamo risolto casi di sottrazione internazionale di minore, giunti più volte all’attenzione della cronaca», prosegue l’avvocato Manuela Tirini, «riportando il bambino in patria da innumerevoli Paesi, come Brasile, Colombia, USA, Repubblica Ceca, Svizzera, Francia, Ger-

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mania, Ungheria, Estonia, Spagna, Croazia, Slovacchia, Romania, Slovenia, Perù, Svezia e Austria; ciò attraverso l’applicazione delle Convenzioni Internazionali e Regolamenti Comunitari e talvolta anche grazie a trattative diplomatiche, come per Russia e Siria, spesso collaborando con l’Interpol e avvalendoci di un prestigioso network di avvocati stranieri di chiara fama anch’essi specializzati in diritto di famiglia internazionale. Sono stati molti i casi portati innanzi alla Suprema Corte di Cassazione, rispetto ai quali l’attività del nostro studio ha contribuito ad innovare o integrare la Giurisprudenza Nazionale di riferimento». Nei casi in cui un genitore si trovi colpito dalla sottrazione internazionale del minore gli strumenti nelle sue mani sono da sfruttare nel più breve tempo possibile. «A livello internazionale» conclude l’avvocato Claudia Grassi, «esistono diversi strumenti giuridici. Il principale tra questi è la Convenzione de L’Aja 1980 ratificata ad oggi da circa 80 paesi. Questa Convenzione prevede l’istituzione in ciascun Paese aderente di Autorità Centrali volte a realizzare un efficiente canale di cooperazione amministrativa e giudiziaria tra gli Stati. Altro strumento molto efficace, applicato però solo nell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca), è il Regolamento CE n. 2201/2003. Il trascorrere del tempo costituisce evidentemente il maggior ostacolo nell’interesse del minore sottratto. Più trascorre il tempo e più il minore è probabile che si adatti alla nuova dimensione propostagli dal “genitore-rapitore”». C&P • GIUSTIZIA



Diritto di famiglia • Giuseppe Pascali

Gestire la separazione consensuale L’instabilità economica degli ultimi anni ha contribuito ad aumentare i conflitti familiari. Giuseppe Pascali parla del ruolo che l’avvocato assume nelle crisi familiari in presenza di una separazione consensuale di Nicoletta Bucciarelli

L’avvocato Giuseppe Pascali esercita la professione forense a Milano studiolegalepascali@tin.it

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uando si instaura un conflitto familiare vengono coinvolte una quantità e una qualità di emozioni che, generalmente, non troviamo nelle altre situazioni conflittuali». È in questo scenario che si trova ad operare l’avvocato matrimonialista, come sottolinea Giuseppe Pascali. In una considerazione globale del conflitto familiare, primaria importanza la assumono soprattutto i figli minori. A seguito infatti dell’entrata in vigore della legge 54 del 08.02.2006, tutti coloro che sono chiamati ad intervenire nel conflitto familiare devono tener presente questa priorità. E il miglior modo per portarla avanti e realizzare l’affidamento condiviso è l’accordo tra i coniugi. Nella separazione consensuale i coniugi devono aver raggiunto un accordo sulle condizioni e sulle modalità della separazione. Quali sono le difficoltà che l’avvocato deve affrontare per arrivare a questo risultato? «Nella separazione consensuale molte delle condizioni vengono lasciate alla libera contrattazione delle parti. Solo per quanto attiene l’affidamento e il mantenimento della prole il Giudice ha il potere di verificare che non sussista contrasto con l’interesse dei figli stessi. Per quanto invece attiene il resto i coniugi, rimanendo nella legalità, possono prevedere concordemente tutte le condizioni che vogliono. Tuttavia pur avendo quest’ampia autonomia, l’idilliaco e pacifico accordo su tutto spesso rimane solo un sogno, inutile negarlo. Quando questo si verifica e si hanno serie difficoltà a trovare un accordo, prima di rinunciare alla separazione consensuale i coniugi separandi possono ricorrere preventivamente ad un consultorio familiare o al parere del legale di fiducia, persona non coinvolta emotivamente e capace di valutare la questione dal punto di vista legale e dell’equità». La separazione consensuale è possibile solo e soltanto se i coniugi raggiungono un accordo in ogni aspetto (diritti patrimoniali, mantenimento del coniuge debole, diritti di visita e mantenimento della prole, assegnazione della casa coniugale). Come può intervenire l’avvocato se in uno di questi aspetti non viene raggiunto un accordo? «I coniugi separandi consensualmente, proprio perché godono in questa fase di massima autonomia devono loro stessi trovare l’accordo sulle “condizioni” della separazione e pertanto nelle

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Diritto di famiglia • Giuseppe Pascali

In Europa gli unici Paesi a prevedere ancora la fase della separazione sono, oltre all’Italia, la Polonia, l’Irlanda del Nord e Malta. In Portogallo addirittura è possibile divorziare online

ipotesi di disaccordo, la cosa migliore è quella di mettersi intorno ad un tavolo con l’ausilio dei rispettivi legali (o del singolo legale che può benissimo rappresentare entrambi i coniugi separandi nella fase consensuale) e ragionare insieme per trovare una soluzione alla condizione controversa». In molti paesi europei i divorzi possono essere effettuati in maniera molto celere. In Italia, anche in assenza di figli ed eredi, in caso di separazione consensuale e nessun bene condiviso occorre seguire un iter interminabile. Perché? «In Italia il procedimento che conduce allo scioglimento di un matrimonio avviene in due fasi e prevede prima la separazione e solo successivamente il divorzio, con un tempo di attesa minimo tra i due provvedimenti inizialmente fissato a 5 anni e a partire dal 1987 ridotto a 3. Molti paesi europei come la Francia, la Germania e l’Inghilterra pur configurando la separazione legale possono richiedere il divorzio a prescindere dalla separazione legale. Nel nostro ordinamento invece, rispetto a tutti gli altri ordinamenti europei, la separazione è l’unico presupposto che legittima la richiesta di divorzio. In Europa gli unici Paesi a prevedere ancora la fase della separazione sono oltre all’Italia, la Polonia, l’Irlanda del Nord e Malta. In Portogallo addirittura è possibile divorziare online collegandosi a un sito specifico e in 20 minuti, senza pagare nulla, di comune accordo si può mettere fine al matrimonio senza figli né comunione di beni. Tali procedure all’estero sono garantite dalle norme europee che consentono di divorziare leC&P • GIUSTIZIA

galmente in tutti i 27 Paesi dell’Unione Europea, in quanto ogni sentenza di divorzio pronunciata da parte di un Tribunale di qualunque paese dell’Unione Europea sarà perfettamente efficace anche in Italia, a patto che la coppia sia stabilmente residente in quel Paese. Quindi aspettiamo fiduciosi a che il nostro legislatore possa intervenire per far sì che anche in Italia i coniugi separandi non debbano attendere un tempo così lungo per una dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio e senza, purtroppo, ricorrere come sovente accade a procedure estere». Nella separazione in cui sia presente la prole il padre spesso lamenta una discriminazione nei suoi confronti. Ha ragione? «Con l’introduzione nel 2006 in materia di separazione e divorzio dell’affido condiviso in linea generale il legislatore ha inteso garantire un’equa ripartizione di responsabilità dei genitori e il proseguimento degli affetti verso i figli garantendo così il principio della bigenitorialità nel rispetto della figura dei figli medesimi. Tuttavia nella realtà e soprattutto a causa della perdurante conflittualità dei genitori separati la figura paterna lamenta spesso un ruolo discriminato, ma ritengo dovuto a risvolti personali e il più delle volte vittimistici. In queste situazioni è importante la figura del legale il quale, per il ruolo equidistante rivestito, tenderà ad apportare e far riconoscere, facendo leva anche sul principio del “buon senso”, equilibrio al rapporto». 41


Diritto di famiglia • Lorenza Cracco

Novità nei conflitti familiari I nuovi modelli nell’ambito del diritto civile, e in particolare del diritto di famiglia, sono la procedura partecipativa di negoziazione e il diritto collaborativo. Ne parla l’avvocato Lorenza Cracco

L’avvocato Lorenza Cracco esercita la professione a Padova info@studiolegalecracco.it

di Amedeo Longhi

lcune novità hanno modificato l’insieme di procedure che disciplina il diritto di famiglia, rivoluzionando non solo la prassi, ma anche l’approccio alle modalità di risoluzione delle controversie. «La procedura partecipativa – spiega l’avvocato Lorenza Cracco – riconosce alle parti un potere di autoregolamentazione dei loro rapporti che porta alla stesura dell’accordo con l’assistenza dei rispettivi avvocati, cui viene riconosciuto il potere di autenticazione delle firme e la verifica della conformità dell’accordo alle norme di legge». Nell’ottica di una giustizia efficiente, il ruolo collaborativo dell’avvocato può portare ai cittadini benefici in termini di riduzione delle spese giudiziali e dei tempi processuali. Il diritto collaborativo rappresenta invece un nuovo modo di separarsi e di risolvere le controversie familiari. «Tale pratica è tesa a salvaguardare il mantenimento di buone relazioni fra i componenti del nucleo familiare anche dopo la separazione, raggiungendo accordi soddisfacenti per entrambe le parti». Presupposti teorici e modalità tecnica della collaborative practice sono innovativi rispetto al tradizionale modo di concepire una separazione: «Il primo presupposto teorico della CP è che una separazione o un divorzio non si possono affrontare solo dal punto di vista legale, poiché presentano anche aspetti di natura finanziaria, psicologica, relazionale e di riorganizzazione della propria vita. Il soggetto deve rimanere protagonista e non delegare all’autorità giudiziaria e/o agli avvocati; per fare ciò, deve essere messo nella condizione di effettuare le scelte migliori anche in un momento di fragilità come quello

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della separazione. Viene rifiutata la logica della contrapposizione, poiché entrambe le parti devono sentirsi soddisfatte del risultato raggiunto». Partendo da questi presupposti è stata studiata una tecnica fondata sul lavoro di squadra, che è composta dalle due parti, dai rispettivi avvocati ed eventualmente anche da altri professionisti, come il commercialista, lo specialista dei bambini o l’esperto in relazioni familiari. «Nell’ambito di questo lavoro di squadra – sottolinea l’avvocato Cracco – sono essenziali rispetto reciproco, sintonia d’intenti e di modalità di azione, riconoscimento reciproco dell’importanza delle competenze altrui e osservanza di un determinato comportamento e di una certa tecnica di negoziazione. I professionisti coinvolti ricevono un incarico limitato al raggiungimento dell’accordo e nessuno di loro potrà prestare la propria attività professionale nell’eventuale susseguente giudizio contenzioso fra le parti. Questo aspetto è il punto di forza della CP e il rispetto di questa condizione è essenziale». Il diritto collaborativo si fonda sulla soddisfazione degli interessi di entrambi i clienti, le negoziazioni non vengono condotte sulla base delle loro posizioni, ma in termini di interesse. Quest’obbligo si inserisce nell’ottica di aiutare il nucleo familiare a ricostruirsi su basi durevoli anche dopo la separazione. «Il cambiamento di paradigma – conclude l’avvocato Cracco – si può riassumere nei seguenti passaggi: dal contraddittorio al dialogo, dall’approccio basato sui diritti a quello basato sulla soluzione dei problemi, dalla logica vincitore/vinto alla logica vincitore/vincitore». C&P • GIUSTIZIA



Disagio giovanile • Maria Teresa Spagnoletti

L’universo in trasformazione della criminalità minorile Per Maria Teresa Spagnoletti, giudice del Tribunale per i minorenni di Roma, sono in aumento i reati commessi per mano di ragazzi “normali”: agiscono contro la persona, si muovono in branco e senza apparente motivo. «La colpa? L’assenza di adulti in grado di far vivere la legalità» di Paola Maruzzi

sentire i media si ha la sensazione che la criminalità minorile stia assumendo risvolti preoccupanti. Sempre più la cronaca dipinge gli adolescenti italiani come protagonisti di reati pesanti: stupri, omicidi e violenze di gruppo. A soppesare diversamente il fenomeno interviene Maria Teresa Spagnoletti, da trent’anni giudice del Tribunale per i minorenni di Roma e oggi presidente del Dibattimento e magistrato di sorveglianza. «Se c’è stato un exploit di casi penali? Non mi risulta. Sulla base della mia lunga esperienza posso dire che la devianza minorile non ha subito grosse variazioni da un punto di vista numerico». Dentro questa sostanziale stabilità va però annotato un cambiamento significativo. «Sono aumentati i reati commessi da minorenni appartenenti a famiglie cosiddette “normali” – prosegue il magistrato – e senza apparenti problemi di disagio economico o di emarginazione sociale». Si delinea, quindi, una biforcazione nel profilo del “teppista” di oggi: «Mentre i ragazzi devianti tipici, cioè provenienti da realtà di per sé problematiche, nella grande maggioranza degli episodi continuano a commettere reati contro il patrimonio, i nuovi imputati spesso sono coinvolti in reati contro la persona, quali le violenze sessuali di gruppo e le lesioni anche gravi. Inoltre agiscono spesso in “branco” e apparentemente senza motivazioni particolari». Alla domanda sul perché la criminalità minorile stia irrompendo anche nella cosiddetta società perbene, Maria Teresa Spagnoletti risponde secca: «È colpa della

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logica del tutto e subito, l’assenza di adulti in grado di vivere in prima persona e di conseguenza di far vivere la legalità come essenziale per una corretta convivenza civile e, infine, la sensazione che il gruppo nasconda le responsabilità personali. Per affrontare una tale situazione è richiesto un forte impegno da parte di tutti. Certo, il giudice deve e può intervenire rispetto al caso concreto, ma l’intera società deve interrogarsi su come aiutare i nostri giovani ad adottare comportamenti adeguati e rispettosi». Stringendo sulla casistica del Tribunale di Roma, Spagnoletti fa notare come un altro fenomeno in aumento riguardi i ragazzi con problematiche di natura psicologica e psichiatrica. Di fronte a questi episodi, la difficoltà è di natura diversa e chiama in causa la risposta del sistema giudiziario. «Non sempre, infatti, gli strumenti a disposizione del giudice minorile appaiono soddisfacenti vista la carenza di adeguate strutture e di risorse economiche in grado di rispondere a delle esigenze specifiche». Nonostante i contorni della criminalità minorile siano mutevoli, rimane ferma la centralità dei tribunali, strategici nell’abbassare l’indice di recidività. «Questo è l’obiettivo primario del giudice, il cui compito è dare una risposta che non sottovaluti il comportamento posto in essere, che sia responsabilizzante, che recuperi l’equilibrio che il reato ha rotto ma che, al tempo stesso – avverte il magistrato – non isoli il ragazzo dal contesto sociale, dove in ogni caso è chiamato a vivere, rifuggendo da risposte “buoniste” e da soluC&P • GIUSTIZIA


Disagio giovanile • Maria Teresa Spagnoletti

L’intera società deve interrogarsi su come aiutare i nostri giovani ad adottare comportamenti adeguati e rispettosi

C&P • GIUSTIZIA

zioni meramente repressive». Si tratta, quindi, di spingere verso un processo a «forte valenza educativa, cercando di instaurare una relazione significativa con il minore imputato e di individuare un percorso giusto, che coinvolga anzitutto la famiglia e, laddove possibile, che metta in campo tutte le risorse disponibili». Per il magistrato, l’istituto che meglio risulta rispondere a questa strategia è quello della «sospensione del processo e messa alla prova attraverso un progetto che veda il ragazzo protagonista in positivo di impegni di studio e di lavoro, di attività socialmente utili in favore dei più deboli, di percorsi di responsabilizzazione con il sostegno degli operatori dei Servizi sociali ed eventualmente di quelli specialistici». Quella dell’integrazione è una logica che va perseguita anche all’interno degli Istituti penali minorili. «Personalmente non li ho mai demonizzati, convinta che in alcuni casi siano un passaggio necessario per “fermare” il ragazzo e avviare quel processo di responsabilizzazione che, come ho detto, è obiettivo primario del processo minorile. Bisogna però sottolineare con forza che deve trattarsi di una fase e non della risposta definitiva ed esclusiva». La permanenza nelle carceri deve, in conclusione, poter consentire l’avvio di progetti individualizzati che riescano «a offrire al ragazzo alternative esterne nel corso delle misure cautelari e della esecuzione della pena, per garantire al contempo un’effettiva tutela della collettività e una reale opportunità di positivo reinserimento». 45


Disagio giovanile • Gino Rigoldi

Rimettersi in gioco Otto ragazzi disagiati a lezione di business da alcuni imprenditori milanesi con l’obiettivo di ripartire da sé, dai propri sogni e dall’autonomia economica: è l’ultimo progetto di recupero di Comunità Nuova, un’organizzazione presieduta da don Gino Rigoldi di Paola Maruzzi

lasse 1939, da oltre trent’anni don Gino Rigoldi continua a operare nell’ambito del disagio giovanile sia come cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria sia come presidente di Comunità Nuova, la onlus che si occupa di recuperare dalla strada adolescenti problematici. Le periferie milanesi - Quarto Oggiaro, Corvetto, Quinto Romano, Baggio, Ponte Lambro, Cimiano e Giambellino - sono il suo campo d’azione. «A Milano sono nato e cresciuto, conosco mezza città» spiega don Gino mettendo l’accento sull’importanza di avere una vasta rete di relazioni perché, una volta fatto il grosso del percorso di recupero, il momento più critico sta proprio nella ricollocazione sociale. «Questi ragazzi sono motivati, hanno voglia di lasciarsi il passato alle spalle e, soprattutto, chiedono un lavoro vero. Vengono da me e partiamo dall’abc: li aiuto a preparare il curriculum, iniziamo a spulciare le offerte, a mandare le prime candidature; ci teniamo in contatto per un po’ ma dopo qualche mese di tentativi caduti nel vuoto non mi chiamano più». Di nuovo punto e a capo, come in un circolo vizioso: il “patto” di fiducia con il mondo degli adulti viene meno e diventa facile imboccare pericolose scorciatoie. Di questi piccoli “deviati”, di cui molti sono italiani e stra-

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nieri di seconda generazione, negli anni don Gino ha imparato a riconoscere un comune denominatore, «una cosa che non avrei mai pensato di trovare. Tra le cause che spingono i ragazzi a commettere azioni criminose, e mi riferisco principalmente alla trasgressione adolescenziale, al bisogno di segnalare al mondo la propria presenza, alla scarsa consapevolezza dei diritti degli altri, al basso livello di aspettativa sul futuro e all’incapacità di sognare, ce n’è una predominante: la povertà. Gran parte degli autori di rapine e piccoli furti sono spinti da impellenze materiali come mangiare, pagare l’affitto, accudire famiglie sgangherate, in cui spesso entrambi i genitori galleggiano in uno stato di disoccupazione». Provando a ribaltare le prospettive, da qualche mese Comunità Nuova ha aperto le porte a un ambizioso progetto: un gruppo di imprenditori milanesi si è reso disponibile a dare lezioni di business a ragazzi con al massimo la terza media, «gente su cui nessuno prima d’ora avrebbe investito granché». L’idea è semplice: fatta pulizia di facili perbenismi, si riparte dal percorso interrotto e dagli “strumenti” per il riscatto. «Anche tu puoi fare delle belle cose: questo è il messaggio che mi piace rivolgere a chi ha sbagliato. È la prova che lo spazio per ricollocarsi c’è. Quando guardo al futuro di questi ragazzi non vorrei mai che si ritrovassero C&P • GIUSTIZIA


Gino Rigoldi • Disagio giovanile

Don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova

Questi ragazzi sono motivati, hanno voglia di lasciarsi il passato alle spalle e, soprattutto, chiedono un lavoro vero C&P • GIUSTIZIA

a cinquant’anni a fare i manovali. Possono aspirare a qualcosa di meglio. Ecco allora che l’incontro con un adulto disposto ad ascoltare, la possibilità di frequentare un laboratorio professionalizzante, andare a colloquio con psicologo, dedicarsi allo sport, assumere un atteggiamento diverso con gli agenti di polizia diventano tasselli complementari del recupero. Certo, la strada non è in discesa, molti promettono di essere cambiati, ma noi per mesi li osserviamo a distanza, riuscendo così ad avere il polso della situazione». Che ci voglia impegno lo sa sicuramente chi ogni sabato, per cinque ore, torna sui banchi di scuola per pianificare il proprio futuro. «Molti lavorano già, nel weekend potrebbero riposare e invece preferiscono svegliarsi presto per arrivare puntuali alle nove di mattina». L’esperimento è ancora in corso ma, prima che iniziasse, c’era già un primo testimone positivo, un ragazzo albanese che ha fatto fortuna con una piccola azienda agricola: ricevuti i finanziamenti per aprire una piccola serra, lavora ormai da un anno e riesce a sostenere la famiglia. Tra gli otto partecipanti al mini corso da imprenditori, due hanno messo in piedi un’originale giro d’affari di vecchio ferrame, in pratica comprano i pezzi usati e poi li rivendono su internet, «una trovata che rende più di 2mila euro al mese». 47




Salone della giustizia • Filippo Berselli

Uno spazio di decantazione La terza edizione del Salone della Giustizia approda a Roma. Il suo promotore, il senatore Pdl Filippo Berselli, spiega: «Restiamo indifferenti rispetto alle attuali vicende politiche. La giustizia non è di destra né di sinistra» di Riccardo Casini

a novità principale del Salone? Direi il fatto stesso che avrà luogo: visti gli attuali chiari di luna, non mi sembra poco». Scherza, ma fino a un certo punto, il senatore del Pdl Filippo Berselli, presidente della Commissione giustizia a Palazzo Madama e promotore del Salone della Giustizia, che si terrà quest’anno a Roma dopo due edizioni a Rimini. «Un appuntamento molto importante, in un momento in cui il nuovo governo sta iniziando a lavorare», anche se, puntualizza Berselli, «il Salone della Giustizia va avanti e resta indifferente rispetto alle attuali vicende politiche». E ammette: «È un evento largamente atteso, ma sarà difficile fare il punto della situazione in questa fase di transizione». Di sicuro si cercherà di volare al di sopra delle polemiche e delle schermaglie che l’argomento giustizia ha spesso scatenato ultimamente in Parlamento. «Risolvere tutti i problemi in questo ambito – spiega Berselli – non è facile, ma il Salone potrebbe contribuire almeno in parte, anche per far decantare le polemiche degli ultimi tempi, visto che qui si parla e non si grida, si cercano i punti in comune piuttosto che quelli di dissenso. D’altro canto è questo il compito di un evento come il nostro che si definisce istituzionale, non legato a una maggioranza o a un’altra,

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come dimostra il fatto che abbiamo sempre ospitato ministri ed esponenti politici di tutti gli schieramenti. La giustizia infatti va considerata come un patrimonio di interesse di tutti gli italiani, e non come qualcosa di destra o di sinistra. È uno schema che ha funzionato magnificamente in occasione delle prime due edizioni, e sono convinto che funzionerà altrettanto bene quest’anno. La scelta di Roma poi potrebbe dare una spinta indubbiamente maggiore alla buona riuscita dell’evento, dal momento che nella Capitale hanno sede le principali istituzioni giudiziarie». Cambio di location a parte, le novità principali si notano scorrendo il programma. «La caratteristica principale di questo Salone – spiega sempre Berselli – è il tentativo, riuscito, di coniugare aspetto convegnistico ed espositivo, quest’ultimo di grande interesse anche per i non addetti ai lavori: in proposito abbiamo quintuplicato gli spazi riservati alle forze di polizia. I convegni invece si terranno in due aree: il Parlamento, quest’anno rappresentato dalla Camera dei deputati, e il Palagiustizia, con tre sale distinte che consentiranno al pubblico di seguire anche incontri che si svolgeranno in contemporanea». Interessanti anche i servizi offerti, tra i quali «una sorta di ufficio di orientamento legale gratuito che verrà prestato da circa 200 avvocati che si alterneranno all’interno di 16 studi professionali ricreati C&P • GIUSTIZIA


Filippo Berselli • Salone della giustizia

Il Salone potrebbe contribuire a far decantare le polemiche degli ultimi tempi, visto che qui si parla e non si grida

Il senatore Filippo Berselli (a sinistra) durante lo scorso Salone della Giustizia

C&P • GIUSTIZIA

scenograficamente. Ma ci saranno anche 12 cooperative carcerarie che esporranno e venderanno i loro prodotti artigianali in una sorta di mercatino natalizio: un elemento interessante, anche alla luce del dato secondo cui il 90% dei detenuti che operano all’interno di queste cooperative riescono a trovare lavoro, e soprattutto non tornano a delinquere, una volta usciti dal carcere». Per quanto riguarda i temi, le prime due giornate saranno dedicate alla magistratura (giovedì) e all’avvocatura (venerdì). «Sabato – prosegue Berselli – il programma prevede anche due importanti incontri a carattere istituzionale: uno intitolato “La giustizia ai tempi dell’Unità d’Italia”, con un raffronto tra normative sabaude e borboniche, e l’altro, “Conservare la memoria per coltivare la speranza”, con la presentazione, per la prima volta al pubblico, delle lettere restaurate di Aldo Moro durante la prigionia, alcune delle quali verranno lette da Michele Placido». Ma non va trascurato anche un importante aspetto benefico: «Lo scorso anno con l’Associazione nazionale istituti vendite giudiziarie si decise che il ricavato di un’asta, indetta sia presso la Fiera di Rimini sia online, sarebbe stato devoluto agli orfani dei militari caduti in missioni di pace, aggiorn ati al novembre 2010. E così abbiamo fatto: nei giorni scorsi il ricavato complessivo è stato consegnato all’Onaomce». 51


Appuntamenti • Il Salone della Giustizia

La giustizia, un bene comune Un’occasione per discutere e confrontarsi sui temi della giustizia, con l’obiettivo di promuovere e diffondere la “cultura della legalità”. Tutto questo è il Salone della Giustizia, in programma a Roma dal 1 al 4 dicembre di Guido Puopolo

Il senatore Filippo Berselli con il vicepresidente del CSM, Michele Vietti

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i svolgerà dal 1 al 4 dicembre 2011 la terza edizione del Salone della Giustizia, un appuntamento per tutti coloro che operano nel complesso sistema giustizia. Dopo due anni a Rimini, la manifestazione, grazie al lavoro portato avanti dalla società Arcomedia, giunge quest’anno a Roma, che in quanto centro del potere politico e istituzionale, è la location ideale per ospitare l’evento. Nei due grandi padiglioni situati all’interno della nuova Fiera di Roma, infatti, saranno tantissime le novità pensate per dare l’opportunità a magistrati, avvocati e politici di potersi confrontare pubblicamente, alla presenza dei cittadini, su temi di interesse generale, in grado di influenzare la nostra vita quotidiana. Gli organizzatori, nonostante la crisi economica, con il sostegno di Fiera di Roma e il contributo della Regione Lazio e della Camera di Commercio di Roma, unitamente alle aziende e agli enti che con la loro presenza hanno voluto sostenere l'iniziativa sono riusciti ad assicurare il regolare svolgimento del Salone. Il Salone della Giustizia, che ha come promotore istituzionale il senatore Filippo Berselli, presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, ha sempre evitato di richiedere contributi pubblici, una scelta che assume ancora più valore in questo periodo di difficile congiuntura economica. L’organizzazione ha messo a disposizione, come sempre, aree gratuite riservate ai dicasteri presenti, tra cui il ministero della Giustizia, della Difesa, dell’Istruzione e della Gioventù e, rispetto agli scorsi anni, ha addirittura quintuplicato le aree espositive riservate alle Forze di Polizia. Saranno quindi oltre 1500 i metri quadrati destinati ai tutori dell’ordine, offrendo così ai visitatori una straordinaria panoramica delle eccellenze tecnologiche e dei mezzi a disposizione di quanti giornalmente lavorano per garantire la nostra sicurezza. Altro elemento di grande rilevanza è rappresentato dal fatto che l’ingresso continuerà a essere gratuito, con l’obiettivo di avvicinare sempre più persone al complesso mondo della giustizia, talvolta percepito come molto distante da una buona parte della popolazione. Il Salone, definito in passato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano come una «nuova forma di comunicazione istituzionale», si è sempre contraddistinto, rispetto a tutte le altre manifestazioni, non solo per l’aspetto convegnistico ma anche e soprattutto per la parte espositiva, che ha visto per la prima volta la partecipazione di istituzioni come il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale dei Magistrati, il Consiglio Nazionale Forense, diversi tribunali, tra cui quello di Roma, di Bologna

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Appuntamenti • Il Salone della Giustizia

Ius Channel trasmetterà in diretta il Salone della Giustizia su tutte le piattaforme tecnologiche attualmente disponibili

e quest’anno anche di Cagliari, e molti ordini professionali, insieme a enti e grandi aziende che credono e investono nella cultura della legalità. Le grandi aree espositive, sin dalla prima edizione, sono sempre state caratterizzate dalla presenza di straordinarie scenografie. Quest’anno sono previsti due nuovi allestimenti scenici. Il primo rappresenterà la Camera dei deputati, il secondo, invece, un mega Centro convegni, ribattezzato Palagiustizia, che coprirà un’area di 1600 metri quadri e avrà al suo interno tre sale denominate Italia, Sigillo ed Ermellino. Il pubblico avrà la possibilità di partecipare a tutti i convegni e, grazie all’impegno di Roma Capitale, in collaborazione con la Camera di conciliazione di Roma, i cittadini potranno usufruire di un orientamento legale gratuito fornito da ben 200 avvocati, che si alterneranno nei 16 studi legali ricostruiti scenograficamente. Questa terza edizione, che vedrà ancora come media partner l'agenzia Ansa, terrà inoltre a battesimo il canale ufficiale del Salone della Giustizia, Ius Channel, che darà la possibilità di seguire in tempo reale i temi, le notizie, e i confronti avviati dal format della nostra iniziativa. Ius Channel trasmetterà in diretta il Salone della Giustizia su tutte le piattaforme tecnologiche attualmente disponibili. E, una volta chiuso il Salone, continuerà a occuparsi quotidianamente di tutti i problemi che ruotano attorno al “pianeta Giustizia”. La Fiera di Roma, unitamente ad Arcomedia e alla società C&P • GIUSTIZIA

di allestimenti Events Group, ha riservato a dodici cooperative carcerarie, proposte dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, una superficie di oltre 500 metri quadri, all’interno della quale le stesse cooperative potranno esporre e vendere prodotti artigianali da loro realizzati, come magliette, borse e collane, ma anche dolci, biscotti e vini. Un momento importante, per far conoscere i progetti di avviamento al lavoro e di reinserimento svolti nelle carceri e, nello stesso tempo, un’occasione per i visitatori di effettuare acquisti equosolidali in questo particolare “mercatino di Natale”. Al centro di questo contenitore, però, c’è un ricco programma fatto di eventi, conferenze e incontri, difficilmente riscontrabile altrove. Giovedì mattina, subito dopo l’inaugurazione, nella grande sala plenaria all’interno del Palagiustizia, per la prima volta nella sua storia, il Consiglio Superiore della Magistratura, rappresentato dal vicepresidente Michele Vietti, incontrerà 400 liceali, per poter spiegare direttamente alle nuove generazioni l’alto ruolo ricoperto dalla magistratura nel nostro ordinamento. A ognuno dei presenti sarà donato un volume che ripercorre la vita e l’opera dei tanti magistrati caduti nell’adempimento del proprio dovere. La presenza dei ragazzi in visita ai padiglioni sarà garantita grazie all’intervento del ministero dell’Istruzione e delle Forze dell’ordine che, con uno sforzo organizzativo non indifferente, hanno messo a dispo53


Appuntamenti • Il Salone della Giustizia

Il Salone, proprio per rispondere alle esigenze di una platea variegata, non si occupa soltanto di magistratura e avvocatura, ma lavora per estendere il concetto di giustizia

In queste pagine, alcune immagini dell’edizione 2010 del Salone della Giustizia

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sizione tutti i pullman necessari al servizio navetta. Negli stessi orari, nelle sale attigue si svolgeranno altri due convegni: uno promosso dall’Associazione Nazionale Magistrati, e un altro di strettissima attualità, organizzato dall’associazione indipendente dei giornalisti Lettera 22 dal titolo “Giustizia e informazione”. Nel pomeriggio il Consiglio Superiore della Magistratura affronterà il tema della figura del magistrato in Europa, alla presenza di illustri ospiti internazionali. Sempre nella giornata inaugurale, nella grande scenografia che vuole rappresentare il nostro Parlamento, Roma Capitale promuoverà un incontro il cui tema è “Come difendere le nostre città”, presieduto del vicesindaco di Roma, l’onorevole Sveva Belviso. Se giovedì si delinea come la giornata della magistratura, venerdì sarà il giorno dedicato all’avvocatura. Il Consiglio nazionale forense ha infatti opzionato più sale, sia la mattina che il pomeriggio, per un’attività molto intensa. Sempre nella mattinata di venerdì, ci sarà un incontro promosso dalla Fondazione Ania, incentrato sul dibattito che ruota attorno all’istituzione del reato di omicidio stradale e sulle iniziative da porre in atto per il suo inserimento nel codice penale. Il Salone, però, proprio per rispondere alle esigenze di una platea variegata, non si occupa soltanto di magistratura e avvocatura, ma lavora per estendere il concetto di giustizia. Infatti, nel pomeriggio verrà affrontato anche il delicato argomento della tutela della salute. Farmaci nella rete, danni della contraffazione e medicina difensiva saranno i temi dominanti di questo convegno sostenuto anche da Farmindustria. Un altro appuntamento irrinunciabile, almeno per tutti gli operatori del settore, sarà quello promosso dalla Camera arbitrale della Camera di commercio di Roma, dal titolo “L’assistenza delle parti in mediazione”, relativamente ai temi della mediazione e della conciliazione. Per la giornata di sabato, sono in programma quattro convegni, di cui due di grande importanza sociale. Il primo, promosso dalla presidenza della Camera di Commercio di Roma, affronterà il tema della legalità; il secondo, con la piena adesione dell’Unicef e il contributo di Dicofarm, riguarderà invece la tutela dei minori, e metterà in luce un argomento molto delicato, analizzando il ruolo che istituzioni come la scuola, la politica e la Chiesa sono chiamate a svolgere in una società attraversata da mutamenti radicali. Gli altri due convegni in calendario sabato nell’ambito del “Parlamento”, sono di carattere istituzionale. Il primo, nella mattinata, riguarda “La Giustizia ai tempi dell’unità d’Italia”, inserito anche dalla presidenza del Consiglio dei ministri tra le iniziative volte a celebrare i nostri 150 anni. Alla presenza del primo presidente della suprema Corte di Cassazione Ernesto Lupo, il presidente della commissione C&P • GIUSTIZIA


Appuntamenti • Il Salone della Giustizia

LA “PORTA DEL DIRITTO” AL SALONE: AL SERVIZIO DELLA CITTADINANZA no degli eventi principali di tutta la manifestazione, riproposto quest’anno dopo il grande successo della passata edizione, è senza dubbio rappresentato da “La Porta del Diritto”, iniziativa posta in essere dalla Camera di Conciliazione di Roma, con il sostegno di Roma Capitale e di Arcomedia. La Camera di Conciliazione è un organismo costituito nel 1996 per iniziativa del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma, in collaborazione con la Corte d'Appello di Roma che, fin dal 2004, offre gratuitamente ai cittadini di numerosi Municipi capitolini, in veste del tutto anonima e nel pieno rispetto delle regole deontologiche, un orientamento di natura legale sui diritti del quotidiano. «Tale formula – spiega il Presidente della Camera di Conciliazione di Roma, l’Avvocato Giuseppe Lepore – verrà riproposta all’interno del Salone della Giustizia. Qui, in-

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fatti, durante i quattro giorni della manifestazione, le persone avranno la possibilità di ricevere assistenza legale sui temi più vari, grazie alla disponibilità garantita da ben 200 avvocati». «Dai dati raccolti in questi anni – prosegue l’Avvocato Lepore – possiamo dire che le problematiche più sentite sono quelle di natura civilistica, che possono andare dalla semplice lite di condominio al tema degli sfratti. Anche i difficili rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, però, sono spesso al centro dei contenziosi che ci troviamo ad affrontare». Il Salone, conclude Lepore, «è veramente un evento importantissimo, caratterizzato dallo spirito costruttivo e propositivo che anima tutti i partecipanti. Un’occasione unica per cercare di abbattere quelle barriere che spesso ancora condizionano il rapporto tra i cittadini e la giustizia».

Giustizia del Senato Filippo Berselli affronterà insieme a illustri relatori, tra cui il Presidente della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, Giovanni Canzio, e i professori Enrico Genta, Gian Franco Ricci e Girolamo Monteleone, le normative sabaude e borboniche che vigevano all’epoca in cui l’Italia conseguì la propria unità nazionale. L’evento, organizzato in collaborazione con l’università Luiss, vedrà la presenza di oltre 200 tra laureati e laureandi dell’ateneo. Sabato pomeriggio il Tribunale di Roma, che già lo scorso anno si distinse per lo straordinario convegno “Violenza in famiglia - Le istituzioni di fronte a una drammatica realtà”, organizzerà un dibattito di grande rilevanza storica e politica, dal titolo “Conservare la memoria per coltivare la speranza”. Al centro dell’iniziativa, la presentazione per la prima volta al pubblico, delle ultime lettere restaurate scritte da Aldo Moro durante la sua prigionia. Michele Placido, il grande attore italiano che in occasione del primo salone commosse la platea ricordando l’attentato di Capaci in cui perse la vita il giudice Falcone, ne leggerà alcuni brani molto significativi. La domenica, giornata conclusiva, sarà invece dedicata al tema “Donne e giustizia”. Nella grande sala Italia verranno raccolte diverse testimonianze delle donne presenti in magistratura, in avvocatura, in tutte le forze di polizia e nelle forze armate. Un incontro che vuole essere tributo al simbolo stesso della giustizia che, non a caso, è rappresentato da una donna. 55




Riforma forense • Maurizio De Tilla

L’avvocatura di domani Molte sono ancora le incognite che gravano sulla professione forense e sulle prospettive dei giovani legali italiani. Ma un punto rimane imprescindibile per Maurizio De Tilla: «La riforma non può che essere improntata alla funzione costituzionale dell’avvocato» di Francesca Druidi

abolizione delle tariffe minime, prevista dalla nuova versione del maxi emendamento al ddl stabilità, non contribuirà al rilancio della competitività dell’Italia, ma avrà l’effetto di rendere ancora più precario il lavoro dei giovani avvocati. Lo ha sottolineato Maurizio De Tilla, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura, che delinea i principi cardine dell’Oua per la riforma forense, soffermandosi anche sulle problematiche che oggi interessano i giovani legali, che saranno chiamati nel prossimo futuro a diventare tra i primari operatori della giustizia. La VII Conferenza nazionale dell’avvocatura di fine novembre, dal titolo “Riforma della giustizia civile e penale: il ruolo essenziale dell’avvocatura”, si è svolta in un contesto di crisi economica particolarmente acuta. «La conferenza si colloca in un contesto drammatico per il nostro Paese, vicino alla deriva istituzionale ed economica. Il debito pubblico ha raggiunto punte intollerabili e si rischia che lo Stato non sia più in grado di rimborsare i titoli emessi. Il tutto si inserisce in uno scenario internazionale di recessione e di crisi economica che ha radici profonde, le quali traggono origine da un bieco “capitalismo parassitario”, citando il titolo di un meraviglioso

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libro di Zygmunt Bauman, e dal famelico appetito dei poteri economici. Poteri che hanno sfruttato a proprio piacimento la finanza, producendo ripetute bolle finanziarie che hanno in parte polverizzato risorse e risparmi di imprese, professionisti, famiglie e cittadini. I professionisti italiani sono le vittime di questi abusi e vengono, invece, indicati come le concause delle distorsioni del sistema». Questo cosa comporta? «Su questo paradossale presupposto, le manovre economiche che si sono succedute in questi ultimi mesi (la prima, la seconda e la terza) varano “pseudo-liberalizzazioni selvagge”, che non sono altro che ulteriori penalizzazioni per il reddito della stragrande maggioranza dei professionisti e, segnatamente, degli avvocati. In occasione della conferenza nazionale è stata ampliata la discussione a questi temi per chiarirne gli infingimenti della politica e dei mass media, che tendono a mostrare un ruolo falsificato delle funzioni delle professioni. Si intende evidentemente strumentalizzare la crisi economica per “bastonare” i professionisti, soggetti evidentemente scomodi e contrastanti con il progetto di omologazione del lavoro sul piano più basso della subordinazione ai poteri di terzi». Di cosa vengono accusati, in particolar modo, gli avvocati? C&P • GIUSTIZIA


Maurizio De Tilla • Riforma forense

L’affollamento degli albi va combattuto con la riforma e l’ammodernamento dell’ordinamento forense

Sopra, Maurizio De Tilla, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura

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«Gli avvocati vengono indicati ingiustamente come gli autori principali del ritardo delle controversie. Con tale assurdo addebito, si susseguono provvedimenti nella giustizia civile i quali, anziché enunciare un processo giusto in tempi brevi, finiscono per scoraggiare i cittadini dal far valere i propri diritti e le proprie ragioni. Ne è una prova evidente la costosissima mediaconciliazione obbligatoria, che non approderà a nulla e sanziona senza alcuna ragione i cittadini, anche per questa ragione maltrattati e scoraggiati dall’intraprendere una lite. A ciò si aggiunge la rottamazione dei processi civili con la sentenza breve con “motivazione su richiesta” per i processi in corso. E infine, con l’assunzione temporanea di magistrati e avvocati dello Stato in pensione con configurazione di una giustizia non più giovane e moderna, ma gerontocratica». Attorno alla riforma della professione forense sono sorte molte polemiche. L’iter è ora arenato alla presentazione di oltre 500 emendamenti al ddl di riforma approvato dal Senato e ritornato in discussione in Commissione giustizia della Camera. Quali le condizioni affinché una vera riforma possa essere fattivamente improntata? «Abbiamo sempre, e con determinazione, sostenuto che l’affollamento degli albi con l’iscrizione di più di 230mila 59


Riforma forense • Maurizio De Tilla

Gli avvocati anziani devono consegnare il testimone ai giovani anche nelle rappresentanze forensi 60

avvocati va combattuto con la riforma e l’ammodernamento dell’ordinamento forense, per assicurare rigore nell’accesso, formazione e prestazioni professionali qualificate, tenuta deontologica, specializzazioni, società professionali senza soci di mero capitale, impianto territoriale e nazionale molto partecipativo, retribuzione minima adeguata e garantita. Un coacervo di elementi propositivi e riformatori per configurare un ruolo e una funzione dell’avvocatura in linea con i valori costituzionali sanciti dall’articolo 24 (difesa) e 111 (giusto processo) della nostra Costituzione». Quali gli ostacoli maggiori? «Tutto è stato in parte vanificato dalle “lenzuolate” di Bersani e dalle norme inserite per le professioni nelle manovre economiche, che affermano un principio che non si può assolutamente condividere, ossia che il professionista, l’avvocato, è un’impresa. Concetto negato dallo stesso Parlamento europeo che, nel marzo 2006, ha sancito con grande evidenza che le professioni legali sono fuori dalla normativa sulla concorrenza. La riforma dell’ordinamento forense non può che essere improntata alla funzione costituzionale dell’avvocato». Alcune delle direttive dell’Oua si rivolgono esplicitamente alle generazioni future come la formazione e la specializzazione. Come valuta oggi la situazione per i giovani legali? «L’Oua si batte per favorire i giovani legali contrastando la media conciliazione obbligatoria, sostenendo la necessità della reintroduzione dell’inderogabilità dei minimi delle tariffe, aprendo a modifiche dell’ordinamento forense che escludano le specializzazioni “per anzianità” e consentano ai giovani avvocati di accedere senza preclusioni alle rappresentanze delle istituzioni forensi. L’Organismo unitario si batte altresì perché i giovani avvocati possano trovare terreno fertile nell’avvio della professione con supporti formativi ed economici sostenuti dal “Welfare” che la Cassa Forense può e deve sostenere con le proprie risorse». Il neo presidente dell’Aiga Greco invoca vertici di rappresentanza della classe forense più democratici e giovani. Ritiene valida la sua richiesta? «Sono d’accordo. Gli avvocati anziani devono consegnare il testimone ai giovani anche nelle rappresentanze forensi dimostrando, con l’esempio, che non si è attaccati alla poltrona. Ma gli anziani avvocati devono fare anche di più: aiutare i giovani a crescere, preparandoli e illuminando le loro menti con insegnamenti di alto profilo deontologico e tecnico. Il che è di difficilissima attuazione. Gli anziani non si curano più dei giovani avvocati. E questi non ascoltano più i vecchi avvocati». C&P • GIUSTIZIA


Dario Greco • Riforma forense

Protagonisti della ripresa Regolamentare la figura del collaboratore di studio, rendere il percorso formativo dell’avvocato più selettivo, intensificare il dialogo con i principali attori istituzionali, economici e della categoria. Sono alcune delle priorità indicate dal neo presidente dell’Aiga Dario Greco di Francesca Druidi Dario Greco, presidente dell’Associazione italiana dei giovani avvocati

stato eletto con il 75% delle preferenze, lo scorso ottobre, nuovo presidente dell’Associazione italiana dei giovani avvocati (Aiga): Dario Greco, avvocato palermitano di 40 anni, raccoglie il testimone da Giuseppe Sileci – «Intendo proseguire il percorso del mio predecessore nella ricerca di nuovi spazi di mercato per l’avvocatura italiana», ha dichiarato – e si prepara ad affrontare le impegnative sfide che scaturiscono dall’irto scenario politico ed economico restituitoci dalle cronache giorno dopo giorno. Quali sono i principali obiettivi del suo mandato nel prossimo biennio? «Immagino un avvocato che non intervenga soltanto nel momento del conflitto tra le parti e nella fase patologica di un rapporto economico. Maggiore attenzione deve essere rivolta a quelle attività che oggi sono inspiegabilmente riservate ad altre categorie professionali: consideriamo assurdo che la cessione delle quote societarie di una Srl sia consentita ai commercialisti e non anche agli avvocati e insisteremo affinché l’autentica delle scritture private sia consentita ai legali. Nel contempo, incrementeremo l’attenzione verso la consulenza, anche al fine di evitare un ulteriore appesantimento del contenzioso. Penso, insomma, a un’avvocatura maggiormente utile al Paese, in grado

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prima di farlo uscire dalla crisi e poi di farlo crescere». Circa 70.000 avvocati, come lei stesso ha sottolineato, si trovano in una situazione di precariato, in particolare donne e giovani. Cosa fare per invertire questa tendenza? «Innanzitutto, non si può più consentire che ogni laureato in giurisprudenza che non passi il concorso per il ruolo di magistrato o di notaio, oppure che non trovi un impiego pubblico, si iscriva all’albo per “ripiego”. L’avvocatura non è un ripiego. Per questo, è necessario introdurre il numero programmato nella facoltà di giurisprudenza oppure creare un nuovo corso di laurea per le professioni legali, sempre con un numero programmato. E poi si deve prevedere per legge l’obbligo al giusto compenso per il collaboratore del titolare dello studio legale, con nuove forme di ammortizzatori sociali per i giovani professionisti, i soggetti più deboli e indifesi in periodi di crisi». Rispetto al testo di riforma della professione forense licenziato al Senato ma ora fermo alla Camera, qual è la valutazione dell’Associazione italiana dei giovani avvocati? «Ritengo opportuno proseguire l’iter parlamentare di approvazione della legge, anche per evitare che sia un Dpr a riscrivere lo Statuto dell’avvocatura, come previsto dalla 61


Riforma forense • Dario Greco

È necessario introdurre il numero programmato nella facoltà di giurisprudenza legge di stabilità recentemente approvata. Noi abbiamo collaborato con serietà e lealtà con le altre componenti dell’avvocatura per fornire un testo condiviso al Parlamento. Abbiamo accettato tanti compromessi, nella consapevolezza che la vecchia legge del 1933 fosse ormai inadeguata ai tempi. Chiediamo però alcune modifiche: ben vengano le Srl tra avvocati, ma siano esclusi i soci di mero capitale; la durata dei mandati dei consigli dell’ordine non deve essere superiore a tre anni; la presenza femminile negli organismi di rappresentanza deve essere incentivata, anche con la previsione di quote rosa. E poi, come dicevo prima, bisogna regolamentare la figura del collaboratore di studio». Quale ruolo sono chiamati a rivestire i giovani legali nell’avvocatura che oggi si sta delineando? «Vogliamo essere protagonisti del dibattito socio-politico del nostro Paese. Questi anni di crisi economica determineranno grandi stravolgimenti e, probabilmente, ci affacciamo a un modello di società differente da quello che abbiano conosciuto finora. Da difensori dei diritti dei cittadini vogliamo dire la nostra, anche fuori dai Tribunali, anche fuori dall’area dei problemi della giustizia. Interloquiremo con tutti: con la politica, ma anche con Confin62

dustria, con i sindacati e con le altre associazioni giovanili di professionisti. Mantenendo, ovviamente, la nostra vocazione assolutamente apartitica». Ha evidenziato la necessità che i vertici di rappresentanza della classe forense siano scelti su base maggiormente democratica, dando più spazio ai giovani. Come si articola, nello specifico, la sua proposta? «Oggi nessuno in Italia può legittimamente affermare di rappresentare tutti gli avvocati italiani. Esiste il Consiglio nazionale forense, che non ha una rappresentanza democratica perché grandi distretti di corte d’appello contano quanto quelli piccoli e poi ne sono esclusi i giovani avvocati non cassazionisti. Esiste l’Oua, che è semplicemente la sommatoria di singole realtà territoriali; esistono gli Ordini, che rappresentano però i singoli fori; esistono le associazioni generaliste come l’Aiga e quelle specialistiche. È necessario ripartire dal basso, consentire agli avvocati - e tra questi soprattutto ai più giovani, senza distinzione di genere - di partecipare direttamente ai processi decisionali. Per questo penso al presidente degli avvocati italiani, con elezione diretta da parte di tutti gli iscritti. Solo così daremo reale autorevolezza e forza ai rappresentanti dell’avvocatura italiana». C&P • GIUSTIZIA



Riforma forense • Marco Ubertini

Pensione modulare, un investimento per il futuro La riforma forense interessa, anche se in maniera indiretta, il sistema previdenziale degli avvocati gestito dalla Cassa nazionale forense. Il presidente Marco Ubertini illustra quali sono le novità riguardanti questo importante aspetto per il futuro dei legali di Nicolò Mulas Marcello

ongresso europeo del Federation des Barreux Europeénne tenutosi a Firenze dal 26 al 28 maggio sono stati messi a confronto i singoli sistemi nazionali di previdenza forense in un periodo in cui la recessione economica condiziona inevitabilmente, in tutti i paesi europei, il circolo vizioso reddito-contributi. «È stata anche l’occasione per discutere della fattibilità di un sistema sopranazionale europeo – spiega Marco Ubertini, presidente della Cassa nazionale forense – e per confrontarsi sulle modalità della previdenza e dell’assistenza forense. In tempi di crisi la libera professione dell’avvocato risente del peggioramento delle condizioni economiche dei clienti. E in Italia, forse più che altrove in Europa, l’elevato numero di iscritti alla professione impone una riflessione sul sistema previdenziale e sulla sua capacità di tutelare gli avvocati che più di altre categorie professionali hanno subito le conseguenze di una congiuntura particolarmente sfavorevole». Quali punti della riforma dell’avvocatura interesseranno la Cassa nazionale forense? «La riforma forense ci interessa nel suo complesso, poiché rappresenta il quadro di regole all’interno delle quali si svolgerà tutta l’attività degli avvocati. Come avvocato ritengo essenziale che, dopo quasi ottant’anni, una nuova legge ci consenta di stare sul mercato con regole adeguate. Come presidente di Cassa Forense ho un interesse in più: la capacità degli avvocati di produrre red-

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Marco Ubertini • Riforma forense

Il meccanismo modulare consentirà agli avvocati di avere una pensione più alta al termine della loro carriera dito si traduce, ovviamente, anche in contributi per l’ente di previdenza e assistenza.Al di là di ogni altra considerazione, la prima garanzia per chi esercita oggi la professione forense deve essere poter avere domani una pensione adeguata. In particolare, siamo molto attenti alla previsione sulla continuità dell’esercizio della professione per mantenere l’iscrizione all’Albo. È un aspetto molto delicato: andrà contemperato l’interesse di mantenere iscritti agli Albi solo coloro che effettivamente fanno gli avvocati con l’esigenza di non penalizzare, addirittura con la cancellazione, quegli avvocati, soprattutto giovani, che, in una fase delicata personale o generalizzata come quella attuale, non raggiungano i minimi di reddito previsti per l’iscrizione obbligatoria alla cassa». Quali vantaggi permette il meccanismo della pensione modulare in vigore dal 2012? «La pensione modulare è uno strumento introdotto con la riforma della previdenza forense in vigore dall’anno scorso e consentirà agli avvocati di avere una pensione più alta al termine della loro carriera. Per invogliarne l’utilizzo è stato previsto un versamento obbligatorio dell’1%, per il resto è un meccanismo del tutto volontario e molto flessibile. Si tratta di un versamento contributivo volontario, con un aliquota che, a scelta dell’avvocato, può andare dall’1 al 9% del reddito netto. Ogni anno gli avvocati possono scegliere se utilizzarlo o meno. A rendere particolarmente interessante il ricorso alla modulare, contribuisce anche l’integrale deducibilità dei contributi versati». C&P • GIUSTIZIA

Quali strumenti di sostegno ha adottato la Cassa per aiutare donne e giovani in questi ultimi anni contraddistinti dalla crisi economica? «I giovani e le donne sono categorie deboli all’interno del mercato del lavoro nel nostro Paese. Ma, purtroppo, in questi anni di crisi le difficoltà economiche hanno interessato non solo i giovani colleghi, in particolare le donne, ma gli avvocati di tutte le generazioni. La Cassa forense ha agito su due fronti. Da una parte ha esteso al massimo, all’interno della riforma appena approvata (che di per sé rappresenta un sostegno ai giovani perché garantisce loro la certezza della pensione), le agevolazioni a favore delle fasce più in difficoltà. Dall’altra, sta elaborando una serie di interventi specifici, che avranno definitiva approvazione nei prossimi mesi. Sul primo fronte, è stato esteso da 3 a 5 anni d’iscrizione alla Cassa il periodo nel quale i giovani legali pagano sola la metà del contributo minimo soggettivo e pagano il contributo integrativo solo se lo hanno effettivamente riscosso dal cliente. Ma, più in generale, va sottolineato come la scelta di mantenere un sistema retributivo per il calcolo delle pensioni punta a spalmare i sacrifici su tutte le generazioni anche per garantire ai più giovani di avere un buon trattamento pensionistico. Sul secondo fronte, stanno per essere varati una serie di provvedimenti che daranno un sostegno concreto alle famiglie e, in particolare, alle donne che continuano a svolgere, nell’intero arco della loro vita, compiti sussidiari in famiglia». 65


Riforma forense • Antonio Conte

Soffia il vento del cambiamento La professione forense non manca oggi di insidie e di prospettive incerte riguardo al proprio futuro. Consapevole del quadro attuale, l’Ordine degli avvocati di Roma guidato da Antonio Conte ha predisposto commissioni per favorire i giovani legali. Puntando sulla cultura “ordinistica” di Leonardo Testi

Antonio Conte, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma. Nella pagina accanto, Palazzo di Giustizia a Roma

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Ordine degli avvocati di Roma è il più numeroso d’Italia. Il presidente Antonio Conte , dal suo punto di osservazione, testimonia le criticità che funestano il delicato rapporto tra avvocatura e giovani legali. «Oggi, svolgere la professione di avvocato è sempre più difficile – asserisce –. Gli avvocati, insieme al cittadino-cliente, sono coloro i quali soffrono in prima persona del dissesto della giustizia e pagano a caro prezzo una legislazione caotica, a volte contraddittoria, sovente disorganica». Sono in molti ad attribuire parte della responsabilità di questo scenario proprio agli avvocati. «Ma ciò è manifestamente sbagliato: l’avvocato è spesso in “trincea”. Deve fronteggiare il declino inesorabile di un’amministrazione della giustizia sempre più carente e deve assolvere il suo incarico difensivo, tra mille difficoltà, tutelando gli interessi del proprio assistito che chiede giustizia con successo e in tempi ragionevoli». È possibile arginare la condizione di precariato che attanaglia, nel complesso, i giovani legali italiani? «Il precariato è un termine che non dovrebbe assimilarsi alla nostra categoria, ma i fatti dicono il contrario. Per questo l’avvocatura è fortemente critica, oggi più che mai, nei confronti di una politica che continua a escludere la categoria forense da ogni tavolo di concertazione legislativo sui problemi della stessa, e soprattutto, sugli atavici limiti strutturali del sistema giustizia che rallentano drammaticamente lo sviluppo produttivo del Paese». Lei è il più giovane presidente dell’Ordine che sia mai stato eletto a Roma. Si sta aprendo una stagione di rinnovamento? «È stato un percorso lungo, ma nell’Ordine ora si respira un vento di forte rinnovamento. Per la prima volta, dopo molti anni, le tre cariche consiliari - presidente, segretario e tesoriere - sono sulle spalle di infra cinquantenni e questo ha permesso una forte azione di cambiamento dell’istituzione, molto apprezzata dai colleghi. Non dimenticando mai, però, le luminose tradizioni del foro romano, come quando abbiamo “festeggiato” - con un evento di cui hanno parlato anche i media - i 100 anni di permanenza dell’Ordine capitolino dentro il Palazzaccio, dove è stata allestita una mostra fotografica con foto d’epoca dei grandi processi del dopo-

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Riforma forense • Antonio Conte

Le tre cariche consiliari dell’Ordine, presidente, segretario e tesoriere, sono sulle spalle di infra cinquantenni

guerra e dei grandi avvocati che hanno dato lustro al nostro Ordine. Abbiamo creato apposite commissioni per favorire i giovani colleghi sia con efficaci sportelli informativi nei tribunali, sia con gruppi di studio per fornire opportunità di lavoro a chi inizia la professione. È un progetto a lunga gittata che, però, speriamo dia presto i suoi frutti». A suo avviso gli avvocati dovrebbero fare squadra per contare di più in sede politica. Quale ruolo dovrebbero svolgere nello specifico? «L’avvocatura è deliberatamente esclusa dalla politica da sempre. Non è una questione di colore politico. Da Bersani ad Alfano, quando si è trattato di colpire la nostra categoria nessuno ha avuto scrupoli. Per questo, l’avvocatura ha bisogno di una forte rappresentanza che la difenda: questo può essere il ruolo e il rango degli ordini professionali. Sono profondamente convinto della forza della cultura “ordinistica”, pur rispettando il ruolo giurisdizionale del Consiglio nazionale forense e il profilo politico dell’Organismo unitario dell’avvocatura. Ma i risultati parlano chiaro: dal decreto Bersani alla Mediaconciliazione, la rappresentanza politica dell’avvocatura non è riuscita a portare alcun risultato alla categoria e ritengo che gli ordini - che vengono eletti dai colleghi e hanno la forza del consenso, oltre a essere ogni giorno a stretto contatto con gli avvocati-elettori - si debbano unire in una nuova forza “anche sindacale”; una forza che consenta all’avvocatura di essere protagonista nella ristrutturazione, ormai non più rinviabile, della giustizia in Italia. Questa politica forte dell’Ordine di Roma è particolarmente apprezzata dai tantissimi iscritti al foro capitolino e sta raccogliendo conC&P • GIUSTIZIA

sensi rilevanti anche a livello nazionale. Sicuramente il prossimo Congresso nazionale dell’avvocatura a Bari nel 2012 avrà la responsabilità di fare chiarezza su quale dovrà essere la rappresentanza effettiva della nostra categoria». La professione forense potrebbe subire più di uno scossone tra mediaconciliazione, riforma dell’ordinamento professionale, liberalizzazioni. Qual è la sua posizione in merito? «La nostra categoria più che scossoni ha subìto, negli ultimi anni, veri e propri tsunami legislativi. Se per liberalizzazione si intende l’abolizione degli ordini e dell’esame di stato, l’abnormità di tale ipotesi si commenta da sola. Sulla legge professionale dico solo che l’avvocatura l’attende da 78 anni. Sulla mediaconciliazione, invece, il discorso è diverso: l’avvocatura è intervenuta fortemente contestando come il decreto n. 28 del 2010 non abbia assolutamente recepito le legittime e corrette indicazioni degli ordini forensi e delle associazioni di categoria.Vi sono dei profili di incostituzionalità sulla questione delle obbligatorietà, come il Tar ultimamente ha confermato, e soprattutto il non prevedere l’assistenza legale al cittadino che ricorre alla mediazione, ha evidenziato la volontà di espellere il ruolo della classe forense dal nuovo istituto, penalizzando il diritto di difesa del cittadino stesso. Gli avvocati, ora, auspicano che la promessa dell’ex ministro Alfano di prevedere la difesa tecnica con un’integrazione normativa sia mantenuta dal nuovo ministro Severino, fermo restando quanto poi dirà lo scrutinio della Corte Costituzionale sulla fattispecie dell’obbligatorietà dell’istituto». 67




Mercato del lavoro • Pietro Ichino

«Superiamo l’apartheid dei lavoratori italiani» Semplificazione drastica della normativa, flexsecurity e riunificazione del mondo del lavoro. Questa la ricetta del senatore Pietro Ichino per rianimare il sistema Italia. Un appello che negli ultimi mesi ha raccolto consensi bipartisan ma che probabilmente, se giungerà alla prova dei fatti, sarà grazie al governo tecnico di Andrea Moscariello

l nostro neo premier lo sa bene. In Italia non si potrà uscire dalla crisi senza ristrutturare il diritto del lavoro. Infatti Mario Monti lo ha già chiaramente detto in Parlamento, segnalando come l’attuazione di una riforma incisiva sia oggi irrinunciabile. Tutti d’accordo sulla linea riformista. Più discrasie, invece, emergono sulle peculiarità che tale riforme dovrebbe contenere. «Occorre cambiare un impianto legislativo vecchio di oltre quarant’anni» dichiara Pietro Ichino, senatore del Partito Democratico. Un uomo più di “scienza” che di politica, Ichino, capace di elaborare un progetto di riforma che ha attratto consensi, e anche molte reticenze, da ogni parte politica. In una recente lettera inviata al Corriere della Sera, il senatore ha definito la volontà espressa da Mario Monti di rinnovare l’impianto del nostro diritto del lavoro come un “piccolo miracolo”. Anche Monti, come lui, pare voglia combattere il dualismo che attanaglia il nostro mercato del lavoro, vale a dire la netta disparità di trattamento tra lavoratori protetti e non protetti. «A chi entra nel mercato del lavoro d’ora in poi dobbiamo offrire un “diritto del lavoro unico”» ha dichiarato Ichino nella sua lettera, sottolineando come non si tratta puramente di una questione di equità, bensì «di efficienza del nostro tessuto produttivo».

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Pietro Ichino • Mercato del lavoro

Questo della flexsecurity è il regime che offre ai lavoratori il massimo di sicurezza economica e professionale nel contesto di mercato odierno. È una protezione migliore anche rispetto all’articolo 18, che ingessa i posti di lavoro

A sinistra, Pietro Ichino, senatore del Pd e giuslavorista

C&P • GIUSTIZIA

Senatore Ichino, se lei potesse dettare l’agenda politica, quali sarebbero le priorità da inserire in cima alla lista, i primi nodi da sciogliere? «Innanzitutto, una drastica semplificazione della normativa vigente: è l’operazione che si può compiere immediatamente, a costo zero, con il varo del Codice del lavoro semplificato, contenuto nel disegno di legge n. 1873/2009». Che cosa prevede? «In pratica sostituisce più di cento leggi attualmente in vigore con 70 articoli brevi, chiari e facilmente traducibili in inglese. In questo quadro rientra anche la seconda priorità: la riforma della materia dei licenziamenti per i nuovi rapporti di lavoro, secondo il modello della flexsecurity». Oltre alla semplificazione normativa e alla flexsecurity, il suo progetto di riforma punta anche alla riunificazione del mondo del lavoro. «Esattamente. Occorre puntare al superamento dell’attuale regime di apartheid che divide i lavoratori protetti dai non protetti. È un’operazione che si può compiere soltanto sostituendo la vecchia tecnica protettiva con una nuova». Una buona parte del mondo politico e dell’opinione pubblica sta convergendo verso la sua proposta di riforma. In futuro, dunque, è auspicabile una maggiore collaborazione tra partiti distanti tra 71


Mercato del lavoro • Pietro Ichino

Il quadro politico sta cambiando radicalmente in questi giorni. Ma in ogni caso è importante che su riforme così importanti si cerchi la più ampia condivisione possibile anche da parte delle opposizioni

loro in materia di diritto del lavoro? «Il quadro politico sta cambiando radicalmente in questi giorni. Ma in ogni caso è importante che su riforme così importanti si cerchi la più ampia condivisione possibile anche da parte delle opposizioni». I sindacati, invece, come stanno reagendo alla sua proposta di riforma? «La Uil ha sposato integralmente il mio progetto, con una bella lettera del suo leader, Luigi Angeletti, che ho deciso anche di pubblicare sul mio sito web.Vi è ragione di attendersi che una posizione analoga venga assunta dalla Cisl nei giorni prossimi». E la Cigl? «Su questo fronte per ora ci sono solo le adesioni di singoli dirigenti periferici. La realtà è che la base della Cgil è molto meno distante da quella di Cisl e Uil di quanto comunemente si pensi. Ma forse la cosa più interessante è costituita dalle ipotesi di accordo-quadro regionale per dettare le linee guida della contrattazione aziendale in materia di sperimentazione della flexsecurity, delle quali si sta incominciando a parlare concretamente in alcune regioni, come il Trentino e la Lombardia». Perché è così importante sostenere il principio di “flessibilità sicura”? «Innanzitutto perché questo della flexsecurity è il regime che offre ai lavoratori il massimo di sicurezza economica e profes72

sionale nel contesto di mercato odierno. È una protezione migliore anche rispetto all’articolo 18, che ingessa i posti di lavoro. Ricordiamoci che quando viene l’acquazzone anche il gesso si scioglie, e il lavoratore si ritrova con un pugno di mosche in mano. Il secondo motivo è che la flexsecurity è il solo regime suscettibile di essere esteso davvero a tutti i lavoratori: altrimenti la protezione rigida resta necessariamente limitata a una parte di essi, mentre la flessibilità di cui il sistema ha bisogno si scarica interamente sull’altra». Lei ha recentemente dichiarato che “oggi la vera scelta politica è tra chi ritiene che sia possibile dare il colpo di reni per allinearci ai parametri europei, e chi ritiene invece più realistico rinunciarvi”. Qual è la posizione da assumere? «In materia di amministrazione della giustizia, il problema non è tanto di cambiare le norme processuali, quanto di governare meglio l’organizzazione del lavoro dei magistrati, responsabilizzare i dirigenti e istituire gli incentivi giusti per l’efficienza. In materia di lavoro, l’obiettivo che ci viene indicato dalle istituzioni europee è sostanzialmente questo: conciliare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza per il lavoratore. Si torna, così, alla flexsecurity. È ora che ci cimentiamo seriamente su questo fronte, senza paure e con molto buon senso». C&P • GIUSTIZIA



Mercato del lavoro

IL NUOVO APPRENDISTATO TRA GARANZIE E FLESSIBILITÀ di Gabriele Fava Giuslavorista

na riforma sull’apprendistato era attesa da tempo. Si avvertiva, infatti, la necessità di dare un nuovo impulso a un istituto che, nonostante le indubbie potenzialità, non ha mai avuto una grande diffusione nel mondo delle imprese. La ragione dello scarso utilizzo di questo contratto era dovuta essenzialmente a una eccessiva stratificazione legislativa. La regolamentazione degli aspetti formativi, dapprima demandata in toto alle Regioni, è stata ampliata in un secondo momento alla contrattazione collettiva, alla quale il Legislatore ha voluto conferire un ruolo di temporanea supplenza in attesa dell’intervento regionale. L’accorpamento della normativa in un’unica legge era, quindi, tanto atteso quanto auspicabile, al fine di rilanciare un istituto che, se correttamente utilizzato, rappresenta per i giovani un vero e proprio ponte di ingresso nel mondo del lavoro. Al Testo unico sull’apprendistato (d.lgs. 167/2011), definitivamente entrato in vigore lo scorso 25 ottobre 2011, vanno sicuramente riconosciuti due meriti. Il primo è quello di aver dato un nuovo impulso all’istituto riorganizzandolo, fissando le linee guida e introducendo novità interessanti come ad esempio l’apprendistato rivolto ai lavoratori in mobilità. Il Legislatore ha voluto, e questo è il secondo aspetto rilevante, ridisegnare una tipologia contrattuale di tipo flessibile che, tuttavia, non sacrificasse l’esigenza di stabilità. Il nuovo contratto di apprendistato, infatti, a prescindere dalla tipologia contrattuale utilizzata (apprendistato per il conseguimento di una qualifica professionale, di alta formazione o professionalizzante), pur essendo a tempo indeterminato è comunque uno strumento flessibile in quanto, al termine del rapporto, l’azienda può decidere se recedere senza dare alcuna motivazione o proseguire con un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In questo senso, la riforma ha colto nel segno. La flessibilità, infatti, deve essere uno strumento utile a tracciare un sentiero duraturo nel mondo del lavoro

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a tempo indeterminato o quanto meno stabile. Ciò che contraddistingue fortemente l’apprendistato è l’obbligo del datore di lavoro di impartire al lavoratore un’adeguata formazione, finalizzata da ultimo all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. In cambio dell’attività formativa svolta, le aziende beneficiano di forti sgravi contributivi. Per evitare che le aziende godano dei benefici contributivi senza svolgere una effettiva formazione, il Testo unico ha previsto sanzioni economiche molto pesanti. Nel caso di mancata erogazione della formazione il datore di lavoro sarà tenuto al pagamento di una somma pari al doppio dei contributi previdenziali “risparmiati” utilizzando il contratto di apprendistato. Anche su questo punto, la riforma è condivisibile. Il timore di gravi sanzioni, infatti, dovrebbe disincentivare l’abuso o, comunque, l’utilizzo distorto dell’istituto. In quest’ottica, la riforma rappresenta un buon inizio per investire in una efficiente flessibilità in ingresso, che sarà una buona occupazione in futuro. C&P • GIUSTIZIA



Contrattazione collettiva di prossimità • Andrea Stanchi

Cosa cambia con l’articolo 8? Andrea Stanchi affronta il tema della certezza del diritto come valore per l'impresa ed entra nel merito dell’articolo 8 del decreto legge 138, convertito poi nella 148 del 2011. Sono luci od ombre per le aziende, con l’introduzione delle disposizioni a sostegno della contrattazione collettiva di prossimità? di Manlio Teodoro

© photo by alberto jona falco - studioolimpic@gmail.com

Andrea Stanchi, partner di StanchiStudioLegale di Milano studio@stanchilaw.it

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Europa ci richiama ad una rinnovata garanzia nella certezza del diritto, che si traduce sul piano economico in certezza di comportamenti, costi e stabilità organizzative per l’impresa. Richiamo che si leva da una stagione di interventi legislativi caratterizzati dal richiamo a clausole generali, ma interventi di minuto dettaglio. Il riferimento vale sia rispetto alle numerose norme del cosiddetto “collegato lavoro”, sia rispetto alla manovra economica dello scorso settembre, con riguardo in particolare all’articolo 8 del decreto legge 138 del 2011 (convertito nella legge n.148 del 2011), che contiene disposizioni a sostegno della contrattazione collettiva di prossimità. Come spiega l’avvocato esperto in diritto del lavoro, Andrea Stanchi, partner di StanchiStudioLegale di Milano, che vede tra l’altro al suo interno anche gli avvocati fondatori Vincenzo e Romolo Stanchi, e Annamaria Pedroni: «Questa norma – come tutte– una volta promulgata, inizia a vivere di vita propria, guidata solo dall’interpretazione. Ciò significa che, anche una norma così contestata e problematica, certamente ha molte applicazioni possibili e coerenti con le finalità dell’ordinamento». Cosa implica ciò in riferimento all’articolo 8, citato? «Parlando di questo articolo specifico, ciò significa che questa affermazione astratta va contestualizzata in un ordinamento che ormai vive su più fonti. Di queste il solo reale arbitro è, col giudice, l’operatore specializzato ed esperto, che non solo comprende bene la realtà delle esigenze degli assistiti, ma – grazie all’esperienza giudiziale – è in grado di costruire e offrire soluzioni armoniche con il sistema. Oltre che di rappresentarle efficacemente in giudizio, qualora se ne presenti la necessità. La velocità del cambiamento affida un ruolo importante "all'uomo di legge", come in tutte le epoche di transizione». Si riferisce alla moltiplicazione delle fonti? «La pluralità delle fonti è un problema complesso, che si ritrova non solo nell’interpretazione di norme “in bianco” - come potremmo definire l’art. 8 citato -, ma anche di quelle che presiedono a vicende organizzative dell’impresa. All’interno di queste ultime il trasferimento di rami di attività, outsourcing, prestazione di servizi transnazionali sono divenuti passaggi indispensabili per la ricerca della competitività, in cui occorre districarsi tra norme e deci-

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Contrattazione collettiva di prossimità • Andrea Stanchi

La rapidità del mutamento tecnologico pretende dai professionisti dell’impresa e dai loro consulenti esterni di “fare squadra”. Ovvero di lavorare insieme per governare secondo il migliore interesse possibile non solo l’innovazione ma anche gli effetti della tecnica

sioni di diversi livelli, interne ed europee. Allo stesso modo è divenuta fondamentale la consapevolezza delle problematiche e delle opportunità organizzative consentite dalla tecnologia». A quali opportunità fa riferimento? «Mi riferisco alle pratiche ormai invalse di remote working e quelle di remotizzazione delle competenze, che impongono la capacità di comprendere le molteplici problematiche di privacy, controllo sul lavoro a distanza, e responsabilità amministrativa dell’impresa. Consapevolezze che, se impongono ai professionisti HR di gestirne le nozioni, pretendono dall’avvocato giuslavorista di avere dimestichezza nel trattarle di fronte alle autorità che se ne occupano come, per esempio, il Garante della privacy». Qual è la situazione delle norme in merito a questo ordine di problemi? «La rapidità del mutamento tecnologico, da un lato, imporrebbe l’introduzione di regole più flessibili e meno generalizzanti per le imprese, e opportunità sono a mio giudizio contenute nell'art. 8 citato; dall’altro, l'ordinamento vivente sconta una concezione e la formazione di giudici e dottrina su di un mondo "fordista", sul quale le nozioni del diritto del lavoro sono costruite. Realtà che nulla hanno più a vedere con i portati moderni di infrastrutture, regole economiche, di organizzazione e di comC&P • GIUSTIZIA

petizione, che impongono velocità di mutamenti senza precedenti. I quali a loro volta generano problemi giuridici, che richiederebbero soluzioni ritagliate sul nuovo stato delle cose: cioè il cambiamento quale costante». In che modo quindi è di fatto mutata la figura dell’avvocato giuslavorista? «Nello scenario dei problemi attuali per il diritto del lavoro, l’avvocato non è soltanto un fornitore di servizi – schema a cui pare lo si voglia confinare –, al contrario è un supporto all’imprenditore per le strategie d’impresa. Deve sapere "fare squadra" con i professionisti HR. Anche ovviamente la modalità della prestazione - di fatto immutata da tempi immemori - è oggi all'alba di un radicale mutamento. Insomma non solo un gestore del contenzioso, bensì un supporto per evitarlo o ricondurlo a elemento del tutto residuale per la vita dell’impresa». In questo contesto, come si collocano la tutela della certezza del diritto e, soprattutto, il consiglio all’impresa sulla consapevolezza dei limiti di certezza possibili? «Entrambi pare non possano prescindere dalla valorizzazione del giusto processo, principio sancito dalla nostra carta costituzionale, attraverso la specifica garanzia dei caratteri di terzietà e imparzialità del giudicante, intesa come garanzia a un’attività interpretativa del giudice e alla rico77


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Contrattazione collettiva di prossimità • Andrea Stanchi

UNO STUDIO LEGALE RIVOLTO ALLE IMPRESE tanchiStudioLegale è stato fondato a Milano nel 1975 da Vincenzo e Romolo Stanchi, che all’epoca avevano già maturato una lunga esperienza nel campo del diritto del lavoro. Lo Studio è quindi stato nel tempo protagonista dell'evoluzione del diritto del lavoro e delle sue interpretazioni, specie giudiziali, in Italia. Il ruolo svolto nella pratica ha consentito di consolidare la clientela di grandi imprese italiane e multinazionali che si rivolgono ai suoi servizi di consulenza e di assistenza giudiziaria. Lunga esperienza e innovatività ne

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hanno fatto un attore di riferimento nei settori IT, dell’outsourcing, dei media – tradizionali su carta e on line –, dell’energia, dell’industria alimentare, della distribuzione, dei trasporti, del settore farmaceutico, dei servizi aeroportuali, della finanza, della moda, nel settore bancario e in quello, particolare, delle società proprietarie di squadre di calcio. La struttura compatta, formata dai soci e da sette professionisti, puntando sulla tecnologia, risulta dinamica e flessibile nell’organizzazione a team affidata ai soci Andrea Stanchi e Annamaria Pedroni.

Andrea, Vincenzo e Romolo Stanchi e Annamaria Pedroni di StanchiStudioLegale

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struzione di un’evoluzione coerente del sistema. Ciò contribuisce a cercare di evitare soluzioni differenziate che si sovrappongano al dato normativo, rendendolo ancor più disomogeneo e disfunzionale alle esigenze dei soggetti che nel diritto del lavoro dovrebbero poter trovare elementi di orientamento delle proprie attività e di tutela dei propri diritti». Quali modifiche normative sarebbero necessarie per arginare questo scivolamento nell’arbitrio? «L’operatore del diritto e nello specifico l’operatore del diritto del lavoro, in questo frangente storico, avverte la necessità che sia perseguita una rinnovata tutela del principio della certezza del diritto e ciò in contrapposizione al rischio divenuto insostenibile di trovarsi a dover fronteggiare applicazioni della norma spesso imprevedibilmente creative, variabili o non ragionate negli effetti conseguenti all’interpretazione. È infatti indispensabile – specialmente nel nostro settore – poter apprezzare ex ante la qualificazione giuridicamente corretta di comportamenti e scelte, quindi di poter in conseguenza individuare concreti spazi per pianificazioni e investimenti, nel rispetto di quei valori e quei principi che l’evoluzione dell’ordinamento, nell’intreccio fra fonti nazionali e sovranazionali, impone di osservare e tutelare con sempre rinnovati strumenti all’impresa che operi sul territorio del nostro Paese. Insomma occorre acquisire la consapevolezza che il diritto è "un bene" che consente, come altri, la valorizzazione e la competizione del sistema paese.Tema in realtà già sollevato dal caso Fiat, ma poco affrontato». Quale riverbero ha questa situazione sulla vita delle imprese, già gravate da un panorama economico complesso? «In questo momento di generali difficoltà economiche e vero e proprio disorientamento normativo, le questioni che la clientela avverte in modo specifico sono quelle relative a strategie che da un lato consentano di fronteggiare la crisi, ma dall’altro si muovano con relativa certezza tra continui interventi del legislatore in cui è difficile trovare sistematicità. In questo quadro, la difficoltà dell’assistenza è nel guidare e immaginare soluzioni che siano da un lato conservative del lavoro, efficaci nel contenimento dei costi, innovative concorrenzialmente e propedeutiche al rapido sviluppo nel momento della ripresa». C&P • GIUSTIZIA



Diritto del lavoro • Massimo Paradisi

Un nuovo approccio al lavoro Per risolvere in maniera costruttiva le problematiche che si presentano nel mondo del lavoro, secondo Massimo Paradisi è necessario reimpostare il rapporto fra avvocato giuslavorista, imprenditore e lavoratori di Amedeo Longhi

Massimo Paradisi esercita presso l’omonimo studio di Firenze e fa parte di un team di avvocati a cui si rivolge con regolarità la sigla sindacale Fisascat Cisl avv.massimoparadisi@patronus.it

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i sta aprendo una fase molto complessa e comunque assai stimolante per l’avvocato giuslavorista, nella prospettiva riformistica di adeguare il nostro mercato del lavoro alle attuali richieste. «È però necessario che ciò si determini nel rispetto della figura e del ruolo del professionista – aggiunge l’avvocato Massimo Paradisi – e con conseguente e contestuale affermazione di una cultura che gli assicuri di operare per il progredire di una necessaria collaborazione “virtuosa” con l’imprenditore, essendo questo un obiettivo imprescindibile nella realtà economica attuale, con riferimento in particolare alle Pmi, maggiormente colpite dai costi di eventuali sfiancanti contenziosi». Quali devono essere le basi per impostare i rapporti nel mondo del lavoro? «Stante la crescente esigenza di sempre maggiore competitività per le aziende e la necessità di ridurre e possibilmente controllare l’insorgere del contenzioso del lavoro, il ruolo che l’avvocato deve darsi è quello di affiancare in via preventiva l’imprenditore, in particolare nella gestione del personale e della struttura organizzativa, al fine di ridurre esponenzialmente la percentuale di rischio di contenzioso. L’evoluzione dei rapporti tra legale e imprese deve infatti orientarsi in questa direzione, con l’affermazione di una cultura e di una prassi secondo cui si arrivi a ritenere necessario e utile rivolgersi all’avvocato non al momento dell’insorgere del contenzioso, ma in via preventiva, e quindi in sede di preliminare consulenza nella scelta per esempio degli strumenti contrattuali da utilizzare per la gestione del personale, con soluzioni appropriate e congrue rispetto agli interessi evidenziati». In che modo si dovrebbero aggiornare ruolo e competenze degli avvocati? «Il perseguire una sempre maggiore specializzazione nella materia affrontata è e deve essere il fine a cui deve tendere ogni studio legale. È pertanto da condividere la scelta, ancora non integralmente definita, di introdurre modalità istituzionalizzate a livello nazionale di acquisizione di siffatte specializzazioni, in modo da assicurare ai professionisti la facoltà di avvalersi di titoli formalmente riconosciuti, anche al fine di associare l’esperienza maturata con una professionalità adeguatamente

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Massimo Paradisi • Diritto del lavoro

L’avvocato deve affiancare in via preventiva l’imprenditore, al fine di ridurre esponezialmente la percentuale di rischio di contenzioso

C&P • GIUSTIZIA

certificata, stante la formazione conseguita e continuamente aggiornata. Così facendo si garantisce anche al beneficiario ultimo di tale servizio un metro di valutazione, paragone e confronto che possa permettergli di scegliere consapevolmente tra le numerose offerte presenti sul mercato. Evidentemente, accanto a un ruolo per così dire di natura preventiva, che si associa a un’attività prevalentemente di consulenza, è logico e del tutto funzionale all’esecuzione del mandato acquisito assegnare all’avvocato il compito di filtro per evitare che il contenzioso già insorto sfoci poi in un processo davanti il Tribunale del lavoro». Esiste secondo lei un modello procedurale capace di migliorare la situazione? «Nel rito del lavoro era normativamente prevista una procedura per consentire alla parti di ritrovarsi in via preventiva e obbligatoria – costituendo tale passaggio una condizione di procedibilità dell’azione giudiziale – di fronte a un organo amministrativo, quindi non togato, di mediazione, ove poter discutere della questione insorta e trovare così una soluzione bonaria del conflitto in essere.Adesso tale procedura è soltanto facoltativa e quindi, in assenza di un filtro siffatto, il contenzioso si è oltremodo inasprito. Per questi motivi, appare del tutto inconcepibile che, proprio in ambito giuslavoristico, ove tale esperienza è nata e progredita, si sia voluto abbandonare la strada dell’obbligatorio preventivo tentativo di conciliazione, per intraprendere percorsi nuovi e diversi, invece di provare a migliorare e rendere più efficiente il sistema già in essere». Quale sarebbe in quest’ottica il ruolo dell’avvocato? «Dovrebbe assumere un ruolo di intermediario tra attori che sempre più di frequente si scontrano sulle questioni di fondo del mercato del lavoro. Il suo compito dovrebbe consistere nel privilegiare tali percorsi alternativi di risoluzione del radicato contenzioso, nella convinzione che il ricorso al magistrato si configuri come rimedio ultimo. Ciò evidentemente nel tentativo di perseguire una risoluzione più rapida possibile dei conflitti e un contenimento dei costi, utili per garantire alla nostre aziende quella maggiore competitività sul mercato di cui tanto si parla. Ma tale funzione dell’avvocato deve essere comunque perseguita in un contesto ove sia possibile arrivare a tanto, e dove vi siano oggettivamente le condizioni per garantire il perseguimento di tali fini». A questo proposito come dovrebbe intervenire il legislatore? «È necessario che da parte sua venga meno l’attuale e ripetuta “schizofrenia” legiferativa, nella consapevolezza che il supporto normativo attualmente in vigore non debba essere integralmente stravolto, ma più semplicemente adeguato e reso più funzionale alle esigenze di mercato in continua evoluzione. Tutto ciò risulta particolarmente difficoltoso alla luce della continua proliferazione di nuove normative che vengono via via introdotte nel nostro ordinamento, nella speranza, non sempre sufficientemente perseguita, di migliorare il “sistema lavoro”. Norme che poi, però, vengono sistematicamente sospese in attesa di una più precisa definizione della loro operatività, come nel caso della normativa detta del “collegato lavoro”». 81


Diritto del lavoro • Vincenzo Fabrizio Giglio

Riforme a costo zero per favorire l’impresa «È l’economia che traina il diritto, non viceversa». Vincenzo Fabrizio Giglio spiega la necessità di intervenire tempestivamente sulla semplificazione del sistema di diritto del lavoro. Con un corpo normativo che regoli la materia in modo finalmente organico di Nicoletta Bucciarelli

Vincenzo Fabrizio Giglio è avvocato in Milano presso lo studio Giglio & Scofferi –Studio legale del lavorowww.giglioscofferi.it

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allentamento della dinamica lavoro. “Prudenza” nell’assumere e, come risvolto della stessa medaglia, lavoratori qualificati che incontrano maggiori difficoltà nel cambiare lavoro, anche a causa del fatto che le retribuzioni offerte oggi sono frequentemente inferiori a quelle stipulate qualche anno fa. Sono alcune delle dinamiche che l’avvocato Vincenzo Fabrizio Giglio dello studio Giglio e Scofferi di Milano, da esperto di diritto del lavoro, riscontra nella propria esperienza professionale in Lombardia. Una regione in cui «anche il ricorso a riduzioni di personale e ammortizzatori sociali appare consistente». Molti, sia imprenditori che investitori, chiedono al nostro sistema di diritto del lavoro maggior semplicità e soprattutto flessibilità. «L’istanza di una maggiore semplicità non può che essere condivisa. I “codici” che oggi raccolgono le norme di legge rilevanti per il diritto del lavoro sono composti da oltre 2000 pagine e ospitano norme emanate a partire dal 1923 fino ai nostri giorni che regolano i più diversi aspetti del rapporto di lavoro tra datore e lavoratore. Una simile mole, unita ad una qualità tecnica e linguistica nella fattura delle norme sempre più scadente, crea molte difficoltà ai destinatari e fruitori, che sono appunto, in primo luogo, nell’ambito di nostro interesse, le parti del rapporto di lavoro. A mio parere, tale stato di cose non è affatto un male necessario e il suo superamento attraverso l’introduzione di un’opera organica sarebbe certamente meritorio. Esistono già delle proposte in tal senso ma fino ad oggi non hanno trovato la necessaria attenzione. Più complesso è il tema della flessibilità. A mio modo di vedere, una maggiore libertà in uscita dal rapporto di lavoro, indurrebbe una minore “prudenza” nell’assumere da parte delle imprese e, dunque, una maggiore facilità di trovare o cambiare lavoro. Ciò potrebbe risolversi, almeno per i profili professionali più elevati, in maggiori occasioni di valorizzare la propria professionalità e, dunque, la propria forza contrattuale; e, in definitiva, la propria retribuzione. Probabilmente, tuttavia, sarebbe diverso l’effetto per i lavoratori meno qualificati e dunque maggiormente bisognosi di una tutela giuridica che compensi la mancanza di forza contrattuale». Secondo il suo parere, una riforma del lavoro soprattutto in materia di neo assunti, potrebbe bastare

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Diritto del lavoro • Vincenzo Fabrizio Giglio

I “codici” che oggi raccolgono le norme di legge rilevanti per il diritto del lavoro ospitano norme emanate a partire dal 1923. Serve una semplificazione tempestiva

per far ripartire l’economia e dar quindi nuova credibilità al nostro paese? «Io credo che un corpo normativo che regoli la materia in modo finalmente organico, semplice e comprensibile da chi deve operare quotidianamente sarebbe senz’altro di aiuto. È l’economia che traina il diritto e non viceversa. Ma il diritto si pone quale infrastruttura indispensabile per chi intende fare impresa e può costituire uno straordinario volano di sviluppo o un grave fattore di rallentamento e costi. L’incertezza per chi fa impresa è un fattore di rallentamento, poiché incide sulla rapidità ed efficacia delle decisioni; ed è un costo, poiché talora induce ad affrontare spese legate unicamente all’imprevedibilità dei risultati delle proprie scelte». Dove bisognerebbe intervenire tempestivamente? «A mio modo di vedere un tema cruciale è quello delle relazioni sindacali. Oggi i rinvii della legge alla contrattazione collettiva o alle consultazioni sindacali sono numerosi e spesso determinanti. Il sindacato svolge quindi una funzione istituzionale che non è tuttavia accompagnata da una sua strutturazione istituzionale. Ciò determina delle incertezze, sia in merito ai soggetti sindacali di volta in volta interessati; sia in merito all’efficacia che le decisioni prese possono esprimere nei confronti dei lavoratori. Si tratta di un tema fortemente dibattuto sul quale si contrappongono visioni anche molto distanti: alcune organizzazioni sindacali vorrebbero raggiungere una soluzione per via sindacale; l’attuale Legislatore ha tentato di intervenire per via legislativa con l’ormai celebre articolo 8 della Manovra di Ferragosto che attribuisce alla C&P • GIUSTIZIA

contrattazione aziendale una delega estremamente ampia per regolare i rapporti di lavoro, anche in deroga alla legge. A mio parere, occorre ripartire dall’articolo 39 Cost. attuandolo o modificandolo in maniera da rendere possibile conseguirne gli obiettivi con strumenti adeguati ai tempi. Ma comunque attraverso una soluzione che deve necessariamente essere legislativa». Quali sono in questo ambito i problemi concreti che si trova quotidianamente ad affrontare? «Posso fare qualche esempio. Se un’azienda romana intende assumere due apprendisti in due regioni diverse deve fare i conti con le diverse regole regionali. In questa materia, per fortuna il recente testo unico sull’apprendistato sembra muoversi nella direzione di una maggiore uniformità. Se un’azienda di Torino intende procedere ad una riduzione collettiva di personale in Puglia deve sapere che uno degli organismi regionali coinvolti e presenti in altre regioni è stato soppresso da un tale comma di una tale legge finanziaria regionale che ne ha trasferito le funzioni all’assessorato regionale. Se un’azienda milanese con sedi sparse in tutta Italia intende ridurre il personale su tutto il territorio dovrà farsi carico di inoltrare le comunicazioni ai sindacati interessati in ogni provincia, avendo cura di reperire gli indirizzi e i numeri di fax di ciascuna di esse tramite l’elenco del telefono o siti internet più o meno affidabili o telefonando al centralino. In tutti questi casi, gli errori costano cari. A ben guardare, dunque, per favorire l’impresa e conseguentemente il lavoro, in molti casi basterebbero riforme a costo zero». 83


Diritto del lavoro • Wanni Torresani

Le esigenze del mercato del lavoro Semplificazione e flessibilità sono temi all’ordine del giorno per chi si occupa di diritto del lavoro. Ma sono esigenze a cui, oltre alle imprese, devono far fronte anche gli stessi avvocati. Ne parla Wanni Torresani

L’avvocato Wanni Torresani esercita la professione presso l’omonimo studio di Milano avvocato.torresani@libero.it

di Amedeo Longhi

l diritto del lavoro è sempre più interessato dalle pressanti richieste che giungono dalle imprese che, in questo momento di difficoltà, invocano l’aiuto del legislatore, a cui è chiesto in particolare di allentare la morsa che una burocrazia eccessivamente farraginosa esercita sull’attività imprenditoriale. Secondo Wanni Torresani infatti, «la semplificazione del diritto del lavoro è un’esigenza che va di pari passo con una maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita dal mondo professionale. Ciò non significa che debbano venire meno le tutele per i lavoratori, anzi, ma ci vogliono poche norme chiare e di facile applicabilità. L’esperienza mi ha dimostrato che la preoccupazione più grande delle aziende che assumono, soprattutto quelle medio-piccole, non è il costo del lavoro, ma quello dell’eventuale recesso. E questa incertezza frena le assunzioni e incentiva il ricorso a figure contrattuali atipiche». Quali sono gli ambiti che creano maggior problemi alle aziende in merito ai quali è richiesta assistenza? «Il primo nemico è la burocrazia e i suoi costi economici e sociali. Purtroppo esiste anche una crescente conflittualità a livello legale in parte causata dalla complessità della normativa vigente ma, sempre più spesso, avviata da chi ha finalità meramente speculative. Quindi la richiesta di assistenza, soprattutto delle piccole e medie aziende, va dal consiglio “di mero buon senso” alla gestione del contenzioso a ogni livello e, oggi più che mai, volto al recupero dei crediti in sofferenza». Può fare qualche esempio dei casi più frequenti di

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abuso del diritto? «La figura giuridica dell’abuso del diritto è di origine giurisprudenziale ed è servita per motivare delle decisioni altrimenti non sostenibili in base alla normativa vigente. Per la verità ho dovuto constatare che nel quotidiano viene praticata una sorta di “abuso del diritto” al contrario, nel senso che è la pubblica amministrazione che si avvale dei propri poteri e prerogative a danno del cittadino. Faccio un esempio pratico: lo Statuto del contribuente è una Legge della Repubblica italiana che dovrebbe regolare i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente. Di fatto lo Statuto è sconosciuto ai più e in molti casi non viene applicato. È vero che vi sono esigenze di cassa e che noi italiani non siamo i più virtuosi nel rapporto con il fisco, ma sono certo una sua applicazione più rigorosa potrebbe migliorare il rapporto tra Stato e contribuente a vantaggio della collettività». Anche lo stesso avvocato si trova a fronteggiare problematiche difficili. «L’esigenza è oggi ridurre i costi fissi a parità di servizio per gli assistiti, obiettivo non facile da raggiungere, se non aumentando, per quanto possibile, l’impegno lavorativo del titolare dello studio, anche solo per dare il buon esempio ai collaboratori. Tutto ciò a costo di enormi sacrifici fisici, mentali e degli affetti familiari. Da questo deriva l’importanza del ruolo dell’avvocato – con la “A” maiuscola – in una realtà sempre più complessa. La funzione che siamo chiamati a svolgere richiede spirito di servizio e abnegazione, spesso non quantificabili dal punto di vista economico». C&P • GIUSTIZIA



Responsabilità medica • Francesco Lauri

A tutela dei diritti del paziente Combattere la malasanità e tutelare i diritti dei pazienti, tra errori medici e compagnie assicurative sempre meno propense a rispettare i loro obblighi. Come intervenire per migliorare il sistema sanitario nazionale secondo l’opinione dell’avvocato Francesco Lauri di Guido Puopolo

L’avvocato Francesco Lauri, presidente dell’Osservatorio Sanità www.studiolegalelauri.eu www.osservatoriosanita.com

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ompagnie assicurative “latitanti”, che tendono a esulare dalle loro responsabilità, ed errori non solo del singolo medico ma, soprattutto, del sistema sanitario nella sua complessità. Sono questi i due filoni principali alla base dell’attività dell’avvocato Francesco Lauri, titolare dell’omonimo studio legale a Roma e presidente di “Osservatorio Sanità”, associazione che si occupa dell’analisi delle prestazioni sanitarie e della loro organizzazione. «In Italia abbiamo delle eccellenze invidiate da tutto il mondo», sottolinea Lauri. «I nostri professionisti sono tra i migliori in Europa, anche se purtroppo non mancano le eccezioni negative. Tra i tanti casi che trattiamo, più che quello singolo, spiccano gli errori di sistema. Mi riferisco alle segnalazioni d’infezioni, alle sviste sui farmaci o ai ritardati interventi chirurgici». Quale bilancio può trarre dai primi anni di attività dell’Osservatorio? «Il bilancio è positivo. L’Osservatorio è nato nel settembre 2007. Da subito abbiamo ricevuto molte segnalazioni, più di quanto previsto. Anche perché, nei primi tempi, non dico che eravamo una novità assoluta, ma certamente interessante, anche in virtù del fatto che il compenso dei professionisti è legato indissolubilmente al risultato conseguito in termini di risarcimento. Non va dimenticato che nella stessa struttura lavorano gomito a gomito avvocati e medici, il che determina un'attenzione maniacale alla documentazione ricevuta a supporto delle tante segnalazioni, e ciò al fine di evitare

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Responsabilità medica • Francesco Lauri

I casi di responsabilità da noi accertati, dopo un attento e scrupoloso screening delle segnalazioni ricevute, solitamente sfociano in un risarcimento per via extragiudiziale

che vengano intraprese azioni temerarie nei confronti di medici che non hanno commesso alcun errore. Sembrerà strano, ma il mio studio svolge un'attività di sostanziale, ancorché indiretta, tutela della classe medica». Cosa succede quando l’Osservatorio accerta la responsabilità e l’errore del medico? «I casi di responsabilità da noi accertati, dopo un attento e scrupoloso screening delle segnalazioni ricevute, solitamente sfociano in un risarcimento per via extragiudiziale. A parte i casi più gravi, comunque, che impongono il ricorso alla Procura, la maggior parte delle vicende sono errori, non dico scusabili, ma che possono fare parte del nostro attuale sistema sanitario. Come dicevo, tentiamo di evitare di trascinare i medici in giudizio, ma non è neanche giusto che la persona che ha subito un danno reale non debba ottenere giustizia. Il vero problema è la latitanza massiccia delle compagnie di assicurazione, che non danno seguito alle indicazioni dei loro stessi medici, spesso i primi a esprimersi a favore del risarcimento». Come è possibile ovviare a questa situazione? «Il nodo è che non c’è obbligatorietà di assicurazione per le strutture sanitarie. La compagnia non è, quindi, un soggetto direttamente confrontabile. Sulla base di questa fotografia della realtà, il futuro dell’Osservatorio è che opererà sempre nell’ottica della salvaguardia del Sistema Sanitario e dei medici. Il problema è che non ci si potrà esimere dal vedere aumentare il contenzioso, non solo per l’irreperibilità delle C&P • GIUSTIZIA

compagnie di assicurazioni. L’altra grande questione è rappresentata invece dalla conciliazione. La legge, infatti, in questi casi prevede di affidarsi a un mediatore, una figura che non ha però competenze né mediche, né legali. Il mediatore avrà l’impegno obbligatorio di dirimere controversie dalle specifiche difficoltà tecniche, il che è alla fonte del sostanziale fallimento della media conciliazione in materia di malpractice. Per questo ci sarebbe bisogno di un serio intervento da parte del legislatore, che obblighi le compagnie assicurative a rispondere immediatamente dei danni provocati. Una legge che incida, quindi, sul rapporto tra cittadino, strutture sanitarie e assicurazioni, perché di tutto abbiamo bisogno, tranne che di un soggetto ibrido e dalle competenze incerte, quale attualmente è il conciliatore». Oltre all’attività in ambito sanitario, il suo Studio in quali altri campi offre consulenza e supporto legale? «Lo Studio è una boutique firm creata nel 2000, con lo scopo di assicurare servizi di eccellenza in ambito giuridico. La politica dello studio è improntata all’analisi preliminare delle problematiche, al fine di legare l’impegno professionale al risultato, evitando perdite di tempo e denaro per il cliente. L’esperienza maturata dai singoli professionisti colloca lo studio in posizione privilegiata nell’ambito della tutela dei diritti dei consumatori e della finanza agevolata in favore di enti pubblici o privati, ma anche del diritto di famiglia e del diritto commerciale internazionale». 87


Responsabilità sanitaria • Antonello Patanè

La responsabilità medica Il medico chiamato a consulto ha gli stessi doveri del medico curante, per cui non può esimersi da responsabilità se adduce di aver solo valutato la specifica situazione. La parola ad Antonello Patanè di Emanuela Caruso

L’avvocato Antonello Patanè dello Studio Patanè e Associati di Roma patane@tiscali.it

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egli ultimi anni si è assistito a un progressivo aumento delle cause di responsabilità medica, in particolar modo di quelle relative alla responsabilità del dottore chiamato a consulto e dell’equipe medica, con un contenzioso che è aumentato del 200% rispetto ai 60 anni precedenti. Allo stesso modo, nell’ultimo decennio, si è riscontrato anche un notevole incremento dei casi di giurisprudenza favorevole a individuare la responsabilità sanitaria come causa dell’esito negativo di un intervento medico. Essendo, infatti, tutti gli operatori sanitari, dai medici ai paramedici agli specialisti, portatori di una posizione di garanzia, ovvero un obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto nei confronti del malato, la cui salute deve essere tutelata contro qualsiasi pericolo, ciascun dottore coinvolto nella cura di un paziente è responsabile tanto del rispetto delle regole di diligenza connesse alle sue mansioni, quanto della condotta degli altri medici curanti. Come spiega l’avvocato Antonello Patanè dello Studio Patanè e associati di Roma «le ragioni di queste nuove dinamiche in campo medico sono da rintracciare nella maggiore consapevolezza da parte del paziente dell’attività medico-chirurgica cui è sottoposto e nella pluralità dei soggetti ad alta specializzazione che, intervenendo in successione temporale sul paziente, sono quindi tutti potenzialmente passabili di responsabilità professionale». Quando si parla di posizione di garanzia del medico chiamato a consulto, la giurisprudenza fa riferimento al principio di affidamento, di che cosa si tratta? «Secondo il principio di affidamento, ciascun dottore può contare sull’adempimento da parte degli altri medici curanti dei loro specifici doveri ed essere quindi esente da responsabilità nel caso in cui un evento dannoso a scapito del paziente sia riconducibile alla condotta esclusiva di uno degli altri medici contitolari della posizione di garanzia.Va altresì detto che se l’inadempimento dei propri doveri da parte di uno dei medici è palese e facilmente riscontrabile, allora il principio di affidamento cessa». Può fare un esempio concreto del principio di affidamento? «Quando un medico generico chiama a consulto uno specialista, la responsabilità in ordine alla diagnosi e alla terapia viene attribuita soltanto a quest’ultimo. Ma se lo specialista incorre in un errore grossolano di cui il medico

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Responsabilità sanitaria • Antonello Patanè

Il principio di affidamento non opera se l’errore commesso da uno dei medici coinvolti nella cura del paziente era conoscibile dagli altri

generico può accorgersi con facilità, allora la responsabilità è di entrambi». Quali articoli del codice penale ricorrono in caso di responsabilità del medico chiamato a consulto e quale il miglior approccio legale da adottare? «Oltre agli articoli del codice penale riguardanti l’evento verificatosi, cioè morte o lesioni del paziente, rilevano l’articolo 40 del codice penale, che disciplina il rapporto di causalità, stabilendo che nessuno può essere punito per un reato se l’evento dannoso o colposo non dipende dalle sua azione od omissione; l’articolo 43 del codice penale, che disciplina l’elemento psicologico del reato e, per quello che in questa sede rileva, la colpa; e l’articolo 113 del codice penale che definisce la cooperazione nel delitto colposo, statuendo che quando l’evento è cagionato dalla collaborazione di più persone, ciascuna di esse soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. Per quanto concerne l’approccio legale da adottare, questo dipende dal singolo caso, tenuto conto della condotta contestata, nonché degli atti e dei documenti di cui si dispone». Di grande rilevanza è, perciò, il rapporto di causalità fra la condotta del medico chiamato a consulto C&P • GIUSTIZIA

e l’evento verificatosi. In che modo si accerta questa relazione? «Il modo più corretto per accertare il rapporto di causalità è quello di far ricorso alle c.d. leggi scientifiche di copertura, da apprezzare in termini di probabilità logica più che di probabilità numerica. In altre parole, è possibile ravvisare il nesso causale se l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento dannoso con un elevato grado di credibilità razionale, che si raggiunge quando per il giudizio controfattuale l’evento è riconducibile senza alcun dubbio alla condotta del medico». Cosa consiglia a un cittadino danneggiato dalla cattiva condotta di un medico chiamato a consulto? «Ormai, sempre più spesso, il cittadino lamenta episodi di mala sanità, che però andrebbero verificati di volta in volta, in quanto l’attività del medico è diventata più delicata e rischiosa di un tempo. In ogni caso, se si ritiene di essere stati vittime di un errore medico, anche se chiamato per un consulto, rivolgersi a un legale consente di inquadrare l’eventuale tipo di responsabilità e valutare l’opportunità di denunciare l’accaduto all’Autorità Giudiziaria che stabilirà se l’azione del medico è stata improntata secondo i principi di diligenza, prudenza e perizia, cardini dell’ars medica». 89




Evasione Fiscale • Cinzia Romagnolo

Strumenti sempre più efficaci L’Agenzia delle Entrate si aspetta quest’anno un ulteriore balzo in avanti nel recupero dell’evasione. «L’analisi del rischio per tipologia di contribuente – spiega il direttore aggiunto Accertamento Cinzia Romagnolo – è uno dei cardini dell’attività di controllo» Michela Evangelisti

Agenzia delle Entrate punta, per il 2011, a quota 11 miliardi. «E i risultati finora raggiunti – precisa Cinzia Romagnolo, direttore aggiunto Accertamento – sono assolutamente in linea con le previsioni». Nel corso del 2010 l’attività di recupero dell’evasione si è rafforzata rispetto agli esercizi precedenti; sono state recuperate entrate per circa 10,5 miliardi di euro, con un +16% rispetto ai 9,1 miliardi di euro del 2009. Un notevole balzo in avanti rispetto ai 3,7 miliardi recuperati nel 2001, anno di nascita dell’Agenzia, e ai 4,4 del 2006. La direzione centrale accertamento programma, indirizza e coordina l’azione di controllo. Come stanno evolvendo strategie e metodologie? «Le numerose misure antievasione messe in campo in questi ultimi anni rispondono a una precisa strategia: potenziare gli strumenti per intercettare le più diffuse forme di evasione e contrastarle più efficacemente, sia nella fase del controllo sia in quella del recupero effettivo del gettito pregresso. L’analisi del rischio per tipologia di contribuente (grandi contribuenti, imprese medie, imprese di piccole dimensioni e professionisti, enti non commerciali) è uno dei cardini dell’attività di controllo poiché permette di fare delle selezioni mirate». Di recente è partita la sperimentazione del nuovo “redditometro”. Come funzionerà? «Il nuovo redditometro rappresenta più uno strumento di compliance che di controllo; infatti sarà messo a disposi-

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Cinzia Romagnolo, direttore aggiunto Accertamento dell’Agenzia delle Entrate

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Cinzia Romagnolo • Evasione fiscale

Il fisco ha a disposizione un ventaglio di strumenti efficaci: probabilmente la principale difficoltà che si incontra nel nostro Paese è di carattere culturale zione dei contribuenti affinché possano misurare la coerenza tra quanto spendono e quanto dichiarano al fisco. La base di calcolo prende a riferimento cinque aree geografiche, undici tipi di nuclei familiari per cinquantacinque gruppi omogenei e oltre cento voci di spesa rappresentative di tutti gli aspetti della vita quotidiana che contribuiscono alla stima del reddito, ad esempio iscrizione a club esclusivi e palestre, gioielli. Lo strumento, in buona sostanza, punta alla “coerenza” del reddito dichiarato rispetto alla capacità di spesa, e solo in presenza di un elevato scostamento tra i due fattori fa scattare la fase del controllo». Quanto conta lo sforzo di cooperazione per combattere l’evasione fiscale e, al contempo, incrementare la fiducia dei contribuenti italiani? Quali risultati vi aspettate, in particolare, dalla collaborazione con commercialisti e Comuni? «L’Agenzia delle Entrate ha inaugurato da diversi anni una C&P • GIUSTIZIA

fitta collaborazione con l’Inps e la Guardia di Finanza, attraverso un sistema di scambio dati. Un ruolo centrale, poi, è riservato alla collaborazione con i Comuni, che sta dando risultati in linea con le attese sia in termini di numero di segnalazioni utili all’avvio di controlli e accertamenti, sia in termini di maggiori imposte accertate e sanzioni. Inoltre, esiste da tempo una collaborazione con i commercialisti, con i quali sono stati siglati diversi protocolli d’intesa a livello regionale. Dunque, ci aspettiamo di continuare su questa strada perché i risultati finora ottenuti dalla sinergia con gli altri interlocutori istituzionali sono stati utili al rafforzamento del recupero dell’evasione e alla semplificazione del rapporto con i contribuenti». Nella recente manovra finanziaria sono presenti nuove norme relative alla lotta all’evasione. Quale scenario si prospetta? «Negli ultimi anni Governo e Parlamento hanno varato numerose norme che ci hanno consentito di incrementare i risultati raggiunti nel recupero dell’evasione. Tra le misure più efficaci, il contrasto alle indebite compensazioni e alle frodi Iva, il rafforzamento delle misure cautelari, lo spesometro e il nuovo redditometro. L’ultima manovra, inoltre, permette al fisco di utilizzare i dati finanziari presenti nell’anagrafe dei conti correnti per la formazione di liste di contribuenti che presentano anomalie rispetto ai dati dichiarati. In questo modo, possiamo focalizzare in maniera estremamente precisa il rischio di evasione, migliorando ulteriormente la qualità della nostra azione di recupero». 93


Evasione Fiscale • Cinzia Romagnolo

Secondo stime ufficiali, l’evasione fiscale sottrae ogni anno allo Stato circa 120 miliardi di euro

In particolare la manovra ha introdotto alcune norme relative alle cosiddette società di comodo. Scoprirle non sempre è un compito facile: quali sono le armi a disposizione del fisco? «È in atto una stretta sulle società di comodo, cioè quelle imprese che non sono create per esercitare un’attività economica, ma solo per sfruttare i vantaggi (come la deducibilità dei costi) che derivano dall’intestare dei beni, anche di lusso, a una società. Le ultime misure prevedono un innalzamento dell’aliquota Ires sul reddito minimo delle società di comodo di 10,5 punti percentuali. Le società in perdita fiscale per 3 anni consecutivi si considerano non operative a partire dal quarto periodo d’imposta. Un’altra norma affina ulteriormente le armi del fisco su questo fronte: se il corrispettivo annuo stabilito per il godimento di beni dell’impresa da parte di soci o familiari è inferiore al valore di mercato, la differenza costituisce reddito per gli utilizzatori e i costi relativi a questi beni non sono deducibili. Infine, è diventato obbligatorio comunicare i dati relativi a questi rapporti: l’Agenzia effettuerà dunque controlli sistematici sulla posizione fiscale degli utilizzatori dei beni». Si parla addirittura di 200 miliardi l’anno, rispetto ai quali i 10,5 recuperati risultano una minima parte. È possibile fare una stima veritiera rispetto al valore dell’evasione fiscale nel nostro Paese? «Secondo stime ufficiali, l’evasione fiscale sottrae ogni anno allo Stato circa 120 miliardi di euro. Dal 2008 al 2010 l’Agenzia ne ha recuperati circa 30. Se poi consideriamo il lavoro svolto insieme a Inps e a Equitalia, nel solo 2010 ab94

biamo scovato complessivamente 25,4 miliardi. Questo prova che il fisco ha a disposizione un ventaglio di strumenti estremamente efficaci. Con l’ultima manovra, poi, si è chiuso il cerchio grazie a una serie di misure che vanno a potenziare in maniera straordinaria i mezzi a disposizione del fisco per intercettare e combattere le più diffuse forme di evasione, ma anche a scoraggiare il fenomeno “a monte”, generando tax compliance». L’evasione è dunque un problema culturale o gli strumenti legislativi per accertare e sanzionare dovrebbero essere resi più efficaci? «Probabilmente la principale difficoltà che si incontra nel nostro Paese è di carattere culturale. Per dare il proprio contributo anche su questo fronte, dal 2002 l’Agenzia porta avanti, d’intesa con il Miur, il progetto “Fisco e scuola”, per insegnare ai più giovani che pagare le tasse è un gesto di civiltà. Allo stesso scopo, la scorsa estate è stata lanciata una campagna pubblicitaria che presenta l’evasore fiscale per quello che è: un parassita della società». Oltre all’evasione c’è un modo più sottile e ambiguo di non pagare le tasse: l’elusione. È possibile quantificarla? Gli strumenti a disposizione del fisco per accertarla sono adeguati? «Proprio perché l’elusione fiscale si muove sulla sottile linea di confine di aggiramento delle norme rispetto alla diretta violazione, non ci sono stime ufficiali. Ciò posto, occorre la definizione di un quadro normativo certo in materia di elusione, come ad esempio una norma anti-elusiva di carattere generale che, codificando il principio dell’abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza sia italiana sia comunitaria, possa permettere di contrastare a tutto campo questo tipo di comportamenti. La lotta all’elusione, che trova fondamento nel principio costituzionale di capacità contributiva, deve garantire, nel contempo, certezza ai contribuenti e alla stessa amministrazione finanziaria, attraverso criteri uniformi di contestazione dell’abuso e adeguate garanzie procedurali». C&P • GIUSTIZIA



Evasione fiscale • Claudio Siciliotti

Controlli mirati e regole certe «Un’azione antievasione che sia efficace senza diventare però feroce». Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, sottolinea l’importanza di costruire una certezza dei diritti e dei doveri di Michela Evangelisti

l primato del nostro Paese, secondo solo alla Grecia nella classifica dell’evasione fiscale, è riconducibile, secondo Claudio Siciliotti, a ragioni in parte intrinseche al rapporto tributario, in parte quasi sociologiche. «In primo luogo la pressione fiscale è molto alta; elemento che ci differenzia dalla Grecia, dove la pressione è decisamente più bassa – precisa –. D’altro canto da noi, anche se in misura inferiore rispetto alla Grecia, è elevato il livello di inefficienza nella spesa pubblica e di sfiducia dei cittadini nelle istituzioni». Infatti ha affermato che, per eliminare davvero il problema dell’evasione, occorrerebbe partire dalla riduzione della pressione fiscale. «Esatto, che però è resa al momento virtualmente impossibile dal fatto che anzi, a breve, dovrà aumentare, per effetto degli impegni già presi nelle manovre estive: fino a quasi il 45% nel 2013, e probabilmente il dato reale sarà addirittura superiore a questa percentuale. Quello che si può fare allora è andare a costruire un prelievo che sia meno iniquo nella sua distribuzione tra redditi di lavoro e redditi patrimoniali». In che modo? «Nel contesto di un sistema che funziona può aver senso tassare di più il reddito di lavoro e meno quello di derivazione patrimoniale, ma in un paese come il nostro, dove la ricchezza si è formata in anni caratterizzati da un’elevatissima evasione fiscale, ritenere che il risparmio accumulato abbia già subito una tassazione alla fonte significa dare per scontato qualcosa che così scontato non è. Inoltre, non bisogna fare confusione tra tassazione che colpisce i patrimoni, sulla quale è sicuramente opportuno andare più cauti, e tassazione che colpisce i frutti dei patrimoni. É per noi inspiegabile che, a parità di

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reddito, sia tassato di più colui che trae il suo sostentamento dal lavoro e dalla produzione rispetto a chi lo trae dal patrimonio. Il nostro paese deve tornare a crescere: il risparmio va sicuramente tutelato, ma non a discapito del lavoro e della produzione, altrimenti si finisce non per tutelare il risparmio, ma per proteggere chi ha già risparmiato, rendendo impossibile risparmiare a chi non l’ha già fatto». Qual è la vostra opinione a proposito dell’efficacia dei controlli? «Riteniamo che dal nuovo redditometro possa derivare un impulso forte nel contrasto dell’evasione da parte dell’amministrazione finanziaria. Fermo restando che l’utilizzo di questo strumento non dovrà essere automatico, ma a supporto della selezione delle posizioni da assoggettare poi a controlli analitici. Nonostante la legge autorizzi un uso automatico, a nostro parere sbagliato, l’Agenzia delle Entrate ha mostrato l’intenzione di seguire la strada da noi indicata. Una dichiarazione di intenti che ci fa molto piacere, ma saremmo ancora più contenti se la norma venisse adeguata, piuttosto che lasciare aperti possibili ripensamenti futuri». Lei ha sottolineato più volte anche l’importanza di costruire una certezza dei diritti e dei doveri. «Innanzitutto occorre far sì che leggi di condono non possano più essere approvate con la semplice maggioranza parlamentare, ma che richiedano delle convergenze ampie, in modo da tornare ad essere ciò che dovrebbero: non uno strumento utilizzato nella storia del nostro paese con triste ordinarietà, a servizio delle esigenze di gettito del governo di turno, ma un provvedimento straordinario, sul quale non poter fare affidamento. L’uso smodato che ne è stato fatto ha infatti avuto l’effetto di aumentare la disaffezione fiscale. C&P • GIUSTIZIA


Claudio Siciliotti • Evasione fiscale

Claudio Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili

Occorre un prelievo meno iniquo nella sua distribuzione tra redditi di lavoro e redditi patrimoniali

Altro intervento importante per ripristinare la certezza delle regole è andare a normare in modo più puntuale il cosiddetto “abuso del diritto”, un problema molto sentito tra gli operatori economici e gli imprenditori, che crea spesso contenziosi con il fisco in presenza non di vere e proprie violazioni di norme ma solo di presunte pianificazioni fiscali ritenute troppo aggressive. È indubbio che in taluni casi le contestazioni del fisco siano corrette, molte altre volte però sono alquanto discutibili: bisogna trovare una linea di confine, altrimenti sarà difficile, in un quadro eccessivamente magmatico di rapporti con l’amministrazione finanziaria, che possano fiorire investimenti dall’estero e insediamenti produttivi in Italia». A suo avviso è un errore utilizzare il recupero dell’evasione per fare cassa. Come andrebbero allora impiegate queste somme? «Il presupposto di partenza per costruire un giusto equilibrio nella lotta all’evasione fiscale, ovvero un’azione che sia efficace senza diventare però feroce, è un patto tra Stato e cittadino, per il quale il recupero di gettito derivante dalla lotta all’evasione fiscale cessi di essere utilizzato a copertura di spese e venga accantonato in un fondo da utilizzare periodicamente in sede di legge finanziaria a copertura di riduzioni delle imposte. Questo elemento accrescerebbe la compartecipazione del cittadino alla lotta all’evasione, laddove oggi la percepisce non a suo favore ma come una lotta tra lui e lo Stato, e aiuterebbe anche la stessa amministrazione finanziaria ad avere minori pressioni sugli obiettivi quantitativi di gettito da raggiungere». Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha confermato il sequestro preventivo nei confronti del C&P • GIUSTIZIA

professionista che concorre alla realizzazione dell’illecito tributario con l’azienda di cui è depositario delle scritture contabili. Cosa ne pensa? «Nella misura in cui sia adeguatamente provato, non con mere presunzioni, che un professionista non è stato semplicemente l’esecutore di un disegno del suo cliente ma addirittura il soggetto che ha architettato un comportamento criminoso, è logico che in qualità di soggetto che ha concorso al reato sia coinvolto anche nelle conseguenze di tipo penale e patrimoniale». La legge di stabilità parla di una riforma degli ordini professionali. Come auspicate che il nuovo governo si rapporti al vostro ordine? «Auspichiamo innanzitutto che si rapporti, che ci sia consapevolezza del fatto che è opportuno fare la riforma delle libere professioni insieme alle professioni stesse. Certamente non dobbiamo cadere in un modello concertativo che blocca tutto a priori: qualche interlocutore delle professioni eccessivamente protezionista non può pretendere di esercitare una sorta di diritto di veto. Ma nel mondo delle professioni ci sono grandi aperture a una riforma, che non sia un’abrogazione, e tra queste voci aperte al dialogo c’è senza dubbio quella dei commercialisti. Dobbiamo partire dal superamento del concetto dei professionisti come una casta di privilegiati, da combattere o da blandire. Gli iscritti all’albo sono semplicemente un pezzo del paese, 2milioni in tutto: questo mondo eterogeneo va affrontato per quello che è, togliendo sacche di privilegio dove ve ne sono. Queste sacche non coincidono con i percorsi formativi e gli esami di stato, che sono elementi di qualificazione, bensì con le esclusive laddove non giustificate, con i numeri chiusi laddove non giustificati». 97


Evasione fiscale • Daniela Gobbi

Il punto sul contenzioso Le prospettive future per il sistema della giustizia tributaria non sono favorevoli. «Destinare al suo rafforzamento le risorse derivanti dall’introduzione del contributo unificato» è una delle proposte di Daniela Gobbi di Michela Evangelisti

econdo l’ultima relazione di monitoraggio sullo stato del contenzioso tributario e sull’attività delle relative commissioni, nel 2010 il numero totale di ricorsi presentati, considerando entrambi i gradi di giudizio, è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al 2009; nel dettaglio, però, risulta diminuito presso le commissioni provinciali e aumentato presso quelle regionali. «Questa inversa tendenza, che vede un aumento dell’11% circa degli appelli, potrebbe rappresentare il sintomo di un’accresciuta attenzione dei contribuenti alla definizione a proprio favore del contenzioso e alla salvaguardia dei propri interessi – commenta Daniela Gobbi, al vertice del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria –. La crisi economica, già presente nel 2010, ha certamente avuto il suo effetto nello stimolare i ricorrenti a non prestare acquiescenza al giudizio di primo grado, tentando di sovvertirlo nel grado successivo». Per quanto riguarda le decisioni assunte dai giudici, nelle commissioni regionali gli esiti favorevoli al contribuente superano il 45% dei casi. Un dato decisamente alto. Cosa non funziona nel modo di portare avanti gli accertamenti sugli evasori? «Compito del giudice non è quello di esprimere valutazioni in merito al modus operandi degli uffici impositori, ma esclusivamente di valutare le ragioni esposte dai ricorrenti alla luce dei dettati normativi. Il prevalere delle ragioni dei contribuenti rispetto a quelle degli uffici finanziari, d’altronde, non è un dato di quest’anno, ma una

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tendenza confermata da almeno un triennio e che il Consiglio di presidenza ha sempre segnalato. Risposte più efficaci alla domanda potrebbero venire anche da una puntuale analisi delle imposte oggetto delle decisioni dei giudici regionali: difatti nelle tabelle del 2010 in primo piano tra gli esiti favorevoli al contribuente troviamo le sentenze sulla materia dell’Irap, e ben sappiamo come in questi ultimi anni l’applicazione di tale imposta ad alcune categorie produttive sia risultata priva dei necessari presupposti». Nonostante l’ampia fetta di esiti favorevoli al contribuente, sono entrate in vigore ed entreranno ulteriormente in vigore norme che rendono sempre più spedita la riscossione di ciò che viene accertato. Cosa ne pensa? «Le richieste di sospensiva degli atti impugnati sono in questi ultimi anni in costante aumento (33% in più solo nel 2010) e l’avvio ad ottobre di quest’anno della nuova disciplina che rende direttamente esecutivi gli avvisi di accertamento senza bisogno di attendere il ruolo fa ritenere che ce ne sarà un’ulteriore crescita esponenziale con un congestionamento del lavoro delle commissioni. Proprio perché le nuove norme approvate tendono a rendere più spedita la riscossione, il vero problema a mio avviso è quello di continuare a garantire la tutela degli interessi dei contribuenti e degli enti impositori con una migliore ed efficace attività della giustizia tributaria, potenziandone gli organi e dotandoli di efficaci strumenti di lavoro». Il sistema di giustizia tributaria potrebbe essere ul-

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Daniela Gobbi • Evasione fiscale

La crisi economica ha stimolato i ricorrenti a non prestare acquiescenza al giudizio di primo grado teriormente snellito e velocizzato? «La giustizia resa dalle commissioni tributarie è senza dubbio la più veloce del nostro sistema giudiziario. I tempi di deposito delle sentenze dalla data di presentazione del ricorso sono circa 2 mesi dalla discussione in udienza. Un tempo record. Le prospettive sono meno favorevoli. Per azzerare l’arretrato, presente perché in generale gli organici sono insufficienti, il Consiglio di presidenza ha disposto il ripristino delle 4 udienze mensili per collegio. A breve entreranno a far parte del corpo giudicante 960 nuovi giudici tributari, tutti provenienti dalla magistratura ordinaria, amministrativa, contabile e militare. Astrattamente si può ritenere che la presenza di nuovi giudici accelererà il processo di smaltimento dell’arretrato». E invece? «Da alcune parti è stato evidenziato il timore che, trattandosi di ingressi riservati ai soli magistrati di carriera, la maggior parte dei quali già ampiamente oberati dal carico di lavoro presente nelle amministrazioni di rispettiva provenienza, il problema dell’arretrato potrebbe non trovare soluzione, anzi, essere destinato ad aumentare. Il Consiglio di presidenza potrebbe ovviare ai problemi di avvio e riorganizzazione del sistema giudiziario monitorando le singole situazioni delle commissioni tributarie, ma i recenti tagli di bilancio, che hanno ridotto la dotazione finanziaria di circa il 45% rispetto a quella riconosciuta nel 2007, ha di fatto impedito che proseguisse nella ricerca di soluzioni specifiche e di pronta applicazione». Le recenti manovre hanno introdotto numerose no-

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vità anche in materia di processo tributario. «In primo luogo si rileva l’introduzione dell’accertamento esecutivo, i cui effetti possono essere temperati solo da una pronuncia di sospensione cautelare del provvedimento in sede giudiziale. Diversamente, il contribuente prima dovrà pagare e poi, se ha presentato ricorso, sperare in una sentenza favorevole. Vi è comunque da osservare che l’introduzione del contributo unificato, in un primo tempo pensato per reperire nuove risorse da destinare alla giustizia tributaria e al miglioramento complessivo del sistema, di fatto si sta traducendo in un’entrata certa per lo Stato, la cui destinazione non è ancora stata definita. Se le risorse non saranno devolute in massima parte al miglioramento della giustizia tributaria, si potrà affermare che il contribuente sarà stato penalizzato due volte. In primo luogo perché per difendersi dal pagamento di un tributo che reputa ingiusto o illegittimamente preteso dovrà versare un ulteriore tributo, in secondo luogo perché, anche se dovesse risultare vincitore, comunque avrà versato un’imposta per la quale non è previsto il rimborso». Come ovviare dunque al problema? «Destinando le risorse agli organi che operano a favore della giustizia tributaria, alla formazione e all’aggiornamento dei giudici, al potenziamento delle strutture e al loro ammodernamento, ai giudici tributari stessi, riconoscendo loro un compenso idoneo alla funzione che svolgono, in modo tale che l’intero sistema ne tragga un miglioramento in termini di efficienza e produttività: così i vantaggi avrebbero un ritorno concreto sul contri-

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Evasione fiscale • Daniela Gobbi

Il prevalere delle ragioni dei contribuenti rispetto a quelle degli uffici finanziari è una tendenza confermata da almeno un triennio 100

buente». Per chiudere più facilmente le liti minori pendenti è stato definito un mini condono riguardante le cause tributarie di valore inferiore ai 20 mila euro. Servirà ad alleggerire il lavoro delle commissioni? «Alla data di entrata in vigore della norma che permette la definizione dei ricorsi presentati contro l’Agenzia delle Entrate e di importo inferiore a 20.000 euro il numero di essi è stato stimato in circa 290.000 sui 624.000 pendenti. In termini percentuali rappresenterebbero quindi circa il 46% del totale arretrato e, ovviamente, il loro smaltimento con tale procedura semplificata alleggerirebbe non poco il numero di quelli che i giudici tributari sono chiamati a decidere; tuttavia il vero dato significativo sarà quello del numero di coloro che decideranno di utilizzare lo strumento della definizione extragiudiziale. Solo allora potrà esserne valutato l’impatto sul lavoro ordinario delle commissioni». C&P • GIUSTIZIA



Evasione fiscale • Carlo Federico Grosso

Accertamenti più efficaci Nell’ultima manovra finanziaria sono state introdotte norme ancora più restrittive contro l’evasione fiscale. Come ricorda l’avvocato Carlo Federico Grosso, il primo passo è costituito dagli accertamenti che devono rappresentare l’arma principale per scoprire gli evasori di Nicolò Mulas Marcello

l ministero delle Finanze ha stimato che nel nostro Paese l’evasione fiscale di massa ammonta a circa 110 miliardi di euro. Ma qual è il confine tra la questione culturale e la mancanza, rispetto agli altri paesi, di sanzioni adeguate per chi evade il fisco? Da questo punto di vista le norme nel nostro ordinamento certamente non mancano, ma gli accertamenti, secondo il professor Carlo Federico Grosso, evidenziano una carenza strutturale nella loro realizzazione. «Si tratta sia di una questione culturale, in quanto il cittadino medio italiano ritiene che rubare al fisco non costituisca un il-

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lecito ma sia dimostrazione di furbizia, che di organizzazione giuridica. Sotto questo secondo profilo, più che di carenza di sanzioni adeguate contro gli evasori parlerei, soprattutto, di carenze perduranti nel sistema degli accertamenti, in larga misura dovute alla mancanza di una reale volontà politica di prevenire e reprimere tale fenomeno». Per i reati penali tributari sono state ridotte le soglie per le quali scatta la sanzione penale in materia di reati tributari, con la possibilità di carcerazione immediata per i maxi evasori. L’inasprimento delle pene potrà servire ad arginare in qualche modo questo malcostume? «Nella misura in cui la sanzione penale è utile a disincentivare dalla commissione degli illeciti (e questa utilità esiste sicuramente, anche se, in concreto, risulta appannata dalla inefficienza complessiva della giustizia italiana), ampliare l’ambito di applicazione delle sanzioni e prevedere la possibilità di incarcerazione immediata nei casi di maggior gravità può avere una sua efficacia. Come ho già detto, mi sembra che il terreno di intervento più utile sia, comunque, quello dell’affinamento dei meccanismi di ricerca e accertamento delle evasioni fiscali da parte degli uffici finanziari e della Guardia di Finanza». Anche per la prescrizione dei reati tributari si è pasC&P • GIUSTIZIA


Carlo Federico Grosso • Evasione fiscale

I meccanismi di accertamento a mio avviso costituiscono il mezzo più importante di lotta all’evasione

A sinistra, Carlo Federico Grosso, professore ordinario di diritto penale nell’Università di Torino

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sati dai 6 agli 8 anni e, inoltre, viene previsto che il patteggiamento possa essere richiesto solo nel caso in cui venga estinto il debito fiscale. Qual è l’efficacia di queste misure? «Rendere più difficile l’estinzione dei reati a causa del sopraggiungere della prescrizione possiede un indubbio effetto rafforzativa dell’efficacia preventiva della sanzione. Il problema non riguarda tuttavia soltanto il settore dei reati fiscali, ma tutti i settori di reità». Oggi i Comuni hanno più potere nella lotta all’evasione. Grazie alla collaborazione con Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza sarà più facile individuare i redditi occultati. I controlli sono il primo passo per scoprire le evasioni. Secondo lei questa è un’altra carenza del nostro sistema? «Si tratta, in realtà, di una misura particolarmente utile, in quanto costituisce strumento di affinamento dei meccanismi di ricerca e accertamento dell’evasione fiscale, che, come ho detto, a mio avviso costituiscono il mezzo più importante di lotta al fenomeno dell’evasione fiscale. Ben vengano, pertanto, ulteriori interventi su questo terreno. Ma non ho l’impressione che la lotta all’evasione fiscale sia, tuttavia, davvero al centro dell’attenzione e della volontà politica di governo e Parlamento (o lo sia comunque stato)». 103


Violazioni fiscali • Studio Bana

Rischi penali nella pianificazione fiscale L’apertura di procedimenti penali a carico di amministratori delle società per violazioni fiscali, rende di estrema attualità il problema del rischio penale nelle scelte di pianificazione fiscale. Ne abbiamo discusso con gli avvocati dello Studio Bana di Nicoletta Bucciarelli

Lo Studio Bana ha la sede a Milano www.studiobana.it

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ei moderni sistemi di tassazione aziendale, vista la pluralità di regimi fiscali tra loro intrecciati e correlati, il contribuente può scegliere il modo meno oneroso fiscalmente per realizzare le operazioni economiche. La “lecita pianificazione fiscale”, cioè la scelta, tra due regimi fiscali alternativi, messi a disposizione dall’ordinamento con pari dignità, degenera qualche volta in espedienti e scappatoie formalmente leciti, ma disapprovati sostanzialmente dallo spirito del sistema. Si prenda per tutti ad esempio il caso dell’elusione fiscale, in cui ci si serve di imperfezioni o altri sfasamenti normativi al fine di aggirare i principi sistematici di alcuni settori della tassazione. La pianificazione fiscale pertanto, attività importantissima nel quadro delle scelte strategiche dell’impresa, si trova sempre più spesso, nel corso di questi ultimi anni, a dover fronteggiare proprio il rischio penale. Questo dipende dal vasto ambito di applicazione delle norme penali tributarie e da alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali. Ne abbiamo parlato con i professionisti dello Studio Bana, attivi da anni nel settore dei reati tributari. Quali sono le cause che stanno dietro l’aumento di procedimenti penali per reati tributari a carico di amministratori di società? FABIO CAGNOLA: «Una delle cause del proliferare di procedimenti penali è senza dubbio l’interpretazione che ad alcune norme della legge penale tributaria viene data dalle autorità fiscali, secondo le quali ogni violazione delle norme fiscali superiore a determinati importi (le cosiddette “soglie di punibilità”, decisamente basse se riferite alle società di medie-grosse dimensioni), anche se non commessa con l’uso di mezzi fraudolenti, integra una violazione penale. E, per quanto una parte della magistratura non condivida tale approccio, ogni verifica fiscale nella quale vengono contestate violazioni che superino le soglie di punibilità sfocia inevitabilmente in un procedimento penale. Questo dipende dal fatto che le autorità fiscali hanno l’obbligo di segnalare la violazione alla Procura della Repubblica, senza poter procedere ad alcuna

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Studio Bana • Violazioni fiscali

Le autorità fiscali, specie nel settore delle società multinazionali, a volte non valutano le implicazioni dell’appartenenza della società a un gruppo multinazionale e quindi la necessità di valutarla in un’ottica globale C&P • GIUSTIZIA

valutazione in diritto. Un altro fattore è l’atteggiamento assunto sempre più spesso dalle stesse autorità fiscali che, specie nel settore delle società multinazionali, a volte - a mio giudizio - non valutano adeguatamente le implicazioni dell’appartenenza della società a un gruppo multinazionale e quindi la necessità di considerarne la politica fiscale in un’ottica globale, non limitata alla prospettiva del fisco italiano». Possiamo quindi dire che nella pianificazione fiscale si annida oggi un rischio di procedimento penale? GIACOMO GUALTIERI: «Direi proprio di sì in quanto la possibilità che nel corso di un’ispezione fiscale vengano contestate voci che superano le soglie di punibilità e che quindi le autorità fiscali inoltrino rapporto alla Procura della Repubblica è, specie per le società di medie-grosse dimensioni, frequente». Ma che cosa comporta per l’amministratore di una società la pendenza di un procedimento penale a suo carico? G.G.: «Certamente una grande preoccupazione: si tratta infatti il più delle volte di soggetti che hanno effettuato il trattamento fiscale di determinate voci, sia confidando nei dati e nelle informazioni ricevute dalle strutture competenti della società, sia nei pareri di professionisti esterni, e che faticano quindi a comprendere perché si trovano a dover affrontare una vicenda penale. Per di più, molto spesso si tratta di cittadini stranieri residenti all’estero, ai quali diventa ancora più difficile spiegare le logiche del nostro sistema normativo tributario e penale-tributario. E non sono solo preoccupazioni per la pena che potrebbe essere inflitta al termine di un procedimento penale: la legge penale fiscale, infatti, prevede anche la possibilità di sequestrare il profitto del reato in corso di procedimento, a carico sia della persona fisica che della società». Quali sono i settori dell’attività d’impresa che maggiormente si sono trovati al centro di procedimenti penali per reati tributari? ANTONIO BANA: «Principalmente, quelli dei prezzi di trasferimento, i ‘transfer pricing’, che vengono spesso 105


Violazioni fiscali • Studio Bana

Quando si può provare che l’amministratore si è premurato di verificare la correttezza delle proprie scelte in materia fiscale, si può escludere che abbia agito con dolo e che quindi debba rispondere penalmente

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contestati dalle autorità fiscali. I cosiddetti ‘costi di gruppo’, e cioè i costi che la casa-madre alloca presso le consociate quali corrispettivi per la fruizione di servizi che la casa madre svolge. C’è poi la ‘stabile organizzazione’, che ricorre ogniqualvolta le autorità fiscali ritengano che presso una società italiana appartenente ad un gruppo multinazionale operi una succursale della società straniera che non produca reddito tassato in Italia e, infine, le ‘esterovestizioni’, ossia società aventi sede all’estero che il fisco ritiene invece soggette a tassazione italiana. Altro settore in cui pure è frequente il sorgere dei procedimenti penali è quello delle accise». In questi ultimi tempi si è sentito parlare spesso di ‘elusione fiscale’ o ‘abuso del diritto’: quale è il riflesso penale di tali istituti? MARCELLO BANA: «Vi è un dibattito aperto in dottrina e in giurisprudenza sul fatto se il fenomeno elusione/abuso del diritto possa dare effettivamente luogo a violazioni di natura penale. Personalmente, io ritengo di no, dal momento che in tali casi il contribuente pone in essere operazioni sotto tutti i profili di diritto valide e legittime, che vengono però dichiarate dal fisco non opponibili in quanto giudicate prive di valide ragioni economiche. Punire penalmente il contribuente, non perché abbia violato una norma fiscale - come avviene nel caso di evasione - ma soltanto in quanto, secondo il giudizio assolutamente discrezionale delle autorità fiscali, ha posto in essere operazioni non supportate da “valide ragioni economiche” significa far dipendere il rischio penale solo ed esclusivamente dalle valutazioni discrezionali della autorità amministrativa. Questo lo ritengo in contrasto con i principi fondamentali del diritto penale, che impongono invece che il cittadino, nel momento in cui tiene una determinata condotta, debba essere in condizione di conoscere in modo chiaro e preciso ciò che è lecito e ciò che non lo è». Nel corso dell’estate del 2011 il legislatore ha riformato in parte il diritto penale tributario. In che direzione si sono mosse tali riforme? GIUSEPPE BANA: «Anzitutto sono state ulteriormente ridotte le già basse soglie di punibilità. Poi si sono C&P • GIUSTIZIA


Studio Bana • Violazioni fiscali

allungati i termini di prescrizione, per cui oggi il termine per l’estinzione della maggior parte dei reati tributari, tenendo conto anche dei fatti interruttivi, è di ben dieci anni. E ancora, sono stati posti dei limiti alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, quando l’ammontare dell’imposta evasa abbia superato determinati limiti. La possibilità di usufruire del patteggiamento, infine, è stata subordinata all’avvenuto pagamento dei debiti tributari». Che giudizio date di tali interventi riformatori? GIOVANNI BANA: «Secondo noi si è eccessivamente accentuato l’intervento della sanzione penale nel settore delle violazioni fiscali e si è persa invece un’occasione per fare chiarezza su argomenti di diritto penale tributario ancora controversi, quale quello della elusione/abuso del diritto» In una situazione di questo genere come dovrebbero comportarsi gli amministratori delle società italiane? G.G.: «Dovranno prestare particolare cura nel verificare che il trattamento fiscale delle varie voci inserite in dichiarazione sia conforme a legge. Se non possiedono sufficiente preparazione in materia fiscale, dovranno farsi assistere da consulenti che possano adeguatamente consigliarli. Quando si tratti di società multinazionali, dovranno assicurarsi che le scelte di pianificazione fiscale C&P • GIUSTIZIA

effettuate dalla società capogruppo siano rispettose anche delle norme fiscali italiane. Certo, tutto ciò non esclude il rischio che le autorità fiscali possano comunque muovere contestazioni al trattamento fiscale delle varie voci, ma non dobbiamo dimenticarci che i reati fiscali sono reati dolosi, che presuppongono l’intenzionalità della condotta e la volontà di evasione fiscale. Ciò significa che, quando si può provare che l’amministratore si è premurato di verificare la correttezza delle proprie scelte in materia fiscale, magari chiedendo pareri ad esperti del settore che lo hanno rassicurato in relazione a tali scelte, si può escludere che abbia agito con dolo e che quindi debba rispondere penalmente. Altro punto molto importante è quello della trasparenza delle scelte. Sappiamo che in tema di ‘transfer pricing’ le recenti riforme normative hanno previsto una causa di non applicabilità delle sanzioni tributarie quando la società abbia istituito i ‘files’, che sono sostanzialmente dei dossier contenenti la documentazione a supporto del trattamento fiscale delle voci, appunto, di ‘transfer pricing’: riteniamo che tale normativa sia espressione di un principio più generale, secondo il quale non vi può essere dolo tutte le volte in cui il contribuente indichi nella documentazione ufficiale della società le ragioni delle sue scelte fiscali, in modo da rendere immediatamente edotte le autorità fiscali, in caso di verifica, dei motivi che hanno determinato tali scelte». 107


Reati fiscali • Alessio Scarcella

Le linee guida della Cassazione

La Corte di Cassazione è intervenuta in varie occasioni per definire l’interpretazione corretta delle norme in materia di reati fiscali. Alessio Scarcella spiega su quali ambiti si sono espressi i giudici e quali sono le zone d’ombra ancora esistenti di Nicolò Mulas Marcello

efficacia sanzionatoria dei reati tributari è indiscutibilmente in stretta relazione con l’interpretazione delle leggi da parte dei giudici. Su questo fronte è intervenuta spesso la Corte di Cassazione per affermare e ribadire i principi cardine del nostro ordinamento in materia di reati fiscali. «La strategia di contrasto al fenomeno delle frodi fiscali – spiega Alessio Scarcella, magistrato in servizio presso la Corte suprema di Cassazione – assume una valenza extranazionale, pur in presenza di fenomeni che nel nostro Paese hanno assunto preoccupanti contorni». La Corte di Cassazione, con la sentenza 1235/11, ha decretato che i reati in materia fiscale sono speciali rispetto al delitto di truffa a danno dello Stato. Come si è arrivati a questa decisione?

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«La Corte, dopo aver affermato che il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, ha precisato che è configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale e il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato. Qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni. La Corte, inoltre, richiamando il cosiddetto “principio di assimilazione” sancito dall’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ha precisato che le predette fattispecie penali tributarie, repressive anche delle condotte di frode fiscale in materia di Iva, esauriscono la pretesa punitiva dello Stato e dell’Unione perché idonee a tuC&P • GIUSTIZIA


Alessio Scarcella • Reati fiscali telare anche la componente comunitaria, atteso che la lesione degli interessi finanziari dell’Ue si manifesta come lesiva, in via diretta e indiretta, dei medesimi interessi». È possibile entrare nello specifico della norma? «La sentenza depositata nel gennaio 2011, nel ribadire in maniera più chiara l’esistenza del rapporto di specialità tra le due fattispecie, ha in sostanza affermato che sia il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti che quello di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, sono in rapporto di specialità rispetto al delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato. Questo perchè qualsiasi condotta di frode al fisco - purché non ne derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni - non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dall’apposita normativa. Ciò significa, dunque, che nel caso in cui la condotta fraudolenta sia finalizzata al solo scopo di evadere il fisco, si applicheranno solo le norme penali tributarie e non anche il reato di truffa ai danni dello Stato; diversamente, ove il comportamento fraudolento abbia di mira il conseguimento di un profitto ulteriore e diverso rispetto alla solo evasione fiscale, scatterà il concorso tra fattispecie». Esistono casi nei quali è possibile ravvisare un rapporto di concorso tra frode fiscale e truffa allo Stato? «Non vi è dubbio che il comportamento fraudolento determina un danno erariale derivante, in positivo, dal mancato versamento dei tributi, ovvero dall’emersione di crediti erariali non dovuti. La compresenza del danno ha interrogato più volte la giurisprudenza sull’applicazione del “giusto” criterio, portando, nel più recente passato, alla contestazione multipla, cioè, di concorso con le situazioni specificamente trattate dalle norme penal-tributarie. Qualsiasi condotta di frode al fisco, se non intende realizzare obiettivi diversi, non può che esaurirsi all'interno del quadro sanzionatorio delineato dall’apposita normativa: se, invece, l’attività fraudolenta, oltre che consentire a terzi l’evasione del tributo (o a permettere indebiti rimborsi) è destinata a finalità ulteriori - tipica l’ipotesi della emissione di false fatture per consentire a un operatore di ottenere indebitamente contributi, comunitari e non - è evidente che non potrà sussistere alcun problema di rapporto di specialità fra norme, venendo in discorso una condotta finalisticamente “plurima” e tale da ledere o esporre a pericolo beni fra loro differenti». In materia di reati tributari ci sono recenti casi in cui la Corte di Cassazione è stata chiamata a esprimersi definendo meglio l’interpretazione delle leggi? «In questo ambito rientra, ad esempio, la recente decisione resa in una nota vicenda giudiziaria assurta agli onori della cronaca, secondo cui il valore di riferimento per il sequestro funzionale alla confisca per equivalente, in caso di delitto di riciclaggio transnazionale avente a oggetto i proventi del reato di frode fiscale, deve essere quantificato sulla base del profitto di tale ultimo reato, entrato a far parte delle operazioni di riciclaggio transnazionale; precisandosi che se il riciclaggio ha a oggetto i proventi del reato di frode fiscale, detti proventi costituiscono anche il profitto del riciclaggio in relazione ai sogC&P • GIUSTIZIA

Un’importante zona d’ombra del sistema repressivo è costituita dall’esclusione della responsabilità amministrativa da reato degli enti getti autori del solo reato transnazionale». A suo giudizio in Italia i giudici hanno tutti gli strumenti necessari per colpire gli autori delle frodi fiscali e delle truffe o esistono zone d’ombra? «La strategia di contrasto al fenomeno delle frodi fiscali (in particolare di quelle Iva) assume una valenza extranazionale, pur in presenza di fenomeni (quali quelli dell'evasione e dell'elusione fiscale) che nel nostro Paese hanno assunto preoccupanti contorni, sì da far ipotizzare la reintroduzione di sanzioni penali detentive dotate di reale deterrenza e afflittività, con conseguente superamento del blando impianto sanzionatorio introdotto poco più di dieci anni or sono con il decreto legislativo 74/2000». Cosa occorre fare in più su questo fronte? «In tema di lotta alle frodi sono state adottate diverse convenzioni. Pur riconoscendo l’esistenza di adeguati strumenti legislativi di contrasto, non può tuttavia sottacersi come, nonostante l’esistenza di strumenti operativi di natura cautelare destinati a incidere immediatamente e con efficacia sul fronte preventivo, un’importante zona d’ombra del sistema repressivo è costituita dall’esclusione della responsabilità amministrativa da reato degli enti, ex decreto 231 del 2001, stante la mancata inclusione nel catalogo dei cosiddetti reati-presupposto delle fattispecie penali tributarie. Ciò, all’evidenza, rappresenta un grande limite, depotenziando la risposta sanzionatoria e l’effettività della tutela degli interessi fiscali, anche dell’Unione europea, soprattutto laddove si consideri che il fenomeno delle frodi carosello è tipico delle strutture societarie. Da qui deriva la necessità, de iure condendo, che il legislatore adotti le necessarie contromisure per impedire che la soluzione fornita dalla Corte - si badi bene, obbligata perché imposta dalla normativa attuale - rappresenti una comoda scappatoia per attività fraudatorie degli interessi fiscali dello Stato e dell’Ue. Azioni poste in essere in modo disinvolto da soggetti che, trincerandosi dietro l’utile paravento della persona giuridica, si vedano garantita l’impunità proprio grazie alla mancata inclusione dei reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto che fanno scattare la responsabilità dell’ente». 109


Reati fiscali • Alessio Lanzi

I rischi delle condotte illecite in ambito tributario Occorre distinguere tra gli ambiti tributario amministrativo e penale tributario per capire meglio le responsabilità del commercialista e quelle del contribuente. Il punto del professor Alessio Lanzi sulle colpe delle condotte illecite di Nicolò Mulas Marcello

e prestazioni del commercialista per conto del cliente sono caratterizzate da una crescente specializzazione, soprattutto nell’area finanza e controllo, nell’area amministrativo-contabile, nella revisione e nella consulenza di diritto commerciale e tributario e nel campo delle valutazioni d’azienda e delle operazioni straordinarie. La giurisprudenza nel tempo ha accresciuto l’ambito di responsabilità del commercialista: «Se l’errore del profes-

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sionista – spiega l’avvocato Alessio Lanzi – è dovuto a una sua colpa, il contribuente potrà rivalersi sul proprio commercialista». Le fattispecie che contemplano le responsabilità del commercialista nell’esercizio della sua professione sono aumentate nel tempo? «Le fattispecie intese come previsioni legali non sono aumentate, quello che è cresciuto è l’ambito applicativo delle forme di corresponsabilità che la giurisprudenza ha assegnato anche ai professionisti, in relazione a quella che è la loro attività di consulenza. Quindi, gli illeciti sia penali che fiscali sono sempre gli stessi, però il commercialista, sulla base dell’interpretazione e della evoluzione giurisprudenziale, è stato maggiormente coinvolto nelle responsabilità che si possono verificare a carico del contribuente in relazione a queste ipotesi di reato». Come si è evoluta la giurisprudenza in questo ambito specifico? «Si sono allargati i confini della responsabilità del professionista. Mentre un tempo munendosi di un “affidavit” o un parere tecnico “pro veritate”, il contribuente poteva seguire la traccia fornitagli dal consulente che aveva interpellato, adesso la giurisprudenza - basti pensare anche alle recenti sentenze in tema di abuso del diritto ed elusione fiscale - è molto meno incline a considerare lecito un comportamento di un contribuente perché consigliatogli dal professionista». Nel caso in cui un commercialista commette l’errore di far dedurre dei costi che non sono deducibili, C&P • GIUSTIZIA


Alessio Lanzi • Reati fiscali

Se l’errore del professionista è dovuto a una sua colpa, il contribuente potrà rivalersi sul proprio commercialista

A sinistra, Alessio Lanzi, avvocato e professore ordinario di procedura penale all’Università statale di Milano

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in caso di accertamenti la responsabilità è sua? «Parlando di responsabilità tributaria, fiscale e amministrativa, la colpa è sempre del contribuente perché è lui che si assume l’obbligo della dichiarazione e, quindi, la responsabilità dei contenuti. Peraltro se l’errore del professionista è dovuto a una sua colpa, il contribuente potrà rivalersi sul commercialista e quindi chiedere a sua volta un risarcimento dei danni per le sanzioni che ha dovuto eventualmente pagare all’erario». La polizza assicurativa sulla professione del dottore commercialista copre ogni possibile responsabilità? «Dal punto di vista della sfera patrimoniale del professionista la polizza assicurativa copre la responsabilità per errori dovuti a colpa. A questo punto però bisogna distinguere tra una responsabilità tributaria amministrativa e quella penale tributaria. Gli eventuali reati commessi dal contribuente in concorso con il professionista sono un’altra faccenda, in quanto i reati fiscali allo Stato sono soltanto dolosi, ovvero ci deve essere l’intenzione del professionista. Pertanto deve accadere che il professionista sia d’accordo con il contribuente e, al fine di fargli evadere le imposte, consiglia assolutamente in modo consapevole e fraudolento un comportamento da tenere. Questa, però, è una condotta diversa da quella della responsabilità sul piano amministrativo e determina un’azione di concorso del reato. È una condotta che non è coperta da una polizza assicurativa perché le assicurazioni non coprono i casi di dolo e, quindi, di volontarietà del danno». 111




Società di comodo • Victor Uckmar

Società di comodo: le nuove norme Scoprire le società di comodo non sempre è un compito facile. A chiarire meglio la questione interviene Victor Uckmar, che spiega a cosa servono e come scoprirle di Nicolò Mulas Marcello

i recente è stata introdotta una rimodulazione dei criteri per riconoscere le società di comodo. Una volta scoperte, occorre verificare se vi siano le condizioni per disapplicarle e, successivamente, stabilire se sono considerate operative o non operative in base al test predisposto. Quelle non operative devono procedere alla determinazione del reddito presunto se non vogliono incorrere nell’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. «È auspicabile che si preveda allo scioglimento – spiega il professor Victor Uckmar – con l’applicazione della sola imposta di registro sul trasferimento nella proprietà dei beni a seguito di liquidazione». Ma cosa sono e quanto costa aprire una di queste società? «L’espressione “società di comodo” ha una pluralità di significati. Il legislatore con l’articolo 30, legge 1994, n. 734 le ha indicate come quelle che hanno limitate immobilizzazioni e un reddito inferiore a determinati parametri, mentre l’Agenzia delle Entrate usa la denominazione “società non operative”. Con la normativa in corso è stata aggiunta l’ipotesi di società con perdite per tre anni consecutivi o con reddito inferiore a quello descritto in base a determinati coefficienti; lo stesso provvedimento ha

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Vicktor Uckmar, professore emerito dell’Università di Genova

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Victor Uckmar • Società di comodo

disposto l’aumento del 10,5% della aliquota di imposta. Ma la costellazione delle società di comodo è ben più ampia: ci sono quelle intestatarie di beni di lusso - ville, yacht, aerei, auto di alto costo - costituite per evitare che detti beni entrino nell’indice di ricchezza o comunque denotino una notevole disponibilità dell’effettivo beneficiario, ovvero le potenzialità economiche individuali in tema di reddito. Altre ancora sono le società che costituiscono “paravento” per evitare che alti proventi, talvolta illeciti - intermediazioni, sopravvenienze, partecipazioni agli affari - affluiscano in capo al beneficiario con effetto per la imposizione personale. Scorrendo le liste dei contribuenti dichiaranti non ne vedo traccia (e i calciatori?) anche se i nomi girano sulle pagine dei giornali». Quali sono le armi del fisco per scoprirle? E a cosa servono le società di comodo, quando non vengono costituite per aggirare il fisco? «Le società dell’ultimo tipo sono centinaia e, quindi, l’indagine è assai impegnativa e comunque con risultati a lunga distanza. Da tempo ho suggerito che per le società di tipo personale che non svolgono effettiva attività industriale o commerciale e, in sostanza, non coprono le funzioni proprie della società di capitali di adottare, per evitare la elusione nella dichiarazione dei redditi, il metodo della tassazione per “traC&P • GIUSTIZIA

sparenza”, cioè direttamente in capo ai soci, come avviene per le società di persone (tendenza recentemente perseguita negli Stati Uniti): ossia qualcosa del genere del regime previsto per le Controlled Foreign Companies per attività all’estero». Come sono cambiate nel tempo le normative che riguardano queste società? «Nella costellazione delle società di comodo ci sono anche quelle intestatarie di beni familiari (soprattutto immobili, caratterizzate dalla stabilità nella proprietà dei beni, senza operazioni speculative) nel tempo costituite soprattutto a fronte del prelievo confiscatorio per l’imposta di successione. È auspicabile si preveda lo scioglimento (come era stato consentito dalla richiamata legge del 1994), con l’applicazione della sola imposta di registro sul trasferimento nella proprietà dei beni a seguito di liquidazione: sarebbe anche un buon metodo per raccogliere prontamente quattrini». Dalla manovra finanziaria arriva un’addizionale del 10,5% e una serie di norme restrittive. Di cosa si tratta e cosa comporterà in concreto? «Il provvedimento, che prevede l’addizionale del 10,5%, non credo sia profittevole di risultati per la lotta all’evasione nonché della elusione e tanto meno per il buon ordine del rilevante settore economico e ciò anche ai fini della perequazione tributaria». 115


Società offshore • Giovanni Briola

La frontiera tra il legale e il penalmente rilevante La creazione di società offshore non sempre è illegale a priori. Quello che non è legale è la fittizia localizzazione della residenza fiscale all’estero per sottrarsi agli adempimenti tributari dell’ordinamento di reale appartenenza. Giovanni Briola ne spiega il funzionamento di Nicolò Mulas Marcello

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Società offshore • Giovanni Briola

pesso le pagine dei giornali riportano notizie della scoperta di ingenti evasioni fiscali riconducibili alla costituzione di società offshore in paradisi fiscali. Ma queste società sono inevitabilmente illegali o esiste una linea di demarcazione precisa tra legalità e illegalità? Proprio per fare il punto della situazione su questo tema si è svolto nelle scorse settimane a Milano un convegno organizzato dall’Ordine degli avvocati del capoluogo lombardo: «Dall’incontro – spiega Giovanni Briola, avvocato e relatore del convegno – è emersa una totale distonia tra l’accertamento tributario e quello penale». Facciamo un po’ di chiarezza. In quali casi è illegale possedere una società offshore? «La costituzione di una società in un paese dell’Unione europea è consentita. Si tratta del diritto di stabilimento disciplinato dagli articoli 49-55 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea. Quindi l’Ue lo prevede e ci sono paesi che incentivano questo tipo di creazione come Gran Bretagna, Olanda, Lussemburgo. È, quindi, un diritto che spetta sia a persone fisiche che a persone giuridiche. Quello che non è legale è la fittizia localizzazione della residenza fiscale in paesi, anche Ue, per sottrarsi agli adempimenti tributari dell’ordinamento di reale appartenenza. Ovvero nei casi in cui si verifica una simulazione finalizzata a un’elusione, abbiamo una violazione del principio di legalità. In materia di esterovestizione ad esempio, Dolce & Gabbana sono stati assolti perché è stato ritenuto legittimo questo tipo di creazione estera, quindi penalmente non sanzionabile. La menzione di “società offshore” evoca trame oscure e Paesi esotici, come scritto da Grisham nel libro Il socio. Nel romanzo la società offshore aveva sede alle isole Cayman, ma oggi non è più così. Ci sono più società della Cayman in Svizzera che non alle Cayman stesse, come ha anche ribadito il ministro Tremonti all’Ecofin di Bruxelles lo scorso maggio». Quali sono i motivi principali che spingono un’azienda ad andare offshore? «Il motivo che può spingere a “emigrare” è, anzitutto, la fiscalità. Lo stesso governatore, Mario Draghi, al Forex (Congresso per gli operatori finanziari tenutosi aVerona il 25-27 febbraio 2011), ha affermato che la pressione fiscale in Italia è di circa il 43% del prodotto interno lordo, circa 3 punti in più rispetto a quella europea. La tassazione sul reddito è del 52%. Per questo molti cercano una scappatoia magari dove la fiscalità è al 4%». I benefici valgono i rischi di una società diquesto tipo? «Il beneficio principale è di poter ottenere una tassazione agevolata, di molto inferiore a quella applicata in Italia. I rischi, invece, sono di due tipi: uno tributario e uno penale. Nel primo caso, ove venga accertata la sottrazione di un adempimento tributario nei confronti dell’Italia, ci sarà una ripresa fiscale e le relative sanzioni a carico del contribuente. Nel secondo caso il rischio è che venga aperto un procedimento penale per le fatti-

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Il motivo che può spingere a “emigrare” è, anzitutto, la fiscalità in quanto la pressione fiscale in Italia è di circa il 43% del prodotto interno lordo specie previste dagli articoli 4 e 5 D.Lgs. n. 74/00 oppure per le ipotesi alternative di riciclaggio o truffa aggravata ai danni dello Stato». L’ordine degli avvocati di Milano ha recentemente tenuto un convegno sul tema “Paradisi fiscali, società off-shore: la frontiera tra il legale e il penalmente rilevante”. Cosa è emerso dall’incontro? «È emersa una totale distonia tra l’accertamento tributario e quello penale. In concreto vi è una maggiore incisività dell’azione amministrativa, anche perché poggia su principi diversi da quelli del processo penale, quale l’inversione dell’onere probatorio (la società deve provare che la correttezza dell’operazione). Nell’ambito penale, invece, vigono i principi di legalità e di tassatività delle fattispecie, quindi per un giudice è molto difficile arrivare a una sentenza di condanna in assenza di prove certe anche per la difficoltà di trovarle, basti pensare alla Svizzera che non presta collaborazione nell’ambito di reati legati all’ambito fiscale. Un sistema quindi a doppio binario con procedimenti indipendenti». 117


Società offshore • Giuseppe Marino

Il fisco nel mercato globale Le aziende italiane che decidono di intraprendere il cammino dell’internazionalizzazione si possono trovare, per richiesta di partner stranieri, a costituire joint venture in paesi considerati paradisi fiscali. Giuseppe Marino definisce la linea di confine della legalità di Nicolò Mulas Marcello

a scelta di costituire una società offshore può essere talvolta dettata dalla necessità di interagire con partner stranieri. In un mercato sempre più globale, i rapporti con i paesi Bric spingono le nostre imprese a prendere questa decisione per non precludersi la possibilità di stringere accordi con partner situati nei paesi emergenti. «Sono i partner esteri – sottolinea Giuseppe Marino, docente di Diritto tributario internazionale e comunitario presso l’Università Bocconi – che talvolta chiedono alle aziende italiane di

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localizzare la joint venture all’interno di un paradiso fiscale». La domanda che spesso ricorre è: possedere una società offshore è legale? «Assolutamente sì, è perfettamente legale. L’importante è tenerne conto nell’ambito della propria dichiarazione dei redditi. Non è contro la legge detenere investimenti all’estero o localizzati nei paradisi fiscali». Al di là dell’elusione fiscale perchè un cittadino privato decide di collocare il proprio capitale al-

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Società offshore • Giuseppe Marino

Giuseppe Marino, docente di Diritto tributario internazionale e comunitario presso l’Università Bocconi

l’estero? «Per i privati cittadini il desiderio di andare ad allocare il proprio patrimonio nei paradisi fiscali può essere motivata dal fatto che in essi sono localizzati gestori finanziari particolarmente bravi rispetto a quelli che si potrebbero trovare nel proprio paese. Oppure preferiscono mantenere all’estero il proprio patrimonio, pur nel rispetto di tutte le leggi tributarie e valutarie italiane, perché così facendo il capitale è più difficilmente aggredibile dalle autorità italiane. Per le persone fisiche possono pertanto esistere motivazioni extratributarie che spingono a collocare, nel rispetto della legge, il proprio capitale all’estero». E per quanto riguarda le società? «Per le società la scelta è condizionata dalla propria attività d’impresa. Alla caduta delle barriere tributarie nel 1990, è stato consentito al nostro sistema impresa di andare a investire liberamente all’estero senza vincoli di alcun genere. Ciò si accompagnava anche al desiderio di pagare meno imposte all’estero. Prima di allora, esportare capitali fuori dai confini era punito con sanzioni penali. Questo discorso nell’arco dei decenni si è corretto per virtù degli interventi legislativi e ha introdotto una serie di misure per contrastare l’abuso dei paradisi fiscali dal punto di vista imprenditoriale. Attualmente quindi la loC&P • GIUSTIZIA

gica d’uso del paradiso fiscale, paradossalmente può essere dettata dal dover interagire con partner di altri stati, come ad esempio nei paesi Bric. In questo caso i partner stranieri possono chiedere all’azienda italiana di localizzare la joint venture all’interno di un paradiso fiscale. A differenza del passato, il nostro sistema impresa, è oggi presente nei paradisi fiscali per necessità, perché altrimenti non avrebbe la possibilità di chiudere accordi con partner situati nei paesi emergenti. Un’altra motivazione extratributaria risiede nel mondo delle M&A: molto spesso le aziende italiane che crescono all’estero devono acquisire società che già si trovano nei paradisi fiscali». Quali sono i rischi di una società di questo tipo dal punto di vista legale? «Rischi non ce ne sono nella misura in cui si dichiara di avere una società controllata in un paradiso fiscale. La legge impone che quella società sia fiscalmente trasparente. Ovvero gli utili che si producono sono automaticamente utili italiani, quindi tassati in Italia. Se invece si opera una opacità, quindi si vuole che non ci sia trasparenza, in questo caso il rischio sussiste. Per evitare questo, occorre presentare un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate motivando che la scelta di avere la residenza fiscale all’estero è necessitata da ragioni di business, e che la società nel paradiso fiscale ha vari motivi economici, come il personale dipendente, lo stabilimento, gli uffici, e che è radicata nel mercato del territorio dove è insediata. In questo caso si richiede all’Agenzia delle Entrate di applicare la normativa Cfc (Controlled foreign companies). In caso di approvazione la residenza fiscale può rimanere nel paradiso fiscale, e gli utili realizzati non vengono tassati in capo alla società controllante italiana». In ambito normativo come è regolata questa materia in Italia? «In Italia questa materia è eccessivamente regolata. Per cui il rischio è che dal contrasto all’abuso del paradiso fiscale si passi, considerando la logica dell’economia globale nella quale viviamo, a un sistema di penalizzazione per le imprese italiane. Un ostacolo considerevole in confronto alla libertà di cui godono le imprese di altri ordinamenti che hanno meno vincoli del nostro». 119


La Legge Fallimentare • Tommaso Pietrocarlo

Il nodo della responsabilità Qual è la natura dell’esenzione introdotta dall’articolo 217 bis della legge fallimentare? L’avvocato Tommaso Pietrocarlo affronta gli aspetti controversi della norma introdotta nel 2010 e i rischi connessi al procrastinarsi di una semplificazione legislativa di Luca Cavera

Tommaso Pietrocarlo, avvocato penalista del foro di Roma tommaso.pietrocarlo@tin.it

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l recente aggiornamento della legge fallimentare che, con l’articolo 217 bis, stabilisce l’esenzione da responsabilità in ordine ai reati di bancarotta semplice e preferenziale, al di là dei suoi contenuti di merito, non può non ispirare una riflessione sul sistema nel suo complesso. «Sebbene ci troviamo in una stagione segnata da una profonda crisi – osserva l’avvocato Tommaso Pietrocarlo – l’evoluzione del corpo legislativo riferito alle attività produttive e imprenditoriali, anziché orientarsi verso una maggiore chiarezza, pare complicarsi. Paradossalmente questa situazione trova una sua infelice coerenza nel resto del corpus giuridico italiano, dato che in ogni settore manca una legislazione organica e concepita per consolidarsi nel tempo, per consentirne la sedimentazione e dare certezza ai suoi destinatari». L’articolo 217 bis della legge fallimentare, introdotto con decreto legge il 31 maggio 2010, in seguito convertito in legge, prevede una forma di esenzione dalla responsabilità penale per i reati di bancarotta preferenziale e bancarotta semplice in relazione ai pagamenti e alle operazioni eseguiti in esecuzione di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o di un piano di risanamento attestato da un professionista. In che senso l’articolo 217 bis introduce una forma di esenzione dalla responsabilità penale? «Laddove la norma introduce l’esenzione da responsabilità penale, lo fa proprio con riguardo a condotte in astratto costituenti reato poste in essere in esecuzione di una di queste tre procedure. Sulla natura dell’esenzione – termine del tutto improprio rispetto alla teoria generale del reato – si ritiene che si tratti di una causa di esclusione della tipicità. La norma opera nel senso che i pagamenti e le operazioni eseguiti in esecuzione dei tre istituti sono leciti rispetto alle ipotesi di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice. I problemi applicativi che si potrebbero porre, in primo luogo, riguardano esatto significato del termine “operazioni”, che è un po’ troppo generico». Sono stati evidenziati diversi profili problematici in merito all’applicazione dell’articolo, in particolare relativamente al piano di risanamento previsto dall’art. 67, comma 3, lett. d. In tal senso quali nuovi interventi sarebbero necessari da parte del legislatore? «Sarebbe necessario individuare con sufficiente certezza i

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La Legge Fallimentare • Tommaso Pietrocarlo

Con questa norma, c’è il rischio per l’imprenditore di non riuscire ad agire nel pieno rispetto della legalità

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criteri che il professionista è tenuto ad adottare per attestare la “ragionevolezza” del piano. Infatti, nel silenzio della legge, egli rischia di non avere alcun modello comportamentale di riferimento. Ci si chiede, in particolare in questa ipotesi, quale tipo di verifica debba precedere l’asseverazione e se gli accertamenti necessari si debbano spingere fino, per esempio, alla verifica, non soltanto dell’esistenza, ma anche della bontà di eventuali crediti indicati dall’imprenditore o della qualità dei debitori sociali. Non va infatti dimenticato che, a differenza del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione, il piano è adottato senza una preventiva omologazione da parte del tribunale e, in sostanza, che esso si basa esclusivamente sull’asseverazione del professionista che se ne assume la responsabilità». Se il cosiddetto “atto incriminato” può risultare difficilmente identificabile per i professionisti, a questo punto apparirà ambiguo anche per l’imprenditore il confine tra lecito e illecito. Non c’è il rischio di indurre l’imprenditore a commettere, talvolta anche inconsapevolmente, un reato? «Il rischio è concreto, in quanto l’imprenditore che si rivolge a un professionista per l’adozione di un piano di risanamento, una volta ottenuta l’asseverazione, può darvi corso in perfetta buona fede e confidando sulla serietà del giudizio espresso. Ove poi egli non sia in grado di completare l’esecuzione del piano, si vedrà esposto, in caso di fallimento, a un giudizio a posteriori da parte del giudice penale, il quale, se riterrà irragionevoli le previsioni del piano, potrà applicare le norme penali in materia fallimentare rispetto ad atti compiuti in esecuzione del piano stesso». Il professionista rischia di esercitare, in questo ambito, totalmente privo di modelli comportamentali da seguire. A causa di questo scenario, cosa rischiano professionisti e imprese? «Il rischio per l’imprenditore – e, in queste ipotesi, anche per il professionista asseveratore – è quello di non riuscire ad agire nel pieno rispetto della legalità. Inoltre, per noi avvocati penalisti, il rischio è quello di non poter riuscire a esercitare il ruolo di consulenti che contribuiscano a evitare la commissione di reati, ma soltanto quello di legali che intervengono nel processo solo dopo la commissione del reato e quindi del danno». 121


Nuovi istituti • Adalberto Castoro

Supporti contro l’indebitamento Una contrazione degli ordinativi e una conseguente riduzione del fatturato e del credito bancario hanno comportato una richiesta sempre maggiore di assistenza legale. Ne parla Adalberto Castoro di Nicoletta Bucciarelli

L’avvocato Adalberto Castoro esercita la professione forense a Milano acastoro@studiocastoro.it

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l 26 ottobre 2011 è stato approvato dalla Commissione Giustizia il disegno di legge che intende risolvere in maniera non traumatica le difficoltà economiche delle piccole imprese, attraverso l’introduzione di una procedura specifica per affrontare la crisi da “sovraindebitamento”. «Un nuovo istituto» spiega l’avvocato Adalberto Castoro, esperto di contenzioso civile e diritto fallimentare, «è introdotto dal disegno di legge nell’ambito di una più ampia disciplina finalizzata al contrasto dell’usura e dell’estorsione. Tale procedimento costituisce un innovativo istituto per la composizione di crisi da indebitamento: si applica a individui o imprenditori che non sono assoggettabili a procedure fallimentari». Una procedura a cui può ricorrere, come nel caso di fallimento dell’imprenditore, chi si trova impossibilitato a far fronte agli impegni assunti per mancanza protratta nel tempo di risorse economiche. Un istituto finalizzato ad evitare inutili collassi economici «ma soprattutto ad evitare il ricorso al mercato dell'usura e quindi al crimine organizzato». Quali sono i punti salienti di tale disegno e che cosa apporterebbe se venisse definitivamente approvato? «Il nuovo istituto prevede la facoltà del debitore di proporre ai creditori un accordo relativamente a un piano di ristrutturazione dei debiti che assicuri il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo stesso. La proposta di accordo prevede la risistemazione dei debiti e correlativamente la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione di redditi futuri. Il giudice competente dispone una moratoria di centoventi giorni nei quali non possono essere iniziate o proseguite azioni esecutive individuali né acquistati diritti di prelazione sul patrimonio del debitore. È previsto il coinvolgimento dei cosiddetti “organismi di composizione della crisi da sovraindebitamento” i quali svolgono attività di assistenza al debitore per il superamento della crisi di liquidità e per la soluzione di eventuali difficoltà insorte nell'esecuzione dell'accordo nonché attività di consulenza e vigilanza sull'esatto adempimento dello stesso. Qualora sussistano tutti i presupposti di legge l'accordo, ivi compresa l’accettazione di tanti creditori che rappresentano almeno il 70% del ceto creditorio, viene omologato dal tribunale». Quanto ha inciso la crescente crisi economica sul suo lavoro? «La richiesta di assistenza legale è oggi fortemente influenzata dalla perdurante crisi economico finanziaria italiana e internazionale che sta creando problemi sia alle imprese che operano a livello locale o estero, sia ai privati cittadini. Le difficoltà delle imprese sono determinate da un lato dalla forte contra-

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Nuovi istituti • Adalberto Castoro

La richiesta di assistenza legale è oggi influenzata dalla perdurante crisi economica finanziaria italiana e internazionale

zione degli ordinativi e dalla conseguente riduzione del fatturato, dall’altro dalla riduzione del credito bancario. Nel campo commerciale tutto ciò porta all’inevitabile aumento del contenzioso e all’intensificarsi di procedure concorsuali sia con finalità liquidatoria sia di quelle volte a mantenere in vita l’impresa, come i concordati e i piani di ristrutturazione. Per quanto riguarda invece le difficoltà dei privati cittadini si registra un forte aumento di procedure esecutive mobiliari e immobiliari». Cosa accade quando l’impresa assoggettabile a procedura di insolvenza è dislocata in più paesi? «L’espansione dell’attività dell’imprenditore fuori dell’area territoriale nazionale è uno dei fenomeni sempre più frequenti per resistere alla concorrenza di un mercato globalizzato. Ciò avviene non soltanto attraverso la commercializzazione dei beni e dei servizi prodotti, ma anche tramite l’espansione e il trasferimento all’estero di parte dell’azienda. Le procedure concorsuali dell’imprenditore transfrontaliero vengono disciplinate in ambito comunitario dal Regolamento CE 1346 (e sue modificazioni) che attribuisce allo Stato nel cui territorio è situato il centro principale degli interessi del debitore la competenza ad aprire la procedura di insolvenza principale. Essa ha tendenzialmente portata universale riguardando tutti i beni del debitore. È comunque possibile dare corso a procedure territoriali in altri Stati della UE dove il debitore ha sedi locali, includendovi unicamente il patrimonio situato in tali diversi Stati. La procedura principale e quelle secondarie possono contribuire a un’efficace liquidazione dell’attivo soltanto se viene effettuato un opportuno coordinamento tra tutte le procedure C&P • GIUSTIZIA

pendenti con una stretta collaborazione informativa tra i diversi organi di curatela». Nell’ambito della attività di recupero crediti di cui si occupa il suo studio rientra anche il “patto di quota lite”. In quali ambiti e materie viene maggiormente applicato il patto? «Fino a non molti anni fa l’accordo che prevedesse, tra avvocato e cliente, la commisurazione in una percentuale predeterminata del pagamento in funzione dell’esito del recupero era rigorosamente vietato in quanto si riteneva che una tale pattuizione avrebbe potuto compromettere l’obiettività e serenità del professionista nel portare a termine, nell’esclusivo interesse del cliente, l’incarico ricevuto. A seguito del decreto Bersani del 2006, volto a liberalizzare le professioni, tale divieto è stato rimosso a motivo che è stato ritenuto che il professionista-avvocato nell’interesse precipuo del cliente potrà portare a termine più proficuamente l’incarico tanto più sarà interessato al positivo esito del medesimo. Nella mia esperienza professionale il patto di quota lite non ha trovato sino ad oggi significativa attuazione. Esso trova origine e ampia diffusione nel mondo anglosassone». Che cosa andrebbe fatto per semplificare la normativa che fa da piedistallo al “patto di quota lite”? «Oggi l’unico presupposto o condizione per la validità civilistica del patto di quota lite è la forma scritta. Cionondimeno le prescrizioni deontologiche professionali impediscono di stipulare patti eccessivamente onerosi. In ogni caso è opportuno che l’accordo scritto venga chiaramente disciplinato in tutti i suoi aspetti». 123


Il fondo patrimoniale • Giovanna Iraci

Il limite del fondo patrimoniale Un vincolo attraverso il quale salvaguardare da potenziali creditori determinati beni, a patto che questi siano utilizzati per far fronte ai bisogni della famiglia. È il fondo patrimoniale, come spiega Giovanna Iraci di Diego Bandini

L’avvocato Giovanna Iraci esercita nell’omonimo studio di Milano dagli anni ‘90 ira.lex@libero.it - iralex@registerpec.it

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gni attività economica presenta necessariamente dei rischi. Il capitale investito può infatti produrre un guadagno, ma anche subire delle perdite, e ciò rientra nel concetto stesso di rischio d’impresa. Imprenditori e professionisti, però, hanno a loro disposizione alcuni strumenti utili a limitare questo rischio, mettendo al riparo da qualsiasi sorpresa i beni di uso personale, come ad esempio la casa, per evitare così che siano coinvolti negli eventuali problemi dell’azienda. Queste esigenze di sicurezza possono essere soddisfatte dal fondo patrimoniale, che come recita l'articolo 167 del codice civile, consiste nella imposizione convenzionale di un vincolo in forza del quale determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, sono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia. «L’obiettivo di questo strumento – sottolinea l’avvocato milanese Giovanna Iraci - è quello di consentire alla famiglia, che diventa titolare di un interesse prioritario rispetto a quelli degli stessi coniugi che pure la costituiscono insieme ai figli, ove nati, la realizzazione e il soddisfacimento dei propri bisogni, garantendole la stabilità economica». In che modo il fondo garantisce l’inespropriabilità dei beni in esso presenti rispetto ai creditori? «Ai fini dell’opponibilità del fondo rispetto ai creditori occorre valutare se le obbligazioni assunte per assolvere impegni professionali e lavorativi servono o meno ai bisogni della famiglia. La legge dispone infatti che i beni compresi nel fondo patrimoniale e i loro redditi non possono essere soggetti a esecuzione forzata, per i debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Tra questi rientrano sicuramente tutti i debiti contratti nell’esercizio di un’impresa commerciale o comunque di un’attività professionale, ma anche, secondo l’opinione prevalente, quelli derivanti da atto illecito a condizione che questo non sia correlato alle esigenze familiari. È importante sottolineare che il fondo patrimoniale, comunque, non può mai essere utilizzato per sottrarsi al pagamento di debiti preesistenti. Un simile tentativo, infatti, potrebbe avere rilevanza penale, soprattutto se si tratta di debiti fiscali o nei confronti dello Stato». Quali sono i soggetti per cui è prevista la possibilità di costituire un fondo patrimoniale?

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Il fondo patrimoniale • Giovanna Iraci

Per costituire un fondo patrimoniale è indispensabile essere sposati. Una condizione anacronistica, visto che nella società odierna sono sempre più numerose le famiglie non basate sul vincolo del matrimonio

«Il fondo può essere costituito sia dai coniugi, tramite atto pubblico, che da un soggetto terzo, che può essere anche una società. È inoltre importante evidenziare che l’atto di disposizione del fondo può essere contenuto anche in una disposizione testamentaria. Il fondo nasce con l’obiettivo di tutelare le esigenze della famiglia così come intesa dall’articolo 29 della Costituzione, e proprio questa sua impostazione rappresenta anche il suo limite principale». In che senso? «Per costituire un fondo patrimoniale è infatti indispensabile essere sposati, e questo appare oggi un po’ anacronistico, visto che nella società odierna sono sempre di più le famiglie non basate sul vincolo del matrimonio. Credo quindi che un intervento del legislatore sia quanto mai necessario per far fronte a questa situazione, dando ad esempio la possibilità di costituire un fondo anche a quelle persone che, pur non essendo sposate, presentano uno stato di famiglia unitario. Infatti, se è vero che tra i destinatari del fondo patrimoniale, e quindi con la possibilità di beneficiarne, rientrano anche i figli naturali di un solo coniuge purché conviventi con la famiglia legittima del medesimo, non si capisce perché il vincolo matrimoniale debba essere condizione necessaria per poter costituire il fondo». C&P • GIUSTIZIA

Esistono altri vincoli particolari relativi alla costituzione di un fondo? «Come tutte le convenzioni pattizie il vincolo di inalienabilità, rispetto ai beni collocati nel fondo, può essere definito nel suo contenuto rispetto alla volontà dei coniugi, e ciò permette maggiore flessibilità nell’uso dell’istituto di quanto si possa pensare. Tuttavia un elemento che potrebbe scoraggiare la costituzione del fondo patrimoniale è rappresentato dal fatto che, se nella famiglia ci sono figli di minore età, l’eventuale alienazione dei beni compresi al suo interno deve essere autorizzata dal giudice tutelare, a garanzia che detta operazione di vendita venga effettuata nell’interesse del minore. Credo però che questo limite abbia un valido fondamento, perché è giusto che, ad esempio, il ricavato dell’eventuale vendita di un appartamento inserito nel fondo per assicurare una fonte di reddito ai figli, debba poi essere utilizzato nell’interesse dei figli stessi». È possibile individuare delle similitudini tra il fondo patrimoniale e l’istituzione del trust? «Molti sono portati a pensare che il fondo patrimoniale sia di fatto un trust, in quanto le due fattispecie legali nascono per consentire la c.d. segregazione del patrimonio, o di una parte di esso, con un vincolo di destinazione. Tuttavia le affinità sono inferiori rispetto alle diversità, in 125


Il fondo patrimoniale • Giovanna Iraci

Se nella famiglia ci sono figli di minore età, l’eventuale alienazione dei beni compresi al suo interno deve essere autorizzata dal giudice tutelare

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quanto l’istituto del trust ha meno limiti rispetto al fondo patrimoniale, che come detto nasce come strumento a tutela della sola famiglia legittima. Tuttavia, per quanto con evidenti limiti, questo istituto, vista la possibilità di destinare parte del patrimonio familiare, se non l’intero patrimonio, allo scopo “famiglia”, può veramente garantire e assicurare, ai componenti della stessa, nello spirito della solidarietà familiare, quel soddisfacimento di bisogni che solo un’adeguata tutela del patrimonio, soprattutto immobiliare, può dare. Questo perché, come abbiamo visto, tutti gli appartenenti della famiglia beneficiano del fondo e dei beni ivi destinati, frutti compresi, senza alcuna possibilità di discriminazione, realizzando così, all’interno della famiglia, un’assoluta parità. Un aspetto di grande rilevanza che il trust può, viceversa, violare, proprio in ragione della sua maggiore flessibilità». In che modo la figura dell’avvocato può rappresentare un riferimento per quelle persone intenzionate a istituire un fondo patrimoniale? «Nonostante il fondo debba essere costituito con atto notarile, l’avvocato rappresenta sicuramente la figura professionale più vicina ai cittadini, con la possibilità di assistere e supportare quelle categorie che, anche in virtù della loro professione, sono solite rivolgersi frequentemente a un legale di fiducia». Sulla base della sua esperienza, crede che la consapevolezza di poter usufruire di uno strumento come il fondo patrimoniale sia oggi sufficientemente diffusa tra i cittadini? «L’istituto del fondo patrimoniale a mio avviso, nonostante i progressi fatti registrare in questi ultimi anni, è ancora scarsamente conosciuto dalla gente. Credo invece che il fondo, anche in considerazione degli scenari attuali, possa rappresentare un ottimo strumento da utilizzare legittimamente come tutela del patrimonio, e non in frode ai creditori, per garantire i bisogni della famiglia, che come detto in precedenza, deve però essere necessariamente intesa in un senso più ampio rispetto alla previsione codicistica».

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Nuove forme giuridiche • Gian Piero Geminiani

Il contratto di rete Una nuova forma giuridica consente alle imprese di unirsi attorno a obiettivi comuni e di regolare le modalità di partecipazione alla partnership. Il punto di Gian Piero Geminiani di Luca Cavera

L’avvocato Gian Piero Geminiani del Foro di Milano, specializzato in diritto del lavoro, amministrativo e commerciale www.studiogeminiani.it

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on la legge sviluppo del 2009 e la cosiddetta manovra estiva 2010 sono stati convertiti in legge i decreti (in particolare, dl 5/2009 e dl 78/2010) che hanno introdotto una nuova forma giuridica: il contratto di rete. Questo consente alle imprese di sviluppare rapporti di partnership, mantenendo la propria individualità, ma con il vantaggio di vedere regolati i rapporti giuridici derivanti da una collaborazione stabile basata su obiettivi strategici. L’avvocato Gian Piero Geminiani ne illustra gli aspetti salienti. «Grazie al contratto di rete più imprenditori possono perseguire lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e competitività sul mercato. Per questo scopo, sulla base di un programma comune di rete, più soggetti possono collaborare, scambiare informazioni e prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica. Inoltre, possono esercitare in comune una o più attività attinenti all’oggetto della propria impresa». Chi può stipulare un contratto di rete e con quali requisiti? «Si tratta di un contratto plurilaterale stipulabile solo fra imprenditori, che siano convenuti su una comunione di scopo. Questi sono liberi di partecipare alla rete sotto qualsiasi forma (individuale o collettiva), prescindendo da altri elementi dimensionali, geografici (anche imprese estere) o di struttura giuridica, quindi possono aderire indifferentemente società, consorzi e cooperative. Il contratto deve avere una struttura aperta e prevedere le modalità per l’eventuale adesione futura di altri contraenti. Tali modalità e parametri di accesso sono stabiliti dagli originari partecipanti». Quali obiettivi è possibile conseguire con questo tipo di contratto? «Gli obiettivi, che ovviamente devono essere comuni agli imprenditori contraenti, devono riguardare la crescita della capacità innovativa, sia individualmente sia collettivamente, e l’incremento della competitività sul mercato. Fra gli obiettivi del contratto di rete è possibile anche porre l’attesa di risultati che non abbiano immediati riflessi economici – come per esempio attività di ricerca, studio e formazione. A tale fine, i contraenti possono sia collaborare in forme e ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese, sia condividere conoscenze e

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Nuove forme giuridiche • Gian Piero Geminiani

Con questo contratto, una rete di imprese di piccole e medie dimensioni ha la possibilità di partecipare collettivamente alle gare d’appalto

prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica, sia esercitare in sinergia una o più attività che ricadano sotto le competenze di ciascuno». In concreto, quali forme può assumere la collaborazione in un contratto di rete? «Può assumere diverse forme. Attività di coordinamento, per ottenere migliori condizioni nei rapporti esterni, oppure coordinamento dei processi di controllo della qualità dei beni lungo la filiera. Il coordinamento può prevedere anche la definizione di una politica dei prezzi – nei limiti, ovviamente, di quanto stabilito dalla normativa antitrust. Può assumere la forma di attività strumentali, volte a raggiungere migliori risultati di gestione: gruppi di acquisto o vendita di beni e servizi di interesse comune, gestione logistica e di magazzino, di piattaforme telematiche. Si può svolgere in forma congiunta la promozione di beni e marchi o realizzare laboratori e centri di ricerca in comune. Infine, un aspetto che potrà interessare molte imprese di piccole e medie dimensioni, è la possibilità di partecipare collettivamente alle gare d’appalto o ai bandi regionali». Invece, in quale forma, dal punto di vista giuridico, va stipulato? «Per la sua validità, il contratto deve essere redatto in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata e deve essere iscritto nel registro delle imprese presso la Camera di Commercio alla quale si riferisce ciascuna impresa. La data di efficacia del contratto coincide con l’ultima delle iscrizioni prescritte a carico dei sottoscrittori originari. Ogni successivo aderente al contratto dovrà iscrivere il contratto nella sezione del registro ove l’aderente è iscritto e il contratto sarà efficace per lui solo a partire da quella data». La rete si muove come fosse una sola entità imprenditoriale. Questa costituisce un soggetto giuridico a sé? C&P • GIUSTIZIA

«No, il contratto non crea un nuovo soggetto giuridico. Per questo motivo la denominazione della rete è meramente eventuale e non obbligatoria, poiché non si tratta di un ente personificato. È tuttavia consigliabile utilizzare il nome della rete nei rapporti con i terzi, per evitare che in questi ultimi sorga la convinzione che stiano operando con gli imprenditori singolarmente e non con la rete – il che potrebbe, per il principio dell’affidamento, limitare l’autonomia patrimoniale del fondo della rete. È quindi molto importante definire un’identità della rete, in modo che questa sia riconoscibile da banche, fornitori e potenziali nuovi aderenti». Quali sono gli elementi più importanti per gli interessi dei contraenti che vanno specificati nel contratto? «Oltre ai dati anagrafici e relativi alle ragioni sociali delle imprese, alla durata, alla struttura e alle regole decisionali e di adesione o uscita dei partecipanti, è importante definire con precisione gli obiettivi strategici – sono tutti elementi obbligatori per legge – Questo per assicurare che le parti condividano pienamente le ragioni fondanti della collaborazione, per evitare possibili contrasti sulle scelte operative e per prevenire comportamenti abusivi da parte di chi volesse entrare nella rete solo per appropriarsi di risorse e conoscenze altrui senza contribuire o addirittura compromettendo il raggiungimento degli obiettivi strategici». Quali sono i vantaggi fiscali? «È prevista una sospensione di imposta per le imprese che sottoscrivono il contratto di rete per la quota di utili destinati al fondo patrimoniale comune o al patrimonio destinato all’affare.Tuttavia la quota non può superare il limite di 1 milione di euro e inoltre a patto che gli investimenti del programma di rete siano realizzati entro l’esercizio successivo al conferimento al fondo». 129


Diritto d’impresa • Luigi Ragno

Gestire la crisi d’impresa Fusioni, scissioni, operazioni di finanza straordinaria e strutturata. La parola all’avvocato Luigi Ragno, come consulente legale d’impresa di Manlio Teodoro

L’avvocato Luigi Ragno del foro di Messina studiolegaleragnol@virgilio.it

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ochi mesi fa, nello studio Libonati-Jaeger – che da anni segue controversie giudiziali e arbitrali di alto profilo, nonché operazioni e transazioni commerciali e societarie come acquisizioni, fusioni, scissioni, operazioni di finanza straordinaria e strutturata, di riorganizzazione e di ristrutturazione aziendale –, sono entrati come nuovi partner Luigi Ragno e Duilio Cortassa, insieme all’internazionalista Francesca Graziani. «Questa realtà professionale, che ha avuto un ruolo in molte delle operazioni che hanno determinato cambiamenti strutturali dell’economia italiana – spiega l’avvocato Luigi Ragno –, guidato da Nicola Squillace e Giustina Jaeger, può vantare una consolidata esperienza nel campo delle procedure fallimentari e concorsuali oltre che, in generale, nella gestione delle crisi di impresa, nel diritto amministrativo, nel diritto delle assicurazioni e nel diritto della proprietà intellettuale, incluso l’IT e il food regulatory». Luigi Ragno, avvocato messinese, si è formato a Milano per poi – dopo una parentesi che lo ha visto attivo nella politica siciliana –, tornare sull’isola a gestire lo studio di famiglia. «Il nostro studio è stato avviato a Messina nel 1924 e oggi abbiamo anche una sede a Roma. Lo studio cura gli affari legali di importanti società, molte di queste quotate in borsa. Durante la mia esperienza a fianco di questi assistiti, ho partecipato a collegi arbitrali e svolto incarichi nelle procedure concorsuali, in qualità di curatore fallimentare e liquidatore giudiziale. Da anni lavoro con Duilio Cortassa, esperto di diritto industriale e contratti internazionali. Un torinese, anche lui formatosi a Milano, presso lo studio Ercole Graziadei, per poi entrare, dopo un periodo nella carriera diplomatica, presso Allen & Overy». Luigi Ragno è attualmente membro del consiglio di amministrazione, membro dell’Opc e dell’organismo di vigilanza di Sorin Spa, membro del consiglio di amministrazione di Methorius Capital Spa e consigliere di Air Four Spa, oltre che vice presidente di Santa Giulia Spa e di Cascina Rubina Spa. «In passato ho fatto parte del consiglio di amministrazione del Consorzio per le autostrade siciliane e sono stato membro del Cda di Risanamento Spa, che ha curato la ristrutturazione industriale e finanziaria delle società. Inoltre ho presieduto Tethis Spa, BH Holding Spa e Alenia Aeronavali Spa, società del Gruppo Finmeccanica, che si occupa di trasformazione di aeromobili da trasporto civile in aerei cargo. «L’attività dell’azienda era concentrata in tre stabilimenti, a Brindisi,Venezia e Napoli, ma si occupava anche di interventi di revisione per l’Aeronautica Militare presso la base aerea di Pratica di Mare».

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Diritto d’autore • Gaetano Blandini

A difesa del diritto d’autore «Il diritto d’autore è un bene immateriale di cui molti non percepiscono il valore». Il direttore generale Siae, Gaetano Blandini, difende la creatività dell’artista Renata Gualtieri

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a Siae, per assicurare il rispetto dei diritti dei suoi 90mila associati, ha contrastato l’illecita riproduzione delle opere sin dal primo manifestarsi del fenomeno negli anni 70, costituendo un apposito nucleo antipirateria. Da quel momento in ogni sede della rete territoriale si è insediato un responsabile antipirateria che affianca il gruppo che opera nella direzione generale. Oggi gli ispettori dei servizi di antipirateria della Siae coadiuvano le forze dell’ordine nell’attività di repressione della pirateria. La Siae, in base all’articolo 182 bis della legge 633/1941, ha specifici compiti di vigilanza, che espleta con l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, al fine di prevenire e accertare le violazioni della normativa sul diritto d’autore. La vigilanza sul territorio è effettuata in maniera capillare, con l’accesso diretto nei locali dove avviene l’utilizzo delle opere: discoteche e sale da ballo, pub e ristoranti, teatri, luoghi per concerti, copisterie. A testimonianza dell’intensa attività di tutela effettuata dalla Siae, il direttore generale Gaetano Blandini ricorda che lo scorso anno, solo nell’ambito della cooperazione con l’Agenzia delle Entrate per l’acquisizione del volume d’affari nel settore dello spettacolo, l’organismo ha monitorato l’attività svolta in oltre 142mila luoghi di spettacolo. Nel convegno “Il mercato che non c’è” lei ha voluto fare un’importante precisazione sul compenso agli autori e la libertà della rete. È una tassa o la tutela di un diritto? «Il diritto d’autore non è una tassa, perché non si tratta di un tributo da pagare allo Stato, in modo diretto o indiretto. Il diritto d’autore è la remunerazione che spetta all’autore per il suo lavoro, cioè la creazione dell’opera, che mette a disposizione di tutti. In sintesi, è lo “stipendio” dell’autore. Il legislatore ha, infatti, previsto la tutela del lavoro in tutte le sue forme, compresa quella di natura intellettuale, regolando il diritto d’autore tra i diritti del lavoro e riconoscendo il diritto esclusivo dell’autore di utilizzare economicamente l’opera creata». Perché si acquistano con facilità beni materiali ma non sempre si è disposti a pagare quelli immateriali? «Il diritto d’autore è un bene che non si vede e non si tocca,

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Gaetano Blandini • Diritto d’autore

La vigilanza sul territorio è capillare, con l’accesso a discoteche, sale da ballo, pub dove avvengono le utilizzazioni delle opere

A sinistra, Gaetano Blandini, direttore generale della Siae

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per cui molti non riescono a percepire il suo intrinseco valore, come generalmente accade per i beni di consumo o altri beni tangibili. Credo anche che molti di coloro che scaricano illegalmente opere dalla rete o acquistano prodotti contraffatti si sentano quasi gratificati nell’affermare un presunto diritto alla libertà e gratuità della cultura, senza rendersi conto dei diritti di coloro che creano contenuti e lavorano per lo sviluppo della cultura nel nostro Paese. Persino gli stessi artisti, siano registi, musicisti o autori teatrali, davanti alla richiesta di una presa di posizione contro la pirateria via web, manifestano cautela, per timore di dispiacere a quello che una volta si definiva popolo della rete. Comunque l’ampliamento dell’offerta legale è un ottimo deterrente alla pirateria e la Siae si è mossa da tempo in questa direzione». L’Agcom ha deliberato uno schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica ma il testo è stato riconsiderato. «L’Agcom ha adottato due delibere successive per prospettare uno schema di regolamento in materia di tutela delle opere dell’ingegno nelle reti di comunicazione elettronica. La prima delibera (la 668 del 17 dicembre 2010) prevedeva un sistema di tutela molto più efficace, sia per quel che riguarda la tempistica delle procedure di accertamento della legittimità dei contenuti trasmessi, sia per quel che riguarda le sanzioni. La seconda (la 398 del 6 luglio 2011), che sostituisce la precedente, presenta rilevanti modifiche rispetto alla prima su cui nutro talune perplessità circa un allungamento della tempistica procedurale e un’attenuazione delle

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Diritto d’autore • Gaetano Blandini

Secondo i dati Fimi, Fapav i danni causati dalla pirateria al settore musicale in Italia ammontano a circa 298 milioni di euro

sanzioni, con particolare riferimento ai siti esteri. In ordine a quest’ultima delibera si è recentemente pronunciata la Commissione Ue, che ha rivolto al governo italiano una serie di domande “significative” su molti punti dello schema di regolamento, per verificarne la compatibilità con le direttive europee in materia di diritto d’autore e commercio elettronico». Che durata hanno i diritti economici per gli autori? «I diritti di utilizzazione economica durano per tutta la vita dell’autore e fino a settant’anni dopo la sua morte. Trascorso tale periodo l’opera cade in pubblico dominio. Nel caso di opere in collaborazione il termine di durata dei diritti si calcola con riferimento al coautore che muore per ultimo. L’opera caduta in pubblico dominio è liberamente utilizzabile, purché si tratti di un’opera originale e non di una sua elaborazione protetta». Come vengono stabilite le tariffe per un autore o un utente Siae? «La Siae assicura ad autori ed editori un compenso per ogni sfruttamento delle loro opere, fungendo, di fatto, da sportello unico per lo spettacolo e la cultura. Le misure dei compensi sono stabilite dagli organi sociali, che rappresentano gli autori e gli editori associati e vengono concordate, tramite accordi rinnovati periodicamente, con le organizzazioni e le associazioni delle varie categorie di utilizzatori». A quanto ammontano in Italia, in termini economici, i danni causati dalla pirateria agli autori e all’industria culturale? «Non è possibile calcolare i danni causati agli autori in termini di mancato versamento dei compensi dovuti per le utilizzazioni delle opere. Invece per avere un’idea dei danni causati all’industria culturale basta scorrere i dati diffusi dalle associazioni di categoria (Fimi, Fapav), secondo cui essi ammontano a circa 298 milioni di euro per il settore musicale in Italia e a 490 milioni di euro per quello audio134

visivo. Vi sono poi i danni subiti dall’Erario, connessi all’evasione dell’Iva, e quelli inerenti alle migliaia di posti di lavoro sottratti all’industria culturale». La Siae non collabora solo con le forze dell’ordine per reprimere comportamenti lesivi del diritto d’autore ma svolge anche attività di prevenzione, sensibilizzando l’opinione pubblica e soprattutto i giovani. Con quale frequenza si tengono dei seminari e quali richieste arrivano dai giovani? «La Siae sta portando avanti con Afi e Nuovo Imaie, quali partner italiani della European music copyright alliance, l’iniziativa “Rispettiamo la creatività”, una campagna informativa e di educazione al rispetto del diritto d’autore nelle scuole italiane. L’obiettivo è quello di far capire che chi crea un’opera compie un lavoro e come tutti i lavoratori ha diritto al suo compenso, che gli viene sottratto laddove si acquistino prodotti non originali, compiendo un atto che, oltre a essere un reato, danneggia tutta l’industria culturale con gravi perdite di posti di lavoro». Nell’anno scolastico 2010-2011, la campagna quanti soggetti ha coinvolto e quali spunti sono emersi? «L’iniziativa, in collaborazione con Ellesse Edu e con il patrocinio del Ministero della Pubblica istruzione, ha interessato oltre 15.000 studenti di scuole secondarie di primo grado di 9 regioni italiane (Veneto, Toscana, Sardegna, Liguria, Lombardia, Lazio, Piemonte, Campania e Sicilia), cui è stato inviato il kit didattico “Rispettiamo la creatività” con un piano di lezioni, giochi e attività di gruppo, proprio per spiegare i principi che regolano il mondo della musica e i diritti che tutelano i suoi protagonisti. Dalle interviste dei 500 docenti coinvolti è emerso che il tema del diritto d’autore, pur avendo destato molto interesse, è risultato il più difficile da trattare. Tra i ragazzi spesso prevale l’idea che gli artisti siano ricchi e i talent show spesso ingenerano l’illusione di un facile trampolino». C&P • GIUSTIZIA


Maurizio Mandel • Diritto d’autore

Pirateria e contenuti legali «La tecnologia offre grandi opportunità per l’accesso e la circolazione delle opere dell’ingegno», ne è convinto l’avvocato Maurizio Mandel. Ma va garantita l’effettività delle sanzioni di Renata Gualtieri

L’avvocato Maurizio Mandel, membro dell’ufficio affari giuridici e legali della Siae

toricamente per pirateria si intende l’utilizzazione abusiva delle opere dell’ingegno, in tutte le sue forme e modi, con particolare riferimento alle varie fattispecie di illecita riproduzione o commercializzazione. Nella società dell’informazione la definizione dell’atto di pirateria non è però altrettanto semplice e lineare come in passato, poiché è possibile individuare due ambiti separati, seppur connessi tra loro. Da un lato vi è un ampio numero di soggetti che, nell’ambito di una organizzazione criminosa, si dedicano in via professionale all’attività di contraffazione, duplicazione e distribuzione delle opere tutelate, fenomeno questo riconducibile alla pirateria. Esiste però, una ben più ampia platea di persone che, pur non agendo su scala commerciale, trae indubbi benefici economici dalla fruizione di contenuti resi abusivamente disponibili e accessibili sulle reti telematiche. «Nei confronti di quest’ultima categoria – precisa Maurizio Mandel, membro dell’ufficio affari giuridici e legali della Siae – le sanzioni penali non sembrano costituire lo strumento di contrasto più idoneo, in quanto rappresentano l’extrema ratio per reprimere condotte riprovevoli non solo sul piano strettamente giuridico». Qual è la natura giuridica del contrassegno previsto dall’articolo 181 bis della legge 633/1941? «Il contrassegno Siae è stato fin dagli anni 70 uno strumento fondamentale per la lotta alla pirateria, inizialmente adottato grazie ad accordi con le case di produzione discografica e reso obbligatorio dalla legge 121/87. Attraverso il contrassegno vengono registrati i flussi di circolazione dei

supporti, per la verifica della legittimità della riproduzione dell’opera, rendendo possibile l’immediato riconoscimento del prodotto commerciale lecito da parte dei consumatori e delle forze dell’ordine. Con il decreto legislativo 685 del 1994, è stato inserito nella legge sul diritto d’autore l’articolo 171 ter, che sanziona la mancata apposizione del contrassegno per la vendita o il noleggio di qualsiasi supporto “contenente fonogrammi o videogrammi di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento”. La legge 248 del 2000 ha introdotto nella legge di autore l’art. 181 bis, ribadendo l’obbligatorietà del contrassegno Siae “su ogni supporto contenente programmi per elaboratore o multimediali, nonché suoni, voci o immagini in movimento”, messo in commercio o ceduto a qualunque titolo a fine di lucro. Il contrassegno Siae, agli effetti dell’applicazione della legge penale, è considerato un segno distintivo dell’opera dell’ingegno e in tal senso può essere individuata la sua natura giuridica». Quale può essere ad oggi una sanzione efficace per i trasgressori? «Le sanzioni attualmente previste, ad esempio dall’art. 171 ter, spaziano dalla reclusione alla multa, con pubblicazione della sentenza e sospensione dell’attività produttiva, nonché interdizione da una professione e dagli uffici direttivi delle imprese: esse sono certamente appropriate per combattere la pirateria su scala commerciale e industriale. Ritengo però che per altre tipologie di utilizzazioni illecite, quali il peer to peer, sarebbero preferibili diverse forme di intervento, quali le sanzioni amministrative a carattere pecu-

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Diritto d’autore • Maurizio Mandel

niario, opportunamente integrate da misure tecnologiche che non necessariamente giungano al distacco della connessione. Potrebbe essere efficace un sistema certificato che preveda, per il tramite dei provider, l’invio di avvisi ai trasgressori (notice and take down) e che possa giungere, con l’autorizzazione della magistratura o di altra autorità, alla disabilitazione all’accesso, limitatamente al sito web pirata, nonché alla disattivazione dei link». Ma vi sono anche altri strumenti offerti dalla tecnologia? «Intervenendo sulla velocità di connessione si possono garantire le funzioni primarie (posta elettronica, accesso a Internet), ostacolando lo scaricamento di contenuti illeciti. Tali azioni dovrebbero accompagnarsi a una politica di investimenti nel settore dell’informazione e dell’educazione, al fine di sensibilizzare soprattutto i giovani, indirizzandoli al rispetto della legalità. L’importante, però, è garantire l’effettività delle sanzioni, che attualmente non è riscontrabile». A chi finiscono i soldi del materiale contraffatto? «Nell’ambito della mia ventennale esperienza in sede giudiziaria come avvocato della Siae, ho potuto constatare che esistono numerose organizzazioni criminali strutturate sul territorio nazionale che gestiscono direttamente il business. Sono poi riscontrabili realtà minori, con attività a carattere familiare e talvolta cooperativo, che a loro volta traggono profitto diretto, seppur in minor misura.Vi è infine la catena della distribuzione dei supporti, notoriamente costituita da extracomunitari o da altri soggetti che versano in stato di 136

indigenza, i quali peraltro hanno ricavi molto modesti. Diversamente è a dirsi per la pirateria marcatamente tecnologica, che non richiede la copertura del territorio e consente ad esempio al titolare del sito web di ricevere direttamente i benefici economici». Si parla spesso degli atti di pirateria del popolo della rete, ma non dei profitti delle multinazionali delle comunicazioni. Altri Paesi stanno varando delle leggi che impongono agli Internet provider di controllare lo scaricamento illecito delle opere tutelate. A che punto è l’Italia? «I grandi gruppi dell’industria informatica, telematica e telefonica hanno sicuramente tratto un rilevante vantaggio economico dalla maggiore diffusione sulla rete delle opere dell’ingegno. È evidente, infatti, che i dispositivi tecnologici, telefonici e multimediali e i servizi di connessione a Inter-

I dispositivi tecnologici, telefonici e multimediali divengono appetibili quando consentono un’ampia fruizione di contenuti come film, brani musicali, video, ma anche libri liberamente disponibili net divengono particolarmente appetibili quando consentono un’ampia fruizione di contenuti (film, brani musicali, video, ma anche libri, fotografie, disegni, articoli di stampa) liberamente disponibili, condivisibili e riproducibili. Partendo da questo presupposto è indubbio che tali soggetti, comunemente definiti come Internet service provider o Intermediari di servizi, ma in realtà riconducibili alla più vasta categoria dei new media e delle compagnie di telecomunicazioni, debbono essere responsabilizzati. Non possiamo pretendere che i provider si trasformino in poliziotti della rete, ma non sussistono valide ragioni perché invochino esenzioni di responsabilità. Al momento non vi sono significativi disegni di legge in via di approvazione, anche se si C&P • GIUSTIZIA


Maurizio Mandel • Diritto d’autore

registrano molti fermenti e aspettative, in tal senso è certamente importante l’iniziativa assunta da Agcom». Sussistono responsabilità dell’Internet service provider in presenza di utilizzazioni illecite rilevanti per il diritto d’autore? «La giurisprudenza ha più volte affermato la sussistenza degli obblighi di cooperazione del service provider, necessari per evitare il dilagare dei comportamenti illeciti, anche alla luce della direttiva 2000/31 che impone di agire “immediatamente” una volta avuta effettiva conoscenza del carattere illegale delle attività. Anche in passato la magistratura ha ritenuto di poter applicare le norme esistenti alle innovazioni tecnologiche, come nel caso del software riconosciuto già negli anni 80 quale opera dell’ingegno. In particolare, in alcune recenti decisioni rese in sede civile, si è affermato che il provider deve rimuovere il materiale illecitamente trasmesso, su segnalazione dell’avente diritto, senza attendere l’ordine dell’autorità giudiziaria. In sede penale alcune decisioni degli ultimi anni, ad esempio nel caso di ThePirate, Bay.org e BtJunkie, hanno ordinato ai provider italiani che fornivano la connessione di disabilitare l’accesso ai siti pirata, riconoscendo in caso di uploading una responsabilità penale per il reato di diffusione o comunicazione al pubblico abusiva dell’opere dell’ingegno sulla rete Internet». Come si è sviluppato il dibattito che investe la tutela della privacy? «È avvenuto su presupposti non corretti: è chiaro, infatti, che la tutela delle opere dell’ingegno non può e non deve comportare lesioni del diritto alla riservatezza e alla protezione dei dati per-

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sonali, così come del diritto alla libera manifestazione del pensiero. È altrettanto vero, però, che la privacy non può divenire una copertura inviolabile a favore di chi intenda infrangere la legge. Anche in questo caso basta attenersi ai principi generali che hanno sempre consentito l’accertamento di ogni attività illecita e l’identificazione del responsabile». Come riequilibrare il sistema tra pirateria e diffusione dei contenuti legittimi? «Non credo che si tratti esattamente di riequilibrare due fenomeni in qualche modo paragonabili tra loro: sia la normativa italiana che quella comunitaria, nel rispetto dei trattati internazionali, prevedono che sia consentita unicamente e soltanto la diffusione dei contenuti legittimi. Conseguentemente lo Stato, nelle sue varie componenti e secondo le rispettive competenze, deve varare al più presto eventuali leggi che regolino specificatamente il settore, assicurando quanto prima misure efficaci, proporzionate e dissuasive nei confronti delle utilizzazioni illecite in rete, così come previsto dalla direttiva comunitaria n. 29 del 2001. Si potrà così pervenire all’effettiva tutela dei diritti, che consentirà lo sviluppo dell’offerta di contenuti legali, relegando in pari tempo la pirateria a quella fisiologica “zona grigia” in cui opera un ristretto novero di soggetti che accetta il rischio di violare le leggi». Su cosa si attesta la sfida digitale al diritto d’autore? «Sono convinto che la tecnologia offra grandi opportunità per promuovere e agevolare l’accesso e la circolazione delle opere dell’ingegno nell’interesse degli utilizzatori e dei consumatori e che anche gli autori abbiano interesse a che le loro creazioni vengano conosciute e apprezzate dalla più vasta platea di utenti. Secondo le normali regole dell’economia, tale maggiore diffusione comporterà certamente una contrazione dei relativi costi: contrazione che non si può però pretendere di realizzare sino a quando il mercato legale rappresenterà una percentuale modesta rispetto a quello illegale. Ciò infatti deve avvenire attraverso meccanismi che complessivamente garantiscano il riconoscimento di un compenso adeguato in favore degli autori, chiamati allo sviluppo culturale e creativo e degli editori e produttori che possono investire somme rilevanti solo avendo la certezza di poter fruire della necessaria tutela, limitando l’alea al fattore successo. Diversamente opinando la tecnologia diverrebbe per il diritto d’autore la tomba della legalità, con la compromissione del patto sociale che regola la società civile superando la dimensione dell’homo homini lupus». 137


Diritto d’autore • Giovanni Flora

Dal Trattato di Berna a oggi Servono regole certe, chiare e condivise, secondo Giovanni Flora, professore di diritto penale all’Università di Firenze di Renata Gualtieri

L’avvocato Giovanni Flora, professore ordinario di diritto penale all’Università di Firenze

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l diritto di autore ha avuto sin dalle origini una fortissima vocazione internazionale testimoniata dalla Convenzione dell’Unione di Berna del 1886, vocazione oggi ancor più spiccata considerato il trend crescente di globalizzazione nell’uso dei beni e dei servizi. Una linea ideale di continuità ha sempre legato le convenzioni internazionali, a partire dal Trattato di Berna, per giungere agli accordi Gatt/Trips della fine degli anni 90, nonché al sistematico susseguirsi delle direttive comunitarie via via recepite all’interno dei vari ordinamenti nazionali. A livello comunitario la tutela della proprietà intellettuale e industriale, già prevista nel 1957 dal Trattato di Roma, è stata riconosciuta dal Trattato di Maastricht; più di recente analoghe affermazioni si rinvengono nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. «La giurisprudenza della Corte di Giustizia e le direttive comunitarie in materia mostrano a loro volta chiaramente come la protezione della proprietà intellettuale – commenta l’avvocato Giovanni Flora, professore ordinario di diritto penale all’Università di Firenze – sia saldamente presente nei suddetti trattati e convenzioni». Il fondamento costituzionale del diritto d’autore è stato inoltre sancito sul piano internazionale dalla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni unite nel 1948. La proprietà intellettuale è riconosciuta in tutto il mondo? «Nell’attuale contesto esistono legislazioni sulla proprietà intellettuale in tutte le parti del mondo, anche nei Paesi dell’ex blocco comunista, in Cina e in Africa. Pure le società di gestione collettiva rappresentano una realtà consolidata: sono oltre 150, legate tra loro da una rete di accordi di rappresentanza, estesi anche ai diritti online, e la loro funzione di tutela delle opere dell’ingegno, quale che sia la forma giuridica adottata, viene considerata ovunque di rilevanza generale».

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Giovanni Flora • Diritto d’autore

In che misura l’utilizzo dei sistemi informatici lede il diritto di autore? «Credo si possa sostenere la sicura neutralità della tecnologia rispetto all’uso che viene fatto dell’opera dell’ingegno. In altre parole la creazione artistica e intellettuale conserva le sue caratteristiche, e come tale fruisce degli strumenti di tutela previsti dalla legge, indipendentemente dai mezzi e dagli strumenti adottati per la sua veicolazione e comunicazione al pubblico. È innegabile che le nuove tecnologie hanno agevolato enormemente le possibilità di riproduzione e di diffusione dell’opera dell’ingegno senza che a tale fenomeno abbia corrisposto un controllo effettivo sui contenuti, una precisa individuazione di responsabilità (anche in capo ai provider) e un reale coordinamento degli strumenti di tutela per assicurare il lecito utilizzo di un bene immateriale, particolare e complesso, quale è il diritto di autore. Vi sono poi alcuni programmi telematici, come il “famigerato” Bit Torrent, che oggettivamente hanno reso possibile in misura esponenziale lo scambio e la condivisione non autorizzati su Internet di contenuti tutelati».

Le nuove tecnologie agevolano la diffusione dell’opera dell’ingegno senza controllo sui contenuti

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Emblematica in tal senso la sentenza del Tribunale di Stoccolma del 2008, confermata in appello, nei confronti del sito The Pirate Bay. «Il sito forniva un servizio di file sharing basato proprio sul protocollo Bit Torrent, rendendo disponibile al pubblico senza alcuna autorizzazione un numero sterminato di opere protette, di cui ciascun utente poteva estrarre copia con il supporto di un servizio di indicizzazione e ricerca delle opere condivise. Nel 2011 è intervenuta una sentenza della Corte Suprema finlandese sul caso Finreactor (tracker Bit Torrent molto popolare nel Paese) e anche in Francia e in Germania diverse decisioni dei giudici hanno condannato i titolari di siti web che utilizzano simili tecnologie, come RapidShare, senza entrare nel merito della questione ma riconoscendo profili di responsabilità concorrente in capo agli stessi titolari per il servizio di file sharing. Al tempo stesso le nuove tecnologie possono rappresentare un formidabile volano di sviluppo per l’offerta legale di contenuti in rete e più in generale per la circolazione, la promozione e la facilitazione all’accesso alle opere dell’ingegno e alla cultura. Ciò che si chiede è un sistema di regole certe, chiare e condivise che assicuri il diritto degli autori a percepire un giusto compenso per l’utilizzazione delle proprie opere anche sulle reti telematiche e di comunicazione». Non solo diritti economici ma anche diritti morali d’autore. Cosa sono? «Il diritto di autore è unico anche se presenta due diversi aspetti: quello morale e quello patrimoniale. Il diritto morale è strettamente collegato alla personalità del creatore dell’opera e comprende essenzialmente il diritto alla paternità e all’integrità dell’opera. L’articolo 2577 secondo comma codice civile dispone infatti che l’autore, anche dopo la cessione dei diritti patrimoniali sull’opera, può rivendicarne la paternità ed opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione della stessa che possa essere pregiudizievole al suo onore o alla sua reputazione. Vi sono anche un diritto di inedito, e cioè la facoltà di decidere se un’opera di propria creazione possa formare oggetto di pubblicazione in qualsiasi forma, e il cosiddetto diritto di pentimento (ritiro dell’opera dal commercio). Il diritto patrimoniale si specifica invece nelle varie facoltà di utilizzazione economica dell’opera indicate dagli articoli 12 e seguenti della legge d’autore e comprende anche il diritto di impedire che altri facciano un uso non autorizzato dell’opera. Il diritto morale non solo non si prescrive, ma è inalienabile e permane in capo all’autore anche dopo il trasferimento dei diritti esclusivi di utilizzazione economica».

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Tutela del brand • Adriano Vanzetti

Diritto industriale baluardo del made in Italy La contraffazione di merci e la violazione della proprietà intellettuale in ambito europeo hanno provocato una «bulimia legislativa» che, per il professor Adriano Vanzetti, non consente alcuna sicurezza sul diritto vigente di Paola Maruzzi

universo della contraffazione è in continua evoluzione: ha raggiunto livelli sofisticati e investito ambiti merceologici che prima ne erano immuni. Se, per esempio, fino a vent’anni fa il mercato del falso riguardava soprattutto i generi di lusso, oggi questo tipo di “industria” realizza e vende in massa beni di largo consumo, dai prodotti farmaceutici a quelli agroalimentari. Strettamente connessa a questa deriva, c’è la questione della tutela del diritto d’autore, dei brevetti per invenzione e dei marchi. Adriano Vanzetti, avvocato e professore emerito di Diritto industriale all’Università Cattolica, guardando ai tanti provvedimenti europei, avverte sul rischio di emanare continuamente nuove norme e parla di una «bulimia che non consente alcuna sicurezza sul diritto vigente». Di fronte all’aumento esponenziale della contraffazione di marchio qual è stata la reazione legislativa? «In un primo momento è stato configurato come reato soltanto quella che nel codice della proprietà industriale è stata indicata come “pirateria” e a cui lei si riferisce con il termine contraffazione; successivamente, con modifiche al codice penale, sono state represse più severamente e indiscriminatamente sia l’imitazione completa dell’altrui marchio sia un’imitazione non piena che ingeneri una possibilità di confusione. Questo è senz’altro eccessivo». In che senso internet ha complicato le cose? «La creazione e lo sviluppo del web hanno comportato cer-

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Adriano Vanzetti • Tutela del brand

L’imitazione totale o parziale di un marchio che produca confondibilità è repressa sia in sede civile che in sede penale

tamente dei problemi nuovi, essenzialmente sia sul piano della tutela del diritto d’autore che su quello della tutela contro la confondibilità, in relazione ai domain names e all’uso dei marchi in internet». All’interno dell’Unione europea quali sono le carenze ancora da colmare per garantire il rispetto effettivo dei diritti di proprietà intellettuale? «La copiosa produzione normativa nel campo della proprietà intellettuale a livello europeo pare indice di bulimia legislativa. La continua emanazione di nuove norme non consente alcuna sicurezza sul diritto vigente. Questa produzione riflette un’ideologia nettamente dirigistica, di compressione delle libertà individuali, con un’esasperazione delle fattispecie vietate

e la previsione di un penetrante controllo della pubblica autorità anche su attività a contenuto chiaramente privatistico». Ci sono i marchi contraffatti e quelli imitati. Qual è la differenza? «In generale contraffazione e imitazione sono usati come sinonimi. In linea di massima l’imitazione totale o parziale di un marchio che produca confondibilità è repressa sia in sede civile sia in sede penale. Cosa diversa è la pirateria, per esempio i container di falsi Gucci che arrivano dalla Cina o da Taiwan. Purtroppo la recente riforma delle norme penali in materia non fa distinzione e c’è chi auspica che il giudizio di confondibilità sia, anche in sede penale, ispirato a criteri identici a quelli usati per l’imitazione confusoria. In sede civile la maggior parte delle fattispecie esaminate in ambito giudiziale riguarda le imitazioni». Lei si occupa anche di concorrenza fra aziende. Cos’è che, nella maggior parte dei casi, non viene rispettato nelle pubblicità commerciali? «Non mi consta che vi sia una grande estensione della pubblicità illecita. A parte quella denunciata dai concorrenti, vi sono due enti che possono agire d’ufficio contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa, il Giurì dell’autodisciplina e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Questi enti nel complesso non si risparmiano e a livello imprenditoriale l’atmosfera che si è creata è quella di un timore diffuso - specie relativo alle iniziative dell’Autorità garante anche per chi ha la coscienza tranquilla».


Tutela del brand • Fabrizio Bianchi Schierholz

Come difendersi in tempi di globalizzazione La giurisprudenza manifesta la giusta attenzione e garantisce un’ampia tutela alla difesa dei marchi, oggi diventata più «vulnerabile», sostiene l’avvocato Fabrizio Bianchi Schierholz, per via dello sviluppo industriale e tecnologico di dimensioni globali di Elisa Fiocchi

o studio legale Bianchi Schierholz Montani & Partners, con sede a Milano e Roma, fornisce servizi di consulenza e assistenza in ambito legale e tributario. Negli ultimi anni l’attività di tutela dei marchi e della proprietà industriale in genere, è andata incrementando per via dell’estensione della tutela anche con riferimento ai nomi a dominio e, più generalmente, alla tutela degli abusi a mezzo internet. «Volendo fare una media lo studio ha avviato circa 40 pratiche ogni anno», afferma l’avvocato Fabrizio Bianchi Schierholz, che illustra le principali norme giuridiche in materia di tutela del brand. Per individuare “affinità” tra i prodotti non basta l’appartenenza alle diverse classi merceologiche. Quali criteri sono stati fissati dalla giurisprudenza per valutarne l’omogeneità? «S’intendono “affini” quei prodotti che, per la loro natura, la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in misura rilevante fungibili e, pertanto, in concorrenza. La conseguenza è che essa debba implicare la comunanza di una qualità ontologica dei prodotti in questione e non tanto la mera appartenenza dei medesimi a un ambito, di origine culturale o di costume». Come la giurisprudenza si esprime sulla distinzione tra marchi deboli e forti e sulla diversità della tutela che compete loro? «Il marchio debole si caratterizza per l’uso di denominazioni, segni, forme o raffigurazioni coerenti nei confronti del prodotto

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L’avvocato Fabrizio Bianchi Schierholz dello studio legale Bianchi Schierholz Montani & Partners

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Fabrizio Bianchi Schierholz • Tutela del brand

cui viene associato, derivando, il più delle volte, dalla combinazione di parole, segni e forme di uso comune. Il marchio forte si contraddistingue per essere un marchio di fantasia, originale e svincolato dal prodotto cui si riferisce. In ragione della sua minore originalità al marchio debole è riservata una tutela più fievole che s’innesca, sostanzialmente, solo quando è riprodotto integralmente o imitato in modo molto prossimo, mentre il marchio forte trova tutela ogni qual volta una riproduzione o imitazione di esso si attesti anche esclusivamente su una sua parte, purché atta a orientare le scelte dei potenziali acquirenti». Attraverso quali procedure lo studio legale è in grado di offrire un servizio di tutela del brand? «Lo studio assiste i propri clienti in via preliminare attraverso una corretta scelta in merito alla registrazione. È da considerare in quante e quali, una o più, classi si intende registrare il marchio oltre che in quali paesi. In Italia sono state istituite le Sezioni specializzate per la proprietà industriale e intellettuale che hanno competenza specifica o funzionale, tra l’altro, in materia di tutela dei marchi. Può dunque adirsi in via ordinaria il tribunale competente, introducendo un giudizio a cognizione piena. Ove, invece, ne ricorrano le circostanze è possibile richiedere provvedimenti d’urgenza, quali l’inibitoria, il sequestro e gli altri provvedimenti utili ad assicurare una tutela immediata». Quanto la valutazione del giudice è influenzata dalle circostanze nella determinazione dei criteri di affinità? «Ogni caso è a se stante, tuttavia la valutazione si attesta sì sul C&P • GIUSTIZIA

caso di specie, ma non può essere disancorata dalla valutazione della percezione della collettività dei consumatori rispetto a un dato marchio proprio perché la valutazione sulla confondibilità del marchio (o del prodotto) non può prescindere dalla valutazione globale del rischio di confusione in cui può cadere un consumatore medio: il livello di attenzione può variare in funzione della categoria di prodotti o di servizi cui si riferisca il caso di specie, inoltre solo raramente ha la possibilità di procedere a un confronto diretto dei vari marchi, ma deve fare affidamento sull’immagine imperfetta che ne ha mantenuto nella memoria». In quali principali settori operano le grandi società che si rivolgono per una consulenza sul marchio e la contraffazione? «I marchi che soffrono maggiormente la contraffazione sono quelli relativi ai beni di lusso e all’abbigliamento, in particolare gli accessori. Sorprenderà sapere che spesso la tutela del marchio è azionata anche dagli istituti finanziari per la protezione di particolari pacchetti o strumenti di investimento o finanziamento nonché dalle case farmaceutiche. Poi, con la divulgazione dei sistemi informatici, chiunque possieda un nome a dominio o un sito web contraddistinto da un proprio marchio è un potenziale portatore di un interesse di difesa. In questo senso anche molte piccole imprese che si occupano della produzione, distribuzione e vendita dei più disparati prodotti chiedono sempre più di frequente assistenza per usurpazione o abuso del proprio marchio». 143




Tra Pa e imprese • Cristina Lenoci

Razionalizzare gli appalti pubblici Per realizzare una concreta sinergia tra le pubblica amministrazione e le imprese coinvolte nel sistema degli appalti non occorrono nuove leggi ma una pragmatica applicazione di quelle già esistenti. Il punto di vista dell’avvocato Cristina Lenoci di Giulio Conti

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e vogliamo che le cose inizino davvero a cambiare in Italia dobbiamo smettere di pensare che la panacea di tutti i nostri mali sia esclusivamente nelle mani del Legislatore. Continuando a sovraccaricarci di norme non faremo altro che arenarci in procedure estremamente burocratizzate e perciò incapaci di generare sviluppo e produttività». L’avvocato Cristina Lenoci, amministrativista esperta in materia di appalti pubblici, così snocciola la questione: «Quello di cui oggi abbiamo bisogno è un’amministrazione forgiata alla razionale e sistematica applicazione delle norme già esistenti». In tal senso può essere certamente da stimolo ogni iniziativa volta a tradurre in fatti concreti, e cioè in cantieri e lavoro, le regole imposte dal nostro Paese e, più in generale, dalla Comunità Europea. Quali linee e strategie sono emerse alla fine del Convegno di Ravello per realizzare concretamente l’opportunità che lo intitola “Appalto Pubblico: chance di sviluppo efficiente”? «All’esito delle relazioni, degli interventi e soprattutto alla luce del confronto a più voci moderato dal Presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, vi è stata una maggiore presa d’atto della fondatezza di gran parte delle critiche mosse dagli operatori economici contro la scarsa pragmaticità nell’applicare le norme sia da parte della P.A. sia da parte delle imprese. Su questo aspetto, tuttavia, il Presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise, ha saggiamente evidenziato la necessità di considerare anche le innegabili difficoltà della finanza pubblica che spesso impongono alle Amministrazioni una gestione a senso unico delle risorse. Così accade purtroppo spesso che si definanziano le opere per le quali i cantieri non sono attivati nei termini previsti o che segnano ritardi ingiustificati, senza tuttavia considerare che a volte occorrono mesi, se non anni, per la pubblicazione di una delibera del Cipe (già varata), e senza far nulla per attuare il sinallagma contrattuale (oltre che una specifica Direttiva comunitaria) in ordine ai tempi dei pagamenti alle imprese. È seguito, infine, l’invito acché nel momento di grave crisi finanziaria che stiamo vivendo vi sia un intervento più incisivo da parte dello Stato nelle dinamiche economiche, con l’auspicio, tuttavia, che tale intervento sia diretto a introdurre le riforme strutturali delle quali il nostro Paese ha tanto bisogno, in uno spirito di sinergia con il mondo imprenditoriale e sindacale, il corpo sociale, i cittadini tutti: in sintesi, più politiche pubbliche e più apporti dei privati». A supporto di una più trasparente redditività, qua-

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Tra Pa e imprese • Cristina Lenoci

In apertura Cristina Lenoci, avvocato amministrativista, componente del Comitato Scientifico del convegno di Ravello dell’Ottobre scorso, cui ha partecipato il Presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise (in foto) www.studiolenoci.net

lità e puntualità dei lavori in appalto non crede che andrebbe rivisto il criterio di partecipazione alle gare trasformatosi in “gioco al ribasso”? «A mio avviso non è detto che un’offerta recante un prezzo particolarmente vantaggioso per la P.A. celi sempre e comunque un lavoro e/o un servizio e/o una fornitura di scarsa qualità o, peggio ancora, il rischio di un blocco dei cantieri. Ben potrebbe accadere che un’impresa sia dotata di un’organizzazione tale da consentirle di offrire all’amministrazione un prezzo estremamente appetibile. Semmai va cambiato l’approccio della Stazione appaltante nei confronti delle offerte recanti un ribasso prima facie di dubbia sostenibilità, estendendo la verifica di congruità delle stesse alle conoscenze tecnologiche del settore effettivamente possedute dal soggetto proponente, attraverso l’esame e la comparazione dei vantaggi e degli svantaggi di soluzioni alternative. In altri termini, l’esame delle offerte non deve limitarsi alla disamina del solo elemento prezzo». In che modo si potrebbe dunque realizzare la sinergia tra il sistema pubblico e quello dei privati? «Innanzitutto occorre procedere a un’integrale e organica ricodificazione dell’intero settore del “partenariato pubblicoprivato”. A tal proposito si “rumoreggia” l’introduzione di un nuovo strumento contrattuale, il “contratto di disponibilità”, nonché del cosiddetto “leasing in costruendo”, delle società miste pubblico-private per la gestione unitaria delle varie tipologie di infrastrutture, e così via. Con riferimento invece al modello del project financing, gli interpreti già da tempo hanno avuto cura di rilevare il rischio di “ingessatura” dell’istituto causata dal contenuto eccessivamente dettagliato dello stuC&P • GIUSTIZIA

dio di fattibilità predisposto dall’Amministrazione e posto a base di gara.Alla qualcosa, a onor del vero, il Legislatore ha cercato di porre rimedio con il Decreto Svuluppo, riformulando, ad esempio, il comma 19 dell’articolo 153 del D. Lgs. n. 163/2006, ss.mm.ii., che consente ora la presentazione di proposte relative a concessioni di lavori pubblici o di pubblica utilità non presenti nella programmazione triennale ex articolo 128 piuttosto che negli strumenti di programmazione approvati dalla P.A. sulla base della normativa di settore vigente. Inizia quindi a intravedersi un approccio più concreto da parte dello Stato alla materia a mezzo di interventi volti a introdurre riforme strutturali e comunque in sinergia con le iniziative e le esigenze imprenditoriali e sociali». Quali ingranaggi del sistema appalti andrebbero rivisti per non penalizzare le aziende potenzialmente idonee all’ottenimento di una gara? «In ossequio al principio del favor partecipationis, a mio avviso, andrebbero espunte dal mondo giuridico tutte quelle cause di esclusione che badano più alla forma che alla sostanza. Del resto, è stato proprio questo uno dei nodi gordiani su cui spesso si è imbrigliata anche la giurisprudenza amministrativa, assumendo orientamenti non sempre univoci. Nel tentativo di dirimere siffatta questione il Legislatore, con il Decreto Sviluppo, ha posto un freno alla discrezionalità delle stazioni appaltanti, stabilendo che l’inserimento di clausole a pena di esclusione negli atti di gara è consentito solo se dette clausole sono conseguenti a obblighi scaturenti da norme del Codice dei contratti pubblici. Pertanto, nell’ipotesi in cui le clausole in parola dovessero essere inserite senza presupposto normativo, le stesse andrebbero considerate nulle». 147


Appalti pubblici • Maurizio Steccanella

Oneri pesanti per i contenziosi Recentemente è stata modificata la disciplina che stabilisce le regole per avviare una procedura contenziosa, introducendo un regime economicamente penalizzante che solleva diversi dubbi di legittimità. Ne parla Maurizio Steccanella di Amedeo Longhi

L’avvocato Maurizio Steccanella esercita la professione forense a Milano ms@studiosteccanella.it

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o scorso agosto, attraverso il voto di fiducia, è stata approvata la legge 111 del 2011, che ha convertito, modificandolo, il decreto legge 98, sempre del 2011, recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”. L’avvocato Maurizio Steccanella, esperto di diritto pubblico, diritto amministrativo e in particolare in materia di appalti pubblici, di lavori, di forniture e servizi, nei giudizi di responsabilità alla Corte dei Conti, nell’urbanistica e nelle pubbliche affissioni approfondisce in particolare l’articolo 37 della legge 111, che ha per oggetto il contributo unificato, cioè la somma che deve essere anticipata per avviare una procedura contenziosa in sostituzione delle marche da bollo. Qual è la nuova procedure in materia? «Per quanto riguarda il contenzioso sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, l’importo del contributo unificato è stato elevato a 4.000 euro. Nel caso in cui l’avvocato incaricato non disponesse di una Pec – vale a dire la posta elettronica certificata –, tale contributo salirebbe addirittura a 6.000 euro. È del tutto evidente che l’avvocato incaricato di agire deve preliminarmente chiedere al cliente di anticipare 4.000 euro – che, visto che moltissimi avvocati non dispongono di Pec, nella stragrande maggioranza dei casi sarebbero in realtà 6.000 euro. Non pochi clienti, a fronte di un esborso del genere, rinunceranno e desisteranno dall’agire, considerando il fatto che il pagamento deve essere effettuato indipendentemente dall’esito dell’azione che si intende intraprendere». Intravede un secondo fine di natura extra-giuridica nel provvedimento? «A mio parere non si tratta soltanto di una misura studiata per “fare cassa”, ma di un evidente disegno politico inteso a scoraggiare il ricorso alla giustizia amministrativa e a disincentivare la giurisdizione di legittimità. Da tempo si avverte una decisa ostilità nei confronti dei Giudici Amministrativi – T.A.R. e Consiglio di Stato – ai quali si fa carico di volersi intromettere nelle aggiudicazioni degli appalti pubblici da lasciare, invece, alla piena discrezionalità, che però è assai spesso connessa con intenti corruttivi o concussivi o con scelte “di favore”». Ritiene dunque che questa risoluzione possa essere gravata da un’illegittimità di fondo? «Appare evidente l’inosservanza dei precetti costituzionali contenuti negli articoli 24 e 113 commi 1 e 2 della Costituzione. Per questo motivo mi sento di prevedere e, anzi, auspicare un giudizio da parte della Corte Costituzionale».

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Espropri per pubblica utilità • Pier Costanzo Reineri

Espropri senza indennizzo? Un esempio significativo per capire lungaggini e contraddizioni del sistema giuridico italiano. Una problematica connessa agli espropri per pubblica utilità illustrata da Pier Costanzo Reineri di Guido Puopolo

Sotto, l’avvocato Pier Costanzo Reineri, dello Studio omonimo di Torino. In alto l’avvocato Paolo Alberto Reineri riceve in premio la toga dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, Mario Napoli, per il brillante esito dell’esame di Stato, sessione 2008-09. Nella pagina a fianco l’avvocato Nicola Peretti studiolegalereineri@alice.it

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opinione diffusa che lentezza dei procedimenti e incertezza degli esiti della giustizia italiana scoraggino gli investimenti esteri nel nostro Paese. A questo proposito abbiamo chiesto un parere all’avvocato Pier Costanzo Reineri, del Foro di Torino, che sta seguendo un caso emblematico in materia di espropriazione per pubblica utilità, in cui la Cassazione civile ha negato l’indennizzabilità del “valore” azienda, pur quando essa venga eliminata per effetto dell’esproprio del fondo su cui insiste. Ci può spiegare di che si tratta? «Una grande stazione di servizio per la distribuzione dei carburanti, con le annesse strutture, posta su area privata in fregio a un’arteria di grande comunicazione e quindi molto redditizia, è stata espropriata dall’ente proprietario della strada per realizzarne una variante. Per effetto dell’esproprio la stazione di servizio è stata eliminata». E la proprietà non è stata indennizzata della sua perdita? «Con la sentenza n. 1072/2003 la Corte d’Appello di Torino riconobbe un indennizzo, rapportato alla media dei redditi che la stazione di servizio aveva prodotto negli ultimi anni. Venne cioè riconosciuta l’indennizzabilità del valore dell’azienda, andata perduta insieme al fondo. Successivamente, nel 2009, si è espressa in senso contrario la 1ª Sezione civile della Cassazione con la sentenza n. 8229, richiamando un risalente indirizzo giurisprudenziale, per cui quando l’esproprio riguarda un’area su cui esiste un complesso di beni

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Pier Costanzo Reineri • Espropri per pubblica utilità

Esiste un’evidente distonia fra il principio enunciato dalla Cassazione e i principi della giurisprudenza della Cedu

destinato all’esercizio di un’attività imprenditoriale, cioè un’azienda, la perdita di quest’ultima non va indennizzata». Questa sentenza urta anche con il senso comune. «La Cassazione ha affermato che nella determinazione del valore venale della “res” oggetto di espropriazione occorre tenere presente la differenza tra l’area espropriata, comprensiva degli edifici che vi insistano, e l’azienda, per cui “le costruzioni esistenti sull’area vanno considerate nel loro valore in sé, non per il diverso valore che esse possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all’attività d’impresa”. La sentenza è stata oggetto di critiche, anche perché in contrasto con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - CEDU, firmata anche dall’Italia». Può precisare? «Esiste un’evidente distonia fra il principio enunciato dalla Cassazione e i principi della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per cui il cittadino non può essere espropriato di un proprio bene senza un indennizzo adeguato alla perdita concretamente subita. Per la suddetta Corte la nozione di bene si espande fino a ricomprendere ogni utilità concretamente ricavabile dalla “res” oggetto di esproprio. E il giudice deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme interne. Qualora ciò non sia possibile, ovvero si dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale “interposta”, il giudice deve proporre la relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, 1° C&P • GIUSTIZIA

comma della Costituzione che stabilisce che “la potestà legislativa è esercitata … nel rispetto dei vincoli derivanti … dagli obblighi internazionali”, quali quelli che promanano dalla Cedu». La questione dell’indennizzabilità di quell’azienda espropriata è quindi ancora aperta? «Certamente, il giudice del rinvio ove ora pende la causa (ancora la Corte d’Appello di Torino), pur non potendo discostarsi dal principio affermato dalla sentenza della Cassazione, potrà però sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme interne in tema di indennizzo espropriativo, come interpretate riduttivamente dalla Cassazione, per violazione dei principi in materia della suddetta Convenzione e quindi per violazione dell’art. 117, comma 1, della Costituzione». L’ultima parola passerà quindi alla Corte Costituzionale? «Si, se la Corte di Torino solleverà la predetta questione. Altrimenti la stessa questione dovrà essere riproposta con un ricorso in Cassazione. Se quest’ultima dovesse riconfermare il principio della sentenza n. 8229/2009, non resterà che adire la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo». Il suo studio è quindi specializzato in materia di espropriazione per pubblica utilità? «Certo, ma non solo. È uno studio amministrativo e civile, all’interno del quale collaborano l’avvocato Nicola Peretti e mio figlio Paolo Alberto. La materia dell’espropriazione per pubblica utilità è, per così dire, a cavallo dei predetti ambiti». 151


Editoriale • Vittorio Paolucci

LA “BABELE” DEI TERRENI EDIFICABILI di Vittorio Paolucci Avvocato del Foro di Bologna info@vittoriopaolucci.it

a fiscalità dei terreni edificabili si è evoluta sostanzialmente negli ultimi anni. In passato in diritto tributario, anche nella sua applicazione, il concetto di edificabilità era riconnesso alla sua sostanza giuridica, e veniva quindi mutuato dalla disciplina urbanistica. La stessa normativa, richiamando concetti, strumenti e riferimenti propri della disciplina urbanistica Piani urbanistici generali; Piani attuativi; urbanizzazioni; lottizzazioni; zonizzazioni (Zone A, B, C, D, E, ed F); etc. portava a considerare l’edificabilità di un’area quale presupposto esogeno e non endogeno alla normativa tributaria. Dalla disciplina urbanistica la giurisprudenza si discostava solo occasionalmente in presenza di casi assolutamente peculiari. Tale panorama è oggi radicalmente mutato, e non certo nella prospettiva della certezza del diritto. Benché la legislazione fiscale continui a fare riferimento a concetti e strumenti propri della disciplina urbanistica, e sebbene la normativa di settore tenga chiaramente distinti gli aspetti qualificatori dell’edificabilità dei suoli da quelli estimativi, il legislatore prima -con i c.d. Decreti Bersani- e la giurisprudenza poi, hanno mutato il quadro di riferimento, iniziando a riconnettere il concetto di edificabilità non più alla sua sostanza giuridica bensì ad una economica. Si è finito, sostanzialmente, con il confondere i piani della qualificazione edificatoria e della valutazione estimativa, sconfinando nel paradosso di assoggettare a imposta come edificabili anche beni che non hanno alcuna effettiva giuridica possibilità di venire edificati. Addirittura la Corte di Cassazione ha cristallizzato espressamente il concetto che l’“edificabilità fiscale” sarebbe cosa diversa dalla “edificabilità urbanistica”. Di qui una serie di problematiche applicative non certo in linea con la certezza del diritto, di cui il nostro Paese dichiaratamente si vanta essere la culla, ma che ormai risulta totalmente inesistente per qualsivoglia operatore. In questo il caso dell’Emilia Romagna è emblematico. La Legge Regionale Urbanistica n.20 del 24 marzo 2000 ha acuito le problematiche interpretative e applicative. Questa legge ha “sostanzialmente” scisso (“spacchettato”) il Piano Regolatore Ge-

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nerale in tre diversi strumenti: Piano Strutturale Comunale (P.S.C.), Regolamento Urbanistico Edilizio (R.U.E.), e Piano Operativo Comunale (P.O.C.). In base alla normativa il P.S.C. non è destinato precipuamente a individuare quali ambiti abbiano natura edificabile o meno, bensì ha la finalità di delineare le scelte strategiche di assetto e sviluppo del territorio, curando in particolare la tutela dell'integrità fisica e ambientale e l'identità culturale dello stesso. La Legge Regionale chiarisce con fermezza (vieppiù oggi dopo la novella introdotta con la L.R.n.6/2009) che il P.S.C. non ha portata conformativa dei diritti edificatori. La stessa Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna ha precisato che “l’elemento qualificante di detta riforma del sistema è dato dalla distinzione tra un piano strategico strutturale, il P.S.C., che in nessun caso attribuisce diritti edificatori; e un piano operativo che regola le trasformazioni da realizzare nei successivi cinque anni, il POC, il quale attribuisce detta edificabilità”, precisando altresì espressamente che non possono essere richiamati i c.d. Decreti Bersani per considerare edificabile un’area già solo sulla base delle previsioni del P.S.C., chiarendo ulteriormente che: “dal P.S.C. non è desumibile una vocazione edificatoria che giustifichi una legittima aspettativa sulla possibilità di edificare le aree attualmente non urbanizzate, in quanto la funzione attributiva dello jus aedificandi è propria esclusivamente del P.O.C.”. Pur dovendo ricordare che le Regioni non hanno potestà legislativa propria in materia tributaria, si rileva tuttavia che la Regione ha qui legiferato non in materia fiscale ma solo in materia di governo del territorio, mentre le interpretazioni della normativa in ordine ai riflessi fiscali costituiscono unicamente “Atto di indirizzo”. Per contro, la Corte dei Conti ha assunto orientamento diverso da quello dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna, pretendendo che l’edificabilità (fiscale) sia riconducibile già alle previsioni di P.S.C., ma ciò assumendo, avendo dato per assodati concetti presupposti invero invece errati. È dunque in questo quadro normativo che si sta aprendo una vera e propria “babele” interpretativa con effetti applicativi devastanti. C&P • GIUSTIZIA



Legalità • Giuseppe Caruso

Ottimizzare le risorse per destinare i beni confiscati Il nuovo Codice antimafia include misure anche in materia di confische di beni sottratti alle organizzazioni criminali e riassegnati per finalità sociali. A illustrarle è il direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione di questi beni, Giuseppe Caruso di Francesca Druidi

arà inaugurata a breve la sede palermitana dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Seguiranno poi quelle di Milano e Napoli. È un ulteriore passo in avanti nell’opera di contrasto ai patrimoni mafiosi che, al 1 ottobre, fa registrare la confisca di 11.699 beni, tra cui 1.472 aziende. «Per sottrarre i beni alla criminalità organizzata e restituirli alla collettività – spiega il direttore dell’agenzia, il prefetto Giuseppe Caruso – occorre essere ben radicati sul territorio in modo da sviluppare adeguati rapporti con l’autorità giudiziaria, le prefetture, le forze di polizia, le amministrazioni comunali e gli altri enti territoriali e le associazioni rappresentative della società civile». Con le aperture di queste nuove sedi, come si potenzierà l’agenzia? «Si rafforzerà la struttura sul territorio e verrà dato nuovo slancio all’azione dell’agenzia, che si appresta ad assumere la piena operatività anche in relazione ai beni oggetto di sequestro e di confisca non definitiva, in seguito alla prossima emanazione dei regolamenti attuativi. In questo modo, viene superata la frammentazione delle competenze registratasi prima della creazione dell’agenzia nazionale che, insieme all’oggettiva difficoltà di gestire beni complessi come quelli confiscati, era causa di un’eccessiva dilatazione del periodo intercorrente tra il sequestro e il provvedimento finale di destinazione dei beni». Quali altre novità si prospettano? «L’ex ministro Maroni ha firmato il 13 luglio scorso un’ar-

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ticolata circolare diretta ai prefetti della Repubblica grazie alla quale è in corso l’istituzione presso ogni prefettura di un nucleo di supporto che sarà presieduto da un funzionario prefettizio e di cui faranno parte, oltre a rappresentanti delle forze dell’ordine, anche esponenti di altre amministrazioni, enti o associazioni. Un organismo che, da un lato, consentirà un più puntuale monitoraggio dei beni destinati e che, nel contempo, agevolerà l’attività dell’agenzia nel ripristino delle condizioni del loro effettivo utilizzo per finalità istituzionali e sociali».

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Giuseppe Caruso • Legalità

Occorre sviluppare rapporti con autorità giudiziarie, prefetture, forze di polizia e amministrazioni comunali Qual è la situazione proprio sul fronte dell’effettiva assegnazione dei beni confiscati? Quali criticità ancora si propongono? «Finora poco meno del 70% dei beni confiscati ha già avuto una destinazione finale, mentre il 30% è in attesa di destinazione, a causa di numerose problematiche che storicamente affliggono tali beni quali, ad esempio, la pendenza di procedure giudiziarie, la presenza di gravami ipotecari e di pignoramenti, il pessimo stato di conservazione degli immobili, le occupazioni abusive. I gravami ipotecari rappresentano, in assoluto, il fattore che maggiormente rallenta il riutilizzo dei beni confiscati, risultando necessaria una defatigante attività legale per ottenere la liberazione degli immobili. C’è poi l’occupazione abusiva, tenuto anche conto dell’elevato tasso di contenzioso che genera l’attività di sgombero, di fondamentale importanza, oltre che per la riaffermazione dei principi di legalità, anche per assicurare, a seguito della destinazione, la concreta disponibilità dei beni per gli assegnatari». Per quanto riguarda, nello specifico, la gestione delle società confiscate? «Esistono in questo caso problemi eterogenei, aggravati dal momento di crisi in cui versa la nostra economia. E si tratta di criticità non di immediata risoluzione: dalla fuga dei clienti all’improvvisa “aggressività” dei creditori; dalla chiusura dei rubinetti del credito al mantenimento dei livelli occupazionali, per non parlare dei maggiori costi da sostenere per regolarizzare tutta una serie di situazioni illegali sotto il profilo fiscale, contributivo e lavorativo». C&P • GIUSTIZIA

Quali misure adottare? «Per i beni immobili sono previste importanti novità nel Testo unico antimafia di recente approvazione, che dovrebbero consentire un più celere iter per l’accertamento dei diritti dei terzi e la liberazione dalle ipoteche gravanti sui beni. Si sta poi compiendo uno sforzo importante nelle regioni cosiddette “Obiettivo convergenza” (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) con i fondi e i finanziamenti europei del Pon Sicurezza, che ha istituito un obiettivo specifico (2.5) finalizzato al recupero e al rilancio sul mercato dei beni confiscati: un obiettivo dotato di circa 92 milioni di euro, di cui oltre 53 impegnati a tutt’oggi. È, tuttavia, necessario compiere qualche passo in più, costruendo una vera strategia dell’ottimizzazione delle risorse che arrivano dall’Ue, ponendo a fattor comune i fondi del Pon Sicurezza e quelli dei Por attribuiti alle regioni». Sul versante delle amministrazioni delle aziende? «L’obiettivo è quello di mantenerle sul mercato e garantire i posti di lavoro. Occorre liberare le imprese dal condizionamento criminale, evitando che siano assistite dallo Stato, diventando un costo per la collettività. Nella consapevolezza di non poter raggiungere da soli tali difficili risultati abbiamo iniziato a tessere una rete di collaborazioni e di intese con gli organismi che esprimono le giuste professionalità, dalle grandi associazioni datoriali (Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio) e quelle cooperative, per la realizzazione di sinergie utili a individuare risorse che consentano un più celere ed efficace reinserimento delle aziende nel circuito economico legale». La criminalità organizzata si sta insediando sempre più nel Nord Italia e, in particolare, nella sua capitale economica, Milano. Quali nuovi scenari si stanno allora delineando per i beni confiscati? «L’insediamento della criminalità organizzata al Nord è un fenomeno ormai acquisito e confermato in diverse indagini. Questo dato costituisce un punto di partenza per una riflessione più complessa che attiene più agli organi investigativi che all’agenzia nazionale. La risposta delle istituzioni locali resta comunque fondamentale, e diversificata secondo i vari territori considerati.Vanno registrati, a titolo di esempio, due atti importanti delle Regioni Lombardia ed Emilia Romagna che, in questo delicato momento, hanno messo a disposizione fondi importanti per la gestione e la ristrutturazione dei beni confiscati. È importante sottolineare che, essendo i fondi Pon dedicati esclusivamente a quattro regioni del Meridione, bisogna immaginare per il Nord Italia altre sinergie per liberare risorse da destinare al riutilizzo per fini sociali dei beni confiscati». 155


Legalità • Giancarlo Trevisone

Associazioni antiracket, garanzia di lealtà Molti sono i colpi inferti alla criminalità organizzata negli ultimi anni, grazie a importanti arresti e al sequestro di numerosi beni appartenenti a boss e latitanti. Giancarlo Trevisone spiega cosa occorre fare per demolire l’omertà mafiosa di Nicolò Mulas Marcello

l sequestro dei beni, proventi delle mafie, e il loro reimpiego costituiscono sicuramente un segnale forte contro il crimine organizzato. Accanto a essi, è importante il lavoro delle associazioni antiracket sul territorio, che si svolge d’intesa con gli organi dello Stato. «Il precedente governo – sottolinea Giancarlo Trevisone, commissario straordinario antiracket – ha dato alle forze dell’ordine e alla magistratura, strumenti che prima non c’erano mai stati. Una grande attenzione alla lotta alla mafia posta in essere con pervicacia, attuando norme importantissime che hanno portato a un largo numero di confische e di sequestro di beni». I numerosi arresti di boss e latitanti che sono stati effettuati negli ultimi anni hanno inflitto duri colpi alle mafie. Cosa occorre fare in più su questo fronte? «La magistratura e le forze dell’ordine stanno ottenendo risultati eccezionali. Lo si vede nella cronaca quotidiana di arresti, confische e sequestri. Il problema è quello di demolire il concetto di sottocultura dell’omertà mafiosa. Non è sufficiente arrestare i mafiosi, occorre spurgare l’ambiente dall’acqua sporca in cui questi pesci vivono e prosperano. La mafia va combattuta coinvolgendo tutti, dalle istituzioni alle forze dell’ordine, dalle associazioni di

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categoria a quelle di volontariato per far crescere un concetto sociale di legalità. È necessario pertanto fare rete, ovvero affermare il concetto di quella che si può definire sicurezza partecipata, in cui tutti facciano sistema. La situazione sarebbe anche favorevole allo sviluppo di questa politica in quanto i grandi boss sono in galera e si stanno costituendo sempre più associazioni antiracket».

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Giancarlo Trevisone • Legalità

Qual è l’apporto e l’interazione di queste associazioni con le istituzioni? «Il loro apporto è fondamentale, perché insieme alle associazioni di categoria svolgono una forma di informazione, di sostegno e di accompagnamento dei soggetti a denunciare. Come commissario antiracket, io lavoro con loro e l’ho fatto anche come prefetto di Palermo. Il loro vantaggio è quello di essere vicini alla gente, sono iscritte presso le prefetture e sono presenti sul territorio, conoscono e sono conosciuti, quindi hanno una garanzia di lealtà e di professionalità. Io ritengo che il loro ruolo sia assolutamente insostituibile». La reintroduzione della norma che obbliga alla denuncia chi subisce tentativi di estorsione è un modo per arginare questo problema. Quali altre misure sono necessarie? «Non è sufficiente imporre la norma dell’obbligo di denuncia ma bisogna trovare una maniera per spingere i soggetti a collaborare, perché senza collaborazione non si vince. Il pizzo è radicato nella subcultura del territorio. Occorre fare in modo che i commercianti abbiano anche un vantaggio economico dalla denuncia. Accanto alla sanzione è necessario anche uno stimolo. Dopo la denuncia, quando inizia il processo, la legge 44 del 1999, il cui fondo C&P • GIUSTIZIA

è amministrato da me, dà la possibilità di elargizioni a coloro che hanno un’attività economica, per i danni ai beni mobili, immobili, mancato guadagno, lesioni personali e condizionamento ambientale. Attualmente sto studiando un’ulteriore campagna informativa su questo tema. È necessario pertanto capire se si possono offrire vantaggi come l’esenzione dell’Irap o dall’Irpef comunale o regionale per un periodo di tempo, o sanzioni di carattere amministrativo come la sospensione della licenza oltre alle sanzioni di carattere penale». Sulle modalità di reimpiego dei beni sequestrati esistono ancora zone d’ombra e tempi molto lunghi. Come è necessario operare per migliorare questo sistema? «L’agenzia per i beni confiscati svolge proprio questo compito e quindi è di loro competenza questo ambito. Stando alla mia esperienza prima dell’istituzione di questa agenzia, in veste di prefetto di Palermo, gestivo i beni confiscati attraverso l’agenzia del demanio. Il problema fondamentale è la loro utilizzazione, perché è qui che lo Stato si gioca la sua immagine. L’altro problema è quello dei beni immobili che i mafiosi lasciano in condizioni pietose, pertanto c’è un costo importante per il loro ripristino. Occorre, quindi, trovare finanziamenti ad hoc». 157


Legalità • Antonio Laudati

Ridisegnare la mappa della criminalità barese

Usciti di scena i boss storici, le seconde generazioni sono in cerca di alleanze e di equilibri nuovi. La procura antimafia del capoluogo pugliese, guidata da Antonio Laudati, studia efficaci azioni di contrasto. A partire dalla condivisione della giustizia di Michela Evangelisti

otto il profilo della criminalità organizzata il territorio di Bari sta vivendo un delicato periodo di transizione. Nelle parole del procuratore capo Antonio Laudati, a commento delle ultime operazioni che hanno portato all’arresto di alcuni noti boss, si leggono soddisfazione per il lavoro svolto ma anche una certa preoccupazione per la situazione che si sta delineando. «Se gli esponenti di spicco sono in carcere è chiaro che i clan sono in mano alle seconde generazioni – evidenzia il magistrato – ovvero sono gestiti da giovanissimi delinquenti emergenti dal grilletto facile ma non in grado di progettare vere e proprie strategie criminali. Di qui le sparatorie fra la gente in orari di punta avvenute a Bari negli ultimi mesi». La necessità di ridisegnare la mappa della criminalità barese, tenuto conto dei nuovi equilibri e delle nuove alleanze che si stanno necessariamente generando, diventa perciò prioritaria per la procura antimafia di Bari al fine di mettere a punto un’efficace azione di contrasto. Quali strategie sono allo studio per fronteggiare il nuovo ordine che si sta costituendo? «Accanto alle classiche, fondamentali, forme d’investigazione, la procura sta sperimentando - con discreto successo - un’altra strategia: quella della condivisione della giustizia. In tal senso potrei dire che il mio distretto sta diventando un vero e proprio laboratorio. Siamo partiti dal presupposto che il nostro compito non è solo quello

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di arrestare i criminali, ma anche “catturare” la fiducia dei cittadini. Per questo motivo abbiamo dato vita a un’associazione, “Organizzare la giustizia”, che mette insieme le forze sane e propositive della società animate dalla volontà di dare il proprio contributo al miglioramento dell’azione giudiziaria. Attorno a un tavolo si sono seduti non solo i magistrati, ma anche gli esponenti degli enti locali, dell’avvocatura penale e civile, del giornalismo, della cultura. Insieme, mettendo ognuno a disposizione la propria professionalità e il proprio tempo, abbiamo cercato di condividere un’idea di giustizia». E che risultato avete ottenuto? «Una straordinaria risposta dei cittadini, che interagiscono

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Antonio Laudati • Legalità

con la procura come non succedeva prima: si fidano e collaborano». Di recente è stato inaugurato uno sportello antiracket e antiusura ad Altamura, a cura di un’associazione di Molfetta. Qual è l’attuale situazione del contrasto a questi fenomeni nel distretto? «Anche in questi casi l’attenzione della procura di Bari è sempre stata molto alta, se non addirittura più alta di quella riservata alle organizzazioni criminali, perché la vittima del racket e dell’usura è il cittadino, quello più debole, che in un momento della propria vita si trova oggetto di una violenza inaudita. In questi casi i classici metodi investigativi sono a volte meno efficaci perché indispensabile diventa la collaborazione della vittima e questa, se rimane sola, avrà sempre più paura e non denuncerà. Ecco perché le associazioni antiracket e le fondazioni antiusura sono strumenti preziosi». Dove riescono ad arrivare? «Da tempo opera sul Gargano lo sportello antiracket di Vieste. E posso tranquillamente dire che la lotta alla mafia in quel territorio non avrebbe prodotto i risultati ottenuti senza la sua presenza, senza la sua testimonianza. Lo stesso discorso vale per la fondazione antiusura di don Alberto Urso a Bari. Le associazioni antiracket e la fondazione antiusura sono veri e propri presidi di legalità». Ma, in generale, sono stati compiuti passi avanti verso un maggior coraggio della denuncia oppure il clima di omertà è ancora forte? «Onestamente devo dire che anche nel nostro territorio ci sono discrete sacche di omertà che, comunque, riguardano soprattutto episodi mafiosi: in occasione di diversi omicidi avvenuti nella provincia di Bari in ore di massimo afflusso, in zone centrali della città, non abbiamo avuto un solo testimone. Possibile che nessuno abbia visto nulla? Il silenzio che circonda questi episodi è il cibo preferito con il quale si nutre la mafia. Per correttezza devo anche dire che nel Barese non è ancora molto radicata la cultura della mafia, quindi i margini di speranza di un recupero ci sono. Per questo motivo io per primo scendo fra la gente - partecipo a molti incontri, convegni, lezioni nelle scuole, ma anche spettacoli teatrali e cinematografici - proprio nel tentativo di avvicinarla e rassicurarla: noi ci siamo, della “squadra Stato” ti puoi fidare». Ha dichiarato che più degli arresti possono i sequestri dei beni dei boss: ai recenti colpi messi a segno contro alcuni boss dei clan mafiosi Strisciuglio e Parisi hanno fatto seguito anche confische patrimoniali? «Il vero contrasto ai mafiosi lo si fa attaccandone i patrimoni: se li si priva delle loro ricchezze verrà meno la loro forza criminale. Ma i sequestri non hanno solo l’obiettivo concreto di privare di risorse i clan: hanno anche un vaC&P • GIUSTIZIA

lore fortemente simbolico per il cittadino. Quello che viene tolto a chi ha illecitamente conseguito un profitto viene reimpiegato al servizio della società. Se al posto della casa del boss lo Stato sarà in grado di allestire un asilo comunale, il cittadino avrà la certezza che davvero si possono cambiare situazioni difficili, anche quelle più incancrenite. È vero che i tempi burocratici della confisca tendono a scoraggiare la pratica, ma nel nostro ordinamento di recente è stato inserito il meccanismo del sequestro per equivalente, vale a dire che i beni patrimoniali sottoposti a sequestro possono essere utilizzati a fini sociali e giudiziari. Anche in questo caso la procura di Bari ha fatto da apripista: le auto sequestrate al clan Parisi vengono utilizzate dal mio ufficio e non solo, così come alcuni immobili sono destinati a diventare archivi di atti giudiziari, sedi di polizia giudiziaria e così via». Quello che servirebbe, come in più occasioni ha sottolineato, è una visione più europea della lotta alla mafia. Sono stati compiuti ultimamente passi avanti in questa direzione? «Di fronte a una criminalità organizzata capace di adeguarsi a un mercato sempre più globale è chiaro che anche le risposte della magistratura e delle forze dell’ordine non possono che andare in questa direzione. All’interno dell’Unione europea, specie fra quelli che possiamo definire ormai gli Stati “storici”, esiste una collaborazione sempre più intensa sul piano dello scambio delle informazioni investigative e vi è anche una maggiore sinergia interforze sia fra gli inquirenti sia fra gli investigatori. Qualche problema si ha con i nuovi Stati, tra i quali gli scambi, anche solo per ragioni burocratiche, sono ancora complicati e, quindi, si possono, anche involontariamente, creare problemi di natura politico-diplomatica. Ma i miei colleghi di Bruxelles stanno lavorando in tal senso e, se crediamo che l’Unione europea non sia solo una questione monetaria, con lo sforzo di tutti riusciremo a parlare una sola lingua anche nella giustizia». 159


Legalità • Claudio Peciccia

Clan pugliesi, un equilibrio incerto «Il panorama criminale pugliese è caratterizzato da andamenti ciclici e da una forte interazione tra i comuni delle province e il capoluogo» spiega il colonnello Claudio Peciccia della Dia di Bari. E il traffico di stupefacenti rimane l’attività illegale prediletta dalle consorterie operanti sul territorio di Michela Evangelisti

na realtà fluida, caratterizzata da una pluralità di consorterie che si relazionano, internamente ed esternamente, secondo modalità spesso incerte e mutevoli. Così si configura il volto della criminalità pugliese. Con due sole eccezioni: la “società foggiana” e la “sacra corona unita” mesagnese, tradizionalmente verticistiche e insistenti su più vaste aree. Questa precarietà di equilibri, se da un lato rappresenta una debolezza strutturale, dall’altro causa un’imprevedibilità che non rende agevole l’attività di contrasto. Le strategie investigative del centro operativo Dia di Bari, spiega il colonnello Claudio Peciccia, si muovono principalmente sul fronte della prevenzione personale e patrimoniale a carico dei componenti di clan, «alla quale si sommano uno screening approfondito dei soggetti condannati e l’esame delle segnalazioni sospette, dalle quali possono scaturire indagini mirate di natura giudiziaria e patrimoniale». Dalle vostre analisi sulle connotazioni strutturali e le modalità operative peculiari delle organizzazioni criminali del territorio, quali linee evolutive stanno emergendo? «La contiguità della cosiddetta area metropolitana con quella urbana consente un’interazione criminale tra i comuni delle province e lo stesso capoluogo, attraverso rapporti intrattenuti con esponenti o referenti locali. La nostra analisi evidenzia un

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panorama criminale caratterizzato da andamenti ciclici, conseguenti alle alterne attività di contrasto messe in campo sul territorio dall’azione congiunta della magistratura e delle forze di polizia nei confronti dei vertici “storici”; questi, disarticolati dalle varie operazioni di polizia, lasciano spazio, nella loro sfera d’influenza, ai livelli intermedi, dando luogo alla gemmazione di novelli gruppi criminali emergenti». La Puglia si presta per posizione geografica a essere porta di ingresso e di transito degli stupefacenti destinati al territorio italiano ed europeo. Quanto è elevata l’interazione tra la criminalità pugliese e quelle straniere?

C&P • GIUSTIZIA


Claudio Peciccia • Legalità

«I rapporti con le criminalità straniere non sono particolarmente significativi, fatta eccezione per le organizzazioni criminali di origine albanese. La Puglia ha una sua importanza strategica, perché porta dell’Adriatico e crocevia di molteplici traffici illeciti gestiti, oltre che dalle consorterie autoctone, anche dalle organizzazioni criminali albanesi, ormai sottratte al ruolo di sussidiarietà rispetto alle prime e in grado di conquistare autonomi spazi di manovra e stringere alleanze su un piano di parità. Numerose sono le operazioni condotte da questo centro operativo sia per quanto riguarda il contrasto al fenomeno del contrabbando di tabacchi lavorati esteri, sia per lo smantellamento di organizzazioni criminali albanesi dedite al traffico di sostanze stupefacenti». Traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, usura ed estorsioni: quali sono le principali attività della criminalità organizzata locale? «Sul piano delle attività illegali, le consorterie criminali operanti sul territorio pugliese continuano a prediligere i tradizionali settori dell’illecito, in primis il traffico di stupefacenti, gestito con caratteri di sempre maggiore imprenditorialità e fonte di sanguinosi contrasti fra i vari gruppi per fini egemonici. Si dedicano poi al contrabbando di tabacchi, pur ridimensionato in sede locale, alle estorsioni e all’usura, che continuano a suscitare grave allarme e hanno, come contraltare, l’esiguità delle denunce da parte C&P • GIUSTIZIA

delle vittime, e al gioco d’azzardo, esercitato prevalentemente per mezzo di apparati elettronici di tipo illegale, spesso imposti ai gestori di bar e circoli ricreativi attraverso il potere d’intimidazione delle organizzazioni criminali. Infine non mancano lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione, mediante il reclutamento di ragazze extracomunitarie». Di recente sono stati colpiti da ordinanze di custodia cautelare in carcere alcuni esponenti dei clan baresi Strisciuglio e Parisi. Questi arresti avranno ripercussioni decisive sulla disarticolazione delle organizzazioni? «La contemporanea detenzione dei capi clan e delle figure criminali apicali, la voglia delle giovani leve di scalare velocemente le gerarchie, ma soprattutto il desiderio di occupare gli spazi lasciati dai numerosi arresti eseguiti nel breve periodo, potrebbero aver minato gli equilibri stabilitisi tra i vari clan. In particolare, potrebbe essere venuto meno l’equilibrio creatosi nel tempo tra i diversi gruppi criminali egemoni, ovvero gli Strisciuglio, i Di Cosola e i Parisi, i più attivi nel “colonizzare” la provincia e i cui obiettivi potrebbero sovrapporsi pericolosamente. I superstiti dei predetti clan, tuttavia, si stanno riarmando per tenersi pronti a occupare i territori lasciati liberi dagli avversari. È verosimile che sia in corso una lotta intestina per la reggenza». 161


Legalità • Andrea De Martino

Ognuno aggiunga un tassello al mosaico della sicurezza Contrastare il fenomeno della criminalità attraverso patti di legalità con le associazioni presenti sul territorio e rispondendo colpo su colpo alle azioni criminali. Il prefetto Andrea De Martino commenta i dati dell’azione congiunta di forze dell’ordine e istituzioni di Luca Donigaglia

difficile fare una disanima corretta della piccola e grande criminalità in Campania. Soprattutto quando questo fenomeno non è scindibile dalla società civile e dal territorio. Quando le infiltrazioni della criminalità nell’economia e nella politica sono tante e troppi sono gli interessi in gioco. Da sempre ci provano con convegni e libri gli “uomini di frontiera”, giudici e magistrati, che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con la malavita, il cui unico obiettivo è quello di far conoscere il fenomeno alla più ampia platea possibile di cittadini per sensibilizzare la società e arginare sempre di più la malavita. Ne è convinto anche il prefetto Andrea De Martino, in prima linea a Napoli nella lotta alla criminalità organizzata, che pone l’accento sugli interessi economici che gravitano attorno a essa, convinto che, estirpati quelli, la lotta per la legalità ne uscirà vincente. «Occorre tagliare i fili alla camorra – sottolinea –. La camorra va distrutta colpendola nei suoi interessi economici». Il lavoro delle forze dell’ordine, da solo, spesso non basta ad arginare i fenomeni di piccola e grande criminalità. Quanto può aiutare siglare un patto di sicurezza con il mondo economico come quello perfezionato con il protocollo dello scorso ottobre? «Serve un patto forte con la cittadinanza, in particolar modo con le categorie commerciali più esposte. Non è un modo per delegare ad altri quello che è il nostro compito. L’invito è

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Andrea De Martino, prefetto di Napoli

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Legalità • Andrea De Martino

È indispensabile che le istituzioni, le forze dell’ordine e le componenti della società civile facciano fronte comune

quello di condividere un percorso e unire le energie per irrobustire le difese contro la criminalità, augurandoci che già dal prossimo anno i dati siano migliori. Ognuno nel proprio campo deve contribuire ad aggiungere un tassello per comporre il mosaico della sicurezza». Considerando la criminalità organizzata in particolare, come valuta i risultati dell’azione congiunta di istituzioni e forze dell’ordine negli ultimi anni? «Nel 2010 sono stati sequestrati a Napoli e provincia beni per 715 milioni di euro alla camorra. Dal 2006 a oggi sono stati arrestati 84 latitanti, 34 dei quali facenti parte dei 100 considerati più pericolosi d’Italia. Prosegue una lotta ferrea, in generale, a chi ha provato a fare impresa non in regola». A Napoli e dintorni crisi e criminalità diventano fenomeni intrecciati. Più le difficoltà economiche permangono, più la tendenza a commettere reati può crescere. Che cosa fanno le istituzioni per contrastare questa tendenza? «È indispensabile che le istituzioni, le forze dell’ordine e le componenti della società civile facciano fronte comune in un momento in cui le difficoltà economiche legate alla crisi contribuiscono all’aumento di furti e rapine, anche in vista del periodo natalizio, che solitamente comporta l’incremento di reati predatori». Ad esempio, recentemente la Prefettura ha siglato un protocollo con la Camera di Commercio di Napoli C&P • GIUSTIZIA

e le associazioni di categoria locali che prevede l’introduzione di alcuni strumenti specifici per rafforzare la sicurezza in città. Il trend dei reati è in crescita? «Stando ai dati relativi all’ultimo anno, calcolati fino al 15 settembre, il numero di rapine resta costante. Mettendo però a confronto il periodo che va dal 1 luglio al 30 settembre tra gli anni 2010 e 2011, si registra un aumento di denunce e arresti, che passano dai 622 del 2010 ai 743 del 2011. Di qui la forza di attacco impressionante messa in campo dalle forze dell’ordine per rispondere colpo su colpo a una situazione che, nel breve periodo, non sembra destinata a migliorare, anche in virtù della sfavorevole congiuntura economico-finanziaria che attraversa il nostro Paese». L’accordo tra Prefettura e Camera di Commercio prevede l’istituzione di un fondo per le imprese che ne facciano richiesta. Il bando è aperto alle categorie di farmacisti, orafi e gioiellieri, tabaccai e benzinai. Ci sono 150 mila euro per favorire l’automatizzazione delle casse eliminando la presenza massiccia di denaro contante, si possono impiegare fondi per la realizzazione di impianti di videosorveglianza, per l’assunzione di guardie giurate. «Il protocollo va ad ampliare il concetto di difesa passiva incrementandolo di significati concreti. È un piccolo passo in una città che convive costantemente con queste problematiche». 163


Legalità • Antonio Reppucci

Il risveglio culturale contro l’omertà Davanti a fasce della popolazione ancora indolenti è la cultura a diventare strumento di elevazione, dalla scuola alla famiglia. Antonio Reppucci, prefetto di Catanzaro, indica da dove occorre partire se «non si vuole continuare a parlare in futuro degli stessi fenomeni delinquenziali di oggi» di Renata Gualtieri

Antonio Reppucci, prefetto di Catanzaro

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commessa sui giovani, rilancio della sicurezza e maggiore collaborazione da parte dei cittadini. Questi i temi affrontati al momento del suo insediamento in città, avvenuto il 30 dicembre scorso. Oggi il prefetto di Catanzaro Antonio Reppucci traccia un primo bilancio del suo operato, sottolineando il grande impegno profuso a favore della città, non sempre seguito da risultati eccellenti, davanti ai quali però non si deve desistere. L’obiettivo resta l’affermazione di una cultura della legalità, una sorta di «religione civile» che porti a capire che la lotta all’illegalità e alla criminalità è un problema che riguarda la società civile in tutte le sue espressioni e non solo le forze dell’ordine. «Va affermata la cultura del rispetto delle regole e non quella dell’omertà, perché la paura è un diritto ma il coraggio è un dovere». Quale i prossimi passi da fare lungo il percorso tracciato? «Bisogna innanzitutto recuperare il gap che il Sud ha rispetto al Nord del Paese. Le potenzialità rimangono tante perché la Calabria ha una cultura e una storia non inferiore alle altre città italiane; occorre però valorizzare le numerose eccellenze del territorio, come gli 800 km di costa e un settore turistico da corroborare. Come ogni cosa anche la ‘ndrangheta ha un inizio e una fine, ma bisogna crederci. Partecipo a tanti convegni nelle scuole e nei comuni e vedo dei germogli positivi, come l’associazionismo diffuso, ora però ci vuole una

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Antonio Reppucci • Legalità

sorta di tsunami culturale perché legalità, solidarietà e coesione sociale rappresentino le stelle polari dei cittadini». Ha più volte dichiarato che è necessario operare soprattutto nella scuola per affermare la cultura della legalità. Le istituzioni come possono indirizzare i

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giovani al rispetto delle regole? «Bisogna scoraggiare i giovani a emulare modelli poco edificanti, come quelli dettati dallo spettacolo, facendo passare il messaggio che solo l’impegno e la fatica a lungo pagano, senza sperare in scorciatoie. Il primo impegno viene dalla scuola e dalla famiglia. La cultura diventa strumento di elevazione, anche grazie ai social network che vanno però utilizzati nel modo opportuno». All’incontro “Donne di mafia” ha parlato di un risveglio culturale per sradicare le venature omertose in tutti gli strati sociali. «È stata un’iniziativa molto interessante, promossa da un magistrato in pensione, Romano De Grazia, e in questa occasione ho fatto riferimento a quello che diceva Calvino “l’inferno è sulla terra e noi dobbiamo saper distinguerlo per combatterlo” e ho citato Corrado Alvaro, uomo di questa terra che sapeva leggerne le criticità e invitava a lottare per il miglioramento». In tema di sicurezza e ordine pubblico quali sono le aree della provincia che a oggi la preoccupano di più? «In questo territorio ci sono una trentina di clan tra i territori di Soverato, Lamezia e Catanzaro, con circa 600 adepti, ma poi bisogna contare molte altre centinaia di collaterali. Le forze dell’ordine e la magistratura fanno sentire il fiato sul collo a queste persone “feroci” che, anche all’inizio di quest’anno, si sono macchiati a Lamezia di delitti efferati». 165




Criminologia • Carmelo Lavorino

Nuovi strumenti ma indagini viziate Se le nuove tecnologie oggi inchiodano alcuni assassini impuniti del passato, manca talvolta l’analisi criminale investigativa seria, scientifica e sistemica e vincono gli errori congetturali, la voglia di potere e di fare carriera di Elisa Fiocchi

Carmelo Lavorino, criminologo, criminalista e investigatore penale, direttore del Cescrin, esperto in scena del crimine, criminal profiling e investigazioni criminali, esperto in indagini difensive e cold cases

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ra i delitti più sorprendenti che da casi irrisolti hanno trovato una giustizia dopo anni di incognite, ritorna attuale il delitto dell’Olgiata. Attraverso l’utilizzo delle recenti tecnologie d’indagine «è stato individuato su un lenzuolo insanguinato una macchietta di sangue dell’assassino, mentre tutte le altre erano della vittima», racconta il criminologo Carmelo Lavorino, che ha studiato alcuni dei maggiori casi di cronaca nera italiana. «Ciò è stato possibile grazie a una metodica scientifica sofisticata». Alle nuove tecniche oggi in mano agli inquirenti, non può tuttavia mancare anche un perfetto metodo investigativo che escluda quegli interessi che corrono nella direzione opposta alla verità. Contro ogni delitto? «Scienza, logica e intelligenza». Ecco le tre tracce da seguire nel modus operandi di Carmelo Lavorino. Le nuove tecnologie quali altri casi irrisolti sono in grado di riaprire? «Solo quei casi dove vi sono tracce biologiche, dattiloscopiche, merceologiche, psicologiche e comportamentali che, all’epoca dei fatti, non era possibile individuare, fissare, comprendere, elaborare ed assegnare ad alcun personaggio, mentre oggi è possibile farlo. Questo perché ogni criminale, prima, durante e dopo il crimine, lascia sulla scena del delitto tracce di sé e delle proprie azioni di ogni tipo: bisogna saperle interpretare e decodificare». E quali casi del passato, vorrebbe riaprire e perché? «Parto dalla fine. Per motivi di giustizia, verità e scienza, per riabilitare e liberare le vittime di errori, per fare punire i colpevoli, per restituire la dignità a chi è stato ingiustamente infamato ed ai loro cari e familiari.Vorrei fare riaprire i casi del mostro di Firenze, di Cogne, di Arce, di Tommaso Onofri, di via Poma e tanti altri irrisolti, perché giustizia non è stata fatta». Si assiste a molti delitti in cui manca la prova cruciale e ci sono solo una serie di indizi. Per quale ragione la criminologia e la scienza non sono in grado di sbrogliare alcuni casi? «Un caso è risolto quando c’è la confessione vera, o il testimone oculare vero, o la prova scientifica e certa inchiodante, oppure una serie di indizi precisi, gravi, pieni, certi e concordanti che inchiodano il vero colpevole senza possibilità di dubbio. Questo in teoria, praticamente è un’altra cosa. Occorrono metodi e sistemi mentali di analisi criminale speciali, che vadano a individuare prima singolarmente, poi globalmente e in

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Criminologia • Carmelo Lavorino

interrelazione, i concetti strutturali del crimine quali il movente e la circostanza del delitto, il contesto dove si è verificato, lo scopo iniziale del crimine, la vittimologia, il livello tecnico, il tipo di organizzazione e premeditazione, lo studio criminologico delle tracce di modus operandi ed esecutive, psicologiche e di autoconservazione (quello che il criminale ha fatto per “farla franca”) e lo studio criminalistico (origini, produttore, composizione, morfologia), l’analisi finale della scena del crimine e l’elaborazione di un profilo comportamentale e logico dell’ignoto autore del fatto. Questo deve essere il punto di partenza». E invece? «Assistiamo a inquirenti che passano notizie segrete ai giornalisti che fanno loro da battistrada, a inquirenti che pensano solo a fare conferenze stampa e a vincere con forzature i processi, ma l’analisi criminale investigativa seria, scientifica e sistemica manca. Possiamo dire che mancano padella, manico e chi mantenga il manico». Come questi interessi vanno a discapito delle indagini? «Tutti gli errori giudiziari partono da un’intuizione sbagliata che diviene tesi, da un errore d’equipe che diviene innamoramento della tesi, da indagini superficiali viziate dal pregiudizio o dalla fiducia incondizionata sul proprio operato, dalla C&P • GIUSTIZIA

voglia di risolvere il caso per ottenere successo, visibilità e carriera e perché si vuole dare un colpevole all’opinione pubblica. In tal modo viene puntato un soggetto, si costruisce un’ipotesi di colpevolezza e si cercano solo quegli elementi utili a dimostrarla, addirittura, se all’interno del gruppo d’indagine qualcuno critica questo metodo possibilistico viene isolato e poi allontanato. Appare evidente che questi interessi spingano le indagini verso la direzione sbagliata a discapito della verità, della giustizia, dei diritti umani e del “popolo italiano”: non dimentichiamo che chi indaga lo fa per conto del popolo italiano che lo ha delegato attribuendogli poteri invasivi e lo paga per fare bene il proprio lavoro». In quali processi si è manifestata tale carenza? «Al processo per gli omicidi di Meredith Kercher, di Simonetta Cesaroni, di Tommaso Onofri, di Samuele Lorenzi, il delitto di Arce, il processo contro Pietro Pacciani e tantissimi altri non famosi, semplici e di “poco conto”. Il minimo comune denominatore è nella ricerca di visibilità, negli errori congetturali, nella voglia di potere e di fare carriera». Nell’inchiesta sul mostro di Firenze lei afferma che sono venuti fuori tutti i mali della nostra organizzazione investigativa all’italiana. «Ho usato il termine “contaminazioni” non solo in senso fisico e chimico, ma anche procedurale e d’invadenza psicologica: testimoni fuorviati, compiacenti e minacciati; metodologie investigative illogiche, banali e obsolete; reperti stranissimi e miracolati quali la cartuccia rinvenuta nell’orto di Pacciani, un portasapone bianco anonimo poi divenuto rosa con scritta Deis, anche in tal caso prima è stato individuato il presunto colpevole (o costruito in laboratorio) e poi sono stati cercati, creati e confezionati elementi utili solo a inchiodarlo». Come dev’essere impostato un metodo investigativo affinché sia efficace? «Perchè sia perfetto deve comprendere cosa è successo, indagare verso tutte le direzioni, non farsi fuorviare da nulla, essere freddo; deve analizzare la scena del crimine e tutti i suoi indicatori, unire le scienze e le discipline della criminologia quale analisi del comportamento e delle motivazioni, la criminalistica come ricerca della prova scientifica, come medicina legale e come insieme di scienze forensi, dell’investigazione intesa come ricerca logica, razionale e totale di ogni frammento di verità e di dati informativi, dell’intelligence intesa come analisi e controllo dei fatti per incastrare il colpevole». 169


Criminologia • Francesco Bruno

Delitti da copertina Tutto è cominciato con il caso di Vermicino, nel 1981. «Ciò che attrae il pubblico è il mistero, dall’identità di Jack lo squartatore fino ad arrivare al mostro di Firenze che resta nella nebbia». Il fascino del male e della caccia all’uomo nell’intervento di Francesco Bruno di Elisa Fiocchi

uove realtà scontornano la scena del delitto, realtà mediate come le definisce il criminologo Francesco Bruno, docente di Psicopatologia forense e criminologia all'università La Sapienza di Roma. Quelle in cui dominano i nuovi media, la forza unificante della nostra società, dove il crimine entra nel palcoscenico virtuale assumendo i connotati cinematografici, come nel caso di Sarah Scazzi: «Si assiste alla trasformazione dell’omicida e dei complici - sostiene Bruno - in personaggi di una commedia, nemmeno di una tragedia, dai toni grotteschi».Avanza così un nuovo modo di intendere la televisione, oggi non più unica finestra sul mondo dopo la diffusione della telefonia cellulare, con le informazioni in tempo reale, e di internet, luogo parallelo dove le persone si incontrano e comunicano. «Questo rende rara la giustizia, perchè non c’è più quella nei tribunali, o meglio esiste ma è una sorella inferiore di una giustizia più corposa e importante: quella dei mass media». E il grande pubblico? E’ attratto dal male assoluto più di quanto è in grado di ammettere, racconta Francesco Bruno, sfogliando i principali delitti di cronaca nera italiana resi avvincenti come romanzi gialli dal potere dell’informazione. I mass media si occupano costantemente dell'argomento serial killer, talvolta come fosse una spettacolarizzazione di un fenomeno senza dubbio brutale. Che spazio occupano stampa e giornali nella scena del crimine? «Alle persone interessa da sempre la storia personale e le vicende processuali perchè vivere il male negli altri permette in qualche modo di esorcizzarlo, di allontanarlo da noi. I romanzi hanno da sempre fatto leva su questi sentimenti per dipingere

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le storie più truci e la stessa cosa fanno i giornali che si buttano a pesce su queste vicende, soprattutto quelle in cui la gente si proietta meglio, dove c’è il gusto del giallo, del mistero e la caccia all’uomo. Oggi quindi nulla è diverso dal passato, ma ciò che cambia drammaticamente è il ruolo dei media che prima non esistevano». In Italia, si può affermare che tale fenomeno mediatico si è diffuso nel 1994, con il processo Pacciani, il presunto mostro di Firenze? «Tutto è cominciato molto prima, nel 1981, con il caso di Vermicino, il bambino che cadde nel pozzo. La vicenda diventò un fatto corale che attraverso la televisione fu vissuto dall’intero paese, presidente della Repubblica compreso. In quel momento si comprese l’uso spaventoso della televisione e in seguito la vera invenzione della giustizia mediatica è avvenuta con Berlusconi e, soprattutto, con il caso Cogne». Prendendo alcuni dei serial killer italiani, esiste un profilo comune tracciabile e in che cosa consistono invece le differenze? «I serial killer sono un fenomeno particolare che storicamente non esisteva fino all’avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra, Francia e Germania. Il fenomeno riguarda personaggi rari, uno su 500mila persone, che sviluppano una patologia tale da dover uccidere, non riescono cioè a vivere un rapporto se non con una persona morta. Il pubblico è attratto dal loro mistero, come nel caso di Jack lo squartatore di cui è incerta l’identità ma si presume fosse un principe, fino ad arrivare al mostro di Firenze che rimane nella nebbia. Naturalmente ci sono anche dei serial Killer meno dotati d’intelligenza che vengono facilmente catturati: sono poveri personaggi, privi della rivalità che gli C&P • GIUSTIZIA


Criminologia • Francesco Bruno

A destra, Francesco Bruno, criminologo e docente di Psicopatologia forense e criminologia all’Università La Sapienza di Roma

deriva dall’imprendibilità, dal cinema, dai ruoli sproporzionati che gli vengono assegnati». Quali processi hanno subito in maniera particolare l’invasione dei mezzi di informazione? «Penso al caso Cogne, a Garlasco, a Meredith, a Scazzi, che li sta superando tutti, e infine alla vicenda di Melania Rea. Nel nostro sistema ciò che è rilevante non sono tanto questi delitti mostruosi, quanto i fatti di cronaca che possono essere anche banali, come ad esempio è avvenuto nell’omicidio di Meredith Kercher, una ragazza uccisa nelle condizioni più classiche e vecchie del mondo. Qualcuno ha tentato di abusare di lei che si è negata ed è stata uccisa. Poi ne è venuto fuori un grosso affresco, con la volontà di tinteggiare luci negative del mondo giovanile, presentando intere realtà che nulla c’entravano con l’omicidio stesso. I processi ai serial killer risultano il più delle volte noiosi, soprattutto quando sia sa già chi è il colpevole. Il mostro di Firenze, ad esempio, ha interessato così tanto perché si trattava di Pacciani e dei “compagni di merenda”, persone così lontane dall’essere il mostro che non ci credeva nessuno. Nel caso di Donato Bilancia c’è stato il processo e la condanna. Spesso al killer non gli si vuole riconoscere una patologia mentale che invece c’è in molti casi, e allora diventa un fatto comune, non si sa i motivi per i quali uccide. Basta la condanna e tutto finisce». Allora con quali criteri un caso finisce nel contenitore mediatico? «Difficile dirlo. Penso a un delitto recente di una donna uccisa a Varese, nella sua casa, da un tizio che ha confessato l’omicidio. Questo caso, avrebbe avuto tutti i connotati per diventare un giallo mediatico ma non lo è stato e non lo sarà. Il mondo dei media è in gran parte autoreferenziale.Ad esempio, si conC&P • GIUSTIZIA

centra l’attenzione su una storia come quella di Yara dove non accade assolutamente niente tranne la sparizione di questa ragazzina. L’attenzione è tale per cui intere troupe di persone stanno sul posto per mesi nella ricerca del corpo. Si genera una reazione a catena e i motivi sono tanti, ma comunque mediatici, e riguardanti più il mondo generale con cui i media vivono che il singolo fatto». Il criminologo che prende parte ai salotti televisivi, come deve porsi nel rispetto del pubblico e del processo in corso? «Quando ho cominciato a lavorare nelle televisioni ho elaborato un decalogo di elementi a cui cerco di rimanere fedele. Intanto devo portare un parere scientifico e trovo giusto che i media possano far uso della mia conoscenza per offrirla ai lettori. Nel fare questo però, devo essere libero, non posso venire pagato da quel media se non attraverso il rimborso spese, altrimenti divento un attore che recita in una commedia, un cantante che porta una canzone. Questo non è il mio mestiere, serve libertà di pensiero e obiettività. C’è poi un terzo punto: posso parlare di tutto, anche dei processi in corso e di quelli non in corso, rispettando le regole. Se sono consulente di parte, non posso certamente parlare contro il mio assistito, allo stesso modo se sono un avvocato, oppure se sono consulente per il giudice sono tenuto al segreto.Abbiamo dei canoni etici a cui fare riferimento, come, banalmente, non parlare male dei colleghi. Entro questi limiti possiamo dire e fare tutto, senza censure, perché viviamo in uno stato democratico. Ritengo che non ci possano essere argomenti di cui non si può parlare in televisione, perché non si tratta di un mondo diverso da quello in cui viviamo. Anzi, addirittura comincia ad essere il mondo vero». 171


Criminologia • Nicodemo Gentile

Dentro le aule mediatiche Cosa accade quando il giudice è l’opinione pubblica? «Il processo mediatico può trasformarsi in un prodotto commerciale, costruito per piacere e con protagonisti interscambiabili – afferma Nicodemo Gentile – ma le cause non si vincono in televisione» di Elisa Fiocchi

Nicodemo Gentile, avvocato del Foro di Perugia

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gni anno, circa un centinaio di casi giudiziari finiscono sulla scrivania dell’avvocato Nicodemo Gentile, originario di Cirò ma perugino d’adozione. Il suo volto è ormai noto al grande pubblico dopo l’attenzione che alcuni media nazionali hanno riservato ai più recenti processi nei quali è intervenuto assieme al collega Walter Biscotti che ha incontrato quattro anni fa nella difesa di Rudy Guede per l’omicidio di Meredith Kercher. Da allora, la coppia di avvocati ha seguito i principali casi di cronaca italiana come l’omicidio di Sarah Scazzi in difesa della madre Concetta, di Melania Rea, in rappresentanza del marito Salvatore Parolisi, o in veste di legali di Azenete, la mamma del transessuale Brenda, e di Winston Manuel Reves, il filippino che ha confessato di aver ucciso la contessa Alberica Filo della Torre nella sua villa dell’Olgiata. Secondo Gentile, i grandi fatti di cronaca hanno da sempre attirato l’attenzione della gente che si è sempre appassionata alle sorti di quella vittima o di quell’imputato, prendendo come esempio il caso Montesi, dove ricorda: «Si faceva la fila all’edicola per sbirciare la copertina della “Domenica del Corriere” di Valter Molino». I tempi moderni quindi, avrebbero semplicemente assecondato questa curiosità e facilitato la trasmissione di notizie in tempo reale. «Oggi, ci sono in ogni casa tre televisioni e tre computer, i mezzi d’informazione devono esclusivamente servire a riferire “ ciò che la Giustizia fa”». Ma se i verbali si trasformano in copioni? Nicodemo Gentile svela il meccanismo oscuro che unisce i delitti ai mass media: tra attori buoni e cattivi, notizie amplificate ed indagini appesantite dalla presenza incessante della telecamera. Dopo l’assoluzione di Amanda Knox e Salvatore Sollecito, si è molto parlato dell’influenza e del ruolo della stampa, in particolare di quella americana. Cosa ne pensa? «Bisogna evitare ogni sorta di pericolosa commistione tra le “Aule dei Tribunali” e le cosiddette “aule mediatiche” che spesso si pongono come un vero e proprio Foro alternativo. Le prime, sono frequentate solo da soggetti professionalmente attrezzati, le seconde possono essere frequentate da chiunque. La nostra millenaria civiltà e cultura giuridica può, senza tema di smentita, farci ignorare le banali critiche mosse dagli americani al nostro sistema». E per quale ragione, su Guede, si sono spenti i riflettori così velocemente dopo la sua condanna? «In ogni vicenda giudiziaria con più parti, per un “oscuro meccanismo” alcuni degli attori rimangono in penombra, distanti

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Criminologia • Nicodemo Gentile

dagli altri, che né diventano, forse, anche inconsapevolmente, protagonisti nel bene o nel male. Il processo di Perugia è il processo di Amanda. Secondo l’Accusa “Rudy voleva compiacere Amanda” per questo ha partecipato all’aggressione di Mez. Questa ricostruzione, ovviamente per noi infondata, è la migliore risposta». Nell’omicidio di Sarah Scazzi, un ruolo importante lo ha giocato un’intervista dei giornalisti a Michele Misseri che ha aperto la strada alle successive confessioni. In questo caso la stampa ha avuto un ruolo strategico oppure l’accanimento mediatico ha ugualmente ostacolato le indagini? «Fino al ritrovamento del corpo della povera Sara, ad Avetrana, la stampa è stata utile quanto l’attività degli investigatori. Successivamente si è esagerato, arrivando a gabellare per cronaca ed informazione notizie infondate, se non addirittura inventate, che in alcuni casi più che ostacolare le indagini sicuramente le hanno appesantite». Ora segue la difesa di Salvatore Parolisi, che ha definito assieme all’avvocato Biscotti “vittima di un linciaggio mediatico”. A cosa si riferisce in particolare? «Parolisi è stato maltrattato. Il termine “linciaggio mediatico” è riferito a quell’informazione non equidistante, vicina soltanto ad alcune delle parti interessate. Significa inoltre amplificare a dismisura l’immagine negativa di un uomo che, fino a sentenza irrevocabile è, non bisogna mai dimenticarlo, un presunto innocente». Esistono delle “regole del gioco” che contraddiC&P • GIUSTIZIA

stinguono oggi un processo mediatico da uno “tradizionale”? «Il processo mediatico può essere anche un prodotto commerciale costruito per piacere, dove i protagonisti sono mobili ed intercambiabili, perché non sempre tende a ricostruire i fatti avvicinandosi alla reale dinamica degli accadimenti. Il vero processo, o meglio l’unico processo ad oggi esistente, serve a tutelare la collettività attraverso un’azione posta in essere da professionisti, che tenuti unicamente al rispetto delle regole e della Legge, sono obbligati a ricostruire una verità processuale più aderente possibile alla verità storica». Non c’è il rischio che i talk show possano compromettere la trasparenza e la regolarità dell’iter processuale? «Il nostro habitat naturale sono le aule dei tribunali, non si vincono le cause in televisione, ma davanti agli organi della giustizia. Gli addetti ai lavori non possono e non devono confondere i due aspetti che devono rimanere su livelli diversi. Il processo è retto da regole ferree, governato da un giudice che non è l’opinione pubblica». Servono, a suo avviso, provvedimenti che limitino gli interventi della stampa in ambito processuale? «Esistono già, bisognerebbe applicarli, ma solo nei confronti di quei giornalisti, pochi per fortuna, che non hanno rispetto per nessuno, neanche per la loro nobile professione. Quelli veri e seri, che sono la gran maggioranza, ho notato che si auto limitano senza grosse fatiche e senza bisogno di provvedimenti punitivi». 173


Delitti irrisolti • Nino Marazzita

Ritornare sulle mezze verità Il caso Pasolini è a un punto di svolta: per l’avvocato Nino Marazzita, parte civile nel primo processo, chiarire una volta per tutte chi sono esecutori e mandanti significherebbe restituire all’Italia la memoria di quegli anni Paola Maruzzi 36 anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dopo sei riaperture d’indagini, di cui l’ultima ancora in corso, una sterminata produzione di libri, documentari e trasmissioni televisive sul caso, la soluzione del giallo italiano potrebbe essere vicina. La scientifica ha accertato tracce di dna appartenenti a un terzo uomo, quindi non riconducibili né al poeta né a Pino Pelosi, il reo confesso che dopo aver scontato la pena ha ritrattato. Che all’idroscalo di Ostia Pelosi non fosse solo è una verità nota. Lo ricorda Nino Marazzita, storico protagonista della vicenda, nominato parte civile dalla madre della vittima la mattina del 3 novembre del 1975, il giorno dopo la scoperta del cadavere. «Incontrai prima Pelosi, che non si era ancora cambiato dalla notte precedente. I vestiti erano puliti, aveva solo un graffio sul sopracciglio destro e una macchia di sangue sul polsino sinistro». Poi il cadavere di Pier Paolo, «un grumo di sangue e carne, talmente irriconoscibile che la persona che lo scoprì, una tale Maria Teresa Lollobrigida, stava per buttarlo nei rifiuti. Mi accorsi subito che qualcosa non quadrava». È la prima nota stonata, a cui ne segue un’altra. «Il processo al Tribunale dei minori di Roma si conclude con la condanna di Pelosi per aver commesso l’omicidio in presenza di ignoti. A quel punto sarebbe dovuto scattare l’obbligo da parte della procura generale di riaprire il caso ma il giorno dopo la sentenza venne impugnata e la vicenda fu chiusa». Perché? «Ci fu un chiaro desiderio di non scoprire la verità, attraverso gli esecutori materiali si poteva risalire ai mandanti. Pasolini non era amato dal potere, parlava dalla Democrazia cristiana come di un’associazione a delinquere che an-

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dava processata per la strage di Brescia e di piazza Fontana. Avevano già cercato di buttarlo da Ponte Garibaldi, poi fu salvato da un gruppo di turisti americani: questo era il clima di quegli anni». Riaprire un caso archiviato da anni: qual è la principale difficoltà? «Reperire i testimoni, molti possono essere morti. Di positivo c’è che oggi abbiamo tecniche d’avanguardia, anche se rispetto agli Usa facciamo passare troppo giorni per fare il test del dna». Il tempo ha giocato a favore, dopo 30 anni il reo confesso Pino Pelosi ha cambiato clamorosamente versione dei fatti. «In un caso così complicato il tempo sta, in parte, facendo chiarezza. Pelosi? Dice bugie e verità. Parla dei fratelli Borsellino, entrambi morti di Aids, ma non svela i nomi degli altri complici, forse perché sono ancora in vita, quindi potrebbe essere ancora un testimone chiave». Quanto siamo vicini dalla verità? «Bisogna che i prossimi passi giudiziari siano mirati a individuare di chi è la traccia di dna sulla tavoletta che ha colpito Pasolini. Se le indagini fossero state fatte subito dopo il processo, indipendentemente dal dna, si sarebbero potuti trovare gli altri complici». È stato parte civile nel primo processo, oggi che ruolo gioca? «Seguo le vicende perché sono stato avvocato storico della famiglia Pasolini. Graziella Chiarcossi, l’unica erede, non se ne vuole occupare più. È provata dai processi e la capisco, ma spero di convincerla a riprendersi il suo ruolo. Questo avrebbe un significato simbolico molto importante». In questi 36 anni tanti non addetti ai lavori hanno C&P • GIUSTIZIA


Nino Marazzita • Delitti irrisolti

Bisognerebbe ricostruire la storia d’Italia dalla strage di piazza Fontana in poi, soffermandoci sulla vicenda Moro

In apertura, Nino Marazzita, avvocato penalista; sotto, l’anarchico Pietro Valpreda durante un'udienza per la strage di piazza Fontana

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avanzato ipotesi attraverso articoli, libri, documentari, testimonianze, trasmissioni televisive, mentre la giustizia è arrivata in ritardo. «È così. Un solo esempio: subito dopo il processo arrivò a Paese Sera una lettera indirizzata a me, in cui si diceva che quella sera la macchina di Pier Paolo era seguita da una Fiat azzurra targata Catania, si davano persino i primi numeri. Chiesi di riaprire le indagini ma non se ne fece nulla». Le cose sono cambiate, nel 2010 prima Veltroni, poi l’ex ministro della Giustizia Alfano, hanno incoraggiato la riapertura del caso. «Premesso che verità non è né di destra né di sinistra, queste mi sono sembrate richieste strumentali, un po’ formali». C’è mistero anche attorno alla sparizione del dodicesimo capitolo di Petrolio, il romanzo postumo che contiene chiari riferimenti sul caso Mattei. Che ne pensa? «Rileggendo oggi Petrolio, credo che Pasolini avesse raggiunto delle verità, cosa che non aveva ancora fatto quando scriveva quei bellissimi pezzi sul Corriere della Sera, quando diceva: “Io so, conosco il responsabile di piazza Fontana, ma non ho le prove”». “Il caso Mattei” è anche un film inchiesta di Francesco Rosi, ma quand’è che la finzione sconfina nell’inchiesta giudiziaria vera e propria? «In Italia raramente, cosa che accade invece nei paesi anglosassoni. Basti pensare allo scandalo Watergate». Quali altri casi irrisolti andrebbero riaperti? «Bisognerebbe ricostruire la storia d’Italia dalla strage di piazza Fontana in poi, soffermandoci sulla vicenda Moro, di cui sono stato parte civile. Da quel momento ci è stata negata la storia. Il filosofo Severino diceva: “Un paese che non conosce la storia è meno libero degli altri”». 175


Delitti irrisolti • Luciano Garofano

Vecchi delitti e nuove tecniche d’indagine «I crimini sono gli stessi, siamo noi che cambiamo maturando nuove strategie di ricerca». Luciano Garofano, ex comandante dei Ris di Parma, getta uno sguardo sui retroscena di alcuni casi irrisolti di Paola Maruzzi

ilma Montesi, Elisa Claps, Pier Paolo Pasolini: sono alcuni “vecchi” casi giudiziari su cui si potrebbe tornare a distanza di anni per sciogliere nodi e dinamiche rimaste in sospeso. Le nuove tecnologie danno, infatti, la possibilità di fare indagini a ritroso ma anche di approcciarsi diversamente alle scene del crimine dei nostri giorni. I passi in avanti sono stati tanti «ma nessuno ha la bacchetta magica, tutto sta nel partire dalle tracce biologiche, solo se ci sono possiamo persino spingerci nella ricostruzione di omicidi accaduti molto in là nel tempo» spiega Luciano Garofano, ex comandante dei Ris di Parma. «Come vedo lo situazione in Italia? Da un punto di vista tecnico non siamo secondi a nessuno ma bisogna fare un salto culturale soprattutto nello snellimento delle cosiddette analisi irripetibili». Quali sono i nuovi strumenti a disposizione dei Ris? «Sostanzialmente due, entrambi portano all’identificazione personale: in primis c’è l’analisi del dna, che negli anni ha consentito di lavorare su tracce minimali permettendo di arrivare a un profilo genetico completo. Le tracce biologiche, quindi la saliva, il sudore e il sangue, sono più stabili rispetto alle impronte digitali e la possibilità di lavorare anche su materiale cellulare è un enorme vantaggio. Accanto a questo c’è il versante delle impronte digitali: se un tempo eravamo abituati a spennellare di polveri le superfici dei reperti oggi i reattivi chimici migliorano la possibilità di trovarle anche a

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Delitti irrisolti • Luciano Garofano

Luciano Garofano, ex comandante dei Ris Parma

distanza di tempo». Come cambiano i sopralluoghi effettuati subito dopo il crimine? «La scena del crimine è quella in cui ci sono gli elementi per risolvere il caso e in tal senso bisogna migliorare l’approccio a partire dal primo intervento, dai volontari del 118 all’arrivo dei carabinieri o polizia del posto. La scena va tutelata, isolata e protetta affinché non vengano contaminate o la distrutte le tracce. A mio avviso c’è ancora tanto da fare in fatto di formazione dei funzionari preposti, le azioni di tutti dovrebbero seguire protocolli più severi, affidate a competenze di professionisti». In che direzione consiglia di andare? «Va inquadrata meglio la funzione di chi si occupa solo di questo tipo di indagini, di chi è specializzato nel trovare anche le tracce invisibili. In definitiva va fatto un salto culturale. Abbiamo le risorse a disposizione, pensiamo alla Ert o ai Ris, forse andrebbero calate meglio nelle realtà territoriali». Come si pone l’Italia verso le più avanzate tecniche scientifiche di investigazione? «Di certo non è in ritardo: se c’è l’urgenza, il dna si fa in pochissimo tempo. Quand’ero a capo dei Ris di Parma se era necessario si facevano le nottate. Il problema è un altro e, per vie indirette, incide sul passare del tempo: il nostro sistema giuridico è più garantista rispetto, per esempio, a un paese come gli Usa. Ci troviamo di fronte alle cosiddette analisi irripetibili, mentre altrove questo tipo di analisi possono essere C&P • GIUSTIZIA

effettuate senza dare avvisi a nessuno. In Italia sono previste una serie di formalità che servono per garantire il contraddittorio, quindi nel momento i cui si fanno le analisi devono essere informate tutte le parti che, a loro volta, possono informare dei consulenti». Quali celebri casi irrisolti potrebbero essere riaperti? «Tutti quelli in cui c’è la disponibilità di avere reperti e oggetti che possono essere analizzati. Sarebbe interessante fare un censimento dei casi irrisolti e credo che le probabilità di successo siano elevate. Non ci sono limiti temporali, basti pensare alle analisi condotte sulle ossa del poeta Matteo Maria Boiaro, vissuto a fine Quattrocento». “Ris, delitti imperfetti” è anche una fiction televisiva. Qual è l’errore più grossolano che viene commesso sui set? «Queste fiction hanno avuto il merito di aver fatto conoscere al grande pubblico il lavoro scientifico delle forze dell’ordine ma hanno anche tanti demeriti perché propongono modelli di perfezione molto distanti dalla realtà. In tv si sa già dove andare a cercare, guarda caso viene presa sempre la traccia più importante e in laboratorio si fanno miracoli. Le fiction hanno esemplificato le indagini, dando l’impressione che tutto sia possibile, facendo vivere profonde delusioni quando questo non si verifica nella realtà. Paradossalmente anche tra gli avvocati, i magistrati e le forze dell’ordine è passata una certa “pretesa” che ogni caso debba essere risolvibile, ma purtroppo non è così». 177




La prova e il processo • Franco Coppi

Indagini sempre più precise grazie a tecniche avanzate La tecnologia al servizio della magistratura inquirente ha permesso, attraverso strumenti sempre più all’avanguardia, di accertare la verità dei fatti con rapidità e sicurezza. Franco Coppi spiega l’impiego di queste tecniche e il problema della divulgazione delle informazioni di Nicolò Mulas Marcello

e prove scientifiche come quelle informatiche, il dna e le intercettazioni telefoniche sono diventate sempre più decisive nei processi. La tecnologia ha fatto passi da gigante al servizio degli inquirenti, contribuendo a raggiungere risultati importanti nell’accertamento della verità. Non sempre, però, la riservatezza di questo tipo di informazioni viene rispettata. Da tempo il dibattito politico si è acceso intorno alla pubblicazione sui giornali di conversazioni telefoniche che si è poi trasformato in uno scontro tra giustizia, etica e informazione. «Oggi questi sistemi – spiega l’avvocato Franco Coppi – permettono con maggiore rapidità e sicurezza di arrivare alla verità. Facendo riferimento alla magistratura inquirente mi pare che ci sia un ricorso sempre più frequente a questo tipo di tecnologie». Qual è la linea di demarcazione tra uso e abuso? «Di abuso non parlerei perché in un processo, che per definizione dovrebbe essere volto ad accertare la verità, è chiaro che si può dar fondo a tutte le risorse della tecnologia per raggiungere la verità. L’abuso è semmai nella divulgazione intempestiva e nell’uso che si fa delle informazioni. Nelle conversazioni frutto di intercettazioni telefoniche si raccoglie di tutto, alcune conversazioni possono essere attinenti al processo ma altre no, e spesso vengono divulgate anche quelle che non servono ai fini del processo, magari contenenti pettegolezzi o storie private che poi diventano

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puro gossip. Detto questo, è ovvio che non si può negare l’ingresso nel processo di strumenti tecnologici». Si tratta solo di un problema di divulgazione delle notizie? «Il secondo problema è che nessuna di queste prove di per sé deve essere considerata decisiva. Ad esempio, nel caso della prova del dna occorre vedere quando e come è stata lasciata questa traccia sul luogo del delitto. Individuare una traccia di dna non equivale a trovare l’assassino, tutto va valutato nel contesto delle altre prove. Lo stesso per le conversazioni telefoniche che vanno interpretate e immerse nel contesto in quanto prese singolarmente e isolate possono avere un significato diverso da quello contestuale ge-

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Franco Coppi • La prova e il processo

nerale. Starà poi all’abilità dell’investigatore e del giudice saper mettere tutte le pietre del mosaico al loro posto e alla fine trarne una conclusione. L’abbiamo visto anche recentemente, anche se non sono state ancora pronunciate sentenze definitive, grazie alle prove del dna sono stati riaperti dei casi che sembravano insolubili. Da parte mia quindi non c’è nessuna remora all’uso di questo tipo di prove ma non bisogna essere schiavi della tecnologia. Per quanto riguarda le intercettazioni, bisognerebbe procedere in modo da salvaguardare la riservatezza e i diritti delle persone con riferimento a tutte quelle conversazioni che non hanno a che fare con il processo. Anche se ormai pare di predicare nel deserto in quanto vediamo che, anche nel caso di segreto istruttorio, si anticipano le emissioni di provvedimenti cautelari da parte della procura. Un tempo tutto ciò era veramente impensabile». Come si è arrivati a questa situazione? «A volte non si riesce neanche a capire perché si corrompa un certo costume. Ormai purtroppo è così. Può essere protagonismo di un magistrato, un rapporto di amicizia tra uffici giudiziari e giornalisti. Possono essere talvolta anche gli stessi difensori a divulgare qualcosa che ritengono conveniente per il loro assistito. È un degrado del costume giudiziario che si è lentamente sviluppato e accentuato e che oggi ha raggiunto livelli sorprendenti e a mio avviso intollerabili». Anche le prove informatiche sono sempre più imC&P • GIUSTIZIA

portanti. «Ormai si riescono a localizzare i percorsi di una persona che abbia semplicemente un telefono in tasca e si riesce dalla memoria del computer a risalire a corrispondenze che sono state scambiate nel tempo non solo via e-mail. Pensi all’esame dei cellulari che consentono di stabilire se una persona si trovasse in un posto preciso al momento del delitto o anche a tutto ciò che emerge dall’analisi delle memorie dei computer anche se viene cancellato. Quindi, anche sotto questo punto di vista la tecnologia ha fatto dei grandi passi in avanti nella ricerca della verità e ha portato un contributo importantissimo». 181


Il diritto di difendersi • Carmine Pepe

Le possibili violazioni del diritto alla difesa La difesa è un diritto inviolabile da rispettare in ogni stato e grado del procedimento. Carmine Pepe spiega perché spesso viene messo in pericolo di Nicolò Mulas Marcello

Carmine Pepe, professore ordinario di diritto pubblico presso l’Università di Salerno

l concetto di difesa, che di solito viene erroneamente riportato esclusivamente alla figura dell’imputato, necessita di un ampliamento di indagine comprensiva di tutti i soggetti e di tutte le attività che necessitano dell’esercizio della difesa. «La giurisprudenza – spiega Carmine Pepe - ha infatti affermato che restringere l’indagine al solo diritto di difesa dell’imputato di fronte all’esercizio dell’azione penale, equivale a restringerne il suo contenuto, limitandone tutta la sua portata estensiva». Il 24 ottobre la giunta dell’Unione delle camere penali italiane ha denunciato una serie di gravi attacchi al diritto di difesa. Attualmente secondo lei il diritto di difesa è in qualche modo non rispettato? «A mio avviso attualmente il diritto di difesa non viene rispettato. Invero, al centro del dibattito sulle garanzie e sul rispetto dei diritti dell’individuo, vi sono la struttura e le funzioni cui, in un moderno stato sociale di diritto, deve assolvere il processo penale. La presenza sempre maggiore di reminiscenze inquisitorie hanno riproposto la cosiddetta questione giustizia. Per porre rimedio all’emergenza sì è optato per un ritorno a logiche di segno autoritario, che si riteneva di aver superato con la riforma del 1988. Si è superato il modello accusatorio per privilegiare un modello diretto all’accertamento della verità materiale,

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Il diritto di difendersi • Carmine Pepe

che oltrepassa i limiti consentiti dalla legislazione di emergenza, in uno stato di diritto in cui il processo deve identificarsi con il dubbio, con le prove, con la presunzione di innocenza fino a sentenza di condanna e con il rispetto del principio del contraddittorio. In senso contrario è stato anche il contributo della Consulta che ha dettato un orientamento “involutivo” del processo penale». I penalisti lamentano ad esempio il fatto che sempre più spesso i pubblici ministeri iscrivono tardivamente gli indiziati nel registro degli indagati, in modo da poterli interrogare senza la presenza del difensore o che vengano usate come prova, le intercettazioni tra difensore e assistito, cosa vietata per legge. È possibile tutto ciò? «La procedura penale deve essere intesa sempre come regola superiore e limite al potere della magistratura, mentre oggi viene intesa quale superamento della supremazia della legge. Questo significa che la forza dei provvedimenti dei magistrati risiede sempre meno nella legge e sempre più nell’organo che dispone del potere. È proprio partendo dalla disciplina delle prove che si è smantellato il sistema del modello accusatorio, infatti, più sentenze costituzionali hanno ammesso la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rilasciate durante le indagini preliminari innanzi al pubblico ministero e agli organi di polizia giudiziaria, nonché i documenti e i verbali di prova formati in C&P • GIUSTIZIA

altro procedimento. Il dibattimento finisce così con il diventare il luogo in cui vengono confermate le prove che si sono già formate altrove, in una fase in cui ciò è fatto divieto, facendo così rivivere i principi propri di un modello inquisitorio i cui non c’è nessuna minima garanzia del diritto di difesa, ma allo stesso tempo anche del principio del contraddittorio e di oralità». Il diritto di difesa secondo lei è sancito in maniera esaustiva dal nostro ordinamento o occorrono interventi da parte del legislatore? «Il diritto di difesa è certamente sancito in maniera esaustiva nella nostra Carta costituzionale, ma non nella legislazione ordinaria attuativa, tutta improntata all’emergenza. De iure condendo, ciò che dunque sia auspica, per un ritorno alla regolarità e alla legalità, è di ridimensionare i poteri del pubblico ministero, rivisitando in senso di maggior rispetto, le norme a contenuto probatorio; fissare in maniera chiara e precisa le finalità della custodia cautelare, al fine di scongiurare qualsiasi forma di abuso; ridurre i disagi e le carenze che si hanno a seguito della lentezza della macchina giudiziaria, e, contestualmente, predisporre un piano per recuperare la figura ed il reale ruolo del diritto di difesa nel corso del processo. Solo così, può essere assicurata una effettiva terzietà del giudice rispetto sia alla difesa che all’accusa». 183




Emergenza carceri • Anna Chiusano

Carceri, urgono interventi I detenuti aumentano, mentre calano le risorse a disposizione e le carceri italiane sono sull’orlo del collasso. Anna Chiusano analizza la condizione, proponendo alcune misure che potrebbero dare respiro a una situazione sempre più critica di Guido Puopolo

L’avvocato Anna Chiusano, il cui studio ha una sede a Torino e l’altro a Roma www.studiochiusano.it

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na vergogna per il Paese». Non ha usato certo giri di parole il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano per descrivere, in un suo recente intervento, la situazione delle carceri italiane, caratterizzate da un cronico sovraffollamento che costringe i detenuti a vivere in condizioni di estremo disagio. «In Italia esistono 208 istituiti carcerari, di cui quasi la metà costruiti nei secoli scorsi e quindi assolutamente inadeguati agli standard oggi richiesti», afferma con forza l’avvocato Anna Chiusano. «Le strutture attuali potrebbero ospitare un massimo di 45 mila detenuti, anche se, secondo quanto riportato dai dati relativi allo scorso mese di aprile, le persone rinchiuse in carcere sono oltre 67 mila, di cui solo la metà condannate in via definitiva». Per cercare di far fronte a questa situazione il Governo, nel gennaio 2010, ha dichiarato lo “stato di emergenza delle carceri italiane”, a cui ha fatto seguito, nel giugno dello stesso anno, l’approvazione del “Piano carceri”. Quali sono i risultati ottenuti fino a oggi? «L’urgenza dettata dall’effettiva emergenza di risolvere il problema carceri, ha portato il Governo ad adottare un piano che inizialmente prevedeva la realizzazione di undici nuovi istituti penitenziari. Attualmente, invece, sta prendendo quota il progetto di costruire carceri a bassa sicurezza che dovrebbero assorbire circa 5 mila posti, affiancati da venti padiglioni aggiuntivi che potranno ospitare fino a 4 mila persone. Ovviamente però per tutto questo occorre tempo e denaro e, tenuto conto delle difficoltà nel reperire le risorse economiche necessarie, credo che difficilmente un’opera di questo tipo potrà essere realizzata in tempi brevi». Quali altri provvedimenti sono compresi all’interno di questo provvedimento? «Il Piano carceri è stato elaborato sulla base di tre pilastri che, oltre alla costruzione di nuove strutture, prevedono anche un piano normativo che attui misure deflattive alla carcerazione per chi deve scontare un modesto residuo di pena e un piano relativo al potenziamento dell’organico del Corpo di Polizia Penitenziaria. Gli agenti di polizia, così come gli operatori impegnati a lavorare negli istituti, sono infatti costretti a turni massacranti a causa della carenza di risorse, con il rischio di essere loro stessi vittime della situazione di emergenza in cui svolgono il loro operato, e proprio per questo diventa indispensabile provvedere a nuove assunzioni». Quali misure sono state attuate, invece, per potenziare il ricorso all’uso di misure alternative alla detenzione? «Per favorire questa soluzione, in accordo con quanto stabilito dal secondo pilastro del Piano, alla fine del 2010 è entrata in vigore la Legge 199/2010, conosciuta anche come “svuota car-

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Emergenza carceri • Anna Chiusano

ceri”. Nello specifico detto provvedimento prevede la concessione della detenzione domiciliare ai condannati che abbiano ancora dodici mesi di pena definitiva da scontare. Proprio in questi giorni si sta discutendo se elevare a un anno e mezzo i termini per l’applicazione della succitata legge.Tuttavia, come fa notare il capo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria - DAP, il dottor Franco Ionta, essa avrebbe potuto avere un effetto maggiore se i magistrati non avessero attuato la norma in modo restrittivo. Le procedure per la sua applicazione sono infatti troppo farraginose e quindi lente. Basti pensare che il tempo necessario per ottenere la detenzione domiciliare solitamente non è mai inferiore ai tre mesi, che sui dodici da scontare incidono in modo considerevole». Circa 14 mila persone attualmente in carcere sono in attesa di giudizio. Crede che un ripensamento dello strumento della custodia cautelare potrebbe, almeno in parte, risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri? «Varie associazioni, tra cui l’Unione delle Camere Penali, in questi anni hanno più volte richiamato i giudici all’osservanza delle norme del codice di procedura penale. La custodia cautelare in carcere, in origine, era stata prevista dal nostro legislatore come “extrema ratio”, mentre non sempre così è stata applicata. Il bisogno di certezza della pena, richiesto dal comune cittadino in cerca di tutela e sicurezza, deve necessariamente collimare con il diritto dell’indagato a non scontare anticipatamente una pena non ancora inflitta. La limitazione della misura cautelare in carcere ai casi più gravi, e l’uso magC&P • GIUSTIZIA

Il bisogno di certezza della pena, richiesto dal comune cittadino in cerca di tutela e sicurezza, deve necessariamente collimare con il diritto dell’indagato a non scontare anticipatamente una pena non ancora inflitta giore di misure alternative alla detenzione come quelle previste dal CPP, avrebbero sicuramente come immediata conseguenza un miglioramento della situazione per tutti quei soggetti in attesa di giudizio». Nel passato si è spesso cercato di ovviare al sovraffollamento delle carceri con soluzioni temporanee, come l’amnistia o l’indulto. Crede che lo strumento dell’indulto oggi possa essere riproposto? «In linea generale non sono contraria a soluzioni quali l’amnistia o l’indulto. Chiaramente però non si può pensare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri con un ricorso sistematico a questi provvedimenti. Amnistia e indulto, infatti, possono garantire una certa efficacia solo se inseriti all’interno di una riorganizzazione strutturale che, affiancata da 187


Emergenza carceri • Anna Chiusano

Ultimamente anche il nostro Presidente della Repubblica ha apertamente invitato le istituzioni ad adottare ogni possibile intervento volto a porre rimedio alla drammatica situazione carceraria 188

un potenziamento delle misure alternative alla carcerazione e da una seria politica di depenalizzazione di alcuni reati, permetterà di uscire da quella che oggi è, per il nostro Paese, una vera e propria emergenza». Nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Cedu a risarcire un detenuto bosniaco per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso per alcuni mesi. Come giudica questa sentenza e quali scenari ha aperto? «Nel luglio 2009 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato il nostro paese a risarcire un detenuto bosniaco per il trattamento disumano e degradante ricevuto in carcere, in violazione della previsione di cui all’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani. Questa sentenza, a mio avviso, ha avuto risvolti molto significativi, in quanto ha aperto la via alla legge “svuota carceri”, ma soprattutto ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni disumane in cui vivono i detenuti». Sulla base di queste considerazioni, crede che oggi l’istituzione carceraria sia ancora in grado di assolvere al suo compito “rieducativo”? «Ultimamente il nostro Presidente della Repubblica ha apertamente invitato le istituzioni ad adottare ogni possibile intervento volto a porre rimedio alla drammatica situazione carceraria. Essa è in contrasto non solo con l’art. 3 e l’art. 27 del nostro dettato costituzionale che sanciscono rispettivamente la pari dignità sociale dei cittadini e la finalità rieducativa della pena nel rispetto dei trattamenti non contrari al senso di umanità, ma soprattutto stride con il senso di umanità che alberga in ognuno di noi. Celle che dovrebbero ospitare al massimo due o tre detenuti e che invero ne contengono cinque/sei, costretti a vivere in condizioni spesso disumane, non possono fare altro che alimentare il malessere di chi già soffre per la privazione della libertà. Non è un caso che il tasso dei suicidi abbia ormai raggiunto livelli preoccupanti, come emerge da un rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione presentato a Roma da Antigone Onlus il 28 ottobre scorso.Va da sé che in questo contesto mi pare poco realistico pensare che l’istituzione carceraria possa essere in grado di assolvere al suo compito rieducativo. Solo attivando seriamente tutte le risorse necessarie, quali l’aumento dell’organico penitenziario, la depenalizzazione di alcuni reati, l’attuazione di misure deflattive al carcere e la costruzione di nuove strutture, sarà possibile ottenere un reale miglioramento della situazione, a vantaggio non solo dei detenuti ma di tutta la comunità». C&P • GIUSTIZIA



Reati informatici • Ugo Ruffolo

Internet e la salvaguardia dei dati personali La giurisprudenza deve adeguarsi alla velocità con cui le tecniche di frode informatica si moltiplicano. Un campo di applicazione difficile, in quanto spesso le tracce degli autori del reato si perdono nell’etere. Ugo Ruffolo spiega come difendersi in ambito legale di Nicolò Mulas Marcello

eppur le campagne di informazione sulle possibili truffe che possono nascondersi su internet si susseguano costantemente, gli utenti della rete che rimangono vittima di questo tipo di reati sono ancora molti. Le tecniche di sottrazione dei nostri dati sensibili diventano, infatti, sempre più avanzate. «Accanto alla responsabilità penale dell’autore del reato – spiega Ugo Ruffolo, avvocato e professore di Diritto civile dell’Università di Bologna – altri soggetti possono rispondere come civilmente responsabili, in via diretta o vicaria». Ogni anno miliardi di dollari sono il frutto di una serie di diversi reati informatici e le vittime sono solitamente privati cittadini. Tra questi uno dei più comuni è il furto di dati bancari. Nonostante le campagne di informazione, sono ancora alti i reati di questo tipo? «Il furto dei dati bancari è problema attualissimo, soprattutto in tempi di home banking e conti correnti on line. Particolarmente insidiosa, fra le altre, è la tecnica del phishing, che mira a ottenere dati riservati (quali password di accesso a un conto corrente bancario o postale online) attraverso l’invio di messaggi esca che, simulando e riproducendo quelli delle banche o delle società emittenti carte di credito, richiedono l’inserimento dei propri dati e codici. È bene non rispondere a email dai contenuti analoghi: è una prassi estranea ai “veri” istituti di credito. A chi ha subito simili frodi è accordata tutela penalistica. Sono ora previsti appositi reati “informatici”, che sanzionano siffatti comportamenti: in primis, il delitto di frode informatica, che punisce chiunque, alterando il funzionamento di un sistema informatico o intervenendo senza diritto su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Il vero problema, in questi casi, non è l’assenza di norme,

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bensì l’individuazione dei colpevoli». Fermo restando che la violazione del diritto d’autore è un reato e come tale va perseguito, esiste una discussione in ambito legale che ne preveda una sua evoluzione in ambito informatico? «È un tema che mi occupa anche come avvocato. La legge contempla già diverse norme, anche penali, che moralizzano il “mondo informatico”. È punita, infatti, l’ immissione in un sistema di reti telematiche di opere dell’ingegno protette. Molto è ancora da fare per adeguare una norma-

Ugo Ruffolo, docente di diritto civile presso l’Università di Bologna

C&P • GIUSTIZIA


Ugo Ruffolo • Reati informatici

tiva ideata su opere dell’ingegno “tradizionali” alle tecnologie sempre più immateriali. Mentre l’Antitrust segnala la necessità di nuove discipline in materia di contenuti editoriali on line, l’Agcom propone uno schema di regolamento tipo “notice and take down”, per una procedura in più fasi: segnalazione del titolare del diritto d’autore al gestore del sito; segnalazione all’Autorità in caso di mancata rimozione del materiale entro 4 giorni; verifica di quest’ultima in contraddittorio tra le parti; adozione da parte dell’Autorità di un ordine di rimozione; monitoraggio successivo e applicazione di sanzioni in caso di inottemperanza (sono provvedimenti impugnabili dinanzi al Tar Lazio). L’iniziativa è meritoria, ma a patto di evitare i tempi decisionali “italiani”, e quantomeno rispettare quelli ora previsti (10 giorni per il contraddittorio fra le parti ed eventuale ordine di rimozione nei successivi 20 giorni, prorogabili per altri 15); e che, in caso di eclatante violazione, l’Autorità possa adottare un provvedimento immediato “inaudita altera parte”». Uno dei temi più attuali è sicuramente quello del cyberstalking. La legge prevede delle misure a riguardo? «Cyberstalking è l’impiego delle nuove tecnologie in funzione persecutoria e assillante, quali il ripetuto invio di email dai contenuti offensivi o sgradevoli, l’intrusione nel sistema informatico della vittima tramite programmi volti ad assumerne il controllo o a danneggiarlo, l’impersonificazione della vittima in chat o social network (spesso anche C&P • GIUSTIZIA

in contesti diffamatori, quali siti di genere erotico), la pubblicazione in rete di fotografie, video o contenuti offensivi riguardanti la vittima. Per la Cassazione rientrano nel recentemente introdotto reato di stalking (art. 612 bis c.p.) tutti quei comportamenti persecutori e ossessionanti, anche col mezzo telematico, fra cui anche il reiterato invio alla persona offesa di messaggi sia di posta elettronica sia sui social network (ad esempio "Facebook"), che siano tali da indurre la persona offesa a cambiare le proprie abitudini di vita, ovvero da ingenerare nella stessa un grave stato di ansia o di paura». Spesso risulta difficile scoprire la mente di certe frodi informatiche. I cittadini riescono in qualche modo a ottenere giustizia? «Il problema più ricorrente è proprio l’individuazione dei colpevoli, le cui tracce si perdono nell’etere; o che si “nascondono” dietro prestanome inconsapevoli o società irreperibili. Accanto alla responsabilità penale dell’autore del reato, altri soggetti possono rispondere come civilmente responsabili, in via diretta o vicaria. Come per gli istituti di credito chiamati a risarcire nei casi in cui la frode sia avvenuta anche a causa di carenze di sicurezza od inadeguata protezione del sistema informatico dell’istituto stesso. Da non escludersi, però, un eventuale concorso di colpa della stessa vittima, laddove anche il comportamento colposo di questa abbia avuto ruolo determinante nell’illecito: attenzione, dunque, anche ai propri sistemi informatici e alla loro sicurezza». La legislazione in materia di crimini informatici è ancora in evoluzione. Quali sono gli aspetti da affrontare con maggiore urgenza? «Sicuramente urgente è la già invocata riforma del diritto d’autore dell’editoria, alla luce delle nuove forme di fruizione di libri e giornali via tablet e smartphone. Fondamentale, poi, sarebbe disciplinare la responsabilità del provider. Se pare indubbia la possibilità di ritenere responsabile il provider per illeciti commessi da esso stesso (si pensi al provider che illecitamente diffonda dati personali di utenti registrati), più difficile appare, invece, affermarne la responsabilità in relazione a illeciti commessi da terzi (utenti che tramite la struttura tecnica del provider navigano in rete o gestiscono un sito web), in assenza di un obbligo, per i provider, di un controllo preventivo. Se fino a oggi si è fatto ricorso a strumenti di tutela attinti da altre fonti normative, quali la disciplina sulla protezione dei dati personali, o quella relativa al commercio elettronico, sicuramente la materia meriterebbe un intervento normativo ad hoc». 191


Reati informatici • Antonio Apruzzese

Il fenomeno della cyber minaccia

Gli attacchi informatici alle infrastrutture strategiche si sono intensificati negli ultimi mesi anche in Italia. L’impiego di nuovi sistemi di protezione dei dati si affianca alle indagine delle forze dell’ordine. Antonio Apruzzese illustra il quadro della situazione di Nicolò Mulas Marcello

Antonio Apruzzese, direttore della Polizia Postale

l ricorso sempre maggiore ai sistemi informatici e alle reti e servizi di comunicazione telematica per esigenze di vita quotidiana – spiega Antonio Apruzzese, direttore della polizia postale – ha proiettato noi tutti, privati cittadini, imprese e istituzioni, nella nuova dimensione del cyber spazio o “mondo virtuale”». Di conseguenza la minaccia criminale informatica è diventata più concreta per tutti gli utenti della rete. Dai comuni virus informatici ai più sofisticati sistemi di intromissione nelle banche dati delle istituzioni, gli attacchi al web si ripetono quotidianamente. Negli ultimi mesi gli attacchi informatici alle infrastrutture strategiche italiane hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani. Possiamo parlare di allarme hacker? «La cyber minaccia è un fenomeno attuale, concreto e preoccupante quanto le tradizionali forme di aggressione, agli interessi privati o della collettività, poste in essere dalla criminalità comune, organizzata e o dai gruppi eversivi o terroristici che operano in ambito nazionale o internazionale. L’approccio allarmistico non crediamo possa produrre effetti positivi. È, invece, indispensabile acquisire, a tutti i livelli, una comune e piena consapevolezza non soltanto delle potenzialità di tale nuova dimensione ma anche delle

insidie che in essa sono radicate e della necessità di adottare le cautele di tipo tecnologico, normativo e organizzativo adeguate all’utilizzo in libertà e sicurezza delle risorse telematiche». Anche la Polizia è stata oggetto di attacchi. Ad essere colpito, con precisione, è stato il Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche. Quali danni ha subito e quali misure ha adottato la polizia? «In relazione alla pubblicazione sulla rete, alla fine dello scorso luglio, di documenti riconducibili all’attività del Cnaipic, peraltro di quantità esigua rispetto alla mole di documentazione artefatta o assolutamente non afferente allo stesso centro, sono attualmente in corso approfondimenti investigativi e tecnici, mirati ad accertare l’esatta dinamica del fatto, i reali obiettivi e l’identità dei responsabili. Una risposta a tali aggressioni è comunque possibile. Essa deve essere data con determinazione, per il bene comune. e ciò presuppone che si agisca in una prospettiva internazionale, in stretta collaborazione con gli omologhi organismi di polizia all’estero». A essere colpiti dagli hacker sono stati anche molti altri siti istituzionali e di aziende. Questo genere di attacchi ha di norma uno scopo dimostrativo e di sensibilizzazione o si tratta di furti di informazioni con

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C&P • GIUSTIZIA


Antonio Apruzzese • Reati informatici

ben altri scopi? «Non spetta a noi operatori di polizia giudicare le spinte emotive o ideologiche alla base della condotta di un hacker. Noi siamo chiamati ad applicare la legge nei confronti di chiunque commette azioni nelle quali è ravvisabile una fattispecie di reato prevista dal nostro ordinamento. Tuttavia, quando con la loro condotta tali soggetti travalicano i confini della libertà di manifestazione del pensiero e commettono un reato ben poco contano gli “ideali”. E, soprattutto, questi soggetti con grandi capacità informatiche devono fare molta attenzione al rischio di strumentalizzazione a opera di terzi, animati da ben più gravi finalità criminali. Ecco perché anche un semplice attacco informatico a scopo dimostrativo e di protesta, può trasformarsi in qualcosa di ben più grave e determinare, anche a distanza di tempo, azioni di vero e proprio sabotaggio o la sottrazione di dati e informazioni sensibili». Nel caso della Sony, oltre al danno produttivo per l’azienda c’è stato anche quello a carico degli utenti con sottrazione di dati sensibili (identità e numeri di carte di credito). Cosa deve fare un utente, a livello pratico, in questi casi? «Non esistono accorgimenti radicalmente diversi da adottare nel cyber spazio, per proteggere i nostri dati personali e i nostri interessi patrimoniali, rispetto a quelli che siamo C&P • GIUSTIZIA

abituati a porre in essere nel “mondo reale”. I consigli che la Polizia di Stato fornisce quotidianamente ai cittadini, attraverso gli uffici di polizia sul territorio e tramite il portale www.commissariatodips.it, sono orientati alla massima prudenza nel comunicare i propri dati personali, all’attenta custodia delle proprie credenziali di accesso ai servizi di home banking e di posta elettronica e dei codici di utilizzo delle carte elettroniche di pagamento, al costante aggiornamento dei software antivirus installati sui propri personal computer e, soprattutto, all’utilizzo consapevole dei social network». Dal punto di vista delle organizzazioni è possibile in qualche modo prevenire questi attacchi? Cosa si prevede per il futuro? «Siamo profondamente convinti, come operatori di pubblica sicurezza, della possibilità di ottenere sempre risultati più concreti in termini di prevenzione e contrasto di una minaccia destinata, per le ragioni di cui sopra, a estendere il proprio campo d’azione. Tale obiettivo sarà più facilmente conseguito seguendo un percorso articolato, che prevede iniziative di sensibilizzazione dell’utenza al tema dell’uso sicuro di internet e degli strumenti informatici, e partnership pubblico-privato finalizzate a incrementare l’efficacia delle misure atte a prevenire e contrastare la cyber minaccia». 193


Reati informatici • Marco Strano

I pericoli della rete

Non solo chat e social media, le minacce “tecnologiche” arrivano anche dai cellulari. A essere in pericolo sono soprattutto gli adolescenti, il cui adescamento per lo più avviene proprio tramite il telefonino. Il punto di Marco Strano, criminologo esperto di cyber crimini di Luca Donigaglia

ggi tutti sono concordi nell’affermare che il web rappresenta un’incredibile risorsa a disposizione di tutti gli utenti. La rete, però, presenta anche numerosi elementi di rischio. Pedofilia, prostituzione, truffe, terrorismo, riciclaggio, hacking: la Rete ha offerto nuovi strumenti ai vecchi reati, generando allo stesso tempo nuove forme di illegalità. Quali sono i reati più comuni in rete? Come possiamo difenderci? A chi possiamo rivolgerci se siamo vittime di un crimine telematico? Secondo il cyber-criminologo Marco Strano i più esposti ai pericoli che si annidano in Internet sono gli adolescenti. Tra i reati più diffusi c’è l’adescamento di minori che, secondo Strano, avviene per il 20% dei casi tramite telefonino. Si stimano pari circa a 18.600 in tutta Europa i pc infettati quotidianamente da un virus, con una crescita annua che si attesta al 23%. In questo scenario l’Italia si posiziona quarta, con Roma e Milano tra i primi posti nella classifica delle città più colpite. Quanto il web è stato sfruttato in questi anni dai cyber-criminali? «L’avvento di internet e l’interconnessione tra organizzazioni digitalizzate - tra reti di computer - propone nuove azioni criminali. Dal proprio spazio vitale l’individuo esce

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e si inserisce in un altro gruppo interconnesso. Il tipico suono del modem che attiva l’accesso all’infosfera digitalizzata segna anche percettivamente il passaggio a una possibilità di azione. La scena del crimine, il sistema attaccato, si può collocare anche a migliaia di chilometri dall’attaccante e la distanza geografica tra autore e vittima influisce sui livelli di percezione del crimine». I sistemi di comunicazione internet “senza filo” negli ultimi anni fino a che punto hanno giocato un ruolo in tutto questo? «La nascita dei sistemi wireless di connessione, come gprs, umts e hspda, riduce ancora la percezione di localizzazione dell’utente. Il cavo, ultimo cordone ombelicale tra la dimensione fisica del soggetto e l’infosfera digitalizzata lascia il posto a uno spazio elettromagnetico. Si diffonde la tecnica del wardriving, che consiste nel girare in automobile con un computer portatile per trovare qualche connessione wireless non protetta. Accedere alla rete attraverso la connessione di un altro soggetto ignaro abbatte ulteriormente la percezione del rischio da parte del computer criminal di essere individuato. Gli adattamenti percettivi e cognitivi in ottica criminologica legati alle tecnologie wireless riguardano quindi la difficoltà di comprendere cognitivamente l’esistenza e l’inviolabilità di uno spazio virtuale definito alC&P • GIUSTIZIA


Marco Strano • Reati informatici

Marco Strano, criminologo e direttore scientifico dell’International Crime Analysis Association. È funzionario di Polizia presso il Centro neurologia e psicologia medica, responsabile dell’area Criminologia e criminal profiling

l’interno di un’impalpabile rete di onde elettromagnetiche che si configura come canale di accesso alla scena del crimine digitale». La diffusione di smartphone e Blackberry hanno proposto una modalità nuova di connessione alla rete. L’accesso è perenne e i servizi web ed e-mail si mischiano con i servizi voice e sms. Per quanto riguarda i minori, ad esempio, come le nuove tecnologie possono offrire nuovi spazi ai crimini informatici? «I primi studi attivati dall’International crime analisys association a partire dal 2001 sui rischi di adescamento dei minori in chat hanno evidenziato numeri preoccupanti con percentuali superiori al 10% di giovani navigatori entrati in contatto con un pedofilo in chat. Numerosi fatti di cronaca recente indicano che, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, il fronte di rischio rispetto al fenomeno dei tentativi di adescamento dei minori da parte di pedofili e altri malintenzionati si è progressivamente allargato da internet ai sistemi di telefonia cellulare che si sono diffusi rapidamente anche in soggetti molto giovani. La nuova generazione di telefonini consente infatti l’accesso ai servizi web e a sistemi di comunicazione interattiva, tra cui le chat e l’invio di immagini, e tali servizi possono essere sfruttati da eventuali malintenzionati per tentare di avvicinare dei miC&P • GIUSTIZIA

nori con diverse finalità. Questo nuovo scenario di rischio di fatto limita fortemente l’efficacia delle strategie di prevenzione progettate per il computer negli ultimi anni che si basano sostanzialmente sul controllo e osservazione della navigazione da parte dell’adulto di riferimento e su filtri informatici (di dubbia utilità). Il telefono cellulare è infatti uno strumento facilmente portatile che accompagna di fatto il minore in tutta la sua giornata e che può essere quindi utilizzato lontano dagli occhi indiscreti dei genitori. Lo studio “Child smartphone risk perception” attivato a partire dal 2008 ha mostrato una percentuale di tentativi di adescamento di minori attraverso il cellulare superiore al 20% (quasi raddoppiato rispetto al computer)». E per quanto riguarda blog e social network? «I blog e i social network rappresentano una delle più innovative e interessanti forme di comunicazione digitale che sta consentendo a milioni di persone in tutto il mondo di esprimere i loro pensieri e le loro emozioni e di condividerli con altri utenti del web. Tali fantastici strumenti presentano però alcune insidie, soprattutto legate alla diffusione involontaria da parte dell’utente di informazioni personali che potrebbero essere utilizzate da qualche malintenzionato per commettere dei reati». Il mezzo informatico si presta anche come potenziale strumento di molestie. Si può parlare scientificamente di cyberstalking? «Uno studio sul cyberstalking è stato attivato dall’Icaa nel 2008 e tende a valutare scientificamente l’incidenza del fenomeno stalking attuato attraverso mezzi digitali come sms, e-mail e pubblicazione di materiale personale sul web. Un questionario anonimo denominato “Cyberstalking incidence questionnaire”, somministrato a un campione di uomini e donne vittime di stalking, ha delineato come il mezzo informatico possa aumentare a dismisura il numero dei contatti indesiderati agiti dal molestatore nel corso della campagna di stalking e come le vittime di tali comportamenti possano sottostimare la gravità di tali atti, soprattutto nella fase iniziale». 195




Procedura penale • Michele Priolo

Criticità del codice antimafia Gli articoli 416 bis codice penale e 275 terzo comma del codice di procedura penale presentano specifiche problematiche che si configurano in un vuoto normativo nel primo caso e in un’eccessiva severità nel secondo. Michele Priolo spiega nel dettaglio queste criticità di Amedeo Longhi a previsione normativa ex articolo 416 bis codice penale è una formulazione improntata a criteri di particolare genericità, come spiega l’avvocato Michele Priolo, che da tempo sottolinea la manchevolezza di questa norma: «La critica che sollevo riguarda le modalità attraverso le quali il giudice perviene al suo libero convincimento: si tratta certamente di un meccanismo improntato a buona fede, ma che nel concreto finisce col non avere elementi di riferimento certi nei quali muoversi per dare all’ipotesi di reato ex articolo 416 bis una sua specifica natura, che come tale non può non avere a mio avviso le indispensabili caratteristiche della tipicità e della specificità». Il riferimento è proprio alla formulazione normativa, che individua l’associazione di tipo mafioso nel caso in cui i partecipanti, o tali ritenuti, si avvalgano della forma di intimidazione del vincolo soggettivo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. «Si passa poi a una sofferta individuazione di delitti dalla tipologia incerta – prosegue Priolo –, così finendo con il muoversi da un presupposto non dimostrato, cioè quello che attiene alla qualifica dell’essere partecipe. Il punto è che si omette di dare una precisa qualifica dell’essere partecipe, indicare i dati fattuali e comportamentali posti in essere dal singolo soggetto agente tali da farlo ritenere partecipe. Si finisce a mio avviso così con l’omettere di individuare e indicare precisi e rigorosi criteri valutativi nella ricerca degli specifici elementi costitutivi della figura criminosa che inte-

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Michele Priolo • Procedura penale

Il punto è che si omette di dare una precisa qualifica dell’essere partecipe, indicare i dati fattuali e comportamentali posti in essere dal singolo soggetto

L’avvocato Michele Priolo esercita la professione a Reggio Calabria studiopriolo@tiscali.it

ressa». C’è poi una specificazione riservata alla possibile diversità di ruoli da svolgere all’interno del sodalizio, senza indicazione alcuna di dati comportamentali espressivi del ruolo partecipativo del soggetto, con ampio spazio valutativo per il singolo giudice all’atto della specificazione di elementi dimostrativi della effettività di condotta partecipativa. «C’è un vuoto normativo che non indica i caratteri tipici del ruolo partecipativo e conferisce al giudice un potere ampio di valutazione, che finisce molto spesso con l’essere dal singolo giudice personalizzato e diversamente visto rispetto ad altri». Per quanto riguarda invece l’ipotesi di cui all’articolo 275 terzo comma, secondo l’avvocato Priolo «sarebbe auspicabile un più uniforme orientamento giurisprudenziale nel senso della possibile diversità del criterio valutativo da riservare a tale previsione, legata alla presunzione di pericolosità del soggetto raggiunto dai gravi indizi ex articolo 273 di sua appartenenza al sodalizio mafioso, potendo a mio avviso tale giudizio riguardare solo il provvedimento genetico e non la verificabilità in concreto richiesta in epoca successiva al fine di accertare l’adeguatezza di tale o altre misure meno afflittive. Insomma, il criterio è quello della presunzione della pericolosità sociale e quindi dell’applicazione della sola misura estrema carceraria senza la possibilità di valutazione alternativa. Obbligatorietà di custodia in carcere che dovrebbe riguardare soltanto l’emissione per la prima volta della misura coercitiva e non C&P • GIUSTIZIA

momenti successivi inerenti la possibile revoca, sostituzione o attenuazione della misura stessa. In tal caso, per esempio, basterebbe tener conto, e la norma non lo prevede, del decorso del tempo o della concreta verifica sulla sussistenza della prosecuzione della pericolosità sociale ravvisata al momento dell’emissione del provvedimento. Non si deve escludere che in qualsiasi momento il giudice possa e debba rivisitare la pericolosità iniziale: per esempio, il giudice emette il provvedimento custodiale in quanto raggiunge il convincimento che a carico del soggetto sono attribuibili dati comportamentali espressivi della sua partecipazione al sodalizio mafioso, però poi attraverso l’attività difensiva e quant’altro il singolo soggetto può far emergere e portare alla sua conoscenza una serie di circostanze che potrebbero a un tempo attenuare la gravità del quadro indiziario e quindi già da ciò far dedurre una diversa e più attenuata pericolosità sociale, ma anche una serie di elementi, che al momento della emissione del provvedimento non vengono magari valutati, come per esempio l’incensuratezza». Inoltre, il maggior indice di riferimento quanto alla possibile sussistenza dell’ipotesi associativa si deduce dall’appartenere a un determinato luogo, dal frequentarsi in maniera più intensa o comunque dal partecipare ad attività sospette. «Bisogna starci in quel posto – conclude Priolo –. C’è gente che lascia il paese all’interno del quale si ritiene possa sussistere quella specifica locale mafiosa, si allontana fisicamente, oltre che nella quotidianità di vita, ma poi di tutto ciò non si tiene conto». 199


Sequestro e confisca di beni • Francesco Calabrese

Più tutela in materia di sequestro e confisca Sequestro e confisca dei beni sono argomenti molto controversi. L’avvocato Francesco Calabrese interviene sul ruolo dell’avvocatura in materia di confisca e sulle prospettive che si delineano, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria di Lucrezia Gennari

L’avvocato Francesco Calabrese esercita a Reggio Calabria avvcalabrese@libero.it

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a legislazione in materia di sequestro e confisca riguarda interessi concreti molto significativi e richiama principi normativi, anche di rango costituzionale, particolarmente importanti. Trova particolare applicazione, soprattutto, in ordine ai provvedimenti di confisca per i beni di soggetti sospettati di far parte di associazioni mafiose, ma incide notevolmente anche nella materia del cosiddetto sequestro “per equivalente”, di recente introduzione normativa, che attinge beni di non diretta provenienza illecita ma che ne costituiscono semplicemente un valore equivalente all’introito percepito dal reo. «Quello del sequestro e della confisca è un ambito estremamente delicato – afferma l’avvocato Francesco Calabrese – che ha visto, negli ultimi anni, un indirizzo applicativo assolutamente univoco, teso a privilegiare le esigenze di ordine pubblico riconnesse alla confisca dei patrimoni illeciti e che non sempre ha salvaguardato i principi normativi posti a garanzia dell’individuo e del suo patrimonio». Può fare qualche esempio? «Ne è un paradigmatico esempio la normativa in materia di misure di prevenzione che ha di fatto introdotto, con l’avallo della giurisprudenza di legittimità, una vera e propria inversione dell’onere della prova tale per cui incombe in capo al soggetto attenzionato dimostrare la provenienza lecita del proprio patrimonio. Se non lo fa, subentra la confisca dello stesso. Sul punto vi è ormai un confronto serrato tra l’avvocatura e la giurisprudenza e, solo ultimamente, sembrano emergere dei significativi segnali che dimostrano una presa di coscienza dell’estrema facilità attraverso cui si perviene alla dimostrazione della provenienza illecita dei patrimoni». Può dare un riferimento in relazione a ciò? «Un esempio significativo è il principio, di esclusiva derivazione giurisprudenziale, secondo cui laddove il soggetto attenzionato riesca a dimostrare di aver sviluppato una notevole capacità reddituale e la stessa non è stata sottoposta a prelievo del fisco, il patrimonio acquisito deve essere considerato illecito e deve essere confiscato. Chiaramente, la norma non è finalizzata a sanzionare l’ipotesi di evasione fiscale, ma solo ed esclusivamente i patrimoni di riconosciuta provenienza delittuosa. Dunque l’assimilazione tra redditi illeciti e redditi provenienti da evasione fiscale non appare in alcun modo comprensibile. La più recente giurisprudenza di legittimità sembra aver recepito questo indirizzo e averne operato una applicazione più consona,

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Sequestro e confisca di beni • Francesco Calabrese

L’ambito del sequestro e della confisca ha visto, negli ultimi anni, un indirizzo applicativo teso a privilegiare le esigenze di ordine pubblico riconnesse alla confisca dei patrimoni illeciti

ritenendo che i patrimoni acquisiti con redditi provenienti da evasione fiscale non possono essere considerati di per sé idonei a condurre alla confisca del patrimonio». In questa materia vi è stata una discreta incidenza da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria. In che termini nello specifico? «Diverse decisioni quadro della Corte Europea invitano l’Italia a estendere in maniera più efficace la disciplina in materia di sequestro e confisca “per equivalente” a tutte le attività. Si tratta comunque di una disciplina che non è stata ancora integralmente recepita e che, nel momento in cui lo sarà, probabilmente, determinerà tutta una serie di ripercussioni negative vista l’applicazione non ortodossa che prevede, in via giurisprudenziale, della normativa già esistente. Peraltro, per ciò che attiene specificamente alla giurisprudenza comunitaria, è ormai consolidata la presa di posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sanzionato più volte l’Italia per la sbrigatività dei procedimenti che conducono al sequestro e alla confisca, soprattutto in materia di prevenzione. Il principio di diritto sancito consiste nel fatto che la tutela della proprietà deve considerarsi di rango paritario rispetto agli altri diritti fondamentali dell’imputato e dunque il relativo procedimento deve essere assimilato al normale giudizio penale a cui lo stesso è sottoposto». Quali cambiamenti sono auspicabili? «Ci si augura una presa di posizione su questo aspetto al C&P • GIUSTIZIA

fine di ristabilire un equilibrio tra le parti che, obiettivamente, è stato completamente sconvolto. Il principio deve valere anche per la restante materia in cui, ad esempio, i criteri valutativi della sussistenza dei presupposti per il sequestro sono spesso ancorati a valutazioni di massima, assolutamente formali, semplicemente tesi a verificare la corrispondenza del fatto alla fattispecie di reato oggetto di contestazione. E ciò senza alcuna verifica in ordine al giudizio valutativo che ha condotto il giudice del merito a ritenere integrato e provato quel fatto. Ciò viene normalmente tollerato perché, sostanzialmente, non incide direttamente sui diritti della persona ma sul patrimonio. Ebbene, proprio quella parificazione ormai consolidata in seno alla giurisprudenza comunitaria si ritiene possa aprire nuove prospettive allo scopo di garantire, anche solo nella fase cautelare, una valutazione assolutamente conforme rispetto al normale giudizio sulla responsabilità penale. Peraltro, la ormai consolidata presa di posizione della Corte costituzionale riconosce la normativa comunitaria quale “fonte interposta” e, dunque, sostanzialmente di rango superiore alla legge ordinaria; derivando da ciò la necessità che la normativa nazionale si debba conformare a quella comunitaria derivante dall’interpretazione che ne viene data dalle pronunce della Corte europea. Si auspica, dunque, che proprio in questo senso quella presa di posizione possa essere al più presto recepita al fine di garantire al soggetto attenzionato una migliore e più efficace tutela». 201




Stalking • Marialuisa Capuani

Stalking, un fenomeno da arginare Quando attenzioni, telefonate e sorprese diventano ossessione. Lo stalking è una degenerazione patologica di comportamenti in linea di principio leciti. Un fenomeno diffuso, sul quale si può intervenire legalmente. Il punto di Marialuisa Capuani di Eugenia Campo di Costa

Marialuisa Capuani, avvocato in Torino studiolegalecapuani@yahoo.it

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l termine stalking è ormai entrato nella coscienza comune, da quando, nel 2009, è entrata in vigore la legge che punisce reati relativi alle forme ripetitive di aggressione messe in atto da un soggetto che, in modo assillante, continuativo, indesiderato e distruttivo, irrompe nella vita privata di un altro individuo, con gravi conseguenze psicologiche. Non è un caso che il termine stalking trovi fondamento nel linguaggio venatorio, rendendo bene l’idea di colui che si apposta, controlla e raccoglie informazioni sulla vita privata della preda, per conoscere a fondo il comportamento di un soggetto destinato ad essere catturato. «Per definire una situazione di stalking – spiega l’avvocato Marialuisa Capuani – occorre la compresenza di tre fattori: il “molestatore”, o stalker, la vittima, stalking victim, e il comportamento intrusivo che può riferirsi a condotte quali l’invio di fiori, doni, lettere, telefonate, sms, visite a sorpresa, nel momento in cui, reiterate nel tempo e prive del consenso del destinatario, si trasformano in vere e proprie forme di persecuzione. Lo stalking è quindi l’intenzionale, malevole, persistente condotta di seguire o molestare un’altra persona, minacciandola in modo credibile». Quali aspetti vengono tutelati dalla legge sullo stalking? «Quello di stalking è un nuovo reato di atti persecutori che, se messo al confronto con le classiche figure di cui agli artt. 572 e 660 del c.p., maltrattamenti e molestie, si presenta come più puntuale e idoneo a punire comportamenti molesti e reiterati. La nuova fattispecie introdotta dal Dl. 11/09 convertito dalla Legge 38/2009 ha avuto subito una massiccia applicazione nel campo giudiziario. Il reato in esame è stato collocato nella III Sez. del III codice penale: “delitti contro la libertà morale”. Il bene giuridico tutelato è la libertà morale, ovvero la libertà di autodeterminarsi. Anche la salute è un bene tutelato dalla norma in questione, se pensiamo che la condotta potrebbe comportare un grave disagio psichico e ledere un bene costituzionalmente protetto. Lo stalking è perciò un reato plurioffensivo». Dopo quasi tre anni dall’introduzione della Legge sullo stalking si può fare un bilancio in merito al successo della normativa? «Credo sia ancora prematuro fare un bilancio in merito al successo o all’insuccesso della normativa in vigore. Ritengo però che il fenomeno dello stalking sia stato per lungo tempo sottovalutato nel nostro paese, specie se si considera che gli atti persecutori incidono profondamente su valori quali la dignità umana e la libertà dell’individuo, che sono protetti sia a livello

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C&P • GIUSTIZIA


Stalking • Marialuisa Capuani

Costituzionale, che a livello Comunitario. Tale tipo di molestia si concretizza in una vera e propria forma di violenza psicologica, talmente devastante da limitare significativamente la libertà di autodeterminazione del soggetto che le subisce». Quali dunque le novità introdotte dalla normativa? «La rivoluzione operata dal Legislatore è consistita nel punire con un unico reato una pluralità di condotte, già ascrivibili a fattispecie di reato previste nel codice penale, ma che a causa dei limiti edittali molto bassi, in quanto reati prettamente contravvenzionali, non consentivano l’applicabilità di misure cautelari, ma soprattutto fornivano una risposta sanzionatoria inadeguata rispetto all’offensività della condotta. L’introduzione del reato di stalking risponde all’esigenza, finalmente soddisfatta dal nostro Legislatore, di trovare una valida risposta giuridica nei confronti delle molestie persecutorie che incidono in maniera devastante sulla vita di coloro che le subiscono, anche se allo stato dei fatti rischia di rivelarsi, purtroppo, ancora insufficiente. Ciò non toglie, però, che costituisce un tassello importante, che una volta incastonato in un sistema di tutele tutte effettivamente funzionanti, potrebbe garantire una difesa concreta e soddisfacente». Cosa si può ancora migliorare per ottenere una tutela davvero soddisfacente? «È indispensabile compiere un ulteriore sforzo culturale e strutturale nel “sistema” delle tutele al cittadino, operando una prevenzione che aiuti le vittime ancor prima che si verifichino violenze nei loro confronti, consentendo di allontanare il persecutore, garantendo un ausilio psicologico che le sostenga e garantendo allo stalker una pena certa entro una tempistica sicura e ragionevolmente breve». È cambiato qualcosa, secondo la sua esperienza, nella coscienza dei perseguitati e dei persecutori da quando è stata introdotta la normativa? «Il persecutore, di qualunque classe sociale sia, è un uomo consapevole di cosa sta facendo. Ciò nonostante non riesce a oggettivizzare. Seppur aiutato da uno psicologo non è in grado di capire appieno il significato della sua condotta, che appartiene alla sfera irrazionale dell’individuo, ovviamente ben diversa da quella affettiva. L’amore grande sa rinunciare, l’ossessione che è un tipico modo di essere dello stalker, trova origine in un nucleo psicotico che talvolta può degenerare in un vero e proprio dramma collettivo. Per quel che riguarda il “perseguitato”, se dapprima può sentirsi lusingato da tanta attenzione, poi ne rimane soffocato e, successivamente, travolto. Se è un soggetto sensibile può cercare di comunicare e, gradualmente, tentare il distacco con amore. Se, invece, è un sogC&P • GIUSTIZIA

getto forte si adopererà per tagliare il legame senza troppe preoccupazioni». Possiamo fare un identikit del molestatore assillante? «Non si può generalizzare, lo stalker appartiene a qualsiasi classe ed estrazione sociale e può porre in essere condotte molteplici che diventano illecite, solo nel momento in cui vengono perpetrate con insistenza. Personalmente ritengo che colui che non accetta un rifiuto abbia un profondo senso di solitudine, accompagnato però a una insana percezione della realtà. In ogni caso è importante comprendere la motivazione che spinge un molestatore assillante a porre in essere tali condotte in maniera così insistente: l’incapacità di instaurare una relazione sentimentale, il desiderio prettamente sessuale, l’incapacità di accettare la fine di una relazione, la ricerca di un amore impossibile. Il panorama è molto vasto. La caratteristica comune ai diversi molestatori, può osservarsi nel fatto che lo stalker agisce nei confronti della vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, cioè la relazione sentimentale può essere parzialmente o totalmente immaginata, e il soggetto in alcuni casi è vendicativo, in altri affettivo, in altri ancora corteggiatore imbranato o cacciatore famelico». Quali caratteristiche contraddistinguono questi diversi “profili”? 205


Stalking • Marialuisa Capuani

Lo stalker agisce nei confronti della vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, cioè la relazione sentimentale può essere parzialmente o totalmente immaginata

«Il vendicativo è colui la cui condotta è spinta dal desiderio di vendicarsi di un danno che ritiene di aver subito ed è quindi alimentato dalla ricerca di soddisfazione a tutti i costi. È un individuo pericoloso che può ledere l’immagine della vittima in prima istanza fino ad arrivare ad ucciderla. L’affettivo è invece un uomo bisognoso di affetto, motivato dalla ricerca di una storia d’amore con la sua vittima dalla quale vorrebbe continue attenzioni, coccole e tenerezze. La negazione della sessualità o dell’amore da parte della vittima porta ad un vero e proprio delirio erotomane del soggetto in questione che può arrivare a commettere gesti insulsi che sfociano in gravi condotte a sfondo penale. Il comportamento del corteggiatore imbranato, invece, è caratterizzato da una totale incompetenza relazionale. Appare goffo nel prodigarsi ad avere attenzioni e cura nei confronti della sua vittima che finisce per trovarlo ridicolo e passa a considerarlo da “speciale” a “soffocante”, perciò lo abbandona. Non si tratta di un soggetto pericoloso ma sicuramente di un uomo ferito e in grado pertanto di commettere gesti anticonservativi. Il cacciatore, infine, è colui che si fa predatore, ovvero ambisce a possedere, volendo avere continui rapporti sessuali con la vittima che non conosce o di cui è solo amico. Per ottenere ciò è pronto a minacciarla, coartarla, intimorirla e a creare un senso di paura tale da eccitarsi. Si tratta di un soggetto non solo pericoloso, ma incontrollabile che può avere disturbi nella sfera sessuale essendo un potenziale pedofilo o feticista». Qual è la particolare abilità del legale nell’assistere una vittima di stalking? «L’abilità del legale è quella di non seguire il cliente passiva206

mente, ma di indirizzarlo alla verità, sensibilizzandolo concretamente mediante la lettura attenta agli atti di causa. È necessario che il cliente sia sincero e racconti la sua storia, e che l’avvocato lo ascolti con impegno, ma è altresì indispensabile che le scelte processuali siano il frutto di un ragionamento fatto insieme, ma nel rispetto della neutralità e della professionalità dell’avvocato. Capita spesso che un cliente davvero stalker lo diventi anche con il suo professionista: sta alla bravura dell’avvocato arginare il fiume dei “perché” o dei “non ha capito”». In conclusione, come crede sia possibile arginare il fenomeno? «Lo stalking è una sorta di partita a scacchi, in cui ci sono mosse dirette a stabilire o ristabilire una relazione orientata all’amicizia e all’affetto così come all’aggressione e alla prevaricazione. L’importante è analizzare quale carta viene scelta, se quella di cuori o di picche. In questa logica di partita il giocatore stalker sa sempre che mossa fare. Purtroppo la stalking victim non solo non sa da quale mossa dovrà difendersi ma non sa neppure se sarà in grado di farlo. Lo stalker è infatti un soggetto che si dimostra incapace di giocare secondo le regoli comuni e condivise, è incompetente sotto il profilo relazionale e non avvia un processo dinamico che gli permetta di esprimere una presenza per realizzare un obiettivo comune, e questo perché non è in grado di farlo. Se quindi appare indiscutibilmente necessario porre rimedio a tale fenomeno, occorre oltremodo prevenirlo. Credo che la prevenzione debba partire anche dalle scuole, formando i ragazzi all’affettività o dando il giusto rilievo alla maturità emotiva, in modo da individuare i comportamenti che vanno promossi e quelli che vanno sanzionati». C&P • GIUSTIZIA



Diritti dei disabili • Roberto Speziale

Più supporto alle persone con disabilità Oltre 14mila persone afferiscono ad Anffas, associazione nata per promuovere la tutela dei diritti delle persone con disabilità intellettiva o relazionale. Roberto Speziale sostiene l’importanza dell’informazione di Nicolò Mulas Marcello

Roberto Speziale, presidente nazionale di Anffas Onlus

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na onlus di supporto informativo e giuridico per le persone con disabilità e i loro familiari. Questo è Anffas, l’associazione che offre servizi, informazioni e consulenza su tutti i principali argomenti di interesse per la disabilità, in particolare intellettiva o relazionale. Numerose sono le iniziative che la vedono impegnata in prima persona attraverso le 173 sedi locali presenti sul territorio nazionale. Tra i progetti c’è anche il Tribunale dei diritti per i disabili, un’idea itinerante nata grazie alla collaborazione con la nazionale italiana magistrati, che ogni anno evidenzia i casi più importanti passati in Tribunale e in Cassazione. «Sicuramente il fatto di vedere tante richieste di aiuto – spiega Roberto Speziale, presidente nazionale dell’associazione – dimostra che oggi c’è finalmente una presa di coscienza e una consapevolezza dei propri diritti che in passato non c’era e questo è decisamente positivo». Quali sono le principali attività dell’associazione? «Anffas è stata fondata a Roma il 28 marzo 1958 ed è attualmente presente sul territorio con 173 associazioni locali, 16 organismi regionali e 40 autonomi enti. Alle strutture associative del territorio afferiscono, in totale, oltre 14.000 soci. L’associazione svolge diverse attività di rilievo locale, nazionale e internazionale, unite dal filo conduttore della promozione e tutela dei diritti umani delle persone con disabilità e dei loro genitori e familiari. In particolare, Anffas si occupa di stabilire e mantenere rapporti con gli organi governativi e legislativi di vario livello: internazionali, europei, nazionali e regionali. Ci occupiamo, inoltre, di promuovere e partecipare a iniziative in ambito legislativo, amministrativo e giudiziario e sollecitare le attività di ricerca, prevenzione, cura e riabilitazione sulla disabilità intellettiva o relazionale, proponendo alle famiglie ogni informazione, anche di carattere normativo, sanitario e sociale. Operiamo per rimuovere le cause di discriminazione e creare le condizioni di pari opportunità in tutti gli ambiti della vita, con particolare attenzione a quello scolastico e lavorativo». Quali altri compiti svolgete? «Grazie al nostro centro studi e formazione e alla collaborazione con il consorzio “La rosa blu”, promuoviamo la formazione-informazione delle persone con disabilità, delle famiglie e di tutti gli operatori “del settore” e in tale ambito è da segnalare il recente riconoscimento dell’associazione, da parte del Miur, quale soggetto accreditato per la formazione del personale della scuola. La nostra associazione opera, soprattutto grazie al lavoro delle strutture associative del territorio, in un’ottica di sussidiarietà, anche nel campo dello sviluppo delle strutture e dei servizi destinati alle persone con disabilità intellettiva o relazionale e alle loro famiglie».

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Roberto Speziale • Diritti dei disabili

Per quanto riguarda la tutela legale, un disabile può rivolgersi all’associazione per informazioni? «Certo. Da tempo Anffas ha attivato il servizio accoglienza e informazione “S.A.I.?”, attraverso cui fornisce gratuitamente informazioni, suggerimenti e consulenza. L’elenco degli sportelli è disponibile sul nostro sito www.anffas.net nella sezione “SAI? Anffas in rete”. Inoltre, l’associazione sta operando attivamente, ormai da diversi anni, nel campo della tutela a persone vittime di discriminazione ai sensi della 67/06 e diverse strutture associative sul territorio sono anche legittimate ad agire in giudizio in tal senso». Il tribunale dei diritti per i disabili è nato nel 1999. Quali le sue funzioni? «Il tribunale, nato grazie alla collaborazione con la mazionale italiana magistrati, ha rappresentato in questi anni un aiuto importante per le persone con disabilità e per le loro famiglie per fare in modo che l’uguaglianza dei diritti e la pari dignità sociale siano sempre rispettati, a prescindere dal contesto, e attraverso la sua attività siamo riusciti a evidenziare una panoramica delle condizioni in cui versano le persone con disabilità e delle difficoltà che devono affrontare quotidianamente e a consolidare una serie di pareri (pur non aventi valore giuridico vincolante) che sono divenuti nostro patrimonio culturale e che abbiamo voluto raccoC&P • GIUSTIZIA

gliere, in occasione del decimo anno di attività di tale organismo, nel volume “Da 10 anni insieme per una buona causa”, anche questo disponibile sul nostro sito internet». Possiamo trarre un bilancio di questi primi 12 anni di attività? «Le problematiche portate all’attenzione del tribunale sono state molteplici poiché spaziano dai contributi richiesti illegittimamente ai parenti di persone con disabilità gravissima ai comportamenti riferibili alla sfera sessuale di una persona con disabilità, dalla gestione dei servizi alla persona tramite gare d’appalto alle gite scolastiche negate, fino alle errate valutazioni mediche. Insomma, inclusione scolastica, accessibilità, discriminazione, compartecipazione alle spese sono tematiche che ci toccano da vicino e che nella vita di tutti i giorni, purtroppo, sono diritti difficili da far rispettare. Sicuramente il fatto di vedere tante richieste di aiuto dimostra che oggi c’è finalmente una presa di coscienza e una consapevolezza dei propri diritti che in passato non c’era e questo è decisamente positivo. Di contro c’è da dire che il fatto di vedere così tante persone rivolgersi alla legge per far rispettare diritti legittimi che non dovrebbero essere messi in discussione dimostra che c’è ancora molto da fare in materia di uguaglianza. Il successo ottenuto in questi anni ha spinto la nostra associazione a pensare di attuare una rivisitazione in chiave maggiormente divulgativa e mediatica, al fine di raggiungere il più ampio numero di persone in tutta Italia e quindi stiamo lavorando in tal senso». L’Italia, rispetto al resto dell’Europa, è ancora lontana da una cultura cosciente delle disabilità. Cosa occorre fare in più in questa direzione? «Nonostante l’Italia abbia ratificato nel 2009 la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e il suo protocollo opzionale, ancora oggi nel nostro paese si continua a fare troppo poco per eliminare tutti quegli ostacoli fondati su stereotipi e pregiudizi e in questo contesto le discriminazioni continuano a proliferare. Il movimento delle persone con disabilità sta facendo ogni sforzo per cambiare questa situazione attraverso iniziative di informazione e sensibilizzazione ma un segnale dovrebbe arrivare anche dalle nostre istituzioni e invece, mai come in questo periodo, le difficoltà sono aumentate, soprattutto in seguito agli ultimi provvedimenti presi in materia di politiche sociali che hanno contribuito a peggiorare una situazione già complicata. Occorre aprire una nuova stagione di politiche che consentano a tutte le persone con disabilità di vivere una vita dignitosa. Per far ciò è importante attivare un cambiamento culturale che veda definitivamente affermarsi, a tutti i livelli, il modello della disabilità basato sui diritti umani e agire contro la discriminazione e a favore dell’uguaglianza dei diritti e le pari opportunità per tutti, persone con disabilità comprese». 209


Diritti dei disabili • Raffaele Della Valle

La strada della solidarietà Parte integrante del rispetto dei diritti dei disabili è la giustizia legale. Per ribadire i diritti e informare i malati sulle loro facoltà legali è nata un’iniziativa interessante. Raffaele Della Valle spiega di cosa si tratta di Nicolò Mulas Marcello

a dodici anni l’associazione Anffas e la Nazionale italiana nagistrati portano avanti un progetto itinerante che prende il nome di Tribunale dei diritti dei disabili. Si tratta di sessioni di dibattimento dei casi più eclatanti che sono emersi durante l’anno e che coinvolgono direttamente la rivendicazione legale dei diritti dei disabili. Il successo è decretato dalla grande affluenza di partecipanti, dal prestigio dei magistrati che prendono parte a queste sessioni e dall’aiuto informativo e psicologico che questi incontri rappresentano per i malati e per i loro familiari. Un’iniziativa importante che in qualche modo dona speranza ai disabili che troppo spesso vedono i loro diritti ignorati: «Le leggi ci sono – sottolinea l’avvocato Raffaele Della Valle, membro del collegio difensivo del Tribunale dei disabili – ma occorre una mentalità più vicina al problema del disabile e una maggiore sburocratizzazione». Lei fa parte del collegio dei difensori del Tribunale dei siritti dei disabili. Dal 1999 a oggi il tribunale ha raggiunto una discreta partecipazione. «Ha raggiunto una notevole diffusione in campo nazionale partendo dalla provincia di Como. Le sedute avvengono con cadenza abbastanza regolare, grazie al dottor Calabrò, che è stato l’animatore di questa iniziativa itinerante. Abbiamo tenuto udienze pubbliche in tante città d’Italia e i partecipanti sono diventati col tempo di grande calibro e prestigio».

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Raffaele della Valle, avvocato membro del collegio difensivo del Tribunale dei disabili

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Raffaele Della Valle • Diritti dei disabili

La disabilità è un dramma che è difficile vivere ma se manca anche la solidarietà dal punto di vista economico è ancora più arduo

Qual è la funzione di questo appuntamento? «La funzione è quella di analizzare i casi più eclatanti che hanno destato maggiore attenzione dal punto di vista tecnico giuridico. Casi che vengono portati alla discussione da un gruppo di avvocati che prospetta la fattispecie da esaminare. Un collegio costituito da molti magistrati, che partecipano a rotazione, formula un giudizio. Esso è una sorta di lodo arbitrale (non una sentenza che possa essere vincolante per l’autorità giudiziaria), che può costituire un indirizzo che i giudici possono seguire. È importante perché si tratta di un giudizio che viene formulato sulla base di una condizione tecnico scientifica da parte dei giudici. Non è vincolante ma può senz’altro indicare la strada». C&P • GIUSTIZIA

A livello sociale la dignità del disabile è sempre rispettata? «Si sono fatti sicuramente dei passi avanti ma c’è ancora molto da fare, sia nel campo tecnico legislativo sia in quello delle disponibilità economiche dei vari enti locali. Vanno stanziati maggiori fondi per far fronte alla problematica dei disabili. La disabilità è un dramma che è difficile da vivere ma se manca anche la solidarietà dal punto di vista economico è ancora più difficile. Oggi tutto questo è lasciato all’iniziativa privata e all’entusiasmo con cui il volontariato affronta questo problema. Bisogna riconoscere che c’è grande sensibilità anche da parte del disabile, il quale vive la propria disabilità con grande dignità e speranza di recupero. Il Tribunale dei disabili serve anche a dare un sostegno dal punto di vista psicologico e serve a dimostrare che la società è vicina al malato e ai suoi familiari e cerca di spronare le istituzioni. Pensiamo ad esempio a chi è malato di Alzheimer, le strutture sociali sono ancora poche eppure i bisogni di assistenza sono alti. Non solo dal punto di vista psicologico, per aiutare anche i parenti di un malato di questo tipo, ma anche dal punto di vista economico». Mancano le leggi o semplicemente non vengono rispettate? «Occorre una maggiore sensibilità e una burocrazia più veloce perché spesso i tempi sono troppo lunghi e la risposta da parte degli enti pubblici non arriva. La giustizia anche in questo campo è lenta, ma tante volte ciò dipende anche dal giudice. Rispetto al passato la società presta maggiore sensibilità alla problematica ma bisogna ancora fare tanta strada senza abbassare la guardia. Occorre continuamente insistere per rivendicare i diritti dei disabili, diritti che talvolta non vengono riconosciuti, con argomentazioni che riconducono a una carenza legislativa. Altre volte, invece, i diritti non sono riconosciuti per cause di carattere strumentale, pertanto quando si va in giudizio bisogna sperare in una giustizia rapida». 211


Infortunistica stradale • Fernando Santoni de Sio

Introdurre l’omicidio stradale? Le attuali norme che regolano l’ infortunistica stradale e la possibilità dell’istituzione del reato di omicidio stradale. Ne discutiamo con l’avvocato Fernando Santoni de Sio di Nicoletta Bucciarelli

L’avvocato Fernando Santoni de Sio esercita la professione forense a Torino. Lo studio fornisce assistenza legale sia in ambito civile che penale, sia giudiziale che stragiudiziale f.santonidesio@studiosantonidesio.it

n Italia ogni anno circa 5 mila persone perdono la vita in seguito a scontri stradali. Si calcola che almeno un terzo di questi sia riconducibile alla fattispecie dell' "omicidio stradale". In questo contesto diventa di primaria importanza la proposta di modificare il codice penale e istituire un nuovo reato, l’omicidio stradale. Abbiamo parlato del nuovo disegno di legge con l’avvocato Fernando Santoni de Sio di Torino, dello Studio Santoni de Sio. Quali sono le norme che regolano il fenomeno infortunistica stradale conseguente alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droghe? «Ad oggi l’omicidio stradale è punito ai sensi dell’articolo 589, commi II e III codice penale che prevede, in caso di omicidio colposo commesso con violazione delle norme del Codice della Strada, la reclusione da due a sette anni, da tre a dieci anni se il soggetto attivo del reato è in stato di ebbrezza alcolica o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. Le lesioni personali colpose conseguenti ad un sinistro sono invece punite dall’articolo 590, che dispone la reclusione da tre mesi a tre anni e, nei casi di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di droghe, da sei mesi a quattro anni». Quali sono le critiche che vengono fatte maggiormente a tale disciplina? «Le maggiori critiche riguardano il fatto che essa non sarebbe rispondente al reale atteggiamento psicologico del reo il quale, pur in presenza di particolari presupposti oggettivi (stato di ebbrezza, alterazione da sostanze stupefacenti), si pone comunque alla guida di un veicolo, con ciò accettando il rischio di pro-

vocare la morte o la lesione altrui». Gli obiettivi dei promotori del disegno di legge sono quelli di predisporre un quadro sanzionatorio autonomo, che possa individuare un discrimine netto tra dolo eventuale e colpa con previsione nel caso di morte e lesioni collegate a scontri stradali causati da individui sotto effetto di alcol e/o droga? «Le modifiche normative andrebbero ad incidere sia sul Codice della Strada, sia sul codice penale che di procedura penale. Il Codice della Strada verrebbe modificato agli articoli 219, 222 e 223, del Codice della Strada inasprendo le previsioni in tema di revoca, sospensione e ritiro della patente di guida in caso di incidenti con lesioni o decessi (combinato disposto da alcuni definito “l’ergastolo della patente”). Nel codice penale verrebbe introdotto l’articolo 575 bis del codice penale con una pena detentiva da otto a diciotto anni per chi, ponendosi consapevolmente alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di droghe, cagioni la morte di un uomo, e fino a ventuno anni in caso di morte di più persone. Nel caso di lesioni personali stradali, il nuovo articolo 582 bis, c.p. sanzionerebbe chi si pone alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di droghe con la reclusione da due mesi a due anni. Da ultimo, il codice di procedura penale prevederebbe l’estensione dell’arresto obbligatorio in flagranza anche nel caso di delitto di omicidio stradale. Non resta che attendere per sapere se le novità di cui sopra, senz’altro rilevanti, verranno a tutti gli effetti introdotte nel nostro ordinamento».

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Consulenza • Sandro Callegaro

Il valore della consulenza diversificata La diversificazione delle competenze all’interno dello studio legale può rappresentare un importante plusvalore. L’avvocato Sandro Callegaro ne illustra le caratteristiche e i vantaggi di Luca Cavera

Sandro Callegaro dello studio Callegaro di Bologna www.avvocato-callegaro.it

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ffrire una consulenza diversificata, che possa rispondere, con efficienza e competenza, alle questioni inerenti più materie di carattere legale. L’avvocato Sandro Callegaro ha organizzato l’attività del suo studio di Bologna per aree di competenza. Una scelta strategica controcorrente, in tempi in cui la tendenza degli studi legali è la superspecializzazione, ma che riserva non pochi vantaggi ai diversi soggetti, pubblici o privati, che necessitano di una consulenza legale. «Alcune aree di competenza – spiega l’avvocato - sono orientate a soddisfare le esigenze di persone fisiche, mentre altre sono mirate alle esigenze di società ed enti. Ciascuna area prevede a sua volta specializzazioni settoriali che vanno dal diritto di famiglia alle successioni, dalle locazioni alla responsabilità medica, civile e professionale, dal diritto commerciale alla contrattualistica e agli appalti». Quale valore aggiunto offre la consulenza diversificata? «La consulenza diversificata costituisce un plus valore per diversi motivi. Quando un assistito è soddisfatto dell’operato del proprio legale, preferisce farsi assistere sempre dallo stesso studio anche su materie diverse, giacché l’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto fra avvocato e assistito, viene fortemente alimentato dalla consapevolezza del cliente di potersi affidare all’avvocato lasciandosi guidare verso la soluzione dei propri problemi. Questo è possibile però solo per uno studio che offra un servizio multidisciplinare». I rami principali della vostra attività sono la responsabilità medica e professionale e la materia degli appalti privati. Esistono delle criticità, nella legislazione italiana, comuni a entrambi gli ambiti? «La normativa di settore, sovrabbondante, spesso mal formulata e mal coordinata, è sicuramente migliorabile. Tuttavia ciò che pesa maggiormente è l’incertezza giurisprudenziale. Giurisprudenza non solo ondivaga, ma anche creativa ed evolutiva, dato che non è raro riscontrare letture costituzionalmente orientate di un qualche articolo di legge che assume così una veste nuova, evolu-

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Consulenza • Sandro Callegaro

Ciò che pesa maggiormente è l’incertezza giurisprudenziale. In termini economici, queste incertezze comportano una richiesta di consulenza assai più frequente di quello che si potrebbe considerare "normale"

tiva appunto. Ad aggravare la situazione contribuiscono i tempi dei giudizi che, allungandosi sull’arco di vari anni, si sovrappongono inevitabilmente con mutamenti normativi o di indirizzo giurisprudenziale. Ciò può comprometterne l’esito o quantomeno può portare a un risultato divergente rispetto a quello inizialmente prospettato al cliente». Quali sono gli altri effetti pratici di tali criticità per gli assistiti? «In termini economici, queste incertezze comportano una richiesta di consulenza assai più frequente di quello che si potrebbe considerare “normale”. Ciò è dovuto proprio alla volontà di evitare di commettere errori, che purtroppo si concretizza in un aumento dei costi e in un notevole incremento del contenzioso. In certi casi, tuttavia, a tali conseguenze si cerca di porre rimedio andando incontro alle esigenze degli assistiti e stipulando con essi contratti di consulenza continuativa. Questa consente un’interfaccia costante con il professionista e un trattamento tariffario più vantaggioso, soprattutto per le aziende». E come influiscono invece sull’attività dell’avvocato? «Per l’avvocato e lo studio nel suo complesso significa soC&P • GIUSTIZIA

stanzialmente un continuo aggiornamento professionale, con conseguenti costi per l’acquisto di riviste specializzate, banche dati, monografie, partecipazione a corsi di formazione. Tutte spese che a mio avviso non sempre trovano un adeguato riconoscimento fiscale. Inoltre attualmente gli avvocati si trovano a dover agire non solo con competenza, ma anche con estrema prudenza, sia per tutelare gli interessi del cliente che per non incorrere essi stessi in responsabilità e sanzioni disciplinari». Qual è la sua opinione sull’istituto della mediazione, recentemente introdotto? «Ideato con l’intento di alleggerire il numero dei contenziosi che affollano i tribunali, crea di fatto un allungamento dei tempi della giustizia. Lo Stato, invece di risolvere i problemi che ostacolano un’effettiva tutela dei diritti attraverso un giudizio giusto e in tempi ragionevoli, impone, addebitandone i relativi costi ad altri, il ricorso a una mediazione. A fronte di ciò il compito dell’avvocato, soprattutto nel rapporto con il suo cliente, non si presenta facile. Complessivamente, risulta difficile credere che tale istituto potrà in un qualche modo risolvere i problemi dell’economia o che sia orientato a tutelare e incentivare una corretta attività di impresa, garantendo i diritti attraverso un giudizio giusto e rapido». 215


Amministrazione dei condomini • Gabriele Calvetto

Le spese comuni nei condomini Le sentenze emesse nel 2011 hanno modificato l’amministrazione dei condomini. Per Gabriele Calvetto, andrebbe innanzitutto rivisto il sistema di recupero delle spese condominiali di Adriana Zuccaro

L’avvocato Gabriele Calvetto, civilista dello studio legale Calvetto di Milano www.studiocalvetto.it

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no dei problemi più frequenti nella vita condominiale è quello delle spese comuni, non solo per la loro ripartizione fra i condomini ma soprattutto per la loro deliberazione. Infatti, spesso i contrasti si manifestano nella fase decisionale, quando ad esempio si tratta di approvare o meno una certa spesa o di scegliere un preventivo piuttosto che un altro. «Sulla base delle tabelle millesimali in cui è espresso il valore predeterminato delle singole unità immobiliari rispetto all'intero edificio, grazie a non poche sentenze della Cassazione emesse nel corso del 2011, oggi è possibile modificare le parti comuni, quali ad esempio l’androne o le scale, senza dover raggiungere l’unanimità dei condomini ma solo la maggioranza qualificata». L’avvocato Gabriele Calvetto, civilista esperto soprattutto nella gestione e risoluzione di controversie legate al mondo immobiliare e condominiale, oltre a porre l’accento sull’importanza della nuova strada attuativa dei condomini, rivela alcuni casi meritevoli di attenzione, non solo dal punto di vista legislativo ma anche come cartina tornasole dei cambiamenti interni alla comproprietà condominale degli ultimi anni. «Sono sempre più numerosi i casi di mancato pagamento da parte degli inquilini delle spese condominiali – annuncia il civilista –. Così che quando gli amministratori si rivolgono all’avvocato per recuperare le quote mancanti, succede che dopo una serie di verifiche sulla base delle quali si stabilisce la morosità del condomino, si giunge al decreto ingiuntivo per i proprietari dell’immobile e di conseguenza, per i conduttori, all’attuazione dei procedimenti di sfratto che, a Milano sembrano essere stati velocizzati a favore di una più congrua richiesta delle case comunali legata, senza dubbio, anche alla critica condizione economica in cui versa oggi un gran numero di famiglie». Se poi il moroso è proprietario dell’immobile ed ha in corso il pagamento dello stesso tramite mutuo, «il problema si amplifica perché inizia il pignoramento che nella maggior parte dei casi giunge al finale pignoramento e successiva vendita all’asta dell’immobile da parte della banca. A quali conseguenze conduce tale situazione? L’amministratore condominiale che ha sollecitato il pagamento della quota mancante delle spese comuni, così come l’avvocato incaricato del recupero di tali somme, finiranno col ritrovarsi “con un pugno di mosche in mano”, a causa dell’ipoteca legale che sempre la banca iscrive per prima». Viene allora da chiedersi cosa occorrerebbe fare per ovviare a tali problematiche? Secondo l’avvocato Calvetto, «una strada da perseguire per ottimizzare gli accordi condominiali e prevederne le eventuali controversie, potrebbe basarsi sulla disponibilità di un fondo assicurativo o di una fideiussione da cui l’amministratore potrebbe attingere per tutelare il condominio e i suoi abitanti dalla mancanza di pagamento di una o più quote per le spese comuni».

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Il commento

DOPO LA SENTENZA DEL PROCESSO THYSSENKRUPP COSA CAMBIERÀ IN ITALIA SUL PIANO GIUDIZIARIO DELLA SICUREZZA SUL LAVORO? NE PARLA RAFFAELE GUARINIELLO ei primi sei mesi dell’anno, secondo l’Inail, in Italia si sono contati 428 morti per infortuni sui luoghi di lavoro, lo 0,7% in meno rispetto ai 431 del 2010. Ma se è rimasto sostanzialmente stabile il numero di morti bianche, si conferma il trend favorevole degli infortuni con circa 16mila incidenti in meno rispetto all’anno passato. Da cosa dipendono questi numeri? «Il problema – spiega Raffaele Guariniello, procuratore di Torino – è di una effettiva applicazione di norme e sanzioni». Le norme in materia di sicurezza del lavoro ci sono, ciò che manca è la cultura della sicurezza. Secondo lei questo può dipendere dall’entità delle

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pene che finora sono state applicate? «Non parlerei tanto di cultura della sicurezza, che è poi una conseguenza; ciò che occorre è una maggiore organizzazione da una parte della vigilanza e dall’altra della magistratura perchè non mi sembrano adeguate alle esigenze che ormai sono pressanti». Qual è il suo giudizio sul decreto 106/2009? Ha in qualche modo salvato la struttura base del Testo unico 81? «Sotto vari aspetti il decreto 106 ha migliorato o chiarito alcuni punti che erano un po’ oscuri del testo originario. Complessivamente non mi pare che abbia ridotto l’efficacia del testo unico. I due decreti, quello originario e quello successivo, complessivamente formano un robusto testo unico potenzialmente idoneo a darci grandi strumenti di prevenzione». Non tutte le procure sono specializzate in materie di sicurezza sul lavoro. Il problema della mancata applicazione delle sanzioni spesso quindi non è dettata da lacune legislative quanto dalla scarsa competenza dei giudici? «Il punto non sono le norme e nemmeno le sanzioni. Le pene ci sono e sono previste anche sanzioni penali pesanti laddove ci siano fattispecie che lo richiedano. Mi pare che alcuni dei processi che abbiamo fatto ne siano la palese dimostrazione. Ciò che manca è l’effettiva applicazione di queste norme e sanzioni. Ed è da qui che nascono le difficoltà dell’Italia sia sotto l’aspetto della adeguatezza degli organi di vigilanza sia sotto quello dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Certamente la specializzazione è uno strumento fondamentale per l’incisività dell’intervento della magistratura. Purtroppo abbiamo un numero eccezionale di piccole procure che non sono in grado di C&P • GIUSTIZIA


Il commento

specializzarsi in questa o quella materia. Quindi credo che l’indicazione che è stata data nell’ultima manovra economica, ovvero quella di ridurre il numero degli uffici giudiziari sia un’indicazione molto importante in questa direzione. Avere procure più ampie significa anche avere la possibilità di garantire una specializzazione nelle varie materie, in particolare nella sicurezza sul lavoro. Se poi si riuscisse ad arrivare a creare in materia di lavoro una procura nazionale, questo sarebbe addirittura un fiore all’occhiello per il nostro paese». Ci sono decisioni storiche della Cassazione che hanno dato un impulso positivo alla giurisprudenza in tema di sicurezza sul lavoro? «Proprio nell’ultimo anno abbiamo avuto sentenze della Corte di Cassazione che rappresentano una svolta profonda in materia di sicurezza sul lavoro. Sotto la spinta del testo unico è maturata una novità sul piano giurisprudenziale molto importante. La Corte di Cassazione ha preso in particolare consapevolezza del fatto che infortuni, malattie professionali e disastri sul luogo di lavoro costituiscono molto spesso non il frutto di carenze occasionali ma di carenze strutturali, quindi addebitabili a scelte aziendali di fondo. Questo ha condotto la giurisprudenza a ritenere che il livello delle responsabilità si colloca al vertice delle imprese pubbliche e private. Per le C&P • GIUSTIZIA

società per azioni si riconduce la figura del datore di lavoro penalmente responsabile, indistintamente a tutti i membri del consiglio di amministrazione. Questa è un’indicazione che ci deve portare a entrare nelle stanze dei consigli di amministrazione per capire come mai è stata adottata una certa politica aziendale. Quindi occorre considerare l’infortunio non come un episodio sporadico ma come un fatto strutturale su cui pesano le decisioni del vertice dell’impresa». Il processo Thyssenkrupp ha raggiunto una decisione storica da questo punto di vista. Questo secondo lei può cambiare le cose? In particolare può creare un precedente per l’imminente sentenza del processo Eternit? «I due processi sono in qualche modo distinti perché uno riguarda infortuni sul lavoro e l’altro malattie professionali, però hanno sicuramente un’ispirazione comune, nel segno di quella giurisprudenza della Corte di Cassazione che pone la necessità di individuare le responsabilità penali al livello in cui vengono effettivamente adottate certe decisioni. Questa dovrebbe costituire un’indicazione di metodo anche per la magistratura, perché quando essa cerca di individuare le responsabilità non deve fermarsi necessariamente ai livelli bassi o intermedi ma deve volgere lo sguardo verso l’alto». - NMM 219


Guardia costiera • Marco Brusco

Un corpo a servizio del mare Il comandante generale Marco Brusco illustra le attività della Guardia costiera: un 2011 impegnativo, tra l’emergenza sbarchi e l’alluvione in Liguria. Senza dimenticare le attività di polizia giudiziaria, soccorso e prevenzione, anche nelle scuole di Riccardo Casini

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ltre 4.100 persone salvate, di cui 1.720 bagnanti e 2.304 diportisti; 930 unità da diporto soccorse, quasi 10mila illeciti amministrativi contestati e circa mille reati accertati durante l’attività». È questo il bilancio dell’operazione di polizia marittima “Mare sicuro” che, come ogni estate, ha visto impegnata da giugno a settembre la Guardia costiera. Secondo il suo comandante generale, l’ammiraglio ispettore capo Marco Brusco, «il numero delle richieste di soccorso, soprattutto per cause facilmente evitabili grazie al buon senso e all’osservanza scrupolosa delle minime regole di prudenza, è stato inferiore rispetto agli anni precedenti. È dunque evidente il successo delle campagne di sensibilizzazione che il Corpo ha portato avanti nei mesi che precedono la stagione estiva, incon-

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C&P • GIUSTIZIA


Marco Brusco • Guardia costiera

Marco Brusco, comandante generale della Guardia costiera

trando tra l’altro oltre 100mila studenti in circa 900 scuole medie e superiori del Paese: questo rafforza in noi la convinzione che una buona azione di prevenzione paga. Tra l’altro, il progetto con le scuole è ripartito proprio in questi giorni per coinvolgere stavolta tutti gli istituti italiani di ogni ordine e grado». Complici anche le tensioni nel Nord Africa, il 2011 è stato un anno record sul fronte degli sbarchi. Quali sono state le principali difficoltà incontrate? «Le unità navali utilizzate per il trasporto di migranti sono quasi sempre in condizioni precarie, sovraccariche di uomini, donne e bambini, tali da richiedere interventi immediati e specializzati. Per rendere il quadro più chiaro, basti pensare che unità di una decina di metri di lunghezza a volte hanno centinaia di persone a bordo: è evidente dunque quali siano i rischi per questi mezzi, aggravati ancor di più dalle condizioni del mare. Per questo il supporto navale della Guardia costiera nelle acque di Lampedusa, già composto da 4 motovedette, è stato rafforzato nel corso del 2011 con due ulteriori mezzi, una classe 300 e una classe 200, realizzati espressamente per le emergenze in mare connesse con il fenomeno migratorio e dedicate al soccorso a lunga distanza dalla costa». Un impegno aggiuntivo da parte vostra, insomma. «In realtà le primavere arabe non hanno modificato il trafC&P • GIUSTIZIA

fico di merci e uomini nel Mediterraneo: anche nei momenti più acuti delle rivolte il flusso quotidiano di mercantili nel Mediterraneo è stato nella norma, con circa 7.200 unità. Altra cosa invece sono i continui flussi di disperati in fuga da Paesi in rivolta: sono oltre 52mila le persone salvate in mare tra uomini, donne e bambini ridotti spesso in condizioni disumane, senza cibo né acqua, ammassati in barconi prossimi all’affondamento. Un picco rispetto ai dati registrati nei precedenti anni, che ci ha costretto a rimodulare i nostri assetti operativi per affrontare i nuovi scenari, spesso drammatici e sicuramente eccezionali per il numero di persone da soccorrere in mare». Qual è stato invece il ruolo della Guardia costiera nella gestione degli eventi alluvionali che hanno colpito il paese e in particolare la Liguria nelle ultime settimane? «Gli ultimi eventi alluvionali in Liguria hanno interrotto molteplici vie di comunicazione terrestri. Il compito della Guardia costiera è stato sostanziale per il trasporto e l’evacuazione di emergenza sia via mare, con mezzi navali, che attraverso l’impiego degli elicotteri dislocati nella vicina base aerea di Sarzana. A Vernazza, in uno dei tanti eventi che ci ha visti parte attiva nell’emergenza, un equipaggio della motovedetta della Guardia costiera di La Spezia, dopo un difficile attracco al porticciolo, ha prestato i primi soccorsi a una persona ferita e a un’altra con un infarto in atto. Inoltre, l’equipaggio è sceso a terra e ha attraversato il paese offrendo aiuto a coloro che ne necessitavano e a coloro che volevano essere trasbordati in un’altra località. Nella successiva emergenza che ha colpito la città di Genova, inoltre, 30 uomini della Guardia costiera hanno provveduto, con mezzi terrestri della locale Capitaneria di porto, a fornire assistenza ai cittadini colpiti dall’alluvione che necessitavano di aiuto». Di recente a Messina è stata inaugurata la sede del centro nazionale di formazione Vtmis. Qual è il suo compito? «Il centro di formazione nazionale Vtmis della Guardia costiera è una scuola di specializzazione e polo di formazione per la gestione dei sistemi di monitoraggio del traffico marittimo del Mediterraneo. È un’importante realtà per le Capitanerie di porto, non solo perché ci pone all'avanguardia nella formazione in un settore altamente tecnologico, es221


Guardia costiera • Marco Brusco

senziale per la sicurezza della navigazione, ma anche perché rafforza il ruolo della Guardia costiera italiana in ambito sovranazionale garantendo, nel rispetto degli standard internazionali, l'alta qualificazione del personale impiegato nel sistema». Quali sono le sue caratteristiche maggiormente innovative? «L’unicità della struttura è quella di poter operare anche come Vts autonomo, quale servizio di informazione e di ausilio alla navigazione reso alle navi, e di ricevere i dati dei centri operativi Vts distribuiti sul territorio, in modo da creare livelli di controllo multipli - locali, di area e centrali - che interagiscono su differenti gradi operativi, contribuendo a garantire una più sicura ed efficiente condotta della navigazione a salvaguardia della vita umana in mare e a tutela dell’ambiente marino e costiero. Inoltre, il sistema ha la capacità di essere integrato con altri sistemi di monitoraggio del traffico marittimo gestiti dalle Capitanerie, prendendo la denominazione di Vtmis, i cui dati possono essere condivisi con altre organizzazioni ed enti della pubblica amministrazione, altri stati dell'Unione europea e in ambito internazionale». Nelle scorse settimane in Calabria avete provveduto invece al sequestro di due depuratori in stato di abbandono. Qual è oggi l’impegno del vostro corpo nella difesa dell’ambiente marino? «L’attività di verifica e monitoraggio sulla depurazione delle acque è da sempre tra i nostri compiti a difesa dell’ambiente marino. Nel caso di Reggio Calabria, gli accertamenti svolti dal personale della Capitaneria di porto hanno portato al rilevamento dei due impianti di depurazione lasciati in totale abbandono e degrado, completamente inattivi a causa del mancato afflusso dei reflui che si riversano direttamente in mare senza alcuna depurazione. Gli uomini e le donne della Guardia costiera hanno quindi proceduto al sequestro dei due depuratori e all’affidamento in custodia al Comune, per la successiva bonifica delle aree e il ripristino del ciclo 222

depurativo». Ma come si è evoluto l’impegno della Guardia costiera nel contrasto ai fenomeni illeciti? «La Guardia costiera svolge attività di polizia giudiziaria a carattere specialistico principalmente nei settori della sicurezza della navigazione, tutela dell’ambiente marino e costiero e pesca marittima. L’attività trova poi ulteriore fonte nelle norme del diritto interno, del diritto dell’Unione europea e dei trattati internazionali in vigore: nel corso del 2010 sono state ispezionate dagli operatori Port State Control della Guardia costiera, specializzati nel controllo delle navi straniere che approdano nei porti italiani, ben 1.981 navi, delle quali 121 fermate perché non rispondenti ai canoni di sicurezza previsti, mentre 312 sono state, nel 2011, le notizie di reato in materia di sicurezza della navigazione. In ambito pesca, le Capitanerie di porto svolgono invece attività di vigilanza e controllo sulla filiera ittica, dal momento della cattura in mare del prodotto fino all’arrivo sulla tavola dei consumatori: nel 2011, fino a oggi, sono stati sequestrati 221.504 metri di reti illegali, inflitte 4.134 tra sanzioni penali e amministrative e sequestrati 293.820 kg. di pescato. In materia di tutela ambientale, infine, il Corpo ha registrato 69.192 infrazioni nel corso dell’anno, con 126 sequestri penali». C&P • GIUSTIZIA



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