Gusto Aprile 2011

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gusTO Registrazione tribunale di Bologna n. 7578 del 22/09/2004

Direttore responsabile

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Marco Zanzi

Lara Mariani, Pier Franco Garis, Giuditta Magnani

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Irene Pivetti Coordinamento Redazionale

Hanno collaborato

Concetta S. Gaggiano

Giancarlo Mazzuca, Tiziana Achino, Lucrezia Antinori, Eugenia Campo di Costa, Francesca Druidi, Simona Langone, Andrea Moscariello, Marcello Moratti, Michelangelo Podestà, Alessandro Gallo, Anna Di Leo, Leonardo Lo Gozzo, Michelangelo Marazzita, Francesco Scopelliti, Giuseppe Tatarella, Riccardo Casini, Michela Evangelisti, Renata Gualtieri, Nicolò Mulas Marcello, Adriana Zuccaro

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Padiglione 4 - Stand D4-E4

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Lorenzo Fumagalli, Piera Girardi, Chiara Milani, Anna Maria Mormile, Gaia Santi, Carla Spinella, Maria Pia Telese, Elisa Valli

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SOMMARIO

Editoriale ............................15 Marco Zanzi

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L’intervento ........................17 Carlo Petrini Vinitaly................................18 Ettore Riello Alberto Alessi Massimiliano Manini Il vino dell’Unità ................22 Giuseppe Martelli Calici italiani ......................30 Lamberto Vallarino Gancia Vittorio Frescobaldi Riccardo Ricci Curbastro Luigi Bavaresco Pietro Caviglia Il commento ........................48 Gigi Brozzoni Ernesto Gentili Le donne del vino ..............56 Pia Donata Berlucchi Donatella Cinelli Colombini Sabina Maffei Camilla Lunelli Enologia al femminile ........66 Maria Caterina Dei Luisella Benedetti Piera Martellozzo Vini veneti ..........................74 Franco Manzato, Tiziano Castagnedi, Paolo Fornaser, Franco Cristoforetti, Luigi Caprara, Celestino Gaspari, Daniele Zamuner, Roberto e Riccardo Guido Recchia, Stefano Cottini, San Rustico, Valentina Cubi, Luca Fraccaroli, Marilisa Allegrini

Colli euganei ....................102 Il Filò delle Vigne La zona del Friuli Grave ..106 Roberto Pighin Bianchi e rossi trentini ....108 Devis e Tiziano Cobelli I fratelli Pelz Bianchi dell’Alto Adige ....112 Thomas Dorfmann Günther Giovanett Il moscato di Scanzo ........116 Giacomo De Toma

Strada del Vino e dei Sapori di Monteregio....154 Simone Rustici Vitigni locali ....................158 Roberto Droandi Forum agricoltura ............162 Mario Guidi, Giuseppe Politi, Sergio Marini

Franciacorta ......................118 Tenute La Montina Azienda Gatta

Agricoltura biologica ........166 Alois Ochsenreiter

Il Lugana ..........................122 Pietro Lavelli

Tradizioni altoatesine ......168 Evelyn Lechner

Pinot Nero ........................124 Elena e Laura Perdomini

Nettare di natura ..............170 Tullio Valcanover

Antichi vitigni ..................126 Giampiero Gagnor

Legati alla terra ................172 Gianni Brusatassi

Il vitigno Freisa di Chieri ....128 Enrico Rubatto

Identità culinaria ..............176 Roberto Burdese, Gualtiero Marchesi, Massimo Bottura, Filippo La Mantia, Paolo Massobrio

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I vini toscani ....................132 Simone Priami e Valentina Masti, Maria Grazia Salvioni, Ofelio, Lamberto e Leonardo Fattoi, Aldimaro Daviddi, Dario Cappelli e Gigliola Cardinali, Luca Tiberini, Andrea Vecchione, Franco Troiani, Vittorio Innocenti, Azienda Agraria Santa Lucia, Aleardo e Giuseppe Mantellassi

Formaggi Dop veneti ........196 Asiago, Piave, Montasio, Casatella Trevigiana, Monte Veronese, Taleggio, Grana Padano, Provolone Valpadana, Caseificio Moro

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SOMMARIO

270 Spezie e sapori ..................226 Aromi d’Italia, Valentino Marcattilii, Roberto Russo, Maria Teresa Della Beffa, Rosalba Pagano

Il San Daniele Dop ..........320 Alessio Prolongo

L’olio toscano ....................242 Matteo, Marco Mugelli e Gian Luca Grandis, Alessandra Porciani, Antonio Arcangeli, Marco Calamai, Lucio Cencini, Franco Bardi

I norcini ............................324 Dante Renzini

Biologico Made in Italy ......254 Luigi Vagnoni Aceto balsamico tradizionale di Modena ......258 Marina Spaggiari Massimo Malpighi

Salumi trevigiani ..............322 Cesare De Stefani

La mortadella “Bologna” ....326 Marco Bartoli Botteghe del gusto ............328 Gianpietro e Giorgio Damini Le ricette della tradizione....330 Andrea Angeli

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I grissini Rubatà................332 Federico Verzelloni

Distillati ............................262 Bruno Franceschini

Tradizioni dolciarie ..........334 Pasticceria Filippi

Sapori autentici ................358 Franca Spinola

Arte e degustazione ..........266 Paolo Piacenti

Latticini ............................338 Roberto Bechis

Antiche dimore ................360 Sabrina Niccolai

Tradizioni pugliesi ............268 Masseria Colombo

Tecniche di cottura ..........340 Daniel Allegra

L’arte del ricevere ..............364 Christian Eugen-Olsen

Il Gusto dell’arte ..............270 Sylvia Ferino, Franco Laera

Ingredienti semplici..........342 Eugenio Pinci

Tavole reali ........................370 Laura Rangoni Emanuele Filiberto di Savoia

L’insolita guida ................284 Gerardo Greco, Stefano Tura

L’espresso ..........................344 Brasilia

Giovani fornelli ................296 Enrico Bartolini, Luigi Taglienti Ilario Vinciguerra

La buona tavola ......................346 Pietro Antonio Migliaccio Filippo Ferrua Magliani

I luoghi del Gusto ............308 Roberto Stevanato, Ezio Giaj Damiana Tervilli

Appuntamenti ..................354 Cibus Tour

Cibo e storia ......................390 Renzo Pellati

Cucina tipica ....................356 Oswald Demetz

Provincia d’Italia ..............396 Mondovì, Gianni Ferrero

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Cibo e cinema ..................378 Gianni Di Gregorio Cibo e televisione..............382 Carlo Ottaviano, Igles Corelli

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EDITORIALE

IN VINO VERITAS... di Marco Zanzi

orberto Bobbio, una delle grandi coscienze critiche del nostro tempo, amava ripetere che era preferibile seminare dei dubbi piuttosto che raccogliere delle certezze. Forti di questa “regola”, proviamo a fare esercizio con gli ultimi dati (positivi) che riguardano il settore agro alimentare e il vino in particolare. Nel 2010 il valore delle esportazioni di prodotti agro alimentari italiani è aumentato del 13 per cento rispetto all’anno precedente e ha raggiunto il massimo di sempre a 27,7 miliardi. È quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat nella quale si precisa che il risultato è il frutto di esportazioni effettuate per la grande maggioranza nei paesi dell’Unione Europea per un valore di 19,3 miliardi (+11,2 per cento), ma anche negli Stati Uniti per 2,2 miliardi (+10 per cento) e nei mercati emergenti come quelli asiatici con 1,8 miliardi dove si è avuto l’incremento maggiore con un + 20 per cento. A crescere all’estero sono tutti i principali settori del made in Italy, il prodotto più esportato è diventato l’ortofrutta fresca che, con un aumento del 21 per cento, raggiunge i 4,1 miliardi di euro. Il 2010 ci consegna anche il record delle esportazioni di vino italiano nel mondo dove le aziende italiane hanno realizzato un fatturato stimato in 3,7 miliardi di euro, in aumento del 9 per cento. Questo significa che sono state stappate più di 2 miliardi di bottiglie di vino italiano. Oltre 1/3 negli Stati Uniti che nel 2010 sono diventati il primo mercato. Non mancano però risultati sorprendenti sui nuovi mercati come quello cinese dove è addirittura raddoppiato nel 2010 il valore del vino italiano con un aumento del 102 per cento, mentre il mercato russo con un aumento del 51 per cento è divenuto uno dei principali partner commerciali. Il vino italiano si è affermato come bevanda di valore, che punta sulla qualità. Meno bene le cose sul fronte interno. I consumi di vino registrano un’ulteriore contrazione del 2-3% rispetto

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all’anno precedente, anch’esso di segno negativo. Se andiamo indietro negli anni possiamo avere una miglior visione del fenomeno, basti pensare che nel 1995 si bevevano in media 55 litri oggi siamo scesi a 42. E’ evidente che sia stato trascurato un cambio generazionale o in ogni caso è mancato lo stesso impegno avuto invece per avvicinare i consumatori stranieri. Non si vive di solo export, questa è la voce che si leva forte oggi da tutti i produttori. E’ una preoccupazione reale e su questo è in corso un ampio dibattito che rivela, se non altro, l’esigenza di correre ai ripari. Una realtà aziendale quella italiana in cui da sempre prevalgono valori immateriali intimamente legati al territorio su cui operano non può prescindere dal mercato domestico. Del resto la stessa struttura del sistema viti-vinicolo rappresenta una realtà assai polverizzata con oltre 600 mila piccole e micro imprese con una media che non arriva all’ettaro per i vini da tavola e 3 ettari per i doc e docg. Una realtà in cui a fatica si superano i personalismi, gli individualismi e i “campanili”. Pensiamo soltanto al tema della comunicazione, si investe meno del 3% del fatturato. Una cifra irrisoria. È proprio la comunicazione un problema irrisolto per i tanti piccoli produttori che oggi sentono la necessità di una riconoscibilità, di una visibilità e di un posizionamento sul mercato. Ma faticano a fare sistema così la comunicazione nella maggior parte dei casi è debole, frammentata e non aiuta a marcare posizionamenti significativi e facilmente percepibili dal consumatore. E questo è solo un esempio, altri se ne potrebbero fare. Un ruolo sempre più centrale e proattivo devono quindi assumere le organizzazioni datoriali per promuovere e sostenere nuove e più efficaci forme di aggregazione e dare vita a solide reti di produttori, trasformando una debolezza rappresentata dalla estrema frammentarietà del sistema aziendale , in un punto di forza straordinario capace di mantenere, incarnare e valorizzare una identità e una storia fatta di territori.

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L’INTERVENTO

L’espressione autentica del territorio di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e cucine italiane regionali e i patrimoni gastronomici di ogni territorio sono la prova tangibile della ricchezza e della diversità culturale e geografica del nostro Paese. La cucina, come i dialetti, i canti, le feste di tradizione, marca culturalmente un territorio, la sua storia e il paesaggio stesso. E l’Italia, con questo vario e ricco patchwork, ne è segnata indelebilmente nella sua peculiarità tanto che, a differenza della Francia, dove si può parlare dell’esistenza di una vera e propria cucina nazionale, nel

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nostro Paese è molto difficile riuscire a identificare un unico modello di cucina per tutto il territorio nazionale. Di identità si parla sempre più spesso e, talvolta, a sproposito. Molto spesso tale concetto viene strumentalizzato. È certo che per gli italiani il cibo ha un valore identitario e di appartenenza molto forte. Quindi sì, il legame con i prodotti gastronomici è sempre più stretto e talvolta definisce l’essere stesso di una regione, di un luogo, di una comunità. Tale aspetto non è casuale perché il cibo lega ambiente, natura, climi, biodiversità e relazioni sociali in un unicum in continua evoluzione che contribuisce a definire in maniera importante quello che siamo. La gastronomia è una scienza complessa contenente i concetti di cibo e cultura sia materiale che immateriale. Se pensiamo alle connessioni della scienza culinaria con i tantissimi campi dei saperi umanistici - dalla botanica alla chimica, dall’agronomia all’antropologia, dall’economia politica al commercio, dal savoir

faire dell’uomo fino alla cucina tout court - possiamo capire immediatamente che il cibo stesso è cultura o, ancora meglio, natura che si trasforma in sapere attraverso l’intervento dell’uomo. Il progetto dell’Università degli studi di Scienze gastronomiche nasce proprio dall’intento di ridefinire il concetto di gastronomia e riscattarne la dignità scientifica. L’obiettivo è quello di creare una nuova figura professionale, il gastronomo, capace di operare nella produzione, distribuzione, promozione e comunicazione dell’agroalimentare di qualità. L’ateneo licenzia i futuri esperti di comunicazione, divulgatori e redattori multimediali in campo enogastronomico, oltre ad addetti al marketing di prodotti d’eccellenza, manager di consorzi di tutela e di aziende del settore agroalimentare o di enti turistici. Al tempo stesso l’Università nasce con la vocazione di essere un centro di ricerca, studio e catalogazione dei saperi, delle tecniche e di tutte le forme di espressione delle comunità del cibo.

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VINITALY Ettore Riello

Cantine

in vetrina “VINITALY” PORTA A VERONA IL MEGLIO DELLA FILIERA DEL VINO ITALIANO. IL PRESIDENTE ETTORE RIELLO ILLUSTRA NOVITÀ E OBIETTIVI DELLA PRINCIPALE FIERA DEL SETTORE

di Riccardo Casini ltre 4mila espositori su più di 92mila metri quadrati netti di superficie: sono queste alcune cifre dell’edizione numero 45 di “Vinitaly”, la fiera del vino (e dei distillati) in programma dal 7 all’11 aprile. Un’edizione da tutto esaurito, che punta a superare il tetto dei 153mila visitatori (dei quali 47mila dall’estero) fatti registrare lo scorso anno, come spiega Ettore Riello, presidente di Veronafiere. «Siamo ottimisti – spiega – nonostante il particolare momento internazionale, con tensioni economiche e politiche e un paese come il Giappone, di solito particolarmente attento al vino italiano, in gravi difficoltà. Da parte nostra, nel corso dell’ultimo anno abbiamo fatto un intenso lavoro di incoming per portare in Italia un numero sempre maggiore di operatori specializzati e buyer dai più interessanti mercati internazionali. La credibilità di questa fiera nel mondo è molto elevata, soprat-

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tutto quando si parla di business, perché ci viene riconosciuto il merito di realizzare sempre iniziative finalizzate alla promozione dei contatti commerciali tra aziende e operatori». Qual è invece il trend in termini di espositori? Quali regioni italiane faranno la parte del leone? «Quelle maggiormente rappresentate sono nell’ordine la Toscana, il Piemonte e il Veneto. Seguono Lombardia, Sicilia e Puglia. Sono numeri che confermano la distribuzione della vitivinicoltura sul territorio nazionale. Quello che, invece, è significativo è che tutte le regioni sono rappresentate in maniera qualificata, offrendo ai visitatori provenienti dall’estero una visuale completa e la possibilità di conoscere l’Italia enologica in cinque giorni: un’opportunità unica che viene colta anche dagli espositori, che ogni anno riconfermano la loro presenza. Il loro numero è in linea con quello degli ultimi

anni e in equilibrio con lo spazio disponibile». Analizzando proprio le partecipazioni alla manifestazione, è possibile dire in che modo è cambiato negli ultimi anni il settore vinicolo in Italia? «All’interno di “Vinitaly” si nota sicuramente un maggiore impegno da parte delle singole aziende per

Ettore Riello, presidente di Veronafiere

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VINITALY Ettore Riello

In questa pagina e in apertura, immagini delle passate edizioni della manifestazione

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emergere, per poter essere presenze significative dentro al salone anche al di fuori delle collettive: si tratta di una consapevolezza del valore del proprio prodotto e allo stesso tempo della necessità di far fruttare un investimento che non può essere solo di immagine, come ci si poteva permettere in passato. È poi evidente un consolidamento del rapporto tra istituzioni regionali e produttori, a dimostrazione che ci possono essere collaborazione e utilizzo efficace di risorse pubbliche. Dal punto di vista del settore in generale, invece, in passato c’era un’attenzione all’export come novità per molti; ora se ne parla come di un fatto naturale, pur con le sue criticità, mentre dall’altra parte c’è un ritorno dell’attenzione al mercato interno, non certo come ripiego strategico quanto invece per valorizzarlo al pari degli altri e per mantenere forte il legame con le radici della nostra cultura enogastronomica». Quali novità presenta l’edizione 2011?

È significativo che tutte le regioni siano rappresentate in maniera qualificata «Innanzitutto ”Sparkling Italy”, un’assoluta novità sia per il tema che per le modalità con cui si realizza: è la prima volta, infatti, che viene allestita all’interno della fiera un’area dedicata alle bollicine italiane, prodotte sia con metodo classico che charmat. Si tratta di una degustazione libera nei tempi, assistita da sommelier e da supporti informatici, che permette di entrare in contatto, attraverso i consorzi di tutela dei territori più vocati, con i vini di oltre 200 aziende tra le più rappresentative del panorama nazionale. Inoltre, per il vero e unico fuori salone di “Vinitaly” nel Palazzo della Gran Guardia nel cuore di Verona, accanto a “Vinitaly for you”, torna quest’anno “Sol for you” con la degustazione degli oli vincitori del concorso internazionale “Sol d’Oro”. Un’altra novità interessa

proprio questi oli, che quest’anno, come per il concorso enologico internazionale dell’anno scorso, potranno fregiarsi dell’etichetta “Concorso Sol d’Oro 2011”, utilizzandola come strumento di marketing riconosciuto a livello internazionale». Quale indotto è in grado di portare una manifestazione come questa per il territorio? «Veronafiere è il primo organizzatore diretto di fiere in Italia e tra i primi in Europa: attraverso le sue rassegne crea anche un notevole indotto d’immagine ed economico - pari a 1,1 miliardi di euro secondo l’indice studiato appositamente dal Cermes dell’Università Bocconi - per Verona e la sua provincia. Un indotto a cui la manifestazione contribuisce in modo importante».

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IL VINO DELL’UNITÀ Giuseppe Martelli

L’Italia del vino in due bottiglie GIUSEPPE MARTELLI RACCONTA COME SONO STATI CREATI IL VINO ROSSO E IL VINO BIANCO CHE RIFLETTONO L’ECCELLENZA ITALIANA

di Francesca Druidi


IL VINO DELL’UNITÀ Giuseppe Martelli

i chiama “Una” ed è la bottiglia celebrativa dei 150 anni dell’Unità d’Italia, summa delle peculiarità della vitivinicoltura nazionale. Il 28 marzo la numero 1 è stata consegnata a New York al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dai vertici di Veronafiere che, nell’edizione 2010 di Vinitaly, aveva lanciato l’iniziativa. «L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo - o forse l’unico - dove i vigneti si estendono quasi ininterrottamente da nord a sud, da Bolzano a Pantelleria, abbracciando storia e cultura di territori assai diversi, dove la vite e il vino spesso hanno costituito un punto di riferimento legato alla tradizione», spiega Giuseppe Martelli, presidente del Comitato nazionale vini del ministero delle Politiche agricole e direttore generale Assoenologi, incaricata della creazione dei blend. Il contenuto delle bottiglie a tiratura limitata nasce, infatti, dall’unione di quaranta vitigni autoctoni, venti a bacca bianca e venti a bacca rossa, per realizzare un cofanetto che racchiude il Vino Rosso e il Vino Bianco d’Italia.

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Cosa connota in particolare i

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vini italiani? «In Italia abbiamo circa 500 vitigni autoctoni che danno vita a prodotti assai differenti, creando non “un vino italiano”, ma “un panorama vitivinicolo italiano” con una gamma di prodotti che include vini di pronta beva, leggeri e fragranti, così come vini di più alta gamma, dai frizzanti agli spumanti ai liquorosi». Qual è stata la sfida maggiore? «Quando Veronafiere, su mandato del Quirinale e della presidenza del Consiglio dei Ministri, ha affidato ad Assoenologi il compito di realizzare il contenuto delle bottiglie celebrative di “Vino bianco d’Italia” e di “Vino rosso d’Italia” - le uniche ufficiali per i 150 anni dell’Unità - la preoccupazione è stata tanta. Il problema principale è stato quello di riuscire a foggiare un vino bianco e un vino rosso, ottenuti da altrettante uve autoctone tipiche di ogni regione, e dar vita a un prodotto qualitativamente eccellente senza far predominare le caratteristiche di soli pochi vini. Credo che Assoenologi sia riuscita nell’obiettivo, visti gli eccellenti giudizi fino a oggi espressi.

Ognuna di queste bottiglie vuole, quindi, esprimere l’unità del nostro Paese attraverso il vino, simbolo della tradizione, della cultura, dell’arte, della tecnologia e della laboriosità del popolo italiano». Può indicare i fattori che hanno determinato la scelta dei vini selezionati? «In pratica sono stati gli assessori all’Agricoltura di ogni regione a indicare i vitigni autoctoni e quindi i vini, uno bianco e uno rosso, più rappresentativi del loro territorio. Questi sono stati

In apertura, consegna delle bottiglie “Una” a New York al presidente della Repubblica Napolitano, nella foto insieme a Ettore Riello, presidente di Veronafiere. Sotto, Giuseppe Martelli, direttore generale Assoenologi

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IL VINO DELL’UNITÀ Giuseppe Martelli

Ognuna di queste bottiglie vuole esprimere l’unità del nostro Paese attraverso il vino

sapientemente selezionati e armonizzati dall’Associazione enologi enotecnici italiani attraverso una commissione di super esperti, la quale è riuscita a ottenere due prodotti che armonizzano in maniera egregia le diverse caratteristiche dei vini italiani e contemporaneamente due vini unici nel loro genere». Il progetto identifica un unicum oppure rappresenta un esperimento in qualche modo ripetibile? «Va ricordato, innanzitutto, che le bottiglie sono fuori commercio in quanto saranno utilizzate solo in eventi ufficiali, nonché consegnate al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale, a sua volta, ne farà omaggio alle massime autorità mondiali. Sotto il profilo del contenuto, ritengo che sarà difficile ripetere l’esperienza, anche perché la qualità e le caratteristiche

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dei vini utilizzati cambiano ogni anno e pertanto le percentuali in cui ogni prodotto concorre nella realizzazione del coacervo finale dovrebbe essere necessariamente rivisto e adeguato. Ritengo, quindi, che rimarranno esemplari unici, come unico rimarrà anche il packaging, appositamente ideato e disegnato da Aldo Cibic con la direzione creativa di Riccardo Facci. Portano la loro forma anche etichetta e confezione, a mio avviso magnificamente ispirate alla più antica tradizione italiana, ma con un segno decisamente più contemporaneo e personale e una purezza di linea da far ricordare uno dei famosi dipinti di Giorgio Morandi». Come descriverebbe oggi lo stato di salute dell’enologia nostrana? «I consumi di vino in Italia continuano a calare. Oggi siamo a

43 litri procapite e, secondo i dati elaborati da Assoenologi, nel 2015 saremo sotto i 40 litri. Per avere un termine di paragone, basti pensare che negli anni 70 il consumo di vino procapite in Italia era di oltre 110 litri. L’unica valvola di sfogo delle nostre produzioni rimane, quindi, l’esportazione e fortunatamente il vino italiano nel mondo piace tanto che nonostante il difficile momento di crisi - il 2010, secondo Assoenologi, si è chiuso con la vendita all’estero di 22 milioni di ettolitri sui 45,5 prodotti, pari a un introito di 3,8 miliardi di euro, con una sensibile percentuale di aumento rispetto al 2009. Ovviamente queste performance non riguardano tutte le aziende, molte delle quali rimangono in “profondo rosso” mentre altre, che hanno investito e creduto nella ripresa, stanno tornando ad avere il vento in poppa».

Sopra, Vino Bianco e Vino Rosso d’Italia

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VINITALY Massimiliano Manini

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VINITALY Massimiliano Manini

MASSIMILIANO MANINI DELLA FATTORIA LUCESOLE SPIEGA IL SUCCESSO DEL SUO ROSSO CONERO DOC “CAMPOFIORITO” 2008 AL CONCORSO INTERNAZIONALE DI PACKAGING

di Riccardo Casini

ra gli eventi collaterali di “Vinitaly”, uno dei più interessanti riguarda ormai da qualche anno il Concorso internazionale di packaging, giunto all’edizione numero 16 e volto a premiare il miglior abbigliaggio di vini, distillati e liquori. Questa volta ad aggiudicarsi l’ambito premio speciale come “Etichetta dell’anno”, spuntandola su 220 campioni in concorso, è stato il Rosso Conero Doc “Campofiorito” 2008 della Fattoria Lucesole di Ancona. «Una vittoria – racconta Massimiliano Manini – inaspettata e accolta con grande soddisfazione».

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Ma quali sono le caratteristiche distintive dell’abbigliaggio del vostro Rosso

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Massimiliano Manini della Fattoria Lucesole. Sotto, una bottiglia di Rosso Conero doc “Campofiorito” 2008

Conero doc “Campofiorito”? «Le caratteristiche sono il frutto della ricerca della nostra identità aziendale. Insieme allo studio grafico J.baker, abbiamo voluto trasmettere e comunicare la nostra realtà: siamo una piccola azienda di circa 15 ettari, gestita a carattere familiare, che da diverse generazioni opera in questo ambito. Siamo situati all’interno del Parco naturale del Conero, in un ambiente tutelato e ricco di suggestione, a due passi dal mare, circondati dal verde delle nostre dolci colline. E siamo stati una delle prime aziende delle Marche a credere nell’agriturismo, promuovendo da più di 20 anni i piatti della nostra cucina. Chi viene da noi non lo fa solo per mangiare, ma soprattutto per vivere il territorio, per assapo-

rare i profumi, i suoni della terra amalgamati a quelli del mare e per perdersi nei ritmi lenti della campagna: da qui nascono il nome “Fattoria Lucesole” e il brand “Quieto vivere”». Secondo la giuria e il suo presidente Alessi, “l’estetica e il marketing trasmessi dalla bottiglia devono rispettare l’anima del vino che c’è dentro”. In che modo il vostro vino vi riesce? «L’immagine che vogliamo trasmettere con il nostro packaging non è la bellezza del prodotto fine a se stessa; vogliamo invece far emozionare chi possiede uno dei nostri prodotti, fargli condividere una parte del nostro territorio, del nostro modo di vivere, della nostra cultura di

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VINITALY Massimiliano Manini

L’IMPORTANTE? NON STRAFARE Il presidente della giuria, Alberto Alessi, spiega i segreti per un buon uso del packaging nel mondo del vino: «una bottiglia non è simile a un flacone di profumo»

A sinistra e in apertura, una veduta dell’azienda

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itolare di un’azienda che sul design ha storicamente basato il proprio successo, Alberto Alessi (foto sotto) presiedeva anche la giuria che ha premiato, tra gli altri, la bottiglia della Fattoria Lucesole. E ritiene che «estetica e marketing» debbano «rispettare l’anima del vino». «Il prosecco ad esempio – spiega – è un vino semplice, ma con la sua storia più che dignitosa e un’identità che tutti conosciamo: perché allora scimmiottare la bottiglia champagnotta, o ancora peggio farne delle interpretazioni caricaturali e di cattivo gusto? Andrebbe invece fatto uno sforzo per creare una sua forma di bottiglia, unica, archetipa, rispecchiante il gradevole vino che contiene. La stessa osservazione, se possibile ancora più veemente, la farei per gli spumanti. Ma siamo in Italia e, si sa, questo è un esercizio molto difficile». Che ruolo hanno oggi packaging e design nel mondo del vino in Italia? «Sono per mia natura diffidente nei confronti delle valenze “cosmetiche” in cui troppo spesso si indulge nel packaging e nella grafica a proposito di prodotti così naturali, e secondo me anti-industriali, come il vino. Ma non posso che ripetere che un packaging e una grafica corretti possono essere efficaci anche in senso commerciale solo quando sanno riflettere (e magari anche un tantino esaltare, ma senza strafare in termini di marketing di bassa lega) le qualità del prodotto contenuto. Una bottiglia di vino non deve essere simile a un flacone di profumo». Nel settore vi sono ulteriori margini di sviluppo per questo veicolo di promozione? «Esistono dei margini enormi, basta saperli impiegare…»

Vogliamo che chi possiede un nostro prodotto condivida una parte del territorio

• fare e di essere. Quindi la parola d’ordine del nostro packaging è trasmettere sincerità e genuinità, ma con semplicità». Che ruolo ha oggi il packaging nel settore vinicolo italiano? «In un periodo di grande complessità come quello che stiamo vivendo, anche l’abbigliaggio ha la sua importanza. Tuttavia non sottovalutiamo neanche l’importanza della qualità intrinseca del prodotto che viene offerto». Quali sono allora le caratteristiche del vostro vino? «Noi produciamo vino a Va-

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rano, nella zona principe del Rosso Conero Doc e Conero Docg. Alcune nostre selezioni sono prodotte con uve provenienti da vigneti che hanno oltre 70 anni. I nostri vini ricchi di colore, di tannini e di zuccheri si differenziano per le spiccate peculiarità che il territorio del Conero è in grado di apportare alle uve. La vicinanza del mare, l’altitudine, le brezze marine, l’irraggiamento solare, il terreno calcareo argilloso ricco di gesso e una corretta gestione del suolo fanno la differenza. D’altra parte un buon vino nasce sempre da una buona uva».

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CALICI ITALIANI Lamberto Vallarino Gancia

con le Fiere l’Italia è nel mondo VARIETÀ E RICCHEZZA DEI TERRITORI DISTINGUONO IL SETTORE, RAPPRESENTATO DA FEDERVINI, CHE GODE DI GRANDE FAMA INTERNAZIONALE. IL PUNTO DEL PRESIDENTE LAMBERTO VALLARINO GANCIA

di Renata Gualtieri a una analisi di Coldiretti emerge che nel 2010 si è registrato il picco massimo delle esportazioni di vino, con le aziende italiane che hanno realizzato un fatturato stimato in 3,7 miliardi di euro, in aumento del 9%, la voce più importante del-

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l’export agroalimentare nazionale. Nel 2010 il settore ha registrato un sensibile incremento; ma «è chiaro – ribadisce Lamberto Vallarino Gancia, presidente Federvini – che intendiamo migliorare quel record nel corso del 2011». Secondo l’elaborazioni fatta da Federvini su dati Istat nel 2010

abbiamo esportato vini e mosti per un valore pari a quasi 4 miliardi di euro contro i 3,5 miliardi del 2009; acquaviti e liquori per un valore pari a 534 milioni di euro, quasi 70 milioni in più rispetto al 2009; infine, sempre nel 2010, abbiamo esportato aceti per un valore di 196 milioni di euro,

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Lamberto Vallarino Gancia, presidente di Federvini

mentre nel 2009 il valore era pari a 164 milioni. A livello europeo la Germania è il paese dove esportiamo maggiormente vini e mosti, unitamente ai liquori e le acquaviti, a livello internazionale gli Stati Uniti si confermano essere un mercato di destinazione molto importante. Si può parlare di tendenze di mercato che hanno una ciclicità: «in questo senso riteniamo che dovremmo cercare di conquistare nuovi spazi commerciali nei mercati emergenti quali Russia, Cina e India che stanno dando positivi segnali di sviluppo». Il sistema fiere è fondamentale per il business e l’interna-

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zionalizzazione dei prodotti agroalimentari del made in Italy. Quali gli appuntamenti imperdibili? «In Europa sicuramente Vinitaly, Vinexpo e Prowein sono appuntamenti di grandissimo prestigio mondiale e dunque immancabili e bene ha fatto Vinitaly ad andare incontro ai mercati con il Vinitaly Tour, così da creare una sorta di filo conduttore tra gli operatori italiani e quelli esteri. La fiera continua a essere uno strumento utile per gli operatori economici che vogliono acquisire maggiore visibilità in un mercato sempre più complesso e competitivo. Però è necessario un ripensamento delle manifestazioni fieristiche che de-

vono, innanzitutto, svolgersi in quartieri fieristici adeguati, con disponibilità di servizi del bacino territoriale che le circonda. Devono essere anche efficaci ed efficienti per far confluire la stampa e i visitatori e ricercare sempre contenuti più innovativi volti ad aumentare l’educazione e la conoscenza dei tanti aspetti che contribuiscono a valorizzare la nostra filiera». L’approvazione del decreto legislativo sulla tutela delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche dei vini, in adeguamento anche alla nuova Organizzazione comune dei mercati agricoli, come è stata

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CALICI ITALIANI Lamberto Vallarino Gancia

• accolta da Federvini? «Le norme contenute nel decreto legislativo 61/2010 costituiscono la misura applicativa del quadro normativo istituito a livello europeo per le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche dei vini. La Federazione ha avuto un ruolo attivo all’interno del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali durante i lavori di stesura del decreto e ha seguito con grande attenzione l’evoluzione delle disposizioni in esso contenute. Si trattava di un decreto particolarmente atteso per tutelare i nostri nomi geografici, semplificare e tentare di ridurre il peso degli oneri amministrativi, rivedere il sistema sanzionatorio, coordinare le norme delle denominazioni con la legge quadro del settore vitivinicolo, approvata nel 2006. Parte di questi obiettivi sono stati raggiunti, per altri è mancato il tempo e sono ancora in corso analisi per condurre degli ulteriori approfondimenti. L’importante è ora non porre come ostacolo invalicabile eventuali modifiche o completamenti che si rendessero utili». Secondo un’indagine di Federvini dal 2006 al 2010 sono diminuiti i consumatori di bevande alcoliche, ma quali sono le vostre linee guida per un consumo responsabile? «L’attività della Federazione è impegnata in prima linea nell’approfondire gli aspetti sociali del consumo di bevande alcoliche, cercando anche di contribuire alla diffusione di progetti finalizzati a promuovere un approccio moderato e responsa-

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La grande distribuzione ha adeguato l’offerta ad un consumo casalingo dei prodotti bile al consumo. Lo stile mediterraneo, inteso come modello di consumo sobrio e moderato e come stile di vita ispirato al buon senso, rappresenta un messaggio che racchiude i temi che intendiamo divulgare: la moderazione, la convivialità, l’educazione e l’approccio responsabile; sono tutte indicazioni per invitare il consumatore ad accompagnare i momenti della socialità con i prodotti alcolici nei tempi e nei modi migliori. Partendo da questo messaggio abbiamo creato un video intitolato “Stile Mediterraneo”, visibile anche nel nuovo sito della Federazione, con l’intento di dimostrare l’impegno e la volontà del settore a comunicare e a promuovere un modo conviviale di consumare bevande alcoliche ai pasti, tipico della nostra tradizione mediterranea. Allo stesso tempo abbiamo anche sviluppato e sostenuto con le Federazioni europee il bere responsabile e il Wine in Moderation». Si è passati anche dal consumo fuori casa a quello in casa. Quali allora le nuove tendenze

della grande distribuzione? «Il passaggio del consumo dal fuori casa a quello in casa va in parte letto come conseguenza della recessione economica ed il cambio degli stili di vita del consumatore che ha accompagnato gli ultimi anni e che ha visto un consumatore decisamente più attento alle spese. La grande distribuzione si è adeguata a tali cambiamenti e ha puntato ad un’azione mirata di promozione e di posizionamento dei prodotti, rivedendo le proprie strategie di marketing ed adeguando l’offerta dei prodotti a un consumo che avviene più in casa. Probabilmente sono questi i fattori che hanno maggiormente pesato sulle scelte del consumatore; non va dimenticato anche il peso che può aver avuto la lunga campagna stampa sul tema alcol e guida che ha accompagnato la riforma del codice della strada. Purtroppo sono state riprese, amplificate e anche distorte, le informazioni riguardanti il tema alcol legato all’infortunistica stradale che hanno generato confusione proprio nel consumatore attento».

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CALICI ITALIANI Vittorio Frescobaldi

le viti del vino tricolore di Riccardo Casini Gusto • 34

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CALICI ITALIANI Vittorio Frescobaldi

IL PUNTO SUL SETTORE VITIVINICOLO DI VITTORIO FRESCOBALDI, PRESIDENTE DEL COMITATO GRANDI CRU D’ITALIA: «NEL PAESE I CONSUMI SONO STABILI, MA CONTINUA A CRESCERE LA QUALITÀ» Aprile 2011

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CALICI ITALIANI Vittorio Frescobaldi

utelare e sviluppare il prestigio delle principali aziende vitivinicole italiane, selezionate attraverso rigidi criteri qualitativi: questo lo scopo del Comitato Grandi Cru d’Italia, nato nel 2006 a opera di 12 soci fondatori sulla scia del ben più antico esempio francese che ebbe, però, un’origine ben diversa, come chiarisce l’attuale presidente Vittorio Frescobaldi. «Il nostro omologo d’Oltralpe – spiega – nacque con Napoleone III, fu lui a elencare i Grandi Cru di Francia nel 1855. Il comitato italiano ha invece un’origine e un regime più democratico, avendo preso a riferimento le aziende che da almeno 20 anni vengono citate sempre dalle principali riviste e intenditori, oltre a mantenere una certa continuità nella produ-

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zione. Una piramide qualitativa è necessaria, e con questo comitato si è voluto dare un contributo ai produttori meritevoli, che al contempo dovrebbero dare lustro e aiutare tutto il mondo del vino italiano».

Vittorio Frescobaldi, presidente del Comitato Grandi Cru d’Italia

Attualmente le aziende associate sono 130. Quali regioni sono maggiormente rappresentate? «Il numero dei soci è in continuo mutamento, dal momento che chi non riesce più a soddisfare i requisiti necessari lascia il posto ad altri. Sicuramente Toscana e Piemonte sono le regioni che offrono più aziende, ma ultimamente stanno venendo fuori con ottimi vini anche Veneto e Sicilia». Il Comitato Grandi Cru d’Italia è organizzatore, tra le

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CALICI ITALIANI Vittorio Frescobaldi

Istruire il consumatore è importante: così si innesca un circolo virtuoso

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altre cose, anche di un premio per i migliori giornalisti e le migliori pubblicazioni in tema di vino. Qual è il ruolo dell’informazione nel vostro settore? «Il vino è un argomento che interessa molto la gente, affascina e incuriosisce. I giornalisti e gli scrittori con un background professionale importante hanno un enorme ruolo nell’indirizzare il consumatore, che ancora oggi è spesso affamato di conoscenza e imbarazzato nelle scelte. Istruirlo e farlo ragionare è importante anche per i produttori: in questo modo si innesca un circolo virtuoso che aiuta l’innalzamento della qualità. Anche per questo ci pare importante premiare il lavoro corretto di tanti giornalisti, non solo perché parlano di vini ma soprattutto perché lo fanno in modo competente».

Quali iniziative avete in programma in occasione dell’edizione 2011 di “Vinitaly”? «Presenteremo il libro Grandi Cru d’Italia, ora tradotto anche in inglese e cinese, al cui interno è possibile trovare non solo le migliori bottiglie, ma anche i volti e le storie di chi le produce: un’iniziativa che ha avuto successo, e che permette di diffondere una migliore conoscenza tra produttore e consumatore. Ma verrà presentato anche il libro Grandi Cru d’Italia e grande cucina asiatica, più modesto per dimensioni ma importante per il nostro sviluppo verso nuovi mercati». A questo proposito, “Vinitaly” rappresenta anche un’occasione per fare il punto su un

settore che vede l’Italia tra i primi produttori mondiali. Qual è la situazione attuale, sia in termini di mercato interno che di esportazioni? «A livello interno non ho l’impressione che i consumi pro capite siano in aumento; in compenso continuiamo sempre a registrare una richiesta di migliore qualità, un trend questo che dura ormai da tanti anni in Italia. Per quanto riguarda le esportazioni, va detto che il mercato è sempre più competitivo, con paesi come Cile, Argentina, Nuova Zelanda e Sudafrica che stanno emergendo velocemente: basti pensare che fino a 15-20 anni fa il 70% del vino nel mondo era di provenienza europea, mentre oggi la quota è scesa al 55%».

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CALICI ITALIANI Riccardo Ricci Curbastro

etichetta: carta di enoidentità INFORMAZIONI CHIARE, COMPLETE E VERIFICABILI PER LA PRESENTAZIONE DEL VINO. MA È IL TERRITORIO CHE CREA PRODOTTI IRRIPETIBILI E FEDERDOC, TESTIMONIA RICCARDO RICCI CURBASTRO, BADA ALLA TUTELA DEL VINO ITALIANO

di Renata Gualtieri

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CALICI ITALIANI Riccardo Ricci Curbastro

onsiderare protette le denominazioni solo perché inserite nel registro “E-Bacchus” è illusorio e fuorviante nel momento in cui assistiamo alla proliferazione in ambito internazionale di false denominazioni come il Sagrantino australiano o l’Albarolo messicano. «Federdoc – precisa il presidente Riccardo Ricci Curbastro – cerca soluzioni internazionali per ottenere, senza costi aggiuntivi, la protezione delle denominazioni». Il recente documento inviato alla Commissione europea sui negoziati Acta tende a rendere applicative alcune nuove misure di protezione delle denominazioni, considerate finalmente come diritti di proprietà intellettuale.

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Quanto incide la politica dell’Unione europea sull’economia del settore vitivinicolo dei paesi membri? «Il settore vino ha una specifica Organizzazione comune di mercato, l’unica ormai rimasta. Nell’ambito delle regole unitarie e condivise, ciascuno Stato membro può agire con una certa autonomia, con un proprio piano nazionale di sostegno per gestire il mercato. La Francia assegna fondi consistenti per gli investimenti e la promozione, noi in Italia stiamo ancora pensando se è possibile “demarcare” dallo sviluppo rurale alcune voci da destinare agli investimenti, e non sappiamo bene come utilizzare i fondi che dal 2012 deriveranno dalle distillazioni e dall’arricchi-

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mento ormai definitivamente vietate. Oltretutto, il pericolo della liberalizzazione degli impianti è vicino (fine 2015), e influenzerà le economie di ciascun Paese produttore, ma in modo negativo». Cosa si sta facendo e quanto ancora si deve operare per la promozione territoriale? «Promuovere il territorio significa anteporre ad altre politiche di intervento una strategia di comunicazione basata sulle identità variegate delle nostre produzioni, che non sono fatte di vini omologati come per la gran parte dei paesi extracomunitari. Il territorio è l’elemento che fa grandi le nostre denominazioni e che permette di distinguere, ad esempio, un Dolcetto d’Asti da quello d’Alba o delle Langhe. Questo è quanto viene già comunicato con le azioni promozionali nei Paesi terzi e in ambito comunitario da Federdoc e dai consorzi di tutela, ma non è mai abbastanza. In Europa, oltretutto, i paletti imposti dalla Comunità alle strategie di comunicazione sono importanti: la raccomandazione Ue 458/2001 vieta di “comunicare” ai giovani, ovvero di informarli ed educarli al consumo corretto». Il vino italiano di qualità gode di corsie preferenziali sui mercati esteri, ma il mercato interno non va trascurato. Verso quale direzione devono andare le nuove campagne di comunicazione?

«In Italia si possono distinguere due fasce principali di consumatori: una radicata nei consumi tradizionali, che però sta invecchiando, e l’altra costituita da una nuova generazione abituata a bere solo in occasioni saltuarie e di ricorrenza. A questo cambiamento dei comportamenti alimentari e alla perdita del potere di acquisto non corrisponde una reazione positiva ed energica delle imprese e delle istituzioni. Occorre implementare le iniziative di comunicazione in ambito nazionale e sul mercato europeo, dal momento che esso rappresenta il 70% dei consumi di vino comunitario: è necessario informare sull’assunzione corretta del vino e sui suoi effetti benefici se assunto nelle giuste dosi. Inoltre, bisogna promuovere l’immagine dei nostri vini legati al territorio e alle tradizioni culturali e culinarie. Occorre utilizzare nel modo ottimale i contributi esistenti sul mercato interno e anche quelli derivanti dallo sviluppo rurale a questo scopo, facendo in modo che le istituzioni comunitarie confermino anche per il futuro tali aiuti».

Riccardo Ricci Curbastro, presidente della Confederazione nazionale dei consorzi volontari per la tutela delle denominazioni dei vini italiani

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CALICI ITALIANI Luigi Bavaresco

n prodotto ricco di significati come il vino, che rappresenta allo stesso tempo storia e leggenda, arte e scienza, sacro e profano. Per questo, gli studi svolti dal Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano hanno dato un contributo significativo al progresso e al benessere del mondo rurale e della società. «L’auspicio è che un numero sempre maggiore di persone – sottolinea il direttore del Cra Luigi Bavaresco – si avvicini al consumo consapevole di vino, e che bere vino diventi uno stile di vita e un fatto culturale».

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Luigi Bavaresco, direttore del Centro di ricerca per la viticultura di Conegliano

Terroir d’elitè LA TRADIZIONE È UN’INNOVAZIONE BEN RIUSCITA. E LA RICERCA DEL CENTRO PER LA VITICULTURA DI CONEGLIANO VA IN QUESTA DIREZIONE

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Come si adeguano gli istituti di ricerca alle crescenti necessità di innovazione del settore e di evoluzione della tecnologia? «Un istituto di ricerca storico come il nostro, nato nel 1923 come stazione sperimentale di viticoltura ed enologia, trae dalla tradizione e dalla positiva reputazione scientifica energie e slancio per stare al passo con i tempi e rispondere alla domanda di ricerca e sperimentazione che arriva dal mondo produttivo, e che richiede innovazione. Per raggiungere questo obiettivo il Cra si è nel tempo dotato di personale altamente qualificato (ricercatori, tecnici, amministrativi), di strutture adeguate (laboratori, strumentazione scientifica, vigneti sperimentali) e si è mantenuto in contatto con il mondo produt-

tivo e con la comunità scientifica internazionale, per interagire con essa mediante collaborazioni e scambi di conoscenze. Il tutto poi si sostanzia con la conduzione di ricerche e sperimentazioni finanziate da enti pubblici e da privati». Le Regioni, quali organi di raccordo con le realtà territoriali e l’agricoltura, che ruolo assumono nella definizione degli orientamenti della ricerca? «Un esempio concreto di ruolo propulsivo delle regioni per orientare la ricerca è quello del Veneto, dove nei mesi scorsi si è tenuta la Conferenza regionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale, che ha stabilito un’agenda delle priorità strategiche regionali per il sistema agricolo e rurale i cui temi da affrontare sono stati concertati con tutti gli attori delle filiere produttive e che prevede anche un ruolo importante della ricerca scientifica». Come si coniugano oggi tradizione e innovazione nelle tecniche di coltivazione della vite? «Si dice che la tradizione è un’innovazione ben riuscita. Questo significa che il sistema non è statico ma dinamico, e nel caso della viticoltura da vino si devono usare sia nel vigneto che nella cantina le tecniche più innovative (viticoltura di precisione, genomica) nel rispetto del concetto tradizionale di vino che non è un prodotto industriale e tecnologico, ma frutto di un rapporto particolare tra vite, ambiente di coltivazione e

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CALICI ITALIANI Luigi Bavaresco

cure del viticoltore, per cui esistono “i vini” e non “il vino”. C’è un aforisma che dice che il buon vino si fa nel vigneto, nel senso che è solo da un’uva di ottima qualità che si ottiene un ottimo vino, e per ottenere quella buona uva si deve avere un terroir vocato alla qualità». Come immagina il futuro della viticoltura? «È difficile prevedere quello che succederà in Italia e nel mondo; come prospettiva ragionevole e auspicabile per il nostro paese vedo una viticoltura da vino che pone sempre più attenzione alla qualità globale, che comprende non solo quella organolettica ma anche un modo di produzione e vinificazione sostenibili da un punto di vista economico, ambientale e sociale. Inoltre, noto un orientamento sempre più marcato verso i vini di terroir, non omologati e banali, espressione di tipicità e di identità, che si rivolgono verso consumatori educati ed esigenti, sparsi in

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Il Cra è al passo con i tempi e risponde alla domanda di ricerca e sperimentazione del mondo produttivo tutto il mondo. Questi vini, infatti, permettono al viticoltore di avere un reddito congruo al suo impegno di capitale e lavoro. Questo implica un’appropriata politica di commercializzazione e marketing per far conoscere e acquistare quei vini a un pubblico che li apprezza». Vino e salute: come è possibile tutelare il percorso del vino dalla vite alla tavola? «La domanda comprende due aspetti, uno esplicito e uno criptico. Il primo fa riferimento alla salubrità del vino, che è garantita dal rispetto delle leggi vigenti che assicurano un prodotto sano. Ma

a mio avviso è più interessante il secondo aspetto, il rapporto tra consumo di vino e salute di chi lo assume: il vino, se consumato in dosi moderate è per una persona sana un fattore di riduzione del rischio di incorrere in certe patologie, come quelle cardiovascolari. Studio da circa 25 anni, a livello di fisiologia nella vite, una sostanza antiossidante, il resveratrolo, che la pianta produce per difendersi da stress di vario tipo; questa sostanza esplica gran parte dei suoi effetti positivi quando passa dall’uva al vino, durante la fermentazione alcolica, e il vino viene assunto dall’uomo».

d Aprile 2011


CALICI ITALIANI Pietro Caviglia

Le norme dall’uva al vino CONTROLLI SERRATI E RIGIDE SANZIONI. QUESTO IL QUADRO NORMATIVO DEL SETTORE VITIVINICOLO SECONDO L’AVVOCATO PIETRO CAVIGLIA

di Renata Gualtieri Pietro Caviglia, presidente dell’Unione dei giuristi del vino e della vite

l vino è il prodotto più controllato di tutto il comparto agricolo. Una fitta ragnatela di norme, infatti, copre l’intero percorso dal vigneto alla cantina di trasformazione, dalla circolazione delle uve e dei mosti sino all’imbottigliamento del prodotto finito. Le infrazioni comportano sanzioni pecuniarie nei casi meno gravi, ma anche di carattere penale nelle ipotesi più gravi. «Se poi si tratta di infrazioni riguardanti indicazioni geografiche o denominazioni di origine protette – assicura l’avvocato Pietro Caviglia, presidente dell’Unione giuristi della vite e del vino – può essere disposta, nelle ipotesi di particolare gravità, anche la chiusura dello stabilimento fino a tre mesi oppure la revoca della licenza o autorizzazione».

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Secondo la legge in vigore quali indicazioni deve recare un vino etichettato a norma? «Bisogna anzitutto premettere che il vino fa parte dell’organizzazione comune del mercato ed è disciplinato da norme euro-

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pee. La materia delle indicazioni in etichetta (obbligatorie e facoltative) è contenuta in apposito regolamento comunitario e obbedisce al criterio fondamentale in base al quale un prodotto, non avente diritto a una denominazione di origine o indicazione geografica, deve solo fornire le indicazioni necessarie al consumatore per valutarne l’acquisto che la legge stessa indica espressamente e cioè categoria merceologica di appartenenza: vino, vino liquoroso, vino spumante, vino spumante di qualità, vino spumante di qualità di tipo aromatico, vino spumante gassificato, vino frizzante, vino frizzante gassificato, mosto di uve parzialmente fermentato, la gradazione alcolica, nome e sede dell’imbottigliatore, volume nominale del recipiente e numero del lotto». E se invece si tratta di prodotto avente diritto alla sua indicazione geografica o denominazione di origine? «In questo caso oltre alle indica-

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CALICI ITALIANI Pietro Caviglia

Il vino è il prodotto agricolo più controllato, dal vigneto fino all’imbottigliamento

trollata e garantita: permanenza nella Doc per almeno un decennio, caratteristiche qualitative di particolare pregio, acquisita rinomanza commerciale. Inoltre, è sempre la legge a pretenderlo, il disciplinare deve prevedere una regolamentazione viticola ed enologica più restrittiva rispetto alla Doc di provenienza».

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zioni obbligatorie di cui sopra, eccezione fatta per la categoria merceologica che può essere omessa, deve essere riportata l’indicazione geografica o denominazione di origine in questione, seguita dalla dicitura “Indicazione geografica protetta” o “Denominazione di origine protetta” a seconda dei casi; espressioni queste ultime che possono essere sostituite dalle menzioni tradizionali che per l’Italia sono: “Denominazione di origine controllata e

garantita”, “Denominazione di origine controllata” e “Indicazione geografica tipica”». Ai vini a denominazione di origine controllata e garantita viene applicata una disciplina più restrittiva dal punto di vista viticolo ed enologico rispetto a quelli di denominazione di origine controllata? «È la stessa legge a prescrivere un percorso altamente selettivo per il riconoscimento dei vini a denominazione di origine con-

Crede che sia necessario un aggiornamento delle normative che regolano il settore in Italia e dove occorre eventualmente intervenire? «Sì, sarebbe provvidenziale un intervento diretto a semplificare veramente l’intera materia ma occorrerebbe, oltre che una buona dose di coraggio iconoclasta, disporre di un affilato machete per disboscare il settore normativo vitivinicolo da molte norme inutili e farraginose che sembrano deliziare tanto i burocrati di Bruxelles, ma che angustiano la vita quotidiana degli imprenditori».

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IL COMMENTO Gigi Brozzoni

Campagna di conquista SECONDO IL GIORNALISTA GIGI BROZZONI «IL MERCATO ESTERO È IN RIPRESA, MA LA SFIDA OGGI VIENE DA QUEL MEZZO MONDO CHE NON HA MAI BEVUTO VINO»

di Riccardo Casini

Il giornalista Gigi Brozzoni, co-curatore della guida “I vini di Veronelli”

ergamasco, da oltre 20 anni direttore del Seminario permanente Luigi Veronelli e oggi anche co-curatore dell’omonima guida di vini, Gigi Brozzoni è una delle firme italiane più autorevoli in materia, come ha testimoniato anche il “Premio Grandi Cru d’Italia” ricevuto nel 2010 come miglior giornalista dell’anno.

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Brozzoni, quale importanza ha una corretta informazione per il settore vinicolo? «Credo che la corretta informazione sia importante in ogni settore, ma tanto più nel settore vitivinicolo perché le dimensioni estremamente ridotte delle aziende italiane le rendono fragili e vulnerabili, incapaci di far sentire la loro voce, il loro dissenso o le loro aspirazioni: vi sono infatti solo una o due decine di aziende che in Italia hanno la capacità di farsi sentire con un loro ufficio stampa». Quali sono le principali difficoltà nello svolgere il suo lavoro? Quali sono invece i doveri di un buon critico? «In un certo senso la risposta è

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conseguente a quanto detto prima: bisogna saper ascoltare, usare molta attenzione e saper capire cosa si nasconde dietro a una realtà così frantumata e variegata, rendere organici e complessivi dei problemi che vengono posti come se fossero unici e originali. I doveri invece sono i soliti: onestà, obiettività e capacità di non pensare sempre che le nostre idee siano sempre e soltanto quelle giuste. Mettersi in discussione, insomma». A proposito di informazione, quale contributo offre il Seminario permanente Veronelli da lei presieduto? A chi si rivolgono principalmente i vostri corsi? «Abbiamo due linee di intervento. La prima è rivolta al mondo della produzione, dalle aziende vitivinicole ai tecnici aziendali, agli enologi e agronomi: per questa abbiamo rapporti con ricercatori e docenti delle migliori Università italiane e organizziamo convegni, seminari e giornate di studio sui settori viticoli e agronomici. La seconda è rivolta al pubblico che va dai professionisti della distribuzione, ristoranti ed enoteche fino alla schiera degli appassionati e dei

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IL COMMENTO Gigi Brozzoni

semplici consumatori: qui offriamo corsi di degustazione e serate a tema con confronti e degustazioni sui principali temi di attualità enologica». “Vinitaly” offre ogni anno una fotografia del settore vinicolo italiano. Che momento vive oggi quest’ultimo? «Per avere un quadro chiaro della situazione credo si debbano separare due aspetti. Da una parte vi è un settore che dal punto di vista qualitativo è in continua crescita; anche se forse i numeri non stanno aumentando, certamente si sta espandendo geograficamente. Mi spiego: il grande rinascimento vitivinicolo è partito da poche zone con pochi numeri per espandersi sempre più e arrivare a interessare anche le aree produttive più minuscole, marginali e sconosciute. Fino a qualche anno fa

questa crescita ha riguardato anche la produzione, ma forse ora questa tendenza si è fermata: vuol dire che continua l’espansione geografica ma con produzioni lievemente più contenute». E l’altro aspetto da tenere in considerazione? «La situazione del mercato, che non sta dando segnali positivi per quanto riguarda quello interno. A livello internazionale stiamo registrando invece i primi indicatori di una leggera ripresa, di cui potremmo approfittare con “Vinitaly”; purtroppo però questo è anche l’anno di “Vinexpo” di Bordeaux, una manifestazione biennale. Sappiamo che molti degli importatori che contano vengono una volta l’anno in Europa, e in questo caso dovranno scegliere tra Verona e Bordeaux».

Le dimensioni estremamente ridotte delle aziende italiane le rendono incapaci di far sentire la loro voce Gusto • 50

Ma come vede il futuro prossimo del settore? Quali segnali è possibile cogliere già oggi in termini qualitativi? «Stiamo osservando che nei paesi mediterranei il consumo di vino sta diminuendo costantemente a causa delle abitudini alimentari, della concorrenza di altre bevande e dei controlli antialcol per chi è alla guida. Si consuma sempre meno nei locali pubblici, ma non si recupera con il consumo domestico. Dovremo attenderci un mondo con uno stile di vita più sobrio e controllato. Ma abbiamo anche mezzo mondo che non ha mai bevuto vino e che potrebbe iniziare a farlo in futuro: senza aspettarci numeri straordinari o risolutivi naturalmente, sarebbe comunque una sfida interessante e stimolante per il futuro della viticoltura europea. Di certo le passioni le scatenano le emozioni forti, quindi solo la grande qualità può pensare di condurre positivamente questa campagna. Certo che se pensiamo di andare a conquistare il mondo con vini alla tavernello…».

Sopra, un’immagine da Vinexpo di Bordeaux

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IL COMMENTO Ernesto Gentili

la forza

della diversità «L’ERRORE DI MOLTI PRODUTTORI È QUELLO DI RINCORRERE MODE SENZA AVER MATURATO UN’IDENTITÀ IN LINEA CON I RICHIAMI TERRITORIALI». L’ANALISI DEL CRITICO ERNESTO GENTILI

di Riccardo Casini

Ernesto Gentili, co-curatore della guida “I vini d’Italia” de L’Espresso

on solo crisi: secondo Ernesto Gentili, curatore insieme a Fabio Rizzari della guida “I vini d’Italia” de L’Espresso, il particolare momento attraversato dal mercato vitivinicolo italiano non può essere semplicemente messo in relazione con la congiuntura internazionale. «Occorre registrare – precisa – una reazione, tipicamente italiana, disorganica e individualista ma capace di innescare motivi di moderato ottimismo».

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Cosa intende? «In molti si sono accorti che occorre “muoversi”, che non vi è un solo mercato per un unico modello stilistico e che, almeno potenzialmente, gli spazi di manovra esistono per chi è capace di proporre elementi di originalità e caratterizzazione. L’errore principale nel quale continuano a cadere molti produttori è nel rincorrere le tendenze del momento (prima “international” e oggi spesso confusamente “bio”) senza aver maturato una propria identità stilistica in linea con i richiami territoriali.

In sintesi, il vino italiano deve affermare, e saper comunicare, la forza delle sue tante diversità che la ricchezza di vitigni e territori rendono inimitabile». Quali diventano allora le difficoltà principali nel “raccontare” il vino? «Occorre uno sforzo di indagine non indifferente, dato che è dovere di ogni critico comprendere a fondo le caratteristiche di ogni tipologia, ma fortunatamente le istituzioni presenti (consorzi, camere di commercio, associazioni generi-

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IL COMMENTO Ernesto Gentili

In molti si sono accorti che occorre “muoversi”, che non vi è un solo mercato per un unico modello stilistico

che di produttori) forniscono un servizio utilissimo e sempre più professionale in gran parte del territorio nazionale: per questo posso affermare, in base alla mia personale esperienza, che svolgere questo lavoro in altri paesi vinicoli non sempre è altrettanto efficace e funzionale, contrariamente a quanto siamo portati a supporre. Alla fine la difficoltà più evidente è costituita dal numero sempre crescente di nuovi vini e aziende che obbligano a dei veri tour de force gli assaggiatori». Qual è il panorama che si ottiene sfogliando la guida de “L’Espresso”? In quali regioni trionfa la qualità? «La situazione è piuttosto dinamica e non esistono aree del tutto emarginate da obiettivi qualitativi. Ovviamente i territori più classici e rinomati, dalle Langhe a Montalcino, dalla Valpolicella al Chianti classico, mantengono un ruolo preminente nell’enologia italiana, ma

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se vogliamo sottolineare le tipologie che sono emerse con più determinazione negli ultimi 5-10 anni non si può non ricordare il successo dei vini etnei, sui quali (modestamente) la Guida Espresso ha scommesso per prima e in tempi non sospetti. E poi il ritorno autorevole dei rossi del Nord Piemonte e della Valtellina, il potenziale enorme dei Taurasi, il carattere unico dei vecchi vigneti di cannonau sardo. Sul fronte dei bianchi hanno recuperato credibilità tipologie storiche come il Soave, il Gavi, il Verdicchio, la Vernaccia di San Gimignano, i bianchi friulani in genere, mentre sono emersi perentoriamente il Fiano e il Greco di Tufo, i vini della Valle Isarco, i Vermentino sardi e liguri». Ci dica due vere rivelazioni di questo 2011. «Vorrei segnalarne due centinaia. Ma se devo scegliere indico a memoria, in modo puramente emozionale e non razionale, due vini

che associano alla qualità anche un prezzo ragionevole: il Gavi Pisé de La Raia e il Cannonau S’Annada di Sedilesu».

Una bottiglia di Gavi Pisé de La Raia

E in futuro? Da chi ci dovremmo attendere le maggiori sorprese? «Prima delle sorprese è bene attendersi le giuste conferme. Pertanto la prima risposta in positivo deve arrivare dai grandi rossi piemontesi e toscani, che continuano a essere il faro della nostra enologia. Le sorprese, o meglio le speranze, sono riposte nella dimostrazione da parte di alcune zone di non perdersi per strada, continuando a salire di quota: mi riferisco in particolare ai Primitivo di Gioia del Colle, ai Cirò, ai Cesanese, agli Aglianico del Vulture, ai Dolcetto di Dogliani, ai Montepulciano d’Abruzzo, ai vitigni autoctoni (bianchi e rossi) friulani e, perché no, ai Lambrusco. Tutti vini di grande dignità e potenziale qualitativo dai quali ci attendiamo segnali ancora più decisi».

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Dietro ogni calice COSA SI NASCONDE DIETRO UN CORPOSO ROSSO RUBINO? E DIETRO CENTINAIA DI BOLLICINE? QUALE STORIA, QUALE ANTICA CULTURA, QUALE ANEDDOTO? A PARLARNE PIA DONATA BERLUCCHI

di Lara Mariani Gusto • 56

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LE DONNE DEL VINO Pia Donata Berlucchi

ono sempre più numerose le donne capaci di destreggiarsi abilmente tra carte dei vini e calici di Amarone e Barolo. E se l’universo femminile mostra grande interesse per il vino, dal punto di vista del consumo e della degustazione, tantissime sono anche le protagoniste della filiera vitivinicola, produttrici, ristoratrici, enologhe, sommelier. Bisogna vederle all’opera e incontrarle sul luogo di lavoro - che sia una cantina, un ristorante o un’enoteca - e partecipare ai loro convegni per apprezzarne la competenza. Una professionalità che si manifesta nell’attenzione ai dettagli non solo produttivi, ma anche e soprattutto storici e culturali legati da sempre al nettare di Bacco. Una professionalità testimoniata dall’associazione nazionale “Le donne del vino”, che da 23 anni raccoglie le protagoniste del mondo enologico. Tra le sue fila ci sono nomi illustri, uno tra tanti quello di Pia Donata Berlucchi, che è stata per sei anni presidente dell’associazione e oggi racconta non solo la sua esperienza, ma anche il rapporto naturale, culturale e anche un po’ spirituale che lega le donne al vino.

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Alcune componenti dell’associazione riunite in occasione del Vinitaly

Quello delle “Donne del vino” è un fenomeno abbastanza raro. Da dove deriva l’esigenza di accorparsi in un’associazione così ben strutturata? «Il merito è dell’intuito sottile e brillante di Elisabetta Tognana. Fu lei la prima ad avere l’idea,

più che l’esigenza, di riunire quelle donne che avevano un ruolo di primo piano nella filiera del vino, un settore che tradizionalmente era governato dagli uomini. Così ha creato un’associazione senza fini di lucro, affinché queste donne potessero mettersi in contatto, scambiarsi esperienze e accrescere la loro competenza tramite il confronto». Associazione che è partita con 8 partecipanti. «Elisabetta iniziò con 7 amiche, oggi siamo quasi 800. Nel tempo l’associazione ha preso sempre più piede e oggi comprende tutti i più grandi nomi italiani». E rappresenta tutte le regioni. «Devo dire che è stata una grande soddisfazione nei miei sei anni di presidenza riuscire a portare nell’associazione anche le regioni meno conosciute dal punto di vista enologico come la Basilicata, la Valle d’Aosta, l’Alto Adige. Le delegate regionali oggi hanno il compito di organizzare incontri, eventi e corsi per tutto ciò che concerne i vini della loro zona, mentre la sede nazionale sovraintende ciò che viene fatto nelle regioni e si occupa di organizzare gli eventi nazionali, come il Vinitaly». Anche le statistiche dell’Associazione nazionale giovani agricoltori e del Censis testimoniano il ruolo crescente dell’imprenditoria femminile nel

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L’associazione “Le donne del vino” oggi comprende tutti i più grandi nomi italiani 57 • Gusto



LE DONNE DEL VINO Pia Donata Berlucchi

Il vino è sempre stato vicino alla musica, alla pittura alla scultura. Lo testimoniano numerose opere artistiche del passato

campo agricolo ed enologico. «L’Anga ha dichiarato che il 40% delle giovani imprese di Confagricoltura è condotto da donne e io confermo che il 30% di queste sono aziende vitivinicole. Il Censis ha pubblicato statistiche che ci hanno dato molto orgoglio, poiché dimostravano che nelle aziende condotte da donne c’è un minor numero di licenziamenti, di fallimenti e una maggiore stabilità lavorativa. Ciò significa che la direzione femminile, tutt’altro che tenera, è molto equa e corretta». Qual è stato il cambiamento, la molla che ha fatto

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scattare la presenza femminile in un panorama imprenditoriale e produttivo che sembrava avere un’egemonia solo maschile? «Storicamente la donna è sempre stata la depositaria dell’alimentazione della famiglia. Ci sono rappresentazioni antiche degli egiziani e dei sumeri che testimoniano che la donna curava le derrate alimentari. Quindi, tutto sommato, è sempre stata presente e vicina alla terra. Ma il vero cambiamento è scattato circa 30 anni fa, quando le donne hanno cominciato ad avvicinarsi agli studi di agronomia ed enologia e oggi sentono molto il fascino

della terra. Psicologi e sociologi sostengono che tra la terra e la donna ci sono molte somiglianze. Sono entrambe imprevedibili, con tutti i pregi e i difetti che ne possono derivare. La variabilità è molto femminile ma è una caratteristica anche della terra». Quindi secondo lei è questo il valore aggiunto che la donna ha portato nel mondo del vino? «Più che la variabilità, direi l’apertura. L’apertura verso le novità, la capacità di ascoltare, di confrontarsi con diversi interlocutori, la curiosità, l’amore per la storia e la tradizione che hanno reso grande il vino. Ad esempio,

In alto, Bacco, di Michelangelo Merisi detto Caravaggio, olio su tela, particolare

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LE DONNE DEL VINO Pia Donata Berlucchi

La donna ha restituito al vino i valori che ha sempre avuto sin dall’antichità, ma che erano stati lasciati da parte a favore del puro business Pia Donata Berlucchi, amministratore delegato della Fratelli Berlucchi è stata per 6 anni presidente dell’associazione nazionale “Le donne del vino”

• il suo valore organolettico è importantissimo, ma oggi questa bevanda non sarebbe così apprezzata se intorno a essa non ci fosse anche un valore storico, tradizionale, culturale. Che l’uomo non considerava più di tanto. Prima si pensava a produrlo e basta. Poi sono arrivate le donne, con il loro desiderio di farlo capire, di farlo amare, di farlo diventare un elemento di socializzazione». Quindi la donna ha valorizzato il vino con strumenti “diversi” rispetto al passato. «La donna gli ha restituito i valori che ha sempre avuto fin dall’antichità, ma che erano stati lasciati da parte a favore del puro business. Il vino oggi, non smette di essere un business, ma è anche cultura, passione, tradizione, socializzazione, armonia».

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Ha quindi recuperato le sue radici. «Il vino è sempre stato vicino alla musica, alla pittura alla scultura. Lo testimoniano le opere artistiche dell’antichità, ma anche quelle dei secoli scorsi dove il vino è spesso presente. Allora il vino era un mito, aveva un’aureola di fantasia e di fiaba e le donne gli hanno rimesso quest’aureola che si era persa». C’è un vino che lei ama particolarmente? «Onestamente non c’è un vino che amo di più, lo amo a 360 gradi. Mi faccio influenzare da quello che c’è dietro il calice, magari perché ha un nome affascinate che viene dal greco, perché ha una storia importante, perché mi ricorda un episodio. Non posso discernere il sapore del vino da quello che c’è dietro il calice».

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Donne e vini forti di Belinda Pagano


LE DONNE DEL VINO

VENTITRE ANNI FA È NATA UN’ASSOCIAZIONE CHE SANCISCE LO STRETTO LEGAME TRA LE DONNE E IL VINO. NE PARLANO ALCUNE RAPPRESENTANTI a circa trent’anni il rapporto tra le donne e il mondo del vino è divenuto più stretto non solo per quanto riguarda gli aspetti comunicativi ma anche dal punto di vista della produzione. Se prima la presenza femminile in questo settore era confinata dietro le quinte, oggi il loro ruolo è sempre più alla luce del sole, non solo nelle imprese familiari ma anche negli organi di carattere associativo come l’associazione nazionale “Donne del vino”. «Le donne hanno un forte legame con il territorio – sottolinea Donatella Cinelli Colombini, la signora del Brunello che nel 1998 ha fondato la Fattoria del Colle e il Casato Prime Donne a Montalcino – producono soprattutto vini con denominazione, hanno aziende

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mediamente più sane e meglio gestite di quelle dei maschi. I dati sull’agricoltura al femminile in generale sono molto importanti, il 35% agriturismi è condotto da donne, nel Sud le donne sono protagoniste e conducono la metà delle imprese agricole». Un’emancipazione che ha portato, grazie all’indole femminile all’organizzazione, anche molti risultati positivi dal punto economico. «L’associazione – spiega la friulana Sabina Maffei, dell’azienda agricola Plozner – è nata in maniera abbastanza naturale e credo che venga dall’abitudine, dalla propensione naturale tra donne a incontrarsi e avere occasioni di confronto. Le nostre riunioni sono sempre situazioni informali dove si fanno un’infinità di cose, c’è una progettualità

Nella pagina accanto, dall’alto, Camilla Lunelli, Sabina Maffei e Donatella Cinelli Colombini

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LE DONNE DEL VINO

La donna ha cambiato il vino con il suo linguaggio e la sua sensibilità Anche se rimangono • enorme. delle cene tra amiche, sono comunque una fucina di progetti». L’associazione è nata con lo scopo di apportare un valore aggiunto in un mondo che è stato sempre tipicamente maschile, attraverso la proposta di progetti che valorizzino la produzione vinicola. «All’interno dell’associazione siamo tante, sia produttrici che comunicatrici – fa sapere Camilla Lunelli, oggi a capo delle pubbliche relazioni delle Cantine Ferrari –. Questo è dovuto anche a un fattore anagrafico, le imprese famigliari con il passaggio generazionale hanno portato anche la presenza femminile. C’è una componente diciamo fisiologica che è quella del passaggio generazionale e una di valore aggiunto. La donna dal punto di vista della comunicazione ha cambiato il vino, con il suo linguaggio e la sua sensibilità gustativa completamente diversa da quella degli uomini». Proprio per questo la presenza femminile ha fatto in modo che anche da parte delle

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consumatrici si sia verificato un incremento. «Il fatto che ci siano sempre più donne produttrici, sommelier e giornaliste – continua Camilla Lunelli – ha aiutato anche ad avvicinare le consumatrici. Se una volta era raro vedere al ristorante una coppia in cui era la donna che teneva la lista dei vini, ora avviene sempre più spesso. La donna ha meno ansia da prestazione nel scegliere il vino, non si sente in necessità di mostrare quello che non sa, ma spesso ne sa come gli uomini». Una competenza dovuta senz’altro anche all’alto grado di scolarizzazione che negli anni ha coinvolto nel mondo vinicolo un numero sempre più grande di donne. «Le donne del vino – ribadisce Donatella Cinelli Colombini – per metà hanno una laurea. Ma la situazione è cambiata soprattutto per il consumatore, le donne sono molto competenti. In India e Giappone gli amanti del vino sono soprattutto donne. Quindi anche all’estero sta cambiando la

situazione. Poi le donne hanno incrementato la loro presenza nei corsi, c’è una volontà molto forte di diventare consumatrici competenti, attraverso corsi, letture o viaggi nel vino, per scoprire cosa c’è dietro al vino». E questa maggiore consapevolezza di tutto ciò che concerne il mondo del vino ha contribuito anche allo sviluppo di gusti raffinati che in Italia possono contare su una vasta gamma di prodotti. «Sono solita parlare e giudicare i vini come le persone – confida Sabina Maffei – nel senso che mi piacciono molto quelli con molto carattere perché non sono i più facili né come persone né come vini. Amo molto i riesling e i sauvignon, vini molto decisi che però non sono di facile compagnia diciamo. Tra i vini friulani amo indistintamente i bianchi e i rossi. Il “friulano”, quello che è diventato il nostro vino bandiera, è un vino di grande versatilità che si può bere in molte occasioni e che sta bene con molti piatti, ha un ottimo carattere».

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Le sinfonie

del vino È “SENSORIALE” IL FIL ROUGE CHE ACCOMUNA LA PRODUZIONE DI UN BUON VINO ALLA CREAZIONE DI UNA MUSICA SUGGESTIVA. A PARLARNE È UNO DEI NOMI PIÙ RINOMATI DI MONTEPULCIANO, MARIA CATERINA DEI

j di Pierpaolo Marchese i Gusto • 66

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ENOLOGIA AL FEMMINILE Maria Caterina Dei

a cantina Dei, una delle realtà più consolidate sulla piazza di Montepulciano, ha saputo conquistare il panorama vinicolo grazie all’eleganza e all’armonia delle sue produzioni. Un obiettivo raggiunto in primis grazie all’impegno e alla passione riposti da Caterina Dei nella gestione dell’azienda agricola. In particolare, la sua produzione di rossi si è già distinta grazie alla Riserva Bossona del suo Vino Nobile di Montepulciano. A garantire la qualità dei vini si fa sentire la presenza dell’enologo Nicolò d’Afflitto, tra i più apprezzati tecnici in Toscana, che ha garantito la rapida ascesa dell’azienda Dei. La produzione annuale è di circa 90mila bottiglie di Nobile di Montepulciano, 20mila di Nobile Riserva, prodotto solo nelle annate migliori, 90mila di Rosso di Montepulciano, 4mila di Bianco di Martiena e una quantità limitata sia di Vin Santo di Montepulciano sia di Sancta Catharina, etichetta nata con un uvaggio particolare, che ha già conquistato i palati dei più importanti critici e sommelier internazionali. «Il nostro obiettivo è quello di produrre vini capaci di valorizzare il territorio cui appartengono – spiega Caterina Dei -. Ci interessano i vitigni autoctoni, a partire dalla qualità assoluta del Vino Nobile di Montepulciano».

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tharina, hanno un carattere fresco e di medio impasto. Le caratteristiche del terreno di Bossona, dove nasce il nostro miglior Cru, è magro e tufaceo con un’ottima ventilazione. In azienda abbiamo da sempre affiancato ai vitigni tipici anche alcuni spazi dedicati alla sperimentazione. La potatura verde e il selettivo diradamento dei grappoli mantengono assai contenuta la produzione media, che è di circa 60 quintali per ettaro». La sua famiglia gestisce dagli anni Sessanta questa tenuta. Lei, però, vi è subentrata all’inizio degli anni Novanta. Come è giunta alla scelta di dedicarsi al mondo del vino? «In realtà la svolta per noi avvenne nel 1985, un anno in cui si veri-

ficò una vendemmia talmente eccezionale da spingerci a produrre la prima bottiglia di Vino Nobile di Montepulciano Dei, affittando un’antica cantina nel centro storico di Montepulciano, senza l’aiuto di alcun tecnico. Il successo spinse mio padre, nel 1989, a costruire la nostra cantina. Una struttura funzionale e modernamente attrezzata, posta nel cuore dei vigneti. L’entusiasmo per ciò che stava creando la mia famiglia mi spinse nel 1991 a dedicarmi pienamente alle attività dell’azienda, continuando però a coltivare la mia grande passione per la musica quando il tempo e il lavoro me lo concedono».

Maria Caterina Dei. In apertura, una panoramica dei vitigni della tenuta Dei di Montepulciano (Si) www.cantinedei.com

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG RISERVA BOSSONA · Vitigni: Prodotto da uve selezionate di Sangiovese nel vigneto Bossona · Terreno: tufaceo · Vinificazione: pigiatura soffice, fermentazione in acciaio inox a temperatura controllata di 26-28° C, macerazione 28 giorni · Affinamento: 36 mesi in tonneaux da 7,5 Hl di rovere di slavonia più 12 mesi di affinamento in bottiglia · Colore: rubino tendente al granato

I vostri vigneti, iscritti a Nobile, hanno caratteristiche diverse tra loro. «Vero. I vigneti a Martiena, ove si coltivano le uve per il Rosso di Montepulciano e per il Sancta Ca-

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· Profumo: intenso, con sentore di viola e sottobosco · Sapore: Presenta carattere di finezza, con tannini decisi, vellutati ed un finale lungo e profondo

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ENOLOGIA AL FEMMINILE Maria Caterina Dei

mondi molto diversi. • «SoloDueapparentemente. Nella di-

Alcune immagini dell’Agriturismo La Ciarliana, in alto, e della Villa Il Boschetto, in basso

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mensione del teatro e della musica si trovano in realtà molti punti in comune con quella del vino. In entrambi gli ambiti si tentano di raggiungere sinfonie capaci di inebriare i nostri sensi, scatenando emozioni. Nel vino è fondamentale la sfera emotiva. Ho sempre trovato meraviglioso questo accostamento e con passione, per anni, mi sono sforzata di comprendere tutte quelle alchimie sensoriali che nascono dai vini. È affascinante studiare ciò che si trova alla base delle

percezioni gustative suscitate da un buon bicchiere di vino». Dalle vostre terre nasce anche una grappa particolarmente apprezzata. Come la create? «È un po’ il frutto di tutti gli aromi varietali delle nostre uve tipiche. Una vinaccia ancora fresca di prugnolo gentile rappresenta l’unico ingrediente che, quando sapientemente distillato, riesce a produrre la nostra grappa». Dei non produce solo vini. Anche l’olio extravergine oggi è un vostro punto di forza. Cosa lo caratterizza? «Il nostro olio nasce dagli uliveti di Martiena e Bossona. Le sue caratteristiche sono ottimali, parliamo di un prodotto ottenuto con spremitura a freddo, con un’acidità massima pari allo 0,6 %. Il suo colore è dorato con riflessi verdognoli e verde oliva scura subito dopo la frangitura. Ha un profumo fragrante di fruttato intenso, ma non pungente, e si presenta al palato con un sa-

pore armonico, gradevolmente asprigno e con una piacevole vena di carciofo e retrogusto di mandorla». La sua azienda, oggi, è anche un agriturismo. Dove alloggiano gli ospiti? «Abbiamo ristrutturato un casale che porta il nome della località “La Ciarliana”, e che ha come nucleo centrale una torre del 1500. La struttura è inserita in uno splendido lembo di campagna, in posizione sopraelevata, a pochi passi dalla città di Montepulciano. Ciò da cui rimangono conquistati i visitatori è il paesaggio circostante, rimasto immutato nel tempo. Oltre ai terreni della nostra azienda, infatti, sullo sfondo si possono ammirare le colline che sfociano su Monte Poliziano, verso la Val di Chiana. Recentemente abbiamo restaurato una bellissima villa del 1700, Villa Il Boschetto, a pochi passi dalla cantina, circondata da vigneti e uliveti e a 2km dal centro storico di Montepulciano».

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ENOLOGIA AL FEMMINILE Luisella Benedetti

Da degustare e da “ascoltare” COSA HANNO IN COMUNE LE MUSICHE DI DEBUSSY CON IL MONDO DEL WELLNESS? PER LUISELLA BENEDETTI DELL’ANCILLA LUGANA, LA PERCEZIONE DEL VINO COME SANO ALIMENTO E COMPAGNO ELEGANTE

j di Adriana Zuccaro i ome si scopre l’amore per il vino? «Aprendo una bottiglia e assaporando, senza fretta, un bicchiere; perché un vino va “ascoltato”, osservato, assaggiato, odorato e toccato lentamente. Incuriosirsi poi su ciò che riguarda la cantina, i vigneti e le terre di produzione, rappresenta il primo passo verso la conoscenza di un mondo straordinario; non è affatto difficile innamorarsene perdutamente». È ciò che è successo a Luisella Benedetti, responsabile produttiva e commerciale, nonché portavoce dell’ultima generazione di Ancilla Lugana, brand name dell’azienda agricola La Ghidina, avviata negli anni Settanta dalla nonna Ancilla. «I suoi vigneti sono la massima espressione della terra di Lugana di Sirmione, il cuore di quel fazzoletto di terreni, argilloso

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e calcareo, bagnato dal lago di Garda. L’unicità dei nostri vini risiede infatti, nelle inconfondibili caratteristiche che distinguono le terre in cui vediamo crescere le nostre viti». Unici sono anche i nomi delle tre etichette dei bianchi pensati e prodotti da Luisella Benedetti e i suoi esperti collaboratori: Ella, Ancilla e La Ghidina. Ogni assaggio catapulta in atmosfere musicali di estrema eleganza, «armonizzate in note dolci e nostalgiche come quelle concepite dalla sola genialità di Debussy». Ma dietro ogni calice di vino, c’è sempre una storia, la passione e il lavoro che ripaga chi lo vive in tempi non brevi ma con risultati di certo intensi. «Il trebbiano di Lugana, con la sua mineralità e giusta acidità, possiede il potenziale per essere apprezzato fresco in annata ma riteniamo che la sua

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ENOLOGIA AL FEMMINILE Luisella Benedetti

massima espressione venga raggiunta con una più prolungata evoluzione temporale». Per questo Ancilla Lugana propone ogni anno tre tipologie di bianchi che rappresentano, in vigneto come in cantina, una sua più completa interpretazione del mondo vitivinicolo. «Crediamo molto nel vino come alimento pertanto la nostra “competizione” avviene considerando come mercato di riferimento il comparto alimentare nel suo complesso, senza mai perdere di vista l’evoluzione dei gusti e le preferenze del consumatore finale a tavola. Riconoscendomi poi come fervida sostenitrice del mangiare sano, il giusto e di qualità – afferma la portavoce di Ancilla Lugana – tento costantemente di far percepire al consumatore che il vino è il compagno che in tavola esalta i sapori, è una coccola da-

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vanti a un bel libro, è un sano, genuino impulso di convivialità». Per Luisella Benedetti è infatti fondamentale riuscire a diffondere la cultura vinicola intesa come la capacità di riconoscere ciò che deriva dalla natura piuttosto che dalla cantina, identificando i riflessi della tradizione, innovazione e ricerca del benessere fisico. Con questo intento, «oltre a presentare il nuovo prodotto Ancilla Lugana denominato “1909”, abbiamo aderito al nuovissimo progetto “Freewine-no sulfites in paradise” che sarà annunciato al Vinitaly per rispondere alla crescente richiesta dei consumatori di prodotti privi di conservanti chimici e quindi percepiti come salubri e totalmente naturali. Con tale iniziativa il wellness è entrato nel mondo del vino». Ma qual è il segreto che, nella produzione dei bianchi An-

cilla Lugana, sposa la naturalità della materia prima del luogo alle tecniche di lavorazione fuori dai vitigni? «Per produrre vini bianchi di qualità bisogna, innanzitutto, saper gestire sapientemente il freddo – asserisce Benedetti –. E con “sapientemente” si allude alla cura necessaria per il giusto svolgimento di ogni fase produttiva, dal momento in cui il grappolo viene tagliato al momento in cui diventa mosto fino alla fermentazione alcolica». All’Ancilla Lugana infatti, la vendemmia viene gestita con container refrigerati in campo. «Arriviamo in azienda con l’uva a 4 gradi per passare alla pressatura soffice in presse con tasche refrigerate. Le cisterne sono coibentate con il doppio vantaggio di risparmiare energia ma soprattutto di avere un freddo omogeneo su tutta la vasca».

In apertura, Luisella Benedetti, responsabile di produzione e commerciale dell’Ancilla Lugana, azienda agricola “La Ghidina” con sede a Sirmione di Lugana (BS) www.ancillalugana.it

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ENOLOGIA AL FEMMINILE Piera Martellozzo

Un vino al femminile UN LAVORO CHE INSEGNA ONESTÀ VERSO DI SÉ E VERSO GLI ALTRI. CHE UNISCE FATICA, SFORZO E PASSIONE. PIERA MARTELLOZZO, UNA DONNA CHE HA DEDICATO LA SUA VITA AL VINO, SI RACCONTA

j di Nicoletta Bucciarelli i azienda che porta il suo nome, si trova nella zona del Grave del Friuli, a San Quirino, territorio di origine alluvionale e sassoso che esalta l'escursione termica tra il giorno e la notte rendendolo particolarmente adatto alla coltivazione dell’uva. Da qui traggono origine i vini di Piera.

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Com’è nata la sua passione per il vino? «Il vino è un amore radicato in me da una tradizione familiare solida. Mio padre mi diceva sempre che il vino insegna l’onestà, verso di sé prima che verso gli altri e che senza fatica, sforzo e cura non si ottiene nulla di buono. Questo mondo è diventato mio spontaneamente, naturalmente e oggi non saprei dire se è un lavoro o una gioia». Ama definire la sua realtà,

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“un’azienda donna” perché? «Tra uomini e donne ci sono modi di pensare e agire diversi. La donna ha affinato, per tutta quella che è la sua storicità, una sensibilità diversa che io amo definire “sesto senso”».

Piera Martellozzo, S.Quirino (PN) www.pieramartellozzo.it

Cosa ha in serbo per questa edizione del Vinitaly? «Considero il Vinitaly una vetrina molto importante. L’anno scorso abbiamo presentato la nuova linea di spumanti “Perle di Piera”, un prodotto dal packaging accattivante e visto il successo ottenuto abbiamo deciso di riproporle anche per questa edizione. Ad affiancarci ci sarà il famosissimo chef Tomaz Kavcic del ristorante Pri Lojzetu a Zemono che comporrà delle creazioni ispirandosi alle nostre 4 perle spumantizzate Il Prosecco, il Rosé il Pinot Grigio e la Ribolla Gialla».

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VINI VENETI Franco Manzato

l Veneto si conferma prima regione italiana per produzione di vino di qualità, raggiungendo circa un quarto dell’intero volume nazionale. «Questa regione rappresenta a tutti gli effetti il “polmone vitato” d’Italia», conferma Franco Manzato, assessore regionale all’Agricoltura. Sono 72mila gli ettari di superficie a vigna presenti sul territorio, pari all’11% dell’intero potenziale nazionale. Un tessuto produttivo straordinario che coinvolge oltre 34mila aziende. Non stupisce, quindi, il fatto che al “Vinitaly” lo stand della Regione rappresenti da sempre un punto di riferimento per l’intera manifestazione.

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Quali aspettative riponete su questo evento? «Il “Vinitaly” è un’importante vetrina mondiale per vini e distillati nostrani di qualità. Questa fiera è diventata un momento di confronto per operatori, giornalisti e, più in generale, per tutti gli amanti del buon vino. Anche quest’anno ci saranno importanti manifestazioni, a partire dalla presentazione di due vini che si sono guadagnati la Docg sul campo. Stiamo raccogliendo i risultati delle scelte dei nostri imprenditori, da noi sempre sostenute e accompagnate da rilevanti progetti di ricerca, finanziati a migliorare la qualità e le specificità del nostro sistema vitivinicolo».

Veneto, vigneto d’Italia FRANCO MANZATO, ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA DELLA REGIONE VENETO, ILLUSTRA BILANCI E PROSPETTIVE DEL PRIMO TERRITORIO ITALIANO PER ESPORTAZIONE DI VINI NEL MONDO

di Andrea Moscariello

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Soprattutto perché il Veneto è apripista, in Italia, nel settore vitivinicolo? «Quello di cui facciamo parte è un sistema di vini di territorio dove tutte le Doc presentano una loro consistenza, oltre che di tipicità, anche economica. Le nostre denominazioni sono 27, cui si aggiungono 11 vini a Docg, anche se l’amarone “garantito” lo vedremo tra un paio d’anni e, per ora, quello commercializzato è “solo” Doc. Inoltre, vantiamo una decina

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di Igt. Si tratta di una realtà in continua evoluzione. Il vino è un prodotto vivo, che va costantemente migliorato per renderlo sempre più rispondente alle esigenze e alle aspettative dei consumatori». In questo scenario quale peso riveste la politica della Regione? «Il nostro impegno è rivolto soprattutto alla tutela e alla valorizzazione del sistema, che trova nei produttori i suoi veri

protagonisti. Le azioni più recenti per posizionare sempre più in alto il nostro vino a livello mondiale riguardano la rivoluzione del Prosecco, avvenuta nel 2009, mentre nel corso del 2010 la nostra regione si è vista riconoscere la nuova Doc “Venezia”, nonché le tre Docg “Malanotte Piave”, “Lison” e “Fior d’Arancio Colli Euganei”. La vendemmia del 2010 è stata accompagnata da un sistema procedurale unico di denuncia, sia comunitaria

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VINI VENETI Franco Manzato

• che dei vini destinati a Do e Ig. Gli operatori veneti hanno potuto in questo modo utilizzare un solo sistema informativo messo a disposizione dall’agenzia regionale Avepa». Quello della ristrutturazione dei vigneti è un obiettivo che coinvolge in maniera considerevole, a livello finanziario, l’amministrazione regionale. In tal senso quanto vi siete esposti? «Sono state 1.610 le domande presentate per un importo finanziario richiesto di oltre 16,3 milioni di euro. I fondi disponibili a stanziamento ammontano a 8.96 milioni di euro, ripartiti tra i progetti minori, selezionati dai nostri esperti sulla base della loro efficacia e validità». Oggi il vino italiano è commercializzato in tutto il mondo. Soprattutto quali mercati investono sui produttori veneti? «Il nostro vino è il più importante veicolo di “made in Veneto” nei principali mercati internazionali. La sua promozione avviene nell’ambito di iniziative unificate, che vedono sempre e comunque la presenza dei nostri prodotti accanto alle specifiche promozioni, soprattutto quelle turistiche. Nell’ambito dell’export siamo primi assoluti in Italia, sia in valore che in quantità, seguiti a

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distanza da Piemonte, Toscana, Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna. I paesi a cui forniamo la maggior parte delle nostre varietà vitivinicole sono tradizionalmente la Germania, per il 36% del volume totale, il Regno Unito, con il 13%, gli Stati Uniti, per il 10%. Stanno poi crescendo i business in Svizzera, Repubblica Ceca e Canada. Oltre ai paesi tradizionali, stiamo navigando verso nuovi mercati: diventeranno sbocchi aggiuntivi le aree dell’estremo oriente e il mercato dell’ex blocco sovietico dell’Europa orientale». Quali impegni ha assunto il suo assessorato per stimolare lo sviluppo internazionale del comparto? «Stiamo realizzando una significativa partita, sostenuta dalla Ue, per la promozione negli Stati Uniti, in Sud America, Cina, Australia e Giappone. Nell’ambito specifico dell’enogastronomia gli interventi non sono caratterizzati da “spot” una tantum, bensì pluriennali. Questi partono dalla necessaria informazione della conoscenza dei prodotti presso gli operatori del settore fino alle grandi testate giornalistiche specializzate. Per arrivare, infine, a raggiungere accordi commerciali veri e propri. Non ha senso mostrare un prodotto se poi il potenziale cliente non può trovarlo nei negozi».

Qual è l’ultimo bilancio relativo al settore agricolo veneto? «L’agricoltura ha creato lo scorso anno una produzione lorda vendibile di 4,7 miliardi di euro, dei quali quasi il 10 per cento proveniente dalla vitivinicoltura. Queste cifre non ci dicono, però, qual è il vero ruolo dell’enologia nell’economia complessiva della regione. Lo testimonia un dato su tutti: il valore dell’export di vini e mosti da parte degli operatori veneti del settore, che nel 2010 ha superato la cifra di 1,137 miliardi di euro, pari a circa il 29,5 per cento dell’intero export italiano. Ha, inoltre, il suo epicentro in Veneto la più grande denominazione vinicola italiana, il Prosecco, che con i suoi circa 1,8 milioni di ettolitri, dei quali oltre 1,5 prodotti nella nostra regione, contende il primato della spumantistica mondiale a blasonate produzioni straniere, senza per questo rincorrerle nell’imitazione. Ma sono venete anche le altre grandi Doc provenienti dai vitigni autoctoni italiani, in primo luogo la Valpolicella, con tutte le sue tipologie, che supera i 500mila ettolitri, e il Soave, che per quantità prodotta sfiora un cifra analoga. L’enologia veneta non dimentica poi i cosiddetti vitigni internazionali, rispetto ai quali sta assumendo una posizione di primato per il Pinot Grigio, che da noi ha trovato un areale di produzione straordinario».

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L’AMARONE CAMPO DEI GIGLI Tiziano Castagnedi

Profumo di ciliegia TIZIANO CASTAGNEDI APRE LE PORTE DELLA TENUTA S. ANTONIO E PARLA DEL SUO GRANDE SUCCESSO ENOLOGICO, L’AMARONE CAMPO DEI GIGLI

di Andrea Moscariello


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L’AMARONE CAMPO DEI GIGLI Tiziano Castagnedi AMARONE DELLA VALPOLICELLA CAMPO DEI GIGLI · Zona di produzione: Comune di Mezzane di Sotto - Località Monti Garbi · Affinamento: 3 anni in tonneaux nuovi, 2 anni in bottiglia · Aspetto: impenetrabile rosso rubino dai riflessi porpora · Profumo: frutti rossi selvatici, tocchi boisè e toni minerali su aromi di liquirizia, pepe nero, tabacco, spezie e cioccolato · Sapore: secco, caldo e morbido equilibrato da una giusta freschezza e notevole sapidità. I tannini risultano dolci e rotondi garantendo longevità

n grande amarone moderno”. Così Tiziano Castagnedi, uno dei proprietari della Tenuta S. Antonio di Colognola ai Colli, in provincia di Verona, ama definire la sua produzione più recente, l’Amarone Campo dei Gigli. «Il nostro vino si distingue per finezza ed eleganza aromatica – spiega Castagnedi -. A noi interessa la purezza. L’inconfondibile profumo di ciliegia deve essere ben identificato, senza essere manomesso da interventi in vigneto o in cantina. Non cerchiamo gradazione elevata. Ci piace lavorare per proporre un vino salubre con una grande storia, ma anche con un gusto vicino al bere moderno». Il riscontro commerciale ottenuto da questo vino è senz’altro positivo, soprattutto all’estero, dove viene ritenuto un

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In apertura, da sinistra, Paolo, Massimo, Tiziano e Armando Castagnedi

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vero pilastro dell’enologia rossa italiana. Castagnedi, che gestisce la tenuta insieme ai fratelli Paolo, Massimo e Armando, è estremamente attento anche alla cultura gastronomica. «Ci interessa offrire agli amici chef la qualità dei nostri vini che, dai bianchi ai rossi, soddisfano una grande varietà di menù. I bianchi soprattutto per il pesce. Mentre i rossi si sposano con piatti più succulenti di carni e selvaggine». In particolare l’Amarone Campo dei Gigli è stato premiato come vino ideale per l’abbinamento con il Parmigiano Reggiano 30 mesi. «Questo è uno spunto interessante che premia anche un modo moderno di “pensare” l’Amarone – sottolinea Tiziano Castagnedi -. E questo è anche il nostro modo di viverlo e di proporlo». Nella sua logica di continuo miglioramento, la Tenuta prosegue un progetto già avviato nel 2004. «È da allora

che ci impegniamo per proporre ai consumatori un vino ancor più salutare. Lavoriamo nel vigneto, nella vinificazione, in cantina. Oggi circa il 10% della produzione di Tenuta segue le tecnologie innovative. Stiamo sperimentando. Ci sembra serio dire solo questo» dichiara il titolare. Nel programma di rinnovo della Tenuta veronese, riveste un ruolo centrale la cantina, tappa obbligatoria per la metamorfosi dell’uva. «L’imperativo assoluto è l’igiene. Interveniamo con la massima attenzione. Lavoriamo per proporre un vino che a parità di valore organolettico e longevità sia più sano. In questo, sarà fondamentale un impegno sempre più intenso per eliminare l’uso dei solfiti in cantina, mentre una lotta fitosanitaria sempre più scrupolosa e mirata nel vigneto, vuole essere la strada da seguire per il vino dell’immediato futuro».

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Profumi primari dell’uva TONICITÀ, STRUTTURA E ARMONIA DI ZUCCHERI E AROMI. DALLA RACCOLTA ALLA DEGUSTAZIONE, IL FASCINO DELL’AMARONE CLASSICO DOC DELLA CANTINA FORNASER

j di Erika Facciolla i etodi antichi e tecnologie moderne: un connubio che tante aziende agricole votate alla produzione del vino sposano con risultati sorprendenti. L’arte del vino rimane, comunque, una tradizione antica la cui magia si ripete ad ogni vendemmia solo nei vigneti coltivati secondo i metodi di una volta e nelle can-

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tine dove i mosti vengono custoditi con tutta la sapienza artigiana dei vecchi vignaioli. L’azienda agricola Fornaser si trova nel cuore della zona storica della Valpolicella classica. Fondata nel 1969 da Giuseppe Fornaser, l’attività è oggi guidata dai figli Paolo, Fabiano, Massimiliano e Giorgio. Fiore all’occhiello della cantina è l’Amarone . Ne parliamo con

Paolo Fornaser, portavoce dell’azienda. L’Amarone è riuscito a diventare negli anni un prodotto esclusivo del made in Italy. Ma quali sono le sue origini? «L’Amarone è il risultato di una scoperta occasionale negli anni 50. La dimenticanza del vino Recioto nelle botti di legno ha

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AMARONE CLASSICO DELLA VALPOLICELLA DOC Paolo Fornaser

mente nelle zone collinari dei comuni di S. Pietro in Cariano e S. Ambrogio di Valpolicella».

portato alla nascita di questo straordinario vino, con delle caratteristiche ben definite». Cosa distingue l’Amarone della cantina Fornaser? «Il nostro Amarone lascia sia all’olfatto sia al gusto delle sensazioni piacevoli ed equilibrate che richiamano il sentore dell’uva appassita e di piccola frutta rossa matura. Stappando una bottiglia di amarone Fornaser non si beve semplicemente un grande vino ma si assapora il legame con la terra». La vostra cantina utilizza sia la tecnica della pergola veronese che il sistema guyot: con quali criteri viene effettuata la scelta? «La scelta del sistema d’impianto non è dettata dalla moda

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bensì dal grande rispetto che abbiamo per il territorio. La pergola veronese è il sistema utilizzato nei vigneti storici mentre il guyot è la tecnica che utilizziamo nei nuovi vigneti». Come e dove avviene la maturazione dell’Amarone? «Dopo una lunga fermentazione il vino viene stoccato parte in botte e parte in barriques per 36 mesi dove costantemente viene controllata la fermentazione malolattica. L’assemblaggio viene fatto in serbatoi di acciaio inox e l’affinamento in bottiglia almeno per12 mesi». Il vostro Amarone può essere considerato il classico doc Monte Faustino? «Assolutamente si, i nostri vigneti sono situati esclusiva-

Cosa cerca oggi il consumatore? «Il consumatore è sempre più preparato e richiede vini profumati, strutturati e che trasmettano sensazioni armoniche ed equilibrate».

In queste pagine, Paolo Fornaser dell’azienda agricola Fornaser di San Pietro in Cariano (VR) info@fornaser.com www.fornaser.com

Qual è, a suo parere, il migliore abbinamento enogastronomico ottenibile con l’Amarone? «Da buongustaio la selvaggina è sempre un piatto eccezionale. E quale miglior abbinamento tra due cose eccezionali». In definitiva, quali sono i punti di forza dei vini prodotti dall’azienda agricola Fornaser? «Le magnifiche colline della Valpolicella ci regalano uve eccezionali. Le basse rese in vigna, i vecchi vitigni autoctoni, e la scelta ideale della raccolta delle uve sono gli elementi importanti che ci contraddistinguono».

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BARDOLINO CLASSICO Franco Cristoforetti

Il territorio prima di tutto DA VIGNETI VILLABELLA ALLA RISCOPERTA DEGLI INTRAMONTABILI VINI VERONESI, A PARTIRE DAL BARDOLINO, DI NUOVO PROTAGONISTA SUL MERCATO MONDIALE

j di Andrea Moscariello i na produzione votata alla ricerca dell’equilibrio, al rispetto del frutto e della materia prima. Vigneti Villabella di Calmasino, nel cuore del Bardolino Classico tra le colline affacciate sul Lago di Garda, hanno fatto di questo pensiero la propria metodologia di lavoro. L’azienda agricola, di proprietà delle famiglie Delibori e Cristoforetti, è oggi una delle più apprezzate produttrici dei grandi classici veronesi. A partire, ovviamente, dal Bardolino, declinato nelle versioni Chiaretto e Chiaretto Spumante, ma

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anche il Valpolicella, il Ripasso, l’Amarone, il Lugana, il Custoza ed il Soave «Ciò che conta è riuscire a salvaguardare la sapidità e la freschezza dei vini del lago – spiega Franco Cristoforetti, che con il padre Giorgio, la sorella Angela, e i soci Tiziano e Umberto Delibori gestisce l'azienda -. In secondo luogo, parlando di Valpolicella è fondamentale l’attenzione alla Corvina e all’esaltazione delle sue note di ciliegia e frutta a bacca rossa, con un uso moderato del legno in fase di maturazione». Una politica “organolettica”, quella descritta da Franco Cristoforetti, che

Franco Cristoforetti assieme al padre Giorgio e al socio Tiziano Delibori www.vignetivillabella.com

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BARDOLINO CLASSICO Franco Cristoforetti

paga, coniugandosi all’evoluzione del gusto del consumatore. «Gli amanti del vino, oggi, prediligono i prodotti fruttati, versatili, improntati alla bevibilità e contemporaneamente all'eleganza». Secondo il produttore, poi, questi fattori coincidono con un momento particolarmente felice per il Bardolino, «un vino e un territorio che in passato hanno faticato a trovare una propria identità, rischiando di snaturarsi rispetto ai gusti dei consumatori contemporanei». Questo recente “rinascimento” del Bardolino si sta affermando anche Oltralpe, con una crescente e continua domanda da parte di tedeschi, svizzeri e nordeuropei. «È interessante, inoltre, l'incremento delle vendite nei paesi asiatici, Cina e Vietnam in testa. È positivo anche il trend re-

lativo al mercato statunitense». Insomma, il mondo riscopre le qualità storiche dei vini veronesi, fattore che comporta un importante indotto a livello turistico. E l’azienda guidata dai Delibori e i Cristoforetti non è rimasta certamente a guardare. «L'acquisizione di Villa Cordevigo a Cavaion Ve-

VILLA CORDEVIGO ROSSO ROSSO VERONESE · Gradazione alcolica: 14,5% · Zona di produzione: Vigneti nella Tenuta di Cordevigo, a Cavaion Veronese, sulle colline moreniche dell’entroterra del lago di Garda, a ridosso della storica Villa Cordevigo (XVIII secolo) · Uve: Corvina, Cabernet Sauvignon, Merlot · Colore: Rosso granato intenso e brillante · Profumi: Intensi profumi fruttati che ricordano la ciliegia e i piccoli frutti di bosco (mirtillo, mora di rovo), con leggeri sentori di cacao · Note: Ha lunga capacità di invecchiamento

ronese, antica dimora del Settecento con chiesa consacrata, circondata da una tenuta di 100 ettari quasi totalmente vitati, ci ha permesso di portare avanti un ambizioso progetto sfociato nella creazione di un Wine Relais – spiega sempre Franco Cristoforetti -. Offriamo così al visitatore la possibilià di godere del territorio soggiornando nella villa, con le sue 18 suite, visitando i vigneti, seguendo direttamente il ciclo di vita e lavorazione della vigna o partecipando a degustazioni di vino e corsi di cucina». Un corollario di attività che rientrano nel piano di conservazione e valorizzazione della cultura enogastronomica locale da sempre portato avanti dall’azienda. Non solo, proprio dai vigneti della tenuta sono nati due nuovi vini «Si tratta di un abbinamento tra uve autoctone e vitigni internazionali. Con Villa Cordevigo Rosso abbiamo utilizzato uvaggio di Corvina, Cabernet Sauvignon e Merlot. Mentre per il Bianco abbiamo coniugato la Garganega al Sauvignon Blanc».

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Un vigneto sempre più duraturo MODIFICANDO LE VIGNE E UTILIZZANDO IMPIANTI PER L’ENERGIA RINNOVABILE, ANCHE IL MONDO DEL VINO SCOPRE LA SUA PIÙ IMPORTANTE STAGIONE INNOVATIVA. IL CASO DI VILLA MEDICI

j di Filippo Belli i

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INNOVAZIONI IN VIGNA Luigi Caprara

BIANCO DI CUSTOZA D.O.C. · Gradazione alcolica: 12,5 % vol. iniziato all’insegna dell’avanguardia il 2011 di Villa Medici. L’azienda agricola di Sommacampagna, guidata da Luigi Caprara, raccoglie i frutti di un processo di rinnovamento avviato agli inizi del duemila, quando acquistò 15 nuovi ettari di terreno, situati in una splendida zona collinare. «Da qui è iniziato l’impianto dei nuovi vigneti – spiega Luigi Caprara -. Siamo andati a studiare da vicino le tecniche utilizzate da alcune aziende italiane e francesi, per comprendere se la scelta del sesto d’impianto, che prevede circa 4500 vigne per ettaro, fosse o no conveniente». La scelta si è rivelata quella giusta, ne è una dimostrazione il fatto che attualmente, nella zona del Custoza, rappresenta il sistema più utilizzato. E così, una volta entrati in produzione i nuovi vigneti, l’azienda ha iniziato la fase di reimpianto, a scaglioni, al ritmo di tre ettari all’anno. «Dal 2011 abbiamo iniziato, coadiuvati dai migliori tecnici del settore, un percorso per l’utilizzo di un sistema di preparazione e coltivazione della vite atto sia a migliorare la qualità dell’uva, sia a permettere una maggior durata del vigneto» spiega il titolare della tenuta, dal momento che le vigne più “vecchie” producono di meno, ma in maniera qualitativamente migliore. Le produzioni di punta restano il Custoza e il Bardolino, due vini ancora oggi sottovalutati dal mercato ma, secondo Caprara, «molto interessanti, avendo quelle caratteristiche di leggerezza, freschezza e

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· Zona viticola: vigneti siti nel Comune di Sommacampagna (Verona) sulle ultime propaggini delle colline moreniche orientali del bacino benacense · Terreni: calcareo, argilloso, localmente sassoso con buona esposizione · Vitigno: Trebbiano 30%, Garganega 30%, Cortese 30%, Tocai friulano 10% · Colore: giallo paglierino con riflessi verdognoli · Profumo: leggermente aromatico, floreale, con note di frutta esotica · Sapore: sapido, leggermente aromatico, giovane

di profumo oggi predilette dai consumatori». Alle produzioni Doc e Dop, in questi ultimi anni l’azienda ha aggiunto altri vini Igt e Igp. Etichette la cui produzione non è legata ad un disciplinare e sulle quali si possono sperimentare blend originali, personalizzati. Non solo. A caratterizzare il progetto di Caprara è anche l’utilizzo della tecnologia ai fini di una lavorazione dal minor impatto ambientale possibile. «In vigna cerchiamo di ridurre i trattamenti fitosanitari, utilizzando sistemi di irrorazione a carica elettrostatica e a bassa concentrazione, nei quali i prodotti che usiamo vanno a segno sulla vite, senza disperdersi per dilavamento o per deriva». Anche la cantina e le attrezzature vengono sanificate utilizzando l’acqua calda e il vapore, riducendo così drasticamente l’utilizzo di prodotti chimici. Investimenti im-

portanti sono stati effettuati sull’autoproduzione energetica, attraverso l’installazione di un impianto fotovoltaico. «Produrre energia ci sembrava doveroso per il rispetto dell’ambiente. Le falde del tetto della cantina, poste a sud, lo hanno reso possibile – spiega Caprara -. La nostra cantina utilizza gran parte dell’energia per produrre il freddo necessario al controllo delle temperature del vino in fermentazione e conservazione a 12 °C. La temperatura controllata è fondamentale per mantenere la freschezza, i profumi fruttati e floreali del vino». Così, grazie a un impianto di 62 Kw, circa 450mq di pannelli, riescono a produrre quasi tutta l’energia consumata. «Per il futuro abbiamo intenzione di investire nella geotermia e nel recupero dei sermenti derivanti dalla potatura della vite, per produrre cippato o, magari, pellets».

In apertura, il vigneto dell’Azienda Agricola Villa Medici www.cantinavillamedici.it

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L’OSELETA Celestino Gaspari

Valorizziamo

l’autoctono A COLLOQUIO, DOPO I RECENTI RICONOSCIMENTI INTERNAZIONALI, CON CELESTINO GASPARI. IL PRODUTTORE PARLA DELLE SUE “SCELTE AUTOCTONE”, A COMINCIARE DALL’OSELETA

j di Paolo Lucchi i

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L’OSELETA Celestino Gaspari

elestino Gaspari ha scelto di vinificare l’Oseleta in purezza. «È un vitigno presente in Valpolicella dalla fine dell’Ottocento, inizialmente sconsigliato ai produttori per la sua scarsa resa. Appartiene quindi alla nostra storia, e questo è un fatto che io certamente non sottovaluto». Il titolare dell’Azienda Agricola Zymè di San Pietro in Cariano, in provincia di Verona, è uno dei personaggi più noti ed eclettici del panorama vinicolo veneto. E ha fatto sua l’importante battaglia per la valorizzazione dell’autoctono.

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Anche per questo ha scelto di investire sull’Oseleta? «Esatto, ormai da 12 anni, e non solo per abbinarlo ad altri vitigni com’è per l’Harlequin, il Kairos e per tutti i nostri Valpolicella Doc. Ho deciso di vinificarlo anche in purezza, curioso come sempre di vedere dove potevo arrivare, e sono ormai dieci anni che lo produciamo». Dopo dieci anni si ritiene soddisfatto della sua scelta? «Non sono mai definitivamente soddisfatto. Guai altrimenti. Mi fermerei e probabilmente mi annoierei. Amo la sfida e i risultati si misurano nel tempo, in un continuo divenire, mai definitivo perché l’orizzonte si apre sempre più, si sposta anno dopo

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anno in avanti, sia nel vigneto che in cantina. In 12 anni la pianta si è fatta più bilanciata sotto il profilo vegetativo, è cresciuta, maturata arricchendosi nell’ambiente. Se inizialmente produceva frutti con acini piccoli, con tannini piuttosto aggressivi e reattivi, ora i grappoli e gli acini sono leggermente più grandi, con maggior peso specifico, e danno un vino più morbido, complesso, variopinto ed elegante. In cantina, poi, il vino ha maturato l’espressione, si è arrotondato esaltando le sue caratteristiche distintive. Dopo 10 anni di produzione, sì, possiamo fare il punto della situazione e affermare con tutta tranquillità che siamo davanti a un altro grande vino». Quali caratteristiche ha? «Nel tempo l’Oseleta ha maturato le sue caratteristiche specifiche, si sono modificate le sensazioni più legate al terreno, dalla graffite siamo passati all’argilla, dall’erbosità al caffè tostato, al muschio, direi alla carruba. Pur mantenendo una gradevole mineralità, si sono evidenziati i sentori di frutti di bosco. Nel profumo prevalgono il ribes nero e la mora selvatica, nel sapore i frutti rossi, il sottobosco, ancora il ribes nero e un po’ di mirtillo. Leggermente allappante, si abbina con gratificazione del palato a pesci grassi, al-

l’anguilla, a formaggi di media stagionatura, alle zuppe di legumi, alle carni alla griglia, ai bolliti». Parlare di grandi vini con lei è per certi versi scontato. Cosa mi dice dei recentissimi risultati arrivati dagli Stati Uniti? «Cosa vuole che le dica, è una grande soddisfazione quando giudicano così positivamente quello che fai, soprattutto se è la passione a guidarti nella fatica e nell’impegno quotidiani. E Robert Parker è un giudice molto prestigioso e valente. Il fatto che abbia assegnato oltre 90 punti a sei dei sette vini testati è molto importante per noi e, non lo nascondo, per il mercato. Anche perché esportiamo più dell’80% dei nostri vini e si sa che a livello internazionale ogni suo giudizio pesa. Inoltre devo dire che i 97 punti assegnati all’Harlequin 2006, il nostro prodotto di punta, e i 95 al nostro Amarone della Valpolicella Classico 2004, sono veramente un risultato notevole, che tuttavia non ci sorprende e sicuramente ci incentiva a proseguire nella strada intrapresa».

In apertura, in alto, tipico grappolo di Oseleta. Sotto, Celestino Gaspari. In questa pagina, una bottiglia di Oseleta e il vigneto del 1999 nella tenuta “La Musella” www.zyme.it

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Il più francese tra gli italiani DA UVE SELEZIONATE E DALLE TECNICHE USATE PER LA PRODUZIONE DELLO CHAMPAGNE, NASCE UNO SPUMANTE CHE NON HA NULLA DA INVIDIARE ALLE BOLLICINE D’OLTRALPE. IL METODO CLASSICO DI ZAMUNER

j di Eugenia Campo di Costa i

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SPUMANTI ITALIANI Daniele Zamuner

ei ettari vitati, 40 mila bottiglie prodotte ogni anno, 30 mila delle quali di bollicine. Sono i numeri dell’azienda veronese Zamuner, che da quasi trent’anni produce “il più francese degli spumanti italiani”. I vigneti sorgono a Sona, sulle colline moreniche del Garda. Coltivati a Pinot nero, Pinot meunier e Chardonnay, sono stati avviati nel 1982. Da questi vigneti nasce il Brut Metodo Classico Riserva Villa La Mattarana, uno spumante che ha già ottenuto nel corso degli anni numerosi riconoscimenti nelle principali guide enogastronomiche italiane e che anche quest’anno si è aggiudicato un soddisfacente terzo posto alla terza edizione del challenge internazionale Euposia, dedicato al metodo classico. «Non dovendo sottostare ad alcun disciplinare, il nostro Brut metodo classico utilizza gli stessi vitigni utilizzati da secoli nella regione dello champagne ed è apprezzato per il perlage finissimo, il bouquet ampio e l’interessante lunghezza di bocca» afferma Daniele Zamuner. La somiglianza al “cugino” è merito anche della fase di realizzazione del metodo classico Zamuner, in cui vengono utilizzate molte delle tecniche abitualmente impiegate nella produzione d’Oltralpe. «Non ricorro al metodo charmat, con rifermentazione in autoclave, ma a quello della rifermentazione direttamente in bottiglia, noto come “Metodo Classico”. Impiego inoltre esclusivamente le nostre uve delle quali seguo attentamente ogni fase vegetativa» spiega Daniele Zamuner che è uno tra i pochi in Ita-

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lia a utilizzare anche il Pinot meunier. Per le fermentazioni vengono utilizzati ceppi di lieviti selezionati dall’Istituto Enologico dello Champagne studiati per la rifermentazione in bottiglia. «Le basi spumante – spiega Zamuner – rimangono per lungo tempo sui lieviti, affinché gli uvaggi sprigionino tutte le loro potenzialità». Nello specifico, il Brut Metodo Classico Riserva La Mattarana è prodotto vinificando le migliori uve di Pinot nero (70%), Pinot meunier (20%) e Chardonnay (10%), coltivate su terreni di origine morenica, ciottolosi, con poca argilla, a un’altitudine media di 170 metri slm. «Dopo la vendemmia – spiega Daniele Zamuner - si procede al raffreddamento dell’uva e alla successiva pressatura, in modo di poter canalizzare i mosti fiore ottenuti alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati». Questa fase si protrae per 10 -12 giorni, alla temperatura di 18° C e si svolge all’interno di botti in vetroresina con pareti interne vetrificate che non cedono cromo anche in presenza di mosti ad elevato tenore di acidità fissa. Qui i mosti rimangono fino al marzo dell’anno successivo. «Si procede quindi all’assemblaggio delle partite, poi all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti da un minimo di 30 mesi dalla messa in bottiglia per i Brut più giovani ai circa 90 mesi delle nostre riserve millesimate in vendita normale. Al termine di questi periodi di permanenza sui lieviti, a seconda delle ti-

pologie, si effettuano il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come “sboccatura”, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’expedition» continua Zamuner che, incredibilmente, è riuscito a ottenere tutto questo da neofita, guidato solo dalla passione e dalla curiosità che l’hanno portato in giro per il mondo a fare suoi i “trucchi del mestiere”. Il suo spumante è ricco di personalità e carattere, si presenta all’esame visivo con un colore giallo paglierino dai brillanti riflessi dorati e con un perlage fine, leggero e persistente; al naso, è profondo e intenso, si manifesta immediato, schietto e fresco. Un bouquet che in certi momenti può ricordare le note acidule del caglio del formaggio, per poi orientarsi su nuances biscottate e accenni floreali di glicine e ginestra. In bocca è elegante, strutturato, fine e capace di armonizzare una sostenuta acidità a una bella sapidità; lungo e persistente, rimanda a una piacevole voglia di riempire il bicchiere.

In apertura, panoramica di Villa La Mattarana, dell’azienda Zamuner. Sotto Daniele Zamuner. Qui sopra, il Brut Metodo Classico Riserva Villa La Mattarana www.zamuner.it

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VALPOLICELLA Roberto e Riccardo Guido Recchia

Dal rispetto della terra e della vite

j di Eugenia Campo di Costa i

al 1906, la famiglia Recchia ha sempre avuto la vocazione a fare vino, riflettendo lo spirito della terra. I fratelli Riccardo Guido e Roberto Recchia guidano oggi l’azienda agricola Fratelli Recchia che sorge nel cuore della Valpolicella e affianca il saper fare vino alla scienza enologica, le cantine in tufo alla tecnologia avanzata, la degustazione al dettaglio al-

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l’esportazione globale. «Il nostro modo di vivere e di fare imprenditoria nasce dal rispetto per la terra e la vite» afferma Riccardo Recchia. «Non solo amore per la coltura – interviene Roberto – ma anche per la cultura della vite: un sapere che si evolve nel tempo, grazie allo studio e al monitoraggio del suolo, della sua composizione e conformazione e a un’attenta scelta di sesto e tipologia di impianto».

DAI VINI PIÙ TRADIZIONALI ALLE GRANDI SELEZIONI. ROBERTO E RICCARDO GUIDO RECCHIA DESCRIVONO IL LORO AMORE PER LA COLTURA E PER LA CULTURA DELLA VITE

Su quali varietà si concentra soprattutto la vostra produzione? Roberto Recchia: «La produzione spazia dal Valpolicella Classico al Superiore, dall’Amarone, al Ripasso. Amiamo portare avanti la tradizione del Bardolino, ma anche la riscoperta dei bianchi del Garda. E poi abbiamo il Recioto, il Passito. Da uno studio attento delle peculiarità di ogni vigneto nascono inoltre le nostre Sele-

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zioni: vini molto apprezzati, come l’Amarone Ca' Bertoldi, il Recioto Classico, l’elegante Passito Le Vigne Bianche e il Valpolicella Ripasso Le Muraie, ottenuto facendo rifermentare il Valpolicella Superiore sulle vinacce di Recioto ancora intrise di vino dolce». Come avviene la vendemmia? Roberto Recchia:«Si fa rigorosamente a mano, nel rispetto della vite e dei ritmi di crescita e maturazione del frutto. Dalla metà di settembre si inizia la raccolta delle uve destinate alla produzione di Recioto e Amarone. Vengono selezionati solo i grappoli migliori, totalmente integri e che non hanno ancora raggiunto la piena maturazione, affinché sostengano

il lungo appassimento fino a gennaio, febbraio. Dai primi di ottobre è invece il momento dei grappoli ormai maturi destinati alla produzione dei vini Valpolicella». La vostra è un’azienda tradizionalmente a gestione familiare. Chi lavora oggi in azienda? Riccardo Guido Recchia: «Io seguo la direzione generale della cantina, Roberto gestisce direttamente la campagna. I figli di Roberto, Elisa e Luca gestiscono rispettivamente il punto vendita e l’imbottigliamento. I miei figli sono Chiara, responsabile amministrativa, marketing e commerciale ed Enrico, responsabile della

qualità e della produzione». Un tempo le vostre famiglie abitavano in quella che è l’attuale cantina dell’azienda agricola. Come si struttura? Riccardo Guido Recchia: «È una cascina restaurata e riadattata per ospitare i vini e il loro mondo. Al pian terreno troviamo, oltre all’indispensabile corredo tecnico e tecnologico per la lavorazione del frutto e per il controllo sanitario dell’intera filiera, i grandi fruttai per l’appassimento delle uve, la linea di imbottigliamento e lo spaccio per la degustazione e la vendita. Nelle cantine trovano posto i grandi tini d’acciaio per la fermentazione del Valpolicella e gli ambienti per l’affinamento in botte e in bottiglia. Nella cantina in tufo, infine, si trovano le botti in rovere per l'affinamento dei grandi rossi».

In apertura, Riccardo Guido Recchia. In alto, dettagli della cantina. Sopra, Roberto Recchia. A sinistra uno dei prodotti dell’azienda www.recchiavini.it

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IL VALPOLICELLA Stefano Cottini

Dalla campagna

alla cantina DAL TERRITORIO DI APPARTENENZA HA EREDITATO NON SOLO IL NOME MA ANCHE UNA TRADIZIONE VINICOLA ANTICA E RINOMATA: È IL VALPOLICELLA. NE PARLA STEFANO COTTINI

di Francesco Bevilacqua Gusto • 92

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IL VALPOLICELLA Stefano Cottini

n vino diffuso, conosciuto e sempre più apprezzato, ultimamente anche dai giovani e dalle donne. Ma soprattutto un prodotto legato a doppio filo con la campagna veronese, elaborato ancora ricorrendo a metodi tradizionali che si tramandano da centinaia di anni. «I nostri vini nascono in campagna e non in cantina», ama ripetere Stefano Cottini, dell’azienda agricola Scriani, che da generazioni produce Valpolicella. «Si lavora sulla qualità dell’uva, non sulla chimica. Se la struttura c’è e si ottiene in campagna, diventa facile lavorare in cantina; in caso contrario il cantiniere diventa un chimico. Io mi ritengo un vitivinicoltore e non un enologo».

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Quali sono le caratteristiche del Valpolicella? «Gli uvaggi base sono corvina, corvinone, rondinella e piccole percentuali di molinara e oseleta. Ultimamente si stanno riscoprendo la dindarella e altri vecchi vitigni veronesi da tempo scomparsi. Le caratteristiche del Valpolicella classico sono una buona acidità, freschezza e profumo. Nel

Valpolicella superiore esce dall’uvaggio la molinara ed entrano piccole percentuali di croatina. Il Valpolicella ripasso è uno dei prodotti più consumati a livello europeo, nasce dagli uvaggi del Valpolicella classico fatto rifermentare sulle bucce del racioto e dell’amarone e si può collocare fra il Valpolicella classico e l’amarone». Nella coltivazione utilizzate il sistema della pergola veronese. Di cosa si tratta? «Diciamo che rispetto ai vitigni classici come cabernet o merlot, che amano una potatura corta, i vitigni autoctoni veronesi amano una potatura lunga; le prime gemme non sono fertili e portano solamente i tralci per la riproduzione. Lasciando troppe poche gemme in vigna il grappolo diventa compatto e la maturazione non è perfetta. La pergola consente di evitare le scottature estive, di cui i nostri uvaggi soffrono. I grappoli devono essere esposti all’aria ma non direttamente al sole e la pergola fa un po’ da ombrellone e mantiene i grappoli più piccoli e più spargoli». Un sistema tradizionale che

privilegia la varietà, quindi. «L’aria protegge naturalmente da funghi e parassiti: si abbassa il numero dei trattamenti ottenendo dei risultati migliori. Il sistema che usiamo è tipico delle nostre terre e ha centinaia di anni; dei tecnici hanno provato a modificarlo ma quasi tutti i viti-vinicoltori stanno tornando alle origini. Solamente alcune aziende che operano a livello industriale meccanizzando la produzione adottano il più diffuso sistema dei guyot, ma per esperienza personale posso dire che a livello qualitativo la pergola offre dei risultati migliori».

In apertura, cantina dell’azienda agricola I Scriani di Fumane (VR). In questa pagina, alcune fasi della raccolta www.scriani.it

Qual è il fiore all’occhiello della vostra azienda? «Il nostro vino di punta è l’amarone. L’uva viene raccolta in genere dalla metà di settembre alla metà di ottobre, viene fatta appassire in fruttaio per circa novanta-centodieci giorni, viene pigiata a gennaio-febbraio e fermenta in tini di legno. L’amarone Scriani vive pressoché sempre in legno, dalla fermentazione all’imbottigliamento. Per poterlo addomesticare, renderlo bevibile, ha bisogno di un lungo tempo di maturazione e il legno, essendo una sostanza viva, facilita questo processo, aiuta la traspirazione e permette di raggiungere risultati migliori a livello di morbidezza».

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IL VALPOLICELLA San Rustico

Tradizioni centenarie LA VALPOLICELLA È TERRA DI TRADIZIONI, OGGI AFFIANCATE DALLA TECNOLOGIA MA SEMPRE IMPRONTATE ALLA GENUINITÀ E ALLA NATURALITÀ

j di Amedeo Longhi i na “militanza” di lunghissima data come viticoltori e vinificatori, una tradizione familiare che affonda le sue profonde radici nel 1870, un legame particolarmente stretto con la terra – testimoniato dalla linea più esclusiva della cantina il “Gaso”, che prende il nome dallo storico podere di famiglia –, gli antichi metodi di coltivazione e vinificazione della Valpolicella an-

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cora vivi e attuali. Tutto questo è rappresentato dai Campagnola, proprietari da quasi un secolo e mezzo dell’azienda agricola San Rustico di Valgatara di Marano di Valpolicella. Parliamo con Marco Campagnola, che cura oggi la conduzione dell’attività. Tre aggettivi per definire i vini della vostra zona? «Fini, intensi e dotati di una buona persistenza. I nostri vini

hanno una tipicità tutta loro, dovuta all’uvaggio che li compone. Pur essendo provvisti di una certa alcolicità, di una certa struttura, difficilmente sono pesanti e stanchevoli, perché diventano impegnativi solo dopo la fase di appassimento delle uve. Esiste un vino adatto a ogni occasione: il Valpolicella classico, quello un po’ beverino, i superiori e il superiore di ripasso più intenso, l’amarone, di grande personalità, e il recioto

Nell’altra pagina, nella foto in alto, Marco ed Enrico Campagnola. Nelle altre immagini, vedute dell’azienda agricola San Rustico di Valgatara di Marano (VR) www.sanrustico.it

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IL VALPOLICELLA San Rustico

per il dessert». Cosa ci vuole per produrre un buon vino? «Prima di tutto un buon sole, una buona terra, una buona esposizione. Poi ci vuole il bel tempo, inteso non come un clima piacevole ma come condizioni meteorologiche adatte alla coltivazione, con sole, un po’ di pioggia – poiché noi non abbiamo irrigazione artificiale – e poche tempeste violente. La produzione di una buona qualità di vino è un insieme di cose, tutto deve amalgamarsi, deve svilupparsi e deve arrivare a dare il massimo che la materia prima, cioè il grappolo d’uva, può offrire. Se tutto va bene, cioè se c’è la giusta quantità di piogge, la giusta insolazione, la giusta quantità di ore di luce, si può ottenere un prodotto valido, dall’acidità abbastanza sostenuta e non troppo bassa, perché se la maturazione “scappa” il grappolo diventa cotto, finito e non ha più qualità». L’eccellenza della vostra gamma è l’amarone Gaso. Che caratteristiche ha? «È fatto in una zona particolarmente vocata alla produzione di questo tipo di vino e ciò ne fa il nostro cavallo di battaglia. Ci serviamo di tecniche arcaiche, anche per quanto riguarda la scelta dei legni. Non si usano barrique piccole, ma solamente botti grandi, da almeno venti ettolitri. La fermentazione avviene in tempi abbastanza lunghi perché è un vino con molta concentrazione, è pa-

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recchio strutturato e con una gradazione alcolica piuttosto elevata. È certamente uno dei vini più rappresentativi della nostra terra. Il suo abbinamento ideale è con la selvaggina, anche se tanti nella zona di Verona, vista la sua struttura così importante, lo utilizzano anche come amaro da fine pasto, come vino da meditazione». Nel corso degli anni sono cambiati diversi aspetti della vostra attività e il progresso tecnologico ha portato dei cambiamenti. Quali nello specifico? «Ci ha dato soprattutto la possibilità di ovviare agli inconvenienti climatici, all’eccessiva umidità e a tutti i problemi di conservazione delle uve. Abbiamo attrezzato i fruttai e adesso possiamo salvare il prodotto senza ricorrere ad appassimenti artificiali ma intervenendo solo in casi di umidità eccessiva e troppo prolungata. Anche per quanto riguarda la vinificazione, quando le temperature sono troppo elevate possiamo disporre di vasche termocontrollate e scegliere il grado di temperatura ottimale per far fermentare il vino, mantenendone così la qualità». Ciò che non è mai cambiato è la continuità nel segno della tradizione vinicola. «Certo, perché il rispetto della tradizione è determinante non solo per la qualità del prodotto finale ma anche per il nostro attaccamento agli uvaggi tipici della Valpolicella, la corvina, la rondi-

Fini, intensi e dotati di una buona persistenza. I nostri vini hanno una tipicità tutta loro, dovuta all’uvaggio che li compone

nella e la molinara. Noi abbiamo sempre vinificato quelli, siamo fedeli alla nostra zona: è un amore e una tradizione familiare, lo è stata per papà, per il nonno, per il bisnonno e via indietro finché si ha memoria». Per lei cosa rappresenta un grappolo d’uva? «Un buon inizio...».

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ROSSI DI VALPOLICELLA Valentina Cubi

Dal grappolo

al rubino CON REMINESCENZE DI FRUTTA E SPEZIE. GRANATO, RUBINO, VIOLACEO. IL ROSSO DI VALPOLICELLA, NELLE VARIANTI DELLA CANTINA VALENTINA CUBI, PROFUMA DI RINNOVATE TRADIZIONI

j di Adriana Zuccaroi l’esempio di un vigoroso processo di modernizzazione delle tecniche di lavorazione dell’uva unito al grande rispetto dell’antica tradizione vinicola radicata nelle terre che circondano le Prealpi Veronesi: in un antico borgo settecentesco posto alle pendici delle prime colline della vallata di Fumane, la cantina dell’azienda agricola Valentina Cubi “sforna” rossi di Valpolicella dai colori intensi, granato e rubino, ed eleganti profumi di note fruttate. «Ognuna delle attività che partecipano alla

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produzione di un buon vino è sempre stata svolta nel pieno rispetto del tradizionale rapporto tra ambiente e cultura che caratterizza questo luogo – spiega Valentina Cubi –. Ed è proprio da questa stretta relazione che nasce la scelta di mantenere, durante tutti i lavori di ripristino degli immobili, le caratteristiche e le tipologie originali dell’antica struttura: una corte aperta, che si affaccia verso la piana della valle». Così il termine dei lavori di ristrutturazione della cantina nel 2003, segnò la nascita dei primi vini imbottigliati con il

marchio “Valentina Cubi”: frutto di una sana e forte tradizione locale, dell’amore per la terra e della passione per la viticoltura. Distribuendo i vigneti su una superficie di circa 13 ettari dislocati tra i comuni di Fumane, San Pietro in Cariano e Verona, «la parziale sostituzione delle pergole esistenti e l’introduzione di nuovi sistemi di allevamento quale la spalliera a guyot, hanno consentito di ottenere un aumento delle qualità del frutto con una proporzionale riduzione della quantità prodotta». Il rinnovamento dei vi-

In queste pagine, scorci del vitigno ed esterno dell’azienda agricola Valantina Cubi di Fumane (VR) www.valentinacubi.it

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ROSSI DI VALPOLICELLA Valentina Cubi

MORAR - AMARONE DELLA VALPOLICELLA CLASSICO · Gradazione alcolica: 15,5 % volume · Zona di produzione: Monte Tenda, Monte Crosetta, Rasso · Uve: Corvina 70%, Corvinone 25%, Rondinella 5% · Aspetto: rosso granato intenso · Bouquet: spezie a volontà contornate da sensazioni di frutta matura · Abbinamenti: carni rosse, selvaggina, formaggi stagionati

tigni ha inoltre previsto la realizzazione di un nuovissimo impianto a guyot su un’area pedecollinare di circa 3 ettari a ridosso della città, nei pressi dell’abitato di Parona, dove «è stata costruita anche una moderna sede staccata della cantina destinata alla produzione di vino biologico». La conformazione collinare dei terreni e il sistema di allevamento che non consente la meccanizzazione della vendemmia,

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la necessità di differenziare la raccolta dell’uva per l’appassimento da quella per la vinificazione autunnale, costituiscono i motivi per cui, ancora oggi, presso l’azienda Valentina Cubi la raccolta avviene manualmente. «Il vino deve contenere la magia alchemica che solo il legame con la terra d’origine può conferire ai suoi frutti – precisa l’esperta –. Una piacevole sinergia che si può sperimentare entrando in stretto contatto con i luoghi di produzione e con la calda accoglienza della cantina». Ecco perché quella di Valentina Cubi è piacevolmente attrezzata per tale scopo. «Il calore di una tavolata imbandita e l’assaggio della prelibatezza della cucina locale accompagnata dai vini più adatti, rappresentano l’occasione ideale per assaporare i cibi e i vini in compagnia».

Dalle principali varietà autoctone della zona, Corvina, Corvinone, Rondinella e Molinara, i vini prodotti dalla cantina Valentina Cubi sono all’insegna della tipicità. «Dalla produzione del Valpolicella Classico “Iperico”, fragrante e fruttato, giungiamo al Valpolicella Superiore “Il Tabarro” e Valpolicella Superiore Ripasso “Arusnatico”, eleganti e intensi. Continuiamo con l’ampio e aristocratico Amarone Morar fino al suadente recioto Meliloto di grande intensità, per finire con il “qb”, pieno e di ottima persistenza». Una particolare cura è stata posta nella produzione di un’intensa acquavite, distillata da vinacce di amarone e recioto e di un olio extravergine di oliva dalle ottime caratteristiche organolettiche.

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VALPOLICELLA Marco Fraccaroli

Custodi della tradizione I SAPORI E I PROFUMI DELLA MIGLIORE TRADIZIONE ENOGASTRONOMICA ITALIANA SI INTRECCIANO DANDO VITA AD ESPERIENZE MULTISENSORIALI. L’ESEMPIO DELLE AZIENDE FRACCAROLI

j di Erika Facciolla i uella enologica è una tradizione millenaria, perpetrata e tramandata nei secoli attraverso il lavoro di famiglie che di generazione in generazione, di padre in figlio, mantengono viva una delle eccellenze enogastronomiche del made in Italy più apprezzate nel mondo. Sono molte le cantine e le aziende agricole del settore dedite alla produzione di

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vini e distillati di alta qualità, le cui storie si intrecciano indissolubilmente al territorio di appartenenza: sapori e profumi di una volta che rivivono in preziosi calici, svelandosi sorso dopo sorso. Uno di questi ‘custodi’ della trazione è la famiglia Fracca- In queste pagine Luca Fraccaroli e la villa roli che conduce da quattro di famiglia, sede aziendale generazioni aziende agricole per i corsi culinari e le cantine in Veneto e Friuli Venezia vinicole Fraccaroli, Giulia. La garanzia di questa Lavagno (VR) continuità è data dalla www.domenicofraccaroli.com

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VALPOLICELLA Luca Fraccaroli

DOM DOMI SPUMANTE EXTRA DRY · Vinificazione: lo spumante è affinato in autoclave per 4 mesi e in bottiglia per altri tre mesi prima di essere messo in vendita · Colore: giallo paglierino brillante con riflessi verdognoli · Perlage: fine. La spuma è persistente, presenta un leggero profumo floreale con note di fiori di acacia e un armonico e avvolgente fruttato di mela grande passione per la terra, che merita cura e attenzioni particolari per ottenere i prodotti migliori. Ne parliamo con Luca Fraccaroli, rappresentante dell’ultima generazione della famiglia, enologo e portavoce delle aziende Villa Cartatti e Grotta del Ninfeo, specializzate nella produzione di Amarone Doc e Friulano Doc. Secondo Fraccaroli «un vigneto dà buoni frutti se la preparazione del terreno è fatta con rispetto e consapevolezza. Anche le scelte varietali e clonali delle uve devono essere effettuate con l’esperienza di generazioni attraverso le evoluzioni più moderne filtrate e adattate al territorio». È lo stesso enologo a svelarci il segreto della produzione di un buon vino che comincia con la conoscenza approfondita delle uve e delle tecniche di coltivazione della vite. «Solo una cultura della vite permette poi di dare alle uve e successivamente ai vini quella caratteristica inconfondibile del binomio terra-uomo». Una tradizione dove il grande protagonista, il vino, rappresenta qualcosa di più di un semplice prodotto. L’azienda, negli anni, ha infatti dato vita ad un lungimirante progetto formativo concretizzatosi

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· Sapore: colpisce per rotondità e armonia accompagnato con un piacevole e progressivo sviluppo carbonico · Abbinamento: ottimo come aperitivo si esalta con gli antipasti e in particolare si sposa bene con tutte le pietanze a base di pesce · Temperatura: va servito a 6-8° C

nella creazione di un’officina di cucina dove, oltre al buon bere, gli chef svelano anche i segreti della buona tavola. È sempre Luca Fraccaroli ad affermare che «il vino rappresenta un elemento millenario dell’affinamento al conoscere dell’uomo per migliorare la propria esistenza, ecco perché, come corollario logico e non minore, abbiamo abbinato al bere il mangiare, cercando di avvicinare altre colture alla conoscenza della cucina italiana attraverso corsi culinari, tenuti da cuochi italiani». È proprio nella residenza Settecentesca di famiglia, incastonata nel comprensorio della Valpolicella classica che è stata allestita una cucina professionale. «Guidati passo dopo passo dai mastri chef – sottolinea Luca Fraccaroli - gli allievi imparano i trucchi della prepara-

zione di piatti tradizionali della nostra terra, per poi visitare le cantine e i giardini all’italiana per poi cenare assieme nei saloni della villa con le pietanze preparate durante il corso». La scuola di cucina può ospitare ventiquattro allievi, numero ideale per poter essere seguiti dagli chef durante le lezioni e per rendere ancora più familiare la cena tra amici degustando i vini dell’azienda. Una delle ricette di punta è il risotto Dom Domi, preparato con l’omonimo spumante, fiore all’occhiello dell’azienda: «Gli ingredienti principali di questo piatto – spiega l’enologo – sono il riso vialone nano, grana padano, olio, brodo vegetale e lo spumante Dom Domi. A cottura ultimata il risotto dovrà risultare all’onda e la bottiglia di Dom Domi finita».

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Cinque secoli di storia ALLA SCOPERTA DELLE SUGGESTIVE PROPRIETÀ DI ALLEGRINI, BANDIERA DELLA QUALITÀ VINICOLA MADE IN VALPOLICELLA

di Andrea Moscariello on dev’essere facile portare avanti una tradizione secolare. Eppure Marilisa Allegrini ha tutt’oggi in sé quell’entusiasmo e quella passione per i frutti della terra che la sua famiglia possiede sin da quando, nel 1557, Allegrino Allegrini riuscì ad acquisire il diritto di sfruttare alcune "fontanelle" o "sorzive" di Mazzurega, una fra-

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zione di Fumane, per irrigare facilmente le sue proprietà. Fra il 1616 e il 1630, come testimoniano atti e trascrizioni dell'epoca, la famiglia Allegrini rientrava tra quelle che a Fumane possedevano la maggiore quantità di terreni, assicurandosi con ciò una certa preminenza all'interno della comunità locale. Oggi Allegrini è associato ad alcune delle più apprezzate e ricono-

sciute produzioni vinicole della Valpolicella. Corvina Veronese, Corvinone, Rondinella, Molinara e Oseleta, questi i vitigni che permettono all’azienda di rappresentare al meglio l’intero e variegato patrimonio ampelografico della Valpolicella. In particolare, come spiega Marilisa Allegrini, «La Corvina Veronese, il più nobile dei vitigni autoctoni veronesi, si

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VALPOLICELLA Allegrini

caratterizza per una buona vigoria, che trova contenimento in terreni poveri, di origine alluvionale, a composizione argilloso-calcarea, ben esposti e ventilati. Permette di ottenere un vino di colore intenso, elegante e strutturato di notevole freschezza e con un buon tenore tannico». Uno dei poderi simbolo dell’azienda, situato a Fumane, prende il nome dall’adiacente Villa della Torre, straordinaria testimonianza del rinascimento italiano: un gioiello architettonico, anch’esso di proprietà della famiglia Allegrini, e opera del maestro Giulio Romano. Altro podere storico della famiglia è quello de La Grola, situato nel comune di Sant’Ambrogio ed esteso su una superficie di circa 30 ettari. Un vigneto che racchiude tuti i caratteri distintivi della Valpolicella, da sempre rinomato per la sua

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LA GROLA 2008 Vino di buon corpo, intenso ed elegante, ha un colore rosso rubino carico. A distinguerlo è anche il suo profumo ampio e avvolgente, con note di frutti di bosco unite a sentori di ginepro, tabacco e caffè. Prodotto con Corvina Veronese e Syrah provenienti dell’omonimo vigneto – uno dei più prestigiosi, per storia e posizione, della Valpolicella Classica – questo vino si conferma come uno dei maggiori successi per l’azienda Allegrini. L'alta densità di impianto e le conseguenti basse rese per ettaro contribuiscono a conferire a questo prodotto la caratteristica concentrazione e la marcata espressione aromatica. Può invecchiare per 10 o 12 anni.

straordinaria posizione geografica, per il clima mite di cui gode e per la qualità delle uve prodotte. «Il primo impianto del 1979, allora rivoluzionario data l’introduzione del Guyot e l’aumento dei ceppi fino ad una densità di circa 4.200 per ettaro, fu programmato con lo scopo di valorizzare la Corvina, il vitigno più rappresentativo della zona – racconta Marilisa Allegrini . Nel successivo impianto, avvenuto nel 1998, la densità è stata aumentata fino a 6.500 ceppi/ha». Attualmente, oltre alla Corvina, viene coltivato in percentuali limitate il Syrah. «Le grandi innovazioni messe in atto da un punto di vista viticolo, associate ad un microclima decisamente

unico e favorevole, ci regalano delle uve di indiscussa qualità – spiega la proprietaria, tra gli altri, anche dei vigneti La Poja, Villa Giona, Villa Cavarena, Fieramonte, e Monte dei Galli -. In un’epoca in cui la viticoltura veronese si orientava verso un concetto puramente quantitativo, le nostre produzioni hanno da sempre espresso un concetto legato alla qualità senza compromessi. Anche per questo Allegrini è un nome che, per molti versi, viene considerato bandiera di una viticultura anticonvenzionale e profondamente innovativa che è stata capace di aprire nuove prospettive di mercato e di conquistare il pubblico e la critica internazionale».

In apertura, Villa della Torre Allegrini; in basso a sinistra Marilisa, Silvia e Franco Allegrini; sopra una veduta del Podere La Grola www.allegrini.it

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COLLI EUGANEI Il Filò delle Vigne

A sud dei Colli Euganei È L’AZIENDA VINICOLA POSIZIONATA PIÙ A SUD DI TUTTI I COLLI EUGANEI. PER QUESTO I VINI POSSIEDONO UNA STRUTTURA E UN’ARMONIA DEL TUTTO PARTICOLARE

j di Nicoletta Bucciarellii ecchie piante d’olivo, mandorli, melograni, giuggiolo, alloro, cipressi, querce, rose selvatiche, orchidee spontanee e ginestre. È questo l’habitat in cui si trova l’azienda agricola il Filò delle Vigne, ubicata in un microclima eccezionale e attraversata da una particolare luminosità. Pinot Bianco Vigna delle Acacie, Calto delle Fate Bianco Igt, Cabernet Riserva Vigna Cecilia di Baone, Cabernet Riserva Borgo delle Casette. Sono alcuni dei vini rappresentativi del carattere forte e dell’anima del territorio Euganeo. Ne parliamo con Nicolò Voltan, socio de Il Filò delle Vigne.

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Nicolò Voltan è socio de Il Filò delle Vigne di Baone (PD) www.ilfilodellevigne.it

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Quali sono le caratteristiche dei terreni della vostra zona? «I Colli Euganei, sono caratterizzati da terreni calcarei di origine sedimentaria e silicei di origine vulcanica. Tra i terreni calcarei, dove cresce e si sviluppa sufficientemente bene la vite, il migliore è quello di origine marnosa. Fra il gruppo dei terreni vulcanici si distinguono i terreni basaltici, i più fertili. Sono ricchi di fosforo, con un equilibrato contenuto di potassio, calcio e magnesio, elementi minerali presenti nella forma più adatta per la nutrizione della vite. È la “vita” della terra a nutrire le piante con le specificità organominerali tipiche di ogni territorio. Ogni terroir per la sua esposi-

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COLLI EUGANEI Il Filò delle Vigne

zione al sole, per la sua inclinazione, per il clima e per la sua costituzione, ha reazioni fisiologiche diverse nella pianta. Nell’areale dove sono coltivate le viti, a sudest e a sud-ovest del Monte Cecilia, estrema parte a mezzogiorno dei Colli Euganei, insiste un orizzonte climatico più mite rispetto agli altri versanti. I valori massimi d’insolazione si verificano proprio a sud dei Colli, quando l’inclinazione del pendio si avvicina ai 45°; questo permette di avere un territorio ottimale per la creazione dei vini». Quanti gli ettari coltivati a vigna? «Attualmente sono coltivati a vigna 17 ettari mentre per altri 3

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ettari è in programma il re-impianto. L’allevamento delle viti, la cui età va dai 10 ai 25 anni, è a cordone speronato e a guyot. 5000 piante per ettaro che producono 900/1200 gr d’uva per ceppo. La difesa dai parassiti, come insetti e micro funghi, è fatta secondo tecniche che comportano il minor impatto ambientale e che permettono, nel contempo, anche un miglioramento qualitativo della produzione. La terra, l’esposizione, una quotidiana brezza, l’escursione termica tra il giorno e la notte caratterizzano l’unicità del terroir del Filò delle Vigne che dà uve eccelse, tutte vendemmiate manualmente, a maturità fisiologica e fenolica ottimale». E poi in cantina? «L’attento lavoro in cantina degli addetti (Zanaica-Boaretti) permette di ottenere vini con l’anima e l’identità del territorio, ricchi di profumo, eleganti, d’intensa piacevolezza sensoriale, armonici, di grande struttura, carattere e tannica nobiltà. Per alcuni vini poi si richiede una fermentazione parti-

colare. Il Borgo delle Casette Cabernet Riserva svolge la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese di media tostatura, matura in legno per 18–20 mesi e completa la evoluzione del potenziale organolettico per 6-10 mesi in bottiglia. Il Calto delle Fate Bianco IGT rimane nelle barriques circa 12 mesi ed esprime il meglio di sé dopo altri 4-6 mesi in bottiglia». Avete in preparazione qualche novità? «“Io di Baone” è il nome del nuovo vino in fase di studio. Questo è frutto di alcune antiche varietà di uve a bacca rossa delle 25 coltivate in una collezione ampelografica realizzata circa 30 anni fa in azienda con barbatelle forniteci dall’Istituto Sperimentale per la viticoltura di Conegliano. Rimane ancora da valutare attentamente, per non creare facili illusioni, quali saranno le potenzialità, le condizioni colturali e le tecniche di vinificazioni ottimali delle uve dei vitigni. A quel punto potremmo diffondere i risultati».

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LA ZONA DEL FRIULI GRAVE Roberto Pighin

Tra le Alpi e l'Adriatico NOTE UNICHE E IRRIPETIBILI CHE NASCONO DA CARATTERISTICHE GEOLOGICHE PARTICOLARI. I VINI DELL'AZIENDA FRIULANA PIGHIN

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LA ZONA DEL FRIULI GRAVE Roberto Pighin

e parliamo di vini bianchi, è facile pensare al Friuli Venezia Giulia come ad un santuario. Ed è in questa terra che è nata la Pighin, una realtà che ha contribuito a far conoscere questi vini oltre i confini della regione. 150 ettari di vigneti felicemente ubicati a Risano nel cuore delle Grave del Friuli (UD) e 30 ettari posizionati nella collina di Spessa di Capriva nel cuore del Collio (GO), interamente esposta a mezzogiorno. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due grandissimi terroir, posizionati tra le Alpi e il mare Adriatico, vanto di questa regione per i loro microclimi in grado di conferire al vino caratteristiche del tutto peculiari. In queste zone, a partire dal 1963, la famiglia Pighin, oggi nelle persone del patron Fernando e dei figli Roberto e Raffaella, coltiva l’amore per la terra e la passione per il buon vino. Una passione fondata su un preciso valore: la difesa a oltranza della qualità del vino prodotto in tutti i suoi fondamentali presupposti, dalle vigne alla tavola, possibile anche grazie alla professionale opera del competente staff tecnico di campagna e cantina capitanato dall’ enologo Paolo Valdesolo e dall’agronomo Manuel Bracco. Tra i vini dell'azienda spicca il Pinot Grigio e il tipicissimo Friulano, prodotti nei

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terreni di origine alluvionale che caratterizzano la zona Friuli Grave, che si esprimono con una misurata carica aromatica, grande equilibrio e una gradevole freschezza. Il Sauvignon e la Ribolla Gialla prodotti nella prestigiosa zona del Collio, sono vini di estrema eleganza che esaltano grande mineralità, suadenza al palato e all'olfatto. «L'ottenimento di un buon vino, sia bianco che rosso, spiega Roberto Pighin- parte dal concepimento della vigna. Fondamentale è la profonda conoscenza della natura dei propri terreni. L'esperienza e la passione dell'uomo nel coltivarla, supportata da mezzi tecnici all'avanguardia fanno il resto e mi permetta di dire: "Ciel permettendo" perchè l'andamento stagionale è ovviamente imprevedibile e determinante». Ma tra i bianchi e i rossi, i tempi di invecchiamento sono diversi. «I vini bianchi prodotti in zona Friuli Grave, per le loro caratteristiche si prestano ad essere bevuti relativamente giovani, possibilmente entro i primi 2 anni dall'epoca di vendemmia. Conservati adeguatamente in un ambiente idoneo, al riparo dalla luce o da potenziali shock termici, possono subire delle sorprendenti evoluzioni riservando gradite sorprese in termini di

complessità olfattiva e degustativa. I vini bianchi prodotti in zona Collio invece sono notoriamente più strutturatie si prestano senza problemi, idoneamente conservati, ad affinamenti anche di 3-4 anni. Questo perché vantano caratteristiche di mineralità ed eleganza superiore alla media. Non dobbiamo dimenticare che il Friuli è anche terra di eccellenti vini rossi per il grande equilibrio fra corpo e aromi fruttati con leggeri sentori di spezie. Cito i nobili Cabernet Sauvignon, il Merlot e il tipicissimo autoctono Refosco dal peduncolo rosso. Questi sono vini che oggi, grazie al grande impegno aziendale profuso nell'ultimo ventennio, mirato alla loro ulteriore valorizzazione, dalla terra alla tecnica di vinificazione, possono essere affinati a seconda delle annate anche per oltre un decennio». Una delle caratteristiche uniche dei vini friulani è la versatilità negli abbinamenti gastronomici. «Si va dalle pietanze a base di pesce, alle carni bianche, alle verdure di stagione senza dimenticare i formaggi di tutte le stagionature e gli insaccati. Un abbinamento un po' inusuale? Il grande principe dei vini da dessert, il Picolit Collio D.O.C. con un pezzettino di formaggio stagionato».

Fernando e Roberto Pighin della Fernando Pighin&Figli di Pavia di Udine (Ud). Nella foto in basso, una bottiglia di Sauvignon Collio www.pighin.com

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Dal bianco“gess” al rosso “Grill” CLIMA, TERRENO E VITE. SONO GLI ELEMENTI CHE RENDONO UNICO OGNI VINO. MA NELLE PAROLE DI DEVIS E TIZIANO COBELLI, C’È LA DEDIZIONE DI CHI LO PRODUCE

di Adriana Zuccaro

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BIANCHI E ROSSI TRENTINI Devis e Tiziano Cobelli

l fascino racchiuso in ogni fase della produzione vinicola rappresenta un’esperienza imprenditoriale ma anche estetica, quindi concepita come piacere della bellezza implicita del “fare vino”, sempre legata alla capacità di ogni bianco, rosso, rosato e spumante di trasmettere le peculiarità del territorio da cui proviene. «Impossibile non riconoscere l’unicità di ogni calice perché il vino in esso contenuto, da qualsiasi cantina provenga, possiede delle caratteristiche esclusive donategli da quell’interazione di fattori variabilissimi che sono il clima, il terreno, la vite e l’uomo che lo produce. Che derivi dal paese più vicino o dalla nazione più lontana, se prodotto e degustato con passione, ogni vino può raccontare molto più di quanto possiamo immaginare». Devis Cobelli, portavoce e responsabile, insieme al fratello Ti-

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ziano, della società agricola Eredi di Cobelli Aldo, non ha dubbi sull’inscindibile legame tra i frutti della natura e l’arte messa in opera da chi decide di produrre vino. «La cura e l’attenzione nella sua produzione devono durare 365 giorni l’anno. Si aspetta e si lavora per anni, in campagna come in cantina, con la speranza che tutto vada per il meglio cercando di trasmettere al vino amore e dedizione. Speriamo che per osmosi questi “ingredienti” vengano a galla ogni qual volta si degusti un bicchiere dei nostri vini». I loro nomi? Gess, traduzione dialettale della parola “gesso” perché «la nostra azienda si sviluppa quasi interamente su una vena di gesso che era ben visibile ai tempi in cui l’area era dedita all’attività estrattiva di questo materiale», è ottenuto da sole uve di Gewürztraminer che ne conferiscono un aspetto dorato, giallo pa-

glierino, strutturato e corposo. Invece Grill, il rosso rubino di casa Cobelli, deriva dalle uve di Teroldego, una varietà autoctona che secondo la tradizione pare abbia avuto origine proprio sulle colline avisiane, in provincia di Trento. Ed è ancora il territorio che fa da cardine quando, parlando di tradizione, si chiede a Devis Cobelli in che modo la si rispetta cercando però anche di innovarla. «In una realtà famigliare come la nostra, l’innovazione sta nel trovare le soluzioni ottimali per aiutare la vigna a far crescere i grappoli nel miglior modo possibile; grappoli che a loro volta dovranno essere accompagnati, con tecniche mininvasive, al loro divenire mosto; mosto che verrà cullato dalle botti nel riposo che lo trasformerà in vino; vino che necessiterà del vestito adatto al momento del suo ballo sulle tavole dei consumatori».

In apertura, uno dei vitigni della società agricola Eredi di Cobelli Aldo, Lavis (TN). In alto, Devis Cobelli e la cantina www.cobelli.it

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Il frutto delle vigne difficili ALLA SCOPERTA DI UNO DEI “REGNI” DEI BIANCHI AROMATICI, LA MERAVIGLIOSA VAL DI CEMBRA. A FARE DA GUIDA, I FRATELLI PELZ

j di Carlo Sergi i

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BIANCHI AROMATICI I fratelli Pelz

alle montagne che circondano la Val di Cembra, con i loro terreni sciolti di natura porfirica, nascono vini come il Müller Thurgau e il Riesling Renano. Prodotti importanti che danno il meglio di sé in vigne difficili. Una verità che i fratelli Diego, Michele e Franco Pelz conoscono molto bene. Gestori di una giovane ma già importante cantina, i Pelz sono nati e cresciuti in una terra contadina, dove il ritmo della vita, le feste e le tradizioni sono profondamente legati alla vite. E così, da oltre 15 anni i tre fratelli portano la loro filosofia di lavoro fino in bottiglia. «Nel corso delle diverse annate, trascorse assaggiando e riassaggiando i prodotti della loro terra, i Pelz hanno reso loro l’idea che nelle avversità sboccia il fiore più raro e più bello, andando così alla ricerca di vigneti particolarmente difficili, dove la vite deve utilizzare tutte le sue energie per sopravvivere e portare a maturazione il frutto – spiega Moreno Nardin, enotecnico dell’azienda Pelz di Cembra -. Ecco che in queste condizioni la cura deve essere ancora maggiore, precisa, maniacale, e questa non si deve fermare in vigneto, ma continuare in azienda fino all’imbottigliamento». Nel corso degli anni

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la produzione è incrementata anche grazie allo Chardonnay, il Pinot Nero e il Lagrein, quest’ultimo vitigno autoctono del Trentino. «Tutto ciò che dalla natura è stato prodotto, non deve essere perso e tanto meno coperto da odori anomali provenienti dal tappo» spiega Michele Pelz. La nuova sfida è quella di imbottigliare i bianchi del 2010 con il tappo a vite, per preservare il profilo aromatico proveniente dal territorio. «Anche l’occhio vuole la sua parte – interviene Franco Pelz -. Per i bianchi si è deciso di dare una nuova veste alle bottiglie». E che tipo di bottiglia si adatta maggiormente al Mueller Thurgau e al Riesling? Ovviamente la renana, tipica della valle del Reno, da dove provengono le due varietà. Molti i progetti per il futuro. In primis, il progetto della biodinamica, tecnica da utilizzare per esaltare le caratteristiche organolettiche dei vini. «Sì, perché quando il territorio c’è, il vigneto è in equilibrio, e la gestione della cantina è volta alla salvaguardia di tutto il potenziale enologico già presente nelle uve – sottolinea Diego Pelz - la differenza può essere fatta soltanto utilizzando quelle energie, quegli accorgimenti che magari, anche se insignificanti agli occhi di molti, possono esaltare le compo-

nenti aromatiche, minerali e la struttura tannica del vino». «È più facile concepire un’agricoltura dove si fornisce alla pianta tutto ciò di cui ha bisogno e che si protegge da ogni malattia con uso di fitosanitari, piuttosto che mettere la pianta in grado di cercarsi i sali minerali, l’acqua e in grado di resistere alle malattie – interviene l’enotecnico Nardin -. In passato si è creata un’agricoltura basata sul modello “culturale” della società occidentale, fatta di “tutto e subito”, senza fatica. L’esatto contrario dell’agricoltura in cui noi crediamo, capace di cercare le sue energie all’interno della natura stessa, senza la necessità di apportarle annualmente nel vigneto».

I fratelli Pelz assieme all’enotecnico Moreno Nardin tra le vigne della società agricola di Cembra (Tn) pelz@email.it

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I BIANCHI DELLA VALLE ISARCO Thomas Dorfmann

vini aristocratici

da 50 anni DALLA VALLE ISARCO UNA COLLEZIONE INESTIMABILE DI BIANCHI ALTO ATESINI. E PREZIOSI VINI DA DESSERT

di Luca Cavera iamo nella Valle Isarco, in Alto Adige. Lì dove i ghiacciai incontrano i dolci paesaggi collinari del Mediterraneo e maturano uve di straordinaria qualità. Grazie alle condizioni climatiche, ideali per la coltivazione delle uve bianche che danno origine a pregiati vini la valle è famosa anche all’estero. Quelli caratteristici della zona sono il Sylvaner, il Kerner, il Riesling, il Veltliner, il Müller Thurgau, il Traminer Aromatico, i Pinot Grigio e Bianco, lo Chardonnay, il Sauvignon. Tutti vini freschi, fruttati, dall’aroma particolare e il profumo seducente. La nota minerale e il carattere elegante rendono questi dieci bianchi della Valle Isarco davvero inconfondibili. Le preziose sostanze nutritive di questi terreni conferiscono ai vini un sapore e un aroma davvero caratteristici. Sono vini da servire a una temperatura fra i 10 e i 12° C, che si abbinano perfettamente ad antipasti e aperi-

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tivi leggeri; si apprezzano insieme agli asparagi, al pesce (bollito e alla griglia), ai frutti di mare e ai piatti a base di uova. Esiste poi un’eccellenza nell’eccellenza, rappresentata dalle linee “Aristos” e “Sabiona” oltre alla linea dei passiti“Nectaris”, vini selezionali e prodotti nelle botti della Cantina Valle Isarco di Chiusa (Bz). La cantina festeggia quest’anno il cinquantenario della sua attività. Thomas Dorfmann, responsabile di produzione, spiega cosa rende aristocratici questi vini. «Uno dei nostri otto bianchi della linea “Aristos” è il Sylvaner Aristos Doc. Lo produciamo con uve selezionate e vendemmiate a mano in ottobre. Queste provengono dai vigneti soleggiati che circondano il monastero di Sabiona, la cosiddetta “Acropoli del Tirolo”, che sorge su una rupe che sovrasta il nostro borgo. È un delicato affinamento in botti di legno d’acacia, della durata di 4 o 5 anni, che conferisce a questo vino il suo inconfondibile


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I BIANCHI DELLA VALLE ISARCO Thomas Dorfmann

A sinistra, le botti della Cantina Valle Isarco; sotto, Thomas Dorfmann, responsabile di produzione; in basso la sede dell’azienda www.cantinavalleisarco.it

carattere elegante e robusto. Ha un colore che va dal giallo verdognolo al giallo chiaro, un profumo fruttato con sentori di pesca e mela verde, un sapore secco, persistente e fresco». Un altro saggio di questa linea, veramente esclusivo, con una produzione di 5000 bottiglie l’anno, è il Sauvignon Aristos Doc. «Le uve di questo inconfondibile Sauvignon provengono da Campodazzo, una frazione del comune di Renon. È un paesino vitivinicolo che si trova nella zona che guarda a sud della Valle Isarco. I segreti di questo vino sono l’impegno nella coltivazione delle viti di Sauvignon Blanc e il rispetto di severe direttive nella produzione. Il risultato è impareggiabile, un vino aromatico che convince per espressività e tipicità. Ha un profumo veramente unico, una nota erbacea molto intensa, con sentori di ortica e uva spina». Nella Cantina Valle Isarco si producono però anche vini in quantità assai più limitate e di qualità ancora più rare. La linea Sabiona che rappresenta il top dei vini della Cantina Valle Isarco conta i due tipici vini della valle : Sylvaner e Kerner. Il vitigno Kerner trova condizioni di sviluppo assolutamente ideali nelle aree prossime al limite delle colture. Il terreno magro e il clima più rigido, con notti fredde ma con abbondanza di sole durante il giorno, danno origine a un vino dal gusto intenso e speziato. Le uve maturano nei splendidi vigneti del Monastero di Sabiona. La prima annata di produzione è il 2008 ed

è stata commercializzata nel 2010. L’invecchiamento va dai 6 agli 8 anni. È un vino bianco aromatico, generoso con sentori di albicocca e pesca. Si abbina perfettamente ad antipasti, piatti di pesce, asparagi, risotto alle erbe, piatti a base di uova o funghi, ottimo come aperitivo. Duclis in fundo: la linea di vini da dessert “Nectaris”: il Kerner Nectaris e il Gewürztraminer Nectaris, entrambi Passiti Doc. Grazie all’appassimento naturale delle uve bianche, questi vini, veri e propri nettari degli dèi, seducono con la loro particolare nota fruttata e il residuo zuccherino. «Le uve del Kerner hanno le caratteristiche ideali per realizzare un vino da dessert. Le uve mature sono fatte appassire per 5 mesi. Nel corso di questo processo naturale, il peso dell’uva si riduce a meno della metà e nel contempo ne aumenta il valore zuccherino, che in seguito alla pressatura raggiunge circa il 38%. Il risultato, dopo 5 o 7 anni di invecchiamento, è un vino con sentore di frutta secca esotica e un sapore dolce e suadente. La preparazione del Gewürztraminer Nectaris è simile a quella del Kerner. Tuttavia questo vino ha un profumo più deciso e al gusto sa di rosa. Oltre che come accompagnamento per un dessert, sono due prodotti ottimi anche se sorseggiati insieme a dei formaggi saporiti. Questi ultimi due sono dei vini veramente speciali, infatti, per ciascun tipo, ne produciamo solo 1000 bottiglie da 0,375 l all’anno».

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BIANCHI DELL’ALTO ADIGE Günther Giovanett

Nello scrigno

alpino orte, intenso, ereditato e tramandato. Il carattere delle terre della Bassa Atesina, un territorio che trova nella viticultura una delle sue attività più caratterizzanti, chiamata a conservare una tradizione del gusto che ha reso questa regione una delle più importanti nel panorama enogastronomico del Nord Italia, accoglie in sé anche la passione e la tradizione vinicola radicata nella famiglia Giovanett, dell’azienda vinicola Castelfeder. Inizialmente la pic-

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cola impresa produttrice era situata nel centro storico di Egna, caratteristica cittadina dalle strutture medioevali nella zona sud dell’Alto Adige. Nel 1989, però, la struttura di vinificazione e imbottigliamento si è trasferita a Cortina sulla strada del vino, piccolo paese con antiche tradizioni viticole, giacente nel cuore della zona di produzione della Bassa Atesina. «Le diverse posizioni dei vigneti, i differenti terreni e i molteplici microclimi della Südtiroler Unterland rendono

possibili la coltivazione e la crescita dell’intera gamma di varietà di vite presenti in Alto Adige – spiega Günther Giovanett, figlio del fondatore dell’azienda, Alfons Giovanett –. La grande varietà di vitigni che si può incontrare in Alto Adige va ricondotta alle condizioni climatiche particolarmente favorevoli. A Nord le Alpi formano una barriera protettiva contro i venti freddi, mentre da Sud si fanno sentire gli influssi dell’area climatica mediterranea». Sono le circa 1.800 ore di

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BIANCHI DELL’ALTO ADIGE Günther Giovanett

SPEZIATI, FRUTTATI E LEGGERI, I BIANCHI STORICI DELL’ALTO ADIGE CONQUISTANO SEMPRE PIÙ IL MERCATO VINICOLO. PARLA GÜNTHER GIOVANETT DELLA CASTELFEDER

di Paolo Marchese

sole all’anno e la temperatura media di circa 17° C a garantire alle viti le migliori condizioni di crescita. La produzione della Castelfeder si caratterizza, in primis, per i suoi bianchi. Pinot Grigio, Gewürztraminer, Sauvignon, Müller Thurgau, Pinot Bianco e Chardonnay. Quest’ultimo, in particolare, ricopre la fetta più importante delle vigne di famiglia. «Il nostro è uno Chardonnay delicato, con note di frutta esotica matura, tipiche di questo vitigno – sottolinea Günther Giovannett –. In

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bocca ha un sapore corposo ma pulito, leggermente speziato con un’acidità fresca ma vivace». Importante anche la carta dei rossi. Si va dalla Schiava al Lagrein fino al vitigno più importante per l’azienda, il Pinot Nero, con il quale Castelfeder si è aggiudicata il concorso nazionale del Pinot Nero e la medaglia d’argento al Mondial du Pinot Noir. In un contesto famigliare che fa tutt’uno con il mondo del vino, Günther e Alessandra non possono che essere genitori

orgogliosi dei figli, Ivan, divenuto l’enologo dell’azienda e Ines, al secondo anno di studio in viticoltura ed enologia. «La nostra famiglia ci ha trasmesso una passione per il vino che intendiamo portare avanti – spiega Ines –. L’obiettivo è accogliere tutte le sfide che il mercato enologico ci pone dinanzi, dai sempre più agguerriti competitor alla necessità di rivalorizzare i sapori autoctoni. Ma queste sono sfide che accogliamo, da sempre, con piacere».

In apertura, la famiglia Giovanett con, in primo piano, Ines. A fianco, una veduta dei vigneti della Cantina Castelfeder di Egna (Bz) www.castelfeder.com

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Il tesoro

di scanzo IL MOSCATO DI SCANZO NASCE DA SOLI 31 ETTARI DI TERRENO. E OGGI, LA PIÙ RISTRETTA PRODUZIONE DOCG ITALIANA SI PREPARA A UNA STAGIONE RICCA DI INIZIATIVE INTERNAZIONALI

di Aldo Mosca

A lato in basso, i dieci produttori del Consorzio per la Tutela del Moscato di Scanzo che presenzieranno al Vinitaly. Da destra, i rappresentanti delle aziende De Toma, Il Cipresso, Il Francès, Fejoia, Biava, Pagnoncelli Folcieri, Magri Sereno, Ronco della Fola, La Berlèndesa, Cerri www.consorziomoscatodiscanzo.it

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CONSORZIO MOSCATO DI SCANZO Giacomo De Toma

MOSCATO DI SCANZO · Uvaggio: Uve autoctone a bacca rossa sempre più ricca l’agenda delle iniziative promosse dal Consorzio per la Tutela del Moscato di Scanzo. Una realtà che vede nella recente nomina a presidente di Giacomo De Toma un’occasione di rinnovo. Nata negli anni Settanta, questa realtà si impegna nella valorizzazione e nella tutela del frutto dell’unico vitigno autoctono della Provincia di Bergamo. «Il nostro obiettivo resta quello di garantire la qualità del moscato passito a bacca rossa, con cui abbiamo ottenuto la Doc nel 2002 e la Docg nel 2009 – spiega il presidente De Toma -. Si tratta di un vino dalle origini antichissime e che oggi, finalmente, si sta riaffermando sul mercato, conquistandosi un’importante nicchia di consumatori». Un vino raro e prezioso, difficile da trovare, essendo la Docg più piccola d’Italia. Il suo territorio di produzione, infatti, si limita alla collina di Scanzorosciate, caratterizzata da un terreno di origini moreniche, con particolari pietre bianche dette Sass de Luna, che assorbono il calore del sole durante il giorno e lo trasmettono alle viti per rifrazione nella notte, contribuendo in maniera fondamentale all’identità e alla par-

· Vendemmia: Tardiva, eseguita tra fine settembre e ottobre; le uve vanno poi in appassimento per 40-50 giorni su graticci

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· Invecchiamento: 2 anni, dal 1 novembre dell'anno della vendemmia, in acciaio o vetro. · Colore: rubino carico · Sapore: Le note intense di frutti di bosco e marasca con l'invecchiamento tendono ad avere un’ aroma di composta di frutta con retrogusto di incenso e a volte di pietra focaia

ticolarità di questo vino da meditazione. Ad agevolare la rinascita del Moscato di Scanzo è anche la sempre più stretta collaborazione tra il Consorzio, la Regione Lombardia, l'Università di Milano, Dipartimento di Agricoltura, il Centro Sperimentale di Ricca Gioia e le associazioni di categoria legate all’universo enologico. «Nel nostro lavoro è stata fondamentale l’identità di “squadra” dei pochi produttori di questo vino – interviene nuovamente Giacomo De Toma -. Sui 25 produttori esistenti, 23 sono iscritti al Consorzio». E tornando all’agenda per i prossimi mesi, l’associazione sarà impegnata in numerosi eventi. «Comunicazione, promozione e marketing saranno le

parole chiave del nostro programma». Il primo evento sarà il Vinitaly, in cui per la prima volta il consorzio si presenterà con dieci aziende all'interno dello stesso stand. Il Moscato di Scanzo sarà poi di nuovo protagonista della prossima edizione di Autochtona, dopo aver ricevuto il premio, nel 2010 come miglior vino dolce. Altro evento strategico sarà il 16° Salone Enogastronomico MonteCarlo Gastronomie, dal 25 al 28 novembre 2011, all'Espace Fontvieille del Principato di Monaco. A caratterizzare il 2011 sarà anche la presenza all’interno delle iniziative promosse dal territorio lombardo, in particolare milanese. «Dopo la vendemmia del 2011 intendiamo organizzare Moscato tra le stelle, una serata durante la quale sei grandi chef italiani interpreteranno il nostro vino coniugandolo all’alta cucina» Inoltre, a settembre il si celebrerà la Festa della Strada del Moscato di Scanzo e dei Sapori Scanzesi, con l'inaugurazione della poeia concessa dal Gran Ducato di Pontida.

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TENUTE LA MONTINA Michele Bozza

Nettare di Franciacorta DALLE UVE DI SETTE TERRENI DIFFERENTI, NASCONO VINI IMPECCABILI. MICHELE BOZZA DESCRIVE DUE ETICHETTE DI PUNTA DELLE TENUTE LA MONTINA

di Luca Righi


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TENUTE LA MONTINA Michele Bozza ROSATUM, ROSÉ EXTRA BRUT DELLE TENUTE LA MONTINA · Zona di produzione: Franciacorta · Uvaggio: Pinot Nero 65% e Chardonnay 35% Affinamento: in bottiglia almeno per 30 mesi sui lieviti Aspetto: colore rosato, caldo e accattivante Profumo: al naso vengono esaltate le note marcate dei frutti di bosco e della frutta matura Sapore: pieno, morbido ma con un buon corpo. La spuma è soffice e abbondante. Ottimo come aperitivo, dà sicuramente il massimo con salumi, carni grigliate formaggi erborinati

na superficie vitata di 70 ettari, sparsi in sette comuni della Franciacorta. 450 mila bottiglie prodotte ogni anno, di cui circa l’85% è Franciacorta e il restante 15% si divide tra Curtefranca DOC e Riserve V.d.T. È la produzione dell’azienda Tenute La Montina, di proprietà della famiglia Bozza con sede e cantina a Monticelli Brusati. Il suo Franciacorta Docg Vintage 2004 Riserva Extra Brut si è aggiudicato i 3 bicchieri della Guida del Gambero Rosso e i 5 grappoli di quella dell’AIS, riconoscimenti che sono arrivati proprio nel ventennale della prima vendemmia dell’azienda franciacortina e che premiano un lungo lavoro in vigna e in cantina. «Quando, in occasioni veramente rare, i vigneti, l’esperienza e le scelte lo consentono, nasce una Riserva – commenta Michele Bozza, direttore commerciale e marketing dell’azienda –. Abbiamo selezionato le particelle di vigneto,

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le migliori uve, abbiamo individuato i legni con le tostature più equilibrate. Dopo la fermentazione in bottiglia, lo abbiamo degustato per confermare ogni volta l’eccellenza della vendemmia e le sue massime espressioni». Composto da 45% Pinot nero e 55% Chardonnay, il Franciacorta Extra Brut matura lentamente in bottiglia per almeno 60 mesi sui lieviti. Vengono utilizzate solo le prime spremiture, ottenute dalla pigiatura soffice delle uve realizzata con il torchio verticale Marmonier, uno dei rarissimi presenti in Italia e soltanto uno dei due disponibili in Franciacorta. Lo stesso attrezzo impiegato anche per altre note produzioni dell’azienda, come il Rosé Extra Brut “Rosatum”, ultima novità delle Tenute La Montina. «Il Rosatum – spiega Michele Bozza - è ottenuto principalmente da uve di Pinot Nero, raccolte nei

vigneti dell’azienda dislocati in ben sette comuni, in modo da ottenere dai diversi terreni e dai diversi microclimi il massimo della qualità. Le classiche spremiture soffici con il torchio verticale Marmonier e il giusto tempo di macerazione sulle bucce danno alle basi di questo vino nerbo e vinosità, ma anche piacevolezza e finezza, conferiti dallo Chardonnay che lo completa».

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In apertura, il torchio verticale Marmonier. Sopra, da sinistra i fratelli Bozza, Alberto, Vittorio e Gian Carlo, titolari dell’azienda, e Michele Bozza www.lamontina.it

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Nuovi profumi Franciacorta PRODOTTI TRA LE COLLINE DI GUSSAGO E CELLATICA, I FRANCIACORTA DOCG DELL’AGRICOLA GATTA «STUPISCONO PER LA LORO STRUTTURA E MINERALITÀ»

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li spumanti prodotti nelle colline della Franciacorta non hanno bisogno di presentazione perché fregiati del marchio Docg. Ma a cavallo tra i comuni di Gussago e Cellatica, «il clima asciutto e ventilato, unito all’alto contenuto di minerali e calcare del suolo, consentono di ottenere da queste colline uve uniche, mature e dalla struttura superlativa: caratteristiche trasmesse ai vini che, diversamente dalle basi spumante tipicamente “franciacortine”, peccano leggermente in profumi e acidità e sanno stupire per

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la loro lunghezza, struttura, mineralità e ricchezza proteica». Questa eccezionale diversità risalta soprattutto nei Franciacorta Docg riserva dell’Azienda Agricola Gatta come «il millesimato Molenèr 2004 costituito al 60% da uve chardonnay e al 40% pinot nero che trascorre 6 anni di affinamento sui lieviti, e il millesimato Arcano 1997, annata eccezionale premiata con 11 anni di affinamento sui lieviti». Non tralascia nulla Mario Gatta quando parla della viticoltura in Franciacorta cui si è affacciato agli inizi degli anni ’90 aprendo un’impresa di progettazione, rea-

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I FRANCIACORTA DOCG Azienda Gatta

EXTRA BRUT MOLENER 2004 FRANCIACORTA DOCG · Gradazione alcolica: 12,5% · Uve: 60% Chardonnay e 40% Pinot Nero · Provenienza: Gussago, Rodengo Saiano · Vendemmia: dal 24 al 28 agosto 2004 con meticolosa selezione dei grappoli prima della spremitura · Resa media Ha: 75 ql, 40 hl, pari a 5300 bottiglie · Vinificazione: il mosto viene ottenuto con pressatura soffice delle uve e, successivamente, viene raccolto in vasche d’acciaio termocondizionate dove avviene la prima fermentazione alcolica; la cuvèe Gatta è ottenuta attraverso la miscelazione meticolosa di vini conservati in vasche d’acciaio

lizzazione e gestione vigneti. «Durante i primi anni ho avuto la possibilità di lavorare per molte aziende e numerosi viticoltori. In questo modo ho potuto affinare le mie conoscenze agronomiche e consolidare i rapporti con i principali conferitori d’uva del territorio». Con la forte passione che ha sempre contraddistinto l’impegno nei campi e in cantina, Mario Gatta ha quindi deciso di avviare l’Agricola Gatta, dei figli Giuseppe e Nicola e della moglie Donatella, azienda che dal ‘94 a oggi si è affermata con i suoi Franciacorta di

particolare pregio, guadagnandosi la fiducia e la stima degli operatori del settore e degli intenditori. Arrivando al gennaio del 2007, l’esperienza e le competenze acquisite da Gatta lo hanno indotto a raccogliere una nuova sfida e opportunità del mercato vitivinicolo: la sottoscrizione del progetto Villa Badia propostogli da un gruppo di viticoltori della Franciacorta che, invece di vendere i raccolti, prevedeva di vinificare le loro uve, di produrre in buona quantità e di commercializzare a un ottimo rapporto qualità prezzo i Franciacorta

Docg. «Il nome della nuova azienda deriva dal vigneto più importante e vocato – spiega Gatta –. È un corpo unico di quattro ettari coltivati interamente a chardonnay e situati all’interno di una tenuta dell’Ottocento chiamata Villa Badia. Il vigneto è stato impiantato nel 1992 da Mario Gatta che tuttora cura l’aspetto tecnico-agronomico di ogni vigneto da cui provengono le uve, garantendo qualità, continuità e totale tracciabilità del prodotto». Villa Badia propone tre Franciacorta Docg. «Il Gran Cuvée Blanc de Blancs Brut, si ottiene da uve chardonnay in purezza e trascorre almeno 24 mesi di affinamento sui lieviti prima della sboccatura; il Gran Cuvée Blanc de Blancs Satèn, sempre dal 100% di uve chardonnay, si affina invece in almeno 36 mesi; il Gran Cuvée Brut Rosé, è composto al 75% da uve chardonnay e al 25% da uve pinot nero. L’affinamento è di almeno 30 mesi sui lieviti prima della sboccatura».

In apertura, panoramica di Villa Badia. A sinistra, bottiglie di Franciacorta dell’Azienda Agricola Gatta di Cellatica (BS) www.agricolagatta.com

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Bianco Lugana eccellenza da custodire NEL GARDESANO MERIDIONALE, NEL CUORE DI UNA REGIONE CARATTERIZZATA DA UN TERRENO MORENICO E UN CLIMA MITE, PIETRO LAVELLI RACCOGLIE I “FRUTTI” DELLA TRADIZIONE DELLA LUGANA PER TRASFORMARLI IN PRELIBATEZZE DA BERE

di Francesco Bevilacqua


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IL LUGANA Pietro Lavelli

ago di Garda e le sue terre sono una delle meraviglie d’Italia, sia dal punto di vista naturalistico che da quello culturale e architettonico. Ma c’è anche un altro ambito in cui il Benaco primeggia ed è quello enologico. In particolare, nella parte meridionale, nella zona compresa fra Peschiera del Garda, Sirmione e Pozzolengo, si trova la Lugana, piccolo territorio ricco di storia e patria dell’omonimo vino. La sua produzione è consentita nella sola zona di origine storica, a cavallo fra le province di Brescia e Verona. Al centro di questa incantevole regione si trova l’azienda agricola Pilandro, storica portabandiera della produzione del Lugana. La Tenuta Pilandro affonda le sue radici nel Quindicesimo secolo e da diverse generazioni è condotta dalla famiglia Lavelli, di cui Pietro è l’attuale rappresentante.

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La vostra specialità è il Lugana, quali sono le particolarità di questo vino? «Il Lugana è un grande vino con un’ottima struttura, tanto è vero che il grande enologo Luigi Veronelli lo definì “un rosso travestito da bianco”. L’ottima acidità gli offre la possibilità di maturare molti anni migliorandosi».

Di quali altri vini si compone la vostra produzione? «Produciamo cinque tipologie di Lugana: un Lugana, un Lugana Terecrea, un Lugana Arilica affi-

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nato in rovere, un Lugana metodo Charmat brut e uno metodo Classico Brut, tutti Doc. Abbiamo anche cinque tipologie di vini rossi: Garda Merlot Doc, Garda Merlot Doc Settantanni affinato in rovere, Garda Barbera Doc, Garda Barbera Doc Cent’anni affinato in rovere, Rosato Pilandro e Passito Benaco bresciano». Il Lugana rappresenta un’eccellenza e una tipicità da custodire, pensa che sia sufficiente ciò che viene fatto adesso per tutelarlo? «Ritengo che attualmente i controlli effettuati per la denominazione di origine non siano soddisfacenti, soprattutto dal punto di vista normativo. Più efficace è l’attività di vigilanza portata avanti dal Consorzio Tutela Lugana Doc, che sta eseguendo accertamenti più severi partendo dal vitigno e quindi dal controllo delle uve e del vino; inoltre, si prevede per il prossimo anno l’applicazione delle fascette, contrassegni ideati dal Ministero per le Politiche Agricole volti a garantire un maggiore controllo. Al di là della legislazione, i nostri metodi sono molto rigorosi: per come coltiviamo la vite la nostra produzione potrebbe rientrare nella categoria del biologico; usiamo solo prodotti di contatto che alla prima pioggia vengono dilavati». Secondo la sua esperienza, come si sono evolute le abitudini degli italiani nel consumo di vino? «Il consumo è sicuramente dimi-

nuito, anche se adesso c’è più attenzione alla qualità. Quello che purtroppo ancora manca è un’informazione corretta e completa. Noi siamo comunque fortunati, potendo contare su acquirenti esperti che ci danno soddisfazione e approvano il nostro impegno».

Pietro Lavelli è titolare dell’azienda agricola Pilandro di San Martino della Battaglia, Desenzano del Garda (BS) www.pilandro.it

La vostra è sempre stata un’azienda di famiglia; quanto pensa che sia importante tramandare i saperi e le tecniche artigianali di generazione in generazione? «L’azienda agricola Pilandro venne acquistata da mio padre Giancarlo, che ereditò a sua volta da suo padre la passione per l’enologia; anche mio nonno Pietro infatti produceva vino a livello amatoriale. All’età di vent’anni sono subentrato io, apprendendo il sapere e i segreti della viticoltura e della vinificazione da mio papà e spero che lo stesso facciano anche i miei figli Matteo, Leonardo e Martina, a cui spetta il compito di tenere viva la tradizione familiare».

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PODERE SAN GIORGIO Elena e Laura Perdomini

Il futuro del Pinot Nero PINOT NERO IN PUREZZA NELLE SUE TRE ESPRESSIONI: DALLO SPUMANTE METODO CLASSICO E CHARMAT BIANCO E ROSÈ, AL VINO BIANCO FERMO O FRIZZANTE, FINO ALLA VERSIONE ROSSA. TUTTO PRODOTTO IN OLTREPÒ PAVESE DALL’AZIENDA SAN GIORGIO j di Carlo Gherardinii

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PODERE SAN GIORGIO Elena e Laura Perdomini

are tesoro della sapienza del passato, coniugandola alla moderna evoluzione della mentalità enologica. L’attività del Podere San Giorgio, storica azienda che sorge nel cuore dell’Oltrepò Pavese, parte da questi presupposti. A 250 metri di altitudine, caratterizzata da pendii dolci e armoniosi, l’azienda, anche nella sua ristrutturazione, fa suo il motto di “lavorare per e con i nostri tempi”. Una mentalità che trova riscontro nel contatto quotidiano con l’ambiente circostante, e che ha trovato pieno rispetto nella ristrutturazione rigorosa della dimora principale, a Santa Giulietta, ritornata ai suoi antichi valori architettonici, una sensibilità che si ritrova nella coltivazione, nella raccolta, nella vinificazione dell’uva. «L’avventura della nostra famiglia è cominciata trent’anni fa – racconta Elena Perdomini, che gestisce l’azienda insieme ai genitori e alla sorella – quando abbiamo iniziato a produrre vino. Di recente, in seguito alle grandi difficoltà commerciali, abbiamo pensato a un nuovo concetto del marketing del vino». La missione è stata realizzare vini di ottima qualità a un prezzo decisamente accessibile per un’ampia gamma di consumatori. Così Elena e Laura Perdomini si sono dedicate a nuove iniziative, specialmente nel campo delle vendite e delle scelte dei vini da produrre. «L’azienda si è orientata alla valorizzazione del vitigno Pinot nero in tutte le sue declinazioni – afferma Elena Perdomini -. Per quanto riguarda le bollicine, la

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produzione spazia dal Cruasé Metodo classico rosè, al Metodo classico versione bianco, al Metodo Charmat nelle due versioni bianca e rosa». I vini sono sempre prodotti da Pinot nero in purezza: vinificato bianco in versione ferma o frizzante e vinificato rosso. Su terreni esposti a mezzogiorno, sono stati realizzati vigneti per la vinificazione dei vini tipici dell’Oltrepò. Qui, si stanno sviluppando piantagioni di uve derivanti da particolari e sapienti incroci, a verifica di nuove strade. Sono le nuove idee, le nuove intuizioni che stanno alla base di un razionale, vivo, creativo incremento istituzionale e commerciale dell’azienda. Attualmente il Podere San Giorgio produce 2000 quintali di uva, conferiti e vinificati in una tradizionale ma modernissima cantina, dotata delle più avanzate tecnologie. Non tutta l’uva viene vinificata. La produzione, che conta circa 150 mila bottiglie, è il risultato di mirate selezioni per cui solo il meglio viene etichettato San Giorgio. Questa serietà è premiata da una sempre più vasta preferenza da parte dei consumatori. Oggi l’azienda è orientata in diverse direttrici commerciali: in primo luogo, la vendita nel canale alla grande distribuzione, fornendo anche etichette in esclusiva alle singole insegne. In secondo luogo, la vendita alla ristorazione attraverso piccoli distributori locali che consentono una copertura, spesso a macchia di leopardo, ma con la garanzia di non disperdere energie con problematiche assolutamente avulse dal

problema del vino. In terzo luogo, l’esportazione a cui Elena Perdomini ha dedicato importanti risorse ottenendo un discreto successo. I risultati si sono visti dopo alcuni mesi e sono costanti. «Nei supermercati la rotazione è in continua crescita, i piccoli distributori locali aumentano un anno dopo l’altro e all’estero prendono sempre più sul serio l’Oltrepò Pavese come territorio vinicolo» conclude Elena Perdomini. La grande distribuzione consente all’azienda di ottimizzare i tempi di lavorazione e di produrre con continuità senza subire i cicli della ristorazione ma guardando ai consumi familiari. All’interno dell’agriturismo del Podere San Giorgio è stata anche realizzata una piccola enoteca ristorante che consente, su prenotazione, di degustare e acquistare i vini direttamente in azienda.

In apertura una panoramica del Podere San Giorgio. L’azienda sorge a Santa Giulietta (PV). Sopra, la famiglia Perdomini www.poderesangiorgio.it

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Gli archeologi

del vino RECUPERARE ANTICHI VITIGNI E SCOPRIRE RISVOLTI STORICI CHE CI PORTANO INDIETRO DI MILLE ANNI: LA VITICOLTURA È ANCHE QUESTO. NE PARLA GIAMPIERO GAGNOR

j di Amedeo Longhi i


ANTICHI VITIGNI Giampiero Gagnor

i sono dei casi in cui l’attività agricola di un viticoltore e vinificatore va al di là della semplice cura della vigna, esce dal campo agronomico ed enologico per sconfinare nella storia e nella geografia. In questo senso, è significativo il panorama vinicolo piemontese, in particolare dell’alta Val di Susa, proiettata verso la Francia e la Valle d’Aosta e da sempre luogo di transito di popoli, merci e vitigni. «Molte delle nostre varietà sono di origine francese, poiché nell’Undicesimo e Dodicesimo secolo c’era un fitto passaggio di frati provenienti da oltralpe che importavano le loro varietà di vite». A raccontare questa affascinante storia è Giampiero Gagnor, proprietario dell’omonima azienda agricola che si trova nel piccolo comune valsusino di Chianocco. Uno dei suoi vini di punta è l’Avanà, caratteristico vitigno locale che fino agli anni Trenta era fra i più diffusi, per poi rischiare di scomparire in seguito alla comparsa della fillossera, un insetto mortale per le viti. «Con un progetto della comunità montana dell’alta valle – racconta Gagnor – è stato reintrodotto l’Avanà, anche in purezza, come prima della fillossera. Noi abbiamo supportato l’operazione mettendo a disposizione dei ter-

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reni dove impiantare le viti clonate e da lì prendere delle gemme per poi reimpiantarle nel progetto vigne. Per quanto riguarda la nostra azienda, abbiamo ampliato la superficie di vitigni Avanà e adesso ne produciamo circa settecentocinquanta litri in purezza». Che caratteristiche ha l’Avanà? «Si tratta di un vino particolare perché ha un’acidità bassa – non più del cinque per mille di acidità totale, più o meno come un dolcetto –, una struttura decisamente buona e una gradazione alcolica abbastanza elevata. È un vino che potremmo definire veritiero, un po’ beverino; è fresco e fruttato e si accompagna bene con salumi e carni bianche». Quali altri vini producete? «Abbiamo recuperato anche il Carchejron, che viene dal vitigno Gamay e nel 2006 è stato riconosciuto Doc. Abbiamo anche un nuovo impianto di Brunetta – che sarebbe Chatus francese –, Grisa nera e Grisa roussa. Per recuperare questi vitigni collaboriamo con il Cnr di Torino, con cui condividiamo la volontà di favorirne la diffusione e difenderli dall’estinzione». Cosa contraddistingue i vini

della vostra zona? «Abbiamo dei vitigni che sono franchi di piede, cioè non sono stati innestati; si tratta in particolare di Brunetta e Gamay. Il segreto è un terreno particolarmente sciolto e quindi sabbioso, in cui la fillossera non riesce a svilupparsi bene e non rappresenta un pericolo mortale per le piante. Mentre in altre zone, anche vicine, il terreno argilloso e la conseguente proliferazione di questo parassita hanno portato le viti a seccarsi e costretto i viticoltori a reimpiantare, noi non abbiamo mai dovuto effettuare un espianto. Abbiamo delle viti che hanno quasi centocinquant’anni e una grande varietà di specie – sei o sette tipi diversi –, molto difficile da trovare in un appezzamento di settemila metri quadrati. Ancora più rare sono le viti franche di piede, cioè non innestate, che ormai non si trovano praticamente da nessuna parte. Tutto ciò è reso possibile dalla peculiare composizione del terreno, morbido e sciolto: sessantasei per cento di sabbia, trenta per cento di limo e tre o quattro per cento di argilla».

Giampiero Gagnor, dell’omonima Azienda Agricola a Chianocco, in provincia di Torino gagnorgiampiero@yahoo.it

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IL VITIGNO FREISA DI CHIERI Enrico Rubatto

Un vino da intenditori j di Belinda Pagano i

UNA PICCOLA REALTÀ IMMERSA NEL VERDE DI CHIERI OFFRE SAPORI UNICI E ANTICHI AI SOPRAFFINI PALATI CONTEMPORANEI

e colline che si estendono a vista d’occhio vicino a Torino regalano emozioni sia all’anima che al palato. È proprio qui infatti che il terreno presenta una ricchezza di ossidi che conferiscono ai vini sia una bella colorazione rossastra che un’ importante struttura, ed è qui che l’azienda agricola di Rubatto ha deciso, da oltre ottant’anni, di sfruttare le caratteristiche del territorio che danno particolarità al vitigno Freisa di Chieri. «In realtà non bastano le tipicità del suolo a fare un buon vino» spiega Enrico Rubatto «ma bisogna gettare un occhio a tutta una serie di fattori, quali ad esempio il microclima, l’ottima esposizione, le tecniche di coltivazione, la passione e la cura dei

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vigneti e infinite la vinificazione che da noi segue rigorosamente canoni di tipo tradizionale, supportata dalle più moderne tecnologie. Dopo la vendemmia sempre tardiva, al fine di ottenere uve ben mature che esaltino le caratteristiche meno conosciute di questo vitigno, la pigiatura è ottenuta secondo la tecnica della “diraspa-pigiatura soffice”. Successivamente il mosto è sottoposto a fermentazione alcolica a temperatura controllata per otto-dieci giorni a seconda delle annate e delle tipologie di vino. Infine si eseguono la spillatura e la torchiatura e solo dopo aver effettuato la fermentazione malolattica, il vino viene posto a riposare nelle botti per poi essere imbottigliato a primavera

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IL VITIGNO FREISA DI CHIERI Enrico Rubatto

Dopo la vendemmia sempre tardiva per ottenere uve ben mature, la pigiatura è ottenuta secondo la tecnica della “diraspa-pigiatura soffice” inoltrata». Ecco dunque da cosa deriva un buon vino. «La vendemmia conduce alla qualità quando dietro c’è un accorto e mirato lavoro in vigna. Noi in particolare, da generazioni, ci basiamo sul vecchio detto “poco ma buono”, una bassa produzione per ettaro che conduce, però, ad una elevata qualità». È in questa piccola realtà che vengono prodotte quattro tipologie di vini, dai sapori diversi e interessanti. «La Freisa di Chieri, Doc fermo secco, proveniente interamente dal vitigno freisa e dalla lavorazione di vigne antiche, un rosso piemontese non molto noto ma del tutto particolare

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che propone contemporaneamente caratteristiche di tannicità, morbidezza e di leggera acidità, con una corposità notevole e piacevolmente armonica. Se invece si lavorano vigne giovani di freisa, si ottiene la Freisa di Chieri Doc vivace che si differenzia per il suo elevato grado alcolico e la sua importante struttura, che ne fanno un vino molto particolare che stupisce colui che lo degusta. Abbiamo poi un vino fermo e secco, il Collina Torinese Barbera Doc che è in assoluto uno dei vini piemontesi più conosciuto e apprezzato, prodotto di nicchia dalle grandi potenzialità. Il colore rosso intenso con riflessi

violacei esalta la corposità notevole, i profumi floreali complessi e un gusto piacevolmente morbido, nonostante una punta di acidità». Ultimo, ma non meno importante, il Freisa di Chieri Superiore, anch’esso Doc, versione invecchiata di almeno un anno, derivante da uve ben mature provenienti dai vigneti più vecchi dell’azienda. «Un grande vino da intenditori che accompagna benissimo gli arrosti quanto la selvaggina, i formaggi molto stagionati e tutti quei piatti tipici importanti della cucina piemontese». Il sapore non è nulla senza passione, e la passione, a Chieri, si fa realtà.

In apertura Enrico Rubatto, dell’Azienda Agricola Rubatto Guido di Rubatto Enrico, Chieri (TO) enruba@libero.it

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CHIANTI E CHIANTI CLASSICO Simone Priami e Valentina Masti

Il made in Tuscany

nel mondo “TALMENTE TRADIZIONALE DA ESSERE INNOVATIVO”: COSÌ L’AZIENDA AGRICOLA FATTORIA SAN PANCRAZIO FIRMA I SUOI CHIANTI, ROSSI RUBINO LIMPIDO

di Adriana Zuccaro

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CHIANTI E CHIANTI CLASSICO Simone Priami e Valentina Masti

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uando si parla di produzione vinicola spesso si incontrano realtà con alle spalle decenni o secoli di tradizione e comprovata esperienza. Ma sulle colline di San Casciano in Val di Pesa, nel fiorentino, i riconoscimenti ottenuti in un solo decennio dai vini, oli e grappe prodotti dall’azienda agricola Fattoria San Pancrazio, premiano l’impegno e la dedizione di Simone Priami e Valentina Masti Priami. Rispettivamente uscenti dagli ambiti professionali della giurisprudenza e dell’economia, i coniugi Priami non nascondono le iniziali difficoltà nella gestione dell’azienda. «Non è stato semplice ma la nostra passione per tutto quel mondo racchiuso in un “bicchiere di vino” e l’attaccamento alla terra, hanno fatto da trampolino di lancio a un importante progetto di rivalutazione e potenziamento dell’azienda di famiglia, coadiuvato da tecnici di primaria importanza e capacità, che senza ombra di dubbio, hanno saputo indirizzarci nel raggiungimento dei nostri obiettivi». Tra questi, il successo internazionale dei vini San Pancrazio merita un approfondimento. Perché a dispetto dei forti legami al territorio che contraddistinguono non pochi prodotti made in Tuscany, le varie an-

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nate di Chianti, ad esempio, prodotte in casa Priami sembrano ricevere maggiori consensi, in termini consumistici, all’estero. «In Italia, purtroppo, per i prodotti destinati alla ristorazione, la discriminante risiede nel prezzo. In particolare, etichette di Chianti e Chianti Classico, immancabili nella carta dei vini di qualunque ristorante e prodotti in grande quantità da aziende di produzione e da imbottigliatori, si possono trovare nel mercato a qualunque prezzo, creando confusione nel consumatore e negli operatori del settore». Il mercato estero è invece guidato dai cosiddetti buyer che, profondi conoscitori del mondo del vino e del mercato quali sono, «selezionano i vini da distribuire nei vari paesi di cui si rendono rappresentanti, non solo in base ai prezzi ma all’equilibrato livello di qualità che ne corrisponde». Ha presto acquisito esperienza, Simone Priami, e applicando al mondo della produzione agricola anche le personali competenze di “economo”, ha condotto l’etichetta San Pancrazio alla conquista dei mercati europei ma anche di quello statunitense, cinese, giapponese fino ad arrivare in Brasile, Russia e Uzbekistan. «Uno dei nostri prodotti di punta è il Chianti Classico Riserva – precisa Valentina Masti Priami –, vino prodotto utiliz-

zando il 95% di uve Sangiovese e 5% di Colorino, vitigno autoctono del nostro territorio. Tale vino si presenta all’occhio rosso rubino limpido, al naso risulta complesso con frutti e fiori secchi, al palato sapido: non è solo un vino da degustare ma anche, e soprattutto, da bere. Perché è importante ma allo stesso tempo purissimo e rinfrescante, impronta inconfondibile del nostro terroir». È per questo che su ogni bottiglia di Chianti San Pancrazio è riportata una breve frase che racchiude la politica dell’azienda dedita alla produzione di Chianti, “talmente tradizionale da essere innovativo”.

In apertura, cantina dell’azienda agricola Fattoria San Pancrazio (FI). Sopra, panoramiche dell’azienda e dei vitigni www.fattoriasanpancrazio.com

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Un rosso sapore

senese RISCOPRENDO IL VALORE DEL RAPPORTO DIRETTO TRA CONSUMATORE E PRODUTTORE, MARIA GRAZIA SALVIONI HA RESO IL QUERCECCHIO UNA META PREDILETTA PER GLI AMANTI DEL MONTALCINO

di Filippo Belli n rosso rubino da cui si sprigionano «un profumo ampio e ricco, con sfumature di vaniglia, viola e sentori di marasca, oltre che un sapore robusto, caldo e generoso». Il Brunello di Montalcino è un classico della cantina italiana,

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capace di attirare le attenzioni di buona parte del mercato internazionale vinicolo. A confermarlo è anche Maria Grazia Salvioni, proprietaria del Quercecchio, una delle più rinomate aziende agricole di Montalcino, in provincia di Siena, divenuto oggi anche un

suggestivo e fortunato agriturismo. La sua famiglia gestisce queste terre ormai da cinque generazioni. Una tradizione legata a un terreno argilloso, sabbioso e a un sistema di allevamento della vite che avviene tramite un cordone speronato.

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IL BRUNELLO DI MONTALCINO Maria Grazia Salvioni

Oltre al Brunello Docg, nella gamma dei vini prodotti dall’azienda spiccano anche il Rosso di Montalcino Doc e il Rosso di Toscana Igt «La gamma dei nostri tre vini soddisfa una discreta fetta del mercato Nord Europeo – dichiara Maria Grazia Salvioni . Ma non si limita a questo la nostra produzione. Ogni anno, infatti, circa mille piante di olivo ci danno un prodotto importante come l’olio extravergine, che viene venduto a una gruppo di acquirenti fidelizzati, i quali scelgono di acquistarlo personalmente in azienda, instaurando un rapporto diretto tra produttore e consumatore». E non dev’essere una gran fatica recarsi nell’incantevole Montalcino, magari con la scusa di passare qualche giorno in

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relax nell’agriturismo del Quercecchio. «Qui da noi arrivano turisti da più parti del mondo – spiega Maria Grazia Salvioni -. Il relax e la tranquillità percepiti nella nostra struttura, in particolare a bordo piscina o passeggiando per l’azienda, sono apprezzati universalmente». E così, circondati da splendidi panorami collinari non è raro veder qualche visitatore sorseggiare un buon bicchiere di vino al tramonto. Tra le tante specialità dell’azienda agricola merita una menzione la sua grappa, distillata dalle vinacce provenienti dai vigneti dell’azienda di Quercecchio, iscritti all'albo del Brunello. Queste vinacce non vengono eccessivamente pressate al fine di offrire la migliore materia

prima per la distillazione. A seguire vengono inviate, nella stessa giornata del loro ottenimento, alla Distilleria Nannoni, attualmente di proprietà della prima donna distillatrice, Priscilla Occhipinti. Una cosa è sicura, il buon gusto rappresenta sempre più il traino principale per il turismo locale. «In particolare il vino rappresenta la maggiore attrattiva per i turisti, sia italiani che stranieri conclude la Salvioni -. Anche i clienti dell’agriturismo sono ben lieti di acquistare i nostri prodotti dopo averli degustati e aver fatto una visita guidata alle cantine».

Nelle immagini, l’azienda agricola e agriturismo Quercecchio di Montalcino (Si) www.quercecchio.it

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Intense armonie IL BRUNELLO E IL ROSSO DI MONTALCINO. UN DOCG E UN DOC. DUE FIGLI DEL SANGIOVESE CRESCIUTI NELLA TERRA DI SIENA

j di Luca Cavera i

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a Toscana è terra di grandi vini. Chi ama i rossi dal sapore elegante e armonico, deve sapere che in provincia di Siena, e precisamente a Montalcino, si produce il Brunello di Montalcino, un vino a Denominazione di origine controllata e garantita. Chi lo conosce sa che il Brunello, al gusto, dimostra una lunga persistenza aromatica con un finale asciutto e fa sentire i propri tannini equilibrati e avvolgenti. Lo si riconosce anche per il suo profumo intenso, ampio, etereo, accompagnato da sentori di spezie, di sottobosco, di piccoli frutti rossi e di rosa appassita. Ma con il suo colore rosso rubino, tendente al granato, è una gioia anche per gli occhi. Va consumato a una temperatura di

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circa 18 °C. «Meglio stappare la bottiglia almeno due, tre ore prima di servire – consigliano Ofelio Fattoi e i figli Leonardo e Lamberto –, magari versandolo in un decanter, per farlo ossigenare. L’ideale è poi servirlo in bicchieri balloon di cristallo e consumarlo insieme a carni rosse, selvaggina, piatti con funghi o tartufi. Si abbina inoltre con i formaggi stagionati, come il Parmigiano Reggiano e, naturalmente, il Pecorino toscano. Ma è anche un ottimo vino da meditazione. Ne produciamo anche una versione speciale, il Brunello di Montalcino Docg Riserva, che viene messa in vendita dopo sei anni, in quanto ha un ulteriore anno di affinamento in botte rispetto al Brunello classico». Il Brunello di Montalcino, ven-

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IL BRUNELLO E IL ROSSO DI MONTALCINO Fattoi Ofelio & figli

demmiato a fine settembre-inizio ottobre, con una raccolta esclusivamente manuale, viene fatto fermentare in vasche di acciaio Inox, con una macerazione di 15-20 giorni; dopo la svinatura e la sgrondatura delle vinacce, fra marzo e maggio se ne inizia l’affinamento in acciaio. Deve poi invecchiare almeno per cinque anni, di cui tre ne trascorre in botti di legno di rovere da 32 e 45 hl come vuole la tradizione. Il processo di produzione si conclude con un affinamento in bottiglia della durata minima di quattro mesi. «Un altro buon vino che viene prodotto in questa zona sempre da uve di sangiovese, con tempi di invecchiamento più brevi (23 anni), è il Rosso di Montalcino Doc. Di colore limpido e brillante, un rosso rubino, pro-

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fuma di piccoli frutti freschi e leggera marasca. Ha un sapore asciutto, con nerbo, freschezza e una buona persistenza aromatica. È un vino di pronta beva, particolarmente suadente». Le sue caratteristiche sono ovviamente esaltate, come il Brunello, dai piatti tipici della cucina toscana, ma è un vino che si adatta anche alle abitudini culinarie di altre zone. Si abbina bene con molti piatti di media struttura, come i primi a base di sughi di carne, di pollame e i risotti compositi di funghi o tartufi. Va d’amore e d’accordo insieme ai secondi di carne di maiale o di vitello salsato. «Il fattore determinante che contraddistingue i nostri vini affonda le sue radici nella nostra terra e nell’uva di Sangiovese, che, con coltivazione chiamata

“cordone speronato”, permette di ottenere poi una delle sue massime espressioni. È importante anche la posizione dei vigneti, positivamente influenzati dai venti che soffiano dal mare, che consente una maturazione ottimale delle uve. Queste condizioni favorevoli, impossibili da imitare altrove, sono un dono della nostra terra. Qui, nella parte meridionale del comune di Montalcino, il terreno è composto di sabbie e argille ed il clima è generalmente mite. Questo ci consente di produrre dai 9 ettari di vigneti: circa 25mila bottiglie di Brunello di Montalcino all’anno, di una qualità di rara tipicità e pienezza; circa 20mila bottiglie di Rosso di Montalcino; e circa 3mila del Brunello Riserva, prodotto nelle annate migliori».

In apertura, bottiglie in affinamento; sotto, Ofelio Fattoi dell’azienda agricola Fattoi Ofelio & figli, Montalcino (Si) www.fattoi.it

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MONTEPULCIANO DOC Aldimaro Daviddi

Un’arte da decantare PROFUMO INTENSO. MORBIDO AL PALATO. PIACEVOLI RIMANDI AROMATICI. È IL MONTEPULCIANO DOC, UN ROSSO DAL CARATTERE RUBINO

di Nicoletta Bucciarelli

ini prodotti da uve autoctone di Montepulciano, raccolta che viene effettuata rigorosamente a mano, per arrivare a un imbottigliamento realizzato con il metodo tradizionale senza nessun supporto di vitigni internazionali. Sono i vini dell’Azienda Agricola Casale di Montepulciano, curati in ogni aspetto per soddisfare le esigenze di un mercato, in modo particolare quello internazionale, grande estimatore di questo rosso Doc. Aldimaro Daviddi, racconta il suo rosso, senza tralasciare l’importanza degli abbinamenti culinari. «Un piatto di

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Azienda Agricola Casale di Aldimaro Daviddi www.casaledaviddi.it

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faraona farcita o d’anatra esalta i nostri vini di Montepulciano». Quale tra i vostri vini consiglierebbe a un neofita per un primo assaggio di Montepulciano e quale a un intenditore?

«Sicuramente ad una persona che si avvicina al mondo del vino e vuole degustare un vino di Montepulciano consiglierei un Rosso di Montepulciano Doc con il quale si può tranquillamente abbinare un piatto di formaggio e di affettati locali. Mentre per un intenditore consiglierei un vino un po’ più impegnativo come il Vino Nobile di Montepulciano Riserva, per gustarlo

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MONTEPULCIANO DOC Aldimaro Daviddi

con buon piatto di cacciagione o di fiorentina. Sicuramente troverebbe un vino entusiasmante, grazie all’invecchiamento di 3 anni nelle botti di legno. Inoltre consiglierei di aprirlo qualche ora prima e versarlo poi dal decanter». Qual è il segreto per una buona conservazione dei vini?

«Il punto di partenza è sicuramente un’uva di ottima qualità. Uve del genere derivano solo da un buon terreno. Terreni come quelli che vi sono a Montepulciano, argillosi e sassosi, hanno un grande potenziale. Per quanto riguarda poi la conservazione, non vi è

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un particolare segreto. Tuttavia vi sono dei suggerimenti che è importante non sottovalutare per conservare a lungo i vini in cantina. Innanzitutto è importante tenerli in un ambiente ad una temperatura idonea, senza fonti di luce solare diretta. La cosa più importante in ogni caso è che la bottiglia sia sdraiata o, meglio ancora, inclinata, in modo che la bolla d’aria rimanga sulla parte alta della bottiglia e che il vino sia sempre a contatto con il tappo». Quali sono le caratteristiche principali di un buon Montepulciano?

«Deve essere di un intenso colore rosso rubino con riflessi sull’arancio. Deve rimandare a un profumo di bouquet speziato e di frutti rossi, con una varietà di aromi che variano dalla vaniglia alla ciliegia. Al palato deve risultare leggermente tannico ma allo stesso tempo morbido e rotondo, con una struttura e un’acidità ben equilibrata dovuta al suo giusto periodo d’invecchiamento nelle botti di rovere, che contribuiscono a dare il giusto apporto ai nostri vini. Il retrogusto deve permanere e lasciare nella bocca asciutta una piacevolissima sensazione di aromi».

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Dal prugnolo

gentile LA STORIA ILLUSTRE DEL VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO. DALLA PROVINCIA DI SIENA, IL PROFUMO INTENSO E FLOREALE DI UN VINO UNICO E GARANTITO DAL MARCHIO DOCG

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VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO Dario Cappelli e Gigliola Cardinali

i troviamo fra i paesaggi toscani, dove la natura è costellata di borghi medievali e la terra produce buoni frutti, nel cuore del Parco artistico naturale della Val d’Orcia, nel territorio comunale di Pienza in provincia di Siena, valle che dal 2004 è stata riconosciuta dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità. Poco distante si produce il Vino Nobile di Montepulciano. Questo vino – dal colore rubino, che, con l’invecchiamento, tende al granato, dal profumo intenso e floreale, dal sapore asciutto, equilibrato e persistente – è una Denominazione di origine controllata e garantita (Docg) e viene infatti prodotto soltanto a Montepulciano, ottenuto dalla pigiatura dell’uva delle viti che crescono sulle colline del comune di Montepulciano. Siamo di fronte a uno dei vini più antichi d’Italia. Emanuele Repetti, nel suo Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, riporta un documento, riferibile a questo vino, del lontano 789. Del 1350 è un altro documento che ne stabilisce le norme per l’esportazione il commercio. È comunque accertato che, almeno a partire dall'Alto Medioevo, i vigneti di Mons Pulitianus producevano vini eccellenti. Nel XVII secolo, il poeta Francesco Redi, nel poema Bacco in Toscana, dedica versi di elogio al Montepulciano, definendolo il re di tutti i vini. I produttori di questo vino sono riuniti in un Consorzio, nato nel 1965 con l’intento di tutelare e

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promuovere il Vino Nobile di Montepulciano. Oltre che garantire il controllo di qualità su ogni annata, operano con diverse iniziative e con la partecipazione a fiere ed esposizioni, anche all’estero. Fra le aziende che compongono il Consorzio c’è il marchio Lunadoro, presso la tenuta di Pagliareto (Valiano), Montepulciano (Si), di Dario Cappelli e Gigliola Cardinali. Marito e moglie, entrambi figli di contadini, hanno scelto di non abbandonare il mestiere tradizionale delle loro famiglie e di vivere e lavorare in campagna. Già cerealicoltori, hanno avviato un’attività di agriturismo, con il desiderio di promuovere le qualità del loro territorio e di offrire ospitalità a chi volesse trascorrere del tempo a contatto con la natura senese, nel 2002 la coppia ha deciso di intraprendere una strada nuova. Come racconta Dario: «Volevamo diventare produttori di vino. Certamente, per noi, compiere questo passo è stata una scelta naturale anche se molto difficile e rischiosa. Niente è facile in un periodo di crisi economica mondiale e nel settore vinicolo incominciare la propria attività, senza tradizioni alle spalle, non è certamente semplice. Possiamo comunque dire che era nel nostro Dna. Per prima cosa abbiamo acquistato la tenuta di Pagliareto, che è posta sul crinale di Valiano, nel comune di Montepulciano, in una delle aree più adatte per la produzione dei vini tipici di questa terra . L’azienda si estende oggi su sessanta ettari, di cui dodici sono dedicati esclusivamente al vigneto. A sua volta, dieci

ettari sono riservati alla produzione del Vino Nobile di Montepulciano». Come stabilito dal disciplinare, questo vino può essere ottenuto solo da uve coltivate nell’area di Montepulciano e a partire da vitigni ben precisi. «Il Nobile di Montepulciano – Spiega Gigliola – si ottiene dal Sangiovese, con percentuale del 70% minimo, e si affina in botti di rovere francese. Nelle nostre botti maturano anche altre qualità di vino, come la selezione Riserva di Vino Nobile di Montepulciano Quercione, che è fatto a partire da viti di Sangiovese, che da queste parti chiamiamo Prugnolo Gentile (90%), Canaiolo e Mammolo (5%) e Merlot (5%), e si abbina perfettamente con arrosti di carni rosse, formaggi duri, formaggi erborinati e selvaggina. Accanto a questi vini, che sono i nostri prodotti di qualità più elevata, produciamo anche il Rosso di Montepulciano, che si caratterizza per un odore intenso – profuma di mammola – e ha sapore asciutto, armonico, leggermente tannico. Produciamo inoltre anche Igt rossi, bianco e rosato ».

In apertura, Dario Cappelli e Gigliola Cardinali di Lunadoro, Montepulciano (Si) www.lunadoro.com

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VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO Luca Tiberini

Un calice di sensazioni COME CONCENTRARE IN UN SOLO BICCHIERE DI VINO STORIA, EMOZIONI, PASSIONI E IL CARATTERE DEL TERRITORIO? LUCA TIBERINI DESCRIVE IL SUO “VINO NOBILE”

di Nicoletta Bucciarelli

ons Publicianus. È questo il nome originario dell’antica Montepulciano, adagiata su un colle che fa da spartiacque tra le valli dell’Orcia e della Chiana. Oggi, sulle dolci colline che da Montepulciano degradando verso la Valdichiana, nella zona da sempre definita come uno dei cuori pulsanti della produzione del Vino Nobile di Montepulciano, nasce l’azienda agricola Tiberini. 22 ettari di terreno di cui 16,5 a vigneto e 2 a oliveto posti a un’altezza media di 310 m. s.l.m. Un terreno, quello di Montepulciano, particolarmente indicato per i vitigni. «I terreni sono di impasto tufaceo,- spiega

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Luca Tiberini- con argilla e sabbie di origine pliocenica. Godono di un ottimo irraggiamento solare per tutto l’arco della giornata e di una tenue ventilazione che permette alle uve di mantenersi integre fino alla perfetta maturazione. Il metodo di allevamento che abbiamo scelto per i nostri vitigni è il guyot, con rese per ettaro che non superano mai i 45/50 Ql di uva, anche nelle annate migliori». Un mestiere, quello del vignaiolo, che la famiglia Tiberini si tramanda da generazioni. «Ad ognuno di noi, fin da bambino, è stato tramandato l’amore e la passione per la nostra terra. Oggi, io e mio fratello Fabio proseguiamo il lavoro consegnatoci da nostro padre

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VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO Luca Tiberini

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO · Anno: 2007 · Produttore: Podere Le Caggiole Tiberini · Varietà: Prugnolo Gentile · Odore: I profumi sono di frutta rossa matura, di amarena, e con il particolare richiamo alla Coscia di Monaca, la prugna autoctona di Montepulciano · Abbinamenti: speciale con carni allo spiedo, alla brace e anche brasate, oltre che con formaggi intensi o stagionati

Marino, con la certezza e la volontà di lasciarlo domani ai nostri figli». La cura del vigneto, l’amore posto nella potatura, l’utilizzo di concimazioni organiche, una vendemmia fatta rigorosamente a mano, avendo cura di scegliere i grappoli migliori, si rispecchiano poi nel prodotto finale. «La nostra filosofia riguardo il contenimento della produzione di uva è aiutata dal particolare microclima e dalla tipologia del terreno, che non permettono grande forza vegetativa. Una severa cernita viene praticata a fine Luglio, primi giorni di Agosto, con l’uva in fase di preinvaiatura, allo scopo di definire il quantitativo ottimale di uva per pianta e per ottenere la

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migliore disposizione dei frutti sulla vite». Il lavoro immerso nella natura deve trovare poi una sua continuità nella cantina dove «come ci tramandiamo da generazioni, l’importante è capire quanto la terra e la vigna ci hanno dato. Vogliamo un vino che sia rappresentativo del nostro stile, quello tramandatosi in famiglia, da generazioni di persone vissute nella terra e che sempre hanno voluto identificare con un carattere particolare i prodotti». Un messaggio, quello dell’azienda Tiberini, che deve emergere a ogni sorso di rosso. «A chi assaporerà la mia bottiglia di vino, dovrà arrivare la storia, la tradizione, la territorialità e la passione. Per questo nel mio

modo di produrre vino, non posso pensare che il termine "qualità" sia il mio punto di arrivo. Qualità è oggi un termine generico in quanto grazie alla tecnologia non esistono più vini cattivi. I secoli di storia, le nostre accortezze, lo stile di una lunga tradizione, il carattere e la particolarità del nostro territorio dovranno emergere insieme alle sensazioni che l'uva nata e cresciuta attraverso stagioni, sole vento e pioggia, notte e giorno, riesce a dare. I vitigni sono resi unici ed inimitabili, solamente per un bagaglio di conoscenze che deriva dalla tradizione e non solo dall’aspetto tecnico». Questo è quello che deve decantare il calice.

Nella pagina accanto Luca e Fabio Tiberini, titolari dell’Azienda Agricola Tiberini di Montepulciano (Siena) azagrtiberini@libero.it

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Nella letteratura

e nella storia LA VERNACCIA DI SAN GIMIGNANO È UN PREGIATO VINO PRODOTTO ESCLUSIVAMENTE NELL’ANTICO COMUNE TOSCANO. QUI LA FAMIGLIA VECCHIONE PORTA AVANTI DA CENTOCINQUANT’ANNI LA TRADIZIONE DI QUESTO GRANDE BIANCO

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LA VERNACCIA Andrea Vecchione

bbe la Santa Chiesa in le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia”. Con questa parole Dante descrive nel canto XXIV del Purgatorio Martino IV, il papa amante del grande vino di San Gimignano, così come del resto lo furono Lorenzo De Medici e altri illustri personaggi del passato. La Vernaccia di San Gimignano non è solo nella storia della letteratura ma anche in quella dell’enologia: fu infatti il primo vino a ricevere, quarantacinque anni fa, il marchio di denominazione d’origine controllata. Nella storia è anche la famiglia Vecchione, che dal 1860 gestisce l’azienda agricola San Quirico, che proprio nella Vernaccia di San Gimignano ha il suo prodotto di punta. Nei primi anni 70, come racconta Andrea Vecchione, è iniziata la commercializzazione del vino in bottiglia: «Nel 1970 venne realizzato il primo impianto e nel 1973 ci fu la prima produzione dei vigneti, che inizialmente erano solo di Vernaccia. Successivamente fu aumentata la superficie e la varietà delle uve, con vitigni di Sangiovese, Cabernet Souvignon, Merlot e Syrah». Il fiore all’occhiello di San Quirico rimane però la Vernaccia: «È un vino profumato – spiega Vecchione – ma allo stesso tempo molto corposo e ben strutturato. Grazie a queste caratteristiche

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Nelle foto, panoramica e cantina dell’azienda agricola San Quirico che ha sede a San Gimignano (SI) az.agr.sanquirico@libero.it

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regge benissimo l’invecchiamento: noi abbiamo in produzione delle riserve del 2004 e 2005 che sono al top ora». La Vernaccia Riserva ha dato grandi soddisfazioni alla famiglia Vecchione: nel 2010 il riserva Isabella – così chiamato in onore della figlia di Andrea, che lo aiuta nella conduzione dell’azienda – ha ricevuto tre bicchieri nella guida Vini d’Italia del Gambero Rosso. Ma l’azienda agricola non produce solo Vernaccia: «Abbiamo un Chianti Colli Senesi, un San Gimignano Doc che facciamo in purezza come Merlot o come Cabernet Souvignon e un San Gimignano Doc Vin Santo tradizionale, classico delle nostre zone», ricorda Vecchione. San Quirico rappresenta un esempio virtuoso anche dal punto di vista della qualità dei processi di coltivazione in relazione alla salvaguardia ambientale. Dal 2004 infatti, in seguito a un processo di conversione durato tre anni, ha ricevuto la certificazione di produttore biologico. «Ha sempre fatto parte del nostro essere – specifica Vecchione – tant’è che anche prima di ricevere il riconoscimento ufficiale programmavamo e attuavamo gli interventi cercando di avere il minor impatto possibile sull’ambiente. Serve più attenzione, bisogna essere tempestivi nei trattamenti che vengono fatti ed effettuarli nel giorno o addirittura nell’ora esatti per avere dei ri-

sultati buoni. È impegnativo ma non impossibile». Del tutto naturale, niente insetticidi, niente diserbanti, concimazioni stallatiche; praticamente è un’agricoltura come quella che si faceva cent’anni fa. A tutto vantaggio della salute dell’ambiente, di chi consuma il vino e di chi lo produce. Vecchione in gioventù è stato nella nazionale di atletica leggera; certamente l’attività agonistica lo ha aiutato a mantenersi in forma fino a oggi, ma come dice lui stesso, «per conservare un fisico sano e uno spirito vivo bisogna ringraziare soprattutto la movimentata vita di campagna e il lavoro manuale». E un buon bicchiere di Vernaccia di tanto in tanto.

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Dalla terra delle dolci colline DALLA VIGNA ALLA TAVOLA. TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE, FRANCO TROIANI RACCONTA L’UNICITÀ DEL VINO DELLE COLLINE SENESI

di Guido Puopolo a Toscana, regione dalle antichissime tradizioni enologiche, è definita da molti come la “terra delle dolci colline”, nelle quali sono numerosi i vigneti che producono vini, bianchi e rossi, dal gusto inconfondibile. I magnifici paesaggi intorno al caratteristico borgo medievale di San Gimignano, nella provincia senese, fanno da cornice a ettari di coltivazioni viticole, che hanno contribuito a rendere questo angolo di Italia celebre nel mondo. È in questo contesto che nel 1959 è nata l’Azienda Agricola Fontaleoni,

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un’impresa a carattere familiare attualmente gestita in prima persona da Franco Troiani: «L’azienda si estende su una superficie complessiva di circa cinquanta ettari, di cui trenta sono adibiti prevalentemente alla coltivazione della vite, da cui ricaviamo ogni anno circa 1800 ettolitri di vino. La parte restante dei terreni è invece occupata da un bosco, da alcuni fabbricati rurali e da una sessantina di ulivi, dai quali si ottiene un ottimo olio». Il successo di un vino, naturalmente, è strettamente legato all’ambiente geografico in cui viene coltivata

l’uva, e in questo senso le caratteristiche geologiche di San Gimignano rappresentano una garanzia di assoluta qualità, come conferma Troiani: «I nostri vigneti si trovano in zone di origine pliocenica e visti i numerosi fossili si può accertare che in questa zona c’era il mare; un medio impasto caratterizzato da un’importante frazione di argille gialle come il tufo conferisce inoltre al vino una spiccata mineralità e sapidità, tipica della vernaccia». La Vernaccia di San Gimignano, vino con una storia secolare che dal 1993 si fregia della denominazione Docg, è

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NOTTE DI LUNA · Anno: 2010 · Produttore: Azienda Agricola Fontaleoni · Varietà: Vernaccia di San Gimignano · Odore: fine, penetrante, caratteristico, fruttato, floreale, erbaceo e minerale · Abbinamenti: primi piatti di salse bianche, fritture varie, piatti di pesce, uova e carne bianche. Ottimo anche come aperitivo o da accompagno agli antipasti

In apertura, Franco Troiani. Sopra, l’Azienda Agricola Fontaleoni Az.fontaleoni@libero.it

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il fiore all’occhiello della produzione vinicola dell’Azienda Fontaleoni. «La vernaccia è il prodotto tipico del nostro territorio. È strettamente collegata a San Gimignano e infatti si produce solamente qui. Le uve vengono raccolte in settembre, sempre a mano – spiega Troiani – e trasferite poi in cantina, dove avviene la fermentazione del vino. Tutte le fasi di trasformazione della materia prima in prodotto finito si svolgono all’interno dell’azienda, fatta eccezione per l’imbottigliamento, che è invece affidato a terzi. Gli ettari di terreno adibiti alla col-

tivazione di vernaccia sono 13». La vernaccia in ogni caso non è il solo vitigno presente all’interno dell’azienda agricola: «Per la produzione di vino da tavola bianco 1 ettaro di terreno è adibito alla coltivazione di Chardonnay e 1,5 al Trebbiano Toscano. Per la produzione di Chianti colli senesi docg, Rosso di San Gimignano doc e vino da tavola rosso abbiamo 10 ettari di vitigno Sangiovese, 1,5 di Merlot e 1 ettaro di Canaiolo e Colorino». La cantina rappresenta, per un’azienda come la Fontaleoni, il cuore di tutta la sua attività, il luogo in cui

un’accurata lavorazione dell’uva permette di ottenere un prodotto di altissimo livello apprezzato anche in Giappone e negli Stati Uniti, dove l’Azienda esporta i propri vini fin dal 1995. «La nostra cantina è costituita da un ampio spazio esterno per il conferimento delle uve, e da un locale interno, dotato delle tecnologie più moderne, capaci di garantire una perfetta fermentazione alcolica tanto dei vini bianchi quanto dei vini rossi che produciamo. Una seconda cantina, invece, è utilizzata come magazzino per i prodotti già imbottigliati».

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TRADIZIONI VINICOLE Vittorio Innocenti

Il vino, espressione

di antiche virtù TESTIMONI DI UN SANO RAPPORTO CON LA TERRA, CONNUBIO TRA UOMO E CULTURA. SONO I VINI DELLE CANTINE INNOCENTI. FRA SPONTANEI PROCESSI NATURALI E ARTI UMANE

di Nicoletta Bucciarelli Gusto • 148

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TRADIZIONI VINICOLE Vittorio Innocenti

l vino accompagna da sempre la storia dell’uomo e il suo fascino non accenna a diminuire. Chi si dedica alla coltivazione della vite e alla produzione del vino si colloca nella pratica di antiche virtù: l’operosità, la pazienza, l’attesa, la speranza. Ci troviamo tra Montefollonico e Montepulciano, territorio che a partire dal mondo etrusco e romano è sempre stato culla di una prestigiosa tradizione vinicola. Qui sorgono le Cantine Innocenti, produttrici di Vino Nobile di Montepulciano, Rosso di Montepulciano, Chianti dei Colli Senesi e Vin Santo. «Nella mia cantina passano amanti del vino da ogni parte del mondo, - racconta Vittorio Innocenti- per i quali conta soprattutto il contatto personale, l’esperienza umana, l’incontro “simpatetico” con il prodotto e il produttore. Il tutto dentro una cornice in cui si respira il corso della storia e la continuità di una tradizione. Il mio vino nasce da un forte senso di radicamento ed è la risposta a un bisogno istintivo». Trentadue ettari di cui quindici a vigneto specializzato. «I terreni variano dal sabbioso alluvionale al medio impasto argilloso; i primi danno vini più fini ed eleganti, i secondi vini di maggior forza ed intensità». Vittorio Innocenti, da quando ha lasciato l’insegnamento

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della filosofia, segue personalmente l’azienda e la cantina. «Mi muoveva soprattutto un bisogno di vita relativamente semplice e “serena”. Non si è trattato in ogni caso di una fuga in un eden bucolico né di una particolare declinazione dell’“utopia”. Avevo abbastanza chiaro il contesto reale, storico e pratico dell’operazione». Parlando delle fasi di lavorazione del prodotto. «Il vino, a mio parere, si fa prima di tutto in vigna. Un’attenta scelta delle giaciture più vocate alla vite, una buona conduzione agronomica, una bassa produzione per ettaro, la vendemmia in selezione, uniti all’utilizzo di vitigni autoctoni, sono la premessa fondamentale per ottenere vini con un’identità definita e un carattere originale e riconoscibile, espressione del contesto in cui sono prodotti. In cantina viene dedicata molta attenzione alle fasi di vinificazione senza particolari preclusioni per le moderne tecniche enologiche, ma con giudizio, mirando soprattutto a esaltare gli aspetti identitari del prodotto. Affinamento e maturazione vengono fatte in legno per un periodo di 2-3 anni, in botti piccole di 10/15 hl e tonneaux di 5/7 hl». Dal vino delle Cantine Innocenti traspare il sapore di un mestiere che racchiude fascino antico e soddisfazioni autentiche. «Per la

In apertura, una veduta delle vigne delle Cantine Innocenti di Montefollonico (SI). Sopra, la famiglia Innocenti www.cantineinnocenti.it

civiltà contadina di cui il sottoscritto ha fatto in tempo a condividere gli ultimi bagliori il contatto con la terra rappresentava fatica, operosità, qualche volta stenti e miseria, ma era attraversato anche da momenti sereni e gioiosi come la trebbiatura sull’aia e il rito festoso della vendemmia. Valeva la pena salvaguardare e trasmettere questo patrimonio di memorie e di luoghi mirabilmente segnati dalla storia. Il vino può permettersi anche questi miracoli».

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TRADIZIONI ENOLOGICHE Azienda Agraria Santa Lucia

Da cinque generazioni,

la stessa tradizione LA FAMIGLIA SCOTTO PRODUCE VINO DAL XIX SECOLO. E CON L’INGRESSO IN AZIENDA DELL’ULTIMA GENERAZIONE, GUARDA A NUOVI OBIETTIVI

j di Lucrezia Gennari i

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a famiglia Scotto ha sempre prodotto vino, fin dal 1886. In principio fu Giuseppe Scotto, che lasciò l’azienda Santa Lucia al figlio Salvatore, detto Tore, al quale è intitolata tuttora l’etichetta di Morellino di Scansano Tore del Moro, uno dei classici dell’azienda. Salvatore era il nonno dell’attuale titolare, Luciano Scotto. «Iniziai a imbotti-

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gliare vino negli anni 70 – ricorda quest’ultimo -. All’epoca si beveva quasi solo vino bianco tant’è che fummo tra i primi a imbottigliare un bianco Vermentino, chiamato Brigante, che continuiamo a produrre ancora oggi». Quando negli anni 90 cominciò a diffondersi la conoscenza delle proprietà benefiche del vino rosso, con un conseguente aumento esponenziale del suo consumo, la produzione dell’azienda Santa Lucia della famiglia Scotto si ampliò ulteriormente, andando ad annoverare anche l’Igt Maremma Toscana Rosso “Betto”. Nel corso degli anni l’azienda Santa Lucia di Fonteblanda, in provincia di Grosseto, ha implementato i vigneti di proprietà arrivando a contare i 25 ettari di vigneto attuali, coltivati a Vermentino, Ansonica, Sangiovese, Colorino, Alicante, Merlot, Cabernet Sauvignon, con un potenziale produttivo di 200mila

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TRADIZIONI ENOLOGICHE Azienda Agraria Santa Lucia

TORE DEL MORO · Gradazione alcolica: 13,5% · Tipologia di vino: Docg Morellino di Scansano · Zona di produzione: Comune di Magliano in Toscana (GR) · Vitigno: Sangiovese in purezza bottiglie l’anno. «La nostra produzione va a valorizzare principalmente quelle che sono le varietà autoctone della zona – spiega Lorenzo Scotto, figlio di Luciano, che proprio negli anni 90 ha fatto il suo ingresso in azienda in qualità di enologo – quindi per i bianchi il Vermentino e l’Ansonica; per i rossi il Sangiovese e i due Morellino di Scansano, nelle versioni base e riserva. Completano la gamma due vini più internazionali, il Betto e il Sl». Il primo si compone di un uvaggio Sangiovese Merlot e Cabernet Sauvignon, mentre il secondo è una selezione delle migliori uve di Cabernet Sauvignon. «Sl è l’ultimo nato della gamma aziendale – continua Lorenzo Scotto – e la sua particolarità è il coniugare la nota tipicamente internazionale del Cabernet Sauvignon con il forte legame con il territorio toscano». Passata di generazione in generazione, l’azienda nell’ultimo anno ha visto l’ingresso anche del secondogenito di Luciano Scotto, Luca, il cui apporto all’impresa di famiglia si concentra sulla commercializzazione dei prodotti, la promozione, il marketing e sul

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· Vinificazione: fermentazione e macerazione con controllo della temperatura per circa 20 giorni · Maturazione: 4 mesi di affinamento in barriques e 6 mesi di maturazione in vasca d’acciaio

rapporto con la clientela. «L’obiettivo – afferma Luca - è rafforzare ulteriormente il brand Maremma Toscana dei vini Vermentino, Ansonica, Sangiovese e Betto e diffonderlo anche sui mercati stranieri». Le prospettive sembrano positive: negli anni Santa Lucia è cresciuta, andando a comprendere un servizio di agriturismo, con possibilità di pernottamento e di gustare pranzi o cene presso il ristorante convenzionato La Nuova Dispensa, di Omar Scotto, situato a pochi chilometri dall’azienda. La struttura comprende anche una sala degustazione che diventerà ancora più grande quando verrà ufficialmente conclusa la nuova cantina, andando a proporre non solo i vini dell’azienda, ma anche altri prodotti tipici locali. «La

nuova cantina si sviluppa su di una superficie di 1700 mq – spiega Luciano Scotto – e ci permette, oltre che di ottimizzare la nostra produzione, anche di effettuare un servizio completo in conto terzi, dalla vinificazione all’imbottigliamento». La nuova cantina dell’azienda Santa Lucia è all’avanguardia anche dal punto di vista tecnologico. «Tutti i sistemi di vinificazione e affinamento – sottolinea Lorenzo Scotto – sfruttano tecnologie di controllo e gestione delle temperature e dell’umidità, sia per i vini bianchi che per i rossi, informatizzati. L’obiettivo è preservare al massimo le qualità della materia prima, cercando di ottenere vini profumati, colorati e strutturati, ma nello stesso tempo piacevoli e morbidi».

In apertura, da sinistra, Luca, Luciano e Lorenzo Scotto. Sotto, un’immagine della cantina dell’azienda Santa Lucia az.santalucia@tin.it

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MORELLINO DI SCANSANO Aleardo e Giuseppe Mantellassi

Così il Morellino è diventato grande È TRA LE PRIME PRODUTTRICI DEL MORELLINO DI SCANSANO, E HA CONTRIBUITO ALLA COSTITUZIONE DELLA SUA DENOMINAZIONE DI ORIGINE CONTROLLATA. LA FATTORIA MANTELLASSI, RACCONTATA DA ALEARDO E GIUSEPPE MANTELLASSI

j di Eugenia Campo di Costa i una storia che dura da ormai cinquant’anni quella della Fattoria Mantellassi in Magliano in Toscana. Nel 1958 Ezio Mantellassi organizzò, insieme a pochi altri vignaioli, la prima festa dell’uva e del vino a Scansano. Allora le cantine erano piene di vino, e nessuno sembrava volerlo, tant’è che durante la festa, Mantellassi e gli altri vignaioli cominciarono a distribuire, regalandole, molte damigiane. Era l’inizio della diffusione di uno dei prodotti più amati del territorio. Mantellassi acquistò 104 damigiane e cominciò a portare il

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suo vino fuori dal paese. Con l’aiuto del capo dell’Ispettorato dell’Agricoltura, poi, intervenne per iniziare le pratiche utili a dare una denominazione al vino prodotto in quelle zone. Nacque il “Morellino”, così denominato nella zona di produzione, da un uvaggio composto da 85% di Sangiovese piccolo, poi Montepulciano, Canaiolo e Tinto di Spagna. «Era un vino mediamente alcolico con un bel colore rosso rubino non tanto profumato, ma con un buon sapore pieno - ricorda il figlio di Ezio, Aleardo, attualmente alla guida dell’azienda insieme al fratello Giuseppe -. La

nostra azienda è stata la prima a imbottigliare il “Morellino”». Ora questo vino, grazie anche ai sacrifici dei vignaioli, determinati nel voler valorizzare il prodotto, ha acquisito un buon nome e rappresenta tuttora il fiore all’occhiello della produzione della Fattoria Mantellassi che ha contribuito in maniera determinante alla costituzione della Denominazione di Origine Controllata del Morellino di Scansano avvenuta nel 1978. L’azienda, i cui primi vigneti furono impiantati nel 1960, si estende oggi per 215 ettari sulle colline della Maremma, su terreni di natura tufaceo-calcarea con una

In apertura la famiglia Mantellassi. Nella pagina accanto, un’immagine dei vitigni www.fattoriamantellassi.it

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MORELLINO DI SCANSANO Aleardo e Giuseppe Mantellassi

MORELLINO DI SCANSANO DOC LE SENTINELLE · Vitigni: Sangiovese 85%, Alicante 15% · Zona di origine: Magliano in Toscana base ampelografica costituita prevalentemente dal vitigno Sangiovese, poi dai vitigni Alicante, Cabernet Sauvignon, Morellino, Merlot, Canaiolo Nero, Malvasia Nera, Ciliegiolo, Vermentino Bianco, Sauvignon Bianco. Vista la varietà dei vitigni, l’azienda produce diverse tipologie di vini, rossi e bianchi, ma il suo prodotto di punta resta il Morellino di Scansano Doc che la Fattoria esporta in gran parte in Germania, Svizzera, Stati Uniti d’America, Canada, Hong Kong e Singapore, e la cui migliore espressione qualitativa è nell’etichetta Le Sentinelle. «Le Sentinelle – spiega Giuseppe Mantellassi - è un vigneto di 2,5 ettari in coltivazione sul poggio omonimo, il più avaro dei tanti

· Vigneto: Collinare, terreno tufaceo calcareo, superficie ha 2,5. Produzione uva ql. 50/ha · Vinificazione:Tradizionale in rosso in piccole vasche da hl 50 con lunga macerazione · Maturazione e affinamento: 20 mesi in barriques di rovere francese e alcuni mesi in bottiglia

poggi su cui si estendono i 50 ettari di vigneto della fattoria. È ottenuto dalla vinificazione delle uve Morellino, clone autoctono di Sangiovese che ha dato il nome alla Doc». Su iniziativa dei fratelli Aleardo e Giuseppe Mantellassi, attuali proprietari della Fattoria, che condu-

cono direttamente l’azienda avvalendosi della fattiva collaborazione ed esperienza di uno staff tecnico diretto dall’enologo Marco Stefanini, dal vigneto Le Sentinelle è partita una selezione clonale del vitigno Morellino effettuata dai Vivai Cooperativi Rauscedo, che ha portato alla omologazione, per la prima volta in Italia, i tre cloni di Sangiovese Morellino. Dai vigneti della Fattoria Mantellassi derivano anche due grappe: la Grappa Riserva di Querciolaia, distillata in purezza dalle vinacce di Alicante, e la Grappa di Morellino di Scansano “Le Carbonaiole”. Completa l’offerta un l’olio extravergine di oliva Fiordaliso, proveniente esclusivamente da oliveti dell’azienda agricola, molto apprezzato per il suo gusto fine ed elegante, caratterizzato da una nota decisa, tipica dell’olio toscano.

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STRADA DEL VINO E DEI SAPORI MONTEREGIO Simone Rustici

Cuore di Maremma SIMONE RUSTICI RILANCIA L’OFFERTA TURISTICA DELLA STRADA DEL VINO E DEI SAPORI MONTEREGIO DI MASSA MARITTIMA, STRINGENDO IL LEGAME TRA GASTRONOMIA E TERRITORIO

j di Pierpaolo Marchese i n percorso “del cuore” tra poderi, vigne e olivi secolari. È ciò che rappresenta la Strada del Vino e dei Sapori Monteregio di Massa Marittima per il suo presidente, Simone Rustici. «Questa strada è un paniere ricco di tutto ciò che un territorio come la Maremma conserva, dalle sue tradizioni ai suoi personaggi, fino, ovviamente, ai suoi prodotti». E così, dalle colline metallifere dell’Alta Maremma Grossetana fino ai comuni di Massa Marittima, Monterotondo, Montieri, Follonica, Scarlino, Gavorrano, Roccastrada e Castiglione della Pescaia, ci si imbatte in un patrimonio enologico e gastronomico contornato da uno straordinario ambiente naturale.

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«È proprio questo connubio tra natura e sapori a rappresentare l’anima della terra di Toscana – evidenzia Rustici -. Qui, fra paesaggi incontaminati, aspri e selvaggi, si trovano centri ricchi di storia e di cultura, romantici borghi e imponenti castelli». Lo sfondo ideale, quindi, per andare alla scoperta di aziende vitivinicole, agriturismi, enoteche, prodotti tipici e botteghe artigiane di alta qualità. Una realtà che l’Associazione tutela e promuove anche attraverso il suo Centro informazioni situato nel cuore di Massa Marittima. Importanti gli investimenti rivolti a quest’area, sia da parte di aziende vinicole nazionali che di piccoli produttori. «Molti attori hanno cercato di investire sul territorio

credendo nella produzione del Monteregio di Massa Marittima – spiega Rustici - Il mio compito come presidente è quello di coniugare esigenze diverse nell’interesse di tutti, accrescendo quel senso di appartenenza ad un gruppo che si pone un obiettivo comune: produrre e vendere qualità». Fattori strategici anche nell’attirare sempre di più i flussi turistici, garantendo loro attrattive enogastronomiche, culinarie e ricettive di primo livello. «Il momento economico che stiamo vivendo non è dei migliori, ma sono certo che un’interpretazione dei nostri prodotti legata strettamente ai luoghi in cui questi nascono, rappresenti la chiave di volta per superare ogni forma di crisi».

In foto, Simone Rustici, presidente dell’Associazione Strada del Vino e dei Sapori Monteregio di Massa Marittima, (GR) info@stradavino.it

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I vini della memoria LA TOSCANA RISCOPRE I VALORI DEI VITIGNI LOCALI, PORTANDO AVANTI LA TRADIZIONE DEI SUOI PADRI CONTADINI. L’ESEMPIO DI ROBERTO DROANDI

j di Giacomo Bellini i alla volontà di salvare un importante patrimonio viticolo, Roberto Droandi, dell’azienda agricola Mannucci Droandi di Montevarchi Arezzo, ha contribuito a recuperare oltre 50 varietà di antiche viti, anche grazie a una tradizione contadina locale rimasta caparbiamente affezionata ai “frutti” tramandati dai loro padri. E così, da una selezione iniziale, nel tempo l’azienda è aumentata di dimensioni, coltivando su una scala via via più importante

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le varietà che si distinguono per la “personalità” più spiccata. Nasce così la serie dei “Vini della Memoria”, che comprende la Barsaglina, la Foglia Tonda e il Pugnitello. All’inizio questa decisione pareva avventata. «Vero. Oggi, però, con la crescente tendenza alla rivalutazione delle varietà locali, questa decisione sembra addirittura troppo timida». La sua scelta di recupero del-

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VITIGNI LOCALI Roberto Droandi

Con il biologico interpretiamo nel modo più autentico le caratteristiche e le specificità del territorio l’autoctono tradizionale si affianca anche a un impegno rivolto al biologico. Come si è giunti a questa politica? «Dal 2000 con la conversione all’Agricoltura Biologica, abbiamo imparato che questo metodo, oltre a rispettare l’ambiente, permette al vino e all’olio che produciamo di interpretare nel modo più autentico le caratteristiche e le specificità del territorio. E ciò è fondamentale perché questi prodotti non rappresentano unicamente cibi o bevande, sono una testimonianza fondamentale di questa regione, del suo paesaggio e della sua cultura. Gli aspetti positivi dell’agricoltura biologica sono molteplici. Il principale, però, resta la possibilità, per ogni ettaro coltivato con questo metodo, di fissare la CO2 nel suolo. In questo modo si contribuisce in maniera determinante alla riduzione dell’effetto serra». Parliamo del Chianti, bandiera della cultura vinicola lo-

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cale. Non trova che questo vino sia troppo inflazionato? «Produrre questo vino è un “obbligo” per un toscano, ma spesso posizionare sul mercato un Chianti di fattoria è difficile. Il settore è dominato dai prodotti di tipo industriale a basso costo. Noi abbiamo scelto la via di una qualità elevatissima rispetto alle attese che il consumatore medio ha nei confronti di questo tipo di vino, senza dimenticare un prezzo giusto e puntando a un più stretto legame con il territorio di origine, il Chianti Classico e il Chianti Colli Aretini». Tra gli innumerevoli abbinamenti cibo-vino, potrebbe eleggerne uno che secondo lei può rendere l’idea della filosofia di Mannucci Droandi? «Mi permetto di suggerirne alcuni che, frutto della tradizione familiare e locale, ben rappresentano la nostra filosofia produttiva. Le pappardelle con il ragù di coniglio,

che mia moglie Maria Grazia cucina secondo la ricetta di famiglia, abbinate al Chianti Colli Aretini. Oppure il Pollo del Valdarno in umido, abbinato al Ceppeto Chianti Classico». Mannucci Droandi è vino, ma anche olio. «Dove si fa il vino, in Toscana, si produce anche l’olio, quasi sempre in condizioni difficili, come nel Chianti Classico, ma di qualità molto alta. Da sempre producevamo l’olio, anche se solo per la famiglia e per la vendita nel mercato locale. Abbiamo iniziato a venderlo in bottiglia grazie alla sollecitazione di una coppia di amici americani esperti del settore: rimasti colpiti dalla qualità dell’olio prodotto a Ceppeto, ci incoraggiarono a valorizzarlo anche con la Dop Chianti Classico, che allora muoveva i primi passi. Inutile dire che sono divenuti i nostri migliori clienti e distributori nel mercato statunitense».

Nelle immagini, la cantina e un esterno dell’azienda Mannucci Droandi di Montevarchi Arezzo. In apertura, Roberto Droandi con la moglie Maria Grazia www.mannuccidroandi.com

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Una filiera da difendere IL SETTORE RIPRENDE QUOTA MA SONO TANTE LE RISORSE E LE POTENZIALITÀ ANCORA DA LIBERARE. CON POLITICHE MIRATE, A LIVELLO NAZIONALE E NON SOLO. IL PUNTO DI CONFAGRICOLTURA, CIA E COLDIRETTI

di Michela Evangelisti Istat ribalta le previsioni: il comparto agricolo ha chiuso l’anno con un valore aggiunto in crescita dell’1% dopo il crollo del 3,1% del 2009. Ma i presidenti delle tre principali organizzazioni di rappresentanza e tutela degli imprenditori agricoli non si lasciano andare a facili entusiasmi: l’inversione di rotta, come si deduce dai dati stessi, non è ancora sufficiente per dichiarare superato un 2009 da dimenticare e i nervi scoperti del settore (tra agropirateria internazionale, inefficienze lungo la filiera e minacce alla biodiversità) richiedono prudenza e interventi mirati. In particolare tra gli operatori c'è allarme per la crescita dei costi di produzione, che hanno registrato un aumento del 4,4% a gennaio, con punte del 16,9% per i mangimi e del 6,4% per i carburanti agricoli. In questo scenario la riforma della Pac si prospetta un appuntamento determinante.

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MARIO GUIDI, Neopresidente di Confagricoltura

Gli ultimi dati Istat sul settore sono stati salutati positivamente da Confagricoltura. «Indubbiamente il 2010 è stato un anno difficile ma che ha segnato una positiva inversione di tendenza. Il valore aggiunto agricolo è cresciuto dell’1% rispetto al 2009 in termini reali. Certo dobbiamo recuperare un notevole gap accumulato negli ultimi anni, quasi 2 miliardi di euro dal 2004 al 2009: siamo all’inizio della salita. Sul fronte delle ragioni di scambio la valutazione è analoga. Negli ultimi dieci anni i prezzi dei

prodotti agricoli all’origine sono aumentati dell’1,5% l’anno; i costi più del doppio. E invece nel 2010 il passo si è invertito. Ora si tratta di consolidare questi “fondamentali” in un percorso di recupero duraturo». Per il 2011 c’è allarme tra gli operatori a causa della risalita dei costi di produzione. «Se negli ultimi mesi del 2010 la dinamica dei costi è stata confortante, a febbraio i trend si sono invertiti. I costi sono saliti, anche se di poco, mentre i prezzi sono scesi, facendo peggiorare la ragione di scambio. In pratica gli andamenti sembrano ormai consolidati: i prezzi sono in preda alla

Sotto, Mario Guidi, neopresidente di Confagricoltura

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volatilità schizofrenica dei mercati, mentre i costi aumentano costantemente senza, o quasi mai, invertire la tendenza al rialzo. Più che allarme c’è attenzione: se la situazione è questa dobbiamo intervenire con adeguate politiche pubbliche e non “dimenticando” gli agricoltori in occasione delle manovre economiche. Ma anche con iniziative virtuose degli operatori che contribuiscano a ridurre i costi». Che prospettive si aprono per l’anno in corso? «L’instabilità mondiale e le tensioni sul fronte delle materie prime, petrolio incluso, potranno portare a una maggiore dinamica “di fondo” dei costi, con tendenze rialziste che non lasciano ben sperare. Sul fronte dei prezzi, invece, dovrebbe stabilizzarsi l’ondata di aumenti delle materie prime agricole che ha fatto lievitare i prezzi su scala mondiale. Poi abbiamo degli appuntamenti politici di rilievo. Dalla discussione della riforma della politica agricola comune a Bruxelles al dibattito nazionale su scelte che possono significare molto per la nostra agricoltura». Di quali strategie il settore ha maggiormente bisogno? «Di investimenti materiali e immateriali finalizzati alla maggiore competitività del sistema produttivo. Sono però importanti anche gli investimenti dell’economia

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della conoscenza, la formazione, gli investimenti in marketing e business scouting su nuovi mercati e su quelli consolidati. E poi la ricerca tecnologica e soprattutto gli investimenti per sviluppare quell’effetto rete tra operatori, istituzioni e altri soggetti del settore che favorisce la valorizzazione del prodotto e la crescita delle imprese». Quali sono le principali minacce per i nostri prodotti? «Intanto tutti i nostri prodotti sono di qualità e autentici. Per cui ogni qual volta perdiamo potenziale produttivo e accresciamo il nostro fabbisogno di importazione dall’estero, c’è una minaccia al nostro agroalimentare. Abbiamo il sistema europeo di qualità certificata e garantita, spesso legata anche all’origine, di cui l’Italia è protagonista assoluta, ma che non dà ancora garanzie al di fuori dei confini dell’Unione. Si minaccia la qualità e l’autenticità delle nostre produzioni tutte le volte che s’indebolisce il nostro sistema di imprese e che si concede

ai concorrenti dei Paesi terzi la possibilità di imporre il loro prodotto, magari anche utilizzando la beffa dell’italian sounding».

In alto, Giuseppe Politi, presidente della Confederazione italiana agricoltori

GIUSEPPE POLITI, Presidente di Cia

Avete parlato di un andamento tendenzialmente piatto dell’agricoltura. Quali le cause? «A “zavorrare” l’agricoltura italiana sono da un lato i costi e gli oneri in continuo aumento e, dall’altro, i prezzi sui campi non remunerativi per gli agricoltori. Problemi che coinvolgono tutti i settori, soffocandone potenzialità e risorse. Inoltre rimane ancora

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troppo ampia la forbice tra prezzi pagati al produttore e prezzi al consumo. Basti pensare che un litro di latte oggi viene pagato all’allevatore 38-40 centesimi, mentre nel carrello della spesa il prezzo schizza fino a 1,60 euro: l’aumento nella filiera è del 300%». Quali prospettive si aprono per l’anno in corso? «Il 2011 non promette bene: già a gennaio i costi di produzione sono saliti del 4,4% annuo. Solo per il carburante agricolo c’è stato un aumento del 6,4%, alimentato dalle rivolte in Nord Africa. Ed è proprio il caro-petrolio a preoccupare maggiormente gli agricoltori: secondo le stime del nostro centro studi, se le quotazioni del Brent restassero in linea con quelle attuali, e in più la Bce confermasse la decisione di rialzare i tassi d’interesse da aprile, l’aggravio complessivo per il settore primario giungerebbe nella media del 2011 a quota 2 miliardi di euro. Ciò significa che ogni azienda agricola dovrà sborsare dai 3 ai 5 mila euro in più in un anno solo per gli effetti del “boom” del gasolio». Quali interventi sono più urgenti? «Bisognerebbe reintrodurre immediatamente l’accisa zero sui carburanti, cancellata nel novembre 2009 e mai più inserita, nonostante le promesse del governo. Poi favorire il ricambio generazionale, aumentando, per esempio, la dotazione finanziaria per il credito d’imposta per l’imprenditoria gio-

vane. In più, occorre facilitare l’accesso al credito, semplificare i rapporti con la pubblica amministrazione, finanziare in modo adeguato il fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali. A livello più generale è tempo di realizzare la Conferenza nazionale sull’agricoltura e lo sviluppo rurale, che la Cia chiede dal 2004 e da cui dovrà scaturire una rinnovata politica agraria, ma anche una posizione negoziale forte, autorevole e unitaria, sulla Pac post 2013». Quali sono le principali minacce all’autenticità dei nostri prodotti? «L’agropirateria alle spalle dei prodotti italiani di qualità è un business che sfiora i 60 miliardi di euro l’anno, poco meno di un terzo del fatturato totale del nostro settore agricolo e agroindustriale. La norma sull’etichettatura obbligatoria, varata di recente dal governo, va nella direzione di arginare questo problema. Ora, però, è necessario rendere effettiva la legge con l’emanazione dei vari decreti attuativi di competenza ministeriale e soprattutto impegnarsi a livello comunitario affinché non venga messa sotto infrazione, ma anzi venga recepita ed estesa a tutti i paesi dell’Unione europea. Infine, su scala mondiale nell’ambito del Wto servirebbe un registro di prodotti alimentari certificati e garantiti da tutelare in maniera multilaterale». Nel 2010 è stata adottata la

strategia nazionale per la biodiversità. Ci sono già risultati tangibili? «È ancora troppo presto per avere dati definitivi, ma ci sono già segnali positivi che confermano la validità della strategia. La protezione dell’ambiente e la produzione di materie rinnovabili come le derrate alimentari o i mangimi animali vanno di pari passo; non è vero, dunque, che l’una esclude l’altra. Mantenere un'elevata biodiversità, sia a livello nazionale che locale, permette di evitare gravi danni ecologici, culturali ed anche economici; riteniamo che richieda condivisione e collaborazione tra decisori politici e amministrazioni centrali e regionali e debba passare attraverso il coinvolgimento delle imprese agricole professionali nel recupero e riuso delle specie autoctone. Tenendo sempre presente che la salvaguardia della biodiversità è incompatibile con la presenza di Ogm».

SERGIO MARINI, Presidente di Coldiretti

Come commenta gli ultimi dati Istat sull’agricoltura italiana? «Dobbiamo parlare di un recupero del valore purtroppo non ancora completato rispetto ai crolli che si sono verificati negli anni precedenti il 2010; recupero che è continuato anche nel primo bimestre del 2011, quando tuttavia si sono registrate gravi crisi in settori e in territori chiave dell’economia agricola. Questo anche per effetto delle inefficienze e delle speculazioni lungo la filiera agroalimentare, che scarica la sua debolezza verso la parte agricola, notoriamente dotata di minor potere contrattuale». Quali sono gli investi-

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menti di cui al momento il settore ha bisogno? «Siamo entrati nella fase cruciale del negoziato per la riforma della politica agricola europea e come Coldiretti siamo stati promotori di una proposta che spinge verso un modello agroalimentare dove il protagonismo torna agli agricoltori e al territorio. Trasparenza, filiera corta, informazione ai consumatori, qualità, più efficaci strumenti di mercato, assicurazione al reddito, difesa del budget, sussidiarietà e semplificazione, e ancora centralità del lavoro e contrasto alla rendita fondiaria sono le parole chiave del documento che abbiamo presentato al Governo». La Coldiretti sta promuovendo un progetto per una filiera agricola tutta italiana. «L’obiettivo è tagliare le intermediazioni e arrivare ad offrire, attraverso la rete di consorzi agrari, cooperative, mercati di Campagna amica, agriturismi e imprese agricole, prodotti alimentari al 100% italiani al giusto prezzo. Si tratta

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di una filiera “agricola” perché protagonisti sono gli agricoltori dal campo al cibo, “italiana” perché realizzata con prodotti che provengono esclusivamente dai campi e dagli allevamenti italiani e firmata dagli agricoltori, che ci mettono la faccia». Avete denunciato che circa un terzo della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati deriva da materie prime agricole straniere, trasformate e vendute con il marchio made in Italy. Come bisogna intervenire? «Sul piano nazionale servono regole per la trasparenza della produzione, attraverso un corretto sistema di etichettatura di origine su tutti gli alimenti. Il problema è rilevante anche per le nostre esportazioni, che potrebbero ulteriormente migliorare con una più efficace tutela nei confronti della “agropirateria” internazionale. Occorre assolutamente evitare che si radichi nelle tavole di tutto il mondo un falso made in Italy che toglie spazio di

mercato a quello autentico e banalizza le specialità nostrane frutto di tecniche, tradizioni e territori unici e inimitabili». Cosa comporta per il settore agricolo mantenere un’elevata biodiversità? «In Italia sono scomparse dalla tavola tre varietà di frutta su quattro e su una larga percentuale di quelle rimaste grava il rischio estinzione, mentre mancano all’appello una trentina di razze tra mucche, maiali e pecore e il 95% delle antiche varietà di grano. Proprio per non rischiare di perdere un patrimonio importante di biodiversità e con esso parte dell’identità ambientale e culturale di un territorio, la Coldiretti ha avviato un’azione di recupero importante nei mercati degli agricoltori di Campagna amica. Negli oltre 700 “farmers market” sono state offerte opportunità economiche agli allevatori e ai coltivatori di varietà e razze a rischio d’estinzione che altrimenti non sarebbero mai sopravvissute alle regole delle moderne forme di distribuzione».

In alto, Sergio Marini, presidente di Coldiretti

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La forza della biodinamica DA DIVERSI ANNI SI STA DIFFONDENDO LA CULTURA DEL PRODOTTO BIOLOGICO. MA ANCHE QUALCOSA DI PIÙ. LA BIODINAMICA AD ESEMPIO. QUESTO SPECIALE METODO RIGUARDA SIA L’ALLEVAMENTO DEGLI ANIMALI, CHE L’AGRICOLTURA. NE PARLA ALOIS OCHSENREITER

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AGRICOLTURA BIOLOGICA Alois Ochsenreiter

a biodinamica è uno speciale metodo di agricoltura biologica che si impegna a mantenere il suolo fertile, le piante in ottima salute e accrescere la qualità dei prodotti ricavati dall’agricoltura. Non sono molte le aziende agricole che si impegnano in questa direzione. Alois Ochsenreiter, titolare della Harderburg, parla della sua esperienza diretta in questo campo.

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Letteralmente cosa significa “Biodinamica”? «Il termine “biodinamica” ha due differenti radici: “bio”, che indica l’azione agricola svolta nel rispetto delle leggi della natura; e “dinamica” che sottolinea il totale rispetto dei principi organizzatori che agiscono sulle sostanze. La biodinamica riguarda sia l’allevamento degli animali, che l’agricoltura, che anche i preparati utilizzati nella coltivazione del terreno. La nostra azienda agricola, ad esempio, si occupa nello specifico della produzione vinicola basata su questi particolari principi». Quali sono le differenze fondamentali fra “biologico” e “biodinamico”? «L’agricoltura biodinamica è un metodo biologico che cerca sempre e comunque di operare in conformità agli equilibri ecologici cercando di non alterarli.

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Si esclude così qualsiasi utilizzo di sostanze chimiche nella coltivazione del suolo e nella difesa delle colture. Tuttavia i principi che regolano la biodinamica sono più restrittivi rispetto all’agricoltura biologica poiché l’azienda che opera nel rispetto della biodinamica è un vero e proprio organismo vivente che si impegna alla rotazione frequente delle colture. La grande e fondamentale differenza sta nel riconoscimento di una realtà spirituale che agisce sulla natura. Nella nostra azienda non è mai stata utilizzata una macchina agricola, sia per attenerci fedelmente ai principi della biodinamica, sia perché la conformazione e la pendenza del terreno sono comunque più adatti alla raccolta manuale». Cosa offrono i vostri vini in più rispetto a quelli coltivati senza rispetto di tali principi? «In tutta la nostra produzione c’è una particolare attenzione alla realtà dei nostri vigneti che si estendono quasi a 700 metri di altitudine. Questa caratteristica permette all’uva di crescere ad altitudini decisamente favorevoli. Se si considera inoltre l’imperante clima alpino con influssi mediterranei, si comprenderà come ne possa nascere una produzione di vini nel totale rispetto della natura». E quali sono le diverse tipologie di uve da voi coltivate biodinamicamente?

«Ci sono differenti varietà come Kerner, Sylvaner, Gewürztraminer e, per la prima volta, anche il Riesling, messo a dimora su nostra iniziativa. L’invecchiamento di una parte delle uve di Kerner, Sylvaner e Gewürztraminer avviene in piccole botti d’acciaio, per non alterare il gusto originario del vino con sentori di legno e conferirgli il tipico carattere fruttato e deciso dei vini della Valle Isarco. Un altro ambizioso risultato è l’ottenimento della cuvée Obermairl, una combinazione di quattro varietà varietà vinificata con la fermentazione del mosto sulle proprie bucce, che grazie al particolare metodo di coltivazione delle viti consentirà di dare pieno risalto alle potenzialità delle uve da cui nasce».

Sopra, Alois Ochsenreiter, della Weingut Harderburg di Salorno (BZ). In apertura, una veduta dell’azienda agricola: a sinistra Obermairlhof Sylvaner di loro produzione www.harderburg.it

Questa vostra peculiarità cosa trasmette ai vini da voi prodotti? «Ogni tipologia di vino ottiene tratti del tutto singolari. Freschezza, vivacità nei vini giovani; armonia ed eleganza nei vini più invecchiati. Riusciamo in particolare ad ottenere differenti sfumature nel gusto che riflettono nella loro interezza l’armonia della natura».

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la natura

in tavola SI FANNO COL CAVOLO CAPPUCCIO. ANZI, È LA NATURA LA LORO ARTEFICE PRINCIPALE. EVELYN LECHNER, CHE PRODUCE CRAUTI SECONDO L’ANTICA TRADIZIONE ALTOATESINA, SPIEGA LE QUALITÀ DI QUESTO PRODOTTO

di Amedeo Longhi


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CRAUTI Evelyn Lechner

cauti sono un alimento tipico della tradizione gastronomica dei popoli di lingua tedesca, tanto da essere quasi un cliché dell’alimentazione a nord delle Alpi Centrali e Orientali. Ma i cliché, spesso non si conoscono abbastanza. È il caso quindi di capire meglio cosa sono i crauti, come si fanno e quali sono le loro qualità. Può stupire, ma vengono prodotti – e apprezzati – anche in Italia, in particolare in Alto Adige. In Val Venosta, li produce la Lechner Herbert KG di Lasa. «Siamo un’azienda agricola a conduzione familiare – dice Evelyn Lechner – e produciamo crauti freschi venostani, un tipico prodotto altoatesino. La nostra famiglia è impegnata in quest’attività da più di sessant’anni; noi, siamo gli eredi non solo dell’azienda, ma anche di una ricetta tradizionale che è propria della Val Venosta. Per questo i nostri prodotti sono garantiti dal marchio di qualità

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In apertura e sotto, campi agricoli dell’azienda Lechner Herbert KG di Lasa. In basso a destra, piatto tipico con crauti info@lechner-bz.eu

“Alto Adige-Südtirol”». L’ortaggio col quale si fanno i crauti è il cavolo cappuccio. Il metodo di coltivazione e le condizioni climatiche sono la prima fase di preparazione di questa ricetta.«Li coltiviamo nei nostri campi, fra Lasa e Prato allo Stelvio. È una zona di montagna con terreni e clima ideale per la coltivazione. Grazie all’altitudine, siamo circa a 900 metri, non c’è mai molto caldo e le notti sono sempre fresche, anche in piena estate. Così gli ortaggi crescono lentamente, risultando molto teneri, e hanno il tempo di sviluppare tutto il loro sapore. A partire dalla fine di agosto fino ai primi di novembre, i cavoli cappucci maturi vengono raccolti, sempre al pomeriggio, e puliti. La mattina dopo vengono tagliati a striscie sottili e messi in appositi contenitori, insieme al sale». È qui che inizia la fermentazione lattica, che dà ai crauti il loro tipico sapore acido, senza che sia necessario aggiungere

aceto. «Il processo di acidificazione è del tutto naturale. Il nostro compito è solo quello di dare alla natura le condizioni migliori per fare il suo lavoro: una materia prima di ottima qualità e temperature e ambienti idonei. Ciò è possibile solo grazie a una lunga esperienza a tu per tu con la natura. Questo processo naturale aumenta il contenuto di vitamina C». I crauti sono un alimento completo e sano. Infatti non contengono grassi, sono ricchi di vitamine, zinco, magnesio, ferro e calcio. «Noi seguiamo tutto il processo dalla piantinaporta al prodotto finale, che consegnamo direttamente ai clienti, soprattutto negozi di alimentari e macellerie. Siamo fornitori anche per dei grossisti, che distribuiscono i nostri prodotti soprattutto in Alto Adige, ma anche in alcune province del Nord Italia. I nostri crauti freschi possono essere richiesti sfusi, in secchielli di diverse misure, o confezionati, in barattoli da 700 grammi, al naturale o già cotti e aromatizzati, pronti al consumo secondo la tipica ricetta altoatesina. Basta aggiungere la carne e si può gustare un piatto tipico della nostra terra. Da qualche anno offriamo anche crauti rossi, crauti di rape e crauti misti di rape e cappucci, specialità molto apprezzate. Vorrei concludere con il suggerimento di un piatto veramente tipico: i crauti con würstel e pancetta affumicata, magari accompagnati dai canederli».

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Nettare di natura


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PRELIBATEZZE DI FRUTTA E VERDURA Tullio Valcanover

UN PICCOLO PARADISO IMMERSO NELLE VALLI TRENTINE DOVE LA NATURA È L’INGREDIENTE CHE RENDE OGNI PRODOTTO DELLA TERRA UNICO E SPECIALE: LA GENUINITÀ DEI PRODOTTI DI CA’ DE BAGHI RACCONTATA DA TULLIO VALCANOVER

di Erika Facciolla frutti migliori della tradizione gastronomica italiana sono quelli coltivati secondo metodi tradizionali, la cui bontà e genuinità si mantiene inalterata nel tempo. Profumi e sapori in un certo senso perduti a causa dell’inevitabile industrializzazione del settore alimentare, ma che fortunatamente rivivono ancora oggi in alcune ‘oasi’ rurali dove i metodi utilizzati nelle coltivazioni sono ancora quelli di una volta. È il caso dell’azienda agricola Ca’ dei Baghi della famiglia Valcanover, officina gastronomica votata alla creazione di prelibatezze a base di frutta e verdura coltivate con passione. L’azienda si trova in un’antica casa rurale a Bosentino, grazioso centro del Trentino incastonato sull’altopiano della Vigolana, a due passi dallo splendido Lago di Caldonazzo. All'interno del laboratorio di trasformazione si producono confetture, succhi, sciroppi, rumtopf e frutta sotto grappa, utilizzando esclusivamente prodotti provenienti dalle coltivazioni di famiglia. Tullio Valcanover, titolare dell’attività, ci svela il segreto della bontà dei prodotti di Ca’ dei Baghi. «Coltiviamo con il sistema di lotta integrata, un metodo a basso impatto ambientale che associa l'agricoltura tradizionale alle moderne tecniche di controllo dei parassiti e delle

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fitopatologie. Lavoriamo la frutta come si faceva una volta, per conservarla nel tempo preservandone sapore e qualità». L’azienda inizia la sua attività di trasformazione della frutta fresca nel 2004, avvalendosi della coltivazione, già avviata, di mele, pere, ciliegie e piccoli frutti. «Usiamo frutta di prima qualità appena raccolta e al giusto grado di maturazione – tiene a sottolineare Valcanover alla quale aggiungiamo solo zucchero di canna, senza alcun tipo di addensanti o conservanti». Le squisite confetture di Ca’ dei Baghi sono realizzate attraverso un procedimento di cottura sottovuoto. Inoltre possono fregiarsi della qualifica di confetture ‘extra’. «Ricordiamo che per legge – sottolinea il titolare dell’azienda - la confettura per chiamarsi "extra" deve contenere almeno quarantacinque grammi di frutta su cento grammi di prodotto. Noi arriviamo a cento-centocinquanta grammi con risultati quantitativi non altissimi, ma eccellenti dal punto di vista qualitativo». Ai gusti classici ispirati alla tradizione gastronomica del territorio, nel corso degli anni si sono aggiunti gusti dimenticati come cotogne, corniole, rosa canina, nespole e gusti particolari nati dal connubio della frutta con profumi o sapori speziati. «Seguendo poi le ricette della nonna

Gemma – continua Tullio Valcanover - ci siamo dedicati anche alla produzione di sciroppi di sambuco, ribes, ciliegia e amarena e abbiamo messo in pratica anche i consigli della zia Ester su come conservare la frutta sotto grappa». Una tradizione familiare, dunque, che apre le porte ad un mondo di bontà dove la natura è la protagonista indiscussa. Fiore all’occhiello dell’azienda è il succo di mela, premiato nel marzo 2005 all'Agrifood di Verona. «Si tratta della spremitura a freddo del frutto, senza aggiunta né di acqua, né di zucchero. Nel berlo, si ha la sensazione di mangiare una fetta di mela. Eccellente come dissetante o come aperitivo se abbinato a un buon spumante e ottima colazione per i bambini».

In questa pagina, a sinistra, Foto di Tamaracagnin.com: prodotti dell’azienda agricola Ca’ dei Baghi www.cadeibaghi.com

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LEGATI ALLA TERRA Gianni Brusatassi

Il valore della tracciabilità

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LEGATI ALLA TERRA Gianni Brusatassi

QUELLA DEL POMODORO È UNA FILIERA COESA, BEN STRUTTURATA E TUTTA ITALIANA. LA SUA FORZA SI È VISTA QUANDO NEL 2009 SI È MOBILITATA PER SALVARE UNA DELLE PIÙ GROSSE REALTÀ DEL SETTORE

j di Amedeo Longhi i alta Emilia è sempre stata la culla della lavorazione del pomodoro per l’Italia e per il mondo intero. Quasi due secoli fa, i contadini parmigiani per primi si cimentarono nella produzione della polpa, realizzando i famosi “pani neri” che facevano essiccare al sole. Poi venne Carlo Rognoni, uno dei padri dell’agricoltura moderna, anche lui parmigiano doc, che sperimentò e diffuse innovative tecniche agricole, in particolare destinate alla coltivazione del pomodoro. La grande evoluzione del settore conserviero, che esplose letteralmente nei primi anni del ventesimo secolo grazie all’introduzione delle prime macchine, coinvolse quindi anche la vicina provincia di Piacenza, facendo della zona un distretto fondamentale da un lato per l’economia regionale e dall’altro per il mercato mondiale dei derivati del pomodoro. Questo florido settore, le cui fortune si sono succedute nel corso nei decenni, ha rischiato di subire una drammatica perdita non più tardi di un paio di anni fa, esattamente nel giugno del 2009. In quel periodo infatti, si stava consumando il fallimento di Emiliana

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Conserve, una delle maggiori aziende di lavorazione del pomodoro d’Italia, con sede principale a Busseto – paese in provincia di Parma le cui terre furono luogo natio di Giuseppe Verdi – e un distaccamento produttivo vicino a Piacenza, a San Polo di Podenzano. Il 23 giugno 2009 la vecchia proprietà annunciò di non essere in grado di affrontare l’imminente campagna di trasformazione prevista per il mese di luglio e che l’intera società sarebbe stata posta in liquidazione. Un duro colpo non solo per il mercato agroalimentare, ma anche per le tante famiglie a cui l’azienda dava sostentamento – i dipendenti erano una cinquantina fissi e circa quattrocentocinquanta stagionali. Si innescò così una disperata corsa per salvare questa importante realtà, a cui parteciparono tutte le componenti della filiera del pomodoro, dai lavoratori ai fornitori, dagli acquirenti finali fino alle istituzioni. L’intervento andò buon fine e, poco più di un mese dopo questa catastrofe societaria, la campagna di trasformazione prese il via regolarmente. La nuova Emiliana Conserve è oggi una società per composta da soci per lo più grossi agricoltori,

praticamente una public company agricola. Il nuovo presidente Gianni Brusatassi, nominato nel 2009 e ancora oggi alla guida dell’azienda, non nasconde la propria soddisfazione per come sono andate le cose: «Se la filiera è unita e si rema tutti nella stessa direzione si riescono a salvare aziende in difficoltà. Sarebbe stato più facile lasciar fallire la società piuttosto che farla ripartire, ma quanto è accaduto dimostra che si possono raggiungere grandi risultati se c’è coesione. Abbiamo ricevuto attestati di stima da tutti, sindacati compresi». A due anni di distanza la situazione è positiva e le drammatiche difficoltà del passato sono ormai dimenticate: «Abbiamo messo in questa impresa tutto il nostro entusiasmo, il nostro coraggio e la nostra esperienza manageriale – prosegue l’amministratore delegato Gian Mario Bosoni – e continueremo a farlo nei prossimi anni con spirito di sacrificio e concretezza, confortati dai positivi risultati già oggi ottenuti. Crediamo con il nostro esempio di aver positivamente contagiato i dipendenti della società, che hanno sin da subito dimostrato di credere nelle nuove prospettive di Emiliana Conserve».

Sopra, a destra Gianni Brusatassi, presidente, e a sinistra Gian Mario Bosoni, amministratore delegato di Emiliana Conserve. Nell’altra pagina, alcune fasi della raccolta e della lavorazione www.emilianaconserve.it

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Credit foto: Alberto Peroli

SALVIAMO LE DIVERSITÀ L’ATTIVITÀ DI SLOW FOOD GUARDA AL FUTURO. EDUCANDO LE NUOVE GENERAZIONI ALLA CULTURA DEL CIBO IN TUTTI I SUOI ASPETTI. LO SPIEGA ROBERTO BURDESE

di Francesca Druidi

ell’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia, Slow Food istituisce - per la prima volta - una propria festa nazionale che coinciderà anche con il venticinquesimo compleanno dell’associazione, fondata nel 1986, tra le cui finalità rientrano la promozione del piacere legato all’alimentazione e la salvaguardia delle culture del cibo che rispettano ecosistemi e territori. A ricordare lo sforzo edu-

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cativo e di tutela profuso dall’associazione, che ha ormai raggiunto una caratura internazionale, è Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia, che sottolinea come nel mondo il made in Italy enogastronomico e alimentare continui a identificare un valore enorme, non solo dal punto di vista economico ma anche sotto il profilo dell’immaginario. «Perché quando si parla del nostro Paese, uno dei primi aspetti che emerge è proprio il cibo».

Roberto Burdese, presidente Slow Food Italia. Sopra, esemplari del Suino Nero dei Nebrodi, presidio Slow Food. Nelle pagine successive, altri presidi Slow Food

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IDENTITÀ CULINARIA Roberto Burdese

Perdere l’eredità rappresentata dalle biodiversità costituirebbe un danno irreparabile Slow food mira a proteggere le biodiversità e le piccole produzioni di qualità italiane. Oggi si registra un’effettiva, maggiore, consapevolezza da parte dei consumatori? «Rispetto alle origini del nostro percorso, iniziato 25 anni fa, sicuramente si rilevano maggiore coscienza e una mutata sensibilità. La società contadina italiana dell’immediato secondo dopoguerra viveva tra le biodiversità, ma non sempre queste ultime erano percepite in senso positivo. Quella stessa società che evolve, cambia e si arricchisce ma che al contempo abbandona il suo patrimonio alimentare, in una prima fase ha pensato di aver imboccato un percorso di sviluppo, poi in una fase successiva ha invece intuito che per-

dere completamente quell’eredità costituirebbe un danno irreparabile, vista la ricchezza del Paese in questo senso». Questo mutato atteggiamento risulta trasversale? «Sì, in primis gli addetti ai lavori poi il mondo della ristorazione, degli agricoltori, la stessa industria, almeno in parte, i consumatori, sono maggiormente consapevoli della necessità che il patrimonio tradizionale, rappresentato dalle biodiversità, non vada disperso ma tutelato e condotto nel futuro. Tutto ciò però non può dirsi ancora soddisfacente o sufficiente. I danni fatti sono tanti, in alcuni casi troppi. A pesare è il meccanismo di omologazione e di globalizzazione che veico-

lano i processi industriali e la loro degenerazione, in particolare quando si collegano agli aspetti più deteriori della società dei consumi. Ecco allora che la velocità dei danni che tutti insieme provochiamo, procede più rapidamente della consapevolezza che stiamo acquisendo. È su quest’equilibrio infranto che si sta giocando la partita, naturalmente speriamo in un esito positivo». Come si inserisce l’impegno di Slow Food in questo scenario? «Siamo convinti che dobbiamo conservare una visione di lungo periodo. Far acquisire consapevolezza ai consumatori resta un fattore strategico, perché un intervento singolo oggi risulta inutile se non si crea e si coltiva

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IDENTITÀ CULINARIA Roberto Burdese

Credit foto: Archivio Slow Food

sensibilità nell’opinione pubblica. Per questo, siamo impegnati in attività educative soprattutto nei confronti dei giovani, confidando che un domani prendano in mano la situazione partendo da una base migliore della nostra». Quali sono, allo stato attuale, gli scenari di sviluppo per politiche alimentari più sostenibili? «Un meccanismo efficace che contribuisce ad aumentare la sensibilità dell’opinione pubblica è offerto dagli episodi di crisi. Porto un esempio: il caso dei maiali alla diossina scoppiato all’inizio di quest’anno in Germania ha fatto sì che molte più persone si siano rese conto di quanto servirebbe l’etichettatura delle carni suine. Noi che lo predichiamo da

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anni, non siamo riusciti a compiere uno scatto in avanti così importante per le nostre posizioni fino a questa crisi, perché se non si verifica un’emergenza si registra una sostanziale, generalizzata, pigrizia. Con la crisi, anche quella parte di addetti ai lavori che si era sempre mostrata critica verso le nostre proposte, ha compreso che senza l’etichettatura a rimetterci è anche l’industria italiana. Diversamente, si tratta di un processo lungo, lento, che implica tanta pazienza e impegno». Spazio all’educazione dunque. «Sì, occorre non dimenticare mai che nelle scuole c’è il nostro futuro. Per questo Slow Food va nelle scuole elementari e materne a realizzare gli orti scolastici, ne

abbiamo quasi 400 ormai in Italia. Con queste iniziative, puntiamo a formare le giovani generazioni che cresceranno speriamo - con una fetta di quella consapevolezza che accompagnava i nostri genitori e i nostri nonni. Certo, non c’è più la società contadina ma un mondo moderno dove, attraverso l’educazione, abbiamo la possibilità di operare scelte consapevoli. Non dobbiamo tornare a essere tutti agricoltori, ma un agricoltore vicino a casa possiamo andarcelo a cercare e farlo diventare un nostro fornitore. Ciò non risolve tutti i problemi, però diventa un punto di partenza importante per iniziare a interrogarci sulla provenienza del cibo che consumiamo, sull’identità di chi lo ha prodotto e del come l’ha prodotto».

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IDENTITÀ CULINARIA Gualtiero Marchesi

cucina

in movimento LA QUALITÀ E LE MOLTEPLICI POSSIBILITÀ DI PREPARAZIONE DEFINISCONO LA GASTRONOMIA ITALIANA. «IL FILO CONDUTTORE È LA LEGGEREZZA». PAROLA DI GUALTIERO MARCHESI

di Francesca Druidi l’inventore della moderna cucina italiana, al quale vengono dedicate mostre in Italia e oltre confine. A lui è intitolata, dal 2010, una fondazione che porta avanti il suo credo: l’insegnamento del buono e la cura del bello. È rettore di Alma, la Scuola internazionale di cucina italiana, il più autorevole centro di

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formazione per cuochi e sommelier. Vera e propria istituzione della gastronomia nostrana, Gualtiero Marchesi non cessa la sua attività di sperimentazione tra i fornelli, perché «non dobbiamo smettere di scoprire cose nuove». Il suo percorso culinario, sospeso tra scienza e arte intesa sia come ispirazione che come slancio

creativo, parte da Milano, dal ristorante dell’albergo “Al Mercato” appartenuto ai genitori. Una formazione che già profuma di vocazione. Poi sono arrivati l’esperienza all’estero, l’apertura del primo ristorante e i massimi riconoscimenti che hanno permesso alla cucina italiana di raggiungere una rinnovata notorietà mondiale. Per questo, da

Sopra, una delle ricette di Gualtiero Marchesi, risotto oro e zafferano

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IDENTITÀ CULINARIA Gualtiero Marchesi

Rispetto al resto del mondo, noi puntiamo a salvaguardare la qualità in sé, mentre gli altri propongono grandi elaborazioni del prodotto parenti che avevano lavorato all’estero e che conoscevano le tecniche a menadito. Capaci di conciliare la grande scuola con trippa e brasati, piatti per gente che lavorava e sodo. Un posto, “Al Mercato”, dove, ad esempio, d’estate si preparava la passata di pomodoro per l’inverno».

ambasciatore del made in Italy nel mondo, il grande chef può senz’altro contribuire a definire l’identità del Paese a tavola, nell’anno in cui l’Italia festeggia il centocinquantenario dell’Unità nazionale. In che modo la sua formazione è stata influenzata dalla vicinanza con la varietà e i colori offerti dal mercato ortofrutticolo nei pressi dell’albergo “Al Mercato” e soprattutto dalla tradizione culinaria e di ospitalità della sua famiglia? «Ho avuto sotto gli occhi due esempi eccezionali, innanzitutto l’eleganza di mia madre, la sua classe nell’accogliere i clienti, e poi mio padre, uomo di lavoro, di materia, conoscitore accanito e finissimo di musica e teatro. In silenzio, quasi senza volerlo, mi hanno seminato dentro. E poi c’erano i cuochi del ristorante,

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Cosa contraddistingue la cucina italiana oggi che il Paese celebra 150 anni dalla sua unificazione? «Esiste un filo conduttore tra nord, centro e sud Italia che attraversa e lega un Paese lungo e stretto con microclimi a strati e questo legante è rappresentato dalla leggerezza della nostra cucina. Rispetto al resto del mondo, noi puntiamo a salvaguardare la qualità in sé, mentre gli altri propongono grandi elaborazioni del prodotto. A questo proposito, può servire un proverbio brasiliano che recita più o meno così: lasciala com’è per vedere come rimane». Si può parlare di ingredienti e ricette che interpretano meglio l’essenza della cucina italiana? «Risponderei in maniera diversa. La verità è che la cucina è in continuo movimento e non dobbiamo smettere di scoprire cose nuove, vivendole e riproponendole secondo il nostro punto di vista geografico e

culturale. Guardi lo zenzero, come si fa a non amarlo, così profumato, dolce e piccante?» Tra i suoi piatti, quale il più rappresentativo in questo senso? «Un piatto? Risotto oro e zafferano, perché sono milanese e italiano, perché lo zafferano piace a tutti e perché una foglia d’oro è solo una foglia d’oro, un tocco di bellezza». Per lei la cucina è un’arte. E l’Italia è dotata come nessun altro luogo al mondo di un patrimonio naturale, artistico e monumentale ricco e straordinario. Come sono legati questi due aspetti? «Ho scritto un libro tra i tanti per l’editore Skira insieme a due professori di Brera che si intitola Il Bello è il buono, filosofia, tecnica e cucina delle Belle Arti. Più compromesso di così!». Cosa è maggiormente apprezzato all’estero della nostra gastronomia? E quanto sono diffusi gli stereotipi sulla nostra cucina? «Quando ci sono, la tradizione e il valore della semplicità, però mi dispiace molto ritrovare spesso un’interpretazione rozza della cucina italiana. Cucina matriarcale, ma priva di donne: mammona, consolatoria e ripetitiva».

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IDENTITÀ CULINARIA Massimo Bottura

la cultura

e il talento LA CUCINA COME CONNUBIO DI TECNICA, RICERCA ESTETICA, TRADIZIONE E SLANCIO INNOVATORE. SENZA DIMENTICARE UNA PICCOLA DOSE DI UMILTÀ. L’ARTE DELLA CUCINA SECONDO MASSIMO BOTTURA

di Francesca Druidi a appena conseguito il titolo di migliore chef del mondo, assegnato dall’Accademia internazionale della cucina di Parigi. Un riconoscimento che Massimo Bottura non esita a condividere con la brigata di cucina e di sala del suo ristorante, l’Osteria Francescana, di Modena. «È importante specificarlo perché spesso non si valorizza

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adeguatamente il valore del lavoro di sala, che è fondamentale per trasmettere l’operato della cucina». Fino a che punto si può parlare di tradizione e di innovazione nella cucina italiana? «La cucina italiana moderna pesca oggi dal paniere straordinario di materie prime per poi portare questi sapori a essere sublimati da manipolazioni intelligenti. L’Italia

esprime l’eccellenza assoluta a livello mondiale, perché c’è un gruppo di chef che lavora con tanta energia, idee e voglia di rompere gli schemi. La cucina italiana si esprime in modo profondo e moderno. Ha voglia di evolversi e direi che ha tutte le materie prime per farlo. Il tutto senza perdere contatto con la nostra storia, studiandola e analizzandola senza malinconia, ma in modo critico per prenderne

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In apertura, bollito misto non bollito, specialità di Bottura; nella pagina successiva, lo staff dell’Osteria Francescana


il meglio e trasferirlo nel futuro». Come si fa a esaltare le materie prime più semplici e al contempo più preziose del patrimonio agroalimentare italiano? «Attraverso una perfetta commistione tra etica ed estetica, intendendo l’etica come la nostra cultura e l’estetica come talento e conoscenza. Necessario è, inoltre, un pizzico di umiltà in modo da applicare la tecnica non per stupire, ma per sublimare». C’è un suo piatto che meglio incarna l’identità della cucina italiana? «Io credo che nel nostro Paese ci siano 20 cucine regionali, italiane. Sotto il nome di tortellino, tra Castelfranco e Modena, esistono mille ricette diverse perché ogni famiglia ha la propria ricetta, ereditata e custodita di generazione in generazione. Dalla Sicilia all’Alto Adige, si può pescare da un paniere di cucine regionali infinito». Quale rapporto tra arte culinaria e tecnologia? «Non puoi fermare la ricerca e il progresso quando aiutano a fare meglio. Bisogna solo guardare al risultato finale. Tiro la sfoglia con il matterello sul tagliere in legno, ma il bollito lo cuocio in

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Non mi considero né uno chef molecolare né creativo né tradizionale. Mi piace pensare che la mia cucina sia in evoluzione sottovuoto a poco più di 60°C. Perché devo cuocere in acqua, bollendole, carni di alta qualità? Cerco così di salvaguardare il lavoro di allevatori eroici che portano le mucche al pascolo in alpeggio: bassa temperatura, ma tempi dilatati con cotture sottovuoto che permettono di salvaguardare vitamine, proteine e proprietà organolettiche». Quanto pesano i luoghi comuni sulla creatività degli chef italiani? «Non mi considero né uno chef molecolare né creativo né tradizionale. Mi piace pensare che la mia cucina sia in evoluzione. Le tecniche che utilizzo sono sì d’avanguardia, ma relativamente

semplici. Distillo profumi e concentro sapori a pressioni bassissime per ottenere intensità e pulizia. Ad esempio, il concentrato di mela campanina: l’espressione più pura della mela mantovana che abbia mai assaggiato. La serviamo in accompagnamento a un’anguilla di Comacchio cotta sotto vuoto a bassa temperatura, poi laccata con tecnica asiatica, ma con la saba. Questa è la mia cucina: scelte intelligenti di tecniche per raffinare le materie prime e incrociare tradizioni gastronomiche apparentemente distanti o contrastanti. Mente, materia, forma, sapore, cultura, tradizione e tecnica tutte raccolte in unica - apparentemente semplice espressione».

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la norma a tavola PER FILIPPO LA MANTIA LA PASTA ALLA NORMA RAPPRESENTA L’IDENTITÀ CULINARIA ITALIANA. MA ALLA TRADIZIONE VA SEMPRE UNITA LA LEGGEREZZA

Gianmarco Chieregato

di Francesca Druidi


IDENTITÀ CULINARIA Filippo La Mantia

Filippo La Mantia, chef e patron dell’omonimo ristorante dell’Hotel Majestic di Roma. A sinistra, timballo alla Norma

stato il testimonial della settimana nazionale per la prevenzione oncologica, lanciata come ogni anno dalla Lega italiana per la lotta contro i tumori. «È stato dimostrato che una sana alimentazione, insieme al movimento e alla mancanza di fumo, previene e riduce il cancro, sottolinea Filippo La Mantia, patron dell’omonimo ristorante situato all’interno dell’Hotel Majestic di Roma, scelto dalla Lilt dopo una serie di monitoraggi effettuati, a sua insaputa, sulle sue pietanze. Del resto, per lo chef la cucina mediterranea è uno stile di vita. «E il contadino ne è il guru: seguire le stagioni, mangiare prodotti genuini, mangiare poco e spesso, non abusare di grassi e di alcol, permetterebbe a tutti noi di avvalerci della dieta mediterranea. Tra l’altro, tutto questo è un contenitore di gusto, sapore e benessere».

È

Sta attuando un personale percorso di rivisitazione della cucina della sua regione di origine, la Sicilia. Con quali parole chiave?

«Innanzitutto leggerezza. Ho sempre odiato i cibi pesanti, pieni di qualsiasi cosa, senza sentimento, pieni di olio, burro, aglio e cipolla. Mi fanno stare male solo a pensarli. La mia rivisitazione è totalmente personale. Io cucino quello che mi piace mangiare. E onoro ogni giorno la mia terra. La propongo gentile, solare, accogliente, gustosa, colorata e onesta. Sono orgoglioso di essere siciliano e palermitano, ma non farei mai il mio lavoro nella mia terra. Tutto è nato un giorno, per caso frullai la polpa delle arance, del basilico, delle mandorle e delle acciughine sottolio e così capii che cosa significava per la cucina il profumo». È nella capacità di reinterpretare la ricca tradizione culinaria del nostro Paese l’aspetto che caratterizza maggiormente la gastronomia italiana oggi e che la fanno distinguere, nonché eccellere, rispetto ad altre cucine del mondo? «L’Italia è sempre stata terra ricca e fertile. Produciamo migliaia di prodotti straordinari che sanno di fatica

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IDENTITÀ CULINARIA Filippo La Mantia

• e di sudore. Il rappresentante assoluto di tutto questo è il contadino. Dobbiamo essere grati, ogni giorno, a uomini che, con la fatica e con le braccia, ci hanno regalato il meglio che possa esistere per le tavole di tutto il mondo. Oggi la cucina italiana è leader in ogni parte della Terra. Ogni stato, ogni regione e ogni provincia, ha un rappresentante, cioè un cuoco, che elabora i propri ricordi e li rende cibi straordinari. Noi siamo i portatori sani di qualcosa che non si potrà mai dimenticare. Reinterpretare, oggi, è fondamentale per un cuoco». Per quale motivo? «Chi mangia non ha più le esigenze di tanti anni fa. Oggi si mangia per divertimento, per gioco, per curiosità e convivialità. Il rapporto che si instaura con il cibo, rispetto ai nostri nonni, assume contorni decisamente differenti. Loro si dovevano nutrire per andare a lavorare duramente, dovendo quindi incamerare proteine e grassi. Oggi il nostro apparato digerente è cambiato e si è rilassato tantissimo. La tradizione culinaria deve, quindi, sempre guardare al passato, ai ricordi,

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ma la maniera di cucinare deve essere moderna e alleggerita al massimo».

Le melanzane, il basilico e la ricotta, individuano un insieme di colori, di famiglia e di gioia

La pasta alla Norma, piatto che per lo chef rappresenta l’identità gastronomica italiana

Ha composto un menu in occasione dell’anniversario dell’Unità d’Italia a base di pasta alla Norma. È questo piatto a incarnare meglio l’identità della cucina nostrana? «Ovviamente ho scelto un piatto siciliano. La Norma è nata a Catania. Ma il suo profumo, la manualità che richiede, il rito di preparare la salsa, le melanzane che profumano, insieme al basilico, di estate e la ricotta di pecora salata, individuano un insieme di colori, di famiglia e di gioia che costituisce quasi un inno alla Patria. Naturalmente l’Italia è rappresentata da tantissimi piatti, realizzati da colleghi illustrissimi, che incarnano alla perfezione l’unità nazionale». Quali altri ingredienti o ricette racchiudono in maniera più emblematica i crismi dell’italianità a tavola? «La pasta, il riso, i formaggi, l’olio, il vino, il pane e soprattutto la semplicità dei prodotti elencati, fanno dell’Italia un capolavoro gastronomico in assoluto invidiato e tante volte copiato, male».

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IDENTITÀ CULINARIA Paolo Massobrio

il barolo

re d’italia È DA SEMPRE UN’ENOGASTRONOMIA UNICA QUELLA ITALIANA, IN VIRTÙ DELLA RICCHEZZA DEI SUOI PRODOTTI. A CONNOTARLA OGGI È, SECONDO PAOLO MASSOBRIO, UN’ORIGINALITÀ CHE ANCHE LA FRANCIA CI INVIDIA

di Francesca Druidi a cucina italiana può essere paragonata a un mosaico di ricette e specialità, che riflette l’estrema varietà degli influssi culturali e delle condizioni geografiche e climatiche presenti lungo la penisola. Processi che non smettono di agire, ma che anzi si muovono sempre più velocemente. A esaminare le tendenze in atto nella cucina nostrana è il giornalista enogastronomico Paolo Massobrio.

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Uno dei punti fermi della cucina italiana è rappresentato dal ricettario di Pellegrino Artusi. Che cosa ha significato quest’opera nell’ambito di un processo di

As-

“unificazione” dell’Italia a tavola? «Ogni ricettario è un’opera culturale di straordinaria incisività che riesce a raccontare meglio di qualsiasi altra analisi i movimenti dei popoli, che hanno sempre costituito una prassi in questa terra lunga e stretta. Pellegrino Artusi ha fatto da legante non solo all’Italia, ma anche a quelle cucine che si contaminavano grazie ai trasporti fluviali, basti pensare al Po. Diciamo che più che unificare, quel ricettario ha messo in luce tante opportunità che nascevano dai prodotti del territorio». 2011: anniversario dell’Unità d’Italia. Com’è

sessorato al Turismo della Città di Palermo

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IDENTITÀ CULINARIA Paolo Massobrio

cambiata la cucina italiana in questi anni e come si presenta oggi? «In questi anni è cambiata assai velocemente, purtroppo. Ma anche qui, dobbiamo leggere la cucina e le sue ricette con l’occhio del sociologo. I ritmi incessanti hanno modificato assai rapidamente la vita della gente per cui il mangiare fuori dà un ordine e quindi la cucina, slegata dalla stagionalità dei prodotti, è diventata anche fonte delle patologie di questo secolo, molto spesso legate a un’errata alimentazione. Ma in verità c’è un fattore che ereditiamo dalla cucina delle corti e che oggi torna d’attualità ed è il cosiddetto “servizio alla francese”, che si

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contrappone all’anacronistico “servizio alla russa”, che consiste nel proporre una portata dopo l’altra. Il servizio alla francese prevedeva i piatti già sul tavolo e la possibilità che ognuno potesse porzionarle come meglio credeva. Nelle corti sabaude c’era poi il servizio delle zuppe e magari di un piatto di sostanza. Oggi tutto questo cadrebbe a fagiolo, per andare incontro alle esigenze dell’alimentazione di questi anni». Può indicarmi un vino e un piatto che a suo parere incarnano meglio l’essenza della cucina italiana? «Il vino è il Barolo, non fosse altro perché fa parte di questa

straordinaria storia di scambi tra la Francia e il Piemonte, favorita dal conte Camillo Benso di Cavour. Il Barolo è la punta dell’enologia nazionale e questo non ce lo dobbiamo dimenticare. Il piatto, invece, non può che essere la pasta, che individua un quid molto italiano, da presentare in svariatissime declinazioni, molto attuale oggi che si parla di dieta mediterranea. Per non far torto a nessuno, indico un piatto che mi pare sia anche dietologicamente perfetto: la pasta e fagioli». In questi anni è possibile coltivare l’educazione al buon cibo e al buon vino grazie ai molti strumenti a disposizione, da riviste

In apertura, Paolo Massobrio; sopra, uno scorcio delle Langhe; nel’ultima pagina, il gastronomo Pellegrino Artusi

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IDENTITÀ CULINARIA Paolo Massobrio

Pellegrino Artusi ha fatto da legante non solo all’Italia, ma anche a quelle cucine che si contaminavano grazie ai trasporti fluviali

specializzate a guide, sia cartacee che on line, fino a trasmissioni tv e siti web. Come tutto ciò ha influito sulla cucina e sulla gastronomia del nostro Paese? «L’educazione ai prodotti e al vino è stata assai incisiva e il consumatore di oggi è più accorto che in passato. Le trasmissioni legate alle ricette sono divertenti -la gente le guarda ma raramente poi cucina- e sono diventate educative quando hanno iniziato a insistere su principi, come la stagionalità dei prodotti, che preservano valori nutrizionali importanti». I prodotti italiani conquistano punti vendita a livello internazionale e i

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nostri chef vengono celebrati in tutto il mondo. È il vero trionfo del made in Italy enogastronomico? «La cucina italiana è sempre stata un simbolo e un mito nel mondo e questo crea qualche problema con la vicina Francia. Dei nostri prodotti si apprezzano la solarità e la semplicità, pensiamo a un piatto come la pizza. La cosa che preoccupa i nostri cugini è invece la creatività, che in questi ultimi cinque anni ha preso una direzione originale, non mutuata dalla stessa Francia o dalla Spagna, ma che si esprime come un frutto proprio del genio italiano. Non a caso uno chef come Massimo Bottura è stato premiato come miglior cuoco

al mondo dall’Accademia internazionale della cucina riunitasi a Parigi». Cosa fare allora per tutelare maggiormente il nostro patrimonio fatto di materie prime eccezionali e ricette originali? «Per difenderlo bisogna mettere in atto quegli strumenti anti furbizia per evitare che prodotti improbabili vengano spacciati per italiani. È lo stesso fenomeno che accade con la cucina etnica da noi, probabilmente. Ma siccome gli italiani nelle cucine estere sono molti, credo sia arrivata l’ora che le istituzioni definiscano un patto con questi nostri ambasciatori».

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FORMAGGI DOP VENETI Asiago

Forme

inimitabili «UN PO’ COME LA MADELEINE DI PROUST». PER FLAVIO INNOCENZI L’ASIAGO È MEMORIA PRIMA CHE ESSERE SAPORE TIPICO. COSÌ IL DOP NON TEME I FAST FOOD

di Paola Maruzzi

rodotto veneto «più richiesto sin dai tempi della Serenissima»: Flavio Innocenzi, direttore del Consorzio di tutela del formaggio Asiago, ripercorre le virtù di una delle forme più invidiate del panorama gastronomico made in Italy e, parallelamente, accetta le

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sfide dei palati contemporanei. Fresco o stagionato, l’identità dell’Asiago è rimasta la stessa, «scolpita nell’immaginario culinario di intere generazioni», ma il consorzio lo fa viaggiare a doppia velocità, slow e fast, dentro e fuori i confini nazionali, dove incontra persino la formula dei

panini McDonald’s. L’Asiago non ha problemi di notorietà. Ma quali strade alternative state battendo per potenziare il marketing? «Per noi è essenziale investire bene le risorse non illimitate di cui disponiamo, attraverso operazioni

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FORMAGGI DOP VENETI Asiago

di posizionamento del prodotto sui mercati esteri, ad esempio in Spagna, dove miriamo al top della ristorazione in collaborazione con il parmigiano reggiano e il gorgonzola. Passando a internet e ai social media, abbiamo predisposto una piattaforma che utilizzerà tutti i canali di comunicazione disponibili. Ne sentiremo presto parlare poiché, a quanto mi risulta, è un progetto unico nel suo genere». Cosa significa tutelare la bontà di un prodotto Dop nell’era dei fast food? «Il fast food non è un nostro nemico giurato, anzi abbiamo avuto esperienze molto positive proprio con la fornitura di prodotto a McDonald’s, in Italia e in Francia, per la realizzazione di panini che hanno riscosso un grande successo. Quando si ha a che fare con una produzione di oltre un milione e 800mila forme, frutto del lavoro di migliaia di allevatori che ogni giorno mungono al massimo due volte le proprie vacche, muta il punto di osservazione: ogni canale commerciale viene percepito come complementare, poiché soddisfa domande di mercato diverse».

L’Asiago viaggia a velocità diverse. Sa anche essere “lento”? «Sì. Abbiamo una decina di pascoli che in estate producono Asiago Dop Stravecchio, che è un presidio Slow Food. Ne siamo particolarmente orgogliosi e continuiamo a crederci perché rappresenta quanto di più prezioso esista oggi nel settore zootecnico e lattiero caseario». Qual è la fase più delicata della produzione? «La produzione è ormai talmente perfezionata da non presentare criticità. Certamente grande attenzione deve essere rivolta alle fasi immediatamente successive all’estrazione della cagliata dalla caldaia, fino alla fine della frescura, perché qui la materia è particolarmente delicata ed esposta alle aggressioni esterne». Cosa sarà essenziale all’intera filiera affinché l’Asiago rimanga uno dei fiori all’occhiello del made in Italy? «Indispensabile sarà contrastare le imitazioni. Dove possibile lottiamo con gli strumenti giuridici messi a disposizione dalla normativa italiana ed europea. Altrove, come per esempio in

Flavio Innocenzi, direttore del Consorzio di tutela del formaggio Asiago

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FORMAGGI DOP VENETI Asiago

LA BELLEZZA DELL’ASIAGO IN TRE STAGIONI

«Fresco, mezzano e stravecchio. Tre prodotti e infinite modalità di impiego». Così Nicola Portinari, chef stellato dal 1996, apre le porte all’Asiago e all’alta cucina. «Nelle sue varianti, è il formaggio che più identifica il Veneto. È un tassello inimitabile del nostro patrimonio gastronomico. Nel mio ristorante è molto gettonato tra i clienti stranieri». Se

il gusto di questo formaggio è già di per sé soddisfacente, acquista sicuramente una sfumatura più raffinata se si seguono alcuni accorgimenti. «Per le fondute, ad esempio, è meglio lavorare il formaggio a freddo. In questo modo il profumo non viene alterato. Il mezzano rimane la tipologia di punta, perché è più facile da domare. Passando ai costumi

alimentari, contrariamente a quanto si pensa, l’Asiago si presta molto agli abbinamenti dolciari: è perfetto per le bavaresi e si esalta se consumato con mieli e confetture». E allargando il discorsi ai vini? «Consiglio il Tocai Rosso, riserva gradevoli sorprese».

esempio, è ingrediente comune per pizze, primi piatti e Ceasar’s Salad».

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ambiti extra europei, diamo forza a massicce campagne di comunicazione sui mercati più interessanti per rimarcare le differenze tra il prodotto autentico e le numerose copie pirata che imperversano sui mercati locali. Nel fare ciò, cerchiamo anche di volgere a nostro vantaggio la grande notorietà e diffusione del falso Asiago. Negli Stati Uniti, per

Cosa rende inconfondibile il gusto di questo formaggio nella sua duplice variante dolce e stagionato? «Il formaggio, come il vino, è un prodotto molto complesso, nella sua semplicità. Dietro l’elenco degli ingredienti - latte, caglio, fermenti lattici e sale - risiede una tale quantità di variabili difficilmente immaginabile. Certamente la dolcezza caratteristica del formaggio Asiago deriva tutta dall’impiego del miglior latte fresco prodotto nella zona di origine. Sono le materie prime di pregio che, a mio modo di vedere, fanno l’80 per cento della bontà di un formaggio e che, nel caso dell’Asiago, conferiscono al prodotto fresco quella dolcezza semplice che richiama i sapori

della nostra infanzia, di cui anche da adulti non riusciamo a fare a meno, un po’ come le madeleine di Proust». Quale prodotto tipico è, in un certo senso, complementare all’Asiago? «Pane, vino e formaggio è la tripletta ideale. Possiamo inventarci le ricette più originali e complesse, ma nella semplicità dell’alimentazione tradizionale riscopriamo ciò che abbiamo un po’ perso di vista, ossia le fondamenta stesse della nostra identità culturale. Pane e formaggio sono stati l’alimento base dei nostri predecessori, insieme a tanto ottimo vino, che da queste parti non è mai mancato, grazie alla presenza in zona di produzione di aree particolarmente votate alla viticoltura, una per tutte Breganze».

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Nato per viaggiare FRESCO O STAGIONATO IL MONTASIO HA UN SAPORE CHE NON STA FERMO. ORA IL FORMAGGIO DI CONFINE, METÀ FRIULANO E METÀ VENETO, CONQUISTA ANCHE DEPARDIEU di Paola Maruzzi e fresco ha la pasta color giallo paglierino e compatta, l’occhiatura omogenea, la crosta liscia, il sapore delicato. Se mezzano, dentro si fa più granuloso e friabile, al palato è deciso, quasi piccante se si scivola verso lo stravecchio. Sono le «mille facce del Montasio – spiega Lori Pevere, direttore del Consorzio di tutela del formaggio – un unico nome per diverse gradazioni di sapori, dal retrogusto di latte a quello intenso della lunga stagionatura. Sono queste caratteristiche che ci distinguono nel panorama italiano e, perché no, europeo». Lo scorso giugno persino un buongustaio del calibro di Gerard Depardieu l’ha definito «leggerissimo, delicato, l’ideale per la mia cucina», diventando così

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l’ambasciatore parigino della forma friulana e del suo corrispettivo culinario più conosciuto: il frico. A chi appartiene il Montasio? «È un formaggio di confine, diciamo che appartiene all’Italia del nord est. Per due terzi il Montasio è friulano e per un terzo è del Veneto orientale, dunque riguarda le province di Belluno e Treviso e, in parte, le province di Padova e Venezia. A ogni modo, già il monte da cui prende il nome unisce l’Italia, la Slovenia e l’Austria».

Lori Pevere, direttore del Consorzio di tutela del formaggio Montasio Dop

Il fatto di essere asciutto lo ha da sempre reso particolarmente votato al commercio. Questo cosa ha significato?

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FORMAGGI DOP VENETI Montasio

FRICO CARNICO CON PATATE E CIPOLLA Ingredienti per 2 persone: 100 gr. di Montasio fresco Patate Cipolla Alcune fette di mela Preparazione: Scaldare il tegamino sopra la piastra e non a fuoco vivo. Quando è ben caldo, aggiungere patate e cipolla e, in un secondo momento, il formaggio fresco e le fette di mela. Lasciare sciogliere lentamente; con una forchetta premere sopra il frico, dopodiché bisogna girarlo dall’altra parte ed eliminare la parte grassa. Girare e rigirare per 10 minuti, facendo attenzione che non diventi rosso. Se si modella sopra un bicchiere capovolto assumerà la forma di un cestino. Quando sarà freddo risulterà friabile.

«In effetti questo è stato il nostro punto di forza, grazie al quale sin dal Settecento il Montasio ha preso altre strade rispetto all’autoconsumo, diventando così merce di scambio, un po’ come il sale. All’epoca non era un affatto comune, infatti si producevano formaggi per lo più freschi. Si spiega così come, all’inizio del Novecento, solo in provincia di Udine esistessero 300 caseifici attivi, messi su nel giro di pochi anni. Furono distrutti dalla guerra, ma negli anni del boom riprese lo sviluppo tumultuoso. Attualmente sono consorziate 44 aziende di produzione e 17 di stagionatura. Insomma, il Montasio è stato la bandiera del Veneto e del Friuli giocando in anticipo sui tempi. Non è un caso che nelle nostre zone nacque anche la prima scuola

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di caseificio. I nostri ragazzi si sposavano persino in Slovenia per insegnare le tecniche di lavorazione, come a dire che abbiamo esportato anche il savoir faire, oltre al prodotto». Come vi muovete all’estero? «Ogni anno l’export cresce dal 2 al 4 per cento. Sono piccole nicchie, ma non per questo rinunciamo a espanderci. In cantiere, c’è una partnership con gli Emirati Arabi che riguarda la preparazione del frico, un piatto tipico a base di Montasio e che ha ingolosito persino Gerard Depardieu. L’abbiamo conosciuti durante la scorsa edizione del Vinitaly. Passando allo stend del Friuli, ha avuto modo di assaggiare il Montasio e n’è innamorato. Oggi periodicamente ordina forme di

Stravecchio per fare un frico croccante, che poi serve nel suo ristorante parigino». Attraverso quali strumenti il consorzio tutela il prodotto? «Come tutti i Dop, anche il Montasio è soggetto a parametri rigidi di controlli. Almeno una volta al mese siamo presenti nei rispettivi caseifici per campionare il 6 per cento del prodotto. Siamo in grado di dare ragionevoli

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FORMAGGI DOP VENETI Montasio

IL MONTASIO INCORONA IL PIATTO D’AUTORE

L’abbinamento classico? «Con la polenta, tagliata a fettine». Di slancio Paolo Zoppolatti, che tra i tanti riconoscimenti si è aggiudicato il torneo dell’Uovo d’oro nella trasmissione La Prova del Cuoco, risponde alla domanda sul Montasio. Lo chef si è fatto conoscere per la sua cucina territoriale e, tra suoi cavalli di battaglia, non poteva man-

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care questo formaggio Dop, «reso celebre soprattutto grazie al frico, nella sua doppia versione: croccante e con patate e cipolla, decisamente più tradizionale. Sono sapori riscoperti che vengono dritti dalla tradizione contadina, una materia che gli chef stanno sempre più riscoprendo». Ma volendo sperimentare altri accostamenti,

Zoppolatti consiglia il suo «salame di manzo marinato, formaggio Montasio e insalatina all’olio di semi di zucca». Un piatto d’autore, che «si accompagna magnificamente con il Friulano o il Barolo, prestigiosi vini bianchi che esaltano le virtù autoctone del Montasio».

certezze ai consumatori».

cambiata in meglio».

Il Montasio poggia su una tradizione secolare. Cosa è cambiato maggiormente? «La tecnica è rimasta sostanzialmente la stessa. Quello che è cambiato è stata la qualità della materia prima: oggi le normative ci impongono di lavorare con latte crudo o sterilizzato, quindi necessariamente povero di carica batterica. Se da un punto di vista sanitario abbiamo delle garanzie, dall’altra però i processi sono molto più lenti. Faccio un esempio: trent’anni fa il Montasio acquistava un determinato sapore dopo trenta giorni di stagionatura, oggi servono almeno tre o quattro mesi. Naturalmente con questo voglio dire che la materia prima è

Secondo la normativa europea, i formaggi stagionati sono meno soggetti a parametri igienico sanitari ristrettivi. «Questo è vero ma come consorzio nel 1999, con delibera del consiglio, abbiamo scelto di utilizzare solo latte in classe A, autoregolamentando la nostra filiera e garantendo la massima qualità». Dal 1996 il Montasio si fregia del marchio Dop. Oggi quali altre sfide vi preparate ad accogliere? «Alla luce del fatto che siamo un piccolo consorzio in una piccola realtà, l’ambizione sono i mercati esteri. Non abbiamo aziende particolarmente grosse, ma la politica sarà investire sulla promozione e

l’internazionalizzazione del Montasio. Partirà a breve un’operazione che ci vede gemellati con il San Daniele e i due Grana a New York, grazie alla quale oltre 15mila forme varcheranno l’oceano». C’è nell’immaginario locale, una leggenda legata al Montasio da raccontare o da sfatare? «Si narra che l’eroe nazionale Enrico Toti, durante la prima guerra mondiale stazionasse sulle nostre colline per lanciare forme di Montasio contro gli austriaci. Ma approfondendo la questione ho scoperto che si trattava di una divertente invenzione. Non saprei cos’altro dire. Questa è una terra concreta. Molto più realisticamente, il Montasio è legato alle fatiche dei contadini».

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FORMAGGI DOP VENETI Casatella Trevigiana

Cremosità trevigiana «ADATTA PERSINO PER IL TIRAMISÙ». IL CUORE MORBIDO DELLA CASATELLA TREVIGIANA DOP È COMPLEMENTARE A TUTTO IL VENTAGLIO DI SAPORI TIPICAMENTE MADE IN ITALY

di Paola Maruzzi erano una volta i sapori genuini”. La favola delle eccellenze gastronomiche si ripetono identiche ed è difficile scollare una retorica pubblicitaria da certi prodotti antichissimi come i formaggi. Ma questa volta la storia è meno idilliaca, più sfaccettata. Dietro la semplice bontà, c’è l’ingegnosità del contadino, quella che ancora oggi compone l’ossatura economica del Trevigiano. «Qui le massaie di un tempo mettevano da parte il latte in avanzo per preparare la “casata” o “casa tela” sul focolare – spiega il presidente del Consorzio, Lorenzo Brughera – ma spesso il latte non era sufficiente per produrre una forma, quindi si andava a “prestito” dalla vicina, con la promessa di fare altrettanto in caso di bisogno. In questo modo ogni famiglia aveva assicurata la sua casatella e, al tempo stesso, si andava delineando il fenomeno della prestanza del latte. La Casatella Trevigiana Dop nasce da

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FORMAGGI DOP VENETI Casatella Trevigiana

Lorenzo Brughera, pressidente del Consorzio di tutela della Casatella Trevigiana Dop

qui, insieme alla prima forma di cooperazione, che oggi caratterizza così fortemente l’assetto produttivo della provincia di Treviso». Qual è la caratteristica che, più di tutte, contraddistingue la Casatella? «La Casatella Trevigiana è il primo formaggio molle in Italia ad aver ottenuto la denominazione di origine protetta. Questo perché i grandi formaggi nazionali sono tutti per lo più a pasta semidura e dura, ovvero strutturati per poter durare nel tempo. La nostra Casatella Trevigiana, invece, è un prodotto di pronto consumo, tradizionalmente ottenuto dalle massaie per la dieta quotidiana della famiglia».

In che senso l’attività del consorzio contribuisce a consolidare una cultura alimentare sana e corretta? «La battaglia per la tutela dei prodotti agroalimentari del made in Italy è fondamentale proprio per combattere, con le giuste armi, la diffusione dei prodotti precotti, surgelati e via dicendo. Le piccole produzioni artigianali non hanno la forza di competere con le campagne pubblicitarie promosse dalle multinazionali, ma il riconoscimento europeo e la forza del marchio Dop ci danno la possibilità di comunicare al consumatore gli aspetti essenziali dei prodotti made in Italy, ovvero: controllo, genuinità e legame con il territorio. Quest’ultimo aspetto, inoltre, garantisce il

mantenimento dell’economia rurale, con la sopravvivenza delle aziende agricole, dei terreni coltivati e dei caseifici che hanno fatto la storia di un territorio. Un’economia che non è solo da cartolina, ma che è patrimonio e risorsa dell’Italia di oggi». Si legge che la Casatella Trevigiana costituiva l’unico companatico accompagnato con la polenta. Oggi quali accostamenti consiglierebbe? «Visto il suo sapore delicato e la consistenza cremosa, la Casatella

CASSATA DI CASATELLA TREVIGIANA DOP CON SORBETTO ALL’ARANCIA E CAMPARI CARAMELLATO Ingredienti per 4 persone: Per la cassata: 150 gr. di Casatella trevigiana Dop 40 gr. di zucchero a velo 150 gr. di meringa (50 g di albume, 100 g di zucchero a velo) 150 gr. di panna montata 20 gr. di cioccolato fondente a pezzetti 20 gr. di pistacchi tostati 20 gr. di cedro candito 20 gr. di arancia candita Per il sorbetto all’arancia: 150 gr. di acqua 50 gr. di zucchero 200 gr. di succo d’arancia 1 buccia d’arancia 200 gr. di Campari

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Preparazione: Frullare la Casatella trevigiana Dop con lo zucchero a velo, aggiungere la frutta secca e il cioccolato, amalgamare dolcemente la meringa con la panna montata. Riempire con il composto degli stampini semisferici di 2 cm di diametro e metterli in frigo. Per il sorbetto bollire lo zucchero con l’acqua, togliere dal fuoco, aggiungere il succo e la buccia grattugiata dell’arancia e ghiacciare. A parte ridurre il Campari facendolo bollire fino ad ottenerne 50 gr. Servire su un piatto freddo tre piccole semisfere con una piccola quenelle di gelato e un cucchiaio di Campari caramellato. (ricetta di Alessandro Breda)

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FORMAGGI DOP VENETI Casatella Trevigiana

Il latte viene lavorato entro 48 ore dalla mungitura

• Trevigiana Dop è molto amata dagli chef, che ne mettono alla prova la versatilità in numerose variazioni gastronomiche. Come “manteca” per il risotto, in mousse nell’antipasto con le rape, per arricchire un pasticcio o farcire un arrosto, fino ad arrivare alla trasformazione in gelato e nell’impiego nei più svariati dessert, come le crostate, la bavarese o persino il tiramisù. Da buongustaio la apprezzo dappertutto, ma la mia versione preferita resta in purezza: su una fetta di buon pane croccante condita solo con un filo d’olio extravergine d’oliva nostrano». Come è possibile mantenere l’identità fortemente artigianale

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della Casatella Trevigiana pur innovando i processi produttivi? «L’innovazione dei processi produttivi, anziché frapporsi alla tradizione ci ha dato una grande mano. La possibilità di produrre un formaggio lavorando il latte entro quarantotto ore dalla mungitura, l’assoluta esclusione di conservanti e coloranti derivano proprio dall’applicazione di processi di lavorazione di ultima generazione, che salvaguardano il prodotto e ne garantiscono salubrità e la genuinità. Il valore della Casatalla Trevigiana Dop consiste in questo: una ricetta antica e una materia prima di eccellenza prodotta e trasformata all’interno di un piccolo territorio».

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FORMAGGI DOP VENETI Monte Veronese

bontà di nicchia PICCOLI CASEIFICI, LAVORAZIONE ARTIGIANALE E I RITMI LENTI DELLA LESSINA: IL MONDO “IN MINIATURA” DEL MONTE VERONESE DOP, FORMAGGIO A EDIZIONE LIMITATA

di Paola Maruzzi

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FORMAGGI DOP VENETI Monte Veronese

RISOTTO CON RADICCHIO ROSSO DI VERONA IGP MANTECATO AL MONTE VERONESE DOP

aola Giagulli, direttore del Consorzio di tutela del Monte Veronese, parte soppesando quella che si presenta essere come una realtà produttiva “in miniatura”. «Nel panorama dei formaggi veneti più famosi, il nostro occupa uno spazio di mercato decisamente diverso. I caseifici che producono il Monte Veronese sono tutti mediopiccoli e le tecniche di lavorazione ancora rigorosamente artigianali. Per dare un’idea, il 2010 si è chiuso con un totale di 77mila forme di 9 chili l’una». Di certo non sono numeri da capogiro. Circoscritta è pure l’appartenenza territoriale, «cioè i pascoli della Lessina.

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Ricopriamo, dunque, una sola provincia: Verona, o meglio la sua parte settentrionale». Poco esteso ma autenticamente montano. «Il 99 per cento del Monte Veronese viene fatto a 600 metri di altezza. Un caratteristica che aggiunge altro valore alle tipicità del prodotto». Il fatto che il Monte Veronese sia per forze di cose di nicchia, non vieta di allagare il discorso sulle sue potenzialità gustative. «Attualmente sono due le tipologie: il Monte Veronese “latte intero” e quello “d’allevo”, entrambe prodotte esclusivamente con il latte di vacca». Denominazioni differenti, a cui corrispondono sfumature sensoriali ben distinte.

Ingredienti per 4 persone: 320 g di riso nano vialone veronese Igp 7 dl di brodo vegetale 400 g di radicchio rosso di Verona Igp 1/2 cipolla 40 g di olio extravergine di oliva Garda Dop 150 g di formaggio Monte Veronese Dop 1 noce di burro sale e pepe q.b. Preparazione: Tagliate il radicchio a pezzetti, tenendo da parte qualche foglia intera, e lasciatelo a bagno per circa 20 minuti. Dopodichè, imbiondite in 20 g di olio la cipolla tritata finemente, aggiungete il radicchio, regolate di sale e pepe; fate cuocere per 10 minuti. In una casseruola tostate il riso con i rimanenti 20 g di olio, versate tutto in una volta il brodo bollente. Coprite e ponete la fiamma al minimo. Fate cuocere per 10 minuti; a questo punto aggiungete il radicchio e ricoprite nuovamente. A cottura ultimata spegnete la fiamma e mantecate con il formaggio Monte Veronese tagliato a cubetti e la noce di burro. Servite guarnendo il piatto con foglie di radicchio. (ricetta di Gabriele Ferron)

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FORMAGGI DOP VENETI Monte Veronese

Per il formaggio stagionato Monte Veronese, fatto con il latte d’alpeggio, produciamo all’anno circa 3000 forme

«Mentre il primo ha un sapore delicato e gradevole di latte appena munto e persino di panna, il secondo ha un sapore più marcato, tipico del formaggio invecchiato e, con il protrarsi della stagionatura, tende a diventare piccante». Volendo estremizzare, la duplice natura del Monte Veronese si riversa anche nell’universo culinario. «Il fresco, che si abbina perfettamente con i bianchi anche strutturati, con i rosati o con vini rossi giovani, è adatto per condire i secondi, tagliato a cubetti nelle insalate o reso cremoso nelle fondute. La tipologia stagionata, invece, è

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l’ideale per essere grattugiato o fatto a scaglie, quindi per dare quel tocco in più a tutto il ventaglio dei primi». Ma, si sa, gli abbinamenti sono fatti per essere trasgrediti e, in questo, il Monte Veronese ha dimostrato una notevole versatilità. «I massimi esperti del nostro formaggio rimangono naturalmente i veronesi ma, nei limiti dei mezzi a disposizione, non escludiamo di consolidarci fuori dai confini regionali. Per ora gli unici Paesi in cui esportiamo sono Stati Uniti e Inghilterra». Le politiche promozionali del consorzio non possono prescindere dall’identità

“minuta” della filiera «cresciamo in maniera fisiologica, non possiamo fare il passo più lungo della gamba», spiega ancora la Giagulli, ribaltando così i limiti in fattore appetibile. Filiera che è capace di generare un prodotto per palati raffinati. «Si tratta del Monte Veronese fatto con il latte d’alpeggio, di cui all’anno si contano circa 3.000 forme. È, dunque, una vera e propria edizione limitata, che racchiude le caratteristiche più interessanti dei formaggi di malga. Consumato almeno dopo un anno di stagionatura, viene lavorato solo d’estate. È, a mio avviso, la summa della bontà».

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Rigorosamente

bellunese ULTIMO A ENTRARE NELLA ROSA DEI DOP MADE IN ITALY, IL FORMAGGIO PIAVE HA UN SAPORE PROFONDO E VERSATILE, COME IL NOME CHE PORTA

di Paola Maruzzi

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FORMAGGI DOP VENETI Piave

rima di tutto il territorio e le vertiginose Dolomiti bellunesi. «Se c’è uno scorcio che il Piave Dop richiama, questo è sicuramente il pascolo mite delle mucche ai piedi delle nostre montagne». Partito da un volo pindarico, Augusto Guerriero, presidente del Consorzio di tutela formaggio Piave Dop, torna alla concretezza del saper fare perchè qui le razze bovine non sono scelte a caso, ma fanno tutt’uno con la migliore tradizione italiana: la Bruna, la Pezzata Rossa e la Frisona sono rispettivamente le protagoniste della “vecchia scuola”

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dell’allevamento a stabulazione libera. In altre parole, gli animali si muovono comodamente all’interno di ampie aree, debitamente attrezzate. «Sottili accorgimenti che sanno fare la differenza per l’intera filiera». Rispetto ai tanti formaggi di montagna, cosa determina l’unicità del Piave Dop? «Un gusto corposo e deciso, che non arriva a essere mai piccante anche nelle stagionature più avanzate. Questo è il risultato di un mix di ingredienti, cioè il latte della montagna bellunese, il lat-

toinnesto e sieroinnesto autoctoni da latte locale e siero delle lavorazioni precedenti, della lavorazione e della stagionatura». Il Piave Dop è stato recentemente premiato come migliore formaggio d’esportazione. In quali mercati esteri è più diffuso? «Se prima la diffusione era locale, pian piano siamo avanzati verso quella nazionale. Oggi molto buona è la penetrazione in tutto il nord Italia. Ma il nostro Piave in anni recenti si è fatto conoscere anche all’estero. I dati relativi all’esportazione sono in forte crescita, in particolare in mercati quali Usa, Canada, Australia ed Europa». Quanto è importante partecipare alle competizioni gastronomiche e magari aggiudicarsi il primo premio? «I premi sono una cartina tornasole imprescindibile perché riconoscono le caratteristiche qualitative. Questo sia a livello nazionale che internazionale. Nelle ultime edizioni delle Olimpiadi dei formaggi di montagna, a Verona 2005 e a Seignelégier, in Svizzera, nel 2009,

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Augusto Guerriero, presidente del Consorzio di tutela del formaggio Piave Dop

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FORMAGGI DOP VENETI Piave

CRESPELLE Ingredienti per 4 persone: 120 g di Piave Fresco tagliato a fette sottili 3 cucchiai di formaggio Piave Vecchio, grattugiato 150 g di farina 3/4 litro di latte 120 g di prosciutto cotto 80 g di burro 2 uova noce moscata, sale, pepe q.b. Preparazione: In una terrina mettere 100 g di farina, un uovo, un pizzico di sale e una noce di burro sciolto e tiepido. Lavorare con una frusta o con un cucchiaio di legno e diluire con un quarto di litro di latte, mescolare sempre in modo da evitare la formazione di grumi e lasciar riposare l’impasto per almeno mezz’ora. Nel frattempo, preparare

il Piave Dop è stato premiato come miglior formaggio italiano da esportazione». Il Piave è l’ultimo formaggio ad aver ottenuto la Dop. Grazie a quali politiche promozionali è stato possibile? «Credo che la miglior promozione sia il prodotto stesso. Una volta assaggiato, chiunque se ne innamora. In questo senso sono state decisive le degustazioni, sia nei punti vendita sia in occasioni di manifestazioni sportive e culturali». Come, invece, sensibilizzate i piccoli consumatori? «Proseguendo nella nostre attività didattiche. Le visite scolastiche al

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una besciamella, con 50 g di burro, uguale quantità di farina e mezzo litro di latte. Aromatizzare con sale, pepe, noce moscata, lasciar intiepidire, incorporare il Piave Vecchio grattugiato e un tuorlo d’uovo. In una padella, di dimensioni medie leggermente imburrata e ben riscaldata, preparare le crespelle facendo cuocere

caseificio di produzione e gli interventi di personale qualificato nelle scuole, oltre alla realizzazione di supporti informativi, sia cartacei che audiovisivi, sono una costante ormai dalla metà degli anni Ottanta e permettono ai ragazzi di conoscere tutte le fasi del processo produttivo, dalla raccolta del latte alla lenta stagionatura nei magazzini». Il concept del Piave Dop è fortemente identitario. Qual è l’immaginario storico su cui poggia? «Il formaggio Piave è nato dalla tradizione casearia bellunese, che risale al declino della Serenissima Repubblica di Venezia, quando l’unica alternativa alla vendita di

poche cucchiaiate di pastella per volta. Esaurita la pastella, mettere una fetta sottile di prosciutto cotto e fettine di Piave Fresco su ogni crespella, piegarla in due e disporle in una teglia imburrata. Ricoprire interamente con la besciamella aggiungendo qualche pezzettino di burro e passare al forno (180°) per una decina di minuti.

legname era, in virtù dell’abbondanza di pascoli, l’allevamento e la conseguente lavorazione del latte. Non a caso proprio in un paesino del bellunese, Canale d’Agordo, nacque nel 1872 la prima latteria sociale d’Italia, per iniziativa di don Antonio Della Lucia». Come sono cambiati i processi produttivi, pur mantenendo una certa dose di genuinità? «L’evoluzione tecnologica ha consentito di coniugare i vantaggi di un elevato standard qualitativo e di una scrupolosa attenzione verso gli aspetti igienico-sanitari. In tutto ciò la tradizionale tecnica di lavorazione è rimasta assolutamente inalterata».

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FORMAGGI DOP VENETI Taleggio, Grana Padano e Provolone

Eccellenze

del tricolore TALEGGIO, GRANA PADANO E PROVOLONE. TRE DOP CHE SI INCONTRANO A METÀ STRADA: NELLA PROMOZIONE DEI RISPETTIVI CONSORZI DI TUTELA. PRIMA DEL GUSTO, UN MARKETING AL PASSO COI TEMPI

di Paola Maruzzi


FORMAGGI DOP VENETI Taleggio, Grana Padano e Provolone

reschi o stagionati, erborinati o affumicati, a pasta molle o dura, da tavola o da grattugia. È solo un assaggio del panorama lattierocaseario italiano. Sono più di quattrocento i formaggi che costellano lo Stivale, di cui ben trentasei Dop. Tra questi, si consolida un trittico d’eccezione: Provolone Valpadana, Taleggio e Grana Padano. Diversissimi nel profumo e nel gusto inconfondibili persino per il consumatore meno avveduto hanno in comune la vicinanza geografica, il Nordest. Un territorio duplice, montano e padano, che dagli alpeggi va verso l’area pianeggiante più produttiva di Italia. Il viaggio inizia dal Taleggio. Dal sapore dolce, con lievissima vena acidula e dal retrogusto tartufato, ha un odore leggermente aromatico. Tra le caratteristiche, la più significativa è quella di essere naturale e vivo: la sua maturazione, infatti, prosegue fino a quando viene consumato. Dai gourmet è considerato un tipico formaggio da tavola: si può gustare come secondo piatto, oppure a fine pasto, magari accompagnato ad alcuni frutti,

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come mele e pere. Gli esperti consigliano di servirlo a temperatura ambiente, per esaltarne appieno sapore e aroma. Con quasi 9mila tonnellate prodotte all’anno, il Taleggio continua a essere una delle chiavi di volta dell’industria alimentare nazionale. Forte della fama che lo precede, che nel 2010 gli ha fatto registrare un export del 16 per cento, il Consorzio di tutela non molla neanche per un attimo la presa della promozione e apre il 2011 mirando ai giovani consumatori. L’obiettivo è svecchiare l’identity del formaggio che, bontà a parte, deve anche essere al passo coi tempi. Nascono così divertenti scorribande, che culmineranno con un concerto di Elio e le Storie Tese. «La nuova iniziativa corona un percorso mirato a un riposizionamento del Taleggio su un target più giovane rispetto al trend che lo voleva un prodotto consumato soprattutto dai 35 anni in avanti – spiega il presidente del Consorzio Lorenzo Sangiovanni –. Un’impresa realizzata con successo dai cosiddetti Taleggiatori, che attraverso il sito a loro dedicato, organizzano

BOCCONCINI DI POLLO IN SALSA DI TALEGGIO DOP E CURRY Ingredienti per 4 persone: Petto di pollo gr. 400 Taleggio Dop gr. 50 Panna 4 dl Farina q.b. Curry dolce gr. 20 Burro d’alpeggio gr. 20 Preparazione: Tagliare a cubetti il pollo e infarinarli, quindi rosolarli in una padella col burro a fuoco vivace. Aggiungere il curry e farlo tostare 1 minuto circa. Aggiungere il Taleggio Dop a pezzetti e la panna. Cuocere sino a che la crema non diventa densa e cremosa, regolare di sale e servire. Ottimo accompagnato con del riso pilaf.

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FORMAGGI DOP VENETI Taleggio, Grana Padano e Provolone

“PATATINE” DI GRANA PADANO

incursioni per le vie di Milano, coordinano azioni di guerrilla marketing, invitano gli utenti del web a iscriversi per presenziare gratuitamente a eventi musicali di gran successo, a partecipare a concorsi che premiano estro e creatività». Continua anche la “favola” del principe dei formaggi: il Grana Padano, che assieme al Parmigiano Reggiano è l’orgoglio internazionale del made in Italy. Il 2010 ha segnato «consumi record. In Italia sono cresciuti del 4,8 per

Preparazione: Grattugiare 200 g di Grana Padano (stagionatura 15 mesi). Cospargere il formaggio su una teglia da forno antiaderente riutilizzabile. Con una formina per biscotti, ricavare forme circolari di Grana Padano grattugiato. Cuocere per 6-9 minuti in forno a 180ºC finché le “patatine” non risultano dorate. Disporre le “patatine” ancora calde su un matterello, in modo che assumano una forma arrotondata. Lasciarle raffreddare sul matterello. Intingerle leggermente nell’aceto balsamico invecchiato.

Ingredienti per 12-14 patatine: 200 g di Grana Padano Aceto balsamico

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cento mentre all'estero hanno fatto segnare addirittura un + 9,5. Risultati molto positivi che ci confermano come ambasciatori dell'eccellenza agroalimentare nel nostro Paese e nel mondo». Così Nicola Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio Grana Padano, che raggruppa circa 200 produttori e commercializza 4 milioni e 200mila forme all’anno. Un successo ottenuto grazie ad alcune iniziative previste dal

Fasi di lavorazione del Provolone Valpadana

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piano produttivo fin dal 2006, per esempio l’acquisto di 70mila forme scelte di nove mesi da stagionare almeno altri dodici, e da immettere al consumo dopo il lungo periodo di affinamento, con il marchio Riserva, esaltandone quindi la qualità e approfittando di un momento di maggior richiesta del mercato. Particolarmente significativa si è rivelata, inoltre, l’importante campagna estera, organizzata

congiuntamente al Parmigiano Reggiano che ha potuto contare sui 7 milioni di euro messi a disposizione dal ministero dell’Agricoltura attraverso Buonitalia e sui 3 milioni di euro dei due Consorzi. Il Provolone ha invece puntato sul rafforzamento del rapporto col territorio, concretizzato nella creazione dell’associazione Alti Formaggi, nelle attività di educazione alimentare nelle scuole, negli

Fila e si trasforma, viene avvolta e si modella. Così nasce il Provolone Valpadana

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FORMAGGI DOP VENETI Taleggio, Grana Padano e Provolone

MAZZETTI DI ASPARAGI E PROSCIUTTO CRUDO CON FONDUTA DI PROVOLONE VALPADANA

Ingredienti per 4 persone: - 200 gr. di asparagi verdi grossi - 4 fette di prosciutto di Parma - 12 riccioli di burro che serviranno a gratinare Per la fonduta di Provolone Valpadana: 200 gr. di besciamella piuttosto liquida dove farete sciogliere il 250 gr. di Provolone Valpadana stagionato grattugiato Preparazione: Avvolgete gli asparagi nelle fette di prosciutto e ricavatene 4 mazzetti. Poneteli sui piatti con la fonduta di Provolone Valpadana, aggiungete qualche ricciolo di burro e mettete a gratinare in forno. Servite ben caldo.

aventi dedicati alle famiglie e nelle iniziative per il trade. Oltre a questo il Consorzio ha portato avanti la consueta attività di vigilanza con il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali. In questi primi mesi del 2011 ha iniziato una nuova indagine con Eurisco per meglio comprendere la realtà del Provolone Valpadana Dop attraverso rilevazioni sugli acquisti di un campione di 8mila famiglie italiane. Tra le novità, in arrivo dal 13 aprile, la partnership con McDonald’s. La lungimirante iniziativa rappresenta un’ulteriore tappa nel percorso di promozione e valorizzazione dei prodotti italiani, intrapreso dalla multinazionale tre anni fa

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con l’introduzione di ingredienti tipici quali la bresaola della Valtellina Igp, il parmigiano reggiano Dop, l’asiago Dop, il pecorino, la mozzarella, la caciotta steccata di Morolo nella recente proposta “Il Ciociaro”, e recentemente anche lo speck Alto Adige Igp. Libero Stradiotti, presidente del Consorzio Tutela Provolone Valpadana, ha commentato: «La scelta ricaduta sul Provolone Valpadana gratifica il nostro formaggio che, come noto, ha caratteristiche uniche di completezza nutrizionale, di estrema versatilità e grande adattamento quando sottoposto al calore, grazie alla filatura che lo contraddistingue».

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Il prodotto di tre generazioni ALTA QUALITÀ E SICURA AFFIDABILITÀ. I FORMAGGI DELLA LATTERIA E CASEIFICIO MORO POSSONO CONTARE SU UN’ESPERIENZA STORICA MA ANCHE SU UNA PASSIONE CHE SI TRAMANDA DA GENERAZIONI

di Rossana Fuserelli l rapporto d’amore della famiglia Moro con il latte inizia in epoche molto lontane, appena dopo l’Unità d’Italia, con la bisnonna di Rino Moro, il patriarca dei formaggi che ha fatto del suo caseificio di Motta di Livenza una delle realtà produttive più importanti, qualificate e premiate del Nord-Est d’Italia. Basti pensare che il modernissimo caseificio lavora

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Latteria e Caseificio Moro di Motta di Livenza (TV) www.caseificiomoro.com

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oltre 2.000 quintali di latte al giorno. «Si –dice con orgoglio Rino Moro- in certi momenti ne arriva anche di più e tre chimici esaminano quotidianamente tutte le partite di latte che entrano in azienda per garantire l’assoluta qualità della materia prima». E se oggi il Caseificio di Motta di Livenza è uno dei gioielli produttivi e punta di diamante nel panorama agroindustriale veneto,

non va dimenticato che alle spalle c’è una secolare storia d’impegno e di sacrifici. «È vero – racconta Rino Moro - se penso ai miei avi, dalla bisnonna a mio padre, eravamo tutti impegnati nel mondo del latte, soprattutto a raccoglierlo; mia bisnonna andando a piedi di casa in casa con la bigoncia, mio padre e io stesso spingendo il triciclo, per le strade di Gorgo al Monticano a racco-

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FORMAGGI TIPICI Rino Moro

gliere il latte per portarlo all’allora Consorzio Produttore Latte di Treviso. Di sacrifici ne abbiamo fatti tanti, ma li abbiamo fatti sempre volentieri, perché il latte è da sempre il nostro mondo». Poi, nel 1954, Rino Moro acquista la piccola latteria turnaria di Gorgo al Monticano e, da raccoglitore, diventa piccolo imprenditore e inizia a vendere il latte in un suo negozio di Oderzo e a produrre formaggi a Gorgo. I tanti sacrifici e un lavoro che non conosce orari permettono al giovane imprenditore d’irrobustire il suo caseificio, tanto che all’inizio degli anni settanta sente la necessità di trovare nuovi spazi. Acquista allora un terreno di 22 mila metri quadrati a Motta di Livenza, lungo la statale Postumia, e lì realizza il suo nuovo caseificio, con davanti un negozio per la vendita al minuto. Il nuovo caseificio inizia il suo lavoro nel 1973 e cinque anni dopo, anticipando le tendenze di mercato, cessa di produrre il latte fresco alimentare e si dedica interamente alla produzione di formaggi, ottenendo lusinghieri riconoscimenti e diverse medaglie d’oro nei concorsi nazionali e internazionali. Anche il nuovo caseificio risulta ben presto insufficiente e a metà degli anni novanta Rino Moro lo ristruttura completamente adeguandolo alle nuove esigenze produttive e alle severe normative europee. «Alla fine dello scorso decennio mi sem-

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IL MONTASIO Formaggio a pasta cotta, semidura, ottenuto esclusiavamente con latte bovino. A seconda della stagionatura può essere assaporato fresco, semistagionato o mezzano, vecchio o stagionato. Mangiato fresco ha un sapore morbido e delicato, nel mezzano i sapori risultano più decisi con caratterizzazioni di pienezza particolari; stagionato assume gusti particolarmente aromatici con una nota di piccantezza.

brò di aver realizzato una struttura modernissima, dotata di una tecnologia d’avanguardia, capace di lavorare il latte in totale sicurezza e produrre formaggi di alta qualità e fu allora che decisi di produrre il mio marchio, che è poi il nome della famiglia, quale sinonimo di alta qualità e sicura affidabilità. Ma non ero ancora contento e così nel 2004 ho ottenuto la certificazione Iso 9001/UNI EN 9001». Oggi il marchio della Latteria e Caseificio Moro di Motta di Livenza è conosciuto e stimato in tutto il centro-nord Italia, fino all’Emilia Romagna e alla Toscana e un’efficiente organiz-

zazione distributiva garantisce a una clientela molto affezionata un servizio di consegna sempre puntuale e, se occorre, anche personalizzato. I prodotti che escono dal caseificio Moro sono: Formaggi (Daniele e Montasio Dop), Casatella, Caciotta, Mozzarella in bustine sigillate e in bocconcini, ormai presente in moltissime pizzerie italiane e Ricotta in vari formati e lavorazioni, richiesta anche dalle primarie industrie italiane di paste ripiene, come tortelli e ravioli. Una bella gamma di prodotti che fanno della Latteria e Caseificio Moro una delle realtà private italiane più importanti e qualificate.

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Aromi d’Italia DALLA LIGURIA ALL’ABRUZZO, PASSANDO PER L’EMILIA ROMAGNA. BASILICO, AGLIO E ZAFFERANO: VIAGGIO TRA I SAPORI DOP DELLA PENISOLA

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SPEZIE E SAPORI

a cultura delle erbe aromatiche e delle spezie non è patrimonio esclusivo di paesi lontani dove la cucina etnica ne è la massima espressione. Anche nella nostra penisola, soprattutto nel centro e nel sud Italia, si coltivano e lavorano piante, radici e semi, molti dei quali hanno ricevuto il riconoscimento della Dop da parte del ministero delle Politiche agricole e forestali. È il caso della Liguria, con il basilico genovese, dalle foglie grandi e lisce e dal sapore sublime che rende inconfondibile il pesto. Di Voghiera, piccolo comune in provincia di Ferrara, dove la promozione e la coltivazione dell’aglio ha permesso alle aziende produttrici di avere un reddito garantito e una produzione che raggiunge il 60 per cento. Della terra d’Abruzzo, dove la coltivazione dello zafferano dell’Aquila coinvolge più di una decina di comuni su un’area posta a un’altitudine compresa tra 350 e i 1.000 metri.

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BASILICO E MORTAIO PER IL VERO PESTO Il Parco del Basilico è nato su iniziativa della Provincia di Genova con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo del

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territorio del Ponente genovese e, in particolare, la pregiata produzione del basilico. Come illustra Marina Dondero, vicepresidente e assessore a Costa, entroterra e pari opportunità della Provincia di Genova, «l’Unione agricola genovese è il principale partner privato del Parco del Basilico: la cooperativa agricola, fondata nel 1919 a Pra’, oggi consocia oltre 80 aziende agricole presenti nel territorio, di cui una ventina a monocoltura o a prevalente produzione di basilico genovese». Questo attore collettivo è stato individuato come un «elemento fondamentale per lo sviluppo del settore e per la coesione tra i diversi soggetti dell’agricoltura locale». Tra i partner del parco ci sono poi gli enti locali, le associazioni di categoria, il Consorzio di tutela del basilico genovese Dop e il Consorzio del pesto genovese. Quest’ultimo ha lo scopo di tutelare la ricetta tradizionale del pesto. «Il segreto – spiega l’assessore Dondero – sta nell’equilibrio tra i sette ingredienti - basilico genovese, parmigiano reggiano, pecorino sardo, pinoli freschi, aglio di Vessalico, sale grosso, olio extra-

vergine della riviera ligure - di cui quattro sono prodotti Dop, e nella procedura di preparazione con l’utilizzo del mortaio di marmo».

A TAVOLA CON L’AGLIATA SULLE FETTINE DI CARNE La coltivazione dell’aglio di Voghiera è aumentata costantemente negli ultimi anni, in controtendenza rispetto al resto dell’Italia. «Un trend determinato da due fattori fondamentali – spiega il presidente del Consorzio dei produttori Aglio di Voghiera, Alessandro Benini – da una parte l’ambito riconoscimento del marchio Dop e dall’altra un prezzo di vendita che si è mantenuto a livelli remunerativi per le aziende agricole, anche in momenti in cui l’andamento del mercato dell’aglio non era favorevole». Le sue speciali qualità

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SPEZIE E SAPORI

Le ricette più tipiche con lo zafferano sono le frittelle di Natale, il fritto dorato e la pizza di Pasqua

• sono dovute al terreno su cui viene coltivato e al clima tipico della pianura padana. Alla vista e all’olfatto si presenta con un bulbo rotondeggiante e compatto dal colore bianco con leggere striature rosa, bulbilli grandi, aroma molto intenso e dolce. Dotato di ottima conservabilità, «dopo diversi anni di sperimentazione l’aglio di Voghiera ha ottenuto l’iscrizione all’Ense come “Aglio Belriguardo” per il seme dell’aglio di Voghiera Dop» conclude Benini. Tra le ricette più conosciute sul territorio c’è l’agliata, una salsa molto gustosa che viene utilizzata per accompagnare le fettine di carne. Per tutti gli appassionati, l’appuntamento è per la Fiera dell’aglio di Voghiera, dal 5 al 7 agosto. PASQUA FA RIMA CON PIZZA ALLO ZAFFERANO «Contiamo 98 famiglie produttrici» racconta Giovannina Sarra, una delle responsabili del Consorzio dello zafferano dell’Aquila. «In questo periodo però stiamo affrontando disagi dettati dalla burocrazia e dalla mancanza di finanziamenti e sostegni da parte degli organi

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competenti» denuncia. «Una situazione che si perpetua da anni». Silvio Sarra, fondatore del Consorzio, si è dedicato per 39 anni alla promozione dello zafferano dell’Aquila, ottenendo la denominazione di origine protetta sei anni fa. «Oggi invece vediamo spuntare il marchio Dop su tante altre specie di zafferano prodotte nel territorio senza una selezione efficace». L’annata del 2010 non è stata particolarmente generosa anche per quanto riguarda la produzione: «Trenta chilogrammi, ma lo zafferano, si sa, è una carogna». Come riconoscere quello Dop? «Dalla fragranza, talmente inebriante che è possibile sentirla anche quando lo si acquista in vasetto e alla frazione di bianco nel punto di unione dei pistilli con il gambo». Lo zafferano possiede inoltre effetti curativi perchè favorisce l’attività gastrointenstinale e cardiocircolatoria fluidificando il sangue. «Andrebbe consumato due volte alla settimana». E in cucina? Si usa dall’antipasto al dessert. «Le ricette più tipiche del nostro territorio sono le frittelle di Natale, il fritto dorato e la pizza di Pasqua».

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SPEZIE E SAPORI Valentino Marcattilii

Sapori e profumi di cui ci s’innamora «È FACILE UTILIZZARLE IN CUCINA, BASTA PRENDERCI L’ABITUDINE» RACCONTA VALENTINO MARCATTILII. «MA ATTENZIONE ALLA PROVENIENZA E AI TRATTAMENTI, LE MIGLIORI VENGONO DALLA PROVENZA»

di Elisa Fiocchi al ristorante San Domenico di Imola che Valentino Marcattilii inizia la sua carriera di chef sotto la guida di Nino Bergese da cui impara l’arte e il mestiere. Dopo la morte del maestro, seguirà un periodo di stage in Francia e il ritorno al San Domenico in veste di comproprietario. La sua cucina fatta di sapori e di tradizioni tipiche della casa è impreziosita di profumi ricercati della Provenza, la terra dove crescono quelle erbe di grande qualità «capaci di assicurare a un brasato un profumo inconfondibile e meraviglioso». Lo chef teramano dispone di un’intera scansia a due piani ricca anche di spezie «tra cui il curry e la curcuma che hanno gusti meravigliosi senza dover per forza entrare nel mondo delle cucine orientali».

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Come nasce la sua passione per le erbe aromatiche? «Ho cominciato ad adoperarle nel 1974, l’anno in cui ho scoperto le grandi erbe, non solamente alloro, rosmarino e salvia che sono tra le più conosciute in Italia. Dopo aver fatto uno stage in Provenza ho

scoperto appieno il mondo delle erbe, una cultura che in Italia era stata persa e dimenticata fino agli anni Ottanta quando i cuochi professionisti ricominciarono a inserirle nella cucina italiana». Come vanno utilizzate sulla

Da sinistra, Valentino e Natale Marcattilii, Gianluigi Morini e Massimiliano Mascia

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SPEZIE E SAPORI Valentino Marcattilii

È difficile innamorarsi dellle spezie. Le mie preferite? In assoluto il cerfoglio, a seguire il dragoncello e, in ultima battuta, il prezzemolo base dei piatti da portare in tavola? «Il rosmarino, l’alloro e la borragine vengono adoperate soprattutto per insaporire le carni. Per il pesce e la pasta invece servono erbe più dolci, dai sapori meno violenti, come ad esempio l’erba cipollina, il foglio del timo, il dragoncello e l’aneto». Qual è invece la storia e la cultura delle spezie nel nostro paese? «L’Italia le ha conosciute grazie a Venezia, ma anche in questo caso, il loro utilizzo è andato scomparendo per qualche periodo. Una volta erano molto

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diffuse in assenza di frigoriferi e utilizzate per mascherare la conservazione delle carni. Negli ultimi venticinque anni abbiamo assistito a una loro riscoperta, in grani e in polvere. Nel nostro territorio esistono quelle classificate come “grandi”, ad esempio la cannella e il garofano, mentre tutte le altre sono meno conosciute e non è facile trovarle nelle case se non in confezioni decorative utilizzate esclusivamente come arredamento».

disposizione prodotti di qualità, tranne forse nel nord dell’Italia. In molti magazzini trovo esclusivamente l’alloro, il rosmarino, la salvia e solo in casi eccezionali l’erba cipollina con il rischio che sia tagliata dopo tre anni e abbia la consistenza di un arbusto. È un mercato in cui non c’è molta attenzione. Il 90% dei ristoratori è costretto a farla arrivare dalla Provenza perchè se ne trovano tante e soprattutto di qualità».

Dove è possibile rifornirsi delle migliori erbe? «Sono poche le catene di distribuzione che mettono a

Come utilizza le erbe aromatiche nella cucina del San Domenico? «Le adopero in ogni stazione di

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SPEZIE E SAPORI Valentino Marcattilii

TRANCIO DI ROMBO ARROSTITO AL FINOCCHIETTO Ingredienti: ·4 piccoli tranci di rombo chiodato, 350 gr. di finocchio tagliato a julienne, 1 mazzetto di finocchietto selvatico, ½ lt. di brodo, 50 gr. di porro tritato, olio di oliva burro, sale e pepe.

Sotto, gnocchi di patata “Rossa di Imola” con ragù di crostacei al dragoncello

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Preparazione salsa In una casseruola rosolare in poco olio e burro i porri e 150 gr. di julienne di finocchio, unirvi il finocchietto selvatico e fare brasare alcuni minuti, unire il brodo, fare bollire 2/3 minuti e aggiustare di sale e pepe e giusta densità, frullare il tutto, filtrare se occorre. tenere al caldo la salsa aggiustata di sale e pepe.

Preparazione Dorare da ambo le parti (1 minuto circa) i tranci di rombo in un tegame molto caldo e appena unto con un filo di olio, porle in una piccola teglia e passarle al forno caldo 220° per 3 minuti. Saltare i 200 gr. di julienne di finocchio rimasto in poco olio nello stesso tegame per alcuni minuti aggiustando di sale e pepe, porli al centro di piatti individuali, adagiarvi i tranci di rombo e irrorare con la salsa, ultimare con rametti di finocchietto selvatico.

cucina e ogni settimana mi faccio spedire un sacchetto con 300 grammi per ogni specie direttamente dalla Provenza che utilizzo per gli antipasti, le paste, i secondi, nelle piccole frivolitè e nelle carni. Sono davvero indispensabili nel mio ristorante».

propongo un guancialino di vitello cotto in vino bianco con coriandolo, ginepro e un mix macinato di cannella, garofano, curcuma».

Quali ricette propone a base di erbe e spezie? «Partiamo da un trancio di branzino dell’Adriatico da far cuocere in un fumetto di pesce fatto con le lische dell’animale. In questo “guazzetto” s’inseriscono tutte le erbe miste tritate grossolanamente così da ottenere un profumo meraviglioso. Si va poi a servire il branzino con il brodo. Per quanto riguarda le spezie

Che consigli può offrire a tutti coloro che si avvicinano per la prima volta al mondo delle erbe e delle spezie? «Intanto serve un bravo rivenditore che disponga di erbe buone e che non utilizzi prodotti aggiuntivi. E poi il segreto è prenderci l’abitudine. Cucinare con le erbe non è difficilissimo mentre è assai più facile innamorarsi di questi profumi e odori. Le mie preferite? In assoluto il cerfoglio, a seguire il dragoncello e, in ultima battuta, il prezzemolo».

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SPEZIE E SAPORI Roberto Russo

Idee speziate

«LA CULTURA DELLE SPEZIE È SPESSO ASSOCIATA A QUALCOSA DI MITICO» RACCONTA LO SCRITTORE ROBERTO RUSSO. «IN NATURA ESISTONO SPECIE DAVVERO PARTICOLARI»

di Elisa Fiocchi a mia passione per le erbe aromatiche e le spezie nasce da un discorso d’affettività, vengo da un paese del sud Pontino in cui si fanno le salsicce di maiale in maniera particolare, usando il coriandolo». Da quella tradizione familiare, Roberto Russo coglie l’ispirazione per imboccare quella “via delle spezie” da cui prende il titolo il suo libro pubblicato nel 2007. «Si tratta di un percorso umano che parte dall’Oriente, arriva fino a noi e continua senza meta. Come

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qualsiasi strada. È un cammino che bisogna continuare a seguire altrimenti finisce la conoscenza e la sperimentazione». Quali sono i suoi segreti in cucina? «Quando lo dico, tutti storcono il naso: io cucino senza sale sia per una questione d’ereditarietà di ipertensione familiare, sia perchè il sale tende a coprire il sapore della spezia. Il trucco consiste nel variare un piatto usando spezie cotte o crude. Un esempio pratico? Sopra un classico piatto

di pasta asciutta con il pomodoro ci si può grattare la noce moscata a mo di parmiggiano oppure inserendola in fase di cottura assieme al sugo per ottenere un gusto completamente differente. A meno che non si esageri con dosaggi enormi, non esistono piatti cattivi a base di spezie». Quali sono le sue ricette preferite? «Un dolce particolare con la cannella chiamato “Kulfi”: si fa bollire un litro di latte con una stecca di cannella per due ore a

Roberto Russo, autore del libro La via delle Spezie


SPEZIE E SAPORI Roberto Russo

Un buon esercizio lo propone il film “Hereafter”: bendarsi, assaggiare e indovinare il sapore

fuoco minimo, poi si filtra e si fa congelare e il risultato è strepitoso: una créme di latte aromatizzata alla cannella che regala un sapore particolare al dolce, molto ghiacciato, più adatto per la stagione estiva. Oppure la polvere di liquirizia su una tartare di carne di manzo». Le erbe e le spezie hanno anche effetti terapeutici. Funzionano davvero? «La tradizione culturale italiana ha sempre fatto ricorso alla erbe e alle spezie per curarsi, basta pensare al chiodo di garofano per guarire i denti o al decotto di malva. Su questo aspetto però vado sempre con i piedi di piombo perchè nutro qualche timore. La liquirizia, ad esempio, ha effetti curativi ma ha la controindicazione di far alzare la pressione. Essendo anche una questione di correlazione energetica tra la spezia e la persona, preferisco soffermarmi di più sull’aspetto culinario che curativo».

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Per iniziare a giocare con le spezie, da quale consiglia di cominciare? «Anche il semplice pepe è un buon modo di partire: conoscere le differenze tra i vari tipi bianco, nero, rosa - e accostarli a seconda dei vari piatti. Il pepe bianco si usa per il pesce ma va provato anche sulla carne per vedere l’effetto. Le bacche di ginepro possono essere utilizzate benissimo con la selvaggina e anche con il pesce, idem per i chiodi di garofano». Quali sono le principali distinzioni tra erbe aromatiche e spezie? «Le prime vanno distinte tra quelle utilizzate a crudo e quelle cotte, come ad esempio il prezzemolo, che dovrebbe essere adoperato crudo il più possibile in modo tale da acquisire maggiore sapore. Una cosa è fare un dolce con l’ananas e mettere una foglia di menta fresca e un’altra è realizzarlo con la foglia secca. In linea di massima, le erbe andrebbero consumate fresche, mentre le spezie secche, anche se

lo zenzero è un caso a parte e si colloca a metà». Via libera dunque alla sperimentazione, ma quali accorgimenti vanno adottati? «L’importante è non trascurare la qualità. I supermercati sono pieni delle spezie più comuni, ma evito di comprarle salvo nei casi di necessità. Esistono negozi che vendono spezie particolari più curate ma anche online ho trovato un’ottima offerta. Meglio comunque comprarne poche per averle sempre fresche altrimenti invecchiano e perdono l’aroma. Altro aspetto importante è impegnarsi in prima persona, anche in cucina. Ci sono suggerimenti pratici da seguire ma molto spesso si può sperimentare da soli e procedere con un’associazione di idee. Come nell’ultimo film di Clint Eastwood, “Hereafter”, dove bisogna bendarsi, assaggiare e indovinare il sapore. È un ottimo esercizio. Certo, meglio fidarsi dei consigli degli chef ma solo come base di partenza per trovare la propria strada».

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erbe e piante

magiche

GIUSQUIAMO, STRAMONIO, BELLADONNA E MANDRAGORA. LE SPECIE USATE DALLA STREGHE NEL RACCONTO DELLA SCRITTRICE MARIA TERESA DELLA BEFFA

di Elisa Fiocchi


SPEZIE E SAPORI Maria Teresa Della Beffa

ata e cresciuta in una famiglia di naturalisti, è il padre a trasmettere a Maria Teresa Della Beffa l’amore per le piante e a insegnarle innanzitutto a riconoscerle. «Quando ho scritto il mio primo libro sulle erbe oltre vent’anni fa - in collaborazione con Maria Luisa Sotti, Le piante aromatiche - la conoscenza di queste specie era davvero un’esclusiva di nicchia per pochi appassionati e cultori della materia» spiega Della Beffa, scrittrice e presidente dell’associazione “Amici delle Erbe Aromatiche” di Torino. «Oggi c’è sicuramente un interesse maggiore per le erbe aromatiche come testimoniano le numerose pubblicazioni in libreria sull’argomento e le molte informazioni consultabili su internet dedicate alla coltivazione, ai numerosi usi in cucina o in fitoterapia».

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Maria Teresa Della Beffa, scrittrice e presidente dell’associazione Gruppo Amici delle Erbe Aromatiche di Torino

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Iniziando il viaggio nell’antichità, le erbe erano associate al mondo della stregoneria. Antiche leggende o è davvero possibile sperimentare

filtri e pozioni con effetti particolari? «Le streghe erano chiamate in alcuni testi classici dominae herbarum, signore delle erbe, per la loro fine conoscenza delle piante da loro utilizzate per preparare intrugli diabolici, unguenti e filtri. Tra le più note piante “magiche” vi sono giusquiamo, stramonio, belladonna e mandragora. Sono tutte specie che contengono potenti alcaloidi in grado di causare allucinazioni e le streghe le usavano per preparare pozioni e unguenti con cui si cospargevano per recarsi volando ai Sabba (riunioni con il diavolo). Si trattava di viaggi mentali, simile a quelli che si possono compiere con altre sostanze psicotrope. Oggi alcune di queste erbe le possiamo trovare in offerta su Internet e fanno parte delle cosiddette smart drug (le droghe furbe): in ogni caso si tratta di piante pericolose che presentano gradi anche elevati di tossicità e che, secondo la dose, possono provocare anche l'arresto dell'attività cardiaca. Ingerire o fumare parti di queste piante può

quindi essere molto rischioso». Erbe e spezie: due filosofie culinarie molto differenti? «Anche se non è così semplice stabilire con esattezza la differenza (ci sarà sempre almeno un esempio che ci contraddice), si può dire che in genere le spezie sono esotiche mentre le erbe aromatiche sono indigene. La maggior parte delle spezie (pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero) proviene dall’Asia, dall’Africa e dal Sud America e per ragioni climatiche non è possibile coltivarle nel nostro territorio, mentre le erbe aromatiche sono per lo più originarie dell’Europa (bacino mediterraneo). Dal punto di vista culinario le spezie si impiegano in genere in piccole dosi e per dare una nota intensa o piccante in molti piatti della nostra cucina tradizionale, oltre a essere indispensabili nelle ricette di cucina etnica oggi particolarmente in voga. Molte erbe (basilico, prezzemolo, cerfoglio) hanno di solito un aroma più delicato e vanno preferibilmente impiegate fresche».

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SPEZIE E SAPORI Maria Teresa Della Beffa

Nel suo libro, un glossario farmacologico illustra le proprietà curative delle erbe: è possibile mangiare con gusto e al tempo stesso, attraverso il loro uso, curare i più comuni sintomi di malessere fisico? «Molte piante aromatiche utilizzate comunemente in cucina contengono principi attivi che agiscono in modo benefico sul nostro organismo. Ad esempio il comune rosmarino contiene oli essenziali dalle proprietà antisettiche e batteriostatiche che contribuiscono ad attenuare e spesso a far scomparire le dispepsie gastriche e inoltre esercitano un’azione coleretica e colagoga che può contribuire a migliorare la funzionalità del fegato. La santoreggia è particolarmente indicata per insaporire i piatti a base di legumi (es. pasta e fagioli) in quanto ha una forte azione carminativa utile ad evitare la formazione dei fastidiosi meteorismi intestinali». In tal caso, quali metodi curativi ha sperimentato? «Personalmente ho provato come digestivo l’uso dei semi di Carum carvi (cumino dei prati) una piccola ombrellifera molto aromatica che cresce spontanea nei prati di montagna e lungo i sentieri fino a 2200 metri. I semi, raccolti a metà estate, contengono oli essenziali, resine, mucillagini

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ed hanno proprietà digestive, aperitive, antisettiche, antispasmodiche. Le giovani foglie insaporiscono insalate, minestre e verdure cotte, mentre i semi, dal sapore intensamente aromatico, si possono mescolare alla farina per preparare dolci e panini, e danno un tono particolare ai piatti di carne (soprattutto di maiale). Sono indispensabili per la preparazione del noto liquore aromatico denominato kümmel dalle provate proprietà digestive». Direttamente dalla sua cucina, quali sono le ricette preferite a base di erbe aromatiche? «Ne propongo due, di facile realizzazione. Tartine all’erba cipollina: 8 fette di pan carré, 250 grammi di formaggio fresco cremoso, un mazzetto erba

cipollina, olive verdi o capperi per decorare. Sminuzzare finemente l’erba cipollina e amalgamarla bene al formaggio fresco, aggiustando se necessario con un po’ di sale. Tagliare diagonalmente le fette di pane carré in modo da ottenere dei triangoli. Spalmare delicatamente il composto sul pane e decorare ogni tartina con i capperi o con metà oliva snocciolata. La seconda ricetta è un pesce spada all’angelica: sei fette di pesce spada, una tazza di brodo, 50 grammi di farina bianca, 3 o 4 cucchiai di foglie di angelica tritate, una noce di burro, 3 o 4 cucchiai di olio di oliva, sale, pepe. Infarinare le fette di pesce spada, quindi farle rosolare in burro e olio. Unire il brodo tiepido, salare e pepare. A fine cottura aggiungere le foglie di angelica tritate, e servire ben caldo».

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SPEZIE E SAPORI Rosalba Pagano

Dopo il veleno e prima del nettare «ZAFFERANO DI NAVELLI, VANIGLIA DEL MADAGASCAR, CANNELLA DI CEYLON». ROSALBA PAGANO NE SVELA I SEGRETI NEL LIBRO POLVERE DI SPEZIE

di Elisa Fiocchi imenticate la stregoneria e i vecchi pentoloni dove far bollire pozioni velenose. «Con la benedizione della scienza, dai filtri a base di ingredienti quantomeno improbabili, spesso disgustosi e di difficile reperibilità, noi donne siamo passate ai manicaretti». Parola di Rosalba Pagano, autrice del libro Polvere di spezie, amante della buona cucina mediterranea e dotata di quell’«intuito sensoriale» ereditato in famiglia con cui creò la prima tisana di spezie. «Polvere di finocchio, rosmarino, anice, cannella, pepe, scorza d’arancia e miele di robinia in un barattolo a chiusura ermetica. Pungente e nello stesso tempo vellutata, lievemente amarognola al palato: dopo una notte insonne aiuta a riconciliarsi con il mondo».

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Nel libro illustra come le spezie, oltre a insaporire e a esaltare i cibi, abbiano un potere curativo. Quali di queste vantano effetti terapeutici e come bisogna utilizzarle?

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«Secondo un’antica credenza le spezie, nell’universo vegetale, vengono dopo il veleno e prima del nettare. La loro essenza volatile le induce a oscillare tra i due poli. Ad attirarle in un senso o nell’altro è il dosaggio. Che va centellinato. Può variare da un pizzico (nella maggior parte dei casi) a un cucchiaino raso. Riguardo alle specialità terapeutiche, c’è l’imbarazzo della scelta. L’importante è ricordare che, come ogni farmaco, anche le spezie hanno le loro controindicazioni. Lo zenzero migliora la digestione delle proteine animali e neutralizza le tossine presenti nei cibi. Una vera polizza contro gli infortuni quando si prepara il risotto ai frutti di mare. La cannella vanta proprietà antibatteriche: neutralizza il batterio dell’escherichia coli e quello della salmonella. Se un particolare insolito fa emergere un ragionevole dubbio sulle condizioni igieniche del cibo che si sta per consumare, averla in borsa può tornare utile. Anice,


SPEZIE E SAPORI Rosalba Pagano

Rosalba Pagano, autrice del libro Polvere di spezie

Lo zenzero neutralizza le tossine presenti nei cibi, una vera polizza contro gli infortuni

cardamomo, coriandolo e finocchio sono digestivi e stimolanti». In cucina quali spezie impreziosiscono i suoi scaffali? «Zafferano di Navelli, peperoncino di Soverato, pepe di Java, vaniglia del Madagascar, cannella di Ceylon e molte altre. Le aromatiche le scelgo a chilometro zero, direttamente dal mio giardinetto roccioso. Le ricette che preferisco rimangono quelle della tradizione contadina: pasta e fagioli, orecchiette alle cime di rapa, carciofi alla Giudea. Cucina mediterranea con un tocco di esotico: sale di salgemma aromatizzato alla salvia, olio condito (peperoncino, origano, finocchio e chiodi di garofano) e pan pepato. Per i virtuosismi creativi mi affido alle spezie e per prevenire o alleviare qualche piccolo disturbo, alle loro virtù curative, e al mio personalissimo prontuario alimentare». Il libro racconta di antiche tradizioni egizie, indiane, cinesi

e greco-latine legate all’uso delle spezie. Può raccontarne qualcuna? «Procedendo da Oriente a Occidente: frizionare la curcuma sulla fronte dei neonati è considerato un segno di buon auspicio. Un pizzico di zafferano in un bicchiere di latte caldo riporta la pace in famiglia. La scorza di cannella, macerata in olio di sesamo e massaggiata sulle tempie, allontana il mal di testa e purifica i pensieri. Cospargere di semi di cumino il pane e dividerlo con il partner rinsalda il legame. L’acqua delle bacche di ginepro, sorseggiata dopo il tramonto del sole e prima di mezzanotte, libera dalle vecchie colpe». Esiste in Italia una cultura delle spezie o resta un’esclusiva per appassionati e chef? «A parte il “sale e pepe quanto basta” tracce dell’antico splendore sopravvivono ancora nelle ricette tipiche regionali, dal cous cous ragusano ai bicciolani vercellesi. Ma sono le aromatiche fresche in cucina a farla da padrone».

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Il valore salutare dell’olio L’OLIO D’OLIVA RAPPRESENTA ANCHE UN ALIMENTO FONDAMENTALE PER LA SALUTE. NE PARLANO GIAN LUCA GRANDIS, MATTEO E MARCO MUGELLI

di Francesco Bevilacqua ià nel secondo secolo il famoso medico e farmacista Galieno realizzò un’emulsione dalle proprietà estetiche e curative, che battezzò ceratum galieni, unendo olio vegetale con cera d’api e acqua rosata. Più recentemente, negli anni Ottanta, alcuni ricercatori dell’Istituto Karolinska di Stoccolma hanno condotto uno studio che li ha portati a concludere che dieci grammi al giorno di olio d’oliva possono ridurre del quarantacinque per cento il rischio di ammalarsi di tumore al seno.

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Ancora, nel 1977 il professor Angel Kelsen, dell’Università del Minnesota, ha riconosciuto all’acido linoleico contenuto nell’olio di oliva un alto grado di efficacia preventiva nei confronti dell’arteriosclerosi e dell’infarto. Questi sono solo tre esempi degli studi e delle sperimentazioni che hanno evidenziato i grandi vantaggi derivanti dall’utilizzo dell’olio extra vergine di oliva nell’alimentazione quotidiana. Perché allora non sfruttare questo prezioso elemento non solo per quelle che sono le sue caratteristiche alimentari ma anche come fonte

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L’OLIO TOSCANO Matteo, Marco Mugelli e Gian Luca Grandis

A sinistra, Matteo Mugelli e Gian Luca Grandis, titolari rispettivamente de la Torre Bianca e de La Ranocchiaia. In altro, una veduta della tenuta Torre Bianca e alcune bottiglie prodotte da La Ranocchiaia www.torrebianca.it www.laranocchiaia.it

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di benessere ed equilibrio per l’organismo? È proprio questa la domanda che si è posta la famiglia Mugelli, impegnata dai primi anni Settanta nella conduzione dell’azienda agricola Torre Bianca di San Casciano val di pesa, in provincia di Firenze. Marco Mugelli è uno dei maggiori esperti internazionali di olio extravergine d’oliva e da diversi anni porta avanti la produzione di questo prezioso elemento insieme al figlio Matteo con l’amico e collega Gian Luca Grandis inseguendo un obiettivo particolare: recuperare il valore salutare dell’olio. «Purtroppo nel mercato di oggi – spiega Marco Mugelli – si è persa completamente questa funzione, non c’è più in “farmacia”, mentre in realtà questo prodotto ha conservato le sue caratteristiche originali che pian piano vogliamo riscoprire». Per fare questo, Marco Mugelli ha reinventato il sistema estrattivo in modo da evitare che l’attività microbiologica presente sulla pruina, cioè la buccia dell’oliva, si estenda anche alla matrice vegetale, provocando il degrado suo e delle sue proprietà. «Il nostro frantoio di Torre Bianca –

prosegue Mugelli – è molto particolare ed è stato ideato per prevenire questo processo biologico. Il suo primo punto di forza è la pulizia: alla fine di ogni ciclo si attiva un meccanismo per cui, grazie a un sistema di lavaggio automatico, tutto viene minuziosamente ripulito. L’impiego dell’acciaio inossidabile consente la ripetizione continua di questi lavaggi sanitari. L’altra caratteristica fondamentale è l’assenza di aria: tutta la lavorazione avviene sottovuoto». L’aria è infatti l’elemento che innesca la reazione chimica che porta poi alla perdita delle proprietà biologiche dell’oliva e del suo olio. Da qui, l’intuizione di Mugelli: «A partire dalla frangitura, quando la buccia e i suoi microrganismi entrano a contatto con la parte vegetale, il frantoio è in grado di espellere l’aria e portare avanti la lavorazione sottovuoto, inibendo così l’avvio del processo di degrado». I dati parlano chiaro: l’olio prodotto con questo particolare metodo ha un contenuto fenolico disponibile che è da due a cinque volte superiore rispetto a quello convenzionale, a tutto vantaggio del valore salutare del

prodotto. Lo produzione degli oli, poi, è soprattutto monovarietale, fattore che permette una miglior comprensione delle caratteristiche organolettiche delle differenti cultivar lavorate. Questa particolare produzione è inserita in un contesto altrettanto interessante, costituito dall’azienda agrituristica Torre Bianca, in sinergia con la confinante azienda La Ranocchiaia. «Per piccole realtà produttive come le nostre – afferma Grandis -, è indispensabile. L’obiettivo è quello di ricostruire all’interno della realtà aziendale l’intera filiera dell’olio». «Le nostre sono aziende biologiche – racconta Matteo Mugelli, – la cui attività parte dalla coltivazione delle piante, per proseguire con la lavorazione delle olive, la produzione dell’olio e il suo imbottigliamento». Prossimamente le due aziende si occuperanno anche dell’ultima fase della filiera, ovvero la commercializzazione: «A breve – conclude Matteo – apriremo un punto di vendita diretta in collaborazione con Gian Luca di prodotti toscani di alta qualità, quindi certificati».

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Dal Giardino

di Firenze DICIOTTO ETTARI DI ULIVI CHE SORGONO NEL “GIARDINO DI FIRENZE” CON TANTO DI CERTIFICAZIONE BIOLOGICA. È L’OLIO DELL’AZIENDA AGRICOLA IL POGGIO

di Nicoletta Bucciarelli

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L’OLIO TOSCANO Alessandra Porciani

i troviamo a Bagno a Ripoli, luogo dedito da sempre alla produzione dell’olio. Nel 1880 fu definito dallo storico e naturalista Repetti “il giardino di Firenze… il più delizioso, il più ricco di frutti, il più popolato da ville”. Non a caso le ville medicee Mondeggi-Lappeggi, a poca distanza, già nel XIV secolo erano note per questa nobile attività. In questo territorio sorge la casa quattrocentesca dove si trova l’azienda agricola Il Poggio, produttrice d’olio da circa cinquant’anni a livello commerciale da dieci , condotta da Alessandra Porciani con il figlio Manfredi Tozzi . Alessandra Porciani si sofferma sulle caratteristiche del suo biologico. «È un olio che deriva da diversi cultivar: frantoio, moraiolo, leccino, leccino del corno e in quantità minore anche altri olivi. Di solito produciamo una monocultivar e un blended. Sia la potatura che la raccolta vengono fatte manualmente. Le olive sono raccolte nel momento della giusta maturazione e la frangitura va rigorosamente fatta entro le 4-6 ore, mai di più. Tutto ciò infatti andrà a incidere considerevolmente sulle caratteristiche dell’olio determinan-

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OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA BIOLOGICO IL POGGIO · Azienda Produttrice: Azienda Agricola Il Poggio · Caratteristiche: Prodotto da agricoltura biologica · Zona di produzione: Bagno a Ripoli · Cultivar: 65% Frantoio, 25% Moraiolo, 10% Leccino · Sapore: Note aromatiche, gusto intenso, toni erbacei di carciofo, retrogusto piccante-amaro

done la qualità». La posizione in cui si trova l’azienda agricola rappresenta un connubio tra bellezza e condizione ottimale. «Siamo lontani da autostrade e da centri abitati industriali, in una zona priva d’inquinamento; questo aiuta la produzione di un olio biologico . Siamo stati selezionati da Medoliva tra i migliori oli del Mediterraneo». Le caratteristiche dell’olio toscano affiorano in tutte le loro note, «note aromatiche e gusto spiccato, con toni erbacei di carciofo e un retrogusto piccante e amaro. Questo è quello che di-

stingue l’olio fiorentino e soprattutto l’extravergine d’oliva». Per quanto riguarda gli abbinamenti culinari, il carattere importante dell’olio toscano necessita di piatti che non contrastino. «L’olio fiorentino, intenso e piccante, si sposa benissimo con la carne grigliata, sui fagioli e sulle verdure». Le caratteristiche organolettiche vengono mantenute in ogni bottiglia del biologico Il Poggio. «Tutte le proprietà positive dell’olio come i polifenoli, devono rimanere il più possibile inalterate. Per questo motivo il mantenimento è molto importante. Noi abbiamo una cantina climatizzata perché l’olio non deve mai andare al di sotto dei 14 gradi e non deve superare i 18. La conservazione avviene in fusti d’acciaio inossidabile con il doppio fondo. L’olio si deteriora infatti con la luce, il calore e l’ossigenazione perciò è importante che non entri a contatto con l’aria per conservare tutte le sue proprietà e i suoi profumi».

In basso a sinistra, l’azienda agricola Il Poggio info@ilpoggiodicascianella.com

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Il re della dieta

Mediterranea ANTONIO ARCANGELI SPIEGA COME LE PROPRIETÀ ORGANOLETTICHE DELL’OLIO POSSANO, OGGI, ESSERE CONSERVATE PIÙ A LUNGO

j di Giulio Conti i

er le sue proprietà organolettiche, l’olio è da sempre considerato il fiore all’occhiello della produzione alimentare made in Italy con appellativi che da “oro verde” e “re della dieta mediterranea”, lo hanno portato a rappresentare un nutriente “elisir di lunga vita”. «Il consumatore di oggi è sempre più orientato verso parametri di cultura salutista, verso cioè la qualità e la cura dell’alimentazione. Per questo, l’olio extravergine d’oliva è considerato prodotto di punta all’interno del settore alimentare». Ad esaltare l’eccellenza riconosciuta nell’olio è Antonio Arcangeli dell’Azienda Agricola Allevamento dell’Apparita,che fra le verdi colline a sud di Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, oltre ad allevare cavalli da sella italiano, presso

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la proprietà aziendale ha accolto anche il centro ippico Pony Club “Il Rospetto”, «gestito dall’amazzone di famiglia, Alessandra, dedita a trasmettere le sue conoscenze equestri attraverso attività ludico-addestrative». Oltre l’allevamento del cavallo di razza sella italiano, l’attività aziendale di punta rimane la produzione di olio extra vergine di oliva. «L’Azienda Agricola Allevamento dell’Apparita è socia di Arcadia, l’Associazione Produttori di Olio di Qualità Superiore di Bagno a Ripoli. Con la consulenza della figlia maggiore Arianna, agronomo, coltiviamo un’oliveta di circa 6 ettari, costituita prevalentemente da cultivar classiche toscane, moraiolo, leccino e frantoio che danno


L’OLIO TOSCANO Antonio Arcangeli

OLIO EXTRA VERGINE DI OLIVA · Cultivar: classiche toscane, moraiolo, leccino e frantoio · Colore: verde intenso origine ad un olio molto piacevole ed equilibrato. La raccolta viene effettuata a mano a partire dalla seconda metà di ottobre fino a tutto novembre e le olive vengono frante giornalmente con processo estrattivo a ciclo continuo a temperatura controllata che non supera i 23 gradi». Quali risultati avete ottenuto con la raccolta delle scorse annate? «La nostra passione legata alla produzione dell’olio ha prodotto i suoi frutti. Negli anni abbiamo infatti, ottenuto numerosi riconoscimenti a livello locale, provinciale e nazionale, come la vittoria per due anni consecutivi del “gocciolatoio d’oro” a Bagno a Ripoli e la menzione d’onore al premio Montiferru. L’olio dell’Azienda Agricola Allevamento dell’Apparita è stato selezionato dalla Cciaa fra i mi-

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· Profumo: fruttato medio-lieve di oliva verde. Dolce in entrata con note di mandorla fresca, noce e pinolo · Sapore: piacevole ed equilibrato con note di carciofo. Sono marcati l’amaro e il piccante con intensità media · Abbinamenti: ottimo a crudo sulle zuppe, carni alla brace, verdure in genere e come guarnizione nei piatti dell’alta cucina

gliori oli della provincia di Firenze nel 2009, 2010 e 2011, selezionato per Medoliva 2010 ed è presente nelle guide di Slow Food 2010 e Gambero Rosso 2011. Ottenere un olio extra vergine di oliva d’alta qualità ripaga sempre prima il produttore e poi il consumatore». Con quale tipologia di packaging confezionate i vostri prodotti? «Grazie alla nuova soluzione creata dalla Qultivar, azienda toscana che ha prodotto, brevettato e introdotto sul mercato la prima bottiglia di acciaio inox 18/10 per alimenti, abbiamo ottenuto un notevole vantaggio qualitativo della conservazione di olio extravergine d’oliva in Olipac. Il vantaggio di questa nuova soluzione per il confezionamento permette

di conservare più a lungo una maggior concentrazione in composti fenolici antiossidanti, di ridurre il grado di ossidazione e di mantenere le caratteristiche sensoriali positive».

A sinistra, uno dei cavalli dell’Azienda Agricola Allevamento dell’Apparita. Sopra, uno degli oli prodotti in azienda in confezione Olipac arcangeli50@libero.it www.aziendagricolapparita.jimdo.com

Quali altre caratteristiche possiede la confezione Olipac? «Olipac è altresì un contenitore in linea con la sostenibilità ecologica. L’acciaio inossidabile è igienico, neutro nei confronti del cibo, facile da pulire, infrangibile, ha una superficie che si autorigenera ed è uno dei materiali maggiormente riciclati al mondo. Il peso della bottiglia di acciaio, inoltre, è inferiore del 30% circa rispetto ai contenitori in vetro, quindi il risparmio energetico nel trasporto della merce è rilevante».

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OLIO TOSCANO Marco Calamai

L’Extravergine dell’Impruneta UN MIX DI VERDURE CRUDE SERVITE CON OLIO E SALE. E VIA CON UN PASTO GUSTOSO E RICCO DI VITAMINE. MA A VILLA MONTEORIOLO, L’EXTRAVERGINE SI PRODUCE E SI USA ANCHE PER I DOLCI

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OLIO TOSCANO Marco Calamai

el fare della buona cucina, l’olio non è solo un elemento di base o di condimento ma parte integrante di molte ricette tradizionali, così come di sperimentazioni culinarie dai toni avanguardistici. Anche per questo in Italia, terra di sole e di buongustai, sono molte le zone di produzione di oli di qualità e prestigio gastronomico. Nella scelta dell’olio da “podio” però, molti convengono nell’elezione di quello toscano. Dagli uliveti impiantati e curati dalla famiglia Calamai, sulle colline che sovrastano Firenze tra le terre di Impruneta, «l’olio extravergine di Monteoriolo è unico perché prodotto in un territorio incredibile, dove si alternano inverni freddi e asciutti a estati calde e secche». Marco Calamai, portavoce insieme alla moglie Eleonora della lunga tradizione di Villa Monteoriolo, fornisce curiose informazioni sul valore che dell’olio extravergine di Impruneta dà ai nostri menù.

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Quali tendenze e abbinamenti con l’olio racconta l’arte culinaria del momento?

«La cultura alimentare italiana induce innanzitutto a sottolineare come l’olio extravergine di oliva rappresenti il prodotto di eccellenza che non dovrebbe mai mancare in una dieta equilibrata, sana e soprattutto genuina. Un’interessante tendenza culinaria, che di frequente proponiamo agli

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ospiti di Villa Monteoriolo perché ritenuto l’incipit ideale di un pasto gustoso e ricco di vitamine, è il Pinzimonio, ovvero un mix di verdure crude di stagione servite con olio e un pizzico di sale». Dove risiede il “plus valore” dell’olio Monteoriolo?

«L’olio extravergine di Monteoriolo è unico perché prodotto in un terreno ricco di argilla e minerali. È ottenuto dalle nostre cultivar – Moraiolo, Leccino, Frantoio e Pendolino – che conferiscono una tipicità esaltata nel gusto, nel profumo e nel colore dell’extravergine finale. Le fasi operative che più influiscono sulla qualità e sul flavour fruttato del nostro olio sono distribuite lungo tutto l’arco produttivo: dalla piantagione dei piccoli olivi, alla raccolta manuale delle olive quando ancora sono attaccate alla pianta». È quindi la pianta oppure la terra su cui questa cresce a conferire qualità al prodotto?

«Sia la varietà delle piante, tutte con tempi di maturazione diversi e caratteristiche differenti, sia il terreno, che ha la capacità unica di assorbire acqua e rilasciarla anche nei periodi più caldi, producono un andamento omogeneo della maturazione della drupa, permettendo che il prodotto finale sia qualitativamente di alto valore». Tra le tante ricette in cui si usa l’olio, può descriverne anche

In alto, Eleonora e Marco Calamai di Villa Monteoriolo, Impruneta (FI). Sotto, uno dei loro oli extravergini www.villamonteoriolo.it

una dolce?

«La tipica pappa al pomodoro, la ribollita, i fagioli cannellini, le creme di verdura, la tagliata di carciofi e in particolare, la “fettunta” – pane abbrustolito, olio, aglio, sale – permettono che l’aroma dell’olio venga esaltato al meglio. Ma, il dolce “ciambellone bicolore” che mia moglie Eleonora spesso prepara prevede, oltre gli ingredienti classici come farina, uova, latte, cacao e zucchero, anche un bicchiere di olio che, in bocca, si trasforma in un vero tocco magico».

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OLIO IGP TOSCANO Lucio Cencini

Il classico toscano UN OLIO INTENSO E PROFUMATO. DOLCE, AMARO E ANCHE PICCANTE. LUCIO CENCINI DESCRIVE IL SUO IGP TOSCANO

j di Lucrezia Gennari i i sono luoghi che paiono baciati dalla fortuna, per il clima mite in ogni stagione, la tranquillità della natura in cui sono immersi, l’atmosfera rilassante, dove il tempo sembra essersi fermato. Nel verde delle colline Maremmane, vicinissimo alle Terme di Saturnia, sorge proprio uno di questi posti incantati. È Valle Martina, a Montemerano, un angolo di tranquillità, dove l’attività ricettiva si incontra con la produzione di un ottimo olio IGP toscano. Questa azienda a carattere familiare è gestita, dal 2002, da Lucio Cencini e si estende su 45 ettari, di cui 3,30 impiantati a olivo in maniera estensiva. L’olio prodotto a Valle Martina nel 2010 è stato inserito nella Guida agli Extravergini Slow Food ed è stato pre-

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Lucio Cencini, al centro, con la famiglia. Nella pagina accanto, un esterno dell’azienda www.agriturismovallemartina.it

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miato come miglior olio dal fruttato intenso nella manifestazione Vivamus organizzata dal comune di Manciano. Quest’anno ha ricevuto il riconoscimento della Guida agli Extravergini 2011 di Slow Food quale “Extravergine dell’Emozione”. Dalle 320 piante di olivo dell’azienda, divise nelle varietà frantoio, leccino, moraiolo e pendolino, la raccolta avviene in modo tradizionale, agevolata da alcune tecnologie meccaniche. «Si comincia a raccogliere le olive verso la seconda decade di ottobre - spiega Lucio Cencini - : al termine della giornata lavorativa, le olive vengono portate tempestivamente al frantoio e la spremitura avviene nella stessa serata». Ne deriva un olio dal colore verdone, limpido, intensissimo e impenetrabile, in cui il giallo emerge a fatica. Il profumo, di media intensità, è

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OLIO IGP TOSCANO Lucio Cencini

fresco e pulito, ricorda anche gli agrumi verdi e la buccia del limone ancora acerbo. L’equilibrio al gusto tra dolce, amaro e piccante è ottimo, la rama è piena e piacevoli sono le sensazioni finali. «Il resto della produzione – continua Cencini – comprende la coltivazione di cereali e la cura della vigna da vino». Strettamente connessa all’attività agricola, è l’ospita-

lità agrituristica. La struttura è costituita da sette camere e un appartamento. Gli ambienti, con ingresso indipendente, sono luminosi e confortevoli, dotati di climatizzazione autonoma. «Naturalmente – afferma Lucio Cencini - i nostri ospiti possono gustare i prodotti dell’azienda e, nella sala comune, viene offerta una genuina e ricca prima cola-

OLIO IGP TOSCANO · Zona di produzione: colline Maremmane · Varietà: frantoio, leccino, moraiolo, pendolino · Colore: verdone, limpido, intensissimo e impenetrabile · Profumo: intensità media, fresco, ricorda gli agrumi verdi · Gusto: equilibrio tra dolce, amaro e piccante. Rama piena e piacevoli sensazioni finali

zione preparata con i prodotti tipici locali. Per chi desidera cenare all’aperto, a contatto con la natura, sono disponibili anche un punto cottura e due barbeque nel giardino». La struttura dispone anche di un’ampia piscina estiva e di mountain bike per le escursioni. La posizione dell’agriturismo Valle Martina è infatti estremamente comoda per raggiungere le vicine terme di Saturnia e gli interessanti siti etruschi, ma si rivela anche il punto di partenza ideale per altre interessanti escursioni. Poco distanti da Manciano, infatti, si trovano l’Argentario, il Monte Amiata, Pitigliano e Sovana. Particolare attenzione, infine, è posta all’impatto ambientale e al risparmio energetico. «Abbiamo deciso di installare un impianto fotovoltaico per la produzione di energia elettrica, e abbiamo quindi sostituito tutte le caldaie a gas con caldaie elettriche per il riscaldamento. Inoltre – conclude Cencini –, abbiamo installato anche un impianto solare termico per la produzione di acqua calda, che ci permette di ridurre al minimo le emissioni di anidride carbonica».

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L’OLIO DOP TERRE DI SIENA Franco Bardi

Dal cultivar Frantoio QUALI SONO LE PIANTE DA CUI NASCE UN OLIO PIACEVOLMENTE AMARO E UN PO’ PICCANTE? FRANCO BARDI SVELA I SEGRETI DELL’OLIO DOP TERRE DI SIENA

j di Nicoletta Bucciarelli i e vi trovate in un ristorante di Parigi e vedete al vostro tavolo una bottiglia d’olio dell’azienda agricola senese Carraia non stupitevi. È l’olio di Franco Bardi, un extravergine d’oliva certificato con il prestigioso marchio Dop. L’azienda agricola Carraia nasce proprio dalla passione dell’esperto Bardi. 2.800 piante d’olivo in grado di produrre 72 ettolitri di olio extravergine d’oliva di cui il 75% viene certificato come Dop Terre di Siena e il 25% circa come Igp Toscano. La Carraia sorge nelle colline della provincia di Siena, nel territorio che si affaccia sul parco naturale della Val D’Orcia. Il parco nel 2004 si è guadagnato il

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prestigioso riconoscimento Unesco quale patrimonio mondiale dell’umanità perché “Il paesaggio della Val d'Orcia è stato celebrato dai pittori della Scuola Senese, nelle cui riproduzioni si raffigura la gente in armonia con la natura”. L’armonia con la natura e il rapporto con il paesaggio rappresentano la base del lavoro dell’azienda agricola Carraia, un raro esempio in cui le tradizioni si intrecciano con la passione determinando l’identità di un olio unico. Nell’azienda di Franco Bardi il modo di produrre olio è rimasto quello tradizionale. «La raccolta meccanica è indubbiamente più veloce, ma i metodi a cui noi siamo legati sono sempre rimasti gli stessi nel corso del tempo. La

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L’OLIO DOP TERRE DI SIENA Franco Bardi

DOP “TERRE DI SIENA” · Varietà: Frantoio 40%, Moraiolo 40%, Leccino20% · Colore: Giallo dorato intenso con toni verdi limpidi · Profumo: Note di erbe aromatiche di campo e sentori di carciofo · Gusto: Ampio e complesso con toni vegetali di erba fresca · Acidità: Media 0,16%

Franco Bardi, Azienda Agricola Carraia di Trequanda (SI) oliobardi@hotmail.com

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varietà di piante d’olivo presenti nella nostra tenuta sono quelle tipiche della zona. Parliamo logicamente della specialità Frantoio, probabilmente la più famosa varietà d’olio preferita in modo particolare nell’Italia centrale. Del Moratolo, una varietà molto rustica e adatta soprattutto alle nostre zone collinari. Del Leccino, particolarmente tollerante alle avversità climatiche e ad alcune malattie che colpiscono gli ulivi. Senza dimenticare il Pendolino, una cultivar di olivo che, nonostante produca frutti piuttosto piccoli, ha una resa molto abbondante. In minor percentuale tra le nostre specie di piante abbiamo l’Olivastra, il Maremmano e diffe-

renti varietà d’impollinatori». Franco Bardi corrisponde in pieno al profilo evidenziato dall’Unesco, a quelle personalità legate al territorio e in armonia con la natura e la tradizione. Una tradizione salvaguardata dal Consorzio per la tutela dell’olio extravergine Terre di Siena, nato nel 1998 con lo scopo di ereditare e saper proteggere un patrimonio fondamentale. Le aziende associate sono 430, di cui 210 sono assoggettate a un sistema di controlli che rendono possibile la produzione di olio Dop. «Un sistema di controllo che garantisce l’autenticità del prodotto ma che testimonia anche il lavoro di qualità che sta dietro all’olio. Non a caso il nostro extra-

vergine viene apprezzato anche in mercati come l’America e il Giappone. Oltre alla vendita diretta al consumatore è possibile gustare l’olio nei ristoranti più rinomati della provincia». Per esaltare le caratteristiche del suo olio Franco Bardi predilige gli accostamenti classici, che non coprono il sapore di un succo nato da una spremitura in cui viene conservato tutto l’amore verso il prodotto. «Le caratteristiche organolettiche dell’olio Bardi si esaltano con abbinamenti semplici. Il massimo a mio parere è apprezzarlo con una buona bruschetta toscana o con un pinzimonio di verdure fresche di stagione».

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Biologicamente

italiano I FRATELLI VAGNONI PORTANO I SAPORI TIPICI DI SAN GIMIGNANO NEL MONDO. SEGUENDO, PERÒ, PRECISI PARAMETRI PRODUTTIVI E DISTRIBUTIVI

j di Paolo Lucchii


BIOLOGICO MADE IN ITALY Luigi Vagnoni

l biologico conquista i turisti provenienti da tutto il mondo. Della serie, quando per made In Italy si intende ciò che davvero nasce dalla terra della nostra bella penisola. In questo fenomeno le aziende agricole e i produttori di vino, quelli più raffinati almeno, hanno saputo cogliervi opportunità di crescita e di promozione del territorio come pochi altri. A testimoniarlo è anche la famiglia Vagnoni, tra i più apprezzati imprenditori agricoli della zona di San Gimignano, nel senese. La sua azienda produce e imbottiglia vino ormai da più di 60 anni ed è conosciuta soprattutto per la Vernaccia di San Gimignano, riserva “I Mocali”, una bottiglia che ha ottenuto diversi riconoscimenti. «Si tratta di un vino che fermenta sui propri lieviti e che riposa in barriques per undici mesi prima di essere messo in bottiglia. Qui dentro vi permane per altri sei mesi prima della sua commercializzazione». Tra le altre etichette prodotte, meritano una menzione anche il Chianti Colli Senesi, il Rosato Toscano, lo Spumante Metodo Classico e il San Gimignano Rosso Doc. Da molti anni ha ottenuto successo anche l’olio extravergine d’oliva. «L’olio è apprezzato soprattutto dai visitatori stranieri – spiega Luigi Vagnoni -. I turisti

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stanno riscoprendo il sapore di questo prodotto nella sua semplicità, versandolo semplicemente su una buona fetta di pane toscano». A crescere è anche la produzione di Vin Santo Doc di San Gimignano. In questo caso si comincia dalla raccolta tardiva delle uve, successivamente messe ad appassire in un apposito fruttaio, attaccate ciocca per ciocca a una parete verticale, dove vi restano per circa tre mesi. Le uve vengono poi spremute e il loro mosto è posto in piccoli caratelli di rovere, dove vi riposano per diversi anni. «Alla fine del lavoro soltanto il 30% del prodotto iniziale finirà realmente nelle bottiglie, una perdita massiccia in quantità, ma un guadagno in termini di gusto per il palato». Attraverso la sua omonima azienda agricola, Vagnoni porta avanti una politica che trova anche nella scelta dei punti vendita una presa di distanza dalle grandi distribuzioni. «Quello che ci distingue sta nel fatto che i nostri prodotti si possono trovare solo in piccoli negozi o ristoranti – spiega il proprietario -. Questo

fattore risulta estremamente importante per i consumatori, che non riescono a fare distinzioni tra i grandi scaffali della Gdo». Una scelta perpetuata anche sui mercati esteri. «Soprattutto in Germania, i nostri prodotti si possono trovare a Colonia, Friburgo, Berlino e Dusseldorf, ma solo nelle piccole distribuzioni, così come in Belgio, Olanda, Australia, America e Giappone». La Fratelli Vagnoni è anche un agriturismo. Immersa nel panorama delle colline senesi, affacciata sull’antico borgo di Pancole, permette ai visitatori di vivere da vicino l’esperienza dell’orto e della coltivazione biologica, potendo andare direttamente a raccogliere la frutta con le loro mani. «È importante far comprendere al turista il valore del prodotto biologico. Quella che cerchiamo di portare avanti è anche un’operazione culturale – conclude Vagnoni -. Occorre diffondere l’idea che un cibo naturale, trattato cioè con prodotti a base di zolfo e rame, come facevano i nostri nonni, fa realmente la differenza».

Nelle immagini, una veduta aerea e l’agriturismo della Società Agricola F.lli Vagnoni di S. Gimignano (Si) www.fratellivagnoni.com

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LA TRADIZIONE DELL’ACETO Marina Spaggiari

Il balsamico

di Modena COLORE BRUNO E LUCENTE. PROFUMO INTENSO E PENETRANTE. IL PERFETTO EQUILIBRIO FRA ACIDITÀ E DOLCEZZA. A DESCRIVERLO È MARINA SPAGGIARI

di Luca Cavera


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LA TRADIZIONE DELL’ACETO Marina Spaggiari

aceto balsamico tradizionale di Modena è un prodotto a Denominazione di origine protetta (Dop) dalla tradizione millenaria, la cui storia è un tutt’uno con quella del ducato Estense. «Ha un aspetto e un aroma intenso e penetrante, un profumo complesso e di evidente, ma armonica e piacevole, acidità, che lo rende inconfondibile» spiega Marina Spaggiari, di NeroModena di Vaciglio (Mo). «È un prodotto agrodolce dalla densità sciropposa. Il perfetto bilanciamento tra acidità e pastosa dolcezza è una delle sue caratteristiche più apprezzate. Inoltre, anche il colore, che deve essere bruno, simile alla liquirizia, ma brillante e lucente, concorre a qualificare un buon balsamico di Modena, soprattutto se ottenuto senza l’aggiunta di coloranti»

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Quali sono i piatti più indicati per apprezzare al meglio le caratteristiche di questo aceto balsamico? «Dà le sue prove migliori se usato sul Parmigiano Reggiano e per condire piatti di carne e di pesce, i bolliti. Si sposa gradevolmente anche con insalate di verdura e frutta fresca. Ogni abbinamento è particolarmente legato alla qualità di aceto balsamico di Modena che si intende utilizzare. Quelli più maturi e corposi sono indicati per tutte le preparazioni a “crudo” ed è sufficiente aggiungerli solamente a fine cottura, per dare un tocco speciale sia alle carni bianche e

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ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA · Invecchiamento in botte: Affinato, almeno 12 anni; Extravecchio, almeno 25 anni · Aspetto: impenetrabile rosso rubino dai riflessi granati · Profumo: intenso, penetrante, complesso, acidità armonica e piacevole · Sapore: agrodolce dalla densità sciropposa, dolcezza pastosa

rosse che al pesce cucinato al vapore. I prodotti più giovani, invece, sopportano bene il calore della cottura e quindi si consiglia di abbinarli al classico filetto o alla scaloppina. Un cucchiaino di buon tradizionale poi, invecchiato venticinque anni, è assolutamente da provare a fine pasto per favorire la digestione». Il vostro è un prodotto di alta qualità e di nicchia. «Noi siamo stati mossi prima di tutto da una grande passione, che ci ha portato a incrementare l’antica acetaia di famiglia, che oggi contiene oltre 2500 botticelle di vari legni e dimensioni, nelle quali versiamo a invecchiare mosti esclusivamente derivati dall’uva di vigneti di nostra proprietà. Il desiderio di proporre un prodotto qualitativamente alto, o

comunque medio-alto, a un prezzo accessibile, ci ha poi spronati». Quanto è importante il recipiente, la botte, dove viene conservato l’aceto? «Sicuramente la permanenza in botti di legno, meglio se di legni con fragranze diverse – come il castagno, il rovere, il gelso, il frassino, il ciliegio e il ginepro –, facilita la produzione di un aceto ricco di profumi e sapori, ottenuto così secondo un processo del tutto naturale. L’aceto balsamico Tradizionale di Modena DOP viene prelevato dalle botti al termine di un periodo di invecchiamento non inferiore ai dodici anni; questa è la qualità detta Affinato. Produciamo anche una qualità detta Extravecchio che richiede un invecchiamento di almeno venticinque anni».

In apertura, un interno della NeroModena Srl. Sopra una bottiglia di Aceto Balsamico tradizionale di Modena www.neromodena.it

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ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA Massimo Malpighi

La “griffe” del balsamico UN EXPLOIT DI NUOVI PRODOTTI RIMARCANO IL VALORE DI UNA TRADIZIONE TUTTA MODENESE, QUELLA DELL’ACETAIA MALPIGHI, PROPONENDO LA “HAUTE COUTURE” DEL BALSAMICO

di Adriana Zuccaro

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ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA Massimo Malpighi

all’antico elisir dalle tonalità scure, il Tradizionale Aceto Balsamico di Modena, al Balsamo di Arancia Malpighi, prodotto innovativo da abbinare a formaggi, pesce e insalate di frutta, fino alla raffinata e sorprendente esperienza gastronomica “racchiusa” nei cioccolatini ripieni di aceto balsamico tradizionale. Le prelibatezze create fin dal 1850 dalla famiglia Malpighi, mantenute ed evolute grazie all’intraprendenza e al fiuto “gourmand” del rappresentante della quinta generazione, Massimo Malpighi, raccontano e riscrivono la tradizione in ognuno dei prodotti dell’Acetaia Malpighi.

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Quale balsamico Malpighi esprime più degli altri la tradizione modenese? «I prodotti Malpighi sono tutti legati alla città estense perché provengono da una materia di eccellente qualità che è l’uva tipica modenese della tenuta di famiglia. Gli acini dei vigneti vengono sottoposti a pigiatura soffice e lenta e a una cottura a vaso aperto a fuoco diretto. Il risultato di queste prime fasi di lavorazione è il mosto cotto, base ed essenza di tutti i prodotti dalle caratteristiche organolettiche

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uniche dellAcetaia Malpighi». La prelibatezza dei prodotti Malpighi ha già fatto storia. A cosa punta oggi? «L’obiettivo è divenire la prima scelta per il target group dei nuovi gourmet, dei colti, dei buongustai, dei curiosi di tutto il mondo con l’aceto balsamico tradizionale Malpighi e con tutti i prodotti di ricerca. L’impegno verso nuovi traguardi d’innovazione è all’insegna di una crescente diffusione della cultura del balsamico, che sia ancora più fruibile e in sintonia con le esigenze del lifestyle contemporaneo». Attraverso quali strategie conta di riuscirci? «Puntando sull’assoluta qualità del prodotto tradizionale e sulla ricerca per prodotti innovativi. Distribuendo la gamma Malpighi in nuovi mercati legati al lusso. Miriamo a un uso creativo delle leve del marketing e della comunicazione. Proponiamo i nostri prodotti in canali e forme “non-food”, valorizzando la “haute couture” dell’aceto balsamico tradizionale, il suo extravecchio 100 anni cui è stato dedicato un packaging e una comunicazione speciali».

Massimo Malpighi è portavoce dell’Acetaia Malpighi di Modena www.acetaiamalpighi.it

BALSAMICI FRUTTATI Perfette arance di Sicilia, cotte e invecchiate in piccole botticelle di legno, danno origine al Balsamo di Arancia Malpighi, un ideale abbinamento con formaggi e carpacci di pesce spada, salmone, polipo e molluschi. Dal siero ottenuto invece dalla cottura delle mele Fuji, sistemato in botticelle di legno di melo e lasciato maturare per 5 anni, deriva il nuovo Balsamo di Mela Malpighi, ideale su ogni tipo di verdura, arrosti e cacciagione; dona una nota ricercata a formaggi, insalate e frutta fresca.

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DISTILLATI Bruno Franceschini

L’arte della distillazione LA DISTILLAZIONE SI PUÒ PARAGONARE A UN PROCESSO D’ALCHIMIA, PER VIA DELLA TRASFORMAZIONE DELL’UVA IN SPIRITO, PARTE NOBILE DELLE ACQUAVITI. LA PAROLA A BRUNO FRANCESCHINI

j di Luca Cavera i i dice grappa, e per legge anche acquavite di vinaccia o distillato di vinaccia, l’acquavite ottenuta dalla diretta distillazione delle vinacce, ossia dei residui dell’uva spremuta per la vinificazione. Poco lontano dal lago di Garda, a metà strada tra i comuni di Cavaion Veronese e Bardolino esiste un particolare contesto enologico, espressione di un’attività vitivinicola secolare che oggi esporta i suoi prodotti in molti paesi, non solo europei. La Distilleria Franceschini ha trovato nella conduzione familiare la sua grande forza, attraverso le capacità relazionali e gestionali del titolare Bruno con la moglie Lucia e il figlio Luigi. Per cercare di scoprire qualcuno

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dei segreti della creazione di questi distillati, lavorati con sapienza tradizionale ci siamo rivolti a Bruno Franceschini titolare della omonima distilleria. La produzione varia dalle acquaviti di frutta di intenso profumo e di sapore fruttato, alle pregiate acquaviti di vinaccia (Grappa) del Bardolino, Valpolicella, Cabernet e Moscato. Particolare attenzione è riservata alla produzione di distillati di Recioto Amarone, ottenuti dalle vinacce di uve passite ricavate dalla fermentazione dell’omonimo vino. Si ottengono così distillati di grande carattere e morbidezza. Qual è il procedimento che permette di ottenere la Grappa?

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DISTILLATI Bruno Franceschini

In apertura, Bruno Franceschini. In questa pagina, a sinistra, la famiglia Franceschini e, a destra, la grappa Recioto Amarone Stravecchia della distilleria www.distilleriafranceschini.it

«Una buona grappa è il risultato di un’accurata distillazione di vinacce fermentate, che abbiano subito una leggera pressatura, e distillate immediatamente dopo la svinatura con il tradizionale alambicco alimentato a vapore, oppure con il sistema a bagnomaria. È un procedimento che richiede paziente maestria, curando ogni fase della lavorazione per conservare al meglio le caratteristiche organolettiche del distillato». Quali sono gli strumenti che si usano e le fasi della distillazione? «Con il sistema tradizionale, il caricamento delle caldaie con la vinaccia si svolge per mezzo di una coclea, riempiendo i quattro cestelli contenuti nella caldaietta che permettono, a cotta esaurita, lo scarico della materia esausta. La distillazione delle vinacce si svolge in tempi alterni. I vapori alcolici sono convogliati in una colonna di distillazione la quale per ebollizione separa la parte alcolica più leggera dal resto. Un deflemmatore posto sopra la colonna condensa i vapori meno volatili e li fa rifluire. I vapori

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Fiore all’occhiello dell’azienda è la grappa di Recioto Amarone Stravecchia. Il processo d’invecchiamento avviene in piccoli fusti di barriques per svariati anni alcolici che sfuggono al deflemmatore sono definitivamente condensati per refrigerazione in una serpentina. È abilità del distillatore separare testa e coda dal cuore per ottenere un prodotto di qualità». In che modo viene regolata la gradazione alcolica? «Il grado alcolico cresce e decresce durante la distillazione. La durata di ciascuna cotta è proporzionale all’alcol contenuto nelle vinacce. Quelle di uve passite hanno un alto rendimento alcolico. Le acquaviti ottenute durante la distillazione sono ancora grezze e con

una gradazione alcolica che si aggira intorno ai 75 gradi. Prima dell’imbottigliamento la massa alcolica, che è composta d’acqua-alcol etilico e centinaia di molecole infinitesimali, ma di grande importanza per le caratteristiche organolettiche del distillato, quali esteri, aldeidi, olii, glicerine naturali ecc, viene diluita con acqua distillata e portata al grado voluto. Refrigerata ad una temperatura di meno 10 gradi centigradi è poi filtrata. Per l’imbottigliamento è indispensabile un’ulteriore filtrazione sterilizzante che assicura igiene da eventuali impurità».

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forme vestite ad arte UNA FORMA NATA DAL LATTE SI FONDE CON UNA CREAZIONE NATA DA MANO D’ARTISTA. COME DEGUSTARE ANCHE CON GLI OCCHI j di Belinda Pagano i

idea è originale: accostare due sensi apparentemente così opposti come possono sembrare vista e gusto. Il risultato si può osservare nella cacioteca di San Gimignano, nel cuore del territorio senese, dove diverse tipologie di formaggi mostrano etichette artistiche dai più svariati temi. E così il cacio del frate, prodotto con latte di pecora e con al suo interno pistacchi interi, erbe aromatiche e frammenti pepati di erbe seccate, viene abbinato ad una particolare natura morta di Edward Giobbi; il mucchino in crosta fiorito, formaggio di mucca in crosta bianchissima e morbida dovuta alla presenza di particolari efflorescenze aromatiche, accoglie una scena campestre dell’artista Sergio

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Agostino; il pecorino al latte crudo di San Galgano dal sapore salato, ideale con miele e pere, ospita l’immagine di una donna dallo sguardo seducente, dipinta da Fabio Calvetti. Ma come è nata questa idea del tutto unica nel suo genere? «Il pensiero – racconta Paolo Piacenti – ha preso forma durante una serata fra amici, tutti amanti del buon formaggio e dell’arte contemporanea. Approfondendo la mia passione per il formaggio stagionato secondo le tradizioni più antiche, ho chiesto a sette artisti contemporanei di poter utilizzare le loro opere per “vestire” i miei prodotti coniugando, in questi modo, due differenti forme d’arte: quella classica della pittura e l'arte di fare il formaggio».

E il formaggio, per Piacenti, è una vera e propria passione. «È una cosa viva, che cambia con il tempo, con la stagione e con l’ambiente che lo circonda: nasce, cresce, matura e si perfeziona stagionando». Ma cosa vuol dire oggi “degustare” un formaggio? «Significa assaporare con la conoscenza che deriva dalle tradizioni gastronomiche. È necessario quindi ricercare e riportare in vita antichi metodi di produzione e stagionatura per far apprezzare al meglio forme e sapori di questo prodotto così ricco di storia. Ed è per questo che l’arte antica di fare i formaggi non poteva che sposarsi con la forma d’arte per eccellenza: la pittura. È così che il cibo nutre il corpo, l’arte e l’anima».

Sopra, Paolo Piacenti e i prodotti “Forme d’arte” www.formedarte.com

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Allevate tra la natura RECUPERARE I SAPORI AUTENTICI A PARTIRE DALLA PASSIONE DELL’ALLEVAMENTO DELLA VACCA PODOLICA: L’ESPERIENZA DELLA MASSERIA COLOMBO di Simona Langone n una realtà globalizzata, dove tendono a scomparire i confini e le caratteristiche peculiari, fatta di condivisione generalizzata degli usi, costumi, mode, anche nei gusti e nei sapori, si fa strada il desiderio di recuperare le bontà perdute. In questa filosofia si colloca la breve ma intensa storia della nuova Masseria Colombo. «Completamente rinnovata rispetto alla struttura precedente – afferma il titolare, il dottor Bettino Siciliani -. Fu acquistata nel 1996 in uno stato di degrado e totale abbandono. Nel giro di quindici anni si può dire che è diventata un punto di riferimento per gli amanti della tradizione». Il centro, risalente ai primi dell’Ottocento, è stato ristrutturato nel rispetto dell’architettura dell’epoca e si è dotato di un agriturismo realizzato in antichi trulli, di una sala ristorante nelle antiche stalle e di un moderno caseificio, nonché di una stalla d’ingrasso all’avanguardia. «Il

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Sopra, Bettino Siciliani titolare della Masseria Colombo di Mottola (BA) In basso, la sala ristorante della Masseria Colombo www.masseriacolombo.it info@masseriacolombo.it

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massimo impegno è profuso nella rivalutazione dell’allevamento delle vacche dell’antica razza Podolica, utilizzando ovviamente i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia moderna sia nella mungitura e trasformazione del latte che nell’ingrasso dei vitelloni». La Podolica è una razza autoctona di bovini da carne e da latte, che vivono allo stato brado nelle zone collinose della Murgia tarantina, del Gargano, della Calabria e della Lucania. Sui circa 500 ettari della Masseria Colombo pascolano oltre 500 capi in selezione, tutti iscritti al Libro Genealogico Nazionale. I tori utilizzati nell’allevamento sono tutti di alta genealogia. «Le carni dei nostri vitelloni sono di eccezionale qualità: è difficile dimenticarne il sapore e la tenerezza dopo averle gustate. La quantità di latte prodotto dalle podoliche è estremamente bassa, ma le caratteristiche del latte

podolico sono davvero uniche. Il profumo del latte, infatti, è assolutamente esclusivo. La diversità del sapore dipende dai vari tipi di pascolo che si alternano durante l’anno. Questo fa sì che i prodotti ottenuti dalla trasformazione del latte podolico abbiano una variabilità di gusto legata all’andamento delle stagioni. Tutti i profumi e i sapori del bosco e della macchia mediterranea rivivono assaporando il caciocavallo podolico, le mozzarelle, le trecce e le ricotte prodotte presso la Masseria Colombo». Le carni e i formaggi podolici della Masseria Colombo si possono gustare anche presso il ristorante della stessa Masseria, oltre alle pietanze tradizionali della nostra Murgia, godendo attraverso le vetrate un panorama d’altri tempi: bestiame al pascolo, boschi, campi verdi fino ad arrivare, all’orizzonte, alla sagoma del monte Pollino che si staglia in lontananza.

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IL GUSTO DELL’ARTE

Sylvia Ferino

Le teste composte ARCIMBOLDO TORNA A MILANO. LA CURATRICE DELLA MOSTRA, SYLVIA FERINO, RIBADISCE L’INTENTO DI FAR COMPRENDERE IL RETROSCENA MILANESE CHE FORNIVA LE BASI DI UN’ARTE COSÌ ORIGINALE, TRA RITRATTI, NATURE MORTE, CARICATURE E ALLEGORIE MISTERIOSE di Renata Gualtieri

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Aprile 2011



IL GUSTO DELL’ARTE

Sylvia Ferino

a mostra “Arcimboldo Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio”, inaugurata lo scorso 10 febbraio al Palazzo Reale di Milano, ha già riscosso un grande interesse da parte di critici e pubblico come testimoniano i 90.000 visitatori che l’hanno visitata. I numeri della mostra, se si considerano la metratura dell’esposizione, 1.300 mq, e l’impegno economico, circa 2 milioni di euro, sottolineano lo sforzo organizzativo della rassegna voluta e realizzata dal Comune di Milano, prodotta da Palazzo Reale e Skira. Oltre 300 le opere che ripercorrono il percorso artistico dell’artista e fanno rivivere l’atmosfera culturale della Milano cinquecentesca. Tra i prestatori delle opere 42 sono italiani, 23 europei e 3 statunitensi. «Una mostra nel segno della tradizione – ha dichiarato il sindaco Letizia Moratti – che

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In apertura, Vertunno (Ritratto di Rodolfo II), 1590. A fianco, Sylvia Ferino, curatrice della mostra “Arcimboldo Artista milanese tra Leonardo e Caravaggio”. Nella pagina seguente, L’Acqua, 1566

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approfondisce la vita e le opere di un artista milanese che ha avuto grande successo alla corte degli Asburgo». Se si guarda alle scelte espositive, appare chiaro l’obiettivo della curatrice Sylvia Ferino, direttrice della Pinacoteca del Kunsthistorisches di Vienna, che ha voluto restituire al suo contesto d’origine l’opera di Arcimboldo, proprio per capire le ragioni della sua chiamata presso le corti dei principi stranieri. La frutta, la verdura che creano la figura umana. Quanta importanza hanno nelle opere i particolari? «La frutta, la verdura, le piante, i fiori, gli animali, gli uccelli e i pesci, tutti si basano su studi dal vero o al limite, su studi da illustrazioni di compendi scientifici. Rappresentano la parte reale mentre la loro composizione in forma di teste umane fa parte del lato fantastico della creazione artistica. Già lo scrittore Don Gregorio Comanini sottolineava nel suo dialogo Il Figino del 1591 questi due aspetti dell’arte di Arcimboldo: l’icastico e il fantastico, dando più valore alla fantasia. Oggi sappiamo quanto erano strumentali le illustrazioni esatte dei fenomeni della natura per le scienze naturali al tempo di Arcimboldo. I suoi

disegni, che servivano a lui per le teste composte, furono anche apprezzati da studiosi delle scienze naturali e alcuni finivano persino a illustrare specie distinte nei libri del famoso Ulisse Aldrovandi a Bologna sui quadrupedi e sugli uccelli». Come giudica il connubio tra arte figurativa e cibo? «Il cibo ha sempre ispirato la fantasia degli artisti. Vasari stesso racconta che nel contesto fiorentino artisti come Francesco Rustici, Andrea del Sarto ed altri creassero composizioni fantastiche da vari cibi per banchetti di compagnie diverse. Inoltre, basta pensare alle feste di carnevale, in cui pupazzi pieni di salsicce e altri cibi venivano decomposti per arrivare al contenuto. Oggi nelle navi da crociera i cuochi invitano i passeggeri nelle cucine della nave mostrando, fra le altre cose, teste composte di cocomeri e di parmigiano. Del resto possiamo giudicare Arcimboldo con i suoi piatti di verdura e i cesti di frutta come il grande predecessore di Caravaggio nel campo della “natura morta autonoma”, se non avesse aggiunto il gioco della testa ridicola visibile solo quando si rovescia il dipinto». In che modo il percorso

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IL GUSTO DELL’ARTE Sylvia Ferino

La mostra è dedicata alla produzione artistica milanese, dagli inizi nel campo della pittura e del disegno, agli oggetti di lusso

A sinistra, L’Estate, 1555-1560 circa

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espositivo svela il forte legame di Arcimboldo con la sua città? «La gran parte della mostra è dedicata alla produzione artistica milanese, dagli inizi leonardeschi, nel campo della pittura e del disegno, alla produzione milanese di oggetti di lusso, come armature, cristalli di rocca, gemme, sete, e molto altro. Gli artisti milanesi erano talmente stimati che non solo le loro opere furono acquistate dalle corti principesche di tutta Europa, ma loro stessi venivano invitati a lavorare a Madrid, Firenze, Monaco e Praga. Nel percorso espositivo è possibile vedere le prime opere di Arcimboldo a Milano e troviamo opere degli artisti dell’Accademia della Val di Blenio, fra i quali il famoso artista e teorico Lomazzo, al quale dobbiamo anche gran parte delle notizie su

Arcimboldo. Pitture ridicole, sempre ispirate dalle teste grottesche di Leonardo e altre opere, servono a spiegare il principio delle teste grottesche in Italia e la Milano prima di Arcimboldo. Un’altra sezione tratta le feste tenute in città, che potevano aver ispirato le creazioni di Arcimboldo come regista di ricevimenti e cortei. Insomma, abbiamo cercato di far comprendere il retroscena milanese che forniva le basi dell’arte così originale di Arcimboldo. Le sue più belle opere, ben diverse da quelle che faceva per Massimiliano a Vienna, erano le creazioni che Arcimboldo ha dipinto dopo il suo rientro da Praga, come la Flora o il Vertunno, per le quali i suoi amici letterati e poeti componevano sonetti e madrigali. Alcuni di questi sono persino firmati G.A. da Milano».

Quali aspetti ancora oggi poco noti dell’originale maestro del Cinquecento milanese vengono svelati in questa spettacolare mostra? «Forse la più importante scoperta è quella di Francesco Porzio. Anche se l’autore aveva sostenuto la teoria secondo cui Arcimboldo aveva sviluppato nei suoi saggi precedenti le sue teste composte già prima della partenza per Vienna, adesso identifica nella serie delle stagioni di Monaco che finora erano considerate opere di bottega eseguite a Vienna - gli originali di Arcimboldo prodotti ancora a Milano. Inoltre, si comprende sempre meglio il talento dell’artista come “designer” di tutto quello che serviva a corte, da slitte a camei, da vasi di cristallo a fontane e un nuovo disegno per una fontana del giardino del palazzo “Neugebäude” del suo mentore, l’imperatore Massimiliano II».

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foto di Luciano Romano

A TAVOLA TRA ARTE E SENSI DALLA MOSTRA "TUTTI A TAVOLA!" ALLE "NOZZE DI CANA" DI PETER GREENAWAY. IL LEGAME TRA ARTE E CIBO È RILETTO, TRA CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ, DA CHANGE PERFORMING ARTS. NE ILLUSTRA IL LAVORO FRANCO LAERA

di Francesca Druidi

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IL GUSTO DELL’ARTE Franco Laera

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Al di là dell’evento in sé, diventa quindi interessante capire i meccanismi con i quali si è restituita al visitatore l’esperienza tipicamente italiana dello stare insieme a tavola e dei sentimenti e dei valori che si muovono intorno a questo rito, ricorrendo a sequenze cinematografiche e dipinti, testi letterari e performance teatrali. In che modo gli allestimenti, in particolare quelli di Villa Reale, hanno ricostruito la convivialità nostrana? «La scelta di Villa Reale non è stata casuale: abbiamo immaginato l’intera mostra come lo sviluppo di un banchetto in una dimora patrizia di fine Settecento. Il nostro viaggio ha avuto inizio nello spazio semiinterrato dell’edificio, dove erano situate le antiche cucine e le dispense. Con l’ispirazione rivolta verso quattro straordinari dipinti di Vincenzo Campi alla Pinacoteca di Brera (La fruttivendola, La pescivendola, La pollivendola, La cucina), attori virtuali hanno dato vita a una galleria di personaggi in una cucina senza tempo, impiegando linguaggi contemporanei come il

video e l’installazione. L’excursus ha permesso di incentrarsi su alcuni momenti storici dell’italianità a tavola. La prima immagine sensoriale è stata affidata non solo a una ricostruzione visiva dell’artista Gianni Carluccio, ma anche a una degustazione legata al tema della convivialità nella cultura degli antichi romani. Abbiamo, infatti, preparato il mulsum, la bevanda diffusa nei banchetti, una

foto di Rita Antonioli

o spirito italiano dello stare a tavola è uno dei principali fattori distintivi della nostra cultura, dove le pietanze sono importanti ma ancora di più lo diventa il modo in cui il cibo viene presentato e consumato in forma collettiva. E proprio il tema della convivialità è stato al centro della mostra “Tutti a tavola!”, svoltasi dal 14 aprile al 9 maggio 2010 a Milano tra Villa Belgiojoso Bonaparte, sede della Galleria di Arte moderna, e la Pinacoteca di Brera. Un’esposizione multisensoriale e non convenzionale, realizzata da Fondazione Cosmit Eventi, in collaborazione con il Comune di Milano, e curata dalla compagnia di produzione Change Performing Arts, che ha fornito un innovativo esempio di esplorazione del legame tra il cibo e le arti. «La convivialità è stata trattata in modo ampio – spiega Franco Laera, presidente e direttore artistico di Change Performing Arts – la chiave del progetto è stata la creazione di contrappunti non soltanto tematici ma artistici, mettendo insieme rappresentazioni classiche e visioni contemporanee».

Franco Laera, presidente e direttore artistico di Change Performing Arts. In apertura, immagine dell’installazione “Nozze di Cana di Paolo Veronese, una visione di Peter Greenaway”

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combinazione di vino, miele e petali di rosa». Non è stato trascurato nemmeno l’olfatto. «La parte iniziale dell’esposizione è stata arricchita con la “sinfonia degli odori”: il pane appena sfornato, l’arrosto appena scoperchiato. Questa parte è stata realizzata in collaborazione con Silvia Verderio, specializzata nella produzione artificiale dei profumi, da lei utilizzati come elementi espressivi nelle arti performative. Sua è anche l’installazione “Fragranza del banchetto”, che suggerisce quei profumi che, procedendo lungo lo scalone

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d’onore della villa, un ipotetico invitato poteva avvertire: odori di lini appena inamidati e centrotavola fioriti. Del resto, anche l’addobbo costituisce un aspetto fondamentale della convivialità. Il finale della mostra era, invece, un trionfo di profumi di violette e cioccolato. Non solo, quindi, profumi collegati direttamente alle pietanze, ma anche usati in senso metaforico e creativo». Uno degli elementi più interessanti è l’utilizzo delle arti. Teatro, cinema, pittura e video, musica e design, letteratura e architettura, sono

foto di Laura Ferrari

foto di Laura Ferrari

IL GUSTO DELL’ARTE Franco Laera

chiamati a testimoniare le diverse forme del convivio. Può fare solo qualche esempio? «Ermanno Olmi in “Terra nostra casa” ha accostato i contadini del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, che nella prima versione si chiamava Ambasciatori della fame, con le sequenze di alcuni suoi film e documentari. Questo per evidenziare che non si può parlare di alimentazione senza soffermarsi sulla produzione del cibo e sui problemi dell’accesso e della distribuzione delle risorse alimentari. In “Delizia del latte”, si pone l’attenzione, attraverso il quadro Le due madri di Segantini, sul primo pasto, l’esperienza

Sopra, da sinistra, l’installazione curata da Francesco Casetti e quella di Ermanno Olmi nell’ambito della mostra “Tutti a tavola!” curata da Change Performing Arts

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Franco Laera

foto di Laura Ferrari

IL GUSTO DELL’ARTE

• Altra installazione della mostra “Tutti a tavola!” a Villa Reale curata dalla Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli

primordiale della convivialità: il rapporto madre-figlio e in particolare l’allattamento. Altri esempi sono forniti dalle immagini del “Satyricon” di Fellini, sommate alle riproduzioni delle pitture murali pompeiane. Il critico e studioso cinematografico Francesco Casetti ha poi curato due installazioni sul rapporto tra cibo e cinema, tra cui una lunga sequenza di scene di celebri film italiani in cui si vede gente a tavola. Sono stati, inoltre, rivisitati celebri dipinti conviviali con uno sguardo ancora una volta contemporaneo». Tra questi, c’è Le nozze di Cana di Paolo Veronese, secondo la reinterpretazione di Peter

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Greenaway: un adattamento dell’installazione veneziana del 2009 creata dal regista inglese. «Questo dipinto, una delle più grandi tele al mondo per dimensioni, porta il nome di un episodio biblico, ma nessuno può negare che in realtà Veronese abbia rappresentato il più sontuoso e opulento banchetto rinascimentale, dove spiccano la ricchezza degli abiti, delle suppellettili e delle imbandigioni. Nel quadro di Veronese compare, inoltre, per la prima volta la forchetta ad accompagnare il coltello. L’opera può, quindi, essere considerata come una fotografia ante-litteram di un momento particolarmente significativo della

cultura italiana. Se per gli americani il centro della casa è il frigorifero, per noi è la tavola. “Le nozze” colgono questo fondamento dell’identità italiana. Greenaway, impiegando le contemporanee tecnologie dell’immagine, ha messo in evidenza questo aspetto del dipinto: si tratta di un grande banchetto, con oltre centoventi invitati oltre a un certo numero di cani, gatti e pappagalli. La ricerca che Greenaway sta conducendo insieme a noi di Change Performing Arts è un progetto che mira a stabilire un dialogo fecondo tra arte classica e contemporanea con tutte le tecnologie del nostro tempo a disposizione».

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L’INSOLITA GUIDA Gerardo Greco

Locali Globali A NEW YORK CON L’INVIATO DEL TG1 GERARDO GRECO: DA COLAZIONE A CENA, SFATANDO MITI E SCOPRENDO SEGRETI

di Riccardo Casini na città cosmopolita, dove l’offerta è pressoché globale e tutto si può trovare ai massimi livelli di soddisfazione per il palato». Questa è New York secondo Gerardo Greco, inviato del primo telegiornale italiano nella Grande Mela, dove risiede da ormai dieci anni senza però – confessa – essere riuscito ancora a sfruttare appieno la vastità delle proposte gastronomiche. «Questa è la città degli Stati Uniti dove si mangia meglio, ma spesso risulta quasi difficile capire cosa mangiare: facile quindi cadere in una sorta di agorafobia gastronomica. In più mi ritengo pigro e, soprattutto, non essendo un turista, devo mangiare per

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vivere, non per divertirmi. Tutto questo influenza le mie scelte, che in effetti vanno in particolare in due direzioni: cucina italiana o americana». Cosa intende per quest’ultima? «Parlo dell’hamburger, la bandiera dell’alimentazione americana. Dal 2004 ha aperto la catena Shake shack, evoluzione naturale di Mc Donald’s, un loro fast food si trova proprio sotto casa mia, nell’Upper West Side, dietro al museo di Storia naturale. L’unico difetto è che, proprio per questo, in particolare a pranzo è sempre pieno di gente. In alternativa c’è Burger joint, uno dei cosiddetti best kept secrets della città, nascosto dietro un drappo nella

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L’INSOLITA GUIDA Gerardo Greco

• hall del Le Parker Meridien Hotel, sulla 56esima: ambiente soffuso, luci al neon e menù “basico”, propone uno dei migliori hamburger della città». Quali sono invece i luoghi migliori dove mangiare cibo italiano? «Ce ne sono di ottimi a Tribeca, dove lavoro: tra i tanti ristoranti sofisticati di questo ex quartiere industriale diventato di gran moda negli ultimi vent’anni, due restano abbastanza fuori dalle mappature tradizionali del turismo. Il primo è Il matto, su Church street, aperto un anno fa da uno chef toscano: la cucina propone piatti tradizionali italiani rivisitati in chiave moderna a prezzi relativamente contenuti. E la qualità è ottima, come ovvio attendersi da chi è venuto appositamente a New York con una grande disposizione d’animo. L’altro, Piccola cucina, si trova su Prince street, è gestito da un

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ragazzo siciliano e offre piatti di pesce a prezzi straordinari: ricordo gli involtini di pesce spada, quando li mangi ti sembra di essere in Sicilia. A proposito, non dimentichiamo Quinto quarto, su Bedford street: cucina romanesca doc, a momenti ti propongono la coda alla vaccinara». La nostra cucina sembra mancarle molto. «Dopo dieci anni mi trovo a cercare gli stessi sapori che vorrei sentire in Italia, è una specie di condanna. In genere all’estero è difficile venire accontentati in questo senso, ma per fortuna a New York si trova tutto. Anche le cose peggiori». Ad esempio? «La catena Carmine’s. Se cerchi un ristorante italiano ti mandano lì, ma poi vieni inondato da porzioni gigantesche, aglio e cipolla a go-go e spaghetti con enormi polpette al

L’inviato del Tg1, Gerardo Greco; sotto, il ristorante italiano “Piccola cucina”

posto del ragù: l’abbondanza come simbolo di ritrovata ricchezza dopo le carenze sofferte dai nostri emigranti, ma soprattutto un punto di passaggio tra la cucina italiana e quella americana». Come inizia invece la sua giornata tipo? Anche a colazione cerca sapori italiani? «La colazione americana è una bomba energetica e un posto divertente dove provarla è il Manhattan diner, a Broadway: un posto storico, aperto 24 ore su 24,

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L’INSOLITA GUIDA Gerardo Greco

anche alle 4 di mattina puoi • dove trovare uova con bacon o un pancake con sciroppo d’acero».

Da sinistra, in senso orario, Smith & Wollensky, il Plunge bar dell’hotel Gansevoort e Asiate

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Del pranzo abbiamo detto. Si arriva all’aperitivo. «Un’idea non ancora molto diffusa qua, soprattutto per una serie di tradizioni lavoristiche. Ma anche la filosofia alimentare americana, basata sull’abbondanza come simbolo di ricchezza, e il regime delle mance contrastano con un sistema nel quale vi è la possibilità di mangiare gratis pagando una sola bevuta. L’unica ipotesi, valida anche per il dopocena, riguarda uno dei primi rooftop bar di New York, dove bere e guardare dall’alto la città: è quello del Gansevoort hotel,

nel Meatpacking district, una zona oggi rivitalizzata dalla High line, un vecchio tratto sopraelevato della metropolitana trasformato in un lungo giardino pensile». Cosa offre infine la Grande Mela per cena? «Se si cerca la pizza, dico Kestè, ovvero “Questo è”: aperto in Bleecker street da un ingegnere napoletano e un pizzettaro di Latina, vi si può trovare la stessa pizza che si mangia a Portici, quella alta con la cornice per intenderci, con materie prime studiate e prezzi relativamente contenuti: insomma, la miglior risposta alla diatriba tra pizza italiana e americana. Per una serata

“a stelle e strisce”, invece, c’è Smith & Wollensky, in Midtown East, dove trovare un’ottima bisteccona». Ma in una città così cosmopolita non trova proprio un ristorante etnico interessante? «Ne cito addirittura due: Asiate, all’interno del Time Warner Centre, che propone una cucina fusion a metà tra francese e asiatica; l’altro è Jojo, nell’Upper East Side, uno dei locali di JeanGeorges Vongerichten, il primo a portare la tradizione francese a New York: nonostante si tratti del principale ristoratore americano di lusso, questo locale è piccolo e romantico».

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L’INSOLITA GUIDA Stefano Tura

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Shop DAI MERCATI AI RISTORANTI: UN VIAGGIO NELL’OFFERTA GASTRONOMICA DI LONDRA CON L’INVIATO DEL TG1 STEFANO TURA

di Riccardo Casini a Bologna a Londra: se a livello professionale questo percorso è indubbiamente stimolante, dal punto di vista gastronomico lasciare la “grassa” città emiliana per approdare sulle rive del Tamigi può rivelarsi uno shock.

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Ne sa qualcosa Stefano Tura, dal 2006 corrispondente del Tg1 nella capitale britannica. «Londra – spiega – è una città complessa sotto questo aspetto: pullula di diverse popolazioni ed etnie, e di conseguenza offre qualsiasi tipo di cucina. È un privilegio che mi ha portato, nella prima fase del mio soggiorno, a dedicarmi a sperimentarne varie: da quelle asiatiche che offrono fusioni di scuole diverse tra loro (giapponese, cinese, thailandese e coreana) a quelle mediorientali, in particolare libanese, israeliana e turca. Tra l’altro anche queste, pur avendo caratteristiche comuni, sono profondamente diverse sotto aspetti come la cottura e il modo di presentare i piatti».

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L’INSOLITA GUIDA Stefano Tura

Dall’alto, in senso orario: Caffè saporito, pasticceria assortita da Fortnum & Mason e lo Chalet bar. In apertura, un’immagine di Borough market

Ma che rapporto ha • maturato con la città in questi anni a livello gastronomico? «Volendo cercare di mantenere un’alimentazione quanto più possibile corretta e avendo la possibilità di mangiare spesso a casa, ovviamente la cucina tradizionale italiana la fa ancora da padrona. Fortunatamente qui non ho difficoltà a reperire prodotti italiani certificati, anche se a costi più elevati rispetto ai supermercati: in questo modo però posso ricreare alla perfezione i sapori di cui sento la mancanza». Dove trova questi prodotti? Frequenta spesso mercati come Borough market? «Borough market ormai ha

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superato i confini cittadini diventando anche un luogo di attrazione turistica, e per questo oggi i prezzi sono diventati poco accessibili e non è consigliabile per la spesa quotidiana: anche se solo qui in effetti è possibile trovare specialità nostrane come la mortadella. Personalmente preferisco un farmers market, dove i coltivatori vendono direttamente i loro prodotti: ce ne sono in vari punti di Londra, ma uno è proprio in Cramer street, zona Marylebone, vicino a casa mia. È aperto solo di domenica mattina, dalle 8 alle 14, ma quando posso accompagno volentieri mia moglie. Qui si trovano esclusivamente prodotti britannici di qualità, come la vera

salsiccia di Cumberland: non solo carne ovviamente, ma anche frutta, verdura, pane e prodotti di pasticceria». A proposito di mattina: abitualmente dove fa colazione? «Non mi piace quella all’inglese, non ho lo stomaco per affrontarla. Per questo, se non mangio a casa, scendo al Caffè saporito, in Melcombe street, un bar gestito da italiani che non fa parte di nessuna catena. Mi piace perché si trova pasticceria fresca e soprattutto caffè e cappuccino all’italiana: si sente quando la macchina viene pulita la sera precedente e accesa in anticipo la mattina per scaldarla».

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L’INSOLITA GUIDA Stefano Tura

Arriviamo al pranzo. «In genere non ho tempo per un vero e proprio lunch break. Cerco comunque di evitare i fast food, e se ne ho la possibilità compro un panino dove posso decidere io cosa metterci. Per questo il mio locale preferito è lo Chalet bar, in Grosvenor street, vicino al mio ufficio: una specie di salumeria, gestita da un italiano da almeno 50 anni. La prima volta che entrai mi riconobbe e mi disse che aveva conosciuto Sandro Paternostro. Ma la cosa più interessante è che offre salumi e formaggi nostrani, e non mette nei panini burro, senape, mostarda o porcherie simili. Non ha però posti a sedere: per questo, se il tempo lo consente, prendo il panino e lo

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mangio nel parco vicino». Cosa resta invece della tradizione del “tè alle cinque”? «La tradizione sopravvive, eccome. Ma non facciamoci ingannare dal fuso orario, l’afternoon tea a Londra si prende alle quattro. E soprattutto non prevede solo un tè, ma una sorta di seconda colazione o, peggio, di secondo pranzo: se si va da Fortnum & Mason, al 181 di Piccadilly, ti portano un vassoio a tre piani con delizie salate e dolci come quiches o pasticcini. Un altro luogo tradizionale è l’Hotel Ritz, sempre a Piccadilly: in entrambi è necessario prenotare, essendo molto “ambiti”. I prezzi purtroppo vanno di conseguenza, ma credo che se lo si vuole provare una

volta, sia giusto farlo qui». A quel punto, se uno sopravvive, cosa fa? «L’aperitivo non esiste, i pub si riempiono di gente a partire dalle 18 ma si beve e basta: per gli inglesi anche solo una patatina toglierebbe gusto all’alcol». Si passa alla cena, insomma. Le capita spesso di cercare ristoranti italiani? «Certo, anche se Londra in questo senso è una città rischiosa: tutto sembra italiano, ma ci sono catene che in realtà fanno tutt’altro. E per mangiare cibo italiano di qualità, è necessario spendere. Detto questo, consiglio L’anima, un ristorante nella City aperto dallo chef calabrese

Sopra, a sinistra Borough market; a destra, il Marylebone Farmers market. Nella pagina seguente, il ristorante Arbutus

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L’INSOLITA GUIDA Stefano Tura

Mazzei dove si possono • Francesco trovare, tra le altre cose, pasta con granchio fresco, spaghetti alla chitarra con erbe e aragosta o un filetto di carpaccio di vitello con tartufo nero e pecorino di Moliterno. Altrimenti c’è la Locanda Locatelli, a Mayfair, dello chef lombardo Giorgio Locatelli. Un’alternativa più economica è il ristorante Semplice, che offre anche una trattoria, nei pressi della stazione

Londra è una città complessa sotto l’aspetto gastronomico: pullula di diverse etnie, e quindi offre qualsiasi tipo di cucina Gusto • 294

metropolitana di Bond street».

custard tart in chiusura».

Alternative non italiane? «Gli amanti come me della cucina fusion asiatica godranno per l’apertura del secondo Hakkasan, in Bruton street: cucina cinese moderna con influenze thai e soprattutto un ambiente curato, di design, al cui interno è persino vietato fare foto. La prenotazione è obbligatoria e vincolata agli orari: se prenoti per le 20, alle 22 devi alzarti. Se si cerca invece una cucina inglese curata, non da pub, si può andare da Arbutus, a Soho: buona lista di vini, menù che cambia in base alle stagioni e basato su carni e pie. Da provare il risotto alle erbe della Cornovaglia, lo slow roast di coniglio con verdure e la classica

Dove chiudere degnamente una giornata simile? «Gli inglesi vanno nei pub, ma lì il vino è meglio non berlo: vale la pena piuttosto buttarsi sui whisky single malt scozzesi. Se si desidera invece un cocktail, si può provare il nuovo Aqua, al quinto piano di un palazzo con ingresso su Argyll street, che offre anche una discreta lista di vini. Per godere di una spettacolare vista di Londra invece consiglio il bar all’ultimo piano dell’Hotel Hilton, a Park Lane: c’è un dress code, non si può entrare in jeans ma la vista ti ripaga. Se però più che a bere si è interessati alla buona musica, allora non ho dubbi: il Jazz cafè, a Camden, dove ogni sera si esibisce un gruppo di alto livello».

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GIOVANI FORNELLI Enrico Bartolini

Creatività e avanguardia DALLA TRATTORIA DELLO ZIO AI GRANDI RISTORANTI EUROPEI. LA STORIA DI ENRICO BARTOLINI, “ENFANT PRODIGE” DELLA GASTRONOMIA ITALIANA

di Elisa Fiocchi

diciannove anni Enrico Bartolini lavorara già al fianco di Mark Page nel Royal Commonweath Club di Londra, fresco del diploma alberghiero conseguito a Montecatini Terme. Un talento precoce che sboccia a sedici anni, quando diventa assaggiatore di vino e si cimenta nelle sue prime acrobazie in cucina presso la trattoria dello zio. Nato a Pescia nel 1979, questo giovane chef vanta nel suo curriculum tanti grandi maestri come Carlo Petrini che lo accoglie a Parigi, Pierangelo Barontini a Pistoia, Piero De Vitis a Berlino. Dopo soli quattro anni dal suo sbarco londinese, Enrico apre nel 2005 un ristorante a Montescano assieme all’hair stylist Aldo Coppola che sarà premiato, due anni dopo, come “Ristorante

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dell’anno” e inserito nella Guida ai ristoranti d’autore del 2007. Seguirà una carrellata di riconoscimenti per Bartolini, tra cui quello come miglior giovane emergente, miglior giovane dell’anno, fino alla consacrazione a miglior under trenta d’Italia nel 2009. Da giugno dello scorso anno gestisce il ristorante Devero, a Cavenago Brianza, dove in ogni stagione si serve il risotto al gelato di rape rosse e salsa di gorgonzola, «un piatto non particolarmente tecnico ma in assoluto il più goloso di tutti», garantisce lo chef. Come si dosano avanguardia e tradizione nei suoi piatti? «Partendo da un aspetto comune, gli ingredienti: utilizziamo quelli che riteniamo buoni e che seguono le idee del momento e le

Enrico Bartolini, chef del ristorante Devero di Cavenago Brianza

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GIOVANI FORNELLI Enrico Bartolini

Creatività e tecnica sono indispensabili quando servono per migliorare gli ingredienti, non quando diventano mere esibizioni gli ingredienti, non quando diventano mere esibizioni. Abbiamo la possibilità di capire la reazione delle proteine e delle vitamine a tutte le temperature, sappiamo come fare per preservare il colore e mantenerlo vivace. Il valore aggiunto è quindi applicare la conoscenza ma lasciare il piatto pulito e ordinato».

• stagioni, oppure a volte siamo spinti dal desiderio di ottenere dei risultati. Nel mio ristorante ci sono anche piatti che non seguono la stagionalità, quelli cosiddetti tradizionali, che fanno parte del territorio e che restano invariati nella ricetta, tranne qualche modifica occasionale. Ad esempio tutto l’anno propongo la battuta di manzo piemontese che in qualche periodo cambia aspetto con le erbe aromatiche e una speziatura più primaverile e si modifica anche con l’arrivo dell’estate e dell’inverno».

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Come cambiano i gusti dei clienti? «I gourmet amano fare molte esperienze gastronomiche e può capitare che lo stesso gourmet ce lo passiamo un po’ tutti. Eppure chi esce e va regolarmente al ristorante si affeziona a uno piuttosto che a un altro, così da escludere un solo pensiero e aprire il campo alla personalità di ognuno». Le piace sperimentare in cucina? «Creatività e avanguardia tecnica sono indispensabili per migliorare

Dove la incontreremo nel 2011? «Parteciperò alla manifestazione “Squisito” e nel corso dell’anno sarò impegnato in eventi di importanti aziende. Mentre in aprile organizzerò una cena a casa del premier Berlusconi». Si avvicina la Pasqua. Che piatto propone per celebrare la festività? «L’uovo bazzotto: si prende un uovo intero e lo si mette in acqua quando bolle, lo si leva dopo cinque minuti esatti e lo si sbuccia caldo. Il risultato? Cotto l’albume, crudo il tuorlo. Da accompagnare con degli asparagi appena sbianchiti e un brodo di nocciole piemontesi. Per finire, punte di dragoncello condite con olio sale e aceto balsamico tradizionale».

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GIOVANI FORNELLI Luigi Taglienti

SAPORI E odori DELl’orto di casa DALL’ORTO DEL NONNO ALLA «TECNICA CHE MIGLIORA IL PRODOTTO». LA STORIA DI LUIGI TAGLIENTI, DALL’ADOLESCENZA AI FORNELLI, AL PREMIO COME MIGLIOR GIOVANE CHEF

di Elisa Fiocchi offio di Liguria” è il piatto concepito nel 2009 in onore della sua terra d’origine - a base di patate di montagna e merluzzo fresco coperto da un pesto etereo soffiato a sifone - e dedicato all’evento gastronomico di Pamplona, dove ha conquistato la palma di chef italiano più giovane. Oggi Luigi Taglienti, classe 1979, è executive chef presso il ristorante Delle Antiche Contrade a Cuneo, dove cura anche tutta l’area ristorativa dell’Hotel Palazzo Lovera. La sua passione per la cucina nasce da bambino, racconta. «Dai prodotti dell’orto di mio nonno di cui oggi conservo i profumi e i colori e che vado a ricercare nei mercati, indirizzandomi ad esempio sugli asparagi viola, le polpe di bietola e i prodotti freschi di terra e di mare». Tutto

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il resto lo assimila dalla tradizione familiare della bisnonna, cuoca nei casali fiorentini, della nonna, cuoca di casa che accoglieva a tavola sette persone alla volta, e infine della mamma, da cui ha ereditato la buona mano ai fornelli. A soli 16 anni, Taglienti comincia la gavetta, facendo pratica in ogni reparto della cucina ed elaborando quella filosofia di vita culinaria che racchiude tanta parte del suo attuale successo: «Si diventa cuochi lavando anche le padelle». Dopo un’esperienza a Cannes, il suo cammino incrocia quello di grandi maestri in Italia: dall’Antica Osteria del Ponte di Ezio a Renata Santin alle porte di Milano dove inizia a coltivare il curioso interesse per il passato gastronomico. Nel 2007 avviene l’incontro della definitiva affermazione con il patron Giorgio Chiesa: «Mi ha

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GIOVANI FORNELLI Luigi Taglienti

permesso di poter sviluppare la mia idea di cucina trovando la giusta armonia tra l’ambiente che mi circonda, i miei collaboratori e il pubblico che frequenta il Delle Antiche Contrade di Cuneo». Nel 2008 conquista la stella Michelin, nel 2009 vince il premio “Giovane chef dell’anno” conferito dalla guida de L’Espresso. Due anni di successi lo consacrano interprete del territorio a metà strada tra avanguardia e tradizione nonché ricercatore attento di grandi

materie prime dal nord al sud dell’Italia. «Oggi sento che è cambiata la prospettiva, ricevere riconoscimenti importanti non può che fare onore e alimentare la ricerca e il desiderio di percorrere una strada giusta in termini di qualità, mantenendo sempre i piedi per terra». Cosa l’attende nel 2011? «In maggio pateciperò alla rassegna enogastronomica “Squisito” in programma a Coriano di Rimini, una frazione

di San Patrignano. Il tema di tutte le iniziative e delle proposte enogastronomiche è “Semplicemente qualità”. Nel futuro ho in programma due mesi di corsi di cucina classica e d’avanguardia». Come si articola la giornata tipo di uno chef e in quali aspetti è riconoscibile la sua firma nei piatti che propone? «Chiunque ami il proprio mestiere ci si dedica a fondo. Quando non ho impegni

Luigi Taglienti, executive chef presso il ristorante Delle Antiche Contrade di Cuneo


GIOVANI FORNELLI Luigi Taglienti

CARPACCIO DI ROGNONE COZZE E SENAPE Ingredienti per 4 persone: Per il rognone: · 1 Rognone di Fassona piemontese, privato dal nervo interno e cotto sottovuoto a 65° per 35 min condito con olio, sale, pepe, alloro e fava di tonka Per le cozze: · 30 cozze bouchon appena scottate con olio, vino bianco, gambi di prezzemolo e limone Per il gratin alla senape: · 500 g di salsa besciamella

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aromatizzata con 150 g di senape di dijon, stesa allo spessore di 2 mm, abbatuta a -30° e tagliata con un coppa pasta al diametro di 7 cm Finitura e presentazione: sistemare il carpaccio di rognone al centro del piatto, adagiarvi sopra le cozze ben calde, la cialda di senape che verra fatta gratinare sotto al calore della salamandra. Nappare il tutto con buon succo di vitello e crema di nocciole tostate.

importanti parto sempre dal mercato al mattino presto, alla ricerca della qualità e della freschezza, per poi sviluppare nuove idee in cucina. Un’ora di pausa nel pomeriggio e poi si riparte con il servizio della sera al ristorante. In linea generale, il primo passo consiste sempre nella ricerca di materie prime, poi ci si dedica al colloquio con i fornitori e infine allo sviluppo di idee per il futuro. Il lavoro fatto “dietro le quinte” ha l’obiettivo finale di portare sulla tavola freschezza e qualità anche grazie al contatto quotidiano

con il mondo del mercato. In cucina serve avere metodo e conoscenza per migliorare il prodotto ma nella mia filosofia di pensiero la tecnica non deve mai comparire sul piatto che deve mostarsi chiaro e leggibile, presentato con semplicità e pulizia». Quali sono le portate più richieste nel suo ristorante? «In questo periodo piacciono molto i ravioli ai filoni di vitella presentati con crema di limone, cervo ligure, capperi e cacao. Utilizzo molto le frattaglie, una

delle mie passioni consiste proprio nel lavorare sul quinto quarto». E qual è la sua portata preferita? «Il risotto alla parmigiana». Nella sua cucina cosa si sperimenta? «Attualmente sto lavorando sull’olio di rombo per proporlo nei piatti di pasta in modo tale che abbia una grossa intensità di condimento. Il risultato lascia una buona percezione sul palato e grande profondità nel gusto».

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GIOVANI FORNELLI Ilario Vinciguerra

GAMBERI, FIORI E GIN TONIC «IN FRANCIA HO IMPARATO IL RIGORE E IL METODO, IN ITALIA L’AMORE PER IL PRODOTTO». ECCO LA CUCINA MEDITERRANEA, CREATIVA E SENZA CONFINI DELLO CHEF ILARIO VINCIGUERRA

di Elisa Fiocchi

olio d’oliva è l’ingrediente a cui non sa rinunciare in cucina ed è anche uno dei segreti del suo successo a livello internazionale. Nel 2007, lo chef napoletano Ilario Vinciguerra vince il premio per il miglior piatto all’olio d’oliva al “Mejor de la Gastronomia di San Sebastian”, sbaragliando la concorrenza dei francesi e degli spagnoli. È solo un altro riconoscimento che va ad aggiungersi a una carriera costruita da giovanissimo e che incorona una cucina priva di burro e panna e contraddistinta dal colore e dal profumo dei fiori. «Tutti i miei piatti si rifanno alla tradizione mediterranea con un’esperienza creativa che la rende senza confini» racconta Vinciguerra, chef noto al grande pubblico per la sua

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partecipazione alla rubrica enogastronomica "Gusto" in onda su Canale 5. «Uso molto l’olio extravergine d’oliva tipico del Mediterraneo, ma sono aperto a tantissimi prodotti, ad esempio se trovo un ingrediente interessante proveniente dall’Asia non esito ad acquistarlo». Qual è il piatto più estroso che ha concepito? «Una tartare di gamberi rossi di Sicilia in una sfera di plexiglass, olio e fiori e due gelatine, una al nero di seppia e una ai limoni di Sorrento, con una base di gin tonic». La presentazione di una portata in tavola quanto influenza il risultato finale? «La mia cucina ha un aspetto

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GIOVANI FORNELLI Ilario Vinciguerra

PROFUMO Ingredienti · 4 sfere trasparenti dotati di una base · 4 cannucce · 12 gamberi rossi di Mazara del Vallo · 2 sacche di nero di seppia · 4 limoni di Sorrento · 4 fiori commestibili · 1 lime · 50 gr di zucchero · 200 gr di ghiaccio tritato · 20 gr di agar-agar · 500 cl di olio di oliva extra vergine · 200 cl di Gin Hendricks · 2 toniche · sale aromatizzato · sale hawaiano Preparazione: Spremere il succo dei limoni, aggiungere un cucchiaino di zucchero e un altro di agar-agar, portare a ebollizione e lasciar

molto essenziale e anche le mie creazioni volgono in quella direzione. Quando concepisco un piatto tengo sempre conto di tre aspetti: quello visivo, anche se l’estetica non deve mai essere la protagonista, quello olfattivo e quello gustativo. L’armonia e l’equilibro di questi tre fattori rende un piatto speciale, non solo bello da vedere, ma ricco di profumo e gusto». Chi le ha insegnato i trucchi del mestiere? «L’esperienza più formante all’estero è avvenuta in Francia, dove ho imparato il rigore e l’organizzazione dal mio maestro Christophe Cussac. In Italia, invece, la mia grande scuola è stata il ristorante Don Alfonso 1890 di Sant’Agata sui due golfi

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raffreddare in frigorifero in un contenitore. Ripetere lo stesso procedimento, senza però aggiungere lo zucchero, con il nero di seppia. Pulire i gamberoni e batterli per fare una tartare. Mescolare il ghiaccio tritato, l’acqua tonica e il Gin, spolverare con la buccia grattugiata del lime, girare bene e versare il Gin Tonic nelle sfere. Disporre al centro di ciascuna sfera la tartara di gamberi e salare con i due Sali, i dadi di gelatina fatti con il limone e con il nero di seppia, aggiungere abbondante olio di oliva e fiori commestibili. Chiudere la sfera e metterla sulla base. Servire in un piatto piano con una cannuccia al lato. Spiegare al commensale che deve aprire la sfera, annusare gli aromi che si sprigionano, chiuderla nuovamente e agitarla per amalgamare gli ingredienti. Alla fine, bere il Gin Tonic con la cannuccia.

a Napoli, dove ho imparato l’amore per il prodotto». Nel suo ristorante esiste un piatto intramontabile? «Quello che non segue le stagioni ed è sempre molto richiesto è la terrina di foie gras di anatra, un piatto a cui sono particolarmente legato perchè mi ricorda l’esperienza francese». A quali specialità culinarie sta lavorando e qual è il piatto più richiesto dai suoi clienti? «Tra le portate più richieste c’è un piatto concepito con il pesto di limoni canditi, uno strato di cime di rapa, a cui viene aggiunta una pasta di fagioli e cozze con polvere di pane al nero di seppia. È un’esperienza di gusto molto interessante

perchè si passa da un primo assaggio con la pasta e si termina con una sensazione di freschezza sul palato. In questo momento sto sperimentando, con la collaborazione di Gerardo Di Nola, il sugo di formaggio abbinato alla pasta. E per il 2011 propongo un risotto aglio, olio e peperoncini».

In apertura, Ilario Vinciguerra, chef di Ilario Vinciguerra Restaurant

Ilario Vinciguerra Restaurant si è da poco trasferito a Gallarate centro. «Si trova all’interno di una villa d’epoca in stile liberty dove è possibile gestire, in un’area separata, eventi e meeting. Un concetto molto differente dal primo ristorante che mostrava tutt’altre caratteristiche, certamente più simili all’idea del laboratorio».

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I LUOGHI DEL GUSTO Roberto Stevanato

L’università incontra il territorio UN MASTER PER RISCOPRIRE IL CIBO COME ALIMENTO, ESPRESSIONE DELLA TRADIZIONE E VEICOLO DI SOCIALITÀ. NE PARLA IL DIRETTORE ROBERTO STEVANATO

di Francesco Bevilacqua

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I LUOGHI DEL GUSTO Roberto Stevanato

uomo è ciò che mangia”, diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. La verità che risiede in queste parole è indiscutibile. Assuefatti al gesto meccanico dell’alimentarci, abbiamo oggi dimenticato tutto quello che c’è dietro al cibo che consumiamo: storie, tradizioni, identità, esperienze, saperi, culture. Proprio il recupero di questi valori è l’obiettivo che si pone il master in Cultura del cibo e del vino dell’Università Cà Foscari di Venezia, diretto dal professor Roberto Stevanato (nella foto). Sette moduli che affrontano in maniera teorica ed empirica, attraverso visite presso i luoghi di produzione, tutte le tematiche connesse al cibo, dalla storia dell’alimentazione alle tecniche di marketing, dal legame fra piatti e tradizioni locali all’importanza del pasto come momento di socialità e condivisione. «Nella prima parte del corso – spiega Stevanato – forniamo ai ragazzi le basi attraverso una serie di lezioni in aula. Dopodiché cominciamo a far vivere loro sulla pelle ciò che vogliamo insegnare, portandoli

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presso i produttori, i coltivatori, i ristoratori che collaborano con noi». Queste visite consentono agli studenti di toccare con mano quel rapporto speciale e unico che vincola la tradizione gastronomica di un luogo alle sue terre, alla sua gente, alla sua storia. Come si riesce a percepire l’essenza di un territorio partendo dal cibo? «Non pensiamo solo alla tradizione alimentare di un luogo, ma prendiamo in considerazione anche la sua storia e soprattutto la sua geografia. La conformazione di un terreno, di un’area agricola, di un fiume o di una collina è il risultato di un processo secolare di interazione fra l’uomo e la natura, che fornisce agli abitanti le condizioni grazie alle quali essi sviluppano le loro tradizioni. Il Prosecco tipico delle nostre terre è eccellente perché la zona di Valdobbiadene è dotata delle caratteristiche ottimali per la sua produzione, così come al suo interno la collina del Cartizze rappresenta una pregevolezza ancor più ristretta. Anche il modo di preparare il cibo varia a seconda di dove ci si sposta: è

impressionante notare come un piatto pur semplice come può essere una pasta al pomodoro abbia sfumature diverse da paese a paese, dovute a particolari miscelazioni, tecniche di cottura caratteristiche, ma anche a ingredienti un po’ speciali come la storia, l’ambiente e la tradizione di un luogo». Possiamo parlare quindi di un tentativo di ritrovare quella cultura del cibo che la “globalizzazione gastronomica”

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I LUOGHI DEL GUSTO Roberto Stevanato

Sopra, una lezione del Master durante l’edizione 2010 di Vinitaly

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ci ha sottratto? «Se dal punto di vista sociale è giusto che tutti i popoli della terra possano avere accesso a qualsiasi tipo di alimento, da quello culturale è necessario tutelare e valorizzare le tradizioni gastronomiche e questo si può fare solamente vivendo i luoghi di produzione, entrando in sintonia con essi. Ogni cibo è legato al proprio territorio ed è giusto che chi voglia assaporarlo, col palato così come con lo spirito, si rechi laddove esso viene prodotto e lavorato. Proprio questa pratica fortunatamente si sta ampiamente diffondendo: il turismo enogastronomico rappresenta oramai quasi un terzo del settore turistico e costituisce una ricchezza unica per il nostro paese, che si basa sui tre capisaldi

unici e inimitabili, le tre “a” di alimentazione, arte e ambiente». Il cibo rappresenta anche un mezzo per entrare in contatto con il nostro prossimo. «Una volta, nelle famiglie tradizionali che oggi si stanno ormai perdendo, quello del pasto era un momento sacro. La donne preparavano, ogni componente abbandonava la propria attività e portava in tavola i propri problemi, sempre pronto ad ascoltare quelli degli altri commensali. Anche nella storia il cibo ha sempre avuto un’importanza capitale: sono innumerevoli gli eventi che si sono svolti attorno a un tavolo e ancora oggi la cena è il contesto in cui i grandi del mondo si

trovano a discutere e negoziare. Questo perché ciò che viene servito nel piatto avvicina tutti coloro che partecipano al banchetto condividendo un bene comune, mettendosi sullo stesso piano, ammorbidendo le posizioni e svestendosi delle rigide etichette formali. Lo stesso valore avevano piccoli momenti come quello del caffè al bar o della grappa dopo cena, quando il consumo di poche gocce di una bevanda diventava la scusa per stare insieme, condividere esperienze, opinioni, gioie, problemi. Purtroppo si tratta di tradizioni quasi scomparse, anche se in Italia il valore sociale e culturale del cibo si sta recuperando e le prospettive future, almeno in questo senso, paiono incoraggianti».

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Il gusto del museo non museo MUSEO DEL GUSTO DI FROSSASCO. UNA REALTÀ UNICA ALL’INTERNO DEL PANORAMA ITALIANO, UN PERCORSO PER SCOPRIRE IL SENSO DEL GUSTO IN TUTTE LE SUE SFACCETTATURE

di Belinda Pagano

ra le colline torinesi si affaccia un museo in cui i sapori incontrano la vista. Un’idea suggerita dal luogo stesso, territorio di eccellenze enogastronomiche dove i piccoli artigiani e i grandi produttori si fondono per dar vita a una realtà locale dalle peculiarità uniche. «Il Museo del Gusto di Frossasco è una

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struttura nata dalla passione di un popolo», spiega il direttore Ezio Giaj. «La particolarità di questa struttura sta nel fatto che non si tratta di un museo nel senso tradizionale del termine, ma di una realtà dinamica che punta sulle emozioni e sugli stimoli. Un’immersione nel cibo, nel gusto e nei vari aspetti del nutrirsi che ha come scopo

non solo quello di fornire informazioni, dalla storia dell’alimentazione a quella dei cibi, dalle specificità culinarie all’educazione alimentare, ma di dare anche la possibilità al visitatore di fare un percorso di conoscenza e di messa in opera di quello che ha visto. È anche per questo che è sorta l’idea dell’abbinamento con la Scuola Internazionale di

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Cucina». Una veduta panoramica, dunque, sulla tradizione gastronomica sia italiana che mondiale. «Ovviamente lo spunto è nato dalla nostra realtà locale, il Piemonte infatti ha avuto nello slow food un momento straordinario che ha portato alla valorizzazione dei prodotti nostrani. Il Museo del Gusto è dunque partito da un interesse locale per poi spaziare verso le principali culture mondiali sull’alimentazione: dal sushi alla pizza, dalle grigliate argentine ai formaggi tipici altoatesini». Se tuttavia si passa a un’analisi più incentrata sulla storia del cibo, si potrà notare come si sta pian piano perdendo, nella società contemporanea, la

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genuina tradizione alimentare. Basta osservare i giovani che non sono in grado di cucinare o che frequentemente si recano nei fast food. «È da queste considerazioni che è nata l’idea di proporre veri e propri laboratori didattici indirizzati alle scuole di ogni ordine e grado. Il museo ha un ricco programma educativo su base scientifica: otto laboratori per ogni ciclo scolastico che comprendono ogni aspetto del cibo, dalla degustazione alle ricette, dalle intolleranze alimentari alla coltivazione, a seconda del livello di età e di istruzione. Si parte, infatti, dal piccolissimo primo laboratorio dove si gioca con il cioccolato fino ad arrivare alle degustazioni vere e proprie per

gli adulti, sempre col supporto di esperti nutrizionisti, dietologi e chef. Il messaggio che si vuole trasmettere è proprio quello di apprezzare il gusto semplice e genuino dei frutti appena raccolti, dei piatti tipici delle antiche generazioni». E se si vuole imparare a degustare, niente di meglio che un percorso sensoriale da seguire all’interno del museo stesso, dove a essere stimolato non è solo il senso del gusto, ma anche la vista, l’udito e il tatto, con lo scopo di “educare” ancor più il visitatore ad apprezzare il cibo. «Per prima cosa l’essere umano mangia con gli occhi e poi passa alla degustazione vera e propria – continua il direttore

In queste pagine, spazi interni del Museo del Gusto di Frossasco

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I LUOGI DEL GUSTO Ezio Giaj

è importante imparare fin • –daedpiccoli questi valori che

Un museo non-museo, realtà dinamica che punta sulle emozioni e sugli stimoli, nel gusto e nei vari aspetti del nutrirsi Aprile 2011

dovrebbero essere tramandati di generazione in generazione. È proprio per questo che all’interno del museo cerchiamo di far capire, attraverso un percorso articolato, il valore del cibo nella storia, dalla caccia primitiva alla cucina nell’antica Roma, dal cibo consumato dagli astronauti alla nouvelle cousine con le sue rivisitazioni». Una panoramica dunque su tutto quello che concerne la

buona tavola. Ma per il futuro, cosa si prospetta? «L’obiettivo è quello – conclude Giaij – di realizzare diversi Musei del Gusto ubicati in ogni regione d’Italia per valorizzare i prodotti che offre il nostro Paese, e ogni regione in particolare. Due settimane fa, ad esempio, abbiamo finalmente concretizzato il secondo museo nazionale italiano a Cosenza». Un’espansione della conoscenza del gusto per arrivare a regalare la vera emozione del mangiare bene.

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I LUOGHI DEL GUSTO Damiana Tervilli

i tecnici

del vino I CAMBIAMENTI DELLA FIGURA DELL’ENOTECNICO VISTI ATTRAVERSO L’ESPERIENZA DI DAMIANA TERVILLI, DIRIGENTE SCOLASTICO DELL’ISTITUTO CERLETTI, PRIMA SCUOLA ENOLOGICA ITALIANA

di Nicoletta Bucciarelli ono i primi anni del Novecento quando la necessità di figure qualificate inizia a diventare di primaria importanza per il settore vitivinicolo. Sbarcano, infatti, dall’America tre parassiti, oidio, filossera e peronospora, che rischiano di cancellare dall’Europa la vite e far scomparire così la secolare tradizione vinicola. Da allora scuole differenti hanno risposto al bisogno di formazione del settore. Una di queste è la storica Scuola enologica di Conegliano “G.B. Cerletti”, che alla fine del 1800 aveva già anticipato i tempi. Risale infatti al 1876 il regio decreto di

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Vittorio Emanuele II che ne sancisce la nascita. «Da qui sono usciti grandi tecnici che hanno portato la viticoltura in giro per il mondo – ricorda Damiana Tervilli – . Romeo Bragato, enologo di Conegliano, che alla fine del 1800 portò il culto del vino fino in Nuova Zelanda, oggi affermata patria della viticoltura. O un personaggio come Carlo Luigi Spegazzini, enologo poi specializzatosi nello studio dei funghi che ha condotto i suoi saperi botanici fino in Argentina». Oggi quella scuola è un affermato Istituto tecnico-agrario con ordinamento speciale per la viticultura e l’enologia. Dal 1999 vi è stato accorpato l’istituto professionale

Damiana Tervilli, dirigente scolastico dell’Istituto “G.B. Cerletti” di Conegliano

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I LUOGHI DEL GUSTO Damiana Tervilli

per l’agricoltura “Corazzin” per la formazione di operatori agroambientali, agroindustriali e agrotecnici. Damiana Tervilli, dirigente scolastica dell’Istituto, parla delle caratteristiche della realtà di Conegliano. Quali sono state le sperimentazioni enologiche dell’Istituto? «La scuola gestisce un’azienda di 13 ettari a vigneto. Proprio quest’anno abbiamo sfruttato il Boschera, che è un vitigno autoctono, per produrre un passito. Un’altra sperimentazione è frutto del famoso incrocio 2.15, nato dagli studi compiuti negli anni trenta dal professor Luigi Manzoni,

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ricercatore e docente in questa scuola dal 1923 al 1931 e poi preside dal 1932 al 1958. Con questo incrocio abbiamo vinificato un’uva rossa in bianco e poi l’abbiamo spumantizzata. Dall’unione di un uvaggio di prosecco Bianchetta e Verdiso è nato invece un frizzante». Quanto risulta importante il legame con Conegliano? «Ovviamente la scuola ha un respiro nazionale e internazionale, ma il legame con il territorio, e in particolare con il comune di Conegliano e con la provincia di Treviso, è fortissimo. Il rapporto con un luogo così dedito all’attività enologica si fa sentire

soprattutto per le attività di stage, per le quali possiamo contare sulla disponibilità delle aziende dei territori limitrofi». Da cosa è attratto in modo particolare lo studente che sceglie l’Istituto Cerletti? «Sicuramente dalla fama della scuola, ma soprattutto dall’amore per l’ambiente e per la natura. E naturalmente dalla passione per il settore enologico. All’interno dell’Istituto abbiamo diversi percorsi; per quanto riguarda l’istruzione professionale, le qualifiche sono quelle di operatore agroambientale, agroindustriale e agrotecnico. Con la riforma non esisteranno più le qualifiche

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I LUOGHI DEL GUSTO Damiana Tervilli

• intermedie, per cui anche il percorso di formazione professionale sarà un percorso quinquennale. Nel percorso del tecnico abbiamo attualmente due tipologie, il corso quinquennale di perito agrario agroambientale e quello di perito agrario agroterritoriale. Poi abbiamo il perito agrario del corso sessennale, comunemente conosciuto come enotecnico. Abbiamo sempre cercato di dare un approfondimento culturale generale, mettendo in primo piano anche la conoscenza dei mercati per poter fornire un’apertura mentale, questo soprattutto attraverso degli scambi culturali. Pratichiamo sia scambi con l’Europa che con il resto del mondo. Da un paio di anni siamo in contatto con l’Armenia e con l’Argentina, grazie alla collaborazione con la Provincia di Treviso».

Qui sopra, l’esterno della Scuola Enologica di Conegliano. In apertura e in alto, fasi di lavorazione della vite

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In che modo la riforma scolastica cambierà le figure professionali del settore? «Con il riordino, attraverso il nuovo indirizzo di diploma in agraria, agroalimentare e agroindustria, si creerà una figura meno specifica. Già il titolo indica un percorso rivolto a formare esperti di produzione e trasformazione, con qualche accenno al marketing e un riferimento alla gestione del territorio come aspetti della multifunzionalità».

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IL SAN DANIELE DOP Alessio Prolongo

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IL SAN DANIELE DOP Alessio Prolongo

Il rito della stagionatura DIETRO IL SAN DANIELE C’È UNA LAVORAZIONE TRAMANDATA DA GENERAZIONI. ALESSIO PROLONGO SPIEGA LE FASI DI UN PROCEDIMENTO CHE HA IL SAPORE DELLA TRADIZIONE

di Luca Cavera iamo a San Daniele. In questa zona collinare, equidistante dal mare e dalle Alpi, soffiano due brezze: quella di monte, che soffia da Nord al mattino e la brezza di mare, che soffia da Sud nel pomeriggio. Un clima unico che consente la lavorazione del prosciutto San Daniele. Si dice che già i celti conoscevano il modo di conservare le carni salandole e facendole essiccare per poterle poi consumare durante i loro spostamenti. «Nei secoli – spiega Alessio Prolongo - la sua preparazione è divenuta una tradizione».

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Come avviene nello specifico la stagionatura del prosciutto San Daniele? «La stagionatura è una lavorazione che, grazie al sale e a una condizione ottimale di temperatura, umidità e ventilazione, fa asciugare la carne fresca, la trasforma in prosciutto e ne consente il mantenimento senza conservanti. Durante questo processo, lento ma costante, si effettuano delle operazioni per mantenere la carne morbida e si sfrutta al meglio il clima di San Daniele».

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Quali differenze esistono, per la conservazione del prosciutto, tra uno tagliato a mano e uno tagliato a macchina? «La conservazione del prodotto è identica fra l’affettato a macchina o a mano, i due tipi di taglio portano però a diversi percorsi organolettici. Il taglio a macchina permette di avere fette più sottili e gratificanti per il palato, se ne apprezzano la dolcezza e la fragranza al primo assaggio. Invece il taglio a mano, con una fetta leggermente più spessa, richiede una masticazione prolungata ma permette un’esaltazione dei sapori più marcata, ad esempio pane o noci». In che modo avviene il controllo della materia prima? «Viene eseguito con i controlli effettuati dai veterinari ufficiali; con la tracciabilità di filiera, che permette di risalire a ritroso tutto il precorso del suino; tramite controlli in allevamento e macello effettuati dall’Istituto Nord Est qualità; infine, fra le cosce che arrivano in stabilimento, facciamo una selezione». La vostra è una realtà secolare. Com’è cambiata nello speci-

fico la lavorazione e la stagionatura del prosciutto a seguito dell’avvento delle moderne tecnologie? «Per l’80% della nostra stagionatura seguiamo ancora il ritmo delle stagioni, quindi lavoriamo cosce di maiali macellati nel periodo “vernengo” (invernale). Per avere una produzione costante tutto l’anno, usiamo celle frigo. Evitiamo comunque i mesi più caldi, per non snaturare la produzione. Utilizziamo le nuove tecnologie, soprattutto per monitorare temperatura e umidità dei saloni di asciugatura e della cantina naturale, ma le lavorazioni vengono mantenute il più possibile fedeli alle origini, anzi delle volte, per affrontare delle nuove problematiche, si ricerca la soluzione nel passato, riscoprendo metodi di lavorazione magari dimenticati».

In apertura, Lucio Prolongo, sopra con Alessio Prolongo. Il Prosciuttificio Prolongo si trova a San Daniele del Friuli (Ud) www.prolongo.it

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SALUMI TREVIGIANI Cesare De Stefani

Una fetta di genuinità QUELLA DEI BUONI SALUMI È UN’ARTE DA “AMANUENSE”. A PARLARNE, TRA UNA POLENTINA E UN CALICE DI PROSECCO, È CESARE DE STEFANI, PRODUTTORE DI UNA DELLE SOPPRESSATE PIÙ RINOMATE DEL TREVIGIANO

di Andrea Moscariello

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SALUMI TREVIGIANI Cesare De Stefani

dall’artigianalità della lavorazione che si ottiene quella genuinità tipica della tradizione gastronomica italiana. Lo sa bene Cesare De Stefani, dell’omonima premiata salumeria di Guia di Valdobbiadene. Nata nel 1958, oggi De Stefani è uno dei nomi più apprezzati sul panorama dei salumi di produzione trevigiana. L’azienda, gestita dai fratelli Cesare e Giacomo, ha saputo mantenere i suoi presupposti tradizionali, pur investendo massicciamente nel rinnovo tecnologico della produzione. La manualità, comunque, resta insostituibile. «La lavorazione e la selezione manuale delle carni, i vari passaggi di intervento nelle fasi di produzione quali gli impasti, i massaggi delle carni sotto sale, l’insacco e la legatura dei salumi, rappresentano operazioni che nessuna macchina potrà seguire fedelmente come le abili mani di un salumiere esperto – spiega Cesare De Stefani -. La lavorazione di insacco in budello naturale impone molta manualità, ma del resto solo così possiamo ottenere buoni risultati».

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Su quali aspetti, allora, la tecnologia ha migliorato il vostro lavoro? «Gli ambienti di lavoro con prevalenza di attrezzature e piani di lavoro in acciaio, superfici facilmente lavabili,

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garantiscono al consumatore una maggiore sicurezza igienica. Inoltre la tecnologia del freddo ci permette di lavorare in ambienti a temperatura controllata, nei locali di maturazione, poi, il controllo non è solo sulla temperatura, ma anche sui valori di umidità e i ricambi d’aria». La Salumi De Stefani ha oltre 50 anni di attività alle spalle. Come si sono evoluti i gusti dei consumatori? «Gli italiani hanno affinato il palato, amano sempre di più i prodotti meno salati, lievi affumicature, salumi stagionati ma allo stesso tempo non troppo vecchi o duri, li prediligono morbidi, dolci e possibilmente non aciduli. Queste sono caratteristiche più comuni in un salume artigianale». La vostra produzione si è estremamente diversificata nel tempo. Quali sono i salumi che vanno per la maggiore? «Direi che tutti i nostri prodotti raccolgono riscontri significativi, ma certamente i Giacomini, Dama Bianca, Luna Calante e Schenal ci distinguono sul mercato». Da buongustaio qual è, ha un suo menù ideale? «Inizierei con un antipasto di Dama Bianca su polentina e qualche fetta di salame trevigiano leggermente scaldato con alcune gocce di aceto. Poi una minestra di riso con la Luganega Bianca Trevigiana, qualche fetta di Lingual con il purè, per poi passare a due uova strapazzate con sminuzzate dentro due fette di soppressa Luna Calante».

Soppressa che vi ha reso celebri nella vostra zona. «È un prodotto della tradizione, che ancora oggi produciamo solo nei mesi più freddi, impastata a mano e arricchita nell’impasto con un Brulé di Prosecco Superiore di Cartizze».

In apertura, Cesare e Giacomo De Stefani. In alto, una veduta del colle Cartizze, sede dell’Osteria Senz’Oste. In basso, a sinistra, la soppressa trevigiana “Luna Calante” www.salumidestefani.it

Quali sono i vostri progetti per il futuro? «L’obiettivo è riuscire a proporre nuovi prodotti, quindi nuove ricette, come è già avvenuto per i Giacomini e Dama Bianca. E al tempo stesso proseguire comunque a produrre salumi della tradizione, come appunto la soppressa trevigiana e Luna Calante, assieme al salame. Tutto questo migliorando la qualità e senza voler far uso di additivi. I salumi buoni, nella loro etichettatura, sono molto semplici: carne, sale, spezie, erbe aromatiche. E, proprio per non rischiare contro il botulino, una minima quantità di potassio nitrato. Tutto il resto, fruttosio, saccarosio, lattosio, nitriti, acidificanti, antiossidanti, non servono per un prodotto che vuole definirsi “della tradizione”».

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Antiche tradizioni

norcine OGGI COME CENTINAIA DI ANNI FA, UN MESTIERE CHE CI CONSEGNA SPECIALITÀ TUTTE ITALIANE

di Francesco Bevilacqua


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I NORCINI Dante Renzini

a norcineria è un’attività tradizionale che deve il suo nome alla città di Norcia, storico centro dell’Appennino umbromarchigiano. I norcini sono coloro che lavorano la carne di maiale per preparare i prodotti di derivazione suina che hanno reso l’entroterra umbro famoso in tutto il mondo. Già il fatto che il nome stesso di questo antico mestiere derivi dal luogo dove è nato tradisce un profondo e inscindibile legame fra l’attività e il territorio. Questo legame è poi ulteriormente rafforzato dall’indole dei norcini, che a loro volta traggono dalle loro terre quegli elementi che conferiscono ai prodotti che realizzano le qualità che li hanno resi unici. Fra tutti i norcini, uno dei più conosciuti è il cavaliere Dante Renzini, nipote di Mastro Dante, che centouno anni fa aprì la bottega che, oggi evolutasi, rappresenta ancora la tradizionale attività della famiglia. La sua notorietà è dovuta anche alle numerose apparizioni televisive, grazie alle quali Renzini ha potuto diffondere e far apprezzare la cultura della gastronomia di qualità. Pur avendo ampliato e ammodernato la struttura produttiva dell’azienda, Dante rimane indissolubilmente legato alla tradizione artigianale che, ancora giovane, ereditò dal nonno e dal padre: «Un’azienda moderna come la nostra – sottolinea Renzini – non può non avere come riferimento l’antica

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tradizione salumiera norcina, pur proponendo prodotti innovativi che seguono le indicazioni della moderna dietetica e dei principi salutistici suggeriti dai nutrizionisti». A proposito è interessante analizzare i processi di allevamento e lavorazione degli animali, che si svolgono interamente in Umbria, contribuendo a creare una vera e propria filiera a chilometri zero, garantita e controllata. «I suini – spiega Renzini – vivono in un habitat ampio e arieggiato e in alcuni allevamenti vengono addirittura lasciati allo stato brado nei boschi umbri, liberi di integrare la propria dieta, già ricca di Omega3, con alimenti naturali come ghiande e castagne». Proprio la naturalità è un altro caposaldo della norcineria: «I salumi provengono esclusivamente da carni selezionate di allevamenti nazionali e da suini alimentati con ingredienti non originati da prodotti con OGM». La struttura del gruppo col tempo si è ampliata e oltre a nuove sedi produttive per le carni – ma anche per nuove proposte come sughi e salse –, sono stati acquisiti anche un oleificio nei pressi di Spoleto e una cantina in Puglia. Non si è trattato solo di una scelta commerciale, ma anche della volontà di accompagnare la produzione di base, quella di carni suine, con complementi indispensabili per completare l’offerta

Nella foto in alto Dante Renzini, proprietario della Renzini di Montecastelli Umbro (PG) Nelle altre immagini, prodotti della norcineria - www.renzini.it

gastronomica. In fondo quella portata avanti dal cavalier Renzini è sempre stata una politica aziendale profondamente intinta di quei valori che solo la passione può trasmettere, volta non solo a vendere un prodotto, ma anche a diffondere una cultura e una tradizione che non si devono assolutamente perdere.

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Aromi che si sprigionano ad ogni fetta È ROSA, DOLCE E PROFUMATA. PUÒ ESSERE AL PISTACCHIO DI BRONTE O AL TARTUFO. ED È PROBABILMENTE IL SALUME EMILIANO PER ECCELLENZA

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LA MORTADELLA “BOLOGNA” Marco Bartoli

a mortadella è un insaccato cotto di puro suino, dalla forma cilindrica oppure ovale, di colore rosa e dal profumo intenso, leggermente speziato. Viene preparata solo con l’impiego di tagli nobili (carne e lardelli di elevata qualità), triturati sino a ottenere una pasta fine. Il sapore è pieno ed equilibrato, grazie a dei pezzetti di grasso, provenienti dalla gola del suino, che le conferiscono una maggiore dolcezza. Quando viene tagliata, dalla mortadella si sprigiona un profumo aromatico. Ogni fetta ha una superficie vellutata, dal colore rosa vivo e uniforme; al palato disvela il gusto delicato che la rende inconfondibile. E in più ne esistono tre tipi: la classica, quella al pistacchio di Bronte e quella al tartufo. Il salumificio B.B.S di Novellara, impegnato dal 1973 nella lavorazione di quest’insaccato, ha acquisito nel 2009 il marchio storico Bidinelli di Correggio. Marco Bartoli, del salumificio BBS, suggerisce un abbinamento enologico. «Come tutti i salumi tipicamente reggiani, consiglierei sicuramente il lambrusco, che raccoglie tutti i sapori della nostra terra. Ma per quanto riguarda la mortadella in particolare, che è un prodotto che si è ormai

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“internazionalizzato”, ci sono delle nuove tendenze che suggeriscono di degustarla anche con le bollicine più pregiate». La mortadella è certamente un prodotto tipico della vostra zona, il legame con il territorio è per voi molto importante. «La mortadella è quanto che di più emiliano ci possa essere. Infatti in molte zone viene chiamata semplicemente la “Bologna”. È un salume che non manca mai nei frigoriferi. Grazie alla sua semplicità, non ha necessariamente bisogno di un’affettatrice per essere tagliata, è buona anche affettata grossolanamente col coltello. È versatile, perché ha tantissimi usi in cucina, dal ripieno per i tortellini a quello del polpettone». È molto complesso il modo in cui si produce la mortadella? «Fra i salumi di questa zona, la mortadella è il prodotto con la lavorazione più laboriosa. Si inizia con la selezione, preparazione e mondatura delle materie prime, si prosegue con la macinatura, che richiede più passaggi, e infine si conclude con la cottura. Quella della mortadella è una lavorazione complessa anche per la quantità dei formati da produrre. Si fanno mortadelle piccole, da 1 kg

www.salumificiobbs.com

appena e mortadelle grandi, i cosiddetti “sigari”, che arrivano a pesare anche 40 kg».

Come gestite i prodotti che richiedono una stagionatura particolare? «Certamente occorrono degli ambienti allestiti con molta cura. Una volta la produzione dei salumi era esclusivamente stagionale. Oggi le cantine di un tempo sono state sostituite dalle moderne tecniche di stagionatura, così si riesce a produrre durante tutto l’arco dell’anno. Ma è solo controllando accuratamente le condizioni ambientali della stagionatura che si riesce a garantire una qualità del prodotto costante».

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BOTTEGHE DEL GUSTO Gian Pietro e Giorgio Damini

Un emporio di bontà IL BANCONE DELLA STORICA MACELLERIA DAMINI SI È ALLARGATO DIVENTANDO LUOGO IN CUI POTER ASSAGGIARE OTTIMA CARNE, AFFETTATI, FORMAGGI E VINI. UNA BOTTEGA DEL GUSTO CHE RISCOPRE PRODOTTI SANI

di Nicoletta Bucciarelli aper cambiare a volte è sinonimo di saggezza. Se poi alla base del cambiamento c’è una tradizione, la scelta oltre che saggia si rivela vincente. I fratelli Gian Pietro e Giorgio Damini di Arzignano, famiglia di macellai da quattro generazioni, hanno affiancato alla macelleria un ristorante. Giorgio ha preso il comando dietro i fornelli, mentre Gian Pietro è rimasto alla macelleria. Le parole che aleggiavano nell’aria della bottega dei nonni sono rimaste però sempre le stesse: «il sano, la famiglia e le emozioni, perché quello che succede dietro la carne -spiega Gian Pietro Damini- è di fondamentale importanza».

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Giorgio e Giampietro Damini della Damini e affini di Arzignano (VI) www.daminieaffini.com

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Come è stata, da chef del ristorante, l’emozione di poter cucinare un vostro prodotto? GIORGIO DAMINI: «Molto forte perché ho sempre respirato l’aria della macelleria da quando sono nato. Una delle cose più gratificanti è sentire un cliente che ha mangiato al ristorante, chiedere la stessa cosa da portare a casa, come a voler portarsi a casa le emozioni vissute con noi. Un esempio dei piatti che prepara? GIORGIO DAMINI: «La battuta asparagi e nocciole. Asparagi nostrani tagliati alla julienne su un battuto di fesa. Il tutto arricchito con nocciole».

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BOTTEGHE DEL GUSTO Gian Pietro e Giorgio Damini

A sinistra il Damburger e sotto la bottega Damini

Quanto resta oggi della tradizione, nei sapori e nella gestione della famiglia Damini? GIAN PIETRO DAMINI: «La nostra tradizione non rappresenta solo un valore aggiunto ma la base. Vedevo la mia famiglia lavorare e se oggi continuano a chiedermi come faccio a fare la carne in questo modo io rispondo che la so fare solo così. La tecnologia può aiutarci, ma non se ne deve abusare altrimenti rischiamo di perdere tutti i sapori della natura». Come è nata l’idea di allargare la macelleria proponendo un luogo in cui poter mangiare? GIAN PIETRO DAMINI: «In realtà la bottega per assaggiare un prodotto, magari un affet-

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tato, c’è sempre stata. Abbiamo deciso poi di allargarci alla ristorazione e questo ha permesso di riproporre i sapori di un tempo. Ma ciò a cui teniamo particolarmente oltre alla bontà della carne è che sia sana; e per questo dobbiamo basarci su un rapporto stretto con i fornitori. L’animale lo vediamo nascere e sappiamo cosa mangia; desideriamo quindi che anche chi verrà a mangiare o a rifornirsi da noi sappia quello che sta per consumare. È necessario far riscoprire ai clienti i gusti e far rivivere l’Italia del mondo contadino». Cosa consigliereste come primo acquisto? GIAN PIETRO DAMINI: «Si-

curamente il Damburger, un piatto inventato con mio fratello. Macellando animali interi non possiamo permetterci di scegliere solo il filetto ad esempio. Nel Damburger ci sono parti diverse della carne; cucinato, all’interno rimane di un bel rosa e consiglio di abbinarlo a un vino che ne esalti l’emozione. Viviamo in un mondo frenetico; quello che vogliamo proporre è di fermarsi e respirare un attimo, gustando una carne sana, che possa ricordare sensazioni di Casa».

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LE RICETTE DELLA TRADIZIONE Andrea Angeli

La natura

sott’olio

SEMPLICI MA SUCCULENTI. FRESCHI PERCHÉ NATURALI. I SOTT’OLI DI FUNGOAMIATA SI PRESTANO ALLE MILLE OCCASIONI DELLA BUONA TAVOLA. ALL’INSEGNA DELLA GENUINITÀ A REGOLA D’ARTE j di

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LE RICETTE DELLA TRADIZIONE Andrea Angeli

unghi, sott’oli, condimenti, creme, confetture, sughi, olio e molto altro. Le ricette della tradizionale cucina italiana, così gli antichi sapori di una volta, fatti di semplicità e freschezza quali protagonisti della salubre dieta mediterranea, trovano in Toscana, nell’intorno del monte Amiata, la piena attività dell’azienda agricola oggi diretta da Andrea Angeli. Dal 1972, Fungoamiata – un’impresa il cui nome non può che rimarcare il legame con i prodotti naturali e il radicamento alla terra montana – porta avanti l’impegno e l’obiettivo di produrre sott’oli di altissima qualità. «La nostra è una costante ricerca della perfezione del gusto – afferma Angeli – che unita alla freschezza dei prodotti provenienti unicamente dalle campagne della Toscana e alla to-

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tale assenza di conservanti e additivi, hanno reso, rendono e renderanno il marchio Fungoamiata lo strumento ideale per presentare i nostri prodotti come sono, “buoni, sani, toscani”». Fin dalla semina, il team di Fungoamiata presta una minuziosa attenzione a tutti quei dettagli agricoli chiamati ad assicurare la completa naturalità del prodotto da raccogliere. «Non adottiamo, in alcun caso, nessun tipo di concime chimico o sistemi Ogm. – spiega il portavoce dell’azienda – La raccolta di ogni ortaggio viene effettuata al momento giusto di maturazione per proseguire con la trasformazione dello stesso nel nostro laboratorio e con il confezionamento». Il nostro processo di conservazione dei sott’oli Fungoamiata prevede inoltre la pastorizzazione o sterilizzazione che permette di mantenere inalterate le caratteristiche originarie del prodotto senza utilizzo di nessun conservante o additivo. Direttamente dallo stabilimento, tutti i sott’oli Fungoamiata non possono che deliziare le tavole di gastronomi esperti e di semplici ma viziati buongustai. «Registriamo un’alta richiesta dei carciofini morelli in olio extravergine, carciofini grigliati sott’olio extravergine, le confetture di marroni, fichi,

zucca, i porcini in olio extravergine, e non per ultime, le creme come la “bruschella” piccante per tartine, e la “tartufata nobile” per tartine e condimenti di primi piatti». La gamma Fungoamiata presenta prelibatezze per tutti i gusti e per i tanti momenti “della buona tavola”. «A partire dal tipico antipasto toscano che oltre i salumi comprende i sott’oli come i nostri carciofini, cipolline, funghetti e verdure grigliate, fino ad arrivare ai primi piatti con il pici all’aglione con pasta fresca, possibilmente fatta in casa, e il nostro sugo all’aglione» consiglia Angeli. Nel mondo dei sott’oli non poteva però mancare la produzione della materia prima. «I nostri oliveti sono formati da piante secolari di olivastra seggianese, tipica cultivar della zona del Monte Amiata la quale ha già ottenuto il riconoscimento europeo come Dop Seggiano; pregiata per la scarsità di acidità e perossidi, la seggianese dà un tipico olio dal colore giallo dorato con un profumo deciso di erbe aromatiche».

In alto, esempi di vasetti sott’olio Fungoamiata, azienda agricola con sede a Castel del Piano (GR) fungoamiata@infinito.it

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I GRISSINI RUBATÀ Federico Verzelloni

Le origini

del ghersin LA TRADIZIONE TORINESE DEI PANIFICATORI RIVIVE ATTRAVERSO L’ATTIVITÀ DI ALCUNE FAMIGLIE CHE DA GENERAZIONI CUSTODISCONO QUESTA PREZIOSA ARTE. LA STORIA DELLA CASA DEL VECCHIO MULINO RACCONTATA DA FEDERICO VERZELLONI

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I GRISSINI RUBATÀ Federico Verzelloni

arlare del pane, simbolo per eccellenza dell’alimentazione, è come rievocare le origini dell’umanità stessa. Fin dall’antichità, infatti, il pane è stato prodotto con diversi tipi di cereali e lavorato secondo le tradizioni di ogni luogo. La storia del grissino è rintracciabile in questo stesso solco. Pare infatti che nel 1668 il fornaio piemontese Antonio Brunero fosse stato incaricato di realizzare un tipo di pane facile da digerire per conto di Vittorio Amedeo II di Savoia. Il fornaio pensò di modificare la ‘ghersa’, il pane dell'epoca, riducendola ad un bastoncino croccante con pochissima mollica. Venne naturale chiamarlo ‘piccola ghersa’ o più comunemente ghersin. È così che Torino è diventata la culla di questa sfiziosa variante del pane e molte sono le famiglie che da generazioni si dedicano a questa arte antica. Una di queste è la Casa del Vecchio Mulino della famiglia Verzelloni, la cui tradizione di panificatori risale al 1860, anno in cui il bisnonno Giacomo Bertolone aprì il suo primo forno a Pino Torinese, rinomata già a quei tempi per i suoi grissini Rübatà. «Nel corso degli anni – racconta il titolare Federico Verzelloni abbiamo saputo che già prima dell’Unità d’Italia i grissini Rubatà apparivano sulle tavole delle più facoltose famiglie torinesi». «La nonna – continua Verzelloni - ci raccontava che il

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lievito e il malto utilizzati per la produzione dei grissini, venivano consegnati freschi tutte le settimane da un simpatico signore che negli anni successivi divenne un importante imprenditore nel settore alimentare di Alba». L’arte dei grissini viene tramandata agli attuali proprietari – Fabrizio, Roberto e Federico Verzelloni - dalla mamma Carla. «L’alta artigianalità del grissino Rubatà ci ha consentito di partecipare alla prima edizione del Salone del Gusto di Torino, evento che ha determinato una svolta per la nostra azienda». È da questo momento, infatti, che la famiglia comprende la possibilità di far varcare al prodotto i confini nazionali. Ma i cambiamenti non avvengono mai senza difficoltà: «Il nostro piccolo laboratorio – spiega il titolare - si è ritrovato a dover studiare soluzioni immediate alle nuove esigenze, prima fra tutte quella di sviluppare un’immagine che identificasse il prodotto. È così che è nata l’idea di utilizzare l’immagine dei protagonisti della nostra storia, Nonno Cesare e Mamma Carla». Il passo successivo è stato quello di soddisfare i gusti della clientela straniera. «È risaputo che fuori dai nostri confini i gusti cambiano: mentre per noi il grissino è un sostitutivo del pane, all’estero rappresenta una delle tante prelibatezze italiane. Ed è così che è nato il grissino Rubatà con rosmarino, con le erbe aromatiche di Pro-

venza, con il paté di olive nere, con le cipolle, e con l’aroma di tartufo». Ed è proprio questo uno dei punti di forza dell’azienda: ascoltare i clienti, proporre nuove ricette stuzzicando il palato degli intenditori gastronomici. «Nel momento in cui siamo riusciti a consolidare la nostra presenza sul mercato conferma Verzelloni - abbiamo potuto dedicarci alla produzione di nuovi prodotti come le lingue piemontesi con olio extra vergine d’oliva e aromatizzate con spezie e aromi di altissima qualità, le lingue allo zenzero e il grissino rustico». Il segreto è l’utilizzo di ingredienti di altissima qualità, la lievitazione naturale, la produzione artigianale, la cottura lenta: «queste sono le caratteristiche che rendono i nostri grissini identici a quelli sfornati dal nostro bisnonno Giacomo centocinquanta anni fa».

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Gustose rivisitazioni CI SONO SAPORI CHE NON SI PERDONO. MA SI RINNOVANO, CON LA SELEZIONE DI INGREDIENTI PREGIATI. L’ESPERIENZA DELLA PASTICCERIA FILIPPI

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TRADIZIONI DOLCIARIE Pasticceria Filippi

alori come genuinità, profumi semplici, sapori intramontabili sono spesso associati al passato. Dalla famosa “torta della nonna” ai dolci di una volta, sembra che i sapori più autentici siano quelli dalle radici antiche. Ma ci sono anche storie che meritano di essere ricordate e vissute appieno, giorno dopo giorno. Come quella raccontata dalla pasticceria Filippi di Zanè. «Nel 1972, quando abbiamo iniziato – ricorda la signora Maria – si producevano dolci da forno, a lievitazione naturale, e ancora oggi utilizziamo lo stesso lievito, la stessa ricerca antica, ma sempre attuale». Da allora la Filippi produce colombe e panettoni e anche oggi il rispetto per la tradizione si coniuga alla ricerca innovativa di nuovi ingredienti, nelle abili mani di Maria e dei figli Andrea e Lorenzo. Sapori e profumi naturali: qui sta l’unicità dei prodotti. E la loro genuinità risiede nel senso puro delle cose e delle lavorazioni; ma anche nella cura quotidiana, che ha fatto vivere un lievito naturale per più di quarant’anni. E si rinnova, con

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IL PANETTONE AL MOSCATO Nel rispetto della tradizione, la pasticceria Filippi ama sperimentare accostamenti sempre nuovi. Per il Natale 2011 ha elaborato il “Bollicine”, panettone al Moscato completamente naturale. «Questo panettone – spiega Andrea Filippi – non contiene alcun tipo di aroma e sarà abbinato, all’interno di una confezione in legno, ad un barattolino di gelatina spalmabile al Moscato anch’essa completamente naturale».

nuove, gustose rivisitazioni, come il panettone al Moscato. Profumi e sapori vengono cercati con dedizione, selezionando gli ingredienti più pregiati al mondo. Ogni fragranza vive, nel dolce, per la sua eccellenza; ma lo fa in coralità, perché abbinata ad altri elementi altrettanto schietti e veritieri. «Usiamo vaniglia naturale, proveniente dalle bacche del Madagascar, e la sua intensità si abbina con garbo al burro e alle uova fresche – sottolinea Andrea Filippi -. L’uvetta dei panettoni proviene dall’ Australia, mentre le mandorle sono di casa nostra,

pugliesi perché eccellenti; a loro il compito di decorare e fornire la glassa. Le scorze d’arancia, poi, offrono il contrappunto, l’aroma e derivano dalle Washington di Calabria; sono spesse, di un arancione vivo, candite quando ancora intere nella buccia, perché non perdano nulla nella lavorazione». Non c’è un sapore che prevale sugli altri, nei dolci Filippi: solo fragranze che si scoprono, pian piano, si equilibrano e si armonizzano perfettamente, facendo assaporare, nei giorni di festa, la tradizione, di ciò che è stato e ciò che sarà.

In apertura, una colomba Filippi. Sotto, la famiglia al completo, da sinistra: Lorenzo, Maria, Giuliano e Andrea. Sopra, la confezione del “Bollicine” in uscita a Natale 2011 www.pasticceriafilippi.it

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LATTICINI Roberto Bechis

Attenti alla salute

dei consumatori MATERIE PRIME SELEZIONATE E UNA PRODUZIONE CON MARCHIO ALTAMENTE QUALIFICATO SONO LE CARTE VINCENTI DEL GRUPPO MEGGLE. COME ILLUSTRA ROBERTO BECHIS

di Eugenia Campo di Costa

n fatturato annuo di circa 500 milioni, stabilimenti in Germania e altri paesi europei, una storia di oltre 120 anni. È il gruppo Meggle, affermata realtà del settore lattiero caseario che ha saputo conquistare i mercati nazionali e internazionali grazie all’inconfondibile qualità dei suoi latticini dedicati al retail, alla ristorazione e al canale ho.re.ca. Nel 2004 l’azienda bavarese ha aperto la filiale italiana a Verona, stabilendosi in un crocevia importante per i traffici d’oltralpe. Una scelta che ha ripagato gli sforzi, perché quella di Meggle è una realtà in controtendenza rispetto al trend negativo del settore: la sede italiana infatti ha chiuso il 2010 con un bilancio di quasi 11 mln di euro e un aumento in volume del 15%. In virtù dei successi

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Roberto Bechis, managing director di Meggle Italia www.meggle.it

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ottenuti, il già country manager Roberto Bechis è stato nominato managing director. «Una nomina che mi lusinga e mi rende ancor più orgoglioso del lavoro svolto nei primi anni di presenza di Meggle in Italia afferma Bechis, - un impegno che ci fa guardare al futuro, ma ben ancorati al presente, dato il periodo di notevole difficoltà per il nostro comparto: servono mosse efficaci e accorte per far funzionare realtà come Meggle e l’impegno costante in questo senso, premiato dalle soddisfazioni dello scorso anno, ci permette di apprezzare ancor di più le attività svolte». Roberto Bechis, insieme alla valente squadra di collaboratori in Meggle Italia, è pronto a lanciarsi in nuove sfide e confermare i successi ottenuti fino ad oggi. Partendo innanzi tutto dai prodotti. È soprattutto

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LATTICINI Roberto Bechis

Una panoramica dello stabilimento Meggle a Wasserburg e, sotto, il burro Fiore Bavarese.

il burro che ha fatto conoscere Meggle ai consumatori come marchio altamente qualificato. «È il vero burro tedesco, quello dal colore giallo paglierino e dalla particolare consistenza, compatta e omogenea». Un burro che è prodotto solamente con latte intero di prima lavorazione: un processo lento che lo rende morbido e facilmente spalmabile, anche appena tolto dal frigo. «La novità 2011 - precisa Bechis - è l’estensione della gamma Premium Alpenbutter, il burro alpino più pregiato, ora anche leggermente salato e in formato 125 g, studiato espressamente per il mercato italiano». A questo si affiancano le inimitabili specialità di burro, tra cui il burro

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con tartufo in vasetto di vetro da 80g e il burro alle erbe, in piccole porzioni da 20g. Meggle propone anche una ricca gamma di panna: da quella da cucina, leggera e vellutata, disponibile anche in variante “light” con solo il 3,5% di grassi, a quella da montare ottenuta da materie prime di elevatissima qualità, fruibile anche in versione spray. «In linea con le tendenze del mercato, Meggle propone inoltre la panna acida, ingrediente molto ricercato per utilizzi sempre più diffusi dettati dal diffondersi della cucina internazionale». Tra le ultime novità dell’azienda spiccano gli yogurt da bere probiotici della linea Provìe, poveri di grassi e ricchi di probiotici, in

particolare il prezioso Bifidus Protectis, il cui consumo regolare aiuta l’intestino a ritrovare il corretto equilibrio e il nuovissimo LactoMinus, latte ad alta digeribilità. «LactoMinus Meggle – spiega Bechis - è genuino latte di mucca, dal quale è stato escluso il lattosio senza compromettere in alcun modo le caratteristiche del prodotto. Grazie all’enzima lattasi, il lattosio viene dissociato in due zuccheri, galattosio e glucosio. Ne deriva un delizioso sapore, leggermente addolcito, ma il valore energetico rimane inalterato, così come le proprietà nutrienti del prodotto». Resta un sapore delizioso, con un’attenzione particolare alla salute del consumatore.

Sotto da sinistra, yogurt da bere probiotici della linea Provìe, il burro con tartufo e il latte ad alta digeribilità LactoMinus

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TECNICHE DI COTTURA Daniel Allegra

La cucina “sottovuoto” IL CASO “GASTROCHEF ” RACCONTATO DALLE PAROLE DI DANIEL ALLEGRA, IL CUOCO IDEATORE DEL SERVIZIO PER UNA NUOVA TECNICA DI COTTURA SOTTOVUOTO

di Carlo Sergi ambiano i gusti e le abitudini di acquisto delle famiglie italiane. E cambiano, di conseguenza, le strategie dell’industria alimentare. «Il mercato dei prodotti cotti sta crescendo in tutta Europa» spiega Daniel Allegra, il cuoco al vertice della società GastroChef di Cimego, in provincia di Trento. Presente su tutti i segmenti di mercato, ad eccezione dei dolci, l’azienda guidata dallo chef Allegra e dalla moglie Milena, è oggi pioniera in Nord Italia per il mercato della ristorazione diretta, producendo e distribuendo presso ristoranti, alberghi, società di catering e gastronomie al dettaglio una vasta scelta di produzione cotta in sottovuoto. Un processo distributivo su larga scala che regge, comunque, su presupposti artigianali. A dimostrarlo è anche la storia di

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Daniel Allegra, che ha raggiunto la notorietà nel settore dopo aver gestito con successo, a Ginevra, il ristorante “La Crémière”, sino a diventare chef di cucina a livello internazionale in grandi alberghi e ristoranti europei e giapponesi. Dalla cucina dei grandi ristoranti a un progetto come GastroChef il passo non dev’essere stato breve. «Quest’azienda è nata su una mia considerazione. Rispetto al resto del mondo, vi è un’aspettativa molto più alta nei confronti degli chef e della cucina italiana. E anche i prodotti, per così dire, industriali, devono rispettare la qualità del made in Italy». Su cosa si è concentrato all’inizio di questa sua avventura imprenditoriale? «Per due anni ho studiato il mercato principalmente nel Nord

In apertura, lo chef Daniel Allegra. Nella pagina a fianco, Milena Allegra www.gastrochef.it

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TECNICHE DI COTTURA Daniel Allegra

CARRE’ DI AGNELLO AL FORNO Ingredienti per 4 persone: · 2 Pz. Carrè agnello GastroChef · 30 ml. Olio oliva · 100 gr. Di sugo arrosto GastroChef · 2 gr. Timo · 400 gr. Patate con buccia GastroChef · 80 gr. Carote GastroChef Preparazione base: Portare in temperatura l’agnello a Bagno-maria nella sua confezione. ( 10 min. temperatura acqua sotto punto ebollizione) Aprire la confezione dell’agnello. Rosolare il prodotto in padella con

un filo d’olio oliva (questa per rendere croccante la superficie esterna) Preparazione salsa: Portare in temperatura il sugo d’arrosto in un pentolino. Aromatizzare alla fine con del timo Preparazione contorni: Scaldare le carote a bagno-maria oppure direttamente in pentola

Italia, regione doppiamente turistica, per le stagioni invernali ed estive. Nello stesso periodo ho messo a punto una tecnica di cottura sottovuoto a bassa temperatura. E oggi posso affermare con tranquillità di essere uno dei pochi chef a dominare perfettamente questa tecnologia».

Quali sono i vantaggi di questo sistema? «Si tratta di un processo artigianale innovativo che permette di cuocere dei prodotti e di pastorizzarli, conservandone tutte le proprietà organolettiche e ottenendo una conservazione sino a 25/30 giorni. Il tutto senza l’utilizzo di additivi o di agenti conservatori. Grazie alla nostra produzione i ristoratori o i banchi di gastronomia ricavano una migliore organizzazione e un più efficace rendimento delle loro strutture». Come? «Intanto ottenendo una significativa riduzione dei tempi di preparazione. Vi è un’eliminazione drastica degli scarti di materia prima. I risultati, in termini culinari, sono ottimi anche senza l’utilizzo di una manodopera

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qualificata. Vi è inoltre uno stoccaggio e una messa in temperatura dei prodotti per il 100% pronti al consumo. Tutto questo, di conseguenza, porta a un risparmio sui costi indiretti». Quali sono i vostri prodotti più apprezzati? «Sono molti. Cito la rollatina di pollo ripiena di verdure, il salmì di cervo, lo stinco di maiale, il carrè di agnello, la terrina di foie gras, oltre a tutti i primi piatti e i contorni. Chi utilizza i prodotti GastroChef ha una grande libertà di personalizzazione di finalizzazione prima di presentarlo in tavola. Sono uno chef, per questo mi rendo conto che alle cucine occorrono prodotti comodi, buoni e salubri ma in cui si possa anche aggiungere un tocco personale, arricchendoli».

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INGREDIENTI SEMPLICI Eugenio Pinci

Aromi e colori

naturali PRODUZIONE NOSTRANA E INGREDIENTI NATURALI SONO LE CARATTERISTICHE DELLE CARAMELLE ITALIANE. NE PARLA EUGENIO PINCI

j di Amedeo Longhi i

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a dicitura “made in Italy” è sovente riferita a prodotti quali vini, oli, formaggi e altre classiche tipicità appartenenti alla nostra tradizione gastronomica. Tuttavia, c’è un altro particolare settore alimentare in cui può essere vantata questa caratteristica: quello delle caramelle. Oltre ai grandi produttori internazionali e alle piccole realtà artigianali infatti, esiste una storica azienda che da quasi quarant’anni realizza uno dei prodotti alimentari più amati dai grandi e soprattutto dai piccoli; si tratta della Fida, fondata nel 1973 e dal 2006 dotata di una nuova struttura societaria che ha portato solidità e dinamicità all’azienda. «La nostra forza – racconta il presidente Eugenio Pinci – sono ottime prospettive di crescita, prodotti di qualità, materie prime naturali e notevoli investimenti nella produzione e nell’innovazione». Le caramelle realizzate dall’azienda possono essere suddi-

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vise in tre tipi: le colate “Le Bonelle Gelées”, forse le più conosciute, le morbide al latte “Tenerezze” e le dure, ripiene o non ripiene e disponibili in diversi gusti, dalla liquirizia al miele. Per quanto riguarda le materie prime, tutti i tipi di caramelle sono a base di zucchero e gli ingredienti impiegati sono molto semplici: acqua, zucchero, sciroppo di glucosio e, per la produzione delle gelées, pectina, un gelificante di origine vegetale che si ricava dalle scorze degli agrumi ed è naturalmente presente in tutti i frutti. Ma la caratteristica forse più interessante della produzione è la decisa svolta verso la naturalità delle materie prime che da qualche anno Fida ha deciso di compiere. «Spinti anche da una normativa europea in materia che in realtà è un po’ confusionaria – racconta la tecnologa della Fida Michela Adriano –, abbiamo deciso di abbandonare i coloranti artificiali in favore di sostanze del tutto naturali».

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INGREDIENTI SEMPLICI Eugenio Pinci

Così adesso, l’arancione proviene dalla zucca e il giallo da cartamo e limone. «I colori in questo modo risultano forse un po’ meno brillanti – prosegue Michela Adriano – ma i consumatori delle nostre caramelle hanno apprezzato la scelta effettuata e a una colorazione appariscente hanno preferito un prodotto sano e naturale». La stessa strada, Fida la percorrerà prossimamente anche per quanta riguarda gli aromi delle sue caramelle. «Ci stiamo con-

vertendo all’utilizzo di aromi del tutto naturali, sottoprodotti dell’estrazione dei succhi e quindi provenienti direttamente dal frutto». Tutto ciò è possibile grazie a un efficiente settore di ricerca e sviluppo di cui è dotata l’azienda. Una squadra lavora più sul marketing, sulla comunicazione e

Abbiamo abbandonato i coloranti in favore di sostanze del tutto naturali sulle ricerche di mercato, mentre un’altra si concentra sugli ingredienti e sulle miscelazioni, sviluppando nuove versioni di caramelle già in commercio oppure ideando dei prodotti completamente nuovi. «Da poco – spiega Pinci – abbiamo lanciato sul mercato “Le Bonelle” al cacao, che sono un prodotto innovativo sia per la presenza del cacao, che viene inserito all’interno di queste gelatine che sono comunque al gusto di frutta, sia per l’utilizzo di alcuni ingredienti innovativi per questo tipo di prodotto, come ad esempio alcune tipologie di acidificanti che non venivano impiegati prima».

In queste pagine, lavorazioni e prodotti dell’azienda Fida di Castagnole Lanze (AT) www.fidacandies.it

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ESPRESSO Brasilia

I “motori” dell’espresso SENTIRNE L’AROMA E DEGUSTARNE L’ESSENZA. IL PIACERE DEL CAFFÈ ESPRESSO PASSA ANCHE PER IL DESIGN E LA TECNOLOGIA. ESEMPI TANGIBILI? LE MACCHINE BRASILIA

j di Giulio Conti i oncentrati in 25 millilitri di un buon espresso, i sentori e gli aromi dei migliori caffè, al bar come a casa, rappresentano il “carburante” per le Ferrari del caffè, veicolate nel mondo della caffetteria dal marchio Brasilia, unica società nel mondo verticalmente integrata presente nel settore. «Le macchine per caffè espresso Brasilia, studiate per gli ambiti professionali così come per uso domestico, hanno reso facile e intuitivo l’accesso ai parametri sensibili che concorrono a riprodurre costantemente il miglior risultato ottenibile in tazza, sia a livello visivo che olfattivo e gustativo». Giampiero Rossi, presidente di Brasilia, racconta come la società, avviata nel 1977, sia oggi riconosciuta come sinonimo di affidabilità, qualità e innovazione.

C Sublima è uno dei modelli delle macchine per caffè espresso Brasilia www.brasilia.it

Quanto incide l’utilizzo di una buona macchina da caffè per ottenere 25 millilitri di un

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buon espresso? «È assolutamente indispensabile e dall’esperienza Brasilia, i numeri parlano da soli. Sono oltre 5 miliardi i caffè erogati dalle macchine Brasilia in più di 90 nazioni nel mondo, dalla Francia, all’Australia, dagli USA all’Iraq. Ad oggi, la società si conferma come uno dei leader nel settore delle macchine professionali per caffè espresso per uso professionale e per uso domestico. Brasilia, usando la propria tecnologia e conoscenza del settore produce anche per noti marchi di elettrodomestici presenti sul mercato tra i quali Bialetti, Lavazza e altri». Questo ha permesso a Brasilia di sviluppare sinergie e collaborazioni con le altre imprese del network. «I risultati ottenuti sono valutabili in termini di innovazione, razionalità e conseguente internazionalizzazione della società. Brasilia rappresenta il punto di riferi-

mento per il mercato delle macchine per caffè espresso sia per quanto riguarda design, soluzioni e innovazioni tecnologiche – i modelli Excelsior, Sublima e Philla ne sono esempi tangibili –, sia essendosi distinta per idee, strumenti e risorse impiegate nel costruire una filiera manifatturiera competitiva, innovativa, formativa e promozionale attualmente presente nel mondo del caffè espresso». In che modo collaborate con il mondo formativo-professionale? «Oltre che rappresentare da almeno un ventennio lo standard qualitativo più imitato, Brasilia detiene tutt’ora la presidenza dell’A.c.i.b., un’associazione rivelatesi nel tempo autentica fucina dove si forgiano i migliori baristi professionisti che rappresentano la nostra nazione, cultura dell’espresso e ospitalità nei campionati Scae e Wbc».

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LA BUONA TAVOLA Pietro Antonio Migliaccio

Mediterranea è meglio MANGIAR SANO ANCHE AL FAST FOOD? SI PUÒ. IL SEGRETO È VARIARE E NON ECCEDERE NELLE QUANTITÀ. I CONSIGLI DI PIETRO ANTONIO MIGLIACCIO

di Michela Evangelisti nguaribili buongustai. Una cifra distintiva che racchiude al tempo stesso il principale pregio e il peggior difetto degli italiani a tavola. Parola di Pietro Antonio Migliaccio, che da anni, attraverso la carta stampata e la televisione, cerca di divulgare le buone abitudini alimentari. «A differenza di altre popolazioni abbiamo una cultura gastronomica ricca, che va oltre la dieta mediterranea per affondare le radici in ogni regione, provincia e comune, e quando ci concediamo un vero pasto, consumato con tranquillità, mangiamo davvero in modo sano» spiega il nutrizionista. Ma dall’amore per il buon cibo all’eccesso il passo è breve. E la pigrizia non aiuta. «Mangiamo tutti troppo; pecca alla quale si somma, in generale, la tendenza a

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uno scarsissimo dispendio energetico». Siamo consumatori attenti? «Direi che la popolazione si divide a metà: alcuni si informano, altri no. Il problema è che anche chi lo fa spesso sceglie le fonti sbagliate. Purtroppo sempre più incompetenti si improvvisano esperti in materia e la colpa è in parte anche di noi nutrizionisti, che non ci facciamo sentire in modo adeguato. Attraverso la federazione delle società italiane di nutrizione stiamo ultimando un decalogo sintetico per responsabilizzare gli italiani ed evitare che ricorrano a digiuni, diete assurde o cattivi consiglieri». La crisi ha portato molte famiglie a risparmiare anche sulla spesa settimanale: quali sono i rischi per la salute?

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LA BUONA TAVOLA Pietro Antonio Migliaccio

«La mia impressione è che in generale gli italiani stiano operando dei tagli qualitativi più che quantitativi: se prima acquistavano una verdura che costava due euro al chilo ora ne scelgono una più economica, ma che non necessariamente ha un minor potere nutritivo. In realtà ai supermercati vedo carrelli sempre pieni, anche di prodotti inutili. Speravo che in qualche modo questa crisi ci potesse aiutare a correggere alcune cattive abitudini, ma per ora non è stato così». Le abitudini degli italiani negli ultimi 20 anni sono cambiate: in particolare

pranziamo sempre più fuori casa. Come dobbiamo comportarci? «La questione è demandata alla responsabilità di ciascuno. In un fast food come in una tavola calda si trova una scelta davvero ampia, che va dalle insalate, ai primi piatti, dalla carne al pesce. In mancanza d’altro una bella pizza margherita, che contiene carboidrati e proteine di alto valore biologico, toglie da ogni imbarazzo. Oppure possiamo farci preparare un panino in un negozio di alimentari, con formaggio light, prosciutto magro o salmone, e accompagnarlo con una spremuta: abbiamo ottenuto un

pasto leggero ed equilibrato. L’importante è non pensare di non aver mangiato! Si sono comunque introdotte dalle 400 alle 600 calorie e non possiamo compensare mangiando a cena senza ritegno».

Nella pagina a fianco, il nutrizionista e dietologo Pietro Antonio Migliaccio

È stato lanciato di recente l’allarme carenza di ferro nell’alimentazione degli adolescenti. Quali sono le principali cattive abitudini alimentari dei giovani di oggi? «La carenza di ferro è un problema che interessa tutta la popolazione italiana, in particolare le donne in età fertile. Dipende prevalentemente dalla scarsa varietà dei cibi ingeriti: il

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LA BUONA TAVOLA Pietro Antonio Migliaccio

fegato ad esempio, l’alimento in generale più ricco di ferro, non si mangia praticamente più. Bisogna poi sfatare il falso mito della frutta lontana dai pasti: se, infatti, mangiamo carne, pesce o uova e non li accompagniamo con la vitamina C riduciamo notevolmente l’assorbimento del ferro. La regola numero uno quindi è variare e ricordare che il ferro presente negli alimenti vegetali ha un assorbimento nettamente inferiore rispetto a quello proveniente dagli alimenti di origine animale. Ai giovani poi sconsiglierei innanzitutto l’uso di alcolici, che inducono all’obesità. Suggerirei di ridurre o abolire le bevande zuccherine e di non

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saltare mai i pasti. Poi è chiaro che una volta alla settimana una birra è ammessa!» Il biologico va sempre più di moda: porta con sé reali vantaggi per la nostra linea e per la nostra salute? «Porta vantaggi a chi lo produce. La ritengo una metodica classista e come medico mi infastidisce. Costando mediamente un 30% in più rispetto all’alimentazione classica, il biologico non rappresenta una scelta paritetica. Poi non è garantito che ciò che ci viene proposto come biologico sia sempre tale e non c’è nessuna prova che contenga nutrienti in maggior quantità».

Ha di recente aggiornato il suo manuale di nutrizione umana: quali sono le principali novità? «Parlo di prebiotici e probiotici, alimenti funzionali, nutrigenetica e nutrigenomica. Ma la novità assoluta è l’impatto della dieta sul pianeta. Quella mediterranea, che è entrata nel patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, ha una ricaduta sull’ecosistema e sull’effetto serra inferiore del 50% rispetto ad altri modelli di dieta. Aver messo in evidenza questo aspetto mi sembra una novità importante: la sensibilizzazione passa infatti da un livello individuale a uno globale».

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Diffidare delle imitazioni DIFENDERE IL FOOD MADE IN ITALY E PROMUOVERE UNA CORRETTA ALIMENTAZIONE. ALCUNI DEGLI OBIETTIVI DI FEDERALIMENTARE, RIPRESI DAL PRESIDENTE FILIPPO FERRUA MAGLIANI

di Michela Evangelisti


LA BUONA TAVOLA Filippo Ferrua Magliani

er l’alimentare si apre l’anno delle conferme. Anche il settore anticiclico per eccellenza, la cui produzione negli ultimi dieci anni, in controtendenza rispetto alla regressione del resto dell’industria nazionale, è cresciuta del 12%, non è rimasto immune alla crisi del biennio nero 2008/2009 che, per la prima volta dal dopoguerra, ha riportato segni in rosso nei suoi bilanci. «Dal 2010 ci sono però buone notizie – spiega il presidente di Federalimentare, Filippo Ferrua Magliani –. La produzione è infatti cresciuta dell’1,8%, controbilanciando la perdita dell’1,5% dell’anno precedente». A trainare il comparto sono soprattutto le esportazioni, salite nel 2010 del 10,5%, e che potrebbero puntare ancora più in alto se a penalizzarle non intervenissero contraffazione e italian sounding.

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Qual è la portata di questi fenomeni? «Hanno nel loro insieme un impatto annuo di circa 60 miliardi

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di euro, di cui circa 55 legati a episodi di imitazione e richiami all’italianità sulle etichette. Mentre nei confronti della contraffazione si può agire legalmente, l’italian sounding non è perseguibile. L’unica reazione possibile è portare all’estero i nostri prodotti, quelli veri, per insegnare a riconoscere ciò che li differenzia dalle “riproduzioni”». Ci sono anche pericoli per la salute? «Non direi; anche se certamente i prodotti dei quali stiamo parlando vengono realizzati con materie prime molto diverse da quelle utilizzate per i corrispondenti “originali”. Questo consente al contraffattore di mantenere dei prezzi di vendita decisamente più bassi». L’industria alimentare si dichiara da sempre al fianco delle istituzioni nel promuovere stili di vita salutari. Quali iniziative state sostenendo? «Abbiamo aderito a un progetto voluto dal ministero dell’Istruzione per promuovere una campagna di

educazione sull’alimentazione nelle scuole; è partita una fase pilota l’anno scorso, con una quindicina di istituti coinvolti, e il progetto verrà presentato ufficialmente a maggio durante un convegno che stiamo organizzando a Milano. Nostra abitudine è poi abbinare all’informazione sugli alimenti anche quella sull’attività motoria: l’insufficiente attività fisica è, infatti, uno dei comportamenti

Filippo Ferrua Magliani, presidente di Federalimentare

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LA BUONA TAVOLA Filippo Ferrua Magliani

rischiosi per la nostra salute». • più Come vi muovete invece per tutelare la garanzia degli ingredienti contenuti nei cibi? «Le nostre associazioni che seguono da vicino il mondo delle aziende stanno definendo dei codici di buona condotta, mediante i quali le imprese associate si impegnano a raggiungere determinati obiettivi, relativi ad esempio alla presenza di grassi insaturi o alla riduzione dei quantitativi di sale negli alimenti». Si è concluso proprio in questi giorni il progetto europeo Truefood, coordinato da Federalimentare. Con quali risultati? «L’obiettivo, oltre alla promozione

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e diffusione delle nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche per la base associativa, è stato quello di ricercare quelle innovazioni che potessero attribuire maggiore valore aggiunto alle produzioni tradizionali: materie prime con micronutrienti potenziati, ricette riformulate con vantaggi nutrizionali, maggiore freschezza e naturalità, contenuti di servizio e porzionamento, nuove confezioni e packaging attivo, nuovi processi di trasformazione industriale più dolci e protettivi. I risultati hanno consentito alle 30mila imprese coinvolte di prendere atto delle acquisizioni della food science, a 12mila di queste di introdurre modifiche organizzative, a 7mila di

innovare processi e prodotti, a 4,8mila di cambiare profondamente l’offerta e le tecnologie». Tra pochi giorni partirà la prima edizione di Cibus Tour. «Si tratta di un’assoluta novità, perché mette in contatto direttamente produttori e consumatori. Nella sezione “Pianeta nutrizione” verranno approfondite in particolare le tematiche legate alla salute e alla corretta alimentazione. Dall’ultima indagine di cui ho memoria i consumatori italiani interessati alla lettura delle etichette alimentari sono non più del 30%: indice che la strada dell’educazione è ancora lunga».

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APPUNTAMENTI Cibus Tour

A spasso tra sapori e conoscenza TUTTO IL GUSTO NOSTRANO, DALLA TRADIZIONE ARTIGIANA AL PRODOTTO INDUSTRIALE D’ECCELLENZA. CON ELDA GHIRETTI UN ASSAGGIO DI CIBUS TOUR

di Michela Evangelisti

al 15 al 17 aprile a Parma il food italiano apre le porte al pubblico dei consumatori. Cibus Tour, come il nome stesso suggerisce, propone al visitatore un viaggio tra i sapori e il “saper fare” artigianale dell’alimentare made in Italy, senza tralasciare lo stretto nodo che lega scelte a tavola e benessere. Un evento, spiega Elda Ghiretti, brand manager Cibus, che dà al consumatore l’opportunità di «annusare, degustare e acquistare prodotti selezionati al di fuori della logica delle solite fiere-mercato, perché l’esposizione è unita indissolubilmente a un percorso informativo ed educativo».

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Come si differenzia Cibus Tour dalla fiera biennale Cibus? «Sono prodotti completamente diversi ma che si completano l’un l’altro. Cibus è il salone leader nel mondo per il food italiano d’eccellenza ed è rivolto in modo esclusivo ai buyer della grande distribuzione sia italiana che internazionale, agli importatori, ai gourmet shop, insomma a tutto il mondo degli operatori professionali che vogliono una panoramica completa dell’offerta food italiana. Cibus Tour, invece, apre le porte al consumatore. È una proposta che offre vari poli d’attrazione: dal progetto “Po(r)co ma buono”, con il mercato dei produttori Slow

Elda Ghiretti, brand manager Cibus

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APPUNTAMENTI Cibus Tour

Food, all’area biologica, dai temporary stores delle industrie di marca alle specialità degli artigiani dei territori». Avete scelto come partner per la prima edizione di questa fiera Slow Food. «Ci piaceva l’idea della contaminazione positiva tra il prodotto industriale d’eccellenza e quello artigiano scelto e validato da un movimento come Slow Food, e insieme abbiamo voluto dare un segnale di come sia possibile coniugare bontà, sicurezza, sostenibilità e

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volumi, in un’ottica comune di valorizzazione del prodotto italiano». Il nome stesso della manifestazione richiama un viaggio ideale nell’Italia dei sapori. «Nello spazio di Slow Food si potranno incontrare i salumi di tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia, e alcuni dei presidi esteri. Lo stesso dicasi per altre tipologie di prodotto negli stand di altri espositori. Ma il nostro viaggio virtuale non è solo degustativo. Ospitiamo ad esempio “Pianeta Nutrizione”, un’intera sezione che

presenterà tutti gli aspetti della corretta alimentazione, intesa anche come prevenzione per ogni fascia d’età». Infine ci sarà spazio anche per il biologico. «Sì, insieme all’associazione dei produttori biologici e biodinamici dell’Emilia Romagna, Cibus Tour si propone di informare il pubblico dei visitatori e dei ristoratori sulle potenzialità qualitative e organolettiche dei prodotti bio e di segnalare ricette gourmet attraverso divertenti performance nell’ambito di un’area di “cooking show”».

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Il cuore della Val Gardena CUCINA, NATURA E CULTURA SI MESCOLANO IN QUESTA VALLE GENEROSA MA ANCHE BISOGNOSA DI ATTENZIONI. LO SA BENE OSWALD DEMETZ, PROPRIETARIO DELL’HOTEL ANGELO

di Amedeo Longhi


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CUCINA TIPICA Oswald Demetz MARILLENKNÖDEL - CANEDERLI DI ALBICOCCHE a Val Gardena è la patria del turismo dolomitico, che rappresenta la principale risorsa economica della zona e attira visitatori da ogni parte del mondo, desiderosi di apprezzare l’incredibile spettacolo offerto dai Monti Pallidi e dallo scenario naturalistico, culturale e architettonico su cui vigilano imponenti. L’altra attività più diffusa della valle è la scultura e la lavorazione artistica del legno, elemento naturale e risorsa abbondante ma preziosa, che la fa da padrone da questi parti. Non fa eccezione l’Hotel Angelo, antica struttura che sorge vicino al centro di Ortisei, cuore pulsante della Val Gardena. Dicevamo del legno: «Le camere dell’Hotel – spiega Oswald Demetz, proprietario dell’albergo – sono interamente arredate in legno di pino naturale, non trattato, che ha la proprietà di abbassare la frequenza cardiaca e favorire il riposo e il rilassamento». Oswald è il rappresentante della famiglia Demetz, che da tre generazioni gestisce l’Hotel Angelo. Le origini della struttura sono molto antiche: «La costruzione dell’edificio – ricorda Oswald Demetz – risale al 1547 come osteria. Da li, ininterrottamente attraverso i secoli, è rimasto posto di ritrovo e ristoro. Agli inizi del secolo scorso

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Ingredienti per 6 persone: · 1000 g di patate · 280 g di burro · 50 g di semolino · 250 g di farina · 1 uovo intero e 2 tuorli d'uovo · 1000 g di albicocche · sale, zucchero in dadi, zucchero · 150 g di pangrattato · cannella in polvere

un antenato dei Demetz lo rilevò per trasformarlo in un albergo. Recentemente, nel 2004, i proprietari attuali lo ristrutturano completamente per farlo diventare un Hotel a quattro stelle con un meraviglioso reparto benessere, sempre secondo canoni rispondenti alla tradizione architettonica altoatesina». La cucina è certamente un punto forte. Generata da molteplici influenze, da quella italiana a quella austro-ungarica passando per quella ladina, una volta assunta la sua identità si è radicata fortemente al territorio ed è caratterizzata dalla presenza di ingredienti e materie prime esclusivamente lo-

Preparazione: lessare le patate, sbucciarle, lasciarle intiepidire e passarle. Mescolarle con il burro ammorbidito, il semolino e una presa di sale. Aggiungere l’uovo, i tuorli e la farina setacciata e lavorare fino a ottenere una pasta liscia che verrà lasciata 1/2 ora a riposare. Stendere la pasta fino a ottenere uno spessore di circa 1/2 cm sul piano infarinato e ritagliare dei quadrati di 8-10 cm. Dopo aver inserito un cubetto di zucchero nelle albicocche, avvolgerle nei quadrati di pasta. Lessarle per circa 10 minuti in acqua salata a fuoco basso. Fondere il resto del burro, rosolarvi il pangrattato e rotolarvi gli gnocchi ben sgocciolati. Cospargerli di zucchero e di cannella in polvere.

cali. «Durante le escursioni che giornalmente organizziamo per mostrare agli ospiti dell’albergo i nostri splendidi paesaggi – racconta Demetz – e spesso ci fermiamo a gustare le specialità locali, Una volta a settimana i clienti dell’Hotel Angelo si ritrovano per un barbecue in montagna. In una magnifica conca tra il Sella e il Sassolungo, vicino al proprio laghetto con le sue trote che, con un po di abilità, si può pescare per gustarle li, sul posto, a un minuto dalla pesca. Dal ruscelletto che sgorga dalla fonte trecento metri a monte, si può provare il piacere dimenticato di bere dal fiume con le mani. La preparazione dei piatti della cucina regionale poi, essendo leggera, fresca e povera di grassi, garantisce una dieta sana ed equilibrata. Nel 2009 le Dolomiti sono state dichiarate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Il giusto riconoscimento per una ricchezza che è importante tanto far conoscere e apprezzare quanto preservare.

Nelle foto, una veduta delle Dolomiti e uno scorcio dell’Hotel Angelo Engel di Ortisei (BZ) www.hotelangelo.net

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SAPORI AUTENTICI Franca Spinola

Custode di antichi sapori CENE A TEMA ACCOMPAGNATE DA VINI AUTOCTONI E PRESENTAZIONI DI LIBRI. LA TENUTA LA PARRINA È UN CONNUBIO PERFETTO TRA NATURA, DEGUSTAZIONI E CULTURA

di Nicoletta Bucciarelli Gusto • 358

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SAPORI AUTENTICI Franca Spinola

n’azienda che da oltre vent’anni è certificata in Biologico, dal caseificio al frantoio, dalla frutta alla verdura, senza dimenticare il vigneto, ultimo arrivato nella filiera di tracciabilità. La Parrina, immersa nella Maremma, può vantare un paesaggio circostante mozzafiato. La Marchesa Franca Spinola, titolare da oltre trent’anni, racconta le attività della tenuta. «Offriamo un ventaglio di offerte che vanno dalla ristorazione, alle visite sul territorio, ai servizi eventi. Tutto ciò logicamente si è allargato e raffinato con il tempo, ma sono stati sempre i nostri visitatori a ispirarci con nuove idee. Come ad esempio è accaduto per il vivaio. Ci richiedevano di poter portare a casa quelle stesse essenze di pesco e di rosmarino che avevano avuto il piacere di sentire da noi». L’atmosfera e i sapori sono rimasti autentici in questo angolo di Maremma. «Le mura della nostra tenuta hanno duecento anni e ci teniamo che questo traspaia da ogni angolo. Gli investimenti che l’azienda ha richiesto per ri-

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Tenuta La Parrina, Albinia (GR) www.parrina.it

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manere al passo con i tempi sono stati importanti, come per il condizionamento degli ambienti sia per uso agricolo che per uso turistico. Nonostante ciò, vogliamo che l’antico sapore non venga contaminato». Tra i prodotti che è possibile consumare e acquistare all’interno della tenuta ci sono soprattutto formaggi, vini e olio. «La gamma dei formaggi La Parrina si snoda tra prodotti freschi, semi-stagionati, stagionati e yogurt. Il prodotto più ambizioso dell'azienda è senza dubbio il Guttus, un erborinato di latte pecora, una nostra produzione unica a livello nazionale». Per quanto riguarda i vini l'azienda La Parrina occupa un'area pedo-collinare immersa nella “macchia” mediterranea, caratterizzata da erbe aromatiche e profumi di bacche molto intensi. «La Parrina ha un'estensione viticola di 65 ettari dove si produce, uva a bacca rossa e bianca. La storia ci dice che questa zona era già stata individuata come zona vocata alla produzione di vino nel periodo della dominazione spagnola. Il nome

Parrina potrebbe infatti derivare dal castigliano parra, vite, pergola di vite. I vitigni tradizionali sono il Sangiovese per il rosso e il rosato; il Trebbiano, il Vermentino e l'Ansonica per il bianco. Il riconoscimento delle DOC Parrina rosso e bianco risale al lontano 1971 ma due successive modifiche, la prima nel 1986 e la seconda nel 1993, hanno riconosciuto prima la tipologia del rosato e del rosso riserva e, successivamente, la possibilità di aggiungere all'uvaggio vitigni quali il Cabernet e il Merlot per i rossi, lo Chardonnay e il Sauvignon per i bianchi». Non manca in ogni caso l’olio. «L'olio Parrina proviene per la maggior parte da olivi longevi che si estendono nella zona pedocollinare dell'azienda dove sfuma la tipica macchia mediterranea. Raccolta fatta a mano, frangitura a freddo e mantenimento in contenitori d’acciaio sono fondamentali per la creazione di un olio che racchiuda tutti i sapori antichi e le qualità dei prodotti La Parrina».

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ANTICHE DIMORE Sabrina Niccolai

Riscoprire l’antica toscana UNA TORRE CHE SPICCA TRA I VIGNETI DI SAN GIMIGNANO. UNA CANTINA ESCLUSIVA. E UNA VILLA RICAVATA DA UN’ANTICA DIMORA. SCOPRIAMO LE TENUTE NICCOLAI

di Filippo Belli n’antica tenuta contadina nel cuore di San Gimignano. Una “fattoria di terra” in cui perdersi, tra profumi e riscoperte di antiche tradizioni rurali. Sabrina Niccolai apre al mondo degli appassionati di enogastronomia, ma non solo, le incantevoli terre della sua famiglia. Un’azienda agricola e un insieme di strutture ricettive che hanno saputo arricchire il territorio circostante, favorendo lo sviluppo turistico locale. A fare da traino, oltre alla cornice del verde toscano, sono le produzioni. A cominciare dai bianchi, con in prima fila la Vernaccia di San Gimignano Docg. Un vino, questo, proposto anche con l’etichetta “Santa Chiara”, nata da un particolare vigneto di uve di Vernaccia, e “Riserva”, fermentato e affinato in piccole botti di rovere. Ricca anche la scelta di rossi, con il “Chianti

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ANTICHE DIMORE Sabrina Niccolai

VERNACCIA DI SAN GIMIGNANO SANTA CHIARA · Sistema di allevamento: Cordone speronato · Affinamento in bottiglia: Almeno 4 mesi prima della commercializzazione · Capacità di invecchiamento: Indicativamente 24 mesi dalla vendemmia ma può tranquillamente sostenere periodi più lunghi · Colore: Giallo paglierino brillante con riflessi verdognoli · Profumo: Intenso , avvolgente, aromatico · Palato: Elegante e ricco, finale di notevole persistenza e freschezza. · Abbinamenti: È il perfetto accompagnamento per antipasti, primi piatti dal condimento delicato, carni bianche, pesce, formaggi di media stagionatura

Colli Senesi”, il “Sottobosco”, “Uno di quattro Syrah”, che affina in barriques di rovere ed è perfetto dopo almeno due anni di invecchiamento, “Uno di quattro Sangiovese”, ideale in questo caso dopo 3 anni di invecchiamento, per poi passare al Brunello e al Rosso di Montalcino. La produzione, poi, si arricchisce con l’olio extravergine di oliva, il vin santo e le grappe. Al centro della tenuta, spicca “Il Palagetto”, vero quartier generale dei Niccolai, essendo la prima azienda acquisita dal suo fondatore, il commendator Luano Niccolai. L’azienda vanta una cantina di vinificazione dal potenziale produttivo di 5000 Hl, un frantoio e 44 ettari di vigneto coltivati a Vernaccia, Chardonnay, Sauvignon, Vermentino, Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah. Oggi tutti possono scoprire quella che possiamo definire

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come una delle più rinomate realtà agricole regionali, soggiornando alla Villa e alla Torre Palagetto. «In questi luoghi si respira un’atmosfera quasi irreale – spiega Sabrina Niccolai . Villa Palagetto, con il suo giardino circondato da vigneti e oliveti, contiene oggi alcuni confortevoli appartamenti ricavati negli antichi corpi di fabbrica che si sviluppano intorno e all’interno della sua torre». Sono sempre più numerosi i turisti che scelgono di affiancare alla riscoperta della tradizione e degli scenari toscani anche il piacere dell’ozio, prendendo il sole d’estate a bordo piscina, o godendosi succulenti cene invernali servite direttamente nel vecchio granaio o nell’aia mattonata. «Aprendo al pubblico l’insieme di questi antichi casali, abbiamo voluto offrire l’opportunità di rivivere le ambientazioni dell’antica Toscana

– sottolinea Sabrina Niccolai -. Venendo nella tenuta ci si rende conto di come potevano vivere le antiche famiglie contadine che risiedevano in queste terre collinari. Qui, in tempi ormai lontani, con la terra si produceva tutto ciò di cui si aveva bisogno, dal grano per il pane all’olio per condire, fino al vino, da conservare per i tanto attesi giorni di festa». Gli ospiti possono visitare, oltre all’antico frantoio, anche la cantina, partecipando ad alcune degustazioni guidate, particolarmente amate dagli stranieri. Villa Palagetto, poi, è ubicata a ridosso del centro storico di San Gimignano, uno dei comuni più suggestivi e storicamente rilevanti della regione, le cui torri sono iscritte nella lista dei patrimoni mondiali dell’Unesco. Un’occasione per affiancare, al relax e al piacere della buona tavola, anche l’arte e i suoi valori culturali.

In apertura una veduta delle Tenute Niccolai di San Gimignano (Si) www.agriturismoniccolai.it

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OspitalitĂ regale


L’ARTE DEL RICEVERE Christian Eugen-Olsen

UNA VITA DEDICATA ALL’ORGANIZZAZIONE DELLE VISITE DI TESTE CORONATE E CAPI DI STATO. CHRISTIAN EUGENOLSEN RACCONTA LA SUA ESPERIENZA ALLA CORTE REALE DANESE di Nicolò Mulas Marcello l maestro di cerimonie svolge un ruolo molto delicato perchè implica conoscere non solo l’etichetta ma anche gli usi e i costumi dei capi di Stato e delle famiglie reali di tutto il mondo. Rendere piacevole e unica l’esperienza di una visita ufficiale è lo scopo principale del lavoro del cerimoniere. Quando si tratta poi di organizzare gli eventi alla corte di una regina il compito è ancora più difficile. Il colonnello Christian EugenOlsen, ora in pensione, è stato fino a pochi mesi fa il cerimoniere della Regina Margherita II di Danimarca.

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Come si svolge una giornata tipica per una visita ufficiale di un capo di Stato a palazzo reale? «La visita viene organizzata attentamente rispettando le regole internazionali stabilite dal Congresso di Vienna. Il benvenuto agli ospiti si dà all’aeroporto se arrivano in aereo, al Toldboden, il molo

vicino a Alalienborg, se arrivano in nave o alla stazione centrale di Copenhagen se l’arrivo è in treno. Le Guardie d’Onore sono sempre presenti quando si accoglie un capo di Stato straniero. Salutare un ospite nel miglior modo possibile è molto importante, nonché uno dei pilastri di una piacevole visita. Subito dopo segue l’accompagnamento negli alloggi, la sessione fotografica ufficiale e lo scambio dei doni e delle decorazioni. Viene stabilita un’agenda e ogni visita prevede sempre un banchetto di gala in serata con il discorso della Regina e dei capi di Stato, in questa occasione vengono eseguiti gli inni nazionali. Il giorno successivo gli ospiti visitano le imprese selezionate in base agli interessi di affari. Le delegazioni di cultura e affari partecipano in base al programma a convegni e seminari. È pratica diffusa visitare anche altre città oltre alla capitale per mostrare una prospettiva più larga del paese. Una visita di Stato

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L’ARTE DEL RICEVERE Christian Eugen-Olsen

• normalmente dura 2 o 3 giorni ed è abitudine che l’ospite prima del suo ritorno organizzi un concerto, una cena o un ricevimento per mostrare il proprio apprezzamento per l’ospitalità. Se la visita è di un personaggio politico, il nostro ospite incontrerà anche il primo ministro». Ricevere è un’arte. Quali sono le regole base per organizzare una cena e ricevere ospiti? «Quando un capo di Stato visita la Danimarca applichiamo gli usi danesi, ma ricorriamo anche alle tradizioni straniere, per

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esempio tenendo in considerazione la religione o i cibi da servire. È una questione di tempistiche: gli inviti devono essere inviati in tempo. L’assegnazione dei posti è gestita in considerazione della lingua e degli interessi dell’ospite. Ma la cosa più importante è essere cortesi e fare in modo che gli ospiti vivano una bella esperienza e una visita soddisfacente». L’attenzione e la precisione sono elementi fondamentali nel suo lavoro. È mai accaduto un imprevisto durante una cerimonia organizzata nei

minimi dettagli? «Bisogna essere sempre preparati agli imprevisti. A riguardo ne cito due: in occasione del settantesimo compleanno della Regina nei cieli d’Europa era presente la nuvola di fumo proveniente dal vulcano islandese che ha impedito l’arrivo degli aerei di alcuni ospiti. Inoltre, quando è stata organizzata la conferenza delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici a Copenhagen nel 2009, la regina e il principe consorte invitarono gli ospiti alla cena di gala al castello di Christiansborg. Non tutti gli ospiti risposero all’invito e alcuni non si presentarono, così all’ultimo momento abbiamo dovuto rivedere l’assegnazione dei posti. In questo lavoro la parola chiave in ogni situazione è improvvisazione».

In apertura, Christian Eugen-Olsen, ex maestro di cerimonie della Regina Margherita II di Danimarca; in questa pagina, a sinistra, banchetto di Capodanno presso la corte dei Reali di Danimarca

Quali sono gli aspetti che lei ritiene più belli nel suo lavoro? «Quando un evento è eseguito bene in maniera soddisfacente. Questo mi dà una grande piacere».

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TAVOLE REALI Laura Rangoni

Le ricette

dei sovrani PIATTI DELLA TRADIZIONE RIVISITATI IN CHIAVE REGALE. LAURA RANGONI RACCONTA COSA SI PREPARAVA NELLE CUCINE DI CORTE E QUALI SPECIALITÀ AMAVANO I RE

di Nicolò Mulas Marcello l rapporto dei Savoia con il cibo potrebbe in prima istanza apparire non tanto dissimile da quello presente in altre corti – spiega Laura Rangoni, autrice del libro A tavola con i re. I Savoia. Storie, curiosità e misteri sabaudi –. Cibi raffinati, ricette mediate dalla tradizione francese, con qualche tipicità. La provenienza dei cuochi di casa Savoia, dal Medioevo a tutto il Settecento, spesso era di origine popolare, così si assiste a un curioso fenomeno: spesso i piatti raffinati sono una elaborazione fantasiosa, dovuta alla sovrabbondanza di ingredienti disponibili, di piatti che nascono poveri». La cucina ricca risente molto però anche delle mode. E la

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moda, in fatto di cibo, veniva esclusivamente dalla Francia. «In quel periodo – continua la scrittrice – il modello parigino era ampiamente seguito da numerose corti che facevano di tutto per emulare la nobiltà francese. Feste sfarzose, musiche, teatro, divertimenti en plen air, e naturalmente la cucina, entrarono a far parte delle consuetudini». Come venivano preparati i banchetti reali? «La cucina dei Savoia era sfarzosa in particolare quando si trattava di offrire banchetti o balli. Ad esempio Giovanni Vialardi, cuoco di casa reale, autore del famoso libro Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria, era incaricato di

preparare sontuosi menù per i balli di casa Savoia. La tavola era apparecchiata in un salone vicino a quello del ballo, le tavole erano riccamente apparecchiate con vasi di fiori freschi, candelabri d’argento e porcellane finissime. Alcune cene erano, infatti, servite “in piedi”, ovvero ogni

• Laura Rangoni, giornalista e scrittrice; in apertura, la sala da pranzo di Palazzo Reale a Torino dove è in corso fino al 10 maggio 2011 la mostra “Vittorio Emanuele II – Il re gentiluomo”

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TAVOLE REALI Laura Rangoni

• commensale poteva servirsi a piacere, mentre in altre occasioni era previsto che i partecipanti si sedessero e fossero serviti dai domestici. All’inizio del ballo erano serviti zuccherini, violette caramellate, sorbetti, granite, cioccolata, pasticcini e meringhe. Verso la mezzanotte invece veniva servita la cena vera e propria, che consisteva nel famoso risotto alla piemontese con tartufi, rifreddi, paté, pasticcini salati, crostini di cacciagione, galantine, formaggi. Il tutto, ovviamente, abbondantemente innaffiato con vini ottimi e, diremmo oggi, millesimati. Tuttavia, tra i Savoia ve ne sono stati alcuni cagionevoli di salute, costretti quindi dai medici di corte a diete particolari». Quali prodotti in particolare

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amavano i Savoia e quali ricette inventarono? «Dai documenti, pare che una delle cose preferite da quasi tutti i Savoia fossero i tartufi. L’imperatore Carlo V ebbe occasione di mangiare il tartufo bianco d’Alba nel 1537 quando occupò la città. Nel 600 spesso i Savoia mandavano omaggi di tartufi ai potenti del mondo: Luigi XIV, Luigi XV e Maria Teresa d’Austria li hanno apprezzati al punto che si rivolsero spesso ai Savoia per esserne riforniti. I Savoia erano così ghiotti di tartufi che ne tenevano cospicue scorte in cantina, ma erano anche golosi di dolci, in particolare di cioccolato. La madama reale Giovanna Battista nel 1678 concesse a Giò Antonio Ari il privilegio di vendere pubblicamente la cioccolata. Pare che costui per

sdebitarsi abbia inventato per la madama i diablotin, gli antenati dei cioccolatini a forma di pastiglia. Nel 1854 Giovanni Vialardi ne codificava la ricetta: «Fate fondere 60 grammi di buon cioccolato raschiato con 60 grammi di zucchero e tre cucchiai d’acqua. Appena fuso, ben liscio, bollendo adagio, versatelo a gocce grosse sopra la tavola di marmo a forma di caramelle, lasciatele raffreddare, staccatele e servitevene». I diablottini rappresentano ancora oggi una tradizione importante in Piemonte, tanto che se ne contano diverse versioni. E, come è ovvio, dato il territorio che si trovavano a governare, erano quasi tutti molto interessati al vino. Una ricetta particolare è quella del ratafià. Il duca Emanuele Filiberto aveva la passione della distillazione e lui

Sopra, il museo della residenza reale di Palazzo Reale a Torino

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TAVOLE REALI Laura Rangoni

RATAFIÀ DI EMANUELE FILIBERTO Ingredienti · 1 litro di acquavite · 350 g di zucchero · 200 g di petali di garofani non trattati · 300 g di acqua · 5 g di cannella · 5 g di chiodi di garofano

aromatiche. I petali di garofano devono provenire da piante non trattate con anticrittogamici. Prendete i petali e metteteli a macerare nell’acquavite (o nella grappa) assieme ai chiodi di garofano in un vaso a chiusura ermetica per 40 giorni. Preparate uno sciroppo con l’acqua e lo zucchero e fatelo bollire con la cannella Preparazione: per una decina di minuti, quindi fatelo I ratafià sono liquori ottenuto per raffreddare completamente, poi unitelo infusione di frutta, erbe aromatiche e all’acquavite con i petali. Mescolate fiori in alcool rettificato, da cui proviene bene e lasciate riposare per una il nome. Si possono fare con arance, giornata. Filtrate il liquore, fragole, albicocche e vari tipi di frutta, di imbottigliatelo e lasciate riposare le basilico, di angelica e altre erbe bottiglie per un mesetto prima di berlo.

stesso si occupava personalmente di confezionare liquori, rosoli e ratafià. In occasione delle nozze di sua sorella Margherita con il re di Francia Enrico II, inviò diversi regali tra i quali liquori e vini piemontesi fatti da lui. Il re li giudicò ottimi e più volte chiese che gliene fossero mandati altri. Pare che Emanuele Filiberto distillasse personalmente una particolare ratafià al garofano per sua moglie».

Il duca Emanuele Filiberto aveva la passione della distillazione e si occupava personalmente di confezionare liquori Aprile 2011

C’è qualche curiosità legata alla cucina e ai Savoia? «C’è un aneddoto curioso che è diventato un modo di dire. Si sa che per la povera gente un padrone vale l’altro, ma per i contadini delle aspre vallate cuneesi il passaggio dai francesi ai Savoia significò un peggioramento della loro situazione. Con

l’occupazione napoleonica i Savoia erano fuggiti in Sardegna ma, tornati dal loro esilio, promisero ai loro sudditi più poveri una distribuzione di lardo che avrebbe dovuto aiutare questi montanari a superare le prime immediate difficoltà. I contadini speravano moltissimo nella distribuzione poiché il lardo era fondamentale nell’economia chiusa delle valli e poteva essere un ottimo condimento sia per la polenta che per le patate. I Savoia non solo non distribuirono mai quel lardo promesso ma, al contrario di quello che avevano detto, imposero altre tasse che contribuirono a impoverire maggiormente una popolazione già allo stremo delle forze. Da allora il lardo del Savoia è diventato un modo di dire per indicare una fregatura».

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TAVOLE REALI Emanuele Filiberto di Savoia

Banchetti

di corte EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA RIPERCORRE LA STORIA DEI REGNANTI D’ITALIA ATTRAVERSO UN INSOLITO VIAGGIO NELL’ENOGASTRONOMIA

di Nicolò Mulas Marcello avole imbandite curate in ogni minimo dettaglio, dove la luce degli sfarzosi lampadari si rifletteva sulla cristalleria, sulle porcellane e sull’argenteria in attesa delle portate più ricercate. Così si presentavano le sale da pranzo dei palazzi reali in occasione dei ricevimenti che i sovrani d’Italia organizzavano nelle occasioni più importanti. Il cerimoniere di corte proponeva direttamente al sovrano i menù scelti in vista dei pranzi ufficiali. E i pasti di famiglia, nonostante la loro semplicità, prevedevano le specialità preferite dal re. Una cucina raffinata ma legata alla tradizione del nostro paese, con menù che si ispiravano alle ricette regionali e alla gastronomia europea. La cucina era un aspetto

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importante della vita di palazzo in quanto le scelte culinarie servivano anche per far conoscere agli ospiti stranieri la varietà dei piatti italiani. «Dal 1890 – racconta Emanuele Filiberto di Savoia – si è dato molto spazio alle ricette di ogni regione d’Italia per far conoscere al gotha mondiale le prelibatezze di ogni angolo d’Italia». Cosa caratterizzava e come si svolgevano i ricevimenti in Casa Savoia? «I ricevimenti ufficiali avevano un menu particolarmente ricercato. Dal regno di Vittorio Emanuele II a Umberto I, da Vittorio Emanuele III a Umberto II, i ricevimenti erano una sorta di parata della cucina: un abbinamento tra la “veste”, ossia il cartoncino, particolarmente

In questa pagina il filetto di trota alla Brin

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TAVOLE REALI Emanuele Filiberto di Savoia

• curato nella grafica, la cura nella preparazione della tavola, con le migliori porcellane e argenterie di corte, e l’aspetto culinario. Quest’ultimo dal contenuto gastronomico elevatissimo e di grande interesse prendeva spunto dalle migliori ricette europee. Tutto nei pranzi di corte era cadenzato da un rigido cerimoniale diretto dal maestro di cerimonie».

LA VENA LETTERARIA DEL PRINCIPE Emanuele Filiberto di Savoia questa volta si cimenta con la letdal titolo Mi fai stare bene. «. Due anni fa ho ritrovato le bozze di un romanzo che avevo iniziato a scrivere quando ero adolescente – spiega l’erede Savoia – e sono partito da lì. Ho voluto raccontare una bella storia d’amore, di quelle che ti fanno stare bene». Il libro è un romanzo d’amore con qualche richiamo autobiografico. «Nel protagonista Marco – continua Emanuele Filiberto – sicuramente ci sono delle parti di me: nel rapporto con la madre che gli vuol trovare la donna giusta e in certi atteggiamenti interiori del giovane che si nasconde e che si è chiuso dietro a una corazza. Marco, che è un dj, ha scelto la radio come difesa e ha scelto di essere solo una voce». Il libro è ambientato a Roma e ne racconta i suoi profumi e anche gli angoli più nascosti. «Roma è la più bella città del mondo – conclude il principe – è stato facile per me perdermi nei suoi vicoli e descrivere i suoi profumi. Roma l’ho sognata durante tutto il mio esilio e ora Marco la racconta con passione».

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Re Umberto II era un amante della cucina? Come venivano scelti i menù di corte? «Mio nonno amava la cucina del territorio, le ricette regionali. Spesso di nascosto dal suo entourage andava a cena nelle trattorie torinesi o nella campagna romana. Ma in genere in Casa Savoia si prediligevano piatti semplici per i pranzi di famiglia, mai più di tre portate. Soprattutto con Re Vittorio Emanuele III che era conosciuto per i suoi menu estremamente leggeri. Famoso era il suo amato filetto di trota alla Brin, in pratica una trota al vapore con una salsa leggera al vino bianco. A corte i menu dei pranzi ufficiali erano proposti dal cerimoniere di corte direttamente all’attenzione del sovrano». Ci sono ricette particolari a cui è legata la storia della sua famiglia e perché? «In Casa Savoia si è sempre dato ampio spazio alle ricette savoiarde e piemontesi. In modo particolare alla selvaggina. Le quaglie al vino bianco con il saute di patate era uno dei piatti preferiti da Re Vittorio Emanuele III, mentre il

brasato al barolo era un piatto molto amato da Umberto I. Dal 1890 si è dato molto spazio alle ricette di ogni regione d’Italia per far conoscere al gotha mondiale le prelibatezze di ogni angolo d’Italia». L’Italia è per molti il paese con la cucina più variegata. Qual è il suo rapporto con l’enogastronomia italiana e quali sono i suoi piatti preferiti? «Amo la cucina italiana di ogni regione. Ammetto di essere un grande appassionato di pasta, in modo particolare di spaghetti con le vongole. Dopo il mio rientro ho visitato ogni provincia italiana e mi sono reso conto che la nostra cucina è la più variegata del mondo, oltretutto è anche quella qualitativamente migliore grazie alla materia prima del territorio e all’abilità dei cuochi». Prima di venire in Italia conosceva i piatti della tradizione italiana? Quali specialità invece ha conosciuto girando l’Italia? «Conoscevo bene i piatti italiani perché a casa si è sempre mangiato italiano. Ma in Italia ho potuto assaggiare le prelibatezze della tradizione territoriale che era difficile riprodurre all’estero perchè il segreto spesso è nella materia prima. Pensi anche alla pizza, basta l’acqua diversa e cambia completamente il sapore». Sua moglie è francese e lei italiano. In famiglia quale cucina predomina? «Quella italiana assolutamente!».

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Gianni Di Gregorio

CIBO E CINEMA

IL GUSTO NON CONOSCE ETÀ? IL CIBO HA IL POTERE DI UNIRE. COSÌ È NEL FILM “IL PRANZO DI FERRAGOSTO”. IL REGISTA GIANNI DI GREGORIO NE SVELA I RETROSCENA CULINARI

di Francesca Druidi a debuttato tardi dietro la macchina da presa, conquistando però fin da subito ampi consensi. L’aiuto regista e sceneggiatore Gianni Di Gregorio firmava nel 2008 “Pranzo di ferragosto” partendo da uno spunto autobiografico: la proposta di “custodire” la madre dell’amministratore del suo condominio il 15 d’agosto. Una possibile rappresentazione della vicenda è racchiusa nel film: in una Roma trasteverina assolata e deserta, il protagonista Gianni, lo stesso Di Gregorio, si trova costretto a “badare” non solo all’anziana madre (Valeria De Franciscis Bendoni) con cui vive, ma anche ad altre tre arzille mature signore, interpretate da Marina Cacciotti, Maria Calò e Grazia Cesarini Sforza. È lo

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stesso regista romano, oggi nelle sale con “Gianni e le donne”, a raccontare quella dimensione domestica che in “Pranzo di ferragosto” assume un ruolo centrale, dove il cibo, la cucina, il vino, i pranzi e le cene a tavola, costituiscono elementi decisivi. Come nasce il suo interesse per la cucina? «Il cibo e la convivialità sono molto importanti per me, anche per la mia storia personale: fin da piccolo ho imparato a cucinare visto che mia madre lavorava. Si può dire che la mia sia stata una reazione, una tendenza al miglioramento. Poi ho cucinato per mia madre quando era diventata anziana, ho cucinato e cucino per mia moglie e per le mie figlie. Scrivendo sceneggiature, lavoro spesso in casa e ho più tempo da dedicarci. Del resto, il

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Gianni Di Gregorio

CIBO E CINEMA

cibo è legato alla vita, ne è il vero motore: siamo quello che mangiamo. E poi è bello cucinare, nel frattempo si può pensare sorseggiando di tanto in tanto un bicchiere di vino. È un’attività rilassante e creativa». Quale significato assume il cibo in “Pranzo di ferragosto”? «Innanzitutto, durante le riprese si cucinava sempre. Anche perchè le signore richiedevano sempre qualcosa di fresco, di buono, preparato al momento. Il cibo nel film rappresenta un momento di aggregazione, un motivo di grande socialità. Osservavo mia madre quando, soprattutto tra gli 80 e i 90 anni, organizzava pranzetti con le amiche: faceva cucinare qualcun altro, ma erano appuntamenti preparati sempre con cura».

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In una sequenza il personaggio di Grazia Cesarini Sforza mangia di nascosto, e con gusto, la pasta al forno. Il piacere del cibo non conosce, dunque, età? «Anzi, nelle persone più anziane noto un certo piacere nel parlare di quello che mangeranno la sera. Emerge quasi una nota di ricercatezza. Ci si raffina con l’età, mentre da giovani si è spesso incauti nel rapporto con il cibo». Chi ha scelto le ricette presentate nel film? «Un po’ io, un po’ la scenografa Susanna Cascella, che è anche una cuoca bravissima e durante le riprese si dilettava a preparare le varie pietanze, tra cui le lasagne. Nella finzione cinematografica si parla poi, a un certo punto, di

pesce di fiume pescato, ma in realtà abbiamo usato filetti di pesce persico molto buono». Lei è un esperto di vini. D’altronde, nel film, Gianni ama consolarsi delle sue fatiche con un bicchiere di “bianchetto”. «Sì, sono un bevitore di vino, soprattutto bianco. I bianchi italiani, in particolare i veneti, sono i benvenuti. Nel film ho citato anche il francese Chablis, ma è un regalo che mi faccio solo ogni tanto».

Sopra, un’immagine dal film “Pranzo di ferragosto”. Nella pagina a fianco, Gianni Di Gregorio

Qual è la sua specialità? «Tutti mi dicono che so preparare bene gli spaghetti alla carbonara, con guanciale, uovo e formaggio pecorino. Semplice ma efficace, emblema della romanità».

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Spettatori del gusto DIETRO LE QUINTE DI GAMBERO ROSSO CHANNEL. SFACCETTATO IL PALINSESTO, UNICO IL FILO CONDUTTORE: «RIGORE E LEGGEREZZA». NE PARLA CARLO OTTAVIANO

di Paola Maruzzi Gusto • 382

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Car lo Ottaviano

CIBO E TELEVISIONE

ari telespettatori, qual è il modo più elementare di viaggiare? Praticare la cucina”. Mentre il boom economico iniziava a cambiare anche i costumi alimentari, Mario Soldati introduceva così il primissimo programma dedicato all’enogastronomia, “Viaggio nella Valle del Po”: un reportage in dodici puntate dedicato alla riscoperta dei sapori genuini, una sorta di manifesto del made in Italy nettamente in anticipo sui tempi. Dal bianco e nero al colore, il testimone passa ad Ave Ninchi - la prima donna a cimentarsi ai fornelli sul piccolo schermo - e alle telecamere di “Colazione allo studio 7” che, seppure in forme diverse e forse meno popolari, può essere considerato l’antesignano anni Settanta della “Prova del cuoco”. Di regia in regia, il cosmo dell’intrattenimento culinario si arricchisce e cambia, assieme al suo pubblico, «che è diventato più consapevole e quindi anche più esigente» svela Carlo Ottaviano, direttore di Gambero

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Rosso Channel, la prima emittente esclusiva del settore. La nascita della tv specializzata segna così un punto di svolta. Qui approdano gli «spettatoriappassionati. Hanno tra i 25 e i 54 anni, un’alta scolarizzazione, buone capacità di spesa e, soprattutto, sono tremendamente curiosi. Oltre alla ricetta, vogliono scoprire l’origine del piatto, la sua evoluzione. Poi c’è un nuovo pubblico, che “stuzzicato” da alcuni format della tv generalista, fa uno step successivo». Dopo il passaggio dalla Rai a Sky, dieci anni di messa in onda, ventiquattro ore su ventiquattro di programmazione, la sfida editoriale di Gambero Rosso Channel è non scadere nella “solita minestra”, ma fare scuola e tendenza. «La cucina è una materia creativa, un argomento infinito – spiega Ottaviano – ecco perché non annoia. Ha sempre catalizzato l’attenzione mediatica ma, senza nulla togliere alla tv generalista, che pure ha contribuito a fare storia, qui l’avanspettacolo non è tutto. La cultura culinaria va

In apertura, lo chef Antonio Santin ; in questa pagina, Mario Soldati alle prese con Viaggio nella Valle del Po, andato in onda nel 1957

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CIBO E TELEVISIONE

Carlo Ott aviano

VITO, IL BUONGUSTAIO DELLA COMICITÀ La cipolla che soffrigge, il sugo che comincia a prendere corpo, l’odore del ragù che invade la platea: il debutto teatrale di Stefano Bicocchi, in arte Vito, mette in scena il gusto forte della tradizione emiliana. L’episodio non rimane isolato, ma battezza quello che nel tempo si rivela essere un vero e proprio chiodo fisso. «Nei miei spettacoli c’è sempre un accenno, visivo o verbale, alla cucina». Legittimo, quindi, chiedere il perché. «Sono figlio di uno chef. Il culto del cibo è di famiglia. E, se devo essere sincero fino in fondo, tra le tante prelibatezze preparate dai miei tanti amici chef, continuo a preferire la lasagna di mio padre. Adoro mangiarla calda, fredda, col sugo, senza, seduto a tavola e “spiluccarla” in piedi mentre è ancora in corso di preparazione». Viste le premesse, non stupisce che l’attore bolognese abbia condotto brillantemente il programma InVito a teatro, andato in onda su Gambero Rosso Channel. «In ogni puntata, trasformavo i camerini di famosi colleghi in improvvisate cucine». Incuriosisce, quindi, sapere se nell’avanspettacolo esistano cibi “vietati”. «Figuriamoci, gli attori hanno una fame atavica. Altro che scaramanzia». Prosegue, invece, l’altro format televisivo che lo vede protagonista, Piattoricco. In cantiere, Vito si prepara a misurarsi con seguito di Lezioni di cioccolato, regia di Claudio Cupellini, mentre le librerie stanno per sfornare la sua personalissima summa gastronomica. «Un corollario di 120 ricette rigorosamente firmate da me».

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• approfondita, affrontata da un punto di vista rigoroso, quasi accademico. Un po’ come Pellegrino Artusi, viaggiamo attraverso le tipicità e le eccellenze nostrane, facendo però attenzione alle contaminazioni». E così la filosofia di Gambero Rosso non è solo quella di farsi roccaforte dei sapori del tricolore «ma anche esplorare gli orizzonti culinari stranieri. L’etnico ha ormai un peso rilevante nel nostro palinsesto e, sorprendentemente, fa audience». Fusion è la parola d’ordine. D’altronde la stessa tradizione non ha mai conosciuto confini.

«Pensiamo agli spaghetti al pomodoro, per antonomasia il piatto nazionale. Eppure la pasta è stata importata da Marco Polo, mentre il pomodoro viene dal Messico». Bianca Perugia, curatrice dell’organizzazione del canale e responsabile dei palinsesti, fa zapping tra quelle che saranno le news delle prossime stagioni. «Stiamo per lanciare un programma tipicamente primaverile con al centro le conserve. Poi partirà un format inedito, giocato sul ribaltamento degli stereotipi: la donna andrà a caccia, l’uomo sarà ai fornelli. A

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Novità assoluta, il talent show “La scuola” è una vera e propria palestra di cucina, dove si va a lezione dai grandi chef

In queste pagine, gli allievi de La scuola, edizione 2011

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settembre andrà in onda “Gamberetto”, dedicato ai bambini». In definitiva la voce catodica del Gambero è autorevole ma sfumata, leggera e persino comica se in onda c’è Piattoricco, il gameshow condotto dal “diavolo e l’acquasanta”: Gianpiero Mancini e Stefano Vito Bicocchi. «Si può parlare di cucina anche giocando, contribuendo a sdoganare il mondo degli chef stellati che, fino a qualche anno fa, era invalicabile». In tale direzione, va la seconda edizione del

programma “La scuola”, il talent show gastronomico italiano, condotto da Francesca Barberini. «Gli allievi, seguiti dal maestro Igles Corelli, si affronteranno a colpi di ricette. Il vincitore avrà l’opportunità di condurre un programma tutto sulla nostra emittente», spiega la Bianca. Il cortocircuito tra cucina e riflettori fa ancora “scintille”, producendo giovani promesse. «Sono Roberto Valbusa e Michael Ponticelli, entrambi grandissimi comunicatori. Hanno 46 anni in due e, alla luce del successo che hanno già riscosso, vanno tenuti d’occhio».

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CIBO E TELEVISIONE

Igles Corelli

Backstage dello chef stellato LONTANO DALLA TIPICITÀ A TUTTI I COSTI, VICINO AL GRANDE PUBBLICO. IGLES CORELLI, AVANGUARDIA DELLA CUCINA D’AUTORE, RACCONTA IL MESTIERE DELLO CHEF-ANCHORMAN

di Paola Maruzzi

etti dei giovani talentuosi, un pizzico di agonismo, una giuria di esperti, le telecamere che stringono sulle mani a lavoro e le lezioni di alta cucina confezionate da Igles Corelli. Il risultato è La scuola, lo show televisivo dove a brillare è l’arte da sempre relegata alla segretezza. È l’ultima avventura mediatica intrapresa dallo chef ferrarese, considerato dalla critica tra gli esponenti di spicco dell’avanguardia gastronomica italiana. Dalla televisione pubblica ai canali Mediaset, Corelli non ha mai fatto mistero di apprezzare la popolarità del grande pubblico, passando con

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disinvoltura dallo stupire forchette d’eccezione - Bil Clinton, la regina di Svezia, il principe Ranieri di Monaco all’immediatezza comunicativa del piccolo schermo. La cucina trapiantata in tv è una formula riuscita, soprattutto se il re dei fornelli, narcisista per professione, diventa tutor e dispensatore di buoni consigli. Preparare un piatto sotto i riflettori. Cosa cambia? «Assolutamente nulla. L’impegno e la passione sono gli stessi, anzi sapendo che ci sono spettatori incollati allo schermo, si è ancor più precisi. In tv è fondamentale comunicare le informazioni giuste, in modo

semplice e trasparente. Cucinare sotto le telecamere è quindi un po’ una cartina di tornasole: conferisce credibilità allo chef». Molti telespettatori appassionati di cucina lamentano un’eccessiva spettacolarizzazione dei piatti, impossibili da riprodurre a casa. Cosa risponde? «La cucina d’autore proposta nel piccolo schermo deve avere un risvolto utile. Bisogna trovare il giusto equilibrio, abbassando il livello di difficoltà, magari soffermandosi sui passaggi critici e, soprattutto, proponendo ricette le cui materie prime siano facilmente reperibili. Il tutto senza

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Igles Corelli

CIBO E TELEVISIONE

spiattellare i trucchi del mestiere. Una certa dose di mistero non guasta». In tv ha vestito i panni del maestro. Che consigli darebbe a un giovane che sogna di arrivare nell’olimpo degli chef stellati? «Di lavorare, essere umile, fare ricerca, studiare molto e misurarsi con l’esperienza. Ma c’è una cosa che non s’impara sui libri: l’attitudine alla creatività. Se c’è, si vede dal guizzo dello sguardo». E alla casalinga di Voghera, che non “sa più cosa inventarsi”? «Di continuare a fare i suoi “soliti” piatti, che sono i più

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buoni del mondo». È in un ristorante: qual è la prima cosa che valuta quando le viene servito un piatto? «Il profumo. Prendo in mano il piatto e ci metto il naso dentro. Poi interpreto i colori, insomma esamino l’aspetto complessivo. Ma attenzione a non farsi ingannare dalla confezione. Può colpire a prima vista ma quello che rimane è la sostanza, l’eccellenza del sapore». Qual è il suo capolavoro culinario? «Giro la domanda alla mia clientela, che più di tutto preferisce la cacciagione, che rivisito aggiungendo dettagli

inconsueti, qualcosa che trasmetta emozione». Piatti d’autore protetti dal copyright. Cosa ne pensa? «Mi fa sorridere, non ha molto senso, basterebbe cambiare una virgola per aggirare il problema. Più che parlare di copyright bisognerebbe ripensare con più rigore alla professionalità degli chef».

Francesca Barberini e Igles Corelli assieme agli allievi de La scuola, il talent show in onda su Gambero Rosso Channel

La cucina italiana ha perso qualcosa? «Se negli anni Settanta ci siamo, per così dire, svuotati di alcune tradizioni legate alla cultura contadina, oggi la cucina di ricerca sta rientrando nei ranghi, nel senso che prevale uno spirito archeologico: gli

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CIBO E TELEVISIONE

Igles Corelli

SPINOSINO CON CARCIOFI, POLVERE DI CAVOLO VIOLA E SALSA CRUDA DI GAMBERI VIOLA Ingredienti per 4 persone · 200 g di spinosini · 20 g di polvere di cavolo viola · 3 carciofi violetti · 10 teste di gamberi rossi di Sanremo · 30cl. di acqua gassata · uno spicchio d'aglio rosso di Nubia · due rametti di fiori di melo · olio (unto della strega di Uzzano) · sale di Cervia · pepe q.b. Preparazione: Sfogliare il cavolo viola mettere le foglie in forno a 70° per 12 minuti e frullare fino alla polverizzazione.

Tagliare i carciofi a listarelle, saltarli in padella con l'aglio in camicia e un filo d'olio salare e pepare e tenerli in caldo. Frullare le teste dei gamberi con l'acqua gassata, filtrare da un colino fine salare e pepare. Cuocere gli spinosini in un brodo di sogliola, scolarli e saltare in padella con i carciofi. Presentazione: In una fondina velare il piatto con la salsa delle teste, mettere gli spinosini a nido con i carciofi spolverare con la polvere di cavolo viola e guarnire con fiori di melo.

Al giovane chef consiglio di lavorare, essere umile, fare ricerca, studiare molto e misurarsi con l’esperienza

• chef esplorano, vanno a bussare alla porta dei contadini. In questo modo i piccoli produttori che rischiavano di sparire, ora sopravvivono perché i loro prodotti entrano nei grandi menù. Il tutto senza fossilizzarsi sul chilometro zero. Bisogna invece calpestare il territorio nazionale, prediligere le eccellenze locali ma tenere gli occhi ben aperti anche su altro». Il chilometro zero non va d’accordo con l’alta cucina? «Lo ritengo un fenomeno indubbiamente interessante, a patto che non diventi una gabbia mentale. Creare significa andare al di là del proprio orto. Se nel mio chilometro trovo

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l’aglio di Voghiera, che è presidio Slow Food, ma ritengo migliore quello coltivato a Nubia, non vedo perché dovrei limitarmi nella scelta». Di cosa, invece, si è arricchita? «Di contaminazioni. Non si può non riconoscere che la cultura culinaria italiana si sia evoluta di pari passi con le invasioni di popoli stranieri. È accaduto prima e accade ancora oggi, fortunatamente. Ben vengano i nuovi stimoli. Bisogna avere il coraggio di guardarsi intono ma, come diceva il maestro che mi ha insegnato a fare della cucina un’arte, senza “pastrocchiare”».

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Banchetto di verità e bizzarrie RENZO PELLATI RACCONTA STORIE E ANEDDOTI SU ALIMENTI E RICETTE DELLA CUCINA ITALIANA. CURIOSI, PICCANTI, SCIENTIFICI E SUCCULENTI

di Adriana Zuccaro

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Renzo P ellati

CIBO E STORIA

osa accadrebbe se le etichette alimentari “raccontassero” la storia del prodotto, anziché riportare le informazioni tecniche sugli ingredienti e la loro provenienza? Quale divertente stupore potrebbe suscitare la scoperta che l’autentico tiramisù nasce per alimentare gli incontri piccanti in antiche “case chiuse”? O che il pomodoro, fino alla fine del Settecento, si utilizzava come pianta ornamentale? Lo scrittore ed esperto di storia dell’alimentazione, Renzo Pellati, di aneddoti, curiosità e studi scientifici condotti sugli alimenti che popolano oggi le nostre tavole, ne ha raccolte davvero tante. E con il suo ultimo libro La storia di ciò che mangiamo svela segreti, ricette, protagonisti, miti e pregiudizi legati alla nostra cucina che non mancano di stuzzicare la voglia di sapere, e spesso, anche l’appetito.

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Tra i tanti prodotti che hanno “alimentato” non solo la sua curiosità scientifica, quali possono scandire le varie tappe evolutive della storia della

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cucina italiana? «Sono molti. Dalle più ricche portate servite al famigerato banchetto di Trimalcione al contributo degli arabi nel confezionare i cilindretti di pasta forati come i nostri maccheroni per velocizzarne l’essiccazione; dagli splendori conviviali di Caterina De Medici alle numerose novità che la scperta dell’America ha introdotto in cucina. La storia dell’alimentazione italiana è un susseguirsi di scoperte rivoluzionarie, aneddoti curiosi e notizie davvero interessanti».

Renzo Pellati è specialista in scienza dell’alimentazione e igiene. In apertura, la “Cena in Emmaus” di Caravaggio, utilizzata per la copertina del libro La storia di ciò che mangiamo di Renzo Pellati

Qualche caso particolare? «La storia della vera nascita dei babà, ad esempio, toglie a Napoli l’orgoglio della paternità. Il dolce di pasta morbida lievitata, imbevuto di sciroppo al rhum fu, infatti, inventato dal re di Polonia Stanislao Leszczynsky, che lo battezzò Alì-Babà in omaggio al suo personaggio preferito della raccolta Le mille e una notte di cui durante l’esilio era divenuto fedele lettore. Quando il dolce giunse a Parigi venne commercializzato semplicemente come Babà. Qualcuno poi sostiene che la

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Renzo Pellati

CIBO E STORIA

• nascita di un altro dolce tipico italiano, il tiramisù, sia avvenuta nel 1969 in una “casa chiusa” di Treviso e che serviva a ristorare gli incontri piccanti che avvenivano con le disinvolte signorine».

Il pepe indusse nel 1498 il portoghese Vasco De Gama a sbarcare in India per impadronirsi di questo prezioso vegetale

Dai dolci agli ortaggi. Qual è la vera storia del pomodoro? «Pur rappresentando un ingrediente caratteristico della nostra cucina - basta pensare agli spaghetti alla “pommarola”, alla pizza margherita e a un consumo pro capite oggi stimato in 50 Kg solamente dai primi dell’Ottocento il pomodoro entrò a far parte dei cibi della nostra tavola. Prima era una pianta decorativa da tenere in casa o sul balcone per il piacevole color rosso o da offrire ad amici e parenti come segno di riconoscenza o di amore. Nel Cinquecento alcuni botanici diffusero l’errata convinzione che la pianta di pomodoro fosse velenose; altri che fosse afrodisiaca: da lì il termine francese “pomme d’amour” e l’inglese “love apple”, anche se l’impiego del pomodoro in questa direzione non ebbe successo». E della patata? «La patata è arrivata in Europa nella seconda metà del Cinquecento: i centri di origine sono Perù, Bolivia, Messico. Quando gli spagnoli invasero l’impero Incas trovarono anche le patate ma non ci fecero caso: potevano aiutare a vincere la fame ma nessuno voleva mangiarle perché erano brutte, sporche,

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crescevano nella terra e si credevano tossiche. Paradossalmente si mangiavano le foglie e i germogli che contengono un veleno. Bisogna dire grazie ai chimici e ai bromatologi che riuscirono a imporre la patata, sottolineandone il valore nutritivo. Di fatto, oggi molti credono che l’alimentazione odierna sia peggiorata rispetto al passato. La realtà ci dimostra il contrario: le tecniche della produzione, conservazione e distribuzione dei cibi hanno fatto passi da gigante e la scienza dell’alimentazione ha ormai basi solide per poter elargire suggerimenti fondati su studi approfonditi e risultanze certe». Quali sono i principali luoghi comuni che hanno nel tempo contaminato la cucina italiana? «Nonostante l’interesse per la gastronomia, il consumatore italiano è scarsamente documentato sugli stretti legami che intercorrono fra alimentazione e salute. Si continua a dire che il pesce fa bene alla memoria, che la frutta va mangiata solamente lontano dai pasti, che le uova rovinano il fegato, che la carne e la pasta non vanno inclusi nello stesso pasto, che per dimagrire meglio servono erbe e tisane: tutti luoghi comuni che non hanno nessuna validità scientifica». Il nome di un cibo o di una ricetta può testimoniarne l’origine territoriale. Quindi la cotoletta alla milanese è stata preparata per la prima volta davvero a Milano?

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Renzo P ellati

CIBO E STORIA

«Alcuni credono che gli austriaci, nei lunghi anni di dominazione lombarda, abbiano insegnato ai milanesi come si cucina la famosa “milanese”: a dimostrazione della sua origine italiana è citato un documento in cui il maresciallo Radetzky, impegnato in moti rivoluzionari, trova il tempo per descrivere un piatto straordinario gustato a Milano, testimoniando quindi che la specialità milanese è precedente a quella viennese. Un’altra prova si può rilevare dalla lista delle vivande offerte nel 1134 ai canonici di Sant’Ambrogio nel giorno della festa di San Satiro, citato nella Storia di Milano di Pietro Verri, che comprendeva un pasto di

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nove portate fra cui i “lombulos cum panitio”, cioè piccole lombate passate nel pangrattato che altro non erano se non “costolette alla milanese”». Tra le tante scoperte che hanno preceduto la stesura de La storia di ciò che mangiamo, quel è per lei la più affascinante? «Il sapore piccante del pepe ha sempre suscitato interesse perché la chimica bromatologica non aveva ancora individuato le sostanze responsabili (piperina, piperidina) dell’attività rivolta a stimolare la secrezione salivare e gastrica. Alcuni storici sostengono che le spezie

venivano usate per mascherare i sapori dei cibi più o meno deteriorati mentre altri, che rappresentavano uno “status symbol” di coloro che avendo molti quattrini potevano utilizzare in cucina dei sapori ricercati. Il pepe indusse nel 1498 il portoghese Vasco De Gama a sbarcare in India per impadronirsi di questo prezioso vegetale. Mentre già Cristoforo Colombo sbarcato nel Nuovo Mondo fu stupito di non trovare il pepe, e per consolazione, descrisse con entusiasmo un altro alimento dal sapore piccante: il peperoncino, che però non risultò un grande business perché era facile da coltivare».

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Dove nasce

iltartufonero MONDOVÌ È UNA DELLE COSIDDETTE “SETTE SORELLE” DELLA PROVINCIA DI CUNEO, SITUATA AI PIEDI DELLE MONTAGNE E A MEZZ’ORA DALLA RIVIERA LIGURE. IL SINDACO STEFANO VIGLIONE E L’ASSESSORE ALLA CULTURA, MARCO MANFREDI, CI GUIDANO TRA I SAPORI DI QUESTA TERRA

di Tiziana Achino Gusto • 396

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PROVINCIA D’ITALIA Mondovì

el paese dei cento campanili ha senso parlare di un’unica cucina italiana? Forse sarebbe più corretto parlare di più cucine regionali, espressione di menù che spesso variano a seconda delle province, dove ognuno ha il proprio modo di interpretare i piatti della tradizione, marchio inconfondibile del territorio da cui provengono. In questo viaggio gastronomico nella provincia italiana, ci fermiamo a Mondovì, nel Cuneese, patria del tartufo nero ma non solo. Ad accompagnarci in questo tour gastronomico alla scoperta dei prodotti locali sono Stefano Viglione e Marco Manfredi.

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Sindaco Viglione, quello monregalese è un territorio legato a tradizioni e cultura del gusto? «La buona tavola è senza dubbio un elemento che non manca nella cucina monregalese: molte le specialità tradizionali, frutto soprattutto delle produzioni di eccellenza che rappresentano le nostre radici culturali. Per valorizzare ulteriormente questo patrimonio del gusto abbiamo recentemente promosso la realizzazione del “Mercato contadino”, con prodotti a km zero e dove i consumatori potranno acquistare frutta e verdura del territorio. Giusto poi ricordare il tartufo nero del Monregalese, eccellenza gustosa delle nostre terre, che è anche il re incontrastato di “Peccati di gola”, la ker-

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messe che ogni anno Mondovì dedica al gusto. E come dimenticare i vini? A questo proposito, recentemente il Comune ha approvato la costituzione della “Strada del Vino Dogliani”, che si pone l’obiettivo di valorizzare l’identità enologica del territorio». Quali eventi caratterizzano Mondovì per l’enogastronomia e il tartufo? «Come già accennato, ogni anno dal 31 ottobre al 2 novembre il Comune organizza “Peccati di gola”, una kermesse di riconosciuto prestigio e che la Regione Piemonte ha insignito del titolo di Fiera regionale del Tartufo. Si tratta di una vetrina delle eccellenze della nostra terra e dei suoi prodotti che qui trovano la giusta esaltazione e riconoscimento: un evento teso non solo a dare adeguato risalto a quelle piccole produzioni che troppo spesso non trovano adeguato spazio nella distribuzione tradizionale di largo consumo, ma anche a valorizzare quella cultura del gusto che l’omologazione della nostra epoca mette in crisi. La fiera è un viaggio alla scoperta dei sapori del Monregalese, nel quale ci accompagnano qualificati espositori che offrono una vetrina delle migliori produzioni e ci fanno riscoprire non solo le ricette di un tempo, ma anche le geniali elaborazioni di autentici artisti del gusto». Assessore Manfredi, cosa può trovare un turista nel vo-

stro territorio? «Il monregalese presenta delle attrazioni e dei punti di eccellenza sia per il paesaggio naturale presente, caratterizzato dallo skyline delle Alpi Marittime fino al Monviso, sia per il costruito, ricco di storia dell’architettura. A questo si affianca un gusto ricercato del cibo nei luoghi di produzione, con un sapore di tradizioni e di giusta innovazione, come sempre i monregalesi hanno saputo fare. La presenza sia di prodotti di enogastronomia sia dell’Istituto Alberghiero di fama internazionale, e la presenza di ristoranti “stellati”, rafforzano il pregevole contesto di Mondovì e dei dintorni».

Sopra, Stefano Viglione, sindaco di Mondovì e Marco Manfredi, assessore alla Cultura

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PROVINCIA D’ITALIA Gianni Ferrero

Tra nero e bianco GIANNI FERRERO È PRESIDENTE ONORARIO DELLA CONDOTTA SLOW FOOD DEL MONREGALESE E VALLE TANARO E IDEATORE DI DIVERSI EVENTI ENOGASTRONOMICI IN UN TERRITORIO CHE MANTIENE LE SUE RADICI STORICO-CULTURALI, LEGATE A TRADIZIONI COME IL TARTUFO NERO, GIÀ RACCOLTO E GUSTATO DALLA DINASTIA DEI SAVOIA

di Tiziana Achino

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PROVINCIA D’ITALIA Gianni Ferrero

l principe è il tartufo nero del Monregalese, tubero “gemellato” con il bianco che nasce nelle vicine Langhe, e che offre il suo penetrante aroma a molti piatti del territorio. Poi c’è il Tuber magnatum Pico, quello bianco, la specie più preziosa sia dal punto di vista gastronomico che da quello prettamente economico. Entrambi fanno di Mondovì «una città vocata al tartufo per quasi tutto l’anno». Gianni Ferrero, nato e vissuto nella provincia di Cuneo, traccia l’itinerario gustoso del Monregalese.

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Cosa rappresenta il monregalese dal punto di vista enogastronomico? «Tradizionalmente Mondovì è terra di tartufi. Prima che i viali cittadini fossero asfaltati capitava spesso di incontrare, specie di notte, i “trifolau” (ricercatori di tartufi) con i loro cani che cercavano il Tuber magnatum Pico (il prelibato tartufo bianco). Ancora oggi lungo i prati che costeggiano la strada che unisce il Borgo di Breo a quello di Piazza è facile trovare trifolau e cani all’opera. Inoltre, che Mondovì sia città vocata al tartufo lo dimostra il fatto che il periodo di raccolta si protrae per quasi tutto l’anno in quanto finita la stagione del tartufo bianco (da fine settembre a tutto dicembre) il territorio offre una notevole quan-

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tità di tartufo nero: da maggio a dicembre il Tuber Aestivum, dalla metà di novembre a tutto marzo il Tuber Melanosporum. Quindi a Mondovì e nel monregalese tartufi tutto l’anno. Per valorizzare il tartufo nero monregalese si è avviato un apposito evento, che si auspica possa diventare una manifestazione riconosciuta a livello nazionale e affiancare altri appuntamenti rilevanti come quello ormai riconosciuto a livello internazionale che riguarda il tartufo di Alba. La manifestazione enogastronomica più nota che si svolge a Mondovì è “Peccati di Gola”, vetrina di valorizzazione dei prodotti locali, che coincide con la Fiera regionale del Tartufo, giunta nel 2010 alla quindicesima edizione». Come va utilizzato il tartufo nero? «Sembrerà strano ma in realtà il tartufo nero va mangiato cotto. A tal proposito stiamo attuando un’opera di sensibilizzazione per poterlo meglio gustare e apprezzare. Non siamo ancora tutti consci della ricchezza che abbiamo e per questo stiamo cercando di informare i consumatori sul tartufo nero, che era già utilizzato nella cucina dei Savoia, soprattutto cotto, in quanto acquisisce profumo e sapore. Ma attenzione, il nero e il bianco hanno caratteristiche ben diverse! Quello bianco ha

un delizioso aroma, il nero invece ha un gusto e proprio per questo va utilizzato cotto e non aggiunto a crudo sulle preparazioni di cucina. Lo insegnano i grandi cuochi di Casa Savoia. Il tartufo monregalese trova ottimo abbinamento con la fonduta preparata dagli esperti - ma anche dalle casalinghe - con un particolare formaggio d’alpeggio, la raschera, che si produce a circa novecento metri di altitudine».

Gianni Ferrero, presidente onorario della condotta Slow Food del Monregalese

Qual è la particolarità di questo formaggio? «I profumi e sapori diversi della raschera derivano dalle erbe che mangiano i bovini in diversa stagione: dalla genzianella ai rododendri. I bovini vengono portati all’alpeggio ad alta quota ogni anno a giugno e ritornano a valle a settembre. Il latte utilizzato per la raschera di alpeggio è esclusivamente ottenuto da bestiame portato in alpeggio e pertanto è prodotto soltanto nei mesi in cui le mucche sono in montagna. Per quanto riguarda un’altra vallata, la Val Casotto, è stata rivitalizzata, grazie alla struttura dove avviene la stagionatura dei formaggi tipici curata da Beppino Ocelli, aperta al pubblico che vuole visitarla per seguire i trattamenti di questi prodotti tipici».

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