Gusto 05 2010

Page 1








SOMMARIO

26 68 Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .14 Marco Zanzi Roberto Burdese Il punto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .18 Giancarlo Galan

L’Emilia Romagna in tavola . . . . . . . . .74 Il culatello di Zibello La mortadella bolognese Il Prosciutto di Parma La salama da sugo L’aceto balsamico di Modena

Cultura enogastronomica . . . . . . . . . . .22 Jean-Robert Pitte

Tradizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .94 La pasta fresca

Copertina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .26

Ricordi di cucina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .100 Paolo Cevoli, Roberto Pazzi, Franco Maria Ricci

Claudia Cardinale

L’aristocrazia a tavola La tradizione popolare Sapori di Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .50 Pippo Baudo, Pietrangelo Buttafuoco, Nino Frassica, Giampiero Mughini, Stefania Prestigiacomo, Antonino Zichichi

Igp del Veneto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .106 Asparago bianco di Cimadolmo Riso vialone nano Veronese Ciliegia di Marostica Radicchio di Treviso

A tavola con filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . .62 Nicola Perullo

Pasticceria italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . .122 Vicenzi

Il cibo come identità . . . . . . . . . . . . . . . . . .68

Profumi veneti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .124 Mario Moretti Polegato, Federica Pellegrini, Flavio Tosi

Angelo Varni

Il trattamento delle carni . . . . . . . . . . .130 San Daniele del Friuli I salumi

Gusto • 10

Maggio 2010



SOMMARIO

194

L’olio toscano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .134 Il frantoio del Colle L’Italia dei vini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .138 Cantina Custoza Viticultori associati di Canicattì Terra d’Aligi Tenuta Pepe Il prosecco Il Soave Le bollicine Cartizze Vigna La Rivetta Tradizione casearia . . . . . . . . . . . . . . . . . .164 Il formaggio di fossa La Casatella La Burgonza

Rubriche Cibo e arte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .170 Alex Revelli Sorini L’arte di ricevere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .176 Filippo Romano Il sapore delle immagini . . . . . . . . . . . .184 Gian Luca Farinelli Benvenuti a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .190 Bologna

Gusto • 12

230 Sulle rive del Garda . . . . . . . . . . . . . . . . . .194 Il pesce d’acqua dolce Dove e perché . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .208 Camillo Langone Il valore del fatto a mano . . . . . . . . . . .212 Dagli antichi ricettari Educazione alimentare . . . . . . . . . . . . .215 Giorgio Calabrese Alberto Bauli La Brasserie de Milan Terrazza Danieli Formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .230 Gualtiero Marchesi Valter Cantino Carlo Petrini Massimiliano Bruni Sicurezza alimentare . . . . . . . . . . . . . . . .246 Efsa Appuntamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .252 Cibus

Maggio 2010



EDITORIALE

Il banchetto

di Alcinoo di Marco Zanzi

G

usto, rinnovato nei contenuti e nella forma per volontà della sua editrice Maria Elena Golfarelli, organizza un banchetto con i suoi lettori. Un Convito sul modello di quelli dell’età eroica, quella di Omero. Un immaginario gigantesco megaron arredato da tavoli, sedie, panche, sgabelli accoglierà i nostri tanti ospiti-lettori, i quali non saranno distesi sui triclinii ma seduti, come si conviene nell’età degli eroi. La tavola sarà riccamente apparecchiata con stoviglie di forme svariate e di materiali preziosi, per rendere loro onore e su di essa il cibo farà bella mostra di sé. E saranno allietati dal “canto” degli aedi. L’Aedo che sa incantare la mensa, viene sempre grandemente rispettato. Al banchetto di Alcinoo “Bello è l’udir cantor, come Demodoco, di cui pari a quella d’un dio suona la voce…”.

Gusto • 14

Quindi dalle nostre “cucine” arrivano le “portate”. Protagonisti di questo numero di Gusto sono i prodotti e la cucina della Sicilia; le verdure Igp e Dop del Veneto; la “civiltà del maiale” dell’Emilia; Cibus, la fiera del gusto di Parma; il pesce d’acqua dolce del Garda; le università e le scuole del gusto e della cucina italiana. Il punto di riferimento sarà comunque il nesso tra prodotto e territorio, inteso quest’ultimo come elemento imprescindibile per la corretta comprensione di un’identità gastronomica complessa e variegata come quella italiana. La ricchezza di terroir differenti, che caratterizzano il nostro Paese, è l’elemento basilare per lo sviluppo delle diverse realtà territoriali che, già a partire dall’800, si trovano a interagire con crescente intensità, fino a dar vita a un sistema ampio che consideriamo la nostra identità gastronomica nazionale.

Ad accompagnarci saranno le parole di “aedi” d’eccezione: produttori, gourmet, cuochi, sommelier, gran cerimonieri, principi, ministri della Repubblica, filosofi, storici, accademici, artisti, letterati, uomini di spettacolo e di sport, politici e altri ancora. Daranno consigli, faranno riflettere, informeranno, faranno sorridere, rivolgendosi a un pubblico di lettori ampio e appassionato. Sempre più ai nostri giorni le modalità con le quali ci si rapporta al cibo hanno costituito oggetto di interesse e di discussione da parte di tanti che sono gli “addetti ai lavori”, ma anche da molte altre persone che sempre più acquisiscono coscienza dell’importanza e del valore della buona tavola. Ed ecco arrivato il momento di dire, con le parole di Alcinoo, “che l’ospite venga a cena glorioso nel cuore”.

d

Maggio 2010




EDITORIALE

cibo è territorio di Roberto Burdese

I

l legame tra cibo e territorio è così stretto e indissolubile che si dovrebbe sostituire la congiunzione con il predicato. Il “cibo è territorio”. Se i territori fossero semplicemente suolo, supporto fisico alla produzione alimentare, avremmo calorie, lipidi, fibre, proteine... sterili valori chimici. Ma il cibo è un’altra cosa. Il cibo è parte intete della nostra identità, della nostra storia, del nostro clima, del nostro modo di distinguerci dagli altri, l’unico modo che abbiamo di conoscere gli altri e noi stessi. L’Italia è un esempio straordinario di questo legame con le sue innumerevoli identità ed eccellenze agroalimentari. Non a caso vantiamo il maggior numero di Dop in Europa, lungo tutta la Penisola nascono (sarebbe meglio dire rinascono) mercati contadini, e dal canto suo Slow Food con i propri Presìdi tutela e valorizza quei prodotti appartenenti alla tradizione agricola e alimentare in pericolo d’estinzione. Abbiamo la consapevolezza del nostro patrimonio, ma sappiamo anche che molti sono i problemi e i pericoli. Diciamolo chiaramente: senza legame col territorio, il cibo perde elementi di

Maggio 2010

qualità e perde soprattutto il carattere culturale. Battiamoci per questo perché già il nostro cibo quotidiano si è quasi completamente slegato dal territorio. I moderni sistemi di distribuzione ormai condizionano la produzione: oggi in larga parte l’agroindustria ha abolito (per necessità più che per scelta) la relazione con il territorio. In nome del mercato e del profitto abbiamo compromesso gli ecosistemi, assottigliato la biodiversità, standardizzato i gusti e spesso calpestato i diritti dei lavoratori. Con l’esplosione della globalizzazione il cibo è stato definitivamente sradicato dal suo contesto storico, è diventato mera merce. E allora l’alimento inteso con semplici valori economici e chimici (come dicevamo prima lipidi, fibre, proteine...) ci sta mangiando: divora l’ambiente, i contadini, i consumatori. Demolisce il territorio, sia come concetto che materialmente. Il nuovo progresso, il possibile sviluppo futuro stanno proprio nel tornare a stabilire i giusti rapporti, le giuste priorità: cibo e territorio, cibo è territorio. E chi può farlo meglio del nostro Paese, emblema

mondiale della buona tavola? Slow Food farà la sua parte, come sempre: “cibo +/= territorio” sarà lo slogan del Salone Internazionale del Gusto 2010 (Torino, 21-25 ottobre). Alla nostra manifestazione di punta infatti si troveranno innanzitutto i territori, a guidarci verso i prodotti e i produttori, raccontandoci i mille legami che li hanno fatti nascere. Si potrà guardare il panorama complessivo, oppure avvicinarsi fino a vederne i dettagli. E a Terra Madre, il meeting delle comunità del cibo dai cinque continenti concomitante al Salone, emergeranno i produttori, le persone, con le relazioni che hanno con il territorio.

d

17 • Gusto


un primato da difendere OTTENERE DALL’UNESCO IL RICONOSCIMENTO PER LA NOSTRA GASTRONOMIA A PATRIMONIO DELL’UMANITÀ. ECCO I PROGETTI DEL NEO MINISTRO GIANCARLO GALAN

di Nike Giurlani

Gusto • 18

Maggio 2010


L’

agricoltura italiana sta attraversando un momento di difficoltà, con alcuni problemi che cercheremo di affrontare subito, ma anche molti punti di forza che ci danno ottimismo. Siamo pronti, quindi, ad affrontare la sfida dei mercati internazionali» mette in evidenza Giancarlo Galan. «La valorizzazione del nostro patrimonio agroalimentare è certamente centrale, per il rilancio del comparto primario – prosegue il neo ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali – e siamo al lavoro per compattare tutta la filiera produttiva, dai produttori ai distributori, e le istituzioni, in modo da concentrare tutte le energie e le risorse finanziarie». Ma questo non basta, afferma Giancarlo Galan. «C’è bisogno, inoltre, di un’agricoltura che segua e faccia

Maggio 2010

proprie le esigenze del mercato, e che sia aperta al nuovo anche attraverso la ricerca e l’innovazione tecnologica. I giovani devono avere la possibilità concreta di scegliere l’agricoltura e di sviluppare attività d’impresa. E noi dobbiamo metterli in grado di dotarsi di tutti gli strumenti, anche finanziari, che permettano loro di accedere e di operare in modo propositivo e innovativo». Quali sono le prime iniziative che intende portare avanti? «Voglio essere il ministro dell’ascolto. Avvieremo subito la fase della concertazione, con tutti i protagonisti, i produttori, le associazioni di categoria e le Regioni. Avvieremo al più presto un piano di rilancio, valoriz-

A destra, il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Giancarlo Galan


• zando i punti di forza di ciascun settore e superando la frammentazione delle competitività. Lavoreremo per rafforzare e rendere più certa la nostra azione negoziale a Bruxelles, semplificando al contempo il quadro normativo e le strutture della nostra agricoltura. Se vogliamo davvero che torni a svolgere un ruolo centrale per la nostra economia, dobbiamo valorizzare ogni realtà, che porta il suo contributo irrinunciabile all’intero comparto». Su quali aspetti occorre puntare per rilanciare l’agricoltura italiana? «Ritengo prioritaria una politica a sostegno delle famiglie italiane, bisogna restituire loro il giusto potere di acquisto. I nostri sforzi saranno concentrati ad accorciare la filiera, avviando al più presto un processo di rinnovamento della filiera tradizionale, che va razionalizzata e modernizzata per superare inefficienze e speculazioni. Metteremo subito in atto tutti quegli aspetti che possono restringere al massimo la forbice, oggi penalizzante, tra costi di produzione nel sistema agroalimentare e i prezzi al consumo, eliminando intermediazioni e sprechi, che incidono anche fino al 30-40 per cento sul prezzo finale».

L’eccellenza della nostra tavola è il frutto di un’arte secolare, che ha saputo esaltare i sapori e i profumi dei nostri prodotti tipici Gusto • 20

Qual è la sua posizione nei confronti degli Ogm e della ricerca? «Per un sistema paese il gap peggiore è quello della conoscenza, quindi su questo punto resterò coerente alle mie posizioni di sempre: sì alla ricerca e all’innovazione.

Sono entrato a far parte di un governo che su questa questione ha già preso una serie di decisioni, l’ultima è il decreto interministeriale di stop alla coltivazione di un mais Ogm. Non intendo per coerenza e lealtà, mettere in discussione questa posizione. Detto questo, la ricerca va sempre e comunque incoraggiata». La Francia ha avanzato la richiesta di dichiarare la cucina francese Patrimonio dell’Unesco, si potrebbe portare avanti la stessa iniziativa anche per quella italiana? Cosa fare per salvaguardare il nostro patrimonio enogastronomico? «Siamo l’Italia dei mille sapori, delle produzioni tipiche di ogni regione, della buona cucina. Sarebbe più giusto parlare di cucine italiane, allo stesso modo in cui siamo celebrati per i mille monumenti, città d’arte, paesaggi. Abbiamo le più famose accademie della cucina, il nostro patrimonio enogastronomico è un bene prezioso, riconosciuto in tutto il mondo. Ma l’eccellenza della nostra tavola è il frutto di un’arte secolare, che ha saputo esaltare i sapori e i profumi dei nostri prodotti tipici e che non teme la concorrenza straniera. Per questo, intendo candidare l’Italia per ottenere dall’Unesco il riconoscimento a Patrimonio dell’Umanità di specialità gastronomiche tipiche, che sono uniche e solo nostre. E per far questo, coinvolgeremo autorevoli chef, giornalisti enogastronomici e intellettuali per sostenere la campagna con il loro fondamentale contributo».

d

Maggio 2010



CULTURA ENOGASTRONOMICA Jean-Robert Pitte

alla corte del re sole LA CULTURA GASTRONOMICA PERVADE L’EUROPA DA SECOLI. CON ALCUNE IMPORTANTI DIFFERENZE. A ILLUSTRARLE, JEAN-ROBERT PITTE

di Lara Mariani

A

ssieme ai dialetti la cultura enogastronomica dipinge la varietà delle regioni d’Europa. Ogni regione, ogni paese si distingue in particolare per la sua alimentazione, «in primo luogo per l’importanza che viene data alla cultura alimentare, in secondo luogo per la natura delle pietanze e delle bevande, che sono rappresentative dell’agricoltura locale, ma anche dell’apertura agli scambi vicini o lontani». Un’Europa

Gusto • 22

piena di memorie storiche e gastronomiche da sviscerare, tra cui inevitabilmente spiccano Italia e Francia ma perché no, anche la Spagna, oggi così «alla moda e influente sull’alta cucina». Viene da chiedersi, perché proprio queste tre? Jean-Robert Pitte, geografo ed esperto di gastronomia, fino al 2008 presidente della Sorbona di Parigi, delinea le ragioni storiche, religiose e, in un certo senso, anche politiche di questa superiorità gastronomica.

Maggio 2010



CULTURA ENOGASTRONOMICA Jean-Robert Pitte

In apertura, Jean-Robert Pitte; nelle altre immagini, scene tratte dal film Vatel, in cui Gérard Depardieu interpreta il noto maestro di cerimonie alla corte del Re Sole

elementi hanno fatto sì • cheQuali nei paesi di origine latina vi sia una così forte cultura del cibo? «Italia, Francia e Spagna sono di tradizione cattolica e da un certo punto di vista il cristianesimo ha sempre considerato la golosità come un peccato minore, anzi quasi un modo di rendere grazie e lode a Dio». Quindi in questo senso Italia e Francia hanno un’origine gastronomica simile? «In realtà ci sono delle diversità importanti. A differenza della Francia l’Italia non possiede un’alta cucina nazionale, ma degli squisiti piatti regionali o rappresentativi di una città. Questa frammentazione è dovuta alla tardiva Unità d’Italia. Solo il papato avrebbe potuto generare un’alta cucina complessa nei suoi stati, ma ciò non è avvenuto. Forse a causa della mancanza di donne alla corte pontificia...». Come si è sviluppato invece in Francia questo fortissimo legame tra nazione e cultura gastronomica?

Gusto • 24

«In Francia, il ruolo di Parigi, capitale e residenza della corte reale, imperiale e della presidenza della Repubblica, è stato in passato ed è ancora oggi fondamentale. La grandezza della capitale ne ha fatto un centro di creatività gastronomica, tanto che a partire da Luigi XIV, la cucina è apparsa come un’espressione irrinunciabile dello splendore della cultura francese».

fatto che possiedono un ricco patrimonio culinario e che dovrebbero avere interesse a custodirlo, a farlo vivere, a dividerlo con il mondo intero, in particolare con gli stranieri che visitano la Francia e che si aspettano di mangiarvi bene. I francesi sono attaccati alla loro identità gastronomica, ma molti oggi hanno purtroppo perso l’arte di cucinare bene quotidianamente».

A proposito della proposta di far divenire la cucina francese patrimonio dell’umanità quali sono le sue aspettative? «Conduco questo progetto come presidente della Missione del patrimonio e delle culture alimentari. L’idea non è quella di affermare qualsiasi superiorità francese, ma di far prendere coscienza ai francesi del

Quale piatto esprime meglio l’identità francese? «L’identità culinaria francese è complessa e varia. Potrei citare le “sauces liées”, montate al burro o alla crema partendo da un fondo di carne o da un fumet di pesce. E poi anche i pasticci e i pâtés misti, la ricchezza dei formaggi, ma anche l’antichità dei vini da sempre legati al territorio».

d Maggio 2010




COPERTINA Claudia Cardinale

il ritorno di angelica IL GATTOPARDO È STATO IL FILM CHE LE HA CAMBIATO LA VITA. RICORDI E ANEDDOTI DI CLAUDIA CARDINALE DURANTE LE RIPRESE DEL CAPOLAVORO DI LUCHINO VISCONTI

di Nike Giurlani

I

n occasione del Festival di Cannes sarà mostrata in anteprima mondiale una versione restaurata digitalmente de Il Gattopardo di Luchino Visconti, che vinse la Palma d’Oro nel 1963. All’evento parteciperà anche Claudia Cardinale che nel film interpretava il ruolo di Angelica.«Questo è stato il film che ha cambiato la mia vita» racconta l’attrice che, nel 59, aveva già conosciuto Luchino Visconti durante le riprese di Rocco e i suoi fratelli. «Quando, però, venni scelta per la parte di Angelica fu un’emozione fortissima, sia per la fortuna di lavorare con Visconti sia perché avrei affiancato due grandi attori come Burt Lancaster e il bellissimo Alain Delon».

Visconti cercò di ricreare perfettamente le sensazioni, gli odori e le ambientazioni descritte da Tomasi di Lampedusa. Si ricorda qualche aneddoto al riguardo? «Luchino aveva una cura maniacale per i set, perché tutto doveva essere perfetto, i fiori dovevano essere sempre freschi e ogni giorno venivano utilizzate candele nuove. Addirittura, nella famosa scena del ballo, c’era tutta la nobiltà siciliana. Quando i truccatori mi preparavano, prima di girare una scena, lui era sempre lì con me per controllare la giusta intensità che doveva assumere il mio sguardo». A proposito del film ha dichiarato che, con il ruolo di Angelica, Visconti le ha fatto il più

Maggio 2010

In apertura, Claudia Cardinale nel ruolo di Angelica; sopra l’attrice oggi

27 • Gusto


COPERTINA Claudia Cardinale

Il restauro della pellicola Grazie al finanziamento fornito da Gucci e all’impegno della Film Foundation, presieduta da Martin Scorsese, verrà presentata al Festival di Cannes la versione restaurata de Il Gattopardo di Luchino Visconti. «Il lavoro è stato realizzato in parte a Bologna, in parte a Los Angeles, in una collaborazione tra Cineteca di Bologna, Cineteca Nazionale, Pathé (che detiene i diritti per la Francia), Titanus (che li detiene per l’Italia), Twentieth Century Fox che li ha per l’America» racconta Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. «Il restauro è stato molto complesso, poiché il film fu girato, all’epoca, in un formato bizzarro, il Tecnirama, un 35 fotografico dove il negativo è orizzontale, mentre il 35 cinematografico è solitamente verticale, questo implica che l’area dell’immagine è molto più grande». Ritrovato il materiale originale, «l’abbiamo scansionato alla più alta definizione possibile – racconta – ottenendo una precisione in termini di luminosità, di resa delle ombre, dei chiaro-scuri e dei colori che non ha niente a che vedere con quella a cui eravamo abituati dalle copie in 35, probabilmente anche molto superiore a quella che lo stesso Visconti poté vedere. Una qualità insita nella pellicola, ma che le tecnologie precedenti non consentivano di lasciar emergere completamente». Del resto, se il film era stato girato in quel formato era proprio perché «Visconti voleva un effetto quasi tridimensionale, in modo che da ogni fotogramma emergesse la ricchezza degli elementi, poiché ogni oggetto all’interno del film era stato accuratamente studiato, ricercato per rendere le atmosfere e le sensazioni di quell’epoca». Il restauro consente, quindi, «di rivivere quegli effetti tattili e di percepire totalmente le differenze di luce perché – conclude Farinelli – fino a oggi non erano realmente visibili».

• bel regalo della sua vita d'attrice. Che ricordi ha di quel personaggio? «Mi ricordo che durante una scena a tavola, nella quale Alain mi raccontava una storiella un po’ piccante, io dovevo ridere in maniera molto sguaiata. Quando uscì il film la critica non apprezzò questa scena, ma io feci esattamente quello che mi aveva richiesto Visconti». Il film è in gran parte ambientato in Sicilia, che rapporto ha con questa regione? «Pur essendo nata e cresciuta in Tunisia, mio padre era siciliano, originario dell’Isola delle Femmine vicino a Palermo, e quindi sono sempre stata molto legata a quest’isola. La Tunisia, poi, veniva

Gusto • 28

chiamata la “petite Sicile” per via dei molti emigranti isolani che si erano trasferiti in questa terra e che continuavano a conservare il loro dialetto siciliano». A quali luoghi e sapori della Sicilia è particolarmente legata? «I miei piatti preferiti sono il cous cous con il pesce e la pasta alla Norma. Adoro, inoltre, tutti i vini siciliani perché sono particolarmente profumati. Pur vivendo da vent’anni a Parigi, mi piace andare alla ricerca dei prodotti enogastronomici siciliani perché sono unici. Tornare in Sicilia è sempre una grande emozione e, in queste occasioni, mi capita spesso di entrare in un ristorante e sentire, poco dopo, partire in sottofondo la musica de Il Gattopardo».

d

Maggio 2010



COPERTINA L’aristocrazia a tavola

nobili sapori A TAVOLA CON L’ARISTOCRAZIA SICILIANA AI TEMPI DE IL GATTOPARDO. PIATTI E MENU TIPICI PREPARATI DAI MONSÙ PER CONQUISTARE I NOBILI PALATI

di Nike Giurlani

N

oi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». Maggio 1860, Regno delle Due Sicilie. Da una parte, l’aristocrazia siciliana, che nonostante le varie dominazioni succedutesi, continuava a conservare prestigio e potere. Dall’altra, l’avanzata di Garibaldi e dei Mille, giunti in Sicilia, per liberarla dal dominio borbonico e per dar vita al Regno d’Italia. Nel romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa sarà compito di Fa-

Gusto • 30

brizio Corbera, principe di Salina, descriverci questo trapasso epocale. Don Fabrizio percepisce i piccoli e i grandi mutamenti che avvengono intorno a lui, ma continua a perpetuare i rituali tipici che caratterizzavano la vita dei nobili del tempo. Ogni anno, infatti, l’arrivo dell’estate coincideva, per la famiglia Salina, con il trasferimento nella tenuta estiva a Donnafugata e con un sontuoso banchetto nel quale veniva servito, come da tradizione, il famoso timballo di maccheroni. La cucina siciliana è stata influenzata dalle varie dominazioni che si sono succedute nell’isola, ma sicuramente

la cultura francese ha svolto un ruolo cruciale soprattutto per la dieta degli aristocratici. Non a caso, la cucina dei nobili era in mano ai monsù. Come sottolinea il giornalista ed esperto di cucina ed enogastronomia siciliana, Gaetano Basile. «Il termine monsù deriva dal francese monsieur ed era usato per indicare i cuochi di casata. Gli altri, al lavoro magari presso gente ricchissima, ma non titolata, erano “cuochi di paglietta”». Nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è infatti il Monsù Gaston l’artefice del famoso timballo di maccheroni in crosta. «La ricchezza



COPERTINA L’aristocrazia a tavola

BISCOTTI RICCI DI MANDORLA Il paese di Donnafugata, che fa da sfondo alle vacanze estive della famiglia Salina ne “Il Gattopardo”, è una città di fantasia che comprende luoghi geograficamente esistenti e riconoscibili. In una lettera che Giuseppe Tomasi scrisse al Barone Enrico Merlo di Tagliavia si legge «Donnafugata come paese è Palma; come palazzo è Santa Margherita». Palma di Montechiaro è, infatti, il luogo d'origine del titolo feudale della famiglia Tomasi di Lampedusa. Qui sorge il Monastero delle Benedettine (nella foto accanto), le quali, ancora oggi, proseguono con la produzione dei "biscotti ricci di mandorla" che le loro antenate offrivano al Principe di Salina.

Gusto • 32

in Sicilia – sottolinea Basile – era rapportata al numero di volte che veniva acceso il fuoco per cucinare: i nobili lo accendevano due volte al giorno, perché avevano a disposizione più legna, più carbone e batterie da cucina migliori; i medio-borghesi una volta al giorno, i meno ricchi una volta a settimana e c’era chi non poteva proprio permetterselo». I monsù ci hanno, inoltre, tramandato i piatti che preparavano per i nobili tramite i “calapìni”, «i quaderni lunghi e stretti, nei quali i cuochi delle grandi famiglie annotavano i menù del pranzo e della cena, gli ingredienti utilizzati e le spese per la loro produzione» evidenzia il giornalista. Da queste pagine emerge come gli aristocratici mangiassero piuttosto modestamente, «immancabili, però,

pane bianco, frutta, verdura e legumi» racconta Basile. I BANCHETTI - «Si iniziava con consommé, tiballi di riso o di maccheroni e riso profumato allo zafferano con fegatini di pollo o interiora». Presente in abbondanza anche la pastasciutta «che mentre al Nord veniva servita con burro e parmigiano, in Sicilia – continua il giornalista – veniva servita con un filo d’olio d’oliva e una grattata di caciocavallo fresco». Passando ai secondi, «i monsù preparavano solitamente agnello o capretto al forno o alla glasse, un antico piatto cinquecentesco, oppure arrosti. Meno diffusa, invece, la carne

vaccina, che era però alla base della viande farcie de maigre o carne farcita di magro», rimarca Basile. Un piatto molto apprezzato era la parmiciana, erroneamente conosciuta come parmigiana, ma che non ha niente a che vedere né con la città di Parma né con il parmigiano. «Questo piatto prende il nome dal termine in uso nel dialetto palermitano che significa persiana. Il piatto è, infatti, caratterizzato da una forma a scaletta data dalla sovrapposizione di fettine di melanzane fritte e scaglie di caciocavallo fresco. I nobili spesso sostituivano alle melanzane, fettine di vitello». Alla fine del Settecento nasce il famoso vino Marsala, che entra a

Maggio 2010


COPERTINA L’aristocrazia a tavola

pieno titolo anche all’interno delle cucine dei monsù, come per esempio nella preparazione dei «bocconcini del barone, uno spezzatino di vitello o nel braisè de veau Marsala o brasato di vitello al Marsala», racconta Basile. Molto utilizzata in queste occasioni era anche la cacciagione: «conigli, lepri, cinghiali, colombacci, quaglie, beccafichi, anatre e folaghe, ingredienti principali dei pasticci realizzati dai monsù o in alternativa venivano cotti al forno. Molto utilizzati anche i tacchini, allevati come fossero pecore e portati al pascolo quotidianamente, e quindi più magri e molto costosi». Per quanto concerne i pesci, si teneva sempre conto del pescato stagionale e di conseguenza il

In apertura una scena del film Il Gattopardo di Visconti; a sinistra lo stemma della famiglia Tomasi di Lampedusa;

Maggio 2010

calendario era così scadenzato: «a gennaio si pescavano sarde e pesce azzurro e a marzo, per San Giuseppe, si preparava l’ultima pasta con le sarde, perché questo era il mese delle foche. Ad aprile – continua l’esperto – il mare era ricco di triglie di scoglio, mentre a maggio e a giugno si pescavano tonni e l’alalunga. Per tutto il periodo estivo i piatti erano a base di pesce di paranza, mentre, a settembre, di lampuga e a ottobre di fanfaro». Nella dieta degli aristocratici erano, inoltre, sempre presenti in estate «legumi, insalatine a base di pomodoro e cetrioli, fagiolina, cipolle infornate e patate lesse», ricorda Basile. I dessert erano poi gli elementi immancabili che concludevano i son-

tuosi banchetti organizzati dai nobili. «I monsù preparavano creme e budini oppure servivano i dolci conventuali, realizzati dai secondogeniti delle famiglie aristocratiche i quali, di solito, intraprendevano la vita ecclesiastica» mette in evidenza Maurizio Cascino, rinomato chef siciliano del ristorante La Botte 1962 di Monreale. I MENU - Dalle ricerche portate avanti dalla confraternita enogastronomica “I cenacolari dell’antica contea”, «nella zona del ragusano – spiega il segretario dell’associazione Giovanni Beretta – i banchetti si svolgevano abitualmente la domenica e in occasione di particolari ricorrenze come la Vigilia di Natale, Natale, carnevale, compleanno del capo famiglia, festività del santo patrono e, pur non esistendo dei menu prestabiliti, vi erano alcune preparazioni fisse». Piatti ricorrenti erano «i maccarunari cannaluvaru ce’ o pettini o maccheroni lavorati al pettine conditi con stufato di maiale, consistenti in una sorta di fettuccine avvolte, un pezzetto alla volta, attorno a uno stecco e poi passate, con leggera pressione, sopra un pettine di telaio che imprimeva loro la rigatura esterna. A questi si affiancano poi i maccarruna ‘a ciazzisa o maccheroni alla maniera di Piazza Armerina – continua Giovanni Beretta – che nella forma ricordano gli agnolotti emiliani e venivano serviti con brodo di maiale. Presso alcune famiglie nobili, il lembo di pasta utilizzato, prima di essere confezionato, veniva passato su di uno stampino dove era incisa l’insegna araldica del casato» conclude il segretario della

33 • Gusto

o


COPERTINA L’aristocrazia a tavola

• confraternita. I VINI - Quelli tipici dell’isola erano principalmente rossi e con una gradazione intorno ai 18°. «Il primo vino in bottiglia – racconta Gaetano Basile – risale al 1824, quando il duca di Salaparuta iniziò a imbottigliare i vini siciliani alla moda francese cioè a bassa gradazione, sui 13°. I vini francesi più diffusi nell’isola furono i bordeaux e chablis». Accanto ai vini liquorosi come il Marsala, lo Zibibbo, il Passito e il Moscato, venivano anche utilizzati «i rosoli – sottolinea il professore Gaetano Cosentini, esperto e studioso delle tradizioni del territorio degli Iblei –, liquori dal basso tenore

Gusto • 34

alcolico che successivamente diventarono liquori casalinghi a base di agrumi, alloro, caffè e cannella, conservati in eleganti ed elaborate bottiglie e serviti in piccoli bicchieri». IL CERIMONIALE - Se i monsù curavano con molta attenzione i piatti, con altrettanto zelo veniva allestita la tavola per il banchetto. «Le tovaglie erano ricamate “a cinquecento” o in filo damascato con posate e candelabri d’argento e spesso, sulle tovaglie venivano sparsi a scopo ornamentale dei piccoli fiori, privi di profumo, così che non avrebbero alterato l’odore emanato dai piatti

serviti», sottolinea Giovanni Berretta de “I cenacolari dell’antica contea”. I servizi erano per lo più in porcellana e «i nobili più facoltosi e antichi – precisa Basile – disponevano di quelli di Maissen, mentre gli altri quelli di Capodimonte». Al centro della tavola vi era, inoltre, posizionato «il surtout o “sopra-tutto” nel quale veniva collocato il piatto principale del banchetto, in modo da poter essere ammirato dagli ospiti» continua. Per quanto concerne la disposizione a tavola, «i padroni di casa si sedevano all’estremità del tavolo: alla destra della padrona di casa veniva fatto accomodare l’ospite maschile,

In alto, Palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita in Belice

Maggio 2010




COPERTINA L’aristocrazia a tavola

IL TIMBALLO DEL GATTOPARDO IIl famoso piatto descritto nel romanzo di Tomasi di Lampedusa è diventato anche uno spettacolo teatrale scritto da Rosario Galli, al quale prenderà parte anche il rinomato chef siciliano Carmelo Chiaramonte (nella foto) che, durante lo spettacolo, realizzerà delle specialità ispirate proprio al banchetto narrato dallo scrittore siciliano. «Il timballo è un piatto laborioso – spiega lo chef – che richiede almeno un paio di giorni di preparazione. Nato in epoca romana, si è tramandato e sedimentato nei secoli divenendo un piatto molto in voga tra i monsù, gli chef dell’aristocrazia siciliana». Non è altro che «un involucro di pasta che racchiude all’interno molti ingredienti tra i quali la pasta, la carne, le verdure, i rossi d’uova (quelli che ancora sono posti nelle interiora della gallina e che hanno un’intensità aromatica molto più forte), lo zucchero, la cannella e anche il tartufo e proprio l’utilizzo di questo tubero attesta che la cucina aristocratica usava

solo ingredienti di primo livello». Questo piatto, caratterizzato da una struttura a strati, «porta in sé le varie influenze gastronomiche delle culture che hanno influenzato la cucina siciliana» sottolinea lo chef. «Di solito dopo questi timballi così corposi, venivano serviti dei sorbetti al gelsomino, un gelo di cannella o di mandorle, chiamati “torna gusto”, tesi a preparare il palato alla portata successiva. «Ne Il Gattopardo viene citato un gelo di carciofi ai quattro succhi, preparato con i cuori dei carciofi, cucinati con il succo di arancia, di mandarino, di aceto di vino e succo di limone» racconta lo chef. Nel romanzo il banchetto si conclude con un “Trionfo di gola” «un dolce abbastanza impegnativo che potrebbe ricordare un po’ la cassata. Questo dessert – conclude lo chef – era caratterizzato da un involucro di pasta reale con pistacchi tritati il cui interno era infarcito di crema di ricotta o crema pasticciera».

• mentre alla destra del padrone l’ospite femminile» ricorda il professor Gaetano Cosentini. Ma l’organizzazione della sala da pranzo era di solito affidata «allo scalco, figura nata intorno al 1200 e che nei secoli si trasformò nella figura del cerimoniere e successivamente del maître» sottolinea lo chef Cascino. «Il cibo, fino ai primi dell’Ottocento, veniva però posto su una credenza caratterizzata da un ripiano in marmo – racconta Gaetano Basile – dove venivano inizialmente posizionate minestre, brodini e consommé; successivamente venivano collocati carni e pesci e i de contorni, cioè i contorni e al momento di desservir entravano

Maggio 2010

in scena i dessert». Successivamente, i piatti previsti nel banchetto «venivano descritti in un foglio di carta pregiata posto sulla tavola: i menù» precisa Basile. Il banchetto, invece, veniva apparecchiato «ponendo a destra del piatto il coltello con la lama rivolta all’interno e il cucchiaio, mentre, a sinistra, venivano collocate al massimo tre forchette e le altre venivano aggiunte successivamente – chiarisce il professore Cosentini – e non erano, invece, soliti adoperare le posate da frutta. I bicchieri venivano, infine, posti leggermente a destra del piatto ed erano al massimo quattro», conclude lo studioso.

“L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia...”

d

37 • Gusto


TIMBALLO DI MACCHERONI Ingredienti ed esecuzione della pasta frolla

400 g di farina, 200 g di gherigli di noci, 70 g di zucchero, 3 tuorli uova, scorza grattugiata di un limone

PREPARAZIONE Setacciate la farina disponendola a fontana e mettetevi al centro il burro morbido a pezzetti e un pizzico di sale. Formate nuovamente la fontana e mettete al centro i tuorli, lo zucchero e la scorza del limone grattugiata. Lavorate velocemente tutti gli ingredienti ottenendo un impasto omogeneo, quindi raccoglietelo a palla, avvolgetelo in un telo da cucina e ponetelo a riposare nella parte bassa del frigorifero per almeno un’ora. Ingredienti ed esecuzione di un court-bouillon una carota, una costa di sedano, mezza cipolla, una foglia di alloro, mezzo bicchiere di vino bianco secco, qualche grano di pepe, una presa di sale grosso PREPARAZIONE Mettete tutto in una pentola e coprite abbondantemente di acqua fredda; non appena prende bollore, aggiungete un pezzo di carne, abbassate la fiamma e lasciate cuocere coperto per il tempo necessario. Ingredienti ed esecuzione del fondo bruno 500 g di carne di manzo magra tagliata a cubetti , 500 g di ossi di manzo dal carrè una carcassa di pollo tagliata in pezzi, 100 g di cotenna di prosciutto una carota a pezzi, una cipolla a pezzi, un piccolo pomodoro maturo , una costa di sedano un bouquet garni (prezzemolo, timo, alloro), qualche granello di pepe nero, due cucchiai di olio extra vergine d’oliva, una manciata di sale grosso, 2 litri di acqua

Gusto • 38

Maggio 2010


COPERTINA La ricetta

PREPARAZIONE Ponete le ossa del carrè in una teglia e passatele in forno caldissimo (220-250°) finchè non sono ben dorate. Mettete tutti gli ingredienti in una casseruola capiente e fate rosolare delicatamente fino a quando le verdure non sono appassite: aggiungete tutta l’acqua, fredda, coprite e lasciate sobbollire per 7-8 ore. A cottura ultimata, passate al setaccio e suddividete in piccoli recipienti per il consumo eccessivo. Questa preparazione si conserva un mese in frigorifero, sei-otto mesi in congelatore. Ingredienti ed esecuzione della sauce éspagnole (dose per 250 g) mezzo litro di fondo bruno, 30 g di burro, 20 g di farina, 50 g di carota 50 g di cipolla, 25 g di sedano, 50 g di prosciutto crudo un rametto di timo e mezza foglia di alloro, una presa di sale PREPARAZIONE Fate sciogliere 20 gr di burro in una casseruola in rame, aggiungete la farina e la presa di sale e lasciate soffriggere finché il composto assume un intenso colore dorato. In un'altra pentola mettete il restante burro, le verdure tritate, il prosciutto tagliato a piccoli pezzi e gli odori; rosolate a fuoco vivo per qualche minuto, quindi coprite e lasciate stufare a fuoco basso per 10-15 minuti. Togliete la garza con il timo e l'alloro, rovesciate il contenuto nella precedente casseruola e mescolate bene, aggiungendo il fondo bruno bollente; lasciate cuocere coperto e a fuoco per due ore, schiumando se necessario. Al momento di servirla, passarla al setaccio in modo da far uscire il succo delle verdure e portarla in tavola ben calda. Ingredienti ed esecuzione della demi-glace Classica salsa dell'alta cucina, da servire in accompagnamento a primi o secondi a base di carne. Si ottiene mescolando una uguale quantità di fondo bruno con pari quantità di sauce éspagnole, una delle cosiddette quattro "salse madri" dell'alta cucina francese. Ingredienti ed esecuzione del timballo di maccheroni 500 g di maccheroni corti, 250 g di fegatini, creste, ovette di pollo 200 g di petto di pollo, 100 g di prosciutto cotto, una fetta 25 g di funghi secchi, un piccolo tartufo nero, mezzo bicchiere di olio 90 g di burro, spezie (cannella, noce moscata, pepe), fondo bruno quanto basta PREPARAZIONE Ponete in una casseruola 50 gr di burro, i fegatini, le creste e le ovette di pollo, i funghi ammollati in acqua fredda e ben strizzati e rosolate il tutto a calore moderato. Lessate in un piccolo courtbouillon il petto di pollo e, quando sarà freddo, tagliatelo a julienne con la fetta di prosciutto e il tartufo nero. Preparate una sfoglia con circa i 2/3 della pasta frolla precedentemente lavorata, imburrate generosamente lo stampo da timballo con il burro rimasto e spolveratelo di pangrattato, quindi foderatelo con la pasta. Intanto lessate in abbondante acqua salata i maccheroni, scolateli a metà cottura, conditeli mescolando accuratamente gli ingredienti; lasciateli riposare per una decina di minuti. Irrorateli abbondantemente di fondo bruno ristretto e coprite la superficie del timballo con la sfoglia ottenuta dalla restante pasta frolla. Ritagliate l'eccesso di pasta, ricavatene un cordoncino che userete per sigillare il bordo dello stampo attaccandolo con le mani inumidite d'acqua, poi forate la superficie del timballo delicatamente con i rebbi di una forchetta. Infornate per circa un'ora e calore moderato (circa 180°) in modo che la pasta risulti dorata; lasciate riposare almeno dieci minuti fuori dal forno prima di sfornare il timballo sul piatto di portata. Servite accompagnato dalla salsa demi-glace ben calda.

Maggio 2010

39 • Gusto




i mille sapori DA MARSALA A MILAZZO, RIPERCORRENDO LE TAPPE SALIENTI DELLA CONQUISTA DEL REGNO DELLE DUE SICILIE. CON GARIBALDI E I MILLE ALLA SCOPERTA DEI SAPORI, CHE OGGI COME 150 ANNI FA, CARATTERIZZANO QUESTI LUOGHI

di Nike Giurlani Gusto • 42

Maggio 2010


COPERTINA La tradizione popolare

È

un giorno in particolare a segnare l’inevitabile cambiamento per le sorti dell’aristocrazia siciliana: l’11 maggio del 1860. Una data resa celebre dallo sbarco a Marsala di un corpo di volontari, i famosi Mille guidati da Giuseppe Garibaldi. Il loro obiettivo era consegnare a Vittorio Emanuele II l’intero Regno delle Due Sicilie, patrimonio della casa reale dei Borbone. I Mille erano gente semplice, anche a livello culinario, e i loro pasti non erano certo caratterizzati da numerose portate o da cibi succulenti, come quelli che venivano serviti sulle tavole dei nobili. La loro dieta era molto più simile a quella dei popolani siciliani. «Erano, infatti, soliti mangiare pane e cipolla o pane e cacio – racconta il giornalista ed esperto di cucina siciliana Gaetano Basile – e i formaggi tipici siciliani erano il caciocavallo, il più nobile, il pecorino e il tumazzu, realizzato con qualsiasi tipo di latte, dal caratteristico colore giallognolo che veniva servito anche nelle carceri». I garibaldini rimasero, però, piacevolmente sorpresi dai vini «molto più corposi rispetto a quelli del Nord – continua l’esperto – ma Garibaldi era astemio e, così, quando il Duca di Salaparuca aprì in suo onore le bottiglie migliori

Maggio 2010

DONNA FRANCA · Gradazione alcolica: 19,0° volume · Affinamento in bottiglia: 6 mese · Aspetto: colore topazio brillante con intensi riflessi ambrati · Profumo: intenso e complesso, distinti i sentori di albicocca sciroppata e datteri in un ampio coro di spezie

In alto, gli interni delle Cantine Florio che conservano alcuni reperti legati allo sbarco dei garibaldini in Sicilia; nella pagina successiva, “U Cuccuddatu” di Salemi

· Sapore: pieno, caldo, morbido sino a velluto con elegante fondo vanigliato. Netti i sentori di spezie e frutta candita, chiusura di caramello e mandorla amara

43 • Gusto


COPERTINA La tradizione popolare

La “Cena di San Giuseppe” nasce originariamente come voto di ringraziamento o di propiziazione sua cantina, il generale non riu• della scì ad apprezzarle come avrebbe dovuto». MARSALA – La prima tappa dei Mille. Già 150 anni fa era rinomata per il suo famoso vino liquoroso, nato quasi per caso grazie al commerciante inglese John Woodhouse. I territori di produzione del Marsala sono quelli della provincia di Trapani, ad esclusione dei comuni di Alcamo, dell’isola di Pantelleria e delle Egadi. Le uve che caratterizzano questo vino sono quelle dei vitigni coltivati nelle terre rosse, in quelle argillose e nelle terre brune. Un capitolo importante della storia del Marsala è rappresentato dall’opera del calabrese Vincenzo Florio. Quest’ultimo, nel 1832, costruì il suo primo stabilimento vinicolo destinato a ottenere un grande successo, grazie anche a Giuseppe Garibaldi che fu «il primo testimonial nella storia della pubblicità» racconta il giornalista Basile. Garibaldi, infatti, per ringraziare la famiglia Florio del finanziamento ricevuto, «mentre teneva in mano una bottiglia di Marsala prodotto dalla loro cantina, sostenne, davanti alla stampa, che quello era il suo Marsala preferito; si

Gusto • 44

trattava di una qualità molto dolce, chiamata “marsala delle dame”». Dopo la dichiarazione del generale, sull’etichetta di questo tipo di Marsala comparvero due lettere «“DG”, che stanno, appunto, per “Dolce Garibaldi”» precisa il giornalista. Ancora oggi l’azienda Florio, come illustra l’enologo Giuseppe Spagnuolo, «conserva nelle sue cantine molti reperti storici dello sbarco dei Mille, come moschetti, cannoni e alcune divise dei garibaldini». Le tipologie di Marsala che contraddistinguono questa cantina sono il Superiore e il Vergine. «Il Superiore – spiega l’enologo – ha un affinamento minimo di due anni in fusti di rovere, mentre la tipologia riserva necessita di almeno 4 anni. Il Vergine richiede, invece, un affinamento minimo di 5 anni mentre per la riserva si parla di almeno 10 anni». Il Marsala si presta a svariati tipi di abbinamenti. «Il Baio Florio, il nostro migliore Marsala Vergine, è perfetto come aperitivo e va servito

fresco sui 1012°, o a fine pasto come vino da meditazione; ottimo anche abbinato con formaggi a pasta dura e antipasti di pesce affumicato. L’ideale per il Marsala Superiore è, invece, l’accostamento con prodotti di pasticceria, ma Marsala più importanti si possono abbinare anche durante il pasto con piatti a base di pesce affumicato, zuppe o

Maggio 2010


COPERTINA La tradizione popolare

carni molto speziate e fortemente aromatiche». Le cantine Florio fanno parte del Consorzio volontario per la tutela del vino Marsala doc, che annovera altre nove aziende, tra le quali le Cantine Buffa e quelle Pellegrino. La prima è «un’azienda artigianale che produce quantità limitate di vino – spiega il proprieta-

Maggio 2010

rio – il che ci permette di mantenere un rapporto diretto e duraturo con le persone che degustano i nostri prodotti». L’offerta dell’azienda Pellegrino, invece, «si differenzia in base ai canali di vendita – specifica il proprietario – vini Marsala più commerciali destinati a iper e supermercati e vini Marsala più pregiati, destinati a ristoranti ed enoteche». Per queste aziende, ma anche per le altre del Consorzio, è importante difendere la storia di un vino che ha quasi 250 anni e che è stato, ed è, punto di riferimento nel panorama dei vini da dessert italiani. SALEMI – Qui, il 14 maggio, Giuseppe Garibaldi dichiarò di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele. Seguì, il giorno successivo, la famosa batta-

glia di Calatafimi contro i soldati borbonici, nella quale in un primo momento sembrava che le forze garibaldine fossero destinate alla sconfitta, tanto che Nino Bixio suggerì a Garibaldi la ritirata. Il generale, pare, rispose con le celebri parole: «Bixio, qui si fa l’Italia o si muore!». Un prodotto tipico della città di Salemi è il pane, che identifica anche l’elemento principale della “Cena di San Giuseppe”, celebrata ogni anno il 19 marzo. L’evento nasce originariamente «come voto di ringraziamento o di propiziazione di una grazia da parte di una persona devota, che si è impegnata con San Giuseppe», afferma il presidente della Proloco di Salemi. «L’allestimento inizia circa un mese e mezzo prima con la preparazione del pane e della struttura decorativa per l’altare, che viene ricoperta di alloro e bosso (murtidda), limoni, arance e pane. Al centro viene costruito un piccolo altarino da tre o cinque gradini, sui

45 • Gusto



COPERTINA La tradizione popolare

• quali vengono posti diversi oggetti simbolici». Momento cruciale della festa è il banchetto, «caratterizzato da un minimo di 19 fino a un massimo di 101 pietanze, tutte a base di verdure, frittate, legumi, pesci, frutta e dolci. La carne è assente per rispettare il periodo quaresimale». Il primo piatto consiste «in una fetta di arancia simbolo di abbondanza, di grazia e prosperità – prosegue – e si conclude con la pasta con la mollica, piatto tipico salemitano». Tra i vari tipi di pane vengono realizzati: “a palma”, il pane che rappresenta la Madonna, “u vastuni” che richiama la figura di San Giuseppe e il rinomato “u cuccuddatu”, il pane di Gesù.

MAMERTINO ROSSO DOC · Gradazione alcolica: 13,5° volume · Affinamento in bottiglia: 6 mesi · Aspetto: Si presenta con lucente limpidezza e dal colore rosso rubino, ha una bella consistenza. · Profumo: Il naso apre con note floreali di rose appassite, seguono frutti rossi, mora, ciliegia, ribes, amarena avvolte in un grande volume di speziatura. · Sapore: al gusto dona gran calore, bilanciata da un' ottima freschezza, tannino leggermente presente, ed una sapidità che si avverte appena. Piacevole.

PALERMO – Alla luce dell’insurrezione, avvenuta tra il 27 e il 30 maggio, Garibaldi conquistò anche il capoluogo siciliano e Mario Rapisardi, in una sua epigrafe, per ricordare questo momento scrisse: «Splenda nella memoria dei secoli l’epopea del 27 maggio 1860, preparata da cuori siciliani, scritta col miglior sangue d’Italia dalla spada prodigiosa di Garibaldi. Riecheggi nella coscienza dei popoli il tuo ruggito, o Palermo, sfida magnanima a tutte le perfide signorie, auspicio di liberazione a tutti gli oppressi del mondo». La sosta dei garibaldini a Palermo è legata, in particolare, a un luogo: la Focacceria San Francesco, nel cuore del centro storico di Palermo. «Questa divenne la mensa dei garibaldini – mette in evidenza il giornalista Basile – dove venivano servite le zuppe ai soldati».

Maggio 2010

47 • Gusto


COPERTINA La tradizione popolare

Nella pagina precedente, le cantine Grasso; A destra, la Focacceria San Francesco.

La Focacceria San Francesco divenne la mensa dei garibaldini dove venivano servite le zuppe ai soldati Gusto • 48

La storica Focacceria, nata nel 1834 e tutt’ora luogo pulsante della città, si affermò fin da subito come il primo locale pubblico dell’epoca, dove si potevano consumare piatti tipicamente palermitani come lo sfincione, la focaccia schietta e la focaccia maritata, caratterizzata dal pane particolarmente morbido al sesamo, ripieno di ricotta di pecora e accompagnato da caciocavallo e fettine molto sottili di milza e polmone. MILAZZO – Durante il mese di giugno ai garibaldini si aggregarono volontari provenienti dalla Sicilia e da altre parti d’Italia, inquadrandosi in quello che poi fu chiamato esercito meridionale. Il 20 luglio le truppe borboniche vennero sconfitte nella battaglia di Milazzo, sancendo così la vittoria di Garibaldi. Questa località era, già all’epoca, par-

ticolarmente nota per la produzione di vino. Il Mamertino, insieme al Tauromenitano e il Potulano, erano tenuti in grande considerazione già dai romani intorno al III-IV secolo a.C. «I vini siciliani – precisa Gaetano Basile – nascono in epoca greca, ma furono resi internazionali dai romani». Una delle aziende più rinomate del territorio è l’azienda Grasso e il suo fiore all’occhiello, come sottolinea il proprietario, Alessio Grasso «è un crù della denominazione Mamertino che coltiviamo nel comune di Rodì Milici e prende il nome di Sulleria. Dalla fine di quest’anno, questi vini si fregeranno anche della denominazione “Riserva” in quanto avranno completato il periodo obbligatorio di invecchiamento di almeno due anni in botti di rovere».

d

Maggio 2010



L’isola dei profumi


SAPORI DI SICILIA

UNA PERSONALE MAPPA DEI PIATTI E DEI VINI PIÙ AMATI DELLA SICILIA. A DELINEARLA SONO ALCUNI NOTI PERSONAGGI ORIGINARI DELL’ISOLA

di Francesca Druidi

I

l cibo non è mai neutrale. Corrisponde a un’esigenza fondamentale dell’uomo, ma da sempre si connota anche di una serie di valenze simboliche, da quelle sociali ed economiche sino a quelle più spiccatamente culturali. Le pietanze hanno il potere di dischiudere i ricordi e i vincoli identitari che uniscono le persone ai luoghi della propria infanzia e appartenenza. Attraverso i ricordi enogastronomici di alcuni personaggi siciliani, è possibile ricostruire, in un gioco di suggestivi rimandi, la tradizione culinaria dell’isola. Una tavola che si tinge di colori, sapori, odori a tonalità forti, ma non privi di dolcezze e sinuosità. In costante equilibrio tra terra e mare. Terra cara a Pietrangelo Buttafuoco, giornalista catanese, che esprime la sua affezione per i piatti della campagna: «Hanno il sapore terragno, rude e perfetto. Come i carciofi selvatici, quelli piccoli e spinosi. Vengono preparati dopo una lunga cottura e intinti nel sale e nell’olio mescolato all’aceto». Il palato dello scrittore del libro Le uova del drago si

rallegra poi con le fritture a base di fave fresche, utilizzate come condimento o come base per la zuppa. «È, infine, un vero turbamento approfittare dei frutti spontanei quali finocchietto e borraggine. Quest’ultima, con una rude scorza che solo l’aceto forte dei contadini può ammansire». Per Pietrangelo Buttafuoco andare al ristorante è una festa. «Quando vado fuori, cerco il mare». La meta gastronomica preferita è la Trattoria di Don Saro a Capomulini. «È bello in senso greco, eccelso nel rendere uguale ciò che è bello a ciò che buono. Si assapora un pesce squisito e la visione del paesaggio, lungo la costa Jonica, garantisce una festa anche per gli occhi». Il ristorante si appoggia su una palafitta che costeggia il mare: «È il massimo – sottolinea il giornalista – e cancella in un sol colpo tutta la musona presunzione dell’alta gastronomia dei gourmet». Catanese è anche lo scrittore e opinionista Giampiero Mughini, che non ha mantenuto un rapporto di continuità con la propria regione di origine, riassaporandone però i sa-

In apertura, le “busiatine profumi di zagara” preparate al Ghibli Hotel di San Vito Lo Capo, la caponata, gli arancini di riso e la “spatola Ghibli” sempre al Ghibli Hotel. Sopra, Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore

• Maggio 2010

51 • Gusto



SAPORI DI SICILIA

In alto, un tipico piatto della tradizione culinaria siciliana: pasta alla Norma. A fianco, Giampiero Mughini, scrittore e opinionista

Maggio 2010

pori nel ristorante Pirandello di Milano, dove marito e moglie siciliani apprestano «alla grande» i piatti della terra. «Da quando mia madre è morta nel luglio 2001 – confessa Mughini – non vado più in Sicilia, la terra che ho abbandonato per sempre e senza voltarmi indietro nel gennaio 1970». Il piatto a cui è maggiormente legato è la «fatidica pasta alla Norma», condita con pomodoro fresco, melanzane fritte, ricotta salata grattugiata e basilico. Pietanza che non solo individua un autentico simbolo della tradizione gastronomica siciliana, «la leggenda dice che nacque nel corso di una serata catanese svoltasi a poche centinaia di metri dalla casa in cui sono nato», ma che fa leva su emozioni profonde: «Era un piatto che mia madre, catanese, cucinava alla perfezione e che continuò a cucinare fino a quando le sue forze e la sua mente vennero meno». Per innaffiare un buon pasto, serve il vino giusto. Mu-

ghini consiglia i vini siciliani che «negli ultimi anni sono decuplicati in qualità». Tra i vini Firriato al Cerasuolo di Vittoria, «un vino che avevo scoperto da ragazzo, quando per noi catanesi arrivare a Vittoria era un’avventura». E sul vino Mughini non risparmia notazioni inconsuete: «L’ex marito di una mia amica, scontati sette anni di carcere per terrorismo rosso, produce adesso un vino bianco “che induce all’alcolismo”. Chiedetelo a mio nome al ristorante romano Evangelista». Oltre a verdure e ortaggi, a caratterizzare la cucina siciliana è inevitabilmente il pesce. Lo sa bene l’attore messinese Nino Frassica, la cui specialità “del cuore” è il pesce stocco alla ghiotta o “agghiotta”: una ricetta tipica della cucina messi-

nese in base alla quale il pesce viene cucinato con un sughetto di capperi, olive e pomodoro. «L’ho apprezzato preparato in varie maniere – racconta l’interprete di molti film e serie televisive – mia madre lo cucinava con la pasta e diventava una sorta di piatto unico». Assiduo frequentatore della trattoria Da Mario di Messina che, «trovandosi di fronte al Teatro è diventato il dopo-teatro per gli attori che vi recitano ma anche per i tiratardi», Nino Frassica predilige «lo Zibibbo e il Marsala, vini dolci e gustosissimi da sorseggiare a fine pasto». L’abitudine di consumare piatti unici, dove la pasta si abbina ai pro-

• www.carciofiamo.it



SAPORI DI SICILIA

Maggio 2010

dotti tipici del mare oppure della terra, trova un’ulteriore esemplificazione in Sicilia nella pasta con le sarde, indicata dall’attuale ministro dell’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, come una delle specialità tipiche predilette, insieme agli involtini di pesce spada. «Questa pasta traduce in un piatto semplice tutti i sapori dell’isola: finocchietto selvatico, sarde e pinoli». Del resto, la qualità del pesce e la creatività nel prepararlo sono caratteristiche che Stefania Prestigiacomo ricerca in un ristorante e che L’Ancora di Siracusa riesce a soddisfare, «grazie al patron Giancarlo Russo, il quale consiglia con passione piatti semplici che richiamano alla tradizione mediterranea». Nel ricordare la tradizione siciliana dello street food, cibo da strada per antonomasia, rappresentato «dalle arancine e dal pane e pa-

nelle», frittelle di farina di ceci inserite in un panino, il ministro non si sottrae dall’esprimere la sua preferenza in fatto di vino: «un Rosso del Conte e tutti gli altri vini Tasca d’Almerita». Il fisico e scienziato Antonino Zichichi, ama, invece, bearsi del cous cous al pesce, particolarmente diffuso nel trapanese di dove è originario, e della caponata, un prodotto altrettanto tipico della gastronomia isolana, a base di verdure fritte e salsa agrodolce, all’albergo ristorante Edelweiss di Erice, a pochi passi dalla sede della Scuola di cultura scientifica Ettore Majorana, fondata e presieduta dallo stesso fisico. È, inoltre, goloso delle “busiatine profumi di zagara” e della “spatola Ghibli” preparate dallo chef Giuseppe Abate del ristorante del Ghibli Hotel di San Vito Lo

Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente. Più in alto, Nino Frassica

• 55 • Gusto



SAPORI DI SICILIA

In alto, Antonino Zichichi, fisico e divulgatore scientifico; a destra, Pippo Baudo, conduttore televisivo

Capo. Il primo è preparato con le busiatine, un formato di pasta particolarmente noto in Sicilia, filetti di tonno fresco, melanzane, pomodorini e pesto di agrumi, mentre il secondo si presenta come un millefoglie di spatola, con gamberi, crema di pistacchi e pomodoro di Pachino. Sempre a San Vito Lo Capo, il professore non manca di fare una visita alla trattoria Da Alfredo. Innaffiando il tutto da uno dei fiori all’occhiello dell’enologia isolana: il Nero d’Avola. Vino molto amato anche da uno dei siciliani più famosi d’Italia, Pippo Baudo: «quando ero bambino, andavo con mio padre a comprare il Nero d’Avola sfuso, lo vendevano direttamente i vignaroli un tanto al litro, alla stregua di un vino minore. Oggi, invece, grazie all’applicazione

Maggio 2010

enotecnica nei confronti di questo vitigno, il Nero d’Avola sta conquistando le tavole di tutto il mondo e tutti ce lo invidiano». Tra le pietanze tipiche, oltre alla pasta con le sarde e alla pasta alla norma, il presentatore di “Domenica In 7 giorni” esalta «le salsicce siciliane, uniche e buonissime». Del resto, come sottolinea il conduttore originario della Val di Catania, «i piatti della cucina siciliana sono semplici, campagnoli. Molte trattorie aperte di recente a Militello sono legate alla tradizione culinaria regionale e, insieme agli ottimi primi, servono dolci eccezionali, come i cannoli, le paste di mandorla e le cassatelle della monaca, da una ricetta appartenente alla tradizione della pasticceria conventuale che preparavano le suore di clausura passata poi in mani laiche. Un dolce davvero squisito».

d

57 • Gusto


La “nuova” tradizione SAPORI TRADIZIONALI E INNOVATIVE SPERIMENTAZIONI. PER I PALATI PIÙ CONSERVATORI POTREBBE SEMBRARE BLASFEMIA. E INVECE TRADIZIONE E SPERIMENTAZIONE POSSONO CONVIVERE E PERCHÉ NO, SORPRENDERE

di Simona Cantelmi

Gusto • 58

N

ella splendida Sicilia è naturalmente facile apprezzare i prodotti tipici, le bellezze paesaggistiche e culturali, specialmente in quelle zone caratterizzate da un’incredibile diversità e ricchezza di ambienti. Un esempio? Quella che va dal Parco dell’Etna alle colline dei Monti Rossi, a pochi chilometri da impianti sciistici e da Catania. Uno chef, per agire in questo territorio o in altri, deve soddisfare sia gli amanti dei gusti classici sia quelli alla ricerca di esperienze sensoriali nuove. Perché in questi luoghi «cucina tipica e sapori internazionali possono coesistere». Lo sostiene Angela Longo, dell’Hotel Villa Mi-

Maggio 2010


chelangelo di Nicolosi, in provincia di Catania che proprio a questo proposito organizza nei periodi estivi serate a tema sia di tipo tradizionale, «come le serate con cucina tipica siciliana», sia quelle etniche, «dove lasciamo esprimere liberamente il nostro chef Hedy Aroua, di origine tunisina, al quale piace accogliere in cucina gli ospiti, che possono anche dilettarsi a cucinare». La cucina di Hedy Aroua, «pur essendo influenzata dalle sue origini tunisine nell’utilizzo di spezie e profumi, è decisamente legata ai prodotti e ai sapori della Sicilia e il suo intento è quello di far conoscere agli stranieri quanto di meglio può offrire la nostra terra. E tale commistione di tradizione culinaria sici-

Maggio 2010

liana e sapori esotici è stimolante e stuzzicante». È ciò che sostiene Valentina Trovato, dello staff dell’Hotel Villa Michelangelo. La struttura decisa della tradizione culinaria siciliana, fortemente apprezzata soprattutto nella genuinità dei suoi prodotti e dei loro accostamenti, deve avere un ruolo importante, fondamentale. «È inevitabile che lo studio di fusioni con altre esperienze internazionali allarghi a rivisitazioni. Penso ad esempio a buffet multietnici». «L’innovazione e la sperimentazione – prosegue Valentina Trovato - sono comunque coerenti con la semplicità degli elementi utilizzati che, per definizione, non rischiano di forzare e alterare l’autenticità dei sapori».

Con queste premesse è normale che l’eventuale incontro con palati più classici sia facilmente gestibile. Sobrietà e raffinatezza possono unirsi alla vivacità di gusti e accostamenti nuovi, senza aspri contrasti, ma in armonia. «Il nostro chef tunisino è estroso – spiega Angela Longo – ma riesce anche a rispettare la tradizione gastronomica locale, mescolando ogni aspetto ed elemento con sapienza». Anche l’atteggiamento positivo e accogliente predispone meglio ad assaporare nuovi sapori. «Per non parlare dell’arredamento che deve contribuire a creare particolari atmosfere e rendere gli ospiti inclini a nuove sperimentazioni gastronomiche».

In alto, da sinistra, alcuni piatti preparati dallo chef e un esterno dell’Hotel Villa Michelangelo di Nicolosi, in provincia di Catania. Qui sopra, Angela Longo e la figlia Valentina Trovato www.hotelvillamichelangelo.it info@hotelvillamichelangelo.it

d

59 • Gusto




l’estetica del gusto Gusto • 62

Maggio 2010


A TAVOLA CON FILOSOFIA Nicola Perullo

S

ul tema del gusto si sono cimentati filosofi e pensatori. Per secoli si sono chiesti se il gusto fosse qualcosa di soggettivo o di oggettivo. Il “problema estetico” era essenzialmente uno: è il soggetto a vedere la bellezza nelle cose o sono le cose ad avere una bellezza in sé? E siccome ciò che vale per il bello può valere anche per il buono, si potrebbe così riformulare la domanda: siamo noi che facciamo diventare buono un cibo o un vino o è il cibo o il vino a essere buono in sé? La risposta arriva da Nicola Perullo, ricercatore di Estetica all’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, ma soprattutto degustatore e critico enogastronomico, capace di riflettere sulla gastronomia, non soltanto da un punto di vista storico e antropologico, ma soprattutto, da un punto di vista filosofico.

originario. Oggi l’estetica riguarda l’arte o l’immagine. Invece, originariamente, era la scienza della sensibilità. Filosofi e pensatori negli anni hanno provato ad analizzare “il sensibile”, chiamando in gioco anche il gusto e l’olfatto. Ne hanno discusso a livello teorico e scientifico, ma era difficile superare l’eterna diatriba tra soggettività e oggettività».

Il legame tra cibo, cultura e tradizioni è ormai sdoganato. Come si legano invece esperienze gustative e argomentazioni filosofiche? «Il legame è nel termine estetica, nella riflessione sul suo significato

Però questo potrebbe lasciar intendere che tutto è soggettivo e che ognuno può dire la sua. «In realtà non è così, perché essere educati al gusto significa essere allenati e richiede sapere e attenzione.

Lei come affronterebbe la querelle? «Innanzitutto chiarendo che la degustazione critica non deve prendere in considerazione solo l’oggetto della degustazione ma anche la persona, il degustatore. Degustare è una relazione attiva tra chi degusta e ciò che viene degustato. Ad esempio, il voto assegnato a un vino, non esprime il valore del vino in sé, ma la relazione tra quella determinata persona e il vino».

LA GASTRONOMIA COME TESTIMONIANZA FILOSOFICA. TRA SOGGETTIVITÀ E OGGETTIVITÀ, RISPETTO E COMPRENSIONE. LE RIFLESSIONI DI NICOLA PERULLO

di Lara Mariani Maggio 2010

63 • Gusto



A TAVOLA CON FILOSOFIA Nicola Perullo

Nicola Perullo è ricercatore di Estetica all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, degustatore e critico enogastronomico. Il suo ultimo libro “Filosofia della gastronomia laica. Il gusto come esperienza” edito da Meltemi, invita i lettori a essere consapevoli di quel che mangiano e di come lo mangiano

• Detto questo, non si possono escludere le diverse personalità e i diversi background ma si possono accettare giudizi diversi sullo stesso vino, sullo stesso piatto, sullo stesso quadro superando la diatriba tra soggettività e oggettività e inserendo il discorso del gusto in una dimensione di relazionalità che dipende da molti fattori». Quali sono questi fattori? «La cultura e le esperienze personali, ma anche le fasi storiche. In questo periodo siamo molto attenti al biologico, aspetto che fino a qualche anno fa non era tenuto in considerazione. Posto che inevitabilmente la degustazione critica implica una certa attenzione all’ambiente, degustare criticamente significa comprendere che viviamo in un contesto che ci influenza e va al di là del rapporto che abbiamo con il cibo o con il vino». Appurato che la dimensione del gusto non è né oggettiva in senso tradizionale né soggettiva nel senso comune, in che modo possiamo essere educati al gusto aspirando a un nuovo concetto di

Maggio 2010

raffinatezza intellettuale? «Sensibilità e intelletto sono due facce della stessa medaglia. Essere educati al gusto significa mettere in gioco una dimensione cognitiva e intellettuale, perché il corpo nella sua dimensione fisica serve per gustare, ma poi a valutare non sono gli organi di senso, ma il cervello. E, nella gastronomia, è evidente questa compenetrazione tra ciò che è sensibile e ciò che è intellettuale». In questo senso avere la consapevolezza di ciò che si mangia ne arricchisce il gusto? «Se assaggio un piatto sapendo come è stato realizzato, conoscendo la storia dei suoi ingredienti e la tradizione che lo ha conservato nel tempo, il piacere fisico si arricchisce di un piacere intellettuale e culturale. Non è più solo il gusto di un cibo mangiato, ma è il gusto di un cibo pensato e percepito come oggetto di valore culturale». Da un punto di vista empirico, come può il valore culturale arricchire il sapore di un cibo?

65 • Gusto


A TAVOLA CON FILOSOFIA Nicola Perullo

IL VINO NELLA GASTRONOMIA LAICA E SAGGIA Il vino ha sempre attirato filosofi e pensatori. Forse perché grazie ad alcune sue caratteristiche si avvicina all’arte, più di quanto possa fare un qualsiasi prodotto gastronomico. È legato all’assaggio, ha un lessico di degustazioni alle spalle, può viaggiare, e soprattutto è capace di conservarsi nel tempo. Hegel sosteneva che gli oggetti artistici sono quelli fatti per permanere e perdurare, mentre il cibo è fatto per essere consumato in breve tempo. Il vino è fatto per essere consumato, ma ha dalla sua parte una durevolezza nel tempo che lo avvicina di più agli oggetti artistici.

«Alcuni scienziati hanno dimostrato che gli individui valutano ciò che mangiano in base ai loro imprinting cognitivi, culturali e sociali. Infatti è assodato che i degustatori professionisti riescono ad assaporare nel vino degli aromi e dei sapori che i non degustatori non sentono. Perché? La spiegazione non è fisica. Non è il loro palato a essere dotato di ricettori chimici diversi o più potenti, ma è il loro cervello che, essendosi esercitato attraverso una cultura e una formazione attiva, li ha portati a riconoscere e a sentire aromi che gli altri non sentono». È innegabile che oggi siano in molti a riconoscere il valore culturale della gastronomia, anche se non sono per così dire educati e allenati al gusto. «La cucina, è vero, è sdoganata dal punto di vista culturale, ma solo se

Gusto • 66

resta nella dimensione un po’ aneddotica, storica, di recupero delle tradizioni e della tipicità. Allora sì. Ma se si parla di creatività o di alta cucina allora il dibattito si fa più acceso e ci sono sempre grandi obiezioni. I pregiudizi sono ancora forti, e impediscono all’atto del mangiare di essere nobilitato fino in fondo». Lei da che parte sta? «Io credo che l’atteggiamento più saggio è quello di chi non divinizza la gastronomia. Non credo che questa sia un’arte e, soprattutto, non credo che un piatto sia paragonabile a un quadro, ma sono convinto che il gusto sia un’esperienza estetica». In questo senso la sua gastronomia è saggia e laica? «Volevo dare una definizione volutamente provocatoria e in un certo

senso originale. L’aggettivo laico nasce dalla mia perplessità di fronte a quegli atteggiamenti, oggi fin troppo frequenti, che tendono a divinizzare la gastronomia e a considerare i gastronomi come sapienti che dispensano consigli e saggezza quando invece la gastronomia dovrebbe valorizzare un atteggiamento aperto e relativo. La saggezza significa senso della misura, rispetto e capacità di orientarsi in determinati contesti ed essere laici e saggi significa avere una posizione di non arroganza verso ciò che mangiamo, ma di consapevolezza e comprensione. Il cibo pervade la nostra vita tutti i giorni e non possiamo avere rispetto a esso un atteggiamento univoco, ma atteggiamenti differenziati a seconda del contesto. Questa è, in fondo, la mia concezione del gusto come esperienza».

d

Maggio 2010



IL CIBO COME IDENTITÀ Angelo Varni

una terra

di sapori LA CUCINA EMILIANO-ROMAGNOLA RIFLETTE LE PECULIARITÀ DEL PROPRIO TERRITORIO E DEL PROPRIO PASSATO. LO SPIEGA ANGELO VARNI, DOCENTE DI STORIA CONTEMPORANEA ALL’UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

di Francesca Druidi

Gusto • 68

Maggio 2010


APTServizi Emilia Romagna



IL CIBO COME IDENTITÀ Angelo Varni

L

e residualità storiche hanno una permanenza incredibile nella cultura enogastronomica». In particolare in quella emiliano-romagnola, una delle più ricche e apprezzate d’Italia. A sottolinearlo è Angelo Varni, docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna. Le diversità presenti nella cucina emiliana e in quella romagnola, nonostante le naturali contaminazioni e i piatti comuni, sono imputabili a differenti percorsi storici. In quali aspetti sono maggiormente visibili tali differenze? «Esiste una distinzione tra la gastronomia del territorio romagnolo, la cui storia è legata ai Bizantini, e quella del territorio emiliano. La dominazione longobarda ha qui prodotto quella che si può definire una “civiltà del maiale”, con la carne di suino che prevale sull’impiego di altri tipi di carne e condimenti usati in Romagna, dove invece si ricorre maggiormente alle erbe tradizionali e alla carne ovina. Un altro elemento di caratterizzazione è rappresentato dalla piadina romagnola, classico prodotto del mondo orientale, un pane non lievitato diffuso un po’ in tutto il bacino del Mediterraneo. Ulteriore differenza risiede

Maggio 2010

nella pasta ripiena: il cappelletto romagnolo è ripieno di formaggio, mentre il tortellino emiliano racchiude carne di maiale, di vitello, prosciutto crudo e mortadella, oltre a uovo, parmigiano e pan grattato. Queste peculiarità affondano nella storia ma persistono ancora oggi, nonostante la globalizzazione. In una terra di confine come Imola, il passaggio è più evidente. Il tortellino è qui chiaramente ibrido: la dimensione è quella del cappelletto romagnolo, mentre il ripieno segue la ricetta emiliana». Può indicare i piatti che sintetizzano l’identità gastronomica regionale? «Senza dubbio i primi ripieni: tortelloni, lasagne e tortellini, con declinazioni diverse a seconda della zona. Gli anolini si apprezzano nella provincia di Parma e Piacenza. Tortelli o cappellacci di zucca si mangiano a Piacenza, Reggio Emilia e nel Ferrarese. In Romagna si cucinano i manfrigoli e, anche a Bologna, i passatelli. Connotata da una spiccata tradizione contadina, la cucina emiliano-romagnola ha il grande pregio di conservare un legame particolarmente stretto con i prodotti della terra. La fama della gastronomia regionale, soprattutto bolognese, deve quindi il suo pregio e i suoi connotati più che all’elabo-

razione delle ricette, codificate nell’Ottocento, alla ricchezza del territorio. La tagliatella incarna il simbolo di tale prosperità poiché riunisce in sé il meglio della stalla, del pollaio, dell’orto e del campo. Non è un caso che l’Università sia stata fondata in quest’area, perché dava la possibilità di sostentare studenti e docenti». Altre pietanze caratteristiche? «La cotoletta alla bolognese con prosciutto e parmigiano, il fritto misto alla bolognese, le crescentine.

Sopra, Angelo Varni, docente di Storia contemporanea e direttore della Scuola di giornalismo presso l’Università degli Studi di Bologna

• 71 • Gusto



IL CIBO COME IDENTITÀ Angelo Varni

Il prodotto principe di Bologna è la mortadella, conosciuta in tutto il mondo, un prodotto antichissimo probabilmente nato in età classica romana. E poi ci sono i salumi e gli insaccati: prosciutto, culatello, cotechino, zampone, salsiccia, la salama da sugo tipica della provincia di Ferrara, e tutto quanto si lega alla trasformazione della carne di maiale». Lei ha promosso il progetto “La cultura del cibo” per Bologna 2000 Città europea della cultura. Cosa rimane di quell’esperienza? «Si cercava di stimolare il più possibile i ristoratori all’impiego dei prodotti del territorio. Poi questo tema è diventato sempre più spesso un luogo comune. Bisogna allora saper distinguere ristorante da ristorante: c’è chi ha fatto propria tale pratica e

Maggio 2010

chi solo sulla carta. Certo, rispetto a qualche anno fa, il ritorno all’uso del prodotto genuino tradizionale, alla ricerca dell’ingrediente garantito nella sua qualità, si fa sentire in maniera superiore, arginando quegli eccessi che stavano prendendo piede». L’enogastronomia può essere considerato un volano per il turismo? «Sì, peccato che sia una leva promossa un po’ in tutto il mondo e da molti anni. Quanti festival, sagre, manifestazione legate all’enogastronomia si organizzano dappertutto? Bologna avrebbe potuto diventare capofila sotto questo aspetto perché il suo nome è di fatto collegato alla buona cucina. Questo non è successo, per le varie responsabilità di tanti. Non tutta la fama di Bologna è

andata perduta nell’immaginario collettivo, ma è emersa una leggenda “al contrario”: si è iniziato ad affermare, con qualche eccesso, che in città si mangia male, che i ristoranti non sono validi. Il fatto che Bologna nel frattempo sia diventato un polo fieristico, dove i ristoratori potevano a volte offrire prodotti non sempre di altissima qualità a prezzi alti, è un fenomeno di cui bisogna tenere conto. Non è però vero che la qualità della ristorazione bolognese sia peggiore di quella di altre città. Contano anche l’ampiezza del territorio, il numero degli abitanti, il passaggio di turisti e visitatori. In centri dalle dimensioni simili a quelle di Bologna, non si rilevano sostanziali differenze. Sparare contro un mito, come quello della cucina bolognese, fa però più effetto, regala maggiore visibilità».

d

73 • Gusto


Tutte le foto Edoardo Fornaciari

L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il culatello di Zibello

Gusto • 74

Maggio 2010


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il culatello di Zibello

L’élite

dei salumi È UNO DEI SALUMI PIÙ NOBILI DELLA NORCINERIA ITALIANA. MASSIMO SPIGAROLI, UNA DELLE MASSIME AUTORITÀ IN MATERIA DI CULATELLO DI ZIBELLO, NE SPIEGA IL PERCHÉ

di Francesca Druidi

C

onta tra i suoi estimatori anche Carlo d’Inghilterra. È il culatello di Zibello, a cui si attribuisce l’appellativo di “re dei salumi” perché, come spiega Massimo Spigaroli, allevatore e produttore artigiano di salumi nella sua Antica Corte Pallavicina, ma anche stimato chef del ristorante Al cavallino bianco di Polesine Parmense, «viene prodotto con la parte più pregiata del suino adulto, la coscia, dove si trovano le fasce muscolari più importanti, maggiormente elitarie e predisposte a prendere profumo, sapore, fragranza, dolcezza». E poi c’è una lavorazione delicatissima, «un percorso che, pur essendo controllato, è eseguito artigianalmente», in cui la carne viene decotennata, sgrassata, disossata, separata dal fiocchetto e

rifilata a mano, così da conferirle la caratteristica forma “a pera”. Seguono, dopo circa una decina di giorni, la salatura, l’insaccamento del salume nella vescica del suino e la legatura con lo spago che, dopo la stagionatura, risulta a maglie larghe e irregolari. La fase di stagionatura, che non può avere una durata inferiore a dieci mesi a partire dalla salatura, richiede locali dove sia assicurato un sufficiente ricambio dell’aria, a una temperatura compresa tra 13 e 17 gradi. «Questo prodotto ha avuto e ha un certo successo proprio perché non sono cambiati i metodi di produzione». Come spiega Massimo Spigaroli, attualmente esistono due consorzi del Culatello di Zibello: «la presenza di un consorzio più esteso, dove

In apertura, la cantina di Spigaroli, presso l’Antica Corte Pallavicina; sopra, Massimo Spigaroli, chef del ristorante Al cavallino bianco di Polesine Parmense e presidente della Strada del Culatello di Zibello

• Maggio 2010

75 • Gusto


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il culatello di Zibello

Sopra, alcune immagini della lavorazione del culatello di Zibello

Gusto • 76

confluiscono tutti i produttori i cui salumi si fregiano della Dop, ufficializzata nel 1996, non ha comportato la scomparsa del vecchio consorzio, che si trasformerà in un’associazione con un marchio identificativo del Culatello di quei produttori che, all’interno del consorzio, applicano un disciplinare più restrittivo». Del consorzio più ampio fanno parte 22 produttori, 14 sono invece quelli che rientrano nel gruppo più circoscritto. Nell’ambito del disciplinare più restrittivo, «è interdetto l’uso del controllo delle temperature, se non nei primi 60 giorni, e la produzione può avvenire solo da ottobre a febbraio, quando le condizioni climatiche lo consentono, non avallando climatizzazioni forzate».

Per Spigaroli, il modo migliore di apprezzare il Culatello di Zibello è affettarlo e servirlo «climatizzato nel modo giusto, cioè a temperatura ambiente, con un buon pane bianco a pasta morbida e basta, accompagnato da un vino del territorio come il Fortana». Questo salume, come evidenzia lo chef, è già talmente buono di per sé da risultare difficile abbinarlo a qualcos’altro. «Tutte le volte che mi accosto a questo prodotto, mi rendo conto che, abbinandolo a un altro ingrediente, se ne perde sempre un po’ l’identità. Azzardo un tagliolino preparato con burro delle vacche rosse e culatello aggiunto all’ultimo, però cambia sempre un po’ il sapore e non si percepiscono più la fragranza e il profumo del

culatello fresco». Grazie a questo salume, il territorio della Bassa Parmense è riemerso, iniziando a esprimere in maniera più incisiva le proprie potenzialità. «Questo prodotto – afferma Spigaroli, che riveste anche la carica di presidente della Strada del culatello di Zibello – ci sta portando avanti nel mondo enogastronomico e sono in aumento i turisti stranieri che vengono nelle terre del culatello, che poi sono anche le terre Verdiane. Come Strada, siamo impegnati nella valorizzazione non solo del culatello, ma anche di tutti gli altri prodotti della zona, perché qui l’arte norcina è qui riconosciuta a livelli mondiali per la sua qualità e i suoi saperi».

d

Maggio 2010



L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il Culatello di Zibello

Il cuore parmense EMILIA, TERRA RICCA DI SAPORI E PROFUMI. TRA LE SUE TANTE E INTENSE “VIE DEL GUSTO” IL NOSTRO PERCORSO ATTRAVERSA LA STRADA DEL CULATELLO DI ZIBELLO

di Simona Cantelmi Gusto • 78

Maggio 2010


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il Culatello di Zibello

S

eguendo la cosiddetta Strada del Culatello di Zibello, ci si addentra per la provincia parmense alla scoperta di memorie storiche suggestive e appetitosi prodotti tipici, passando per la verdiana Busseto, la Fontanellato della celebre rocca e per Colorno, nota per la splendida Reggia Farnesiana. Qui, in località Vedole, un piccolo borgo, si trovano la trattoria Al Vedèl e il Podere Cadassa, specializzati nella lavorazione del gustoso salume. «Nella sala di lavorazione due norcini sapienti, per età ed esperienza, mettono al servizio del podere la loro antica manualità» spiega Enrico Bergonzi, di Al Vedèl. «Nessun conservante viene accettato, solo il sale e il pepe si aggiungono alle qualità della carne di maiali che sono stati seguiti fin dalla nascita. Nella sala interrata adibita a cantina si svolge la stagionatura dove quiete, pazienza e controlli

Maggio 2010

quotidiani porteranno infine il culatello a esibirsi sulla tavola». La trattoria, infatti, si avvale del culatello e di altri salumi prodotti dal Podere per gli antipasti. «Produciamo anche il Fiocco di Culatello, il Salame Gentile, il Salame Sfilsetta, la Coppa e l'ormai introvabile Spalla Cruda». Il culatello è uno dei salumi più prestigiosi della tradizione emiliana. «È la parte più pregiata del maiale, il cuore del prosciutto, quella che sta tra il fiocco e il gambetto, e si produce nel periodo che va da ottobre a febbraio quando l’aria è quasi ferma, la nebbia è densa e la temperatura intorno allo zero. La materia prima è la parte centrale della coscia del suino, disossata e sgrassata, posta sotto sale a caldo, cioè su carne appena macellata, per circa cinque giorni, poi lavata con vino, ricoperta con sale e qualche grano di pepe, insaccata nella vescica di maiale e legata. La stagionatura - prosegue Bergonzi -

avviene in una cantina fresca e areata costruita con i criteri di un tempo per un periodo minimo di undici mesi nei quali, in base a diversi fattori quali umidità, calore e ventilazione, si mantengono inalterate le ideali condizioni di stagionatura». Il culatello è prodotto della filiera autoctona ed è proprio il concetto di “fatto in casa” a essere garanzia di qualità. «Accanto ai salumi locali, ci sono le tipiche ricette del territorio. Noi ad esempio proponiamo i sapori tipici della pianura, come il maiale, il manzo, il pollo o l’oca, e quelli del grande fiume, come storione, anguille, rane, lumache, fino ad arrivare ai gusti delle nostre colline e dell’Appennino, con lepre, quaglie, funghi e tartufi. Penso ai tortelli di erbetta con burro fuso e Parmigiano di collina, al risotto con salame fresco e funghi porcini o alla sella di cinghiale al Barolo, tartar di filetto al tartufo nero e giardiniera di verdure».

In alto, a sinistra, Enrico Bergonzi, al centro, con i membri dello staff della cucina della trattoria Al Vedèl; a destra, Monica Bergonzi e il responsabile della cantina Marco Pizzigoni www.poderecadassa.it/alvedel info@alvedel.it

d

79 • Gusto



L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA La mortadella bolognese

tra modena

e bologna MORTADELLA, ZAMPONE, COTECHINO. MA ANCHE TANTI ALTRI SALUMI INDISSOLUBILMENTE LEGATI AL PATRIMONIO GASTRONOMICO REGIONALE. GIANCARLO ROVERSI RACCONTA I RETROSCENA DI QUESTI NOBILI ALIMENTI

di Nicolò Mulas Marcello

L

a mortadella è stata la vera protagonista dell’export 2009: le sue esportazioni hanno superato la cifra record di 23.440 tonnellate, registrando un incremento a due cifre (+11,3%) per un valore di circa 81 milioni di euro (+8,3%). Il tradizionale salume bolognese vanta una storia che risale addirittura al I secolo d.C. e prenderebbe il nome dal mortarium, ovvero lo strumento con il quale si batteva la carne di maiale. «Noi che siamo stati nutriti con panini alla mortadella – spiega Giancarlo Roversi, scrittore, giornalista e storico dell’alimentazione – ci siamo dimenticati forse il suo valore, ma quando usciamo dai confini regionali vediamo che tutti hanno una venerazione per questo prodotto». Qual è il segreto del successo

Maggio 2010

di questo salume in tutto il mondo? «La mortadella è sempre stato il salume più raffinato che ci fosse in Italia. Nelle mie ricerche, guardando il listino dei prezzi in passato e le tariffe dei prezzi applicati negli anni santi per i pellegrini o per altri passaggi di truppe, ho scoperto che valeva tre volte il prosciutto. È stato sempre il salume più importante di Bologna, tutelato con bolli di ceralacca, con certificati di garanzia della corporazione dei “salaroli” che indicevano dei bandi contro le sofisticazioni. Già alla fine del Cinquecento la mortadella arrivò in America. Un frate domenicano, giunto dagli Stati Uniti a Bologna nel 1670, volle mangiare la mortadella nella città dove la si faceva. Una volta era un prodotto per i ceti abbienti, ma alla fine dell’800 è diventato un pro-

Giancarlo Roversi, scrittore, giornalista e storico dell’alimentazione

• 81 • Gusto


dotto alla portata di tutti». Vi sono stati negli anni cambiamenti significativi nella produzione e nella ricetta della mortadella? «Ovviamente. In passato si usavano i maiali nostrani, i cosiddetti maiali cintati, scuri e a macchie che erano di stazza bassa e pesavano 70/80kg. Poi nel 1862 arrivò dall’Inghilterra il maiale rosa ed è cambiato tutto, anche la sua carne è diversa. La ricetta per la mortadella non si è discostata molto dalla tradizione, c’è chi mette il pistacchio e chi no. C’è, però, un’aberrazione che si fa da una ventina di anni ovvero quella di servire la mortadella a dadini. Invece, la mortadella a Bologna è sempre stata servita sfilata, cioè affettata sottile. I nostri salumieri erano dei maghi a tagliarla a mano, c’era anche una

Gusto • 82

gara nell’Ottocento. Poi è arrivata l’affettatrice, inventata da Giuseppe Giusti, giovane meccanico bolognese subito dopo la metà dell’800. Una volta nei secoli passati la si mangiava anche grattugiata con le grattugie da parmigiano». Come si collocano, invece, zampone e cotechino nella tradizione emiliano-romagnola? «I salumi farciti da cottura in Emilia Romagna sono molti: lo zampone, il cotechino, la salama da sugo, la mariola, la bondiola, il prete, il vescovo, il cappello da prete, il bél e còt. Il cotechino si fa un po’ dappertutto, in Romagna prende il nome di bél e còt ed è più magro. Il prete è la parte finale dello zampetto del maiale appena sopra la zampa. Viene tolto l’osso e viene cotta la carne lasciata nella sua cotica. Oppure dove viene tolto l’osso

IVSI

IVSI

APTServizi Emilia Romagna

L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA La mortadella bolognese

si mette la pasta di zampone o di cotechino, lo si ricuce e lo si cuoce così. La salama da sugo è molto più di carattere perché viene cotta molto in un particolare tipo di vino. Ogni prodotto è adatto a una stagione e lo si accompagna a un vino leggero che può essere un lambrusco. Nel parmense si beve la Fortana o Fortanina che è deliziosa e leggera». Il consorzio dello zampone e del cotechino sta cercando di svincolare questi prodotti dal periodo natalizio. Secondo lei è possibile? «Certo. Io stesso ho fatto preparare in passato dei condimenti a base di pasta di zampone e cotechino e sono ottimi anche per tartine. Fabio Biagi ha realizzato queste tartine qui a Bologna. Ma sono ricette di una volta. Non c’è niente di nuovo sotto il sole».

d

Maggio 2010


Maggio 2010


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il Prosciutto di Parma

“Cruda” dolcezza L’AROMA AUTENTICO DEI PROSCIUTTI DI PARMA È SIGLATO DALLA TRADIZIONE. UNA TRADIZIONE CHE RESISTE, NONOSTANTE L’INFLAZIONE DEI PROCEDIMENTI INDUSTRIALI. L’ESPERIENZA DELLA FRATELLI GALLONI

di Adriana Zuccaro Gusto • 84

Maggio 2010


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA Il Prosciutto di Parma

Carlo Galloni, presidente di una delle più grandi aziende produttrici di prosciutto di Parma, la Fratelli Galloni, con sede a Langhirano www.galloniprosciutto.it

olcezza, fragranza, sapore. «L’unicità del nostro prosciutto di Parma deriva in primo luogo da procedimenti di lavorazione radicati nella tradizione più antica del territorio parmense». Fra i circa centosettanta produttori di prosciutto di Parma, l’azienda, che opera a Langhirano da ormai cinquant’anni, si distingue insieme a pochissime altre, per aver mantenuto metodi di produzione artigianale a salvaguardia delle caratteristiche del più pregiato dei prosciutti italiani. È il presidente Carlo Galloni a spiegare le peculiarità del processo e i requisiti della materia prima necessaria per la produzione di un prosciutto di eccellenza. «La salagione è un’operazione di grande importanza e deve essere effettuata in modo del tutto manuale, valutando la capacità di assorbimento del sale di ogni singola coscia. Nessuna macchina può farlo». La sugnatura, cioè la fase che deve ammorbidire gli strati muscolari superficiali, «deve essere doppia anzi, se necessario tripla». Un’altra tappa fondamentale della lavorazione è la stagionatura, «che deve avvenire in cantine dove si predilige la ventilazione naturale per favorire lo sviluppo di una microflora di speciali lieviti, indispensabili alla formazione dell’aroma unico che contraddistingue un prosciutto di

Maggio 2010

altissima qualità». Ma la lavorazione non è l’unico aspetto da tenere in considerazione. «La materia prima – incalza Carlo Galloni – deve provenire da allevamenti selezionati di pregiati maiali “maturi” pesanti di genetica nazionale, alimentati in modo naturale e sottoposti a rigorosi controlli sanitari ». L’attenzione estrema alla materia prima è una ulteriore ragione che differenzia i prosciutti della Fratelli Galloni da tutte quelle produzioni che, orientandosi verso un’alimentazione e una genetica dei suini simili a quelle nordeuropee, e a lavorazioni standardizzate di tipo industriale, hanno inevitabilmente abbandonato quelle caratteristiche di dolcezza, fragranza e sapore che hanno fatto del Parma un mito italiano.

IL PROSCIUTTO GALLONI NEL MONDO Grazie a un sofisticato controllo qualità la Fratelli Galloni ha ottenuto la certificazione internazionale ISO 9001. Ulteriori riconoscimenti sono giunti con prestigiose certificazioni come la IFS e la BRC, oltre alla certificazione ambientale ISO 14001. L’azienda è abilitata a esportare in paesi con normative sanitarie particolarmente severe, quali Stati Uniti, Canada, Australia, Cina e Giappone, e si è così garantita l’opportunità per diffondere una delle più grandi prelibatezze italiane nel mondo.

d

85 • Gusto


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA La salama da sugo

intensi sapori

ferraresi LA SALAMA DA SUGO O “SALAMINA”, COME LA CHIAMANO I FERRARESI, È UN SALUME RAFFINATO. ALBERTO FABBRI NE RACCONTA LA PRODUZIONE

di Nicolò Mulas Marcello

T

ra i numerosi insaccati da cottura che si producono nel territorio emiliano-romagnolo, ce n’è uno dal sapore molto intenso e dalla produzione esclusivamente circoscritta nell’area della provincia ferrarese. È la salama da sugo, un prodotto al quale anche Slow Food ha riservato un’attenzione particolare. Alberto Fabbri, coordi-

natore dei presìdi Slow Food in Emilia Romagna afferma: «la salama da sugo è un piatto della convivialità, non si può certo consumarlo da soli». Come si presenta la salama da sugo? «La salama da sugo di qualità si riconosce dall’aspetto. Non deve avere muffe sull’esterno. La legatura deve essere fatta con la corda anche se oggi alcuni, soprattutto nelle produzioni casalinghe, la eseguono con gli elastici. Dopo la preparazione il suo peso è di circa 2 kg, dopo la stagionatura diventa di 1kg circa». Cosa rende la salama da sugo ferrarese un salume a rischio di estinzione? Quali peculiarità rendono unica questa specialità?

Gusto • 86

«Per certi versi potrebbe essere definito come un salume in via di estinzione, ma per fortuna non è così. La particolarità della salama da sugo deriva dal fatto che è un salume con una territorialità molto ben definita e caratterizzata: viene lavorata, prodotta e stagionata unicamente nella provincia di Ferrara, a esclusione della zona del delta del Po. Ci sono due tipologie: la tradizionale, che viene lavorata con la macellazione dei maiali solo durante il periodo invernale, da dicembre a febbraio; l’altra è di carattere industriale e viene prodotta tutto l’anno. Per quanto riguarda la salama tradizionale intercorrono almeno 6 mesi di stagionatura, ma anche 12 e per alcune addirittura 24 mesi». Quanti sono i produttori


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA La salama da sugo

LA PREPARAZIONE La salama da sugo viene preparata macinando le parti migliori del maiale con una minima quantità di aglio e alcune spezie come la noce moscata, chiodi di garofano, molto pepe e sale. La concia dell’impasto termina con l’aggiunta di abbondante quantità di vino. «Si usa la Fortana ferrarese, che non ha niente a che vedere con quella parmense» avverte Fabbri. L’impasto viene infine insaccato nella vescica del maiale stesso, dandole una caratteristica forma rotondeggiante.

Foto Slow Food

COME SI CUCINA L’insaccato dalla tipica forma a pera viene immerso nell’acqua a temperatura ambiente ad ammorbidire almeno una notte e poi cotto usando diverse precauzioni. «Nella parte alta

c’è una corda a forma di asola in cui viene infilato un bastone che tiene la salama sospesa nell’acqua perché non deve toccare né il fondo della pentola né le pareti. Una volta veniva anche chiusa di un sacchetto di lino – precisa l’esperto – perché durante la cottura la salama traspira parte del grasso. Il sacchetto aveva proprio la funzione di non far disperdere il grasso nell’acqua in modo tale che una volta aperta, se la carne risultava troppo asciutta si riutilizzava lo stesso grasso rimescolandolo con la carne. «Per la cottura la si lascia bollire per almeno 5 o 6 ore, in alcuni casi di più a seconda della dimensione della salama e a seconda della stagionatura» conclude. Una volta cotta con un cucchiaio si comincia a scavare nell’insaccato.

delle diverse fasce? «In termini industriali non ragioniamo sui numeri, ma sui sistemi di lavorazione e sulle tecnologie usate. Gli stabilimenti di lavorazione più importanti sono cinque. Quelli che la producono su scala familiare invece sono un numero imprecisato perché qualunque contadino la può fare. Direi che sono circa un centinaio. Solo uno è invece il produttore accettato nel presidio Slow Food, La Fattoria La Bozzola».

In apertura, Alberto Fabbri, coordinatore dei presìdi Slow Food in Emilia Romagna. A fianco, fasi di lavorazione della salama da sugo

Come consiglia di consumare la salama per apprezzarne al meglio le qualità? Quali gli abbinamenti migliori? «Di solito viene accompagnata con il purè di patate o di zucca che danno un contrasto di sapore con il gusto molto forte della salama».

d 87 • Gusto



L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA L’aceto balsamico di Modena

Il tempo dei travasi e dei rincalzi DALLA PIÙ ANTICA ACETAIA ESISTENTE APPRENDIAMO QUEI SEGRETI CHE ANCORA OGGI CARATTERIZZANO L’ACETO BALSAMICO DI MODENA. DAL LONTANO 1605

di Adriana Zuccaro

Maggio 2010

89 • Gusto


L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA L’aceto balsamico di Modena

L

a perfezione degli aceti detti balsamici di Modena dipende unicamente da tre condizioni, cioè dalla scelta delle uve, dalla qualità dei recipienti e dal tempo”. In occasione dell’Esposizione Agraria di Modena del 1865 è così che veniva pubblicata la “ricetta di Giuseppe Giusti”, emblema di una tradizione nata nel 1605 e a oggi tramandata di padre in figlio per 17 generazioni. «Per mantenere invariata la qualità dell’aceto balsamico, la famiglia Giusti adotta ancora le medesime regole di un tempo». A svelare alcuni dei segreti dell’attività familiare è il pronipote dell’ultimo Giusti, Claudio Stefani, oggi amministratore delegato dell’azienda. L’aceto balsamico di Modena è uno dei prodotti gastronomici che il mondo ci invidia. Pochi però sanno come si ottiene. «L’aceto balsamico nasce dal mosto delle migliori uve che, vendemmia dopo vendemmia, deve essere selezionato con cura. I mosti devono essere poi lasciati invecchiare in botti di diversa grandezza e di diversa età a seconda della qualità di aceto balsamico che si vuole ricavare. Gli aceti più pregiati, per esempio, nascono dal tradizionale metodo dei “travasi e rincalzi”. Ogni anno è possibile prelevare dalla sola botte più piccola di una batteria composta da 7-9 botticelle di capacità decrescente, una limitata quantità di prodotto da sottoporre all’esame organolettico. La botte su cui è stato eseguito il pre-

Gusto • 90

lievo, verrà poi rincalzata utilizzando l’aceto contenuto della precedente, a sua volta rincalzata dalla terza, e così via fino all’ultima, che accoglie la mistura fresca dei mosti cotti dell’anno». La ricetta di Giuseppe Giusti parla di “recipienti”. Perché sono importanti? «I nostri predecessori ci hanno insegnato che ciò che rende l’aceto balsamico un balsamo è l’invecchiamento nei legni delle botti. Preserviamo per questo una collezione di più di 600 botti risalenti fino al 1600, in cui ancora oggi produciamo aceto. Il legno delle botticelle antiche è intriso degli aromi e dei sapori che nei secoli vi hanno soggiornato, ne conserva le proprietà e le dona ai nuovi aceti mediante ciò che amiamo chiamare il “bouquet di casa Giusti”. L’acetaia storica per noi è dunque un grande

La perfezione degli aceti balsamici di Modena dipende dalle uve, dai recipienti e dal tempo

• Maggio 2010



L’EMILIA ROMAGNA IN TAVOLA L’aceto balsamico di Modena

IL GRAN DEPOSITO ACETO BALSAMICO DI GIUSEPPE GIUSTI È rinomato come la più vasta collezione di botti plurisecolari di aceto balsamico; il migliore viene estratto dopo anni di invecchiamento e miscelazione con aceti ospitati da secoli nelle botti più antiche. Consci dell’importanza di tale patrimonio, i Giusti hanno nei secoli mantenuto con cura e passione la storica acetaia, fondamentale nell’ottenimento del rinomato “bouquet di aromi Giusti”. L’aceto balsamico di Giuseppe Giusti è stato addirittura citato nel best seller internazionale “101 cose da comprare prima di morire”. www.giusti.it

Claudio Stefani, amministratore delegato dell’azienda Giuseppe Giusti, il più antico produttore di aceto balsamico di Modena

Gusto • 92

patrimonio che curiamo quotidianamente per poterlo tramandare un giorno ai nostri figli». Da cosa si riconosce un aceto di alta qualità? «Un buon aceto balsamico, invecchiato secondo il sistema della tradizione, si riconosce da una vellutata densità al palato, dall’intensità e persistenza di sapori e aromi, e dal giusto equilibrio agrodolce. L’assaggio è quindi il metodo migliore, con cui lo stesso consumatore può comprendere appieno le differenze tra i vari aceti e farsi così guidare nella sua scelta gastronomica e negli abbinamenti culinari. Ma anche la fiducia nel produttore è importante: l’antichità della tradizione, la serietà del marchio e l’artigianalità della produ-

zione sono garanzia di qualità. La nostra famiglia, in 400 anni di storia, si è distinta spesso in eventi internazionali per la qualità dei suoi aceti balsamici, premiati con 14 medaglie d’oro nell’Ottocento e stimati anche dal Re d’Italia di cui siamo stati fornitori ufficiali. Ancor oggi, i nostri aceti vengono giudicati in diverse occasioni, conseguendo premi di alto livello a dimostrazione che la qualità e la passione sono le stesse di un tempo». Quali sono stati i principali traguardi? «Per quattro anni consecutivi, 20062009, l’aceto Giusti ha conseguito il massimo del punteggio al “Premio Internazionale del Gusto” organizzato a Bruxelles in collaborazione con le 12 più prestigiose associazioni di

cuochi e sommelier europei; nel 2008 ai Sofi Awards di New York è stato riconosciuto come “Miglior Balsamico 2008”, mentre nel 2009 lo stesso riconoscimento è stato attributo da Der Feinschmecker, la più qualificata rivista di “cibo e vino” in Germania». L’aceto balsamico di Modena ha ottenuto un’importante tutela a livello europeo. «Finalmente dopo lunghi anni di attesa, nel luglio del 2009, questo prodotto fortemente legato al territorio ma conosciuto in tutto il mondo è stato inserito nella rosa delle indicazioni geografiche protette (igp): si tratta di una concreta tutela del consumatore e degli stessi produttori onesti, a riparo da imitazioni e falsificazioni».

d

Maggio 2010




TRADIZIONI La pasta fresca

a lezione di sfoglia TUTTI I SEGRETI PER REALIZZARE UNA BUONA PASTA SFOGLIA SECONDO I PRECETTI DELLA CUCINA EMILIANO-ROMAGNOLA E I CONSIGLI DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE DELLE MARIETTE

di Nike Giurlani

Maggio 2010

l’esempio pratico» racconta Carla Brigliadori, responsabile della scuola di cucina Casa Artusi di Forlimpopoli. Purtroppo i ritmi frenetici della modernità hanno causato la perdita di molti usi e costumi del passato, ma a Casa Artusi, grazie ai corsi di cucina promossi dall’Associazione culturale delle Mariette, la tradizione enogastronomica emiliano-romagnola torna a rivivere. «Questa realtà è nata in onore di Marietta Sabatini, la brava e onesta cuoca di Pellegrino Artusi – spiega la responsabile – e la missione delle

Foto Alan Venzi

L

a pasta fresca è sicuramente la regina della cucina emiliano-romagnola. Che si parli di tagliatelle, di tortellini o maltagliati il segreto è solo uno: la sfoglia. Non c’è, però, un unico metodo. Certo, punto di partenza sono le uova rigorosamente biologiche e la farina. «La sfoglia fatta in casa, mito e rito dell’Emilia e della Romagna, legata a saperi, tecnica, manualità, prodotti è stata tramandata da madre in figlia non tanto con minuziose indicazioni quanto con

• 95 • Gusto


TRADIZIONI La pasta fresca

• Mariette è quella di mantenere viva la tradizione gastronomica popolare, a tutela della nostra identità e della nostra cultura». Durante questi corsi si impara a preparare la pasta fatta a mano, la piadina (il pane romagnolo) e i vari piatti tipici della tradizione del territorio. Le lezioni sono aperte a tutti: bambini, adulti e turisti. «Le Mariette svolgono il ruolo di tutor e ognuna di loro segue al massimo due persone, lavorando con “le mani in pasta” ed, esprimendosi spesso in dialetto, tramandano

Gusto • 96

così la loro esperienza e conoscenza». Nelle preparazioni «impieghiamo cura e attenzione sia nella gestualità che nei metodi di cottura» perché l’obiettivo, rimarca l’esperta, è quello di «trasmettere la ricchezza e l’esperienza della tradizione della cucina di casa». I gesti tipici che vengono insegnati ai corsi sono quelli tramandati dalle nonne, che in dialetto vengono chiamate azdore. «Prima di tutto bisogna sistemare il tagliere, pulirlo con e garnadel e setacciare con e val la farina – illustra

“Il miglior maestro è la pratica” (Pellegrino Artusi)

• Maggio 2010




TRADIZIONI La pasta fresca

Tecniche, ricette e storia di un’arte antica Roberta Schira, scrittrice e critica gastronomica è l’autrice della prima codifica di tutti i formati di pasta fresca e ripiena di Italia. Da quale idea nasce il libro Pasta fresca e ripiena? «È legata a una mia grande passione per la pasta ripiena. Oltre che far la scrittrice, e raccontare il cibo, ho iniziato “con le mani in pasta”, dieci anni fa con il grande chef Claudio Sadler, andando a lezione da lui. Ho cominciato a teorizzare il cibo, dopo avere provato a cucinarlo». A quale esigenza risponde? «Il libro, che ha un approccio antropologico, è frutto di circa tre anni di ricerche in giro per l’Italia durante le quali mi sono accorta dell’infinito numero di varianti esistenti sia di ripieno che di formato. Ci voleva un libro che codificasse tutti i formati di pasta fresca e ripiena. C’è una parte storica, una parte tecnica e una parte di raccolta di ricette, 250 regionali tratte dalla tradizione e 50 provate da me. Accanto alle ricette c’è un numerino che riconduce a questi formati. Con l’editore abbiamo deciso di disegnare i più importanti formati di pasta fresca e ripiena avvalendoci del contributo di una bravissima disegnatrice francese». Perché è stata definita la psicologa del cibo? «Ho da sempre una grande passione per la psicologia e lo studio del comportamento alimentare. Questa definizione è arrivata dopo il mio libro Cucinoterapia, che tratta gli effetti benefici dell’atto di cucinare, come atto creativo in sé». Quale è l’approccio delle nuove generazioni verso la tradizione gastronomica? «C’è un grande interesse. I corsi di cucina sono raddoppiati. Io stessa tengo corsi di cucina e vedo che molti più uomini li frequentano e mi accorgo che, anche per questa contingenza economica, sempre più persone comprano meno cibi già pronti e iniziano a cucinare in casa. Un dato interessante è l’aumento della vendita delle macchine per fare la pasta in casa e per fare il pane».

Maggio 2010

Alcuni momenti della preparazione della pasta sfoglia

Verdiana Gordini, presidente dell’Associazione delle Mariette –, poi si dispone la farina a fontana, si crea il cratere e si rompono dentro le uova. Con la punta delle dita si amalgamano gli ingredienti procedendo dall’interno verso l’esterno della fontana». A questo punto «si raschia con il coltello il tagliere e si procede con la lavorazione dell’impasto, dondolando con il corpo per far forza sui polsi; quando la pasta si allunga, si ripiegano i lati verso il centro, ruotandola poi di 90° e riprendendo il

ritmo armonioso». Quando l’occhio esperto valuta che la lavorazione è terminata «l’impasto viene coperto con un canovaccio e si lascia riposare – prosegue Carla Brigliadori –. Preso poi e sciadur, il matterello, si inizia l’opera più difficile: ridurre il preparato in una bella sfoglia rotonda e sottile». A questo punto si può procedere al taglio per i vari formati: tagliatelle, pappardelle, garganelli, maltagliati, monfrigoli, quadrucci, farfalle, strozzapreti, cappelletti e ravioli.

d

99 • Gusto


caleidoscopio

di gusti DALL’APPENNINO ALLA RIVIERA. NELLE TESTIMONIANZE DI ALCUNI PERSONAGGI EMILIANO ROMAGNOLI PRENDE FORMA UN MOSAICO DI SORPRESE GASTRONOMICHE

di Nicolò Mulas Marcello

Maggio 2010


RICORDI DI CUCINA

L

a ricchezza della tradizione gastronomica dell’Emilia Romagna è nota in tutto il mondo e affonda le sue radici in una storia millenaria fatta di materie prime e usanze indissolubilmente legate al territorio. Il lavoro della campagna nei piccoli centri rurali della regione ha dato vita a un patrimonio gastronomico composto da una gamma sconfinata di prodotti tipici tutelati con marchi Dop e Igp. Essi trovano spesso una maggiore valorizzazione attraverso ricette che si tramandano da secoli e che consolidano l’abbondanza della varietà culinaria regionale. Ogni città è una scoperta di tesori che, dalla pasta ai salumi e ai vini, rappresentano una cucina solida, saporita e generosa. Una cucina che favorisce la convivialità. Piatti dai colori decisi e dai gusti intensi, degni di un popolo di veri e propri buongustai. Franco Maria Ricci, editore d’arte originario di Parma, ama gli anolini in brodo e i tortelli d’erbette, specialità tipiche dell’entroterra parmense e afferma inoltre di avere un debole per «la “culaccia”, una varietà forse meno nota del culatello». La differenza con il tipico culatello di Zibello è il fatto di non essere insaccato. La culac-

Maggio 2010

cia, chiamata anche culatta, è un salume prodotto a Fontanellato, in provincia di Parma. Da un lato, è coperto dalla cotenna e, dall’altro, è presente la sugna. Il palato dell’editore apprezza vini come «la malvasia, nella tipica varietà parmense, non conosciuta da tutti». La Malvasia Colli di Parma è un vino bianco frizzante che si sposa benissimo con i salumi tipici parmensi e con i primi piatti tradizionali. «E poi c’è la classica Fortana, vino rosso leggero che raggiunge gli 8 gradi, da non confondere con la Fortana ferrarese che presenta una gradazione più forte». Lo chiamano il vino della Bassa per la sua ambientazione nel territorio parmense che comprende, come sua terra d’origine, San Secondo e la zona limitrofa a Pavarara, dove un tempo scorreva il fiume Taro. Molti anche i ristoranti tipici del territorio apprezzati da Franco Maria Ricci: «c’è un ristorante eccellente a Fontevivo, si chiama Il Rigoletto, dove rivivono tutte le specialità del territorio parmense» e per gli amanti del pesce, sempre in località Fontevivo, vicino Parma «c’è una bravissima cuoca che prepara straordinari piatti di pesce nel ristorante L’Araba Fenice». Sempre in Emilia, nel ferrarese, lo

A destra, Franco Maria Ricci, editore d’arte e giornalista; sotto, anolotti al brodo

• 101 • Gusto



RICORDI DI CUCINA

A fianco, un piatto di salama da sugo con il purè; sotto, il poeta Roberto Pazzi

• scrittore, poeta e giornalista Roberto Pazzi si dice molto legato ai tradizionali cappelletti in brodo, una varietà di pasta da non confondere con i tortellini per non animare faide interregionali. «Evocano lontane delizie di Natali dell’infanzia – afferma – con una famiglia riunita la domenica da mia nonna paterna, fuori Porta Mare a Ferrara, che con matriarcale sapienza ammanniva cappelletti in brodo che avevano il sapore della felicità». Per assaporare un piatto di cappelletti cucinati seguendo tutti i canoni della tradizione, ma anche la migliore salama da sugo della città, è d’obbligo secondo Pazzi una sosta

Maggio 2010

«dalla Gigina, vicino alla stazione delle ferrovie, una trattoria storica del 1901 gestita dalla famiglia Baglioni da quattro generazioni. Era la trattoria degli operai e dei braccianti». Lo stesso proprietario Franco Baglioni confeziona ancora oggi la salama che poi cucina per i suoi clienti. «Oggi è rimasta un’isola felice di autenticità, anticonvenzionale e antiborghese, locale preferito dagli artisti e da coloro che amano non mettersi in parata a tavola, ma la semplicità e la qualità. La famiglia Baglioni è in cucina e serve in tavola. Ci si sente a casa, soprattutto l’estate sotto i tigli del cortile. Atmosfera anni 50 irripetibile e rara». E per accom-

pagnare un pasto ricco di sapori forti, come è tipico della cucina ferrarese, Pazzi preferisce «il lambrusco, ma anche il vino fragolino. Ferrara non è ricca di vini, ma i pochi che ha sono sinceri e si accompagnano bene a cappelletti, lasagne e maiale».

103 • Gusto


RICORDI DI CUCINA

• Sopra, il comico televisivo Paolo Cevoli

Gusto • 104

Riccionese è invece il comico Paolo Cevoli che, come ci si poteva aspettare, esalta la piadina, una delle specialità più semplici ma anche più gustose della tradizione romagnola: «la piadina sopra di tutto. Quella sottile, solo acqua, farina e strutto di maiale». Anche per quanto riguarda la piadina esistono varie tipologie: nel riminese, infatti, viene prodotta molto sottile; nel forlivese, ravennate e cesenate si presenta più spessa mentre nel pesarese prende, infine, il nome di ‘crescia’ ed è più sfogliata e saporita. «E poi amo anche i primi piatti fatti in casa. Tagliatelle, strozzapreti e cappelletti». Piatti che si confon-

dono nelle preparazioni da luogo a luogo nell’entroterra romagnolo. Per quanto riguarda i ristoranti, Cevoli non lesina in campanilismo consigliando un posto “familiare”: «Dalla mia mamma Marisa. Ha fatto per anni la cuoca nella pensione della mia famiglia, la pensione Cinzia. Lì porto i miei amici. Come fa da mangiare la mia mamma, non c’è chef che tenga». La tradizione dei vini romagnoli spazia dai rossi come il Sangiovese o la Cagnina fino ai bianchi come il Trebbiano o l’Albana. «Ce ne sono molti di ottima qualità. I miei preferiti sono quelli di San Patrignano. Grande posto, grandi vini».

d

Maggio 2010



IGP DEL VENETO Asparago bianco di Cimadolmo

il piacere della purezza UN PRODOTTO SPECIALE, FIGLIO DELLE TERRE DEL PIAVE. A RIDOSSO DELLO STORICO FIUME NASCE L’ASPARAGO BIANCO DI CIMADOLMO. FLAVIO PETERLE NE ILLUSTRA I SEGRETI

di Ezio Petrillo Gusto • 106

Maggio 2010


IGP DEL VENETO Asparago bianco di Cimadolmo

E

ra tra i cibi preferiti di antichi Egizi, Greci e Romani. Citato anche da Catone nel De agricoltura, l’asparago resta ancora oggi un prodotto pregiato dalle innate qualità depurative. Cimadolmo, comune del Trevigiano, a un passo dalle sponde del Piave, è la patria dell’ortaggio bianco marchiato dalla certificazione europea Igp. Flavio Peterle, presidente del Consorzio di tutela, spiega proprietà e metodi di produzione. «Il nostro prodotto – esordisce il presidente – si differenzia per l’uniformità della calibratura dei mazzi

e per il suo colore bianco. Un’altra particolarità è data dalla pochissima fibrosità e dalla grande cura nella preparazione con le punte chiuse. Una volta pronto e cotto, l’asparago è molto gustoso, morbido e burroso». Il rigido disciplinare di produzione è la linea guida per i coltivatori dell’ortaggio di Cimadolmo. «I nostri protocolli – prosegue Peterle – sono costituiti da un registro trattamenti e un rigoroso piano di concimazione fatto in base alle analisi del terreno. Facciamo in modo da non avere asparagiaie né anoressiche né obese. L’equilibrio deve essere

la nostra rotta, oltre ai controlli. Ogni cinque anni abbiamo l’obbligo di effettuare analisi del terreno per conoscere le micro-sostanze e gli elementi presenti. In seguito, col tecnico, si valuta un piano di concimazione equilibrato che consente di avere un prodotto unico. La raccolta dell’asparago avviene al mattino presto, seguita da preparazione, lavaggio, confezionamento e consegna in un centro raccolta già nel primo pomeriggio». L’ortaggio Igp di Cimadolmo fa gola anche oltre confine. «Come mercato di riferimento – svela Peterle – pun-

Sotto, un campo di asparago bianco di Cimadolmo



IGP DEL VENETO Asparago bianco di Cimadolmo

FILETTO DI ROMBO CHIODATO IN CROSTA DI MANDORLE, CON ASPARAGI BIANCHI E VERDI DI CIMADOLMO IGP Ingredienti per 4 persone: · 1 rombo del peso di 2 kg · 200 gr circa di filetti di mandorle con buccia al vapore, pelata, · 50 gr parmigiano · 50 gr di ricotta · 50 gr di burro, olio extra vergine di oliva, noce moscata e olio per friggere Preparazione: Filettare il rombo, lavare bene i filetti e adagiarli in placca da forno. Salarli, peparli e cospargerli con le mandorle. Cuocere in forno a 180°. A parte, pelare gli asparagi, lavarli e tagliare le punte a julienne della lunghezza di 5cm. Con il resto degli asparagi procedere alla cottura a vapore a 80°, aggiungendo un cucchiaino di zucchero all’interno del sacchetto per smorzare l’amaro. Dopo la cottura passarli al setaccio, incorporando il parmigiano, la ricotta, del burro fuso e della noce moscata. Aggiungere sale e pepe. Per comporre il piatto, adagiare il filetto di rombo, porre di fianco due quenelle di purea di asparagi e sopra adagiate le punte fritte in olio bollente. La ricetta è proposta da Luigi Barbiero del ristorante Le Calandrine di Cimadolmo

Maggio 2010

Sopra, un momento della coltivazione dell’asparago

• tiamo molto sull’Italia settentrionale ma anche sulla Germania. Nel centro-sud, invece, c’è una cultura diversa di consumo, basata più sull’asparago verde rispetto al bianco. La nostra produzione, inoltre, si rivela un prezioso supporto per i ristoranti della zona di Cimadolmo che presentano tutti un menù fisso di asparagi. C’è chi lo abbina con vari tipi di carne o di pesce oltre a grigliate e spiedi, mentre la ricetta con le uova è la nostra specialità tradizionale». La particolare conformazione del territorio ai margini del Piave rappresenta quel surplus di qualità che garantisce all’asparago bianco un sapore speciale. «Tutte le zone

che in passato sono state alluvionate dalla piena del Piave – conclude il presidente – presentano un “riporto” di terreno limoso e si direbbe che sia stato questo il vero punto a favore della coltivazione. Ci siamo accorti che man mano che ci si allontana dall’argine del fiume, i terreni tendono a diventare meno produttivi rispetto a quelli che si trovano a ridosso del Piave. A seguito di piccole piene, il fiume si è espanso su tutta la campagna circostante e ha fornito quel terreno che oggi fa la differenza in qualità, abbinato alle tecniche di produzione. L’asparago bianco di Cimadolmo, insomma, è il degno figlio di queste terre».

d

109 • Gusto


IGP DEL VENETO Riso vialone nano Veronese

il re tra

i risotti IL RISO VIALONE NANO VERONESE È UN IGP PRODOTTO CON TECNICHE DERIVATE DALLE ANTICHE TRADIZIONI LOCALI. LO SPIEGA IL PRESIDENTE DEL CONSORZIO ERNESTO ARTEGIANI

di Rosario Pivani Gusto • 110

Maggio 2010


IGP DEL VENETO Riso vialone nano Veronese

L

ì e non altrove. È al cento per cento un frutto della terra scaligera, il riso nano vialone Veronese. Essendo «la zona della sua produzione e della sua lavorazione limitata a quella parte della pianura veronese, irrigata con acque di risorgiva, che si estende a Sud della città e comprende il territorio di 24 comuni». Da Bovolone a Zevio, passando per Isola della Scala, Palù e Trevenzuolo. È una perla della nostra risicoltura, questo “figlio” delle acque e delle zolle veronesi. Igp da quasi tre lustri. Un marchio di qualità che, precisa Ernesto Artegiani, presidente del Consorzio per la tutela del riso vialone nano Veronese, «si riferisce solamente a riso della varietà Vialone Nano coltivato appunto nella pianura veronese secondo il disciplinare

Maggio 2010

approvato dalla Commissione europea». Regole a 27 stelle che, però, affondano le radici nella storia. «Le tecniche di coltivazione – rivela Artegiani – sono derivate dalle antiche tradizioni locali e sono eseguite con le stesse modalità, anche se con macchine moderne controllate elettronicamente che migliorano e facilitano le operazioni una volta affidate al lavoro manuale dell’uomo». In pratica, questo metodo «tipico della zona» prevede l’avvicendamento della coltivazione del riso con altre colture (max 6 anni a riso e almeno 2 anni di altre coltivazioni), «l’irrigazione con pure e limpide acque di risorgiva e la lavorazione del riso, leggera e delicata». Passaggi che «forniscono al prodotto delle caratteristiche organolettiche che lo di-

stinguono dallo stesso riso prodotto in altre zone». Inevitabile per il Consorzio disciplinare, a garanzia della qualità assoluta del prodotto (e quindi dei consumatori), ogni singola fase. Dalla produzione alla lavorazione. Un codice elaborato «sulla base delle conoscenze storiche e delle tradizioni locali, dall’osservazione delle diversità dei metodi di coltivazione rispetto ad altre aree risicole, dalla comparazione della qualità del prodotto veronese con quella di prodotti similari di altre zone». Il ciclo produttivo del celebre chicco, racconta Artegiani, «comincia con la semina nella seconda quindicina di aprile e finisce con la raccolta tra l’ultima quindicina di settembre e la prima di ottobre. Durante la crescita delle piante, un’assidua presenza del

• 111 • Gusto



IGP DEL VENETO Riso vialone nano Veronese

RISOTTO ALL’ISOLANA Ingredienti per 10 persone: · 1 Kg di Riso nano vialone Veronese Igp · 2 litri di brodo di carne · 250 gr di vitello magro · 450 gr di lombata di maiale · 200 gr di burro (150 gr per il condimento, una noce a fine cottura) · 200 gr di grana grattuggiato (150 gr da mescolare bene con un cucchiaio di cannella, 50 gr per una spruzzatina finale) · Sale, pepe, cannella q.b. · Rosmarino, tre spicchi d’aglio Preparazione: Per il condimento, macinare la carne di vitello e quella di maiale con un tritacarne possibilmente manuale o con la piastra non troppo grande, quindi tritare l’aglio molto fine e condire la carne, aggiungendo poco sale e pepe possibilmente macinato fresco. Lavorare, formare una palla e lasciare riposare in frigorifero per almeno due ore. Fondere 150 gr di burro in una casseruola, aggiungere la carne e rosolarla. Appena avrà preso colore, mettere il rosmarino e cuocere la carne per almeno 25 minuti, aggiungendo di tanto in tanto del brodo. Prima di fine cottura, togliere il rosmarino e mettere da parte il condimento. Dopo aver cotto il riso aggiungere il condimento precedente, la noce di burro rimasta e mescolare energicamente aggiungendo a manciate il grana profumato alla cannella.

Maggio 2010

coltivatore e una costante attività di monitoraggio delle condizioni climatiche e dello stato vegetativo della coltura garantiscono una sana crescita e una perfetta uniforme maturazione delle granelle del riso». La raccolta si effettua poi «con moderne macchine mietitrebbiatrici dotate di cingolatura per evitare di sprofondare nei terreni ancora umidi delle risaie e attrezzate con organi di battitura che non danneggiano i granelli del riso». Molto delicata anche la fase di lavorazione. «Dopo la raccolta, il riso grezzo (risone) viene inviato all’essiccazione per ridurre l’umidità e raggiungere in tempi ottimali una percentuale di acqua non superiore al 13%. Per evitare danni ai granelli del riso, l’essiccazione si effettua lentamente in appositi essiccatoi mediante passaggio di aria calda alla temperatura di circa 45°c. Un’essiccazione troppo violenta potrebbe

provocare delle microfratture al risone che poi comprometterebbero la resa in riso lavorato, causando la rottura delle cariossidi. Una volta essiccato, il risone viene stivato in magazzini o silos, raffreddato con aria refrigerata, e conservato fino alla lavorazione». In tavola, per il presidente del Consorzio, il riso vialone nano Veronese non ha rivali. «È il re dei risi per risotti. Il suo chicco grosso e tozzo, dalla superficie porosa, si presta per la preparazione di tutti i tipi di risotti, ma manifesta le sue migliori prestazioni con condimenti a base di carne o pesce perché assorbe bene il condimento e manteca in un modo perfetto. La sua tenuta alla cottura e la consistenza del chicco anche dopo qualche tempo dallo spegnimento del fuoco facilita molto le operazioni di cucina e fornisce sempre ottimi risultati».

d

113 • Gusto



IGP DEL VENETO Ciliegia di Marostica

rosso

ciliegia LA TRADIZIONE COME MARCHIO DI QUALITÀ INDELEBILE. IL SAPORE UNICO È L’EFFETTO FINALE. ALLA SCOPERTA DELLA CILIEGIA DI MAROSTICA IGP CON GIUSEPPE ZUECH

di Ezio Petrillo

E

ra la prima metà del 400 quando, a Marostica, un documento testimoniava la produzione della ciliegia più famosa d’Italia. Il marchio Igp è il giusto riconoscimento per un pro-

Maggio 2010

dotto più unico che raro. Il presidente del Consorzio di tutela, Giuseppe Zuech, illustra le straordinarie peculiarità del piccolo frutto rosso della città degli scacchi. «Siamo stati i primi a ottenere il riconoscimento

Igp – esordisce Zuech – grazie all’impegno dei produttori che hanno capito l’importanza della valorizzazione dei prodotti tipici in un contesto moderno di globalizzazione. La ciliegia di Marostica gode ormai dieci anni del marchio europeo. Puntare sulla qualità e sulla caratterizzazione per sopravvivere alla crisi e alla mondializzazione dei mercati è la strada maestra per la tutela delle piccole aziende agricole del nostro territorio». La particolarità della ciliegia dei colli vicentini è da ricercare soprattutto negli scrupolosi metodi di coltivazione, trattamento e lavorazione. «Dobbiamo rispettare un rigido disciplinare di produzione – prosegue Zuech –, che impone varie fasi. Anzitutto occorre effettuare l’analisi chimica del terreno prima di piantare i ciliegi. Successivamente bisogna fare

In alto a sinistra un primo piano delle gustose ciliegie di Marostica.

• 115 • Gusto



IGP DEL VENETO Ciliegia di Marostica

TORTA DI CILIEGIE DELLA TRADIZIONE Ingredienti: · 700 g di duroni di Mason · 150 g di burro · 200 g di farina un pizzico di sale · 1 bustina di vanillina · ½ bustina di lievito

Preparazione: Amalgamate il burro precedentemente tagliato a tocchetti con lo zucchero e il sale, aggiungete le uova, una alla volta, e, continuando a mescolare la vanillina, il lievito precedentemente sciolto nel latte e la farina, fino a ottenere un impasto omogeneo e semidenso. Aggiungete al composto così ottenuto le ciliegie snocciolate e versate il tutto in una tortiera precedentemente rivestita di carta da forno. Cospargete con dello zucchero di canna e cucinate nel forno preriscaldato a 160° per circa un’ora. Togliete dal forno e lasciate raffreddare prima di servire. La ricetta è proposta dallo chef Gaetano Lunardon del ristorante La Rosina di Marostica

Siamo stati i primi ad ottenere il marchio Igp, grazie all’impegno dei produttori Maggio 2010

delle buche di un metro di profondità e larghezza, in modo da fornire spazio alla pianta per poter crescere. È necessario consentire, inoltre, la presenza delle api durante la fioritura per le fasi di impollinazione. Dobbiamo, insomma, seguire trattamenti particolari affinché il prodotto risponda a caratteristiche di qualità certificata». Per produrre un marchio di alta qualità, in sostanza, oltre alle scrupolose cure dei coltivatori, è fondamentale disporre di un territorio salubre e fertile. «Abbiamo la fortuna di vivere in una zona collinare – conclude Zuech - dove il clima è sempre mite e si presta molto alle cure delle ciliegie e dei

vigneti. Inoltre il terreno di origine vulcanica consente di avere un prodotto molto gustoso. Quello che ci differenzia dagli altri territori è proprio il sapore particolare di cui sono dotati i nostri frutti. Madre natura è stata sempre nostra complice». L’unicità della ciliegia di Marostica non risiede soltanto nella lavorazione ma si scopre anche a tavola. «Il frutto si consuma prevalentemente fresco – sottolinea il presidente –, è utilizzato per fare torte oppure sotto spirito per ottenere un’ottima grappa. Alcuni ristoranti del territorio, però, hanno iniziato a sperimentare la ciliegia anche col risotto e coi ravioli».

d

117 • Gusto


PRODOTTI IGP Radicchio di Treviso

autunnale dono

all’inverno RADICCHIO ROSSO DI TREVISO E VARIEGATO DI CASTELFRANCO SONO PRODOTTI UNICI CHE, PER PAOLO MANZAN, PRESIDENTE DEL CONSORZIO, SONO IL MEGLIO NELLE PREPARAZIONI A CRUDO

di Viviana Mancuso

D

ella stessa famiglia, ma ben distinti. Insomma più cugini, che fratelli. Il capostipite è il Radicchio rosso di Treviso, «la cui conformazione è stata mantenuta pura nei secoli per le selezioni successive». Il parente è il Variegato di Castelfranco, «un incrocio, realizzato nel XX secolo, tra il radicchio rosso e la scarola». Un’origine differente che si riflette, di conseguenza, nella morfologia. Il Radicchio rosso di Treviso si presenta «compatto, con foglie ben serrate e avvolgenti, dal colore rosso vignoso intenso e con nervature bianche». Il Variegato di Castelfranco, invece, con «foglie ben aperte dal colore bianco crema e venature di tinte di-

Gusto • 118

verse dal viola chiaro al rosso violaceo e al rosso vivo». Entrambi Igp. «Due gli elementi, validi per entrambi – spiega Paolo Manzan, presidente del Consorzio tutela Radicchio Rosso di Treviso e Variegato di Castelfranco –, che hanno caratterizzato l’assegnazione del riconoscimento. Innanzitutto l’ambiente: sono necessari terreni freschi, profondi e ben drenati, non eccessivamente ricchi di elementi nutritivi. In secondo luogo, l’esperienza umana, fondamentale, nella selezione del seme e poi nel continuo controllo della purezza dello stesso che rende circoscritta e unica l’area di produzione». Ovvero le province di Treviso, Padova e Venezia. Solo lì, infatti, si producono, si trasfor-

mano e si confezionano il Rosso e il Variegato. «È un territorio pianeggiante con terreni argillosi e sabbiosi – osserva Manzan – e con una situazione climatica caratterizzata da estati sufficientemente piovose e con temperature massime contenute, autunni asciutti, inverni che volgono precocemente al freddo e con temperature minime fino a meno 10°C». Per coltivarli, occorrono tecniche codificate dal Consorzio. «La semina del Radicchio rosso di Treviso, tardivo e precoce, deve avvenire tra l’1 giugno e il 31 luglio, mentre per il Radicchio variegato di Castelfranco le operazioni di semina, in pieno campo, devono essere effettuate dall’1 giugno al 15 agosto. In caso di trapianto, il termine si allunga al 31

• Maggio 2010


PRODOTTI IGP Radicchio di Treviso

Consorzio di Tutela Radicchio Rosso di Treviso e Variegato di Castelfranco Igp - Spigariol e Zanato

In senso orario, momento della raccolta del Radicchio rosso di Treviso, il Variegato di Castelfranco, il Radicchio rosso di Treviso precoce e il Radicchio rosso ancora nel campo

Maggio 2010

119 • Gusto


Maggio 2010


PRODOTTI IGP Radicchio di Treviso

INSALATA DI RADICCHIO ROSSO DI TREVISO IGP COTTO E CRUDO, TOAST, UOVO BASOTTO E CICCIOLI DI GUANCIALE Ingredienti per 4 persone: · 8 fette di pane casereccio · 3 cespi di Radicchio Rosso di Treviso IGP · 100 gr di guanciale a fette spesse e tagliate a strisce · 4 uova · un litro di latte · 300 gr di farine miste per friggere un limone · olio extra vergine di oliva · aceto balsamico · sale e pepe q.b.

Raffaele Ros, chef del ‘Ristorante San Martino’ Rio San Martino Scorzè (VE)

Maggio 2010

Preparazione: Tagliare un cespo di Radicchio rosso in ottavi e sbollentare in acqua salata per 2 minuti. Prendere un altro cespo e prepararlo come insalata. L’ultimo cespo, spuntato di un terzo, tagliarlo in spicchi regolari e immergerlo nel latte. Cuocere le uova per 3 minuti, pelarle e tenerle al caldo. Tostare il pane con un po’ d’olio, appena le fette sono dorate toglierle e tenerle al caldo. Fondere lentamente il guanciale in un tegame, appena i ciccioli sono croccanti toglierli dal tegame e aggiungervi gli ottavi di radicchio e rosolarli per qualche minuto. Condire ora l'insalata con vinaigrette al limone.

agosto per entrambi». Durante la lavorazione, rileva il presidente, «fondamentale è la forzatura o imbianchimento. I cespi vengono collocati verticalmente in ampie vasche protette e immersi in acqua di falda (il fiume Sile che lambisce la pianura trevigiana ha una temperatura pressoché costante di 12°C), fino in prossimità del colletto per il tempo necessario al raggiungimento del giusto grado di maturazione». Un’operazione «insostituibile consente di esaltare i pregi organolettici, ponendo i cespi in condizioni di formare nuove foglie che, in assenza di

luce, sono prive o quasi di pigmenti clorofilliani, mettono in evidenza la colorazione rosso intensa della lamina fogliare, perdono la consistenza fibrosa, assumono croccantezza e un sapore gradevolmente amarognolo». Ferrea anche la scansione temporale per la raccolta. Per il Radicchio rosso precoce si va nei campi dall’1 settembre, mentre per il Variegato di Castelfranco dall’1 ottobre. Infine, per il Radicchio rosso tardivo dall’1 novembre «e comunque dopo che la coltura abbia subito almeno due brinate, per favorire la colorazione rossa

della pianta. Al di fuori di questi termini e dei territori amministrativi riconosciutiavverte Manzan -, i radicchi commercializzati perdono in via definitiva il diritto di fregiarsi dell’Igp e di qualsiasi riferimento geografico». Prodotti unici che «danno il meglio di sé nelle preparazioni a crudo. Tuttavia – conclude il presidente –, la differenza di gusto permette anche applicazioni differenti. Il Radicchio Rosso di Treviso ha una buona resa anche cotto, fritto o grigliato. Il Variegato, invece, è una scelta ottimale nelle ricette che necessitano di una presenza molto delicata del sapore del radicchio».

d

121 • Gusto


vocazione pasticcera LA TRADIZIONE PASTICCERA ITALIANA. QUELLA SEMPLICE E QUELLA PIÙ ELABORATA. UN TRIONFO DI SAPORI CHE NON È APPREZZATO SOLTANTO IN ITALIA, MA STA SPOPOLANDO ANCHE ALL’ESTERO. L’ESPERIENZA DELLA VICENZI

di Simona Cantelmi Maggio 2010


PASTICCERIA ITALIANA Vicenzi

I

In apertura, lavorazione dell’amaretto; sotto, il responsabile marketing di Vicenzi Biscotti Cristian Modolo. In questa pagina, il presidente Vicenzi assiste alla stretta di mano fra un importatore israeliano e uno palestinese al salone mondiale dei prodotti dolciari a Colonia

l mercato italiano esprime un radicato apprezzamento di determinati prodotti e ha abitudini alimentari piuttosto consolidate, «anche quando ad andare di moda sembrano essere filoni di consumo distanti dalla tradizione alimentare italiana». Inoltre, per quanto riguarda l’estero la pasticceria italiana è riconosciuta ed estremamente richiesta, soprattutto in quei paesi che non hanno una loro tradizione alimentare. Per questo, spiega Giuseppe Vicenzi, presidente della Vicenzi Biscotti, «non è difficile coniugare il rispetto per la tradizione con l’attenzione al mercato internazionale». Ad esempio i consumatori stranieri apprezzano molto la semplicità della pasticceria italiana. «E proprio in base a questa evidenza riusciamo a proporre anche all’estero i nostri prodotti “così come sono”, senza elaborarli o modificarli. Sono biscotti tradizionali, dal sapore in-

confondibile. Penso al savoiardo, all’amaretto o alle millefoglie. Gli ingredienti sono semplici, ma lavorati con estrema cura». Tutti prodotti tradizionali che possono avere impieghi diversi, ad esempio possono diventare ingredienti per dolci più complessi. Si sa che il savoiardo va a braccetto con il tiramisù, ma si usa anche per altri tipi di dolci ed è apprezzato come biscotto da colazione. «La semplicità dei suoi ingredienti, - interviene Giuseppe Vicenzi - zucchero, farina e uova, gli permette di essere apprezzato anche durante una semplice colazione a base di latte o the». Un discorso simile può essere fatto anche per l’amaretto, riconoscibile per il tipico sapore dolce amaro e di tipo secco, o per le millefoglie, realizzate con la classica pasta sfoglia, friabile e leggera e adatto per una merenda o spuntino. È proprio questa la pasticceria semplice che soddisfa le papille gustative di italiani e stranieri alla ricerca di sapori diversi. «Ma oltre questa vi è anche una pasticceria più complessa – spiega Vicenzi – realizzata con pasticcini di pasta frolla ripieni di morbida crema al cacao o pasticcera o ricchi di gocce di cioccolato, oppure golosi cannoncini di pasta sfoglia ripieni alla crema nocciola, e il classico amaretto, ricoperto con granelle di zucchero e ricco di mandorle di albicocca».

TORTA ALLA RICOTTA CON VICENZOVO Ingredienti impasto: 10 savoiardi Vicenzovo sbriciolati 12 fette biscottate sbriciolate 80 grammi di burro fuso 100 grammi di zucchero Ingredienti ripieno: 2 etti di ricotta 3 uova 1 bustina di vanillina 100 grammi di zucchero scorza di limone grattugiata 2 cucchiai di succo di limone 3 cucchiai di farina 250 ml di panna per dolci Preparazione: Mescolare tutti insieme gli ingredienti per l’impasto, stendendone i 3/4 sul fondo di una tortiera rotonda. Mescolare tutti insieme gli ingredienti del ripieno, versando il composto ottenuto sulla base dell’impasto. Coprire il tutto con l’impasto tenuto da parte. Mettere in forno a 180° per 30 minuti. Riporre in frigo per un’ora prima di servire con decorazioni a piacere.

d

Maggio 2010

123 • Gusto


PROFUMI VENETI

Gusto • 124

Maggio 2010


PROFUMI VENETI

la ricchezza in tavola PEARÀ, SPUSSON, MARRONI DI MONFENERA, RADICCHIO TREVIGIANO: IL VENETO È UNA GIRANDOLA DI PROFUMI E SAPORI CHE AFFONDANO LE LORO RADICI NELLA TRADIZIONE

di Alfonso Pellicola

M

r Geox ama mettere la mani in pasta a ogni latitudine la sua impresa lo porti a camminare. Anche se «preferisce cucinare» ciò che coltiva nel piccolo orto adiacente casa «senza pesticidi o sostanze che possano intaccarne la qualità». L’olimpionica vorace di record si sta «perfezionando nelle omelette», essendo le uova in cima al medagliere degli ingredienti con cui cimentarsi tra i fornelli. Infine, c’è il primo cittadino della città del Castelvecchio che «per tutelare la salute mia e degli altri, non avendo mai avuto il tempo di imparare», si tiene lontano dalle pentole. Veneto, terra di caratteri forti:

Maggio 2010

Mario Moretti Polegato, Federica Pellegrini e Flavio Tosi. Treviso, Venezia e Verona: un mare di sapori in cui s’immerge il patron della Geox, il trevigiano Moretti Polegato. «Nella nostra provincia ci sono più prodotti Doc che paesi. Questo si riflette in una grande varietà di sapori, colori e profumi che, alternandosi nelle varie stagioni, ci accompagnano tutto l’anno». Una ricchezza che rende il Veneto simile «a una grande tavola specializ-

125 • Gusto



PROFUMI VENETI

In apertura, Mario Moretti Polegato, presidente di Geox; sotto, il sindaco di Verona, Flavio Tosi; a fianco, il Bastardo del grappa, formaggio tipico veneto; in basso, il risotto all’amarone

in piatti tradizionali, prodotti • zata tipici e vini realizzati con antichi processi». Con ottime carni e formaggi come il Bastardo del grappa o lo Spusson. Nel piatto del sindaco di Verona non manca mai la Pearà, «una salsa calda che accompagna il lesso fatta con pan grattato, brodo di carne, midollo di bue, pepe e formaggio Grana. È una prelibatezza tramandata nei secoli». E se il dovere o il piacere conduce Tosi lontano da piazza delle Erbe, la nostalgia gustativa parla di «Pastisada di cavallo, bigoli con il ragù di carne e a volte anche il luccio del lago di Garda». La stella polare culinaria dell’inventore della “scarpa che respira” è co-

Maggio 2010

stituita «dalle ricette sobrie di mia madre o di mia nonna», ma quando viaggia si adatta. Tanto da cimentarsi in Thailanda nella zuppa di pesce, tom yum kung. Anziché andare al ristorante, «ho fatto la spesa e mi sono messo ai fornelli». E comunque il suo menu ideale è un trionfo del km zero: «Antipasto di “poenta e ciodet” con radicchio trevigiano


PROFUMI VENETI

Gusto • 128

alla griglia. Come primo, risotto agli asparagi trevigiani. Per secondo, sono un appassionato di spiedo che adoro assieme alle patate del Montello o ai fagioli borlotti nani di cui qui c’è una particolare coltivazione. Come dolce, una torta a base di marroni» cresciuti tra Monfenera e Combai. E i vini? «A “km sotto zero”: tanta è la distanza che separa la mia cucina dall’azienda di famiglia». Oscilla tra Dop e Igp, la tavola di Tosi: risotto all’amarone o al radicchio rosso di Verona, asparagi con le uova e formaggio Monte Veronese, un buon bicchiere di Soave. E per concludere, sfoglia-

tine dolci di Villafranca. Pasta al pomodoro bollito e carpaccio di carne è l’uno-due di Federica Pellegrini che, per il suo palmares, non sacrifica alcunché: «Non seguo diete rigide. Non abuso di dolci e non bevo alcolici, ma posso aggredire con entusiasmo un’alzata di crostacei e molluschi crudi». Lontana da Spinea tutto l’anno, la nuotatrice ama una «cucina tra oriente e occidente. Con i sapori di terra che si mescolano a quelli di mare». Forte, però, il richiamo «delle zuppe tipiche e dei risotti» a partire da quello al radicchio di mamma Cinzia per cui «scatta l’applauso». Unico tradimento: «la parmigiana di melanzane».

A sinistra, l’olimpionica Federica Pellegrini; in alto, una veduta dei vigneti di Soave

d

Maggio 2010



La stanza dei sapori


IL TRATTAMENTO DELLE CARNI San Daniele del Friuli

PER CHI PRODUCE SAN DANIELE, I PARTICOLARI METODI DI TRATTAMENTO RAPPRESENTANO UN INCENTIVO ALL’INNOVAZIONE. PAROLA DI CARLO DALL’AVA

di Ezio Petrillo

A sinistra l’interno del prosciuttificio DOK di San Daniele. A destra Carlo e Natalino Dall’Ava info@dallava.com

L

a qualità non è un optional. È la filosofia necessaria alla base del trattamento, della produzione e della lavorazione dei prosciutti. San Daniele del Friuli è un microcosmo dove i salumi, da semplici antipasti, sono diventati protagonisti assoluti del pranzo e della cena e dove, a fare la differenza, sono i particolari sin dalla fase di allevamento. In tale contesto si muove l’azienda DOK di Carlo Dall’Ava che ha dedicato una vita al miglioramento della prosciugazione delle carni. Oggi la sua impresa si pone all’avanguardia per le tecniche utilizzate. Qual è la particolarità dei metodi di lavorazione? «Il nostro vanto è l’innovazione al servizio della tradizione, senza robot che velocizzino le movimentazioni. Il passare del tempo non ha comportato nessun cambiamento nella filosofia di lavorazione. Semplicemente ci siamo riappropriati dei tempi giusti che servono per ottenere prodotti armoniosi ed equilibrati, senza utilizzo di additivi e conservanti. Questo è il vero segreto». Quale sarebbe, dal suo punto di vista, un modello di allevamento ideale? «Penso a un semibrado che guardi sempre di più alla qualità delle carni e alla salute dell’animale. In tal modo, dopo la trasformazione, si ha la garanzia di

avere tra le mani prodotti genuini nel senso lato del termine. Mi spiego meglio. Se il maiale vive bene e in un ambiente ideale, minori saranno le difficoltà nella lavorazione e nella conservazione dei prodotti derivati». Ritiene che oggi la proliferazione delle grandi catene di distribuzione oltre alla crisi economica, abbiano un po’ “sminuito” il valore della qualità? «Vedere prodotti con marchio D.O.P. proposti a certi prezzi di offerta per attirare i consumatori ha un effetto deleterio, che sminuisce il valore degli alimenti stessi globalizzandone il gusto verso il basso. Ritengo sia importante educare il consumatore, mettendolo nelle condizioni di poter scegliere con maggior cognizione di causa rispetto al passato». Nel 2010 sarà completata la costruzione del primo “Prosciutto Learning Center” al mondo. Che importanza ricopre l’aspetto della formazione nel vostro settore? «Il “Prosciutto Learning Center” ha come obiettivo quello di ricreare una coscienza negli operatori che andranno a produrre, selezionare, vendere e degustare il prosciutto, portando l’insegnamento delle antiche tecniche utilizzate quando si produceva, non con una logica di profitto, ma solo per autoconsumo. Siamo certi che per ottenere un buon prosciutto sia necessaria, in tutte le sue fasi di lavorazione, un’attenzione di questo tipo».

d

131 • Gusto


IL TRATTAMENTO DELLE CARNI I salumi

Sapori dalla storia TIPICITÀ, TRADIZIONE E RISPETTO DEI PROCESSI NATURALI. LA CHIAVE PER CREARE BUONI SALUMI È TUTTA QUI

di Ezio Petrillo

Q

uando la miglior ricetta è la passione. Lavorazione artigianale, genuinità delle materie prime che si coniugano con l’amore per il territorio. È il mix necessario per ottenere salumi di qualità. Giancarlo Frachetti ci svela i segreti per combinare rispetto della tradizione e modernità. «Il nostro obiettivo – spiega Frachetti - , è sempre stato quello di offrire un prodotto tipico, conosciuto e apprezzato. A parte l’innovazione tecnologica nei macchinari e i mo-

Gusto • 132

In alto a destra, i salami confezionati dal salumificio Frachetti. Qui sotto, lo speck info@frachetti.it

derni metodi di controllo, possiamo dire che le carni e le spezie sono sempre le stesse da 120 anni. Spesso, nel tentativo di innovare un prodotto per inseguire la “moda” del momento, si rischia di perdere la tipicità. Ogni salume ha una sua storia, un suo sapore tipico e un profumo che lo distingue dagli altri. Quando si assaggia una fetta di speck, non può avere lo stesso sapore di una bresaola o di un prosciutto» La lavorazione è un processo delicato in cui la cura della materia prima gioca un ruolo fondamentale. «Selezionare le carni – prosegue Frachetti - è il

segreto alla base della bontà del gusto. Mai sceglierle in base al loro prezzo ma in base alla qualità, rispettando, soprattutto, i tempi naturali di maturazione dei prodotti. Per avere un buon salume bisogna saper aspettare. Non è possibile produrre un salame stagionato in una settimana e nemmeno vendere uno speck dopo soli tre mesi di invecchiamento». La concorrenza sempre più agguerrita dei grandi centri commerciali funge anche da stimolo per i piccoli produttori. «Mantenere alta la qualità e la tipicità dei prodotti deve essere la carta vincente – conclude Frachetti . sia quando si tratta di speck, di carne salada, di luganega trentina, e di lingue salmistrate. Non ci possono essere eccezioni».

d

Maggio 2010



L’OLIO TOSCANO Il Frantoio del Colle

Un patrimonio

da difendere EQUILIBRATE ARMONIE DI SAPORI E FRAGRANZE. L’OLIO DUPLICA LA FAMA DELLA TOSCANA, NON SOLO TERRA DI GRANDI VINI. MA VA PROTETTO DAL RISCHIO DELL’APPIATTIMENTO INDUSTRIALE

di Adriana Zuccaro Gusto • 134


L’OLIO TOSCANO Il Frantoio del Colle

O

Veronica Bianchini è responsabile controllo qualità del Frantoio del Colle di Scansano. In alto, l’olio extravergine d’oliva prodotto dal Frantoio del Colle www.frantoiodelcolle.it

Maggio 2010

ro verde. Ricco re della dieta mediterranea. Genuino. Con un flavour tipicamente italiano, l’olio è da sempre considerato il fiore all’occhiello della produzione alimentare del Belpaese. «Da un’attenta analisi del patrimonio agronomico nazionale è emerso che una sempre maggiore importanza viene attribuita ai prodotti di qualità. Così che, se nell’immaginario collettivo la Toscana è la terra di grandi vini, abbiamo fatto nostro l’impegno di far conoscere un altro prodotto di eccellenza quale è l’olio extravergine toscano IGP». Per Veronica Bianchini, responsabile controllo qualità del Frantoio del Colle di Scansano, occorre tener presente che «l’olio non è solo condimento ma una vera e propria eccellenza nel panorama agroalimentare internazionale». Soprattutto in un momento storico come questo, in cui la salvaguardia del territorio e delle peculiarità dei suoi prodotti è ovunque fondamentale. «Occorre – sostiene la Bianchini – contrastare l’industria alimentare che, sempre più spesso, cerca di appiattire il gusto del consumatore in modo da aprire la strada a colture sempre più industrializzate e che non disdegnano l’utilizzo di prodotti geneticamente modificati». E infatti, solo valorizzando i prodotti ricavabili dalle nostre terre si otterranno e si manterranno alimenti tipici e si conserverà quell’immenso patrimonio riconosciutoci a livello internazionale che è la dieta mediterranea.

L’olio Toscano IGP ha un gusto armonico, mediamente fruttato con sentori di carciofo ed erba

Qual è il valore aggiunto dell’olio toscano rispetto a quelli italiani e stranieri? «Per quanto riguarda le caratteristiche che contraddistinguono i prodotti olivicoli del panorama non solo nazionale, l’olio toscano ottenuto seguendo un disciplinare di produzione molto rigido, è il più equilibrato dal punto di visto organolettico, non presentando note eccessive di amaro o piccante. Per questo il Toscano IGP è apprezzato nel mondo come olio di ottima qualità, con un gusto armonico perché mediamente fruttato con sentore di carciofo ed erba». Su quali fattori occorre puntare per portare qualità alla tavola dei consumatori? «L’unicità e le caratteristiche organolettiche di un prodotto alimentare derivano da tre fattori fondamentali, ovvero il territorio, le varietà coltivate e la cura del ciclo produttivo. Il nostro frantoio si avvale di fatto dei benefici naturali del territorio collinare in cui è ubicato e delle caratteristiche climatiche che rendono possibile la produzione di un olio da agricoltura biologica, difeso da infestanti e parassiti. Le va-

rietà utilizzate sono le tipiche toscane quali frantoiano, leccino e moraiolo da cui otteniamo sia blend che ottimi monocultivar». In quale fase produttiva è possibile valorizzare il prodotto? «Una buona parte del lavoro per ottenere un olio di qualità riconosciuta, si ottiene in frantoio. La nostra azienda frange le olive entro 6 ore dalla raccolta e per garantire la qualità del prodotto ha inserito nel proprio ciclo produttivo un innovativo sistema di trasformazione in grado di controllare tutti i parametri fondamentali dell’olio lavorando con un ciclo di produzione sotto gas inerte che riduce i tempi di lavorazione al minimo, evita l’ossidazione del prodotto e mantiene alti i profumi e le qualità organolettiche».

d

135 • Gusto




L’ITALIA DEI VINI Cantina Custoza

una vittoria a custoza

Gusto • 138

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Cantina Custoza

NELLA ZONA DELLE COLLINE MORENICHE DEL GARDA I VIGNETI SONO INFRAMMEZZATI DA BOSCHI E FRUTTETI. L’ESPERIENZA DELLA CANTINA DI CUSTOZA

di Simona Cantelmi

I

vigneti della Cantina di Custoza, fondata nel 1968 in provincia di Verona, si dipanano su un’area di circa mille ettari, collocati principalmente sulle colline moreniche a sud del Lago di Garda. Questo tipo di terreno permette ai vini bianchi di acquisire un’espressione aromatica intensa e complessa e alle uve rosse di generare vini dalle intensità di colore molto buona e stabile e aromi ben caratterizzati. A spiegare le attività e le peculiarità dei vini della Cantina è il presidente Giovanni Fagiuoli. Quali sono le caratteristiche del territorio sui cui crescono i vostri vitigni? «Siamo nella zona delle colline moreniche del Garda: terra che è il risultato di antichi ghiacciai. Il Lago di Garda è il più grande bacino del sistema alpino e mitiga i rigori dell’inverno e le calure estive. Nella zona prospera l’ulivo e le case sono spesso ornate con palme. Il panorama è particolarmente piace-

Maggio 2010

vole, nel susseguirsi delle colline che s’inseguono, talvolta ancora libere da insediamenti abitativi, in un’alternarsi di vigneti, boschi e frutteti di ogni tipo. Il terreno è di medio impasto, ghiaioso e particolarmente adatto alla cultura della vite». Qual è la situazione del mercato del settore? «Siamo soliti dire che, dopo le battaglie del 1848 e del 1866, Custoza ha visto “finalmente una vittoria”: il nostro vino. Siamo presenti in tutto il mondo: dal Canada al Giappone, dagli Stati Uniti alla Cina. E, naturalmente, in tutta Europa. Il nostro successo, sia per quanto riguarda la denominazione del Custoza in generale sia per quanto riguarda la Cantina di Custoza in particolare, è stato coronato dalla dichiarazione del presidente della Federazione dei Consorzi di tutela, il quale ha affermato che l’unica denominazione che nel 2009 “annus horribilis” dell’economia abbia

avuto un “trend” positivo è stato il Custoza. La Cantina, per parte sua, ha aumentato l’imbottigliamento del 10%».

Sopra, una parte della staff della cantina Custoza

Quali sono le iniziative per promuovere il vino bianco di Custoza? «Sempre più numerose sono le visite di esperti nella nostra ospitale zona, nella quale trovano spalancate le porte di tutti i produttori. La promozione in senso stretto si limita alla presentazione del nostro prodotto fatto dalle singole cantine e in serate di assaggi con acquirenti italiani ed esteri organizzate dal Consorzio di tutela del vino bianco di Custoza». Quali sono le caratteristiche di questo vino? «Il vino è fresco, beverino, gentile e piacevole. Il colore è giallo paglierino. La gradazione è tra gli 11 e i 12 gradi. Il Custoza è risultato di un “blend”: Garganega (20 – 40%), Trebbiano

• 139 • Gusto


L’ITALIA DEI VINI Cantina Custoza

CUSTOZA DOC · Gradazione alcolica: 12° volume · Affinamento in bottiglia: 1 mese · Aspetto: colore giallo paglierino, venature verdognolo-dorate · Profumo: vinoso, accentuato, spesso sfuma in un piacevole aroma · Sapore: secco-gentile, morbido, ben equilibrato dalla franca sapidità e dal retrogusto lievemente amarognolo.

– 45%), Tocai, localmente chia• (10 mato Trebbianello (5 – 30%) e ancora (dal 20 al 30%) è il frutto di un incrocio tra Manzoni Bianco, Riesling Italico, Cortese, Pinot Bianco e Chardonnay. Questo permette a ogni singolo produttore di personalizzare il proprio vino, dando profumi e aromi leggermente diversi». Quali sono le peculiarità, invece, del Bardolino? «Il Bardolino ha sofferto la concorrenza del Valpolicella. Adesso sta ottenendo successo nella tipologia di Bardolino Chiaretto». Quali sono altri vini caratteristici della vostra cantina? «Ricordiamo che al Custoza si sono aggiunte le tipologie del Custoza Superiore, dello Spumante e del passito. La nostra cantina è il punto di riferi-

Gusto • 140

mento di queste quattro tipologie. Produciamo anche Bardolino sia classico che normale, oltre al Chiaretto. E a questi vini accostiamo la Garganega in purezza e la Corvina in purezza. I nostri clienti trovano nel nostro punto vendita vino di Lugana, di Soave, di Pinot Grigio per quel che riguarda i bianchi e Valpolicella, Amarone, Cabernet Sauvignon e vari nostri blend per quel che riguarda i rossi. I clienti sono particolarmente affezionati al nostro punto vendita, prova ne è la costante presenza di visitatori, che sempre più accompagnano da noi i loro amici intenditori». Quest’anno vi è stato assegnato il premio speciale Vinitaly Regione 2010. Come siete riusciti a raggiungere questo risultato? «È un lavoro che ha avuto inizio anni

addietro con investimenti da parte dei soci della Cantina che hanno migliorato e affinato la produzione di uve, riducendo drasticamente le quantità per ettaro, privilegiando la qualità del loro prodotto. La cantina consiglia i vitigni da mettere a dimora e fornisce un costante aiuto tecnico sia nella realizzazione degli impianti sia nella gestione della lotta antiparassitaria. La qualità delle uve è giunta a livelli tali da consentire di non ricorrere agli arricchimenti con mosti concentrati. Assai importante è la cultura biologica di vari agricoltori che ci hanno fatto conoscere in Italia e all’estero con prodotti di alta qualità. Inoltre gli impianti della Cantina continuano a essere potenziati con l’inserimento di macchinari sempre più sofisticati e con un monitoraggio costante e preciso di ogni singolo vaso vinario».

d

Maggio 2010



il sapore della memoria VIE STORICHE ED ENOLOGICHE POSSONO FONDERSI IN UN PERCORSO CULTURALE SUGGESTIVO. NE PARLA GIOVANNI GRECO, PRESIDENTE DEI VITICULTORI ASSOCIATI DI CANICATTÌ

di Simona Cantelmi Gusto • 142

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Viticultori associati di Canicattì

C

onoscere, apprezzare e saper mettere a frutto le qualità e le peculiarità di un territorio. È ciò che si propongono di fare i viticultori associati di Canicattì, in provincia di Agrigento, i quali agiscono su una superficie vasta che si estende in buona parte nella provincia di Agrigento e che lambisce i territori del nisseno e della provincia di Palermo. Le condizioni pedoclimatiche, cioè del clima e della composizione dei terreni, variano profondamente nel raggio di pochi chilometri e permettono una grande varietà di produzioni, proprio in virtù di questa forte differenziazione. È una diversità da analizzare, comprendere e utilizzare, poiché si tratta di una risorsa inestimabile e rara. Lo spiega il presidente della cantina sociale di Canicattì Giovanni Greco.

Racchiudete ben sessanta contesti viticoli diversi. Come convivono tali differenti realtà? «La nostra cooperativa è nata quarant’anni fa e riusciamo attraverso le varie territorialità a variare la tipologia dei nostri prodotti, anche perché facciamo un lavoro in profondità, con

Maggio 2010

tecnici che seguono le piccole aziende. Abbiamo 450 soci, la cui superficie media è di 2/2,5 ettari. Nel corso dell’anno facciamo circa quattro assemblee, in cui impostiamo la campagna produttiva, poi teniamo aggiornati costantemente i nostri produttori sui progetti, su come deve evolversi la campagna viticola. Questo ci consente di avere il polso della situazione e di orientare le tecniche colturali e le varie tipologie viticole presenti sul territorio». Il legame col territorio quanto è presente nelle vostre produzioni? «È fondamentale. Non a caso stiamo avviando un progetto per l’utilizzo della miniera di zolfo di Taccia Caci per affinare i nostri vini più importanti, verificare come si comporta il vino in determinate condizioni. È un parco minerario abbandonato da trent’anni e sconosciuto ai più, ma è un posto meraviglioso. Sono luoghi legati alla memoria, alla tradizione, alla fatica e che in qualche modo sono stati rimossi, per cui noi vogliamo - o almeno speriamo di riuscirci - legare la vita produttiva della cantina a un percorso di conoscenza e di rivalutazione del territorio, attra-

verso questa sperimentazione di vino e prodotti fatti nella miniera. Quando il progetto sarà completato organizzeremo itinerari, visite guidate, eventi enogastronomici, per unire il vino a un percorso di archeologia industriale. Inoltre, la miniera, che apparteneva alla famiglia di Luigi Pirandello, è a cinque minuti dalla Valle dei Templi, per cui s’inserirebbe benissimo in un percorso didattico o di viaggio in queste zone». Quali sono i principali vini che producete? «I terreni sono posizionati al livello del mare fino ad arrivare all’alta collina, con una varietà climatica ed escursioni termiche che consentono di creare vini che mescolano ed esaltano i profumi. Facciamo una selezione che tiene conto delle varie aree territoriali. Per quanto riguarda i bianchi abbiamo il Catarratto Inzolia, il Grillo, il

In apertura, vigneti a Canicattì; sotto, il presidente di Viticultori associati Giovanni Greco.


L’ITALIA DEI VINI Viticultori associati di Canicattì

AYNAT, ROSSO IGT SICILIA · Gradazione alcolica: 14,5 % volume · Affinamento: 12/14 mesi in barili di Rovere francese nuovi · Affinamento in bottiglia: 12 mesi prima della commercializzazione · Aspetto: rosso intenso, quasi nero con riflessi purpurei · Profumo: ampiamente riconoscibili i tipici caratteri varietali, dai sentori di prugna alla ciliegia nera sotto spirito, dalle note di humus a quelle di liquirizia; aprendosi, si avvertono anche intense sfumature di noce moscata, tabacco e grafite, ben distinte e piacevoli · Sapore: espressività e armonia sono i suoi temi dominanti, che si traducono in una bocca gustosa e vibrante, dove primeggiano il calore e la disarmante incredibile facilità di beva, resa possibile anche dai vellutati tannini

che si può considerare un • Syrah, po’ misto. Il nostro cavallo di battaglia, però, è il Nero d’Avola e non a caso per l’Aynat abbiamo ottenuto la medaglia d’oro al Vinitaly per la regione Sicilia, ma anche tutte le altre produzioni confermano la stessa qualità». Come siete arrivati all’importante riconoscimento di Vinitaly? «Abbiamo svolto un lavoro costante e il premio è a testimonianza del nostro grosso impegno. Ci auguriamo che tale riconoscimento gratifichi anche la commercializzazione, valorizzi la produzione, per retribuire in ma-

Gusto • 144

niera adeguata le uve che i nostri soci con tanti sacrifici hanno portato in cantina». Quali sono le fasi di lavorazione e di affinamento del vino? Ci sono fasi comuni ai vari vini e differenze? «I rossi e i bianchi normali sono affinati in vasche di acciaio inox, mentre l’Aynat, ad esempio, viene affinato un anno in barrique e un altro in bottiglia. Specialmente lo Scialo, che è un blend tra Nero d’Avola e Syrah, sta sei mesi in barrique e un anno in bottiglia». I vari associati come collaborano?

«C’è un regolamento che disciplina le modalità di coltivazione, le rese per ettaro. Poi devono seguire tutte le nostre indicazioni per quanto riguarda le concimazioni, gli interventi fitosanitari, che sono molto limitati perché siamo in una zona molto calda, asciutta e ventilata, quindi non abbiamo particolari patologie di muffe, di umidità e le uve sono sempre molto sane. Si segue un calendario per la raccolta: si parte sostanzialmente a metà agosto per le uve bianche che vengono dalla zona vicino al mare e si prosegue fino a metà ottobre per il Nero d’Avola e le uve di struttura maggiore verso la collina».

d

Maggio 2010



tradizioni della terra QUANDO IL LEGAME FRA VINO E TERRITORIO È INDISSOLUBILE. NE PARLA CARLO SPINELLI, DI TERRA D’ALIGI DI ATESSA, IN PROVINCIA DI CHIETI

di Simona Cantelmi Gusto • 146

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Terra d’Aligi

L

e fertili colline della Valle del Sangro, punteggiate dai ricetti dei pastori, fanno da sfondo e alimentano i ricchi e ordinati filari abruzzesi. «I principali vitigni – spiega Carlo Spinelli dell’Azienda Agricola terra d’Aligi – sono il Montepulciano d’Abruzzo, il più importante vitigno a bacca rossa presente nel nostro territorio, da cui si ottiene l’omonimo vino. Dalle stesse uve, con tecniche di macerazione diverse, si ottiene il Cerasuolo. Il Montepulciano, dal grappolo compatto con acini consistenti, può considerarsi sicuramente il vitigno autoctono del territorio. La vendemmia è piuttosto tardiva, dal momento che la maturazione avviene quasi sempre nella seconda decade di ottobre». Il Cerasuolo, invece, «è un vino piacevolmente morbido e fruttato e si ottiene tramite macerazione a freddo del pigiato, pigiatura soffice e fermentazione in acciaio a temperatura controllata. È un vino rosso ciliegia brillante, con ampi profumi fruttati e finissime note floreali. Un vino di buona struttura, equilibrato, morbido e persistente». Tra i vitigni a bacca bianca il principale è Il Trebbiano d’Abruzzo. «Ha un grappolo grande di forma piramidale, molto compatto. Dalle uve Trebbiano si ottengono vini di colore giallo paglierino, con delicate note floreali che si fondono ad ampi

Maggio 2010

profumi di frutta fresca. Vini di buona struttura, sapidi, morbidi e persistenti». Il territorio della valle del Sangro è particolarmente vocato alla produzione di vino. «Il particolare microclima che presenta ampi sbalzi termici tra il giorno e la notte, tra l’estate e l’inverno – prosegue Spinelli – si unisce alla conformazione collinare con terreni di medio impasto, argillosi e calcarei con ottimo drenaggio. Troviamo vigneti in parcelle allevate a tendone e soprat-

In apertura, il fondatore, Vincenzo Spinelli; sotto, Carlo Spinelli, direttore commerciale di Terra d’Aligi

147 • Gusto


L’ITALIA DEI VINI Terra d’Aligi

MONTEPULCIANO D’ABRUZZO TATONE · Gradazione alcolica: 14° volume · Aspetto: rosso rubino intenso, con riflessi violacei · Profumo: ampi profumi di frutta rossa matura con note floreali di violetta e rosa e fini note speziati dolci · Sapore: vino complesso ed equilibrato, dove i profumi di frutta rossa matura si armonizzano con i dolci sentori di spezie e al palato risulta succoso e persistente

D’Annunzio ha identificato il personaggio Aligi come il capostipite di tutti i pastori,pertanto Terra d’Aligi significa “terra di pastori” Gusto • 148

tutto a filari». Terra d’Aligi esporta all’estero ben il 65% della produzione, ma il legame col territorio è fortissimo. «L’Abruzzo è terra di pastori e contadini e di D’Annunzio, che in un suo poema ha identificato il personaggio Aligi (poeticamente) come il capostipite di tutti i pastori. Pertanto Terra d’Aligi significa “terra di pastori”, “terra di contadini” e quindi terra d’Abruzzo. Anche i nomi dei nostri vini comunicano le nostre origini, come ad esempio il Montepulciano d’Abruzzo “Tatone”, che nel nostro dialetto significa nonno. Nelle famiglie patriarcali contadine dove all’interno dello stesso nucleo familiare vivevano più generazioni, la persona più anziana era appellata con il nomignolo “tatone”, a significare il saggio della famiglia». Erano spesso le persone anziane a trasmettere alle nuove ge-

nerazioni l’arte dei vignaioli. «Sicuramente si tratta di un lavoro qualificato, dove anno per anno si acquisiscono conoscenze ed esperienze. Ogni stagione ha una sua storia e i lavori vanno calibrati in base alle caratteristiche del terreno e del vitigno e all’andamento climatico. Terra d’Aligi ha ottenuto il Premio speciale Vinitaly Regione. «Tutti i concorsi sono importanti,ma sicuramente ricevere un premio a uno dei concorsi più selettivi e prestigiosi a livello mondiale è molto gratificante in quanto è un riconoscimento all’azienda e allo standard qualitativo elevato riscontrato nei prodotti. Siamo arrivati a questi livelli grazie al lavoro quotidiano che da anni portiamo avanti con attenzione, meticolosità e passione infinita; passione che aiuta a superare le mille difficoltà che giornalmente capitano».

d

Maggio 2010



L’ITALIA DEI VINI Tenuta Pepe

IRPINIA terra di vigneti RECUPERARE E PROMUOVERE I VITIGNI AUTOCTONI E LE BELLEZZE DEL TERRITORIO CAMPANO. È LA MISSIONE DI MILENA PEPE, DELLA TENUTA CAVALIER PEPE

di Simona Cantelmi Gusto • 150

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Tenuta Pepe

A

l Vinitaly di quest’anno, il premio “Cangrande” è stato assegnato, per la Campania, a Milena Pepe, giovane enologa belga-irpina della Tenuta Cavalier Pepe, nel cuore dell’areale delle tre Docg regionali, tra Sant’Angelo all’Esca e Luogosano, in provincia di Avellino. In cinque anni, dopo essere rientrata in Italia dal Belgio nel 2005 proprio per occuparsi dell’azienda di famiglia, ha messo insieme una realtà di 40 ettari di vigneti. «La nostra tenuta si estende tra i comuni di Luogosano, Sant’Angelo all’Esca e Taurasi – afferma – a un’altitudine compresa tra i 350 e i 500 metri, con belle

Maggio 2010

pendenze ed esposizione al sole d’estate, inverni rigidi e una buona ventilazione». Le uve hanno caratteristiche solide. «Concentrazione per i rossi e mineralità per i bianchi. Sono vini che hanno corpo e che possono durare nel tempo e invecchiare bene», spiega la manager. L’etichetta principale è il Taurasi. «Il vitigno che lo produce è l’Aglianico e cresce su un terreno argilloso-calcareo. Il Taurasi è il rosso più pregiato dell’Irpinia». Anche il Fiano di Avellino, che genera il bianco Refiano, cresce su un terreno argilloso-calcareo, mentre per il Greco di Tufo la tipologia di terreno è argillosa, con elementi vulcanici. Esistono differenze di lavorazione fra i diversi vini.

• 151 • Gusto


L’ITALIA DEI VINI Tenuta Pepe

• OPERA TAURASI D.O.C.G. · Gradazione alcolica: 13° volume · Affinamento in barrique: 18 mesi · Affinamento in bottiglia: 12 mesi · Caratteristiche Organolettiche · Aspetto: colore rosso rubino intenso · Profumo: complessità aromatica con sentori di frutti rossi maturi sotto spirito, sentori di amarene, di prugna secca e spezie · Sapore: corposo con tannini presenti ma fini, pieno e avvolgente, lascia in bocca un finale lungo e intenso

Gusto • 152

«L’Aglianico per il Taurasi è vendemmiato tra fine ottobre e inizio novembre, mentre per Fiano e Greco iniziamo a metà ottobre. Il Fiano è molto aromatico e lo maceriamo sulle bucce per qualche ora prima di pressarlo. Il Greco, invece, viene pressato direttamente. Per il Taurasi è prevista una lunga fermentazione e macerazione di più di tre settimane, poi viene messo nelle barrique di rovere francese». Il gusto e l’aroma di ogni vino si assaporati meglio se accompagnati dai giusti sapori. «Il Taurasi si accompagna meglio con i sapori forti, le carni arrostite, la selvaggina, formaggi piccanti e salumi – spiega Milena Pepe –. Il Refiano sarebbe ideale gustarlo con pietanze a base di frutti di

mare e crostacei, così come il Greco di Tufo, che si può abbinare anche a primi piatti con funghi e tartufo e alle carni bianche». Il territorio campano andrebbe promosso anche attraverso queste eccellenze. «Noi cerchiamo di essere un centro d’ospitalità in Irpinia. I visitatori possono venire in azienda, poi mangiare al ristorante e soggiornare al bed and breakfast, entrambi all’interno della nostra tenuta. Nel ristorante realizziamo un menu di degustazione con i vini. Poi organizziamo visite ai vigneti, che curo anche personalmente, parlando ai turisti in italiano e in inglese. Spero di riuscire a trasmettere a chi viene qua un po’ di bellezza del territorio campano».

d

Maggio 2010



L’oro di valdobbiadene NON SEMPLICEMENTE PROSECCO. MA UNO SPUMANTE ITALIANO CHE NASCE IN UN TERRITORIO DOCG. CARLO CARAMEL RACCONTA IL SUO “ORO DI VALDOBBIADENE”

di Eugenia Campo di Costa

C

anevel in dialetto veneto significa “piccola cantina”, il posto dove tenere i vini migliori, dove custodire segreti e tradizioni». Sono le parole di Carlo Caramel, presidente della Canevel Spumanti, un’azienda nata nel 1979, fondata da Mario Caramel e Roberto De Lucchi, con lo spirito di valorizzare l’oro di Valdobbiadene e renderlo al pari, in termini di qualità e prestigio, di tutti gli altri spumanti italiani e non solo. Se si pensa che l’1 Aprile 2010 è nata la Valdobbiadene D.O.C.G., massimo riconoscimento qualitativo per le produzioni italiane, è evidente come, con le sue 7 versioni di prosecco, l’azienda Canevel Spumanti proponga un panorama completo dell’eccellenza qua-

Gusto • 154

litativa del territorio. «La nostra realtà è in prima linea nella difesa del territorio di Valdobbiadene, che con l’allargamento della zona DOC a tutto il Friuli Venezia Giulia e a buona parte del Veneto corre seri rischi di impoverimento» spiega Carlo Caramel, da 11 anni alla guida dell’azienda affiancato dall’enologo Roberto De Lucchi. Per questo, già da 7 anni, è stata abolita in azienda la parola “prosecco”. «Questo vitigno è stato allevato, cresciuto e reso celebre dalle aziende della pedemontana trevigiana, e oggi ne è stato concesso l’uso indiscriminato ad aziende che lo hanno sempre denigrato finché si sono accorte che negli ultimi tempi è stato l’unico vino a registrare trend positivi a doppia cifra. Oggi comincia una nuova sfida, dove

la vera differenza la fa il territorio e per questo va rimarcata la qualità del Valdobbiadene DOCG». Canevel Spumanti, che vede nel Valdobbiadene Spumante Extra Dry DOCG la sua punta di diamante, produce ogni anno circa un milione di bottiglie, dalle uve provenienti dai 30 ettari di proprietà e dagli altri 50 di affezionati conferitori della zona del colle di San Biagio, a Saccol di Valdobbiadene. «Tutte le nostre uve vengono vinificate in casa – piega Carlo Caramel -. Questo aspetto è fondamentale: control-

In alto, i vitigni di Valdobbiadene. Sotto, Carlo Caramel Presidente della Canevel Spumanti e, nella pagina accanto l’enologo Roberto De Lucchi

www.canevel.it


L’ITALIA DEI VINI Il prosecco

lare tutta la filiera produttiva, garantisce di fatto, il rispetto della filosofia aziendale di ricerca della massima qualità». Una volta raccolte, le uve vengono trasferite all’interno delle presse mediante nastri trasportatori. Il processo di spremitura, soffice, rimane a pressioni piuttosto basse. Il mosto ottenuto viene subito raffreddato alla temperatura di 3° C per inibire qualunque processo di fermentazione spontanea, e convogliato all’interno di una delle 50 vasche di raccolta in cantina. «Le vasche sono piccole e numerose per poter dividere i mosti in base alla loro provenienza, qualità, maturazione e qualunque altro parametro l’enologo reputi importante. In vasca – continua Caramel - viene controllata la prima fermentazione. Ne derivano vini di basso tenore alcolico, circa 8 gradi, che costituiscono le basi per lo spumante». Segue la fase di spumantizzazione. «Qui sta l’intuizione dell’ingegner Martinotti poiché, a differenza dei francesi che effettuano la seconda fermentazione in bottiglia, il metodo Martinotti provoca la spu-

Maggio 2010

mantizzazione in un unico grande recipiente a tenuta: l’autoclave che consente di non disperdere l’anidride carbonica». Rispetto alla fermentazione in bottiglia, l’autoclave abbatte drasticamente tempi e costi ed è particolarmente indicata per i vitigni aromatici, perché consente agli spumanti di mantenere i loro profumi primari. «Dopo i 30 giorni minimi stabiliti dal disciplinare per lo sviluppo di questo processo e un’ultima filtrazione – conclude Caramel -, lo spumante viene imbottigliato con una riempitrice particolare in grado di mantenere costante la pressione e ridurre a valori prossimi allo zero i residui di ossigeno». Il 76% circa dello spumante così realizzato copre il mercato nazionale, il restante 24% ha ottenuto un buon posizionamento in Austria, Svizzera, Germania, e Gran Bretagna. Piccole, ma importanti, sono anche le presenze segnalate in USA, Canada, Singapore, Tailandia, Giappone e Maldive.

VALDOBBIADENE EXTRA DRY DOCG · Provenienza Zona collinare tra Valdobbiadene e Conegliano · Volume 11% · Aspetto Paglierino scarico con leggere tonalità verdognole, brillante · Perlage Paglierino · Profumo Preponderante la mela, contorno di fiori freschi (glicine e acacia) sempre armoniosi e ben sostenuti · Sapore Armonioso, elegante, strutturato

d

155 • Gusto


All’origine IL TERRITORIO AVER CURA DEI VITIGNI. SEGUIRE LA TRADIZIONE, DEFINIRE UN METODO E RISPETTARE LA CULTURA CHE OGNI VINO PORTA CON SÉ. ECCO COME, SECONDO LEONILDO PIEROPAN, SI OTTIENE UN VINO D’AUTORE

di Ezio Petrillo Gusto • 156

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Il Soave

DENOMINAZIONE LA ROCCA

T

radurre in un buon bicchiere le ricchezze di un territorio. È la missione delle aziende enologiche italiane, che coltivano vitigni e producono vini apprezzati in tutto il mondo. Un’isola felice dell’economia vinicola nostrana è rappresentata dal Veneto, dove la produzione è significativa e i terreni evocati sono all’origine di prodotti autentici e caratteristici allo stesso tempo. Leonildo Pieropan, proprietario di una azienda dalla tradizione secolare, offre interessanti spunti per comprendere i segreti e la lavorazione dei suo vini più rinomati. Partiamo da un “classico” . Qual è la filosofia alla base della produzione del “vostro Soave”? «In quarant’anni della mia attività di vignaiolo ho cercato di tracciare un percorso nuovo per il territorio del Soave e per la mia azienda. Ho approfondito il solco che mio nonno e

mio padre avevano realizzato e sul quale i miei due figli Andrea e Dario, ora, potranno continuare la splendida avventura che la famiglia Pieropan ha avviato da più di un secolo. Dall’inizio ho impegnato tutte le mie energie per coniugare la grande tradizione ed esperienza locale con l’innovazione viticola e tecnologica che avanzava. Seguendo con cura maniacale ogni piccolo dettaglio di tutto il processo produttivo, sono riuscito a realizzare grandi vini bianchi che donano emozioni e vincono la sfida del tempo». Qual è in sostanza il segreto di un ottimo vino? «Non c’è una formula precisa che un produttore possa adottare ripetutamente o uno stesso protocollo. Ho sempre lavorato con un’idea, un concetto ben preciso nella testa e anno dopo anno mi sono impegnato di conseguenza nella vigna. Le annate si presentano sempre diverse, la variabilità è grande e va affrontata. È proprio nelle variabili e nella conseguente at-

· Provenienza Collina Monte Rocchetta, a ridosso del castello scaligero medioevale del paese di Soave · Caratteristiche analitiche Gradazione alcolca:13° Acidità: 5/5,5% · Aspetto Giallo solare, brillante e intenso · Profumo Bouquet ricco e ampio, con sentori di frutta matura richiami di melone e mango, leggermente speziato · Sapore Pieno, rotondo, vellutato, perfetto equilibro tra sensazioni fruttate e acidità, finale lungo e vanigliato

tenzione ai particolari che si raggiunge un grande risultato». Qual è stata la sfida che Pieropan ha vinto? «La mia vita professionale è stata costellata da tante sfide, anche contro gli stessi operatori del territorio. In varie occasioni sono stato giudicato il “Don Chisciotte” del Soave. Non mi sono mai dato per vinto e non ho mai ceduto alle lusinghe del mercato. La sfida più bella è stata creare due espressioni uniche di vino Soave classico con i due cru Calvarino e La Rocca. Da uno stesso territorio, da suoli diversi e solo da vitigni autoctoni Garganega e Trebbiano di Soave sono nati due vini bianchi tutti italiani che hanno fatto parlare di sé nel mondo e che hanno contribuito a riscattare l’immagine del Soave».

In apertura le uve per produrre il Recioto di Soave. Affianco, in basso, Leonildo Pieropan, nei suoi vigneti accompagnato dai figli info@pieropan.it

d

Maggio 2010

157 • Gusto


L’ITALIA DEI VINI Le bollicine

Voluttà da bere CON BOLLICINE O SENZA. LE PREMIATE VINIFICAZIONI DELL’AZIENDA MACCARI NON HANNO NULLA DA INVIDIARE A QUELLE FRANCESI

di Adriana Zuccaro

C RABOSO DEL PIAVE DOC · Provenienza Pianura tra Piave e Livenza · Volume 12,5% · Aspetto rosso rubino intenso tendente al granato · Profumo intenso, con piacevole sentore di marasca, mora selvatica e note di fragola · Sapore Asciutto, tannico, nerbo maschio e deciso con forte carattere

www.maccarivini.it

Gusto • 158

alici e convivialità. Connubio senza tempo. L’arte del vino italiano si rinnova in prestigio e “bollicine”. Così nel trevigiano, da oltre un secolo, l’azienda vinicola Maccari produce vini nel pieno rispetto delle tradizionali regole dell’enologia. «Vinificare è un’arte che richiede passione ed esperienza. Questi i valori che si tramandano di generazione in generazione dal 1898» quando l’azienda fu fondata dal nonno di Italo Maccari che oggi la dirige insieme ai figli Filippo e Silvia (da sinistra, nella foto in alto). «Il vino è un prodotto “vivo” che segui dalla vigna alla vendita in ogni sua fase; porta il nome di famiglia e quindi è una “creatura” che senti totalmente “tua”». Per questo nel 2004, Silvia Maccari ha voluto che anche l’azienda di Conegliano si chiamasse appunto “Maccari Spumanti”, sede in cui di recente è stato inaugurato il Wine Store con vendita diretta

al pubblico. «Lì produciamo una completa gamma di vini spumanti – afferma Silvia Maccari – dove eccelle il richiestissimo Prosecco DOC Treviso e Conegliano-Valdobbiadene DOCG ideale per ogni occasione per la sua versatilità, per la sua piacevolezza da atmosfera rilassata e per il suo ineguagliabile rapporto qualità-prezzo. Grazie a queste caratteristiche, negli ultimi anni sta dando filo da torcere allo champagne». Il vitigno autoctono Raboso è il vero fiore all’occhiello dell’azienda, premiato al Vinitaly con la Medaglia d’Oro. L’ultimo nato è il Raboso Passito 2007 Edoardo, rappresentativo della quinta generazione della famiglia Maccari: un voluttuoso vino da meditazione dagli spiccati sentori di marasca. Per Italo Maccari investire poi sulla tecnologia è fondamentale. «Utilizziamo un impianto di imbottigliamento che produce 6000 bottiglie/ora e dotato di un sistema di pre-evacuazione dell’aria per evitare effetti ossidativi del vino; un altro impianto, tra i più grossi al mondo, produce 280 fusti/ora».

d

Maggio 2010



Nella Villa del Prosecco LE COLLINE FRA VALDOBBIADENE E CONEGLIANO SONO DA SEMPRE IL REGNO DI UNO SPUMANTE UNICO, MA È NEL CARTIZZE CHE IL PROSECCO DIVENTA ARTE

di Stefano Marinelli

I

l “Cartizze Vigna La Rivetta” è senza dubbio una delle migliori espressioni del panorama spumantistico italiano. Una produzione limitata e di pregiata qualità, che porta il nome del vigneto da cui è ricavato, “La Rivetta” appunto, di proprietà di Giancarlo Moretti Polegato e situato nella località del Cartizze, sulle colline di Valdobbiadene, la storica culla del Prosecco. Una terra feconda in cui da generazioni le famiglie si tramandano la passione per l’arte del vino e che ha ripagato questo amore con un vino unico, che ha reso l’intera area fra Valdobbiadene e Conegliano famosa in tutto il mondo.

Qual è la caratteristica che distingue, più delle altre, il “Cartizze Vigna La Rivetta”?

Gusto • 160

«Il basso livello di residuo zuccherino, che permette di far risaltare le caratteristiche di mineralità derivate dalla particolare composizione del terreno che ospita il nostro vigneto. Questo lo rende unico nell’esaltare sensazioni gustative sapide e agrumate, consentendogli di abbinarsi in modo ideale a primi piatti delicati, carni bianche e formaggi freschi. La versione brut, anziché il classico dry in cui tradizionalmente viene prodotto il Cartizze, è più indicata ad accompagnare l’intero pasto».

gliano e Valdobbiadene dagli eccessi meteorologici, mentre i ripidi pendii su cui si arrampica “La Rivetta” assicurano una particolare escursione termica, con un intenso irraggiamento solare di giorno e brezze leggere nella notte».

In primo piano Giancarlo Moretti Polegato, sullo sfondo Villa Sandi

www.villasandi.it

Cosa rende così unico il vostro vigneto? «La collocazione geografica e la conformazione del territorio sono ideali. La presenza delle Prealpi protegge le colline comprese tra Cone-

Maggio 2010


L’ITALIA DEI VINI Cartizze Vigna La Rivetta

Quanto è importante attingere alla tradizione per la sua attività? «Io rappresento la terza generazione di una famiglia dedicata al mondo del vino, il rispetto e l’amore per la tradizione e per la terra sono le linee guida della nostra attività, cui non possiamo e non vogliamo sottrarci. La produzione di vini ricavati dai vitigni autoctoni, che sono un patrimonio culturale dell’area, e l’impegno profuso nella promozione del territorio ne sono la testimonianza».

reali e fruttate tipiche del Prosecco».

CARTIZZE VIGNA LA RIVETTA

Quali sono le aree in cui il vostro prodotto è maggiormente apprezzato? «Il Cartizze si rivolge quasi esclusivamente al mercato interno, che non presenta grosse disomogeneità da questo punto di vista, essendo molto richiesto in tutta Italia. Viene prodotto in circa 6.000 bottiglie, che diventeranno 12.000 fra 2 anni, grazie ad un vigneto di recente impianto».

· Caratteristiche analitiche Gradazione alcolica: 11.5% vol Residuo zuccherino: 12 g/l Acidità: 5.7 g/l

Le vostre tecniche di produzione beneficiano anche di una grande apertura alla sperimentazione. «Il culto per la tradizione del mestiere non esclude una forte spinta all’innovazione e alla ricerca. Ne è un esempio il processo di spumantizzazione adottato per il “Cartizze Vigna La Rivetta”, per il quale si utilizza direttamente il mosto, preventivamente refrigerato. Questo permette di conservare il grande patrimonio aromatico del vitigno e di esaltare le caratteristiche flo-

Prima ha accennato all’impegno profuso nella promozione del territorio. Di cosa si tratta? «Villa Sandi, che è la sede dell’azienda, da oltre 15 anni è aperta al pubblico, così come le cantine, per visite guidate gratuite. Sono circa 20 mila gli appassionati che ogni anno visitano la nostra villa seicentesca e le sue suggestive cantine, condotti da un personale qualificato alla conoscenza dei vini, con le degustazioni nelle Botteghe del Vino di Crocetta del Montello e di Valdobbiadene».

Maggio 2010

· Temperatura di servizio 6-8°C · Note degustative Intensamente fruttato con evidenti note di mela golden, macedonia di frutta esotica e agrumi; persistente la nota floreale che ricorda i fiori d’acacia e il glicine. Al gusto è fresco, asciutto, secco e austero, ma allo stesso tempo piacevolmente morbido. · Abbinamento È uno spumante che può, con la stessa disinvoltura, aprire e chiudere una serata a tavola.

d

161 • Gusto


TRADIZIONE CASEARIA Il formaggio di fossa

Sapore Sotterraneo INGEGNOSI SOTTERFUGI MEDIEVALI HANNO DATO VITA A UNA TRADIZIONE CASEARIA INASPETTATA. QUELLA DEL FORMAGGIO DI FOSSA

di Adriana Zuccaro

B

attaglie, assedi, saccheggi. Dal Medioevo al Rinascimento, per custodire i viveri e sottrarli alle mani dei predatori, occorreva nasconderli in segrete sotterranee. Così ingegnosi sotterfugi hanno dato vita a una tradizione casearia che i palati più esigenti sanno bene riconoscere e gustare. Il formaggio delle Fosse della Porta di Sotto, prodotto presso l’omonimo Mulino ubicato a Mondaino, nel riminese, racconta la sorprendente storia, unica in Italia, del formaggio dei Malatesta. Scampata la barbarie dei saccheggiatori, recuperando le preziosità nascoste, «molti dovettero accorgersi che non solo alcuni alimenti si erano conservati perfettamente, ma che altri avevano cambiato le caratteristiche di gusto. Infossare e sta-

Gusto • 162

gionare divennero quindi gli esperimenti che nei secoli fino a oggi si sono ripetuti per la produzione di prelibati formaggi di “fossa”». Emanuele e Michele Chiaretti, soci del marchio “formaggio delle Fosse della Porta di Sotto”, utilizzano le medesime fosse dell’edificio di Mondaino, addossato alla Porta Montanara della cerchia muraria

In foto, una delle fosse in cui avviene la stagionatura del formaggio delle Fosse della Porta di Sotto, Via Roma in Mondaino (RN) portadisotto@tele2.it www.portadisotto.it

che difendeva il castello dei Malatesta. Oltre a torrioni, impianti murari a scarpa, eleganti arcate, parte di un antico cassero, macine da olio e da grano «l’edificio consta anche di un antichissimo frantoio per olive – spiega Emanuele Chiaretti – e dispone di tre grandi fosse cilindriche scavate nell’arenaria, nelle quali sono ancora piantati i grossi chiodi in ferro a cui fissare il rivestimento in paglia, canne e legname atti a isolare dall’umidità grano, formaggi e salumi». Michele Chiaretti sottolinea invece «il basso contenuto di grassi del prodotto come principale caratteristica nutrizionale e organolettica che si associa ai preziosi enzimi innescati con la stagionatura, da maggio a luglio, e la lunga fermentazione, da agosto a novembre». Tutto ciò rende il formaggio delle Fosse facilmente digeribile e adatto a ogni regime alimentare.

d

Maggio 2010



TRADIZIONE CASEARIA La Casatella

Casatella, orgoglio trevigiano UN FORMAGGIO COSÌ ANTICO E CARATTERISTICO DA DIVENTARE LA BANDIERA DELLA SUA TERRA. E OGGI, GRAZIE AGLI ODIERNI CASEIFICI INDUSTRIALI, PUÒ ESSERE GUSTATO BEN AL DI LÀ DEL TREVIGIANO

di Stefano Marinelli

Gusto • 164

Maggio 2010


TRADIZIONE CASEARIA La Casatella

L’INDORATA Preparazione: Tagliate a fette non troppo sottili la Casatella e mettetela a macerare nel latte per mezz’ora. Passatela nella farina, poi nell’uovo battuto salato e infine nel pane grattato. A questo punto friggete da ambo le parti in olio e burro. Da servire come piatto caldo con contorno di insalatina fresca.

A

ssaggi un boccone di Casatella e assapori una fetta di storia. Il rapporto viscerale fra questo formaggio e l’antica tradizione casearia trevigiana è riconosciuto universalmente. Le prime testimonianze scritte lo fanno risalire addirittura al XVII secolo, comprovando la sua produzione presso le famiglie contadine che abitavano la zona compresa fra l’Adige e il Livenza. «La Casatella è nata proprio qui, dal lavoro delle massaie – racconta Rino Moro, proprietario dell’omonimo caseificio che ha sede proprio a Motta di Livenza -, infatti il suo nome deriva da “casada”, che significa “casa” in dialetto veneto e che indicava, appunto, la preparazione casalinga di questo formaggio dalle antiche radici contadine». Il Caseificio Moro, che il signor Rino ha

Maggio 2010

aperto nel 1973, è un punto di riferimento nel panorama agroindustriale veneto ed eccelle nella produzione, oltre che della Casatella, di molti altri prodotti caseari, come la Latteria Daniele, caciotte, mozzarelle «in bustine sigillate e bocconcini, che distribuiamo in moltissime pizzerie italiane», ricotte «in vari formati e lavorazioni, molto richieste dalle primarie industrie di paste ripiene, come tortelli e ravioli» e soprattutto il Montasio, il vero fiore all’occhiello del caseificio, per il quale ha ricevuto il premio di migliore produttore in occasione della rassegna “Caseus Veneti” del 2008. «Grazie a una struttura modernissima e a una tecnologia d’avanguardia, oggi riusciamo a far conoscere i formaggi di casa a tutto il Nord e Centro Italia» afferma il titolare del caseificio. È grazie all’intraprendenza di veterani dell’arte casearia come il signor

Moro che la Casatella ha potuto varcare i confini della sua terra d’origine. «La sua preparazione – spiega Moro - avviene riscaldando il latte a circa 40°C, con l’aggiunta di fermenti in polvere e caglio liquido di vitello, e la coagulazione avviene in 15-20 minuti. Poi la cagliata viene rotta in grossi grani e collocata nelle forme, senza essere cotta, si fa riposare per un giorno e infine viene salata in salamoia per 12 ore. La maturazione avviene in due giorni, in cella frigorifera». La Casatella contiene proteine ad alto valore biologico e un tempo, per le famiglie più povere, costituiva l’unico companatico, accompagnato con la polenta, «ma oggi – suggerisce Moro - può essere sfruttata appieno la sua versatilità, accostandosi con successo sia alla carne che al pesce e diventando, all’occasione, anche un gustoso dessert».

Carciofi alla casatella trevigiana e radicchio

d

165 • Gusto


TRADIZIONE CASEARIA La Burgonza

genuina sperimentazione TRADIZIONE E SPERIMENTAZIONE A BRACCETTO. QUESTA È LA FILOSOFIA DI CHI VUOLE PROPORRE NUOVI GUSTI, SENZA DIMENTICARE LA LAVORAZIONE ARTIGIANALE DI UN TEMPO

di Stefano Marinelli

N

ell’immaginario collettivo, il latte è da sempre simbolo di genuinità e purezza. Tanto più se associato all’idea ispirata dal lavoro artigianale dei lattai che lo vendevano, fresco di mattina, direttamente ai nostri nonni. Anche se la logica industriale, che nel corso degli anni ha portato quasi all’estinzione la tradizione artigiana, ha fatto sì che l’immagine del latte puro e genuino si sfocasse sempre più. Ma, in qualche angolo recondito dell’Italia, quell’immagine è ancora viva, come se il tempo si fosse fermato. Per esempio ad Altamura, terra di tradizioni. «Da quattro generazioni la nostra famiglia si tramanda questo mestiere», racconta Giovanni Viscanti, che insieme a suo fratello Domenico e al collaboratore Antonio Ciccimarra, gestisce il caseificio aperto nel 1962 da suo padre. «Durante la giornata – prosegue Giovanni – vendiamo i prodotti freschi, come ricotta, bocconcini,

Gusto • 166

mozzarelle, trecce, scamorze, e quelli stagionati, come caciocavalli e provoloni, ma solo nel nostro negozio». Infatti non viene effettuata alcuna vendita all’ingrosso, né fuori porta in supermercati o ristoranti. «A differenza di gran parte dei caseifici, noi non conserviamo in acqua i nostri latticini, che acquisiscono una durezza fuori dal comune, con un impasto particolarmente consistente e saporito» spiega Domenico. «Ma la nostra specialità è la “Burgonza” – rivela Giovanni -, un miscuglio di burrata e gorgonzola». Il mix fra un formaggio tipico pugliese e uno lombardo, oltre a destare una certa curiosità, dimostra la forte volontà di sperimentare anche da parte di un settore, come quello artigianale, che ha come obiettivo principale quello di conservare la tradizione. E dimostra come la qualità di un prodotto non dipenda soltanto dal territorio, ma anche dall’approccio e dal metodo con cui viene lavorato.

Giovanni e Domenico Viscanti all’interno del loro caseificio di Altamura

d

Maggio 2010






AlexRevelli SoriniCIBO E ARTE

l’arte A tavola NUTRE LA MENTE IL FRUTTO DELLA CREATIVITÀ DELL’ARTISTA. AD OSSERVARLO È ALEX REVELLI SORINI, DOCENTE UNIVERSITARIO IN STORIA DELL’ALIMENTAZIONE E DELLE TRADIZIONI di Antonella Perlasca

Maggio 2010

171 • Gusto



AlexRevelli SoriniCIBO E ARTE

U

A destra, una natura morta di Jacopo Chimenti; sotto, Alex Revelli Sorini, docente universitario

n menu a base di Chimenti, Arcimboldi, Manet o Andy Warhol perché «l’arte è cibo per la mente. Non si introducono proteine o carboidrati, ma si consumano emozioni. Di fronte ad un’opera d’arte, possiamo alimentarci delle suggestioni ricevute da una ciliegia o da un dolcetto». Lo chef che ammannisce l’insolito pasto è Alex Revelli Sorini, docente universitario in Storia dell’alimentazione e delle tradizioni, nonché direttore dell’Accademia italiana gastronomia storica. Arte e cibo un binomio indissolubile, «sin dalle origini». Dalle Nozze di Cana al Banchetto di Cleopatra fino all’Ultima cena. «Osservando una tela o un affresco, i piatti e le ricette diventano immortali. Si possono assaporare». Una macchina del tempo che viaggia per mezzo dei sapori. Tra i romani, «la raffigurazione dei cibi è piuttosto frequente». Nel Rinascimento, si moltiplicano le pitture «che esaltano il significato del cibo e lo raffigurano. In queste opere i commensali godono del vino, del buon mangiare e della musica. La pittura diventa cronaca reale, uno scatto fotografico che testimonia una società. Il Ghirlandaio con i suoi imponenti affreschi mette un sigillo al binomio arte-cibo. Carracci e Bruegel rappresentano il piacere correlato al peccato di gola. Nel XVII secolo, quando diventano molto richiesti i soggetti decorativi delle nature morte, Ja-

copo Chimenti raffigura i prodotti (polli, salsicce, carni) così da distinguere i cibi cotti da quelli crudi». L’uovo per fissare i colori, la pellicina della cipolla gialla per il rosa tenue: l’arte si nutre della terra? «Certo che sì. L’artista utilizzava tutti quei coloranti che madre natura gli metteva a disposizione. Ad esempio, il Perugino ricavava dallo zafferano l’oro e Piero della Francesca otteneva dal guado (pianta erbacea) l’indaco dei suoi affreschi. Il colore è sempre stato fondamentale sia nell’arte che nel cibo. Il primo elemento che ci colpisce di un alimento è la tinta che rivela forti influenze nella percezione del gusto. Platone associava alle di-

verse tinte gli elementi naturali: rosso al fuoco, giallo all’aria, verde ai boschi e agli animali, blu alla notte e all’acqua. Nel Medioevo, l’aggiunta di ingredienti colorati era fatta per esaltare il sapore di un cibo». Il cibo artistico è un linguaggio? «Ogni cibo ha da sempre un suo valore metaforico. L’uomo si nutre di simboli. Per questo anche nell’arte la presenza di cibi è correlata alla metafora: l’agnello emblema del sacrificio; le scene di mercato che celebrano la ricchezza ed esprimono la fiducia nel commercio come fonte di benessere; il latte e il burro che rappresentano la maternità e l’umanità di Cristo; la frutta che identifica il piacere del corpo e il cibo dello spirito; i dolci

173 • Gusto



AlexRevelli SoriniCIBO E ARTE

In Arcimboldi frutta e verdura s’integrano nella composizione dei volti

Nell’immagine, l’Estate, uno dei capricci di Arcimboldi

Maggio 2010

simbolo di festa e ricchezza». E quindi il banchetto può essere letto in chiave sociologica? «Greci e Romani fecero del banchetto un arte con appositi spazi dedicati. Nel tardo Medioevo, era costume fra le famiglie gentilizie ricevere in strada, disponendo le tavole sotto la loggia, mentre nei castelli feudali i banchetti erano serviti nella sala più ampia del palazzo. Nelle dimore aristocratiche rinascimentali e barocche, il banchetto veniva organizzato in uno dei saloni più grandi, ove si allestivano raffinate scenografie. Tutti questi particolari sono rintracciabili nelle diverse opere d’arte. L’iconografia del banchetto spazia dall’arte funeraria etrusca e romana alle scene evangeliche e bibliche del Rinascimento e del Seicento. Il banchetto come socialità o contatto fra uomo e divino. Dal Convito di Platone, occa-

sione per la riunione di un’elite di filosofi, al banchetto di Cleopatra organizzato per attuare il piano di seduzione di Antonio attraverso l’ostentazione di lusso e ricchezza». Arte e cibo, ma anche arte e vino… «La sua raffigurazione è legata ai contesti più diversi. Dalle scene dell’Antico Testamento come l’ebbrezza di Noè, alle nozze di Cana fino alle nature morte. Il significato simbolico del vino, soprattutto in Platone, indica l’unione con il divino, la conoscenza spirituale o l’amore dei piaceri terreni. In seguito all’affermarsi del cristianesimo, l’uso liturgico della bevanda si è sacralizzata nell’eucarestia. Nelle opere d’arte, lette secondo l’esegesi medievale, il vino rappresentava il sangue di Cristo, il mistero della sua divinità e della giusta dottrina».

Sei opere che tratteggiano l’evoluzione del legame arte-cibo? «Le opere che vorrei indicare evidenziano soprattutto il mio gusto di gastronomo: l’affresco etrusco della tomba Golini I di Orvieto, con un banchetto come momento religioso e sociale; i Capricci di Arcimboldi, dove frutta e verdura s’integrano nella composizione di volti che simbolizzano le stagioni; il Banchetto di Ester e Assuero del Vasari, nel quale il banchetto gioca un ruolo di mediazione politica; il Ragazzo con canestra di frutta del Caravaggio, con la frutta che rappresenterebbe le sacre scritture e il loro dolce nutrimento; Le déjeuner sur l’Herbe di Manet, con il picnic in riva all’acqua di una donna nuda con gentiluomini in abbigliamento cittadino e 200 Soup Cans di Andy Warhol, dove il cibo diviene icona della società dei consumi».

d

175 • Gusto



L’ARTE DI RICEVERE omano

FilippoR

sontuosa

sobrietà DAL 1997 FILIPPO ROMANO È A CAPO DELL’ UFFICIO DEL CERIMONIALE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA. NUMEROSI GLI OSPITI ILLUSTRI ACCOLTI NEL TEMPO: DALLA REGINA ELISABETTA A BUSH, DA ARAFAT A FIDEL CASTRO

di Nicolò Mulas Marcello

Q

uella del cerimoniere del Capo di Stato è una figura che svolge sicuramente un ruolo molto delicato. Questo vuol dire non solo conoscere il protocollo, ma anche le tradizioni storiche e gli usi dei governanti e dei reali stranieri. Il suo compito è quello di curare al meglio l’organizzazione dell’attività di rilevanza esterna del Capo dello Stato. Precisione e sobrietà sono elementi fon-

Maggio 2010

damentali nell’arte del ricevere, soprattutto quando si tratta di visite ufficiali di uomini di Stato e di governo nonché di teste coronate. Secondo Filippo Romano, capo del servizio del Cerimoniale del Quirinale, «Il cerimoniale, qualche volta chiamato anche protocollo o etichetta, non va confuso con il galateo o il cosiddetto bon ton. Dio ci salvi dal profluvio di manuali di sedicenti eredi di Monsignor della Casa con la sacra missione di fornire in pillole quei rudimenti di civiltà che dovrebbero

far parte del normale bagaglio di chi ama oppure è costretto a vivere in società». Come è iniziata questa passione? «Ho iniziato quest’attività assolutamente per caso: quando venni chiamato al Quirinale lavoravo all’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio e all’Istituto di diritto internazionale dell’Università di Roma, avevo solo una vaga idea di cosa fosse il cerimoniale. Con il tempo,

• 177 • Gusto


L’ARTE DI RICEVERE

FilippoRomano

• grazie all’entusiasmo e alla pazienza dei colleghi più anziani, mi sono appassionato e affezionato a un lavoro molto articolato che, purtroppo, ai più appare assai cretino ed è molto difficile da illustrare compiutamente. Molto azzeccata è la definizione del senatore Giulio Andreotti, autore della famosa circolare del 1950 che fino a poco tempo fa ha rappresentato Il Vangelo dell’Ordine delle precedenze nelle pubbliche manifestazioni, “il Cerimoniale è come la salute, ti accorgi che esiste solo quando viene a mancare”». Ci può illustrare come si svolge una giornata tipo di visita di un Capo di Stato straniero al Quirinale? «Se il Capo dello Stato straniero è in Italia in visita ufficiale, la sua presenza a Palazzo segue uno schema ormai consolidato, che prevede all’arrivo la rassegna di un reparto in armi, Corazzieri a cavallo e banda, un colloquio con le delegazioni al seguito, delle dichiarazioni alla stampa e alla sera un pranzo, in smoking e abito lungo, con rappresentanti delle varie realtà politiche, culturali ed economiche del nostro Paese. Se il Capo di Stato ospite gradisce, viene offerta la possibilità di alloggiare negli Appartamenti Imperiali (così chiamati perché realizzati in occasione della visita dell’Imperatore Guglielmo II di Ger-

Gusto • 178

mania alla fine del secolo scorso, ndr) del Quirinale. Tutta l’attività esterna dell’Ospite è invece a cura del Cerimoniale diplomatico della Repubblica, che ha sede presso il ministero degli Affari esteri». Ricevere è un’arte. Quali sono le regole fondamentali per organizzare una cena e ricevere ospiti? «Plutarco, nelle sue Dispute conviviali sentenziava: “Non occorre minor capacità nel condurre un esercito contro i nemici che organizzare convivi in onore di amici”. Quanto aveva ragione! Secondo me, anche per le occasioni conviviali di grande solennità, vale il detto aureo che la tavola è il luogo dove non ci si annoia o invecchia… nella prima ora. Quindi è opportuno realizzare menu significativi, ma che non obblighino il convitato a restare seduto troppo tempo. Anche il servizio deve essere rapidissimo pur conservando un certo stile. Certo quando si realizzano pranzi con 180 ospiti seduti intorno a un tavolo a ferro di cavallo, tutto ciò non è facilissimo. Molto importante è poi il cosiddetto “piazzamento”, vale a dire l’assegnazione dei posti al tavolo, che deve seguire le regole dell’ordine delle precedenze, temperato però dall’inserimento di personalità non appartenenti alle istituzioni, ma che hanno raggiunto l’eccellenza nei vari campi della vita associata».

Importante è l’assegnazione dei posti al tavolo, che deve seguire le regole dell’ordine delle precedenze

Sotto, Filippo Romano con Laura Biagiotti. A destra, Giorgio Napolitano, il Re Abdullah II Ibn Hussein del Regno Hashemita di Giordania e le consorti durante il pranzo di Stato

Maggio 2010


L’ARTE DI RICEVERE omano

FilippoR

Il luogo del ricevimento riveste un ruolo importante? «Va detto che è una grande fortuna per il nostro Paese poter disporre per scopi di alta rappresentanza di una delle regge più belle del mondo, ricchissima di tesori d’arte, che suscita sempre una profonda emozione e un sincero stupore negli ospiti stranieri. Comunicare la maestà e rendere compiutamente leggibile il Potere (con la P maiuscola) è impresa decisamente facilitata dal fascino e dallo

Maggio 2010

splendore del luogo». Lei ha iniziato a lavorare nell’ufficio del cerimoniale nell’ 81 con Sandro Pertini in carica. Negli anni ha operato a fianco di presidenti come Cossiga, Scalfaro, Ciampi e ora Napolitano. Sono cambiati nel tempo i rituali? «Diciamo che, essendo la Presidenza della Repubblica l’unico organo costituzionale monocratico, l’impostazione generale della vita

di Palazzo segue molto il carattere e la personalità del Capo dello Stato in carica. Direi tuttavia che nel corso degli anni e dei diversi mandati non vi sono stati cambiamenti epocali e le cerimonie hanno subito soltanto una semplificazione formale imposta dai tempi. Per quanto riguarda gli abiti, l’unico indumento formale previsto dopo l’abbandono del morning coat o tight - un tempo usato per la presentazione delle Lettere Cre-

179 • Gusto


L’ARTE DI RICEVERE

FilippoRomano

denziali dei nuovi ambasciatori accreditati presso il nostro Stato - e del full dress o frac, è lo smoking, in occasione dei pranzi di Stato». L’attenzione e la precisione sono elementi fondamentali per il suo mestiere. Si sono verificati episodi in cui è saltato il cerimoniale organizzato nei minimi dettagli? «La linea di confine tra il successo di una manifestazione e la completa catastrofe è sempre una sottile linea rossa. Puoi metterci tutta la tua attenzione e precisione, ma se una cosa deve andare storta lo farà. In tanti anni di questo lavoro ho collezionato una serie di episodi sciagurati, capaci di trasformare la più solenne delle cerimonie in una

Gusto • 180

comica. Con l’esperienza si può mettere “una pezza” in corso d’opera, riducendo i danni, ma spesso ciò non è possibile. A volte è colpa della tecnologia (il microfono che spernacchia durante un importante discorso, per esempio, o l’ascensore che dopo tantissimi anni di onorato servizio decide di intrappolare il tanto atteso Ospite), a volte di qualche collaboratore meno dotato, ma che fa parte comunque della “catena” di comando, spesso del capo del cerimoniale. A volte dell’incapacità dello staff del Capo dello Stato ospite di trasmettere al proprio boss le esigenze del protocollo». Ci racconta un caso singolare?

«L’occasione era quella di un banchetto di Stato in onore di un Capo di Stato africano. È prassi che l’inizio del pranzo sia preceduto da un breve discorso di benvenuto del nostro presidente, al quale l’ospite risponde con un altrettanto breve discorso. Nel corso dei vari sopralluoghi preparatori era stato più volte indicato alla delegazione straniera in 5 minuti massimo il saluto del nostro presidente e altrettanto per il Capo di Stato ospite. Con questi tempi previsti si erano impartiti gli ordini alle cucine per far “viaggiare” il sontuoso risotto di apertura. Dopo i 4 minuti e 55 secondi del saluto del nostro presidente parte la risposta dell’ospite, il risotto per 160 com-

Maggio 2010


L’ARTE DI RICEVERE omano

FilippoR

Nella pagina accanto, il pranzo ufficiale offerto da Giorgio Napolitano ai Capi di Stato e di Governo partecipanti al G8; A sinistra, il pranzo di Stato per la visita del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao

La tavola è il luogo dove non ci si annoia o invecchia… nella prima ora Maggio 2010

mensali intanto viaggia, ma l’ospite, allo scadere del tempo stabilito per il suo discorso e, soprattutto, per la perfetta cottura del nostro risotto, non accenna a terminare. Anzi, tende a infervorarsi, molto meno comunque del Capo cuoco che mi fa arrivare dalle cucine il suo lontano lamento. Cerco di sospingere con fermezza il mio omologo africano verso il suo boss per ricordargli gli impegni assunti, ma comprendo che mai avrebbe osato tanto. Informo le cucine che l’operazione risotto dovrà essere ripetuta e mi preoccupo che non sia pronto al termine del ricco discorso africano, facendo attendere gli illustri convitati con il piatto vuoto davanti. Il Capo di Stato

ospite parlò serenamente per 50 minuti. Il lamento del capo cuoco era ormai ridotto a pietoso mero rantolo. Il mio presidente aveva cessato di guardarmi cercando di capire cosa stesse succedendo e io avevo smesso di rispondergli allargando moderatamente le braccia con un’espressione che sembrava dirgli: “Signor presidente, che debbo fare? Tolgo la corrente al microfono?!”. Un calorosissimo applauso dei convitati, distrutti, salutò la fine del discorso. Solo un cupo brusio di sgomento quando l’ospite, dopo essersi seduto, si era rialzato in piedi, ma era solo per alzare il calice per un brindisi. Dimenticavo, il risotto era buonissimo!».

d

181 • Gusto




G ian Luca Farinelli

IL SAPORE DELLE IMMAGINI

il cinema entra in cucina CIBO E CINEMA DA SEMPRE INTERAGISCONO. COME CIÒ AVVIENE È RACCONTATO DA GIAN LUCA FARINELLI, DIRETTORE DELLA CINETECA DI BOLOGNA

di Francesca Druidi

I

l Nando Moriconi di Alberto Sordi che “vuò fa l’americano”, per dirla con il titolo della canzone di Carosone, ma alla fine addenta un piatto di “maccaroni”. Lo Charlot di Charlie Chaplin che gusta, attanagliato dalla fame, i lacci di una scarpa come se fossero spaghetti ne La febbre dell’oro. Sono soltanto due tra le molteplici sequenze che identificano il cibo come uno dei protagonisti più trasversali della cinematografia mondiale. Del resto, il cibo, da un lato, contribuisce come veicolo di identità a definire la nostra storia e le nostre radici, dall’altro, si presenta, riunendo persone di qualunque ceto o provenienza attorno a un tavolo, come un luogo tradizionale di dialogo, incontro, scontro. «Il cinema – come spiega Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna – è, tra tutte le

arti, quella maggiormente attenta al quotidiano e agli eventi che ci circondano e che rispetto ad altri media, per le sue modalità di produzione, è caratterizzata da tempi di maturazione che le permettono di elaborare i temi in maniera complessa». Ed è proprio la Cineteca di Bologna, insieme a Slow Food, ad aver promosso, nel 2008 e 2009, l’esperienza dello Slow Food on Film, un festival capace di sviluppare un originale discorso critico sulla produzione e sulla cultura alimentare. Quali riflessioni sono emerse in due stagioni di incontri e proiezioni, nell’attesa di lavorare a una ripresa della rassegna nel 2011? «Da tema marginale nella produzione audiovisiva, la filiera alimen-

Maggio 2010


G ian Luca Farinelli

IL SAPORE DELLE IMMAGINI

tare è oggi diventata un’istanza rappresentata in tutto il mondo, in tutti i generi e formati: lungometraggi, corti, documentari, fiction e serialità televisiva. Colpisce la ricchezza dell’argomento, il vedere film che affrontano in maniera innovativa i problemi legati all’alimentazione in Sudafrica o in Groenlandia piuttosto che in Australia o nelle Langhe. È stata poi toccata la questione del “come” si racconta il tema». La modalità più efficace? «Tanto più chi racconta riesce ad allontanarsi da schemi scontati

Maggio 2010

tanto meglio riesce a rappresentare queste storie di diversità. La filiera dell’alimentazione è, infatti, costellata da infinite sfaccettature: l’errore più grande diventa, quindi, quello di raccontare tutto in maniera automatica e seriale, come a mio avviso fa spesso la televisione italiana. Occorre rimarcare le differenze, trovando un modo peculiare sotto il profilo linguistico per lasciarle emergere, suscitando costantemente l’interesse del pubblico». Per quanto riguarda l’espe-

rienza della Cineteca? «Al di là del festival, abbiamo prodotto due film che hanno forte attinenza con il cibo: Terra madre di Ermanno Olmi e Storie di terra e di rezdore, bellissimo documentario il cui obiettivo è ricostruire la tradizione agroalimentare modenese, una memoria che rischia di scomparire, intervistando 200 persone, tra cui contadini, allevatori e massaiecuoche. La Cineteca ospita anche il Mercato della terra, un mercato della filiera corta dove i produttori dell’area bolognese vendono diret-

In apertura, Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna. Nella pagina a fianco, sequenze di Storie di terra e di rezdore, documentario di Antonio Cherchi e Nico Lusoli prodotto dalla Cineteca

• 185 • Gusto


G ian Luca Farinelli

IL SAPORE DELLE IMMAGINI

i loro prodotti. Un’occa• tamente sione unica per far conoscere la Cineteca e le sue attività a quel pubblico che ancora non la frequenta». Nei film il cibo assurge, di volta in volta, a paradigma di un’interpretazione simbolica della realtà oppure a ritratto di costume di una società. Quali food film sintetizzano meglio il legame tra cinema e cibo? «Negli ultimi anni se ne contano molti, ma indicherei in particolare Cous Cous di Abdellatif Kechiche e Soul Kitchen di Fatih Akin. Il primo aiuta a comprendere meglio il cous cous, il cui valore risiede nella coralità. Questo tipo di piatto prevede un consumo lento, allargato, quasi

Gusto • 186

rituale. Non può essere mangiato da soli, serve una famiglia. Il film è riuscito a delineare in modo ricco l’identità di un gruppo di persone attraverso la tradizione del consumare insieme questo piatto. Anche in Soul Kitchen, la cucina non è per niente un pretesto, ma il motore della storia. Fatih Akin è un cineasta tedesco di origini turche. Due culture gastronomiche differenti e complesse, oltre che portate a mescolarsi. La “cucina dell’anima”, come indica il titolo, diventa un luogo privilegiato di confronto tra culture diverse che oggi però necessariamente coesistono. Per questo, la pellicola guarda avanti: tramite la cucina, ci porta in un futuro auspicabile di convivenza e di sguardi incrociati».

Da sinistra, una scena del film Cous Cous di Abdellatif Kechiche (2007); Charlie Chaplin mentre propone la “danza dei panini”, (c) Roy Export Company Est

Tra cinema e tavola esistono molte assonanze: una messa in scena, un lavoro preparatorio

Maggio 2010




G ian Luca Farinelli

IL SAPORE DELLE IMMAGINI

Un esempio di film del passato? «Penso alla scena meravigliosa del pranzo in Amarcord di Fellini, dove attorno al tavolo sono sedute tutte le generazioni, per ognuna delle quali il pranzo assume un significato nettamente diverso. La tavola diventa così luogo di incontro, di diversità e, sebbene queste ultime abbiano un’unica matrice, per ogni generazione essa si declina in maniera differente. Il cinema ha da sempre documentato e continua a documentare questo tema. Così come a tavola ognuno sceglie il proprio menu, così ogni spettatore coglie in un film aspetti particolari che un altro non nota. Tra cinema e tavola esistono poi molte assonanze: c’è una messa in scena, un lavoro preparatorio, in fondo cucinare un

Maggio 2010

pranzo non è poi così lontano dal produrre e realizzare un film». Alcune sequenze legate al cibo sono entrate nell’immaginario collettivo. Può indicare le più belle e importanti sia sotto il profilo della qualità cinematografica che della rilevanza sociale? «Senza dubbio il Totò di Miseria e nobiltà. Totò resta la personalità artistica italiana più misteriosa, più sublime, quella maggiormente legata alle nostre corde più intime e segrete, la cui complessità non si riesce a restituire in modo totale. Ogni suo film instaura rapporti profondi con un passato antichissimo e Miseria e nobiltà è uno dei lavori in cui questo legame risulta più forte, a partire dalla tradizione del teatro po-

polare napoletano passando per la commedia dell’arte. Tutta la sequenza dell’arrivo delle vivande, quando il personaggio di Totò sale sul tavolo per precipitarsi sugli spaghetti, con la pasta persino nelle tasche, ci ricorda quello che siamo stati: la povertà, la fame, l’inventiva, il Sud, lo scherzo. Una scena straordinariamente potente per quanto riguarda l’Italia. Poi ci sono le sequenze della danza dei panini e della scarpa bollita nel La febbre dell’oro di Chaplin: la potenza simbolica e astratta nell’idea di mangiarsi una scarpa, evidenzia l’influenza delle avanguardie e la trasformazione nell’uso degli oggetti attuata dal grande regista. Due sequenze assolutamente indimenticabili e difficilmente pareggiabili».

In alto, da sinistra, Soul Kitchen di Fatih Akin (2009) e Totò in Miseria e nobiltà (1954)

d 189 • Gusto


BENVENUTI A

Bologna

Bologna

la dolce IN GIRO PER GLI STORICI BAR E PASTICCERIE DELLA CITTÀ DELLE DUE TORRI, ACCOMPAGNATI DALL’IMPRENDITORE FRANCESCO MONTANARI

di Nicolò Mulas Marcello

Gusto • 190

Maggio 2010


BENVENUTI A

Bologna

L

a cultura dei bar e delle pasticcerie vissuti come luoghi d’incontro, dove poter unire la socialità delle persone alla qualità dei prodotti da consumare seduti a un tavolino, è forse da attribuire a un passato lontano. Il dinamismo della società ha portato le persone a un utilizzo dei bar per un consumo veloce, magari in piedi, di brioches o altri prodotti spesso surgelati e quindi di scarsa qualità. «Oggi è abbastanza indiscriminata la differenza tra bar e pasticcerie» spiega Francesco Montanari. «Una volta le pasticcerie erano quelle che avevano il laboratorio, i bar invece quelli che comperavano fuori. Oggi in tutta Bologna si possono contare poche vere pasticcerie e i bar sono luoghi dove si beve un caffè e poco di più». Sotto le Due Torri con la chiusura di luoghi storici come il Bar Impero di via Indipendenza o la pasticceria Viscardi in via Rizzoli, questa cultura è andata spegnendosi. «I bar storici bolognesi oggi di fatto non esistono. Esistono dei ricordi. Zanarini oggi è un po’ meno allegro del bar di Guerre Stellari e un po’ peggio del Cantagallo del 1975, nel senso che al di là di avere una posizione strategica invidiabile sicuramente non ha altre attrattive di qualità». La qualità dei prodotti spesso purtroppo non sembra essere una prio-

Maggio 2010

rità. «Le brioches surgelate che una volta tristemente vedevamo adagiate negli autogrill – afferma Montanari – oggi le troviamo anche nei bar più blasonati della nostra città». Basti pensare al fatto che la maggior parte dei bar cittadini non produce artigianalmente i propri prodotti ma li acquista da terzi. «Per quanto riguarda i bar, sta venendo meno l’attenzione del consumatore alla materia prima perché c’è anche meno tempo per degustarla e perché sono cambiati anche i gusti e le aspettative. Oggi sono abbastanza richiesti i bar in cui si riesce a sedersi a fare quattro chiacchiere senza privilegiare il prodotto, cosa importante per i bar fino all’inizio degli anni 80. Prima la qualità del prodotto discriminava i posti attrattivi da quelli non attrattivi, oggi, invece, il bar ha successo o meno in base al suo posizionamento. I bar storici bolognesi oggi di fatto non esistono più». Ciò detto però qualche spiraglio di eccellenza sotto le Due Torri è rimasto. «Una pasticceria che a mio avviso è sicuramente ancora di pregio – sostiene Montanari – si chiama Pasticceria Saffi e si trova a Porta Saffi. Qui è possibile assaggiare ancora una brioche salata di pasta sfogliata leggera di alta qualità e un ottimo calzone con la mozzarella e il prosciutto». Questa pasticceria ha conservato l’ottima abitudine di avere un laboratorio e di fornire un

UN’INSOLITA GUIDA Bolognese doc, laureato in architettura, Francesco Montaari opera nel settore delle costruzioni ed è vicepresidente dell’Associazione nazionale costruttori edili dell’Emilia Romagna. Col tempo ha maturato una forte passione per le specialità dolciarie della città di Bologna, seguendo l’evoluzione delle pasticcerie e scoprendo i luoghi d’eccellenza sparsi sotto le Due Torri.

• 191 • Gusto


BENVENUTI A

Bologna

prodotto tiepido ogni 3-4 ore. «Qui si può ancora trovare un dolce tipico bolognese che si sta perdendo, i vecchi “sabadoni”, una specie d’impasto con dentro la mostarda, bagnati nell’alchermes. Un dolce dei nostri padri e dei nostri nonni. Inoltre, un’ottima torta di riso, anche questa della tradizione bolognese che si sta perdendo. Infine, si può gustare una brioche fatta a cupoletta bassa chiamata “ofella” o “ofelia” che una volta era famosa al Bar San Domenico o da Viscardi, e che ha la caratteristica di essere farcita con crema e avere la parte a forma di cupola di pasta frolla, mentre la parte piana di pasta sfoglia. Questi due trattamenti della pasta uniti alla crema creano una brioche unica». Un’altra pasticceria fuori dei circuiti centrali bolognesi si trova subito dopo porta San Donato e si chiama I Sapori della Taranta. «Qui si possono trovare specialità pugliesi tra cui il “pasticciotto”, un contenitore di

Gusto • 192

pasta frolla ripieno di crema pasticcera. Consiglio di andarci dalle 8:15 alle 9, orario in cui questo prodotto è anche caldo e come sanno i golosi, questa temperatura è direttamente proporzionale a un gusto più persistente». Parlando di prodotti specifici è da citare sicuramente «in via Murri la pasticceria Dulcis in Fundo che, in particolare, produce un buonissimo dolce a base di mascarpone e un’altra delizia non facile da trovare, ovvero una brioche salata con marmellata di albicocca: un contrasto dolce salato vincente». Rimanendo nei paraggi «un’altra buona brioche salata e una classica brioche cornetto con la marmellata la si può trovare, sempre in via Murri, alla pasticceria Le Dolcezze». Qui è possibile assaggiare anche un classico maritozzo di ottima fattura.

pasticceria Delis dove, a parte le salate calde che si trovano la domenica mattina dalle 8:30 e che occorre attendere con religiosa attenzione, una cosa molto buona sono le salate che hanno all’interno maionese, prosciutto cotto, e insalata a mo’ di tramezzino. Un bocconcino appetitoso e buono. Inoltre un gustoso fagottino ripieno di mele». Spostandosi in via Massarenti, l’omonima pasticceria «offre una singolare brioche salata mignon con acciuga e un’altra specialità che si chiama “ventaglio” o “manina” e che consiste in una pasta sfoglia caramellata ripiena di crema». Il centro storico purtroppo è un po’ il grande assente, nel senso che le vecchie tradizioni di grandi pasticcerie che aveva Bologna sono andate perdendosi. «Per quanto riguarda il centro c’è un settore che ci siamo un po’ persi per strada. Pizze e pizzette popolavano le merende dei ragazzini bolognesi nel sabato pomeriggio. L’unica pizzetta che rimane degna di questo nome, ancora di grande qualità e attenzione è quella di Laganà in

In alto, Gino Fabbri, titolare della pasticceria La Caramella di Granarolo, in provincia di Bologna. Sotto, la brioche farcita della pasticceria Delis

«Una particolarità molto stuzzichevole la troviamo in via Toscana alla

Maggio 2010


BENVENUTI A

Bologna

A sinistra, l’esterno de Le Dolcezze, locale famoso per il classico maritozzo; qui sotto, il sabadone, specialità dolciaria della pasticceria Saffi di Bologna

via Santo Stefano che produce la stessa classica pizzetta da 45 anni, sempre di grandissimo pregio così come il panettone salato, che è rimasto negli anni sempre un elemento appetitoso e di grande qualità». Tra le brioches non di pasticceria o di laboratorio, acquistate da terzi ma, secondo Montanari, di livello decoroso «sono assolutamente da citare quelle del Canton dei Fiori in via Indipendenza, i cui gestori sono i vecchi proprietari del Bar Impero, quindi una famiglia di grandissima tradizione pasticcera bolognese». Volendo fare uno spuntino appetitoso va ricordata «la crescenta bolognese con un po’ di cotto o mortadella o una fettina di coppa presso l’Enoteca italiana di via Marsala». Alle porte della città, e in particolare a San Lazzaro di Savena, troviamo «la Pasticceria Repubblica che rimane uno degli unici punti di grandissima

Maggio 2010

qualità. Qui si può prendere la “grigliata” ovvero una pasta frolla ripiena di zabaione su più strati. E da portare a casa consiglio la “bavarese” che è un ottimo. Anche qui la brioche salata sempre di pasta sfogliata è un prodotto senz’altro di grande qualità». Per gli amanti della classica brioche dolce a cornetto che accompagna in maniera egregia un caffè o un cappuccino «va ricordato il bar La Caramella di Granarolo, che ha parecchi prodotti di qualità tra cui la brioche sfogliata dolce detta anche francesina, assolutamente da assaggiare». Tra le specialità più adatte a uno spuntino o un pranzo veloce «è senz’altro da citare il calzone che viene fatto da Dino nel centro di Castenaso, una pasticceria che ne sforna caldi di continuo. La temperatura in questo caso è un complice ideale per assaporare attentamente tutte le caratteristiche organolettiche di un buon calzone». Uscendo un po’ da Bologna, a San Giovanni In Persiceto «c’è la pastic-

ceria Mimì che è importante per le brioches, ma soprattutto per i biscotti Africanetti a base di uovo e che si sciolgono in bocca: quasi un incrocio tra una meringa e una pasta frolla. Inoltre, qui si trova anche la torta di cioccolato detta della Nemida, che ha la peculiarità di avere una pasta morbida all’interno con crema e una corteccia un po’ croccante sull’esterno. È un dolce che viene fatto da tantissimi anni dalla Mimì e la pasticceria merita una visita anche solo per questo». Dulcis in fundo, secondo Montanari, per trovare un buon caffè a Bologna non è necessario girare tanto: «Oggi la qualità di caffè è abbastanza alta dovunque. Ma per un caffè di qualità, servito in maniera corretta e con la possibilità di scegliere diverse miscele, bisogna andare in via Porta Nuova, in un bar che si chiama Aroma dove è presente qualche tavolino e musica classica all’interno».

d

193 • Gusto


SULLE RIVE DEL GARDA Il pesce d’acqua dolce

il tesoro del garda «CIÒ CHE MI COLPIVA DEI PESCATORI ERA LA LORO PERFETTA CONOSCENZA DEI FONDALI E DELLE ABITUDINI ALIMENTARI E DI VITA DEI PESCI». LA VOCE DELL’ESPERTO GIORGIO VEDOVELLI

di Renata Gualtieri

I

fondali nel lago di Garda sono i più disparati, si va dalle còrne rocciose dell’Alto lago ai canneti dell’arco meridionale, fino ai fondali sabbiosi e ghiaiosi. Anche i pesci sono i più vari, ciascuno con le sue abitudini. Nei secoli i pescatori hanno elaborato un insieme di conoscenze, seguite da tecniche di pesca adeguate, che hanno permesso di avere una risposta di cattura per ogni tipo di pesce, ovunque si trovi all’interno del lago. Il remàt era la rete regina del Garda: arrivava ai 400 m di lunghezza e ai 40 di altezza e da sola bastava a conferire

Gusto • 194

prestigio a una comunità di pescatori. «Ora i tempi sono molto cambiati – spiega il professor Vedovelli – e anche i pescatori si sono adattati alle nuove circostanze. Pescatori ce ne sono pochi, perciò le grandi reti collettive sono scomparse. Su ogni barca raramente vediamo più di un pescatore che da solo deve calare e salpare le reti e dirigere la barca, ma per fortuna ora ci sono i motori. Scomparse le reti a strascico, per i gravi danni arrecati all’ambiente, le reti a catino sono state sostituite dalle reti da posta, più semplici da usare e meno esigenti per quanto ri-

A sinistra, Riparazione delle reti a Lazise, le reti sono “volantini”, impiegate nella pesca dei lavarelli e dei carpioni - anni 50

Maggio 2010


Maggio 2010

195 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Il pesce d’acqua dolce

Il museo della pesca nel castello di Torri del Benaco È il primo museo della pesca delle acque interne sorto in Italia nel 1980 e raccoglie la quasi totalità delle reti e degli attrezzi da pesca del lago di Garda. Il pezzo forte della collezione è un remàt originale, di cotone, sistemato nella Sala degli antichi Originari, dedicata interamente alla pesca dell’alosa, il pesce che permise la sopravvivenza delle famiglie di pescatori organizzate in questa antica corporazione di mestiere (1452). Qui, in una bacheca, è pure conservato l’archivio di questa associazione, con i registri contabili e le delibere risalenti al 500, libri recentemente restaurati presso l’Abazia di Praglia, in provincia di Padova. Il grosso della raccolta è conservato nella cosiddetta barchéssa, dove gli oggetti esposti sono divisi per sezioni e illustrati con foto, disegni e plastici: qui possiamo ammirare molte delle grandi reti a catino e a strascico, dall’oraról per le alborelle, al comàrs per i carpioni e alla striàra e alla birba per tinche e lucci; una góndola piàna, la tipica barca da pesca a fondo piatto, di chiara origine veneta, e, tra le reti da posta, i reoni e le antiche antane, ricostruite secondo la tecnica tradizionale da Mario Fava, uno degli ultimi retai del Garda. Non mancano le pesche al traino, come le tirlindane e i matròs, oltre a fiocine e foroni. Infine alcune reti provenienti dal lago d’Iseo sottolineano gli stretti rapporti da sempre esistiti fra questo lago e il Benaco. Un altro motivo d’interesse del museo è costituito dalla spettacolare serra di limoni eretta del 1760, una coltivazione dell’olio d’olivo e la Sala delle Incisioni rupestri, risalenti all’età del Bronzo.

Castello Scaligero di Torri del Benaco - Museo del Castello Scaligero - Viale F.lli Lavanda, 2 tel/fax. 045.6296111

• guarda la manodopera. Le reti a trappola sono molto meno usate, mentre un buon successo lo riscuotono ancora i volantini e i ré pendénti, per i carpioni e i lavarelli, le antàne, gli antanelli, i tramàgli e gli sciaolòti per altri pesci; nel basso lago sono ancora attive postazioni fisse per la pesca delle anguille». La dieta dei pescatori Di norma, la dieta era a base di pesce di scarso valore economico, come cavedani, triotti, scardove, alborelle e alose, anche se non manca-

Maggio 2010

vano ricette per cucinare i carpioni. «Quella tradizionale – precisa Vedovelli – consigliava di pulire per bene il carpione, salarlo all’interno e metterlo sulla graticola, senza aggiungere alcun sapore; quindi utilizzando una penna di gallina, si passava il pesce delicatamente, di tanto in tanto, con l’olio di oliva. Una volta pronto il carpione si condiva con olio di oliva crudo, possibilmente locale come consigliavano gli esperti. In passato questo pesce si conservava fritto e, dopo essere stato spruzzato di aceto e avvolto in

197 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Il pesce d’acqua dolce

• foglie di alloro, prendeva la strada di varie città italiane». I carpioni così conservati arrivavano pure nelle Fiandre e alla corte del sultano di Istanbul. Anche le grosse trote lacustri venivano vendute, tranne quelle che i pescatori riuscivano a sottrarre alle lontre, troppo rovinate per essere commerciabili. «Un piatto tipico del Garda – ricorda il professore – erano le àole salè con alborelle pescate durante la fregola, prive di residui vegetali nello stomaco e perciò più appetibili e facili da conservare. Dopo essere state rese vizze, stese al sole su graticci di canna vi aggiungevano sale di cucina nella misura di tre etti per ogni chilo di pesce, spesso con l’aggiunta di un po’ di aglio. Tutta la massa, poi, veniva posta in un vaso e tenuta premuta da un sasso: nel giro di 40

Marzo 2010

giorni le alborelle erano pronte per essere impiegate come componente di salse o come condimento negli spaghetti, dando origine ai cosiddetti bìgoi co le àole, una pasta fresca a filo lungo condita con salsa ricavata da alborelle in salamoia sfatte nell’olio extravergine di oliva». Per gli abitanti di Torri del Benaco, di Garda e, soprattutto di Brenzone, il commercio delle àole salè, era fonte di un notevole reddito. Quando l’esposizione al sole si protraeva per almeno tre giorni si ottenevano le àole séche, impiegate in un altro piatto caratteristico, il sisàm, composto da alborelle essiccate e tagliate a pezzettini, cipolle stufate in aceto, olio, sale e poco zucchero. «Tra i piatti presenti oggi sulle tavole dei ristoranti specializzati in pesce di lago – continua Vedovelli –

troviamo il luccio in salsa, bollito e condito con alborelle, cipolle soffritte e capperi; le sardéne én saór, alose fritte e condite con aceto, cipolla, olio e, talvolta, con pinoli e uva passa e la zuppa di pesce di lago servita con crostoni di pane casereccio. Tra i secondi, il pesce persico, sfilettato, infarinato e passato in padella con poco burro e una fogliolina di salvia e i filetti di coregone alla mugnaia. Coregoni, trote e lucci si cuociono anche al cartoccio o al vapore, mantenendo così intatta la fragranza e la leggerezza del pesce». Diffusissimo è il pesce arrostito sulla graticola, soprattutto coregoni, anguille, alose e carpioni e la frittura di pesce di lago che è composta da alborelle, filetti di persico, alose e tranci di cavedano fritti nell’olio extravergine di oliva.

d

199 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Il pesce d’acqua dolce

Una storia lunga 68 anni IL PESCE D’ACQUA DOLCE DELLE ZONE DEL GARDA È UNICO PER LA PROFONDITÀ DEL LAGO E LA QUALITÀ DELLE ACQUE». IL MESTIERE E LA PASSIONE DI STEFANO RAGNOLINI

di Renata Gualtieri

L

a Cooperativa nasce nel 1942. Tutti i giorni nello spaccio di via Antiche Mura, a due passi dal porto, si trovano pesci del Garda freschi in quantità e varietà che dipendono dalla stagione e dalla pescosità del momento. Stefano Ragnolini, è pescatore e consigliere dell’associazione che raccoglie una ventina di pescatori professionisti gardesani. Come sono cambiate le tecniche di pesca utilizzate nel passaggio tra giovani e vecchi pescatori? «Le tecniche di pesca sono rimaste praticamente le stesse. Sono cambiate invece le reti che una volta erano di seta e di cotone e avevano bisogno di una costante manutenzione perché se non venivano asciugate si rovinavano. Adesso sono in

Maggio 2010

nylon o monofilo e non hanno bisogno di particolare cura. La vera innovazione, però, è rappresentata dall’utilizzo dei motori fuoribordo perché ci hanno permesso di uscire uno per barca. Prima si era costretti ad andare in tre, perché due andavano ai remi e uno calava le reti». Quanto è pescoso il Lago di Garda e quali sono le varietà di pesci d’acqua dolce presenti? «Il Lago di Garda è abbastanza pescoso, soprattutto in certi periodi e per alcuni tipi di pesci. Per esempio in estate peschiamo tanti agoni e lavarelli. Nel Lago di Garda ci sono anche persico, tinche, lucci, anguille, qualche trota lacustre e qualche carpione che è un salmonide esclusivo del Lago di Garda». Quali sono i pesci del Lago più

In apertura fasi finali della pesca delle alose con il remàt - anni 50. Sopra, il quartiere dei pescatori a Sirmione, agli inizi del 900

• 201 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Il pesce d’acqua dolce

I pesci del Lago di Garda Il pesce simbolo del Garda è il carpione, ora molto raro, un salmonide caratterizzato da due periodi riproduttivi, in inverno e in estate e da carni ottime. Nelle reti dei carpioni, catturati durante le loro migrazioni dalle zone di fregola alle zone di pastura del Basso lago, incappano sovente anche i lavarelli. Questo pesce, plantofago come il carpione e che si riproduce in dicembre-gennaio lungo le coste ghiaiose dell’Alto lago, è molto abbondante e ricercato nei ristoranti. Ambito dai buongustai è il pesce persico. La posa delle uova ha luogo da aprile a maggio e le sue carni sono saporite. Sui fondali erbosi del Basso lago è comune il luccio che presenta carni abbastanza buone, anche se ricche di lische. È presente lungo la fascia litorale, soprattutto del basso lago, su bassi fondali fangosi, la tinca che si nutre di larve di insetti, molluschi e piccoli crostacei e ha carni discrete. Entra come componente nella vecchia ricetta locale del riso con la ténca. L’anguilla presente nel Garda, grazie ai ripopolamenti, si ciba di invertebrati di fondo, di piccoli pesce e delle loro uova; le sue carni sono buone, anche se particolarmente grasse. Tipica del Garda è la trota lacustre, ora molto rara nel Benàco. Può arrivare anche ai 10-12 kg di peso, si riproduce da ottobre a gennaio, lungo il tratto terminale del fiume Sarca e ha carni eccellenti. Un pesce, ora sempre più raro, è il cavedano, un onnivoro dalle carni saporite ma con molte lische. Un tempo veniva affumicato e la sua polpa, macinata, era impiegata per confezionare piccole polpette, con l’aggiunta di pane grattugiato, aglio e uovo, il tutto fritto nell’olio bollente. Ancora diffusi, ma di scarso valore alimentare, sono le scardole, i barbi e le grosse carpe.

• venduti nel vostro spaccio? «Lavarelli, sarde, persico, trote e carpioni, quando ci sono, perché in questi periodi è un po’ una rarità, vanno a ruba». Quali sono le caratteristiche che rendono unico il pesce d’acqua dolce delle zone del Garda? «La freschezza perché il pescato nostro va venduto in giornata e poi credo che, data la profondità del lago e l’assenza di grosse fabbriche, la qualità dell’acqua, e quindi anche quella del pesce, sia molto buona». Per esportare i sapori del Garda la Cooperativa ha creato dei punti vendita di specialità a base di pesce d’acqua dolce e quali sono i prodotti che hanno più successo tra i vostri clienti? «C’è solo un punto vendita all’interno della nostra sede. Con il nostro pescato però arriviamo fino in provincia di Como, Lecco, Mantova, Brescia, Bergamo. Insomma buona parte della Lombardia che è il nostro referente principale, dove va l’80% del nostro pescato. Dal Veneto invece non arriva una grossa richiesta».

d

Maggio 2010

203 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Dal Pescatore

A tavola s’incontra il mondo «CONOSCERE E STUDIARE CUCINE, USI E COSTUMI DI ALTRI PAESI È STATO PER NOI IMPORTANTE». ANTONIO SANTINI E LA RICERCA CONTINUA DELLA QUALITÀ

di Renata Gualtieri

Nella foto, la famiglia Santini del ristorante Dal Pescatore di Canneto sull’Oglio

N

ella composizione di un piatto si cerca di rispettare il prodotto primo e il sapore semplice degli ingredienti. Un lavoro di equilibrio piuttosto difficile, ma assolutamente necessario per dare modernità e attualità a ciò che prepariamo». Antonio Santini, che prima faceva il

foto di Philippe Scaff

pescatore sul fiume Oglio, ha fondato il ristorante Dal pescatore nel 1925 insieme a Teresa Mazzi. Oggi racconta l’arte di un’intera famiglia. Quanto resta oggi della tradizione, nei colori nei sapori della cucina e nella gestione della famiglia Santini? «Nel Dna del ristorante e della famiglia Santini, resta l’idea che il cliente è centrale e indispensabile, tutto ciò che si può fare per il benessere dell’ospite è stato sempre il fine della nostra famiglia. Certo con mezzi diversi, ma con la stessa volontà». Quali sono i piatti di pesce di fiume presenti nella vostra lista? «Quando il mercato lo permette, direi luccio, anguilla, pesce gatto, tinca. Sono tutti pesci presenti nel menù». Quanto viene richiesto ri-

spetto al pesce di mare dai clienti che si siedono alla vostra tavola? «Nelle pescherie è più facile trovare pesce di mare di alta qualità, ma esistono ospiti che vogliono provare i gusti della terra e del pesce di lago, purtroppo i fiumi non sono in grado di fornire pesce di qualità adeguata. Se ci mettessimo impegno, intelligenza, rigore, controlli rigidi, potremmo avere ancora tra alcuni decenni dei fiumi che ci daranno pesce buono, per il momento i laghi sembrano essere già in condizioni migliori». Quanto è interessante per uno chef dal punto di vista gastronomico e nutrizionale il pesce d’acqua dolce? «Il pesce di acqua dolce ha sapori, gusto e caratteristiche originali e uniche, per questo le ricette e le preparazioni con pesce di acqua dolce sono veramente valori assoluti da non perdere».

d

205 • Gusto



SULLE RIVE DEL GARDA Dal Pescatore

R ISOTTO AI FILETTI DI PESCE GATTO E ANGUILLA CROCCANTE Ingredienti :

Ingredienti: 200 g di riso vialone nano 4 pesce gatti (oppure 8 filetti di pesce gatto) 150 g di filetto d’ anguilla 8 cucchiai di burro 4 cucchiai di sedano tritato 2 cucchiai di cipollotto tritato noce moscata parmigiano reggiano acqua e brodo 450gr sale e pepe Tempo di preparazione: 15 minuti

PREPARAZIONE DEL PESCE GATTO Sfilettate il pesce gatto a crudo e cuocetelo in padella antiaderente con 3 cucchiai di burro, cipollotto e sedano tritati. Solo quando la padella sarà ben calda adagiate i filetti dalla parte della pelle e cuocete a fuoco moderato per 10 minuti. Alla fine grattugiate la noce moscata sui filetti e salate. Togliete la pelle del pesce e mettete i vostri filetti in un piatto. ESECUZIONE DEL RISOTTO Mettete in una casseruola 5 cucchiai di burro, un cucchiaino da te di cipollotto tritato e soffriggete per qualche secondo. Versate poi il risotto nella casseruola, lasciate tostare per circa 20 secondi e quando il risotto inizierà a tintinnare aggiungete poco per volta un mestolo di brodo e uno di acqua alternativamente quando necessario. Trascorsi tre minuti aggiungete i filetti di pesce gatto e continuate la cottura sino ad ultimarla dopo circa 10-12 minuti. Poco prima di servire il risotto, arricchirlo con i filetti di anguilla fritti in olio extravergine di oliva.

Maggio 2010

207 • Gusto


DOVE E PERCHÈ Camillo Langone

sapori autoctoni LA SPECIALITÀ LOCALE E IL VINO DEL POSTO SONO DA PREFERIRE SEMPRE, ASSIEME ALLA SEMPLICITÀ, PER LO SCRITTORE E GIORNALISTA ENOGASTRONOMICO CAMILLO LANGONE

di Simona Cantelmi

Gusto • 208


DOVE E PERCHÈ Camillo Langone

Salumi e vino a profusione

P

er delineare il ristorante ideale spesso è più immediato descrivere cosa questo non deve avere, quali sono quegli elementi o atmosfere che non ci predispongono bene al pasto. È ciò che fa Camillo Langone, scrittore e giornalista enogastronomico. Celebre è il suo Maccheronica. Guida reazionaria ai ristoranti italiani, in cui Langone esprime un parere irriverente e assennato allo stesso tempo, suggerimenti che spingono alla riflessione su ciò che ci piace e ciò in cui non vorremmo imbatterci quando ci rechiamo in un locale per goderci un pasto in relax o in allegria. Perché, come afferma lo scrittore, «la vita è già abbastanza complicata».

Che tipo di qualità deve avere un buon ristorante? «Deve essere buono e bello, cioè confortevole, cordiale, caldo. Non m’interessa mangiare bene in una sala poco riscaldata o troppo raffreddata dal condizionatore, con la musica alta, i camerieri scortesi e un rapporto sedia-tavolo sbagliato. Evito anche il brutto in senso stretto: non ho mai mangiato da Aimo e Nadia perché su internet ho visto che hanno quadri alle pareti che mi farebbero perdere l’appetito». Quali sono i segnali d’allarme di un cattivo ristorante?

Maggio 2010

«Comincio a giudicare un ristorante dall’esterno, dall’insegna, ma soprattutto dalla carta appesa a fianco della porta: se la lista dei piatti è molto lunga e piena di errori di ortografia è quasi certo che non si mangerà bene». Ha senso oggi parlare di cucina conservatrice e di cucina post moderna? «Per me esiste la cucina di tradizione e la cucina del nulla. Per cucina di tradizione non intendo quella che ripropone pedissequamente il ricettario di Anna Gosetti della Salda, ma quella capace di far evolvere il nostro patrimonio gastronomico dando vita a piatti riconoscibili, con un luogo e una storia, in grado di rimanere in carta per anni. Per cucina del nulla intendo quella di Ferran Adrià ed epigoni, una cucina tecnocratica e disumana, che grazie a Dio è in crisi».

Sotto il portico di via Santa Caterina nel centro di Bologna c’è un locale piccolo e grazioso, dall’atmosfera calda e vivace, anche perché sempre affollato ogni giorno, anche durante la settimana (cosa che rende necessaria la prenotazione). All’Osteria Bottega ad accogliere la clientela ci sono l’oste Daniele Minarelli e un’affettatrice a mano in bella mostra. Tra i piatti regna la tradizione culinaria emiliana. «Qui si può assaporare la cucina tradizionale, della casa, fatta attraverso un aspetto a cui teniamo molto – spiega Minarelli - cioè la ricerca della grande materia prima del territorio: ad esempio l’asparago di Altedo, per la tagliatella col culatello e l’asparago. Poi la ricotta di San Patrignano, grazie all’amico Andrea Muccioli, per i tortelli. Facciamo, inoltre, un grande lavoro ovviamente sulla sfoglia. E io adoro i salumi: offriamo antipasti al Crudo di Parma, salame di culatello, per non parlare della salsiccia cruda con pepe e rosmarino». Non facciamoci mancare i dolci. «Nostre specialità sono la torta di riso (nella foto) e la zuppa inglese, eseguita secondo la ricetta tradizionale, senza cioccolata. Per quanto riguarda i vini, abbiamo una cantina con i vini dei colli bolognesi, il sangiovese, poi i bianchi, l’albana. Faccio poi un angolo con champagne e pecorini». Un pasto completo va dai 35 ai 50 euro. «Siamo sotto i portici di Bologna, città bellissima e ospitale, come siamo noi, che vogliamo coccolare i nostri ospiti».

Cose rende una cucina intollerabile? «Il sale e lo zucchero. Nei buoni ristoranti questi ingredienti obsoleti vengono usati con mano sempre più leggera: prima scompaiono e meglio è». Qual è il matrimonio fra piatto e vino perfetto? «Piatto del posto e vino del posto, sempre».

Osteria Bottega 40123 Bologna, via Santa Caterina 51 tel. 051-585111

• 209 • Gusto



DOVE E PERCHÈ Camillo Langone

TRADIZIONI abruzzesi Tra le colline pescaresi si trova La Bandiera, ristorante in cui la cucina è essenziale, innovativa e raffinata allo stesso tempo, fondata sulla bontà delle materie prime, scelte personalmente dai produttori locali. L’Abruzzo mantiene intatte le sue tradizioni gastronomiche. Pastorizia e agricoltura sono attività ancora ben sviluppate e la gastronomia propone gusti forti e genuini, la cucina è robusta nei sapori. «Facciamo una cucina molto stagionale» spiega il responsabile Marcello Spadone. «Ad esempio, realizziamo un piatto legato alla tradizione locale che si chiama “Le virtù”, che si rifà all’usanza di svuotare le credenze dei prodotti invernali quando arrivava la primavera. Gli ingredienti, infatti, sono un connubio delle due stagioni: pasta secca, legumi secchi, cotica, osso del prosciutto, pasta fresca e verdura fresca». Dominano nei piatti abruzzesi aromi e spezie. Un altro aroma vegetale abruzzese è lo zafferano e nella provincia dell’Aquila si produce zafferano di qualità pregiata, che viene esportato. Fra i piatti del ristorante La Bandiera ci sono, infatti, raviolini di pecorino con carciofi e pistilli di zafferano. Le erbe aromatiche impiegate nei piatti sono coltivate personalmente dai gestori in un orto vicino. Fra i primi, del tutto particolari i tortelli di baccalà mantecato con taccole e crema di cicerchia, i fusilloni di semola con “coratella”e pecorino di Farindola e le pappardelle allo stracotto di “papera muta” e scalogno. La carta dei vini conta settecento etichette, «con i migliori vini italiani, francesi e spagnoli» conclude Spadone. Ristorante La Bandiera Contrada Pastini, 4 - 65010 Civitella Casanova (PE) tel. 085 84 52 19 - www.labandiera.it

In apertura, Camillo Langone; sotto lo Chef Ettore Bocchia

Ci sono ristoranti che oggi aggiungerebbe al suo Maccheronica? «Ce ne sono molti. In Maccheronica non avevo fatto in tempo a inserire uno dei migliori cuochi italiani, Ettore Bocchia (Mistral, Bellagio, Como); il massimo innovatore della formula trattoria, Davide Oldani (D’O, Cornaredo, Milano); la più succulenta cotoletta alla milanese (Nuovo Macello, Milano); l’oste più bravo d’Italia, cioè Daniele Minarelli (Osteria Bottega, Bologna); i più memorabili sapori abruzzesi (La Bandiera, Civitella Casanova, Pescara) e l’unico ristorante pugliese dove vorrei ritornare (Bacco, Bari)».

d

Maggio 2010

211 • Gusto


IL VALORE DEL FATTO A MANO Dagli antichi ricettari

Come una volta IL CASO DELLA DI MARTINO, CHE NELLA PRODUZIONE SURGELATA NON RINUNCIA AL VALORE DEL “FATTO A MANO”

di Carlo Sergi

C

hi non ricorda i sapori, i profumi, le preparazioni che riempivano le case e le giornate delle nostre nonne? E un solo, fondamentale elemento a congiunzione di tutte le cucine del Paese, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. I piatti migliori venivano rigorosamente fatti a mano. Una traccia che, talvolta, l’industria moderna non riesce a riconquistare. E deve essere stato proprio su questo ragionamento che Ferdinando Di Martino ha scelto di improntare, un quarto di secolo fa, la sua avventura imprenditoriale. Una produzione enogastronomica che rispetta gli antichi ricettari. Un nome, il suo, oggi soprat-

Gusto • 212

tutto associato a due specialità come le lasagne e il Baccalà alla Vicentina. «Da una produzione a 360 gradi nel settore della gastronomia fresca, ora siamo orientati nella produzione di prodotti surgelati di alta qualità per la ristorazione» racconta Alessandro Turco, responsabile commerciale della Di Martino. Dalle lasagne alla bolognese si giunge a ulteriori coniugazioni del celebre piatto emiliano, realizzandole agli asparagi piuttosto che ai carciofi, ai funghi, o alla goccia d’oro, vale a dire con un mix di prosciutto, funghi, tartufo e besciamella gialla. «I cannelloni di magro e di carne con la crespella fatta a mano, e non di pasta di semola da riempire, sono una cosa assai rara da trovare, essendo il risultato di una lunga e dif-

ficile lavorazione – spiega Turco -. Nostro fiore all’occhiello, poi, è il Baccalà alla Vicentina, specialità riconosciuta dalla comunità europea come prodotto da tutelare». L’azienda ha compreso il desiderio delle persone di trovare prodotti che sembrino fatti da loro. Oggi, sempre di più, le famiglie si recano a mangiare nei ristoranti. Anche per questo, proporre produzioni surgelate “sane”, senza eccessi di conservanti, è garanzia di un’alimentazione sicura per i bambini. Un aspetto, quest’ultimo, da mantenere migliorando le produzioni sotto i termini qualitativi e microbiologici. «Il fare tutto e di più non porta a nessuna conclusione, mentre il fare ciò in cui si crede riesce meglio e con meno fatica».

Alessandro Turco, responsabile commerciale della Di Martino

d

Maggio 2010




EDUCAZIONE ALIMENTARE Giorgio Calabrese

L’abc a tavola «SÌ AI RISTORATORI CHE PROPONGONO UN MENÙ DIETETICO SPECIFICO PER I BAMBINI». IL PROFESSOR GIORGIO CALABRESE SPIEGA I BENEFICI DELLA DIETA PER I PIÙ PICCOLI

di Renata Gualtieri

Maggio 2010

215 • Gusto


EDUCAZIONE ALIMENTARE Giorgio Calabrese

I

l fenomeno dell’obesità infantile dilaga anche in Italia. Alla base di tutto c’è un’errata cultura alimentare e la passività fisica. «Molto può fare anche la scuola oltre alla famiglia. Un importante contributo è quello offerto dal progetto del ministero della Pubblica istruzione che si chiama “Scuola e Cibo” e della commissione di cui io sono presidente, composta da quattro dietologi, che sta lavorando perché sempre più bambini imparino a mangiare cibo che possa essere gradevole, positivo, salutista e appagante per il palato». Il professor Giorgio Calabrese, dietologo e nutrizionista, indica i presupposti per una crescita armonica e ottimale. Quali sono i principali errori nutrizionali nell’alimentazione di un bambino? «Un bambino per sua norma mangia pochissima frutta e verdura, non

ama i legumi, gradisce i cereali legati al cioccolato, non il cereale semplice; ci sono poi bambini che mangiano molta pasta. Questo quadro dimostra come, in certi casi, ci sia una carenza di frutta e verdura e legumi, e in altri un eccesso di carboidrati con grassi annessi che derivano dai condimenti aggiunti dalla mamma o dalla nonna, trucchi usati per convincere il piccolo a mangiare. Il bambino poi, occupato davanti alla playstation o a internet, si muove poco, e questo determina un eccesso di sostanze ricche di grassi e si arriva prima al sovrappeso e poi all’obesità». Quanto è importante che sin da piccoli si segua una dieta sana e uno stile alimentare salutare e quali rischi si scongiurano? «Una tempo le malattie del cuore, il diabete, la pressione alta arrivavano solo a una certa età, ora invece interessano anche i più giovani. Se ad esempio si fa un dosaggio di colesterolo nel sangue e trigliceridi a un ragazzino di sei o sette anni, si trovano spesso dei valori molto alti. Ciò deriva dal fatto che si preferiscono panini, salumi, insaccati, formaggi, uova e condimenti grassi come il burro a frutta e verdura. La logica di fondo è che se noi facciamo una dieta errata,

abbiamo la certezza di ammalarci prima in fase acuta con mal di stomaco, gastrite, colecistite e quant’altro e dopo un po’ di anni avremo malattie più croniche. Tutto questo nasce da un’errata condizione alimentare che è la base delle malattie». Ritiene interessanti le iniziative di alcuni ristoratori italiani che prevedono un’offerta gastronomica attenta ai bambini? «Sì ai ristoratori che vogliono fare un menù dietetico pediatrico, specifico per i bambini, ma che non preveda solo la milanese e le patate fritte perché così risparmia solo il ristoratore, ma il bambino si ammala lo stesso». Una buona alimentazione deve tener conto delle diverse fasi della vita. Quali sono i valori nutrizionali e i metodi di cottura che assicurano una crescita sana e ottimale del bambino? «Il valore nutrizionale nasce da una regola banale. Ogni giorno bisogna cambiare almeno due dei cinque o sei alimenti che si mangiano di solito, il che significa essere onnivori. Fare la dieta funziona, ma farla diversificata funziona molto di più e muoversi aiuta tantissimo. I metodi di cottura da

A sinistra, Giorgio Calabrese, dietologo e nutrizionista

Maggio 2010


EDUCAZIONE ALIMENTARE Giorgio Calabrese

utilizzare perché il bambino stia meglio sono la cottura al forno, alla griglia, oppure si può optare per cibi lessati o crudi, evitando di friggere. Se invece questo discorso non viene atteso si diventa obesi perché aumenta l’insulina che risente molto delle tecniche di cucina sbagliate».

Il valore nutrizionale nasce da una regola banale: cambiare almeno due dei cinque o sei alimenti che si mangiano ogni giorno Maggio 2010

La giornata alimentare ideale del bambino in quanti pasti deve essere divisa? «Cinque pasti: una colazione, un pranzo, una cena e due break, nella mattinata e nel pomeriggio. Questi ultimi due devono essere molto leggeri, il 10% delle calorie totali, il

15% a colazione, il 35% a pranzo e il restante a cena». È favorevole all’utilizzo di cibi surgelati nelle mense scolastiche? «Gli alimenti surgelati costituiscono una alternativa assolutamente accettabile in mancanza dei tradizionali cibi freschi. Possono essere utilizzati nelle mense scolastiche facendo sempre attenzione ai metodi di cottura, al vapore, alla griglia, al forno, evitando in ogni caso di friggere. L'offerta dei prodotti surgelati è oggi estremamente ampia e permette di nutrirsi in maniera sana e variegata».

d

217 • Gusto


EDUCAZIONE ALIMENTARE

La merendina

Diventa Healthy DALLA SCIENZA ALL’INDUSTRIA DOLCIARIA, L’ITALIA SI RENDE PROMOTRICE DI PROGETTI TESI A RENDERE PIÙ SANE LE MERENDINE

di Andrea Moscariello

P

uò esistere una merendina perfetta? Questo l’interrogativo posto da Enrico Roda, direttore dell'Unità operativa di gastroenterologia del Sant'OrsolaMalpighi di Bologna, il quale ha presentato il progetto Functional food and global health, un network di laboratori il cui obiettivo sarà creare uno snack gustoso che non ingrassi e che non arrechi danni al cuore. Non sono pochi gli esponenti del mondo scientifico ad aver sollevato seri dubbi sulla rischiosità, a lungo termine, che queste possono arrecare all’organismo. L’industria italiana, intanto, non sta a guardare. Capofila di una rivoluzione salutista del mondo dolciario è il gruppo Bauli che, come ricorda il suo presidente Alberto Bauli, anche in questo deve rappresentare un’eccellenza del food made in Italy, a cominciare proprio dagli accorgimenti nutrizionali rivolti al mondo dell’infanzia. Perno è la collaborazione che il Gruppo ha aperto con la Federazione italiana nuoto. “Il nuoto significa movimento, ma anche sana alimenta-

Gusto • 218

zione ed energia fisica, grazie a prodotti genuini e nutrienti” recita la mission del progetto. Non solo. Se un tempo i produttori di merendine venivano tacciati di essere la causa primaria dell’obesità infantile, oggi rispondono in prima persona attraverso campagne di sensibilizzazione che non lasciano scampo: sono i genitori a dover educare i figli a uno stile di vita sano. Secondo i nutrizionisti della storica azienda veronese, occorre distribuire l’apporto calorico giornaliero in 4-5 momenti, valorizzando la colazione come pasto fondamentale. «È fondamentale iniziare la giornata con il giusto apporto calorico» spiega uno dei nutrizionisti del gruppo. «Una merenda de La Buona Croissanteria Bauli in media copre dal 6 al 7% della quantità raccomandata di energia giornaliera di bambini e ragazzi: contiene circa 3 gr di proteine, 20 gr di carboidrati, 7 gr di grassi e significative quantità di ferro, calcio e vitamine B1, B2, A ed E». Valori da accompagnare a una sana attività fisica, sin dalla più tenera età.

Alberto Bauli, presidente dell’omonimo gruppo dolciario

d

Maggio 2010



EDUCAZIONE ALIMENTARE La Brasserie De Milan

I sapori della mamma «UN MENU AD HOC E UN KIT SEMPRE PRONTO PER COINVOLGERE I BAMBINI». LO CHEF ANDREA SARACCO GUIDA I BABY OSPITI DELLA BRASSERIE DE MILAN ALLA SCOPERTA DEI PIATTI PIÙ GUSTOSI

di Renata Gualtieri

G

li schiamazzi dei bambini e i loro capricci sono solo un ricordo. A volte i piccoli siedono piacevolmente alla stessa tavola degli adulti e le esigenze dei due universi possono coincidere. Proposte di menù che recano il nome dei personaggi celebri dei cartoni animati, che allettano il bambino e trovano l’approvazione degli adulti. Il piacere di sedersi a tavola non risiede solo nell’atto di nutrirsi, ma è un’occasione di incontro e di scambio di grande valenza affettiva. Riservare attenzione anche ai più piccoli e ideare menù specifici può contribuire a diffondere una più corretta cultura alimentare. «Ci siamo accorti che su Milano poco si faceva per le famiglie con bambini piccoli al punto che abbiamo creato il

Gusto • 220

brunch con minibrunch. Gli adulti mangiano nel nostro ristorante con un ricco buffet e musica dal vivo mentre i bambini, con un buffet tagliato su misura e uno spettacolo di animazione, si dedicano alla loro attività preferita: il gioco». È l’offerta innovativa del ristorante La Brasserie de Milan dedicato al pubblico più prezioso, quello dell’infanzia. Quali sono le ragioni di tale scelta? «Da subito si è evidenziata la necessità di creare un menu dedicato ai più piccoli: quando le famiglie scelgono il nostro ristorante sanno di trovare dei piatti semplici adatti ai gusti dei bambini, che difficilmente gradiscono una cucina troppo elaborata».

Nella foto, lo chef Andrea Saracco del ristorante La Brasserie De Milan

Maggio 2010


EDUCAZIONE ALIMENTARE La Brasserie De Milan

Le famiglie che scelgono il nostro ristorante trovano dei piatti semplici adatti ai gusti dei bambini Maggio 2010

Cosa offre il menù bambini e a quali specifiche esigenze nutrizionali risponde? «Abbiamo deciso di ricreare i sapori della cucina “della mamma” abbinata a nomi fantasiosi puntando su piatti come pennette al sugo di nonna Papera, mini hamburger di Poldo, patatine fritte alla Pippo, spinaci alla Braccio di Ferro, e così via. Ovviamente ogni menu viene attentamente calibrato per dare ai bambini il giusto apporto di calorie e rispettare i corretti valori nutrizio-

nali che assicurino ai piccoli una crescita ottimale». Nella preparazione dei piatti quali sono gli alimenti e i metodi di cottura più utilizzati? «Utilizziamo tutti gli alimenti più sani e genuini: verdure, carboidrati e proteine, limitando al minimo indispensabile l’apporto di grassi e zuccheri. Per quanto riguarda i metodi di cottura, invece, preferiamo eseguire la preparazione alla piastra e al vapore».

221 • Gusto



EDUCAZIONE ALIMENTARE La Brasserie De Milan

LE CHICCHE DI BRACCIO DI FERRO CHICCHE DI PATATE E SPINACI SU CREMA DI POMODORO E MOZZARELLA FILANTE Ingredienti per 1 persona: · per gr. 100 chicche di patate e spinaci · 70 gr. di patata farinosa cotta con buccia al vapore, pelata, passata con lo schiaccia patate, intiepidita e lavorata con gr. 20 di purè di spinaci, · gr. 5 uovo · gr. 5 di parmigiano reggiano

Preparazione: Lavorare il tutto delicatamente, formare dei cilindri di cm.1 di diametro e dagli stessi formare dei piccoli gnocchi a cui successivamente verrà data con le mani la forma di piccole sfere. Lessare le “chicche” in abbondante acqua salata leggermente, scolarli con mestolo forato mettendoli direttamente su crema di pomodoro che verrà realizzata con salsa di pomodoro fresco, frullata, passata al setaccio e addizionata di olio extravergine a crudo e basilico. Prima di servire le chicche aggiungere dei cubetti di mozzarella fiordilatte come guarnizione.

Quale risulta essere il piatto preferito dai baby clienti? «A dispetto della nostra valida e varia offerta gastronomica, sicuramente i piatti preferiti dai baby clienti rimangono sempre la pasta al pomodoro e i mini hamburger con le patatine fritte». Sono previsti anche spazi idonei per accogliere i bambini e forme di intrattenimento per i più piccoli? «Durante il nostro brunch domenicale abbiamo previsto, per i bam-

Maggio 2010

bini dai tre anni in su un menu dedicato e intrattenimento in uno spazio separato, in modo che i bambini possano giocare spensierati tra di loro e far ritrovare a i genitori un po’di intimità. L’iniziativa “Non solo Brunch” ogni domenica diventa un’occasione unica da trascorrere in famiglia, all’insegna dell’allegria e del buon gusto, per scoprire ogni settimana i sapori di un angolo diverso d’Italia. Per i bambini uno speciale menu, divertenti giochi e intrattenimento in una sala dedicata».

d

223 • Gusto


EDUCAZIONE ALIMENTARE Terrazza Danieli

Il gusto del gioco «I GENITORI SCELGONO IL RISTORANTE TERRAZZA DANIELI ANCHE PER FAR VIVERE UN’EMOZIONE GASTRONOMICA AI LORO FIGLI». L’ESTRO DELLO CHEF GIAN NICOLA COLUCCI

di Nicolò Mulas Marcello

È

proprio in tenera età che cominciano a delinearsi i gusti e le abitudini che formeranno lo stile alimentare dell’età adulta, per cui coltivare corrette abitudini da parte di tutti i componenti della famiglia è fondamentale per indirizzare il bambino verso uno stile alimentare salutare. Nei ristoranti si può mettere in pratica quanto appreso da genitori, nutrizionisti o dagli insegnanti nelle scuole e capire se esistono dei servizi creati a misura di bambino che assicurino la genuinità e la freschezza degli alimenti. «Un piatto può generare delle “informazioni” recepite attraverso tutti i sensi; può essere apprezzato e interpretato anche riflettendoci sopra; e i nostri metodi culinari, che siano classici o moderni, costituiscono un’eredità che il cuoco deve conoscere per

raggiungere il massimo risultato». L’executive chef Gian Nicola Colucci firma i piatti del ristorante Terrazza Danieli, la cucina tipica veneziana, i sapori del Mediterraneo e originali creazioni gastronomiche per i palati esigenti dei più piccoli. «Un’intensa esperienza di gusto per tutta la famiglia avvolti dal suggestivo panorama sulla laguna di Venezia». Chi sceglie il vostro ristorante a quale esperienza va incontro? E come si può accontentare il pubblico giovane e quello più adulto? «Ritengo che i bambini abbiano gli stessi diritti degli adulti anzi di più. Se loro stanno bene e si sentono coccolati, i genitori scelgono il nostro ristorante non solo per vivere un’emozione gastronomica, ma anche per farla vivere ai loro figli».

Nella foto, lo chef Gian Nicola Colucci del ristorante Terrazza Danieli di Venezia

• Gusto • 224

Maggio 2010




EDUCAZIONE ALIMENTARE Terrazza Danieli

MACCHERONCELLI TRICOLORE CON VERDURINE DI SANT’ERASMO E GAMBERETTI Ingredienti per 4 persona: · 300 gr di maccheroncelli fatti in casa di tre colori differenti rosso con pomodoro, verde con purea di spinaci, giallo solo con uova e farina · 100 gr di pomodorini scottati in acqua calda e pelati, tagliati a metà e privati dei semi · 50 gr di zucchine · 50 gr di carote · 50 gr di asparagi · 50 gr di funghi di stagione · 20 gr di fiori di zucca · sale · olio extravergine di oliva · 2 spicchi di aglio

Preparazione: Lavare le verdure e tagliarle molto finemente per permettere un cottura veloce; in una padella aggiungere poco olio e gli spicchi di aglio tagliati a metà, farli leggermente rinvenire, senza fare friggere, aggiungere poca acqua e fare consumare; aggiungere le verdure e cuocerle velocemente facendole rimanere croccanti, condire con poco sale e un pizzico di zucchero. Cuocere la pasta in acqua bollente, ma poco salata, quindi unire alle verdure e fare insaporire il tutto. Mettere nel piatto, suggerisco un filo di olio extravergine crudo e una grattugiata grossolana di formaggio Asiago.

Quale è l’offerta presentata nel menù bambini che proponete e quali valori nutrizionali e abitudini alimentari rispetta? «Nel menu bambini si seguono due filoni nutrizionali semplici, ma entrambi assolutamente importanti. È indispensabile mangiare sano di gusto, avendo un fine nutrizionale e provare a giocare mangiando perché penso che mangiare deve essere un piacere a qualunque età e in ogni senso». Nella preparazione dei piatti quali sono gli alimenti e i me-

Maggio 2010

todi di cottura più utilizzati? «La nostra scelta ricade su tutte le verdure utili per la loro dieta, in una combinazione di colori che possa rendere il cibo più simpatico e appetitoso. I condimenti utilizzati sono assolutamente sani, senza usare grassi dannosi per la salute». Tra i piatti proposti qual è quello più apprezzato dai baby ospiti che si siedono alle vostre tavole? «A tavola riscuotono sempre grande successo. I bambini, fosse per loro, mangerebbero tante patate

fritte e milanesi, ma noi abbiamo il dovere di fargli apprezzare anche formaggi, verdure e di assicurare loro soprattutto una dieta varia». All’interno del ristorante esistono aree riservate esclusivamente ai bambini e sono previste forme di intrattenimento per i più piccoli? «Considerato il target e l’ambiente che combina storia, bellezza artistica e ricercatezza mondana di Venezia, sono previsti servizi specifici su richiesta a seconda delle esigenze».

d

227 • Gusto




FORMAZIONE Alma

tra gusto e forma SPERIMENTARE PRESERVANDO LE TRADIZIONI. È LA FILOSOFIA CHE ISPIRA L’ECCELLENZA NELLA NOSTRA CUCINA. A PARLARE È IL MAESTRO GUALTIERO MARCHESI

di Ezio Petrillo

L

a Scuola internazionale di cucina italiana di Parma, diretta dal maestro di cucina per antonomasia Gualtiero Marchesi, si pone come base formativa di giovani chef e osservatorio per il radicamento della cultura alimentare nel nostro Paese. La creatività dell’artista, la ricerca della migliore qualità nei prodotti e una profonda cultura del cibo raccontate dallo chef Marchesi. Cibo e cultura. Secondo la sua esperienza, quanto il primo aspetto influenza il secondo e viceversa? «Essere esperti in materia di cibo

Gusto • 230

consente di apprendere un sapere multidisciplinare visto che la cucina abbraccia la storia, la geografia, il clima, l’economia: in una parola, il territorio. Quando a queste conoscenze si aggiungono la tecnica, l’esperienza e il senso del bello si raggiunge l’eccellenza». La variegata conformazione del territorio italiano produce prodotti diversi da regione a regione. Quanto questo aspetto rappresenta un vantaggio rispetto agli altri paesi? «Il fatto che ci siano cibi così diversi in ogni regione è, senza dubbio, una fonte di ricchezza. C’è da

dire, però, che la stessa varietà caratterizza altri paesi. La Francia, ad esempio, produce un’ottima cucina. Nel nostro Paese i meriti degli altri spesso non si conoscono e non si apprezzano». Quanto è importante la formazione di giovani chef e sommelier in una società in cui la “cucina veloce” la fa da padrona? «Importantissima. La sempre maggiore specializzazione in cucina necessita di una formazione adeguata a presidio della qualità. La stessa presenza dei fast food contribuisce a mantenere alto l’interesse verso la

Una studentessa di Alma tra i fornelli

• Maggio 2010



FORMAZIONE Alma

A sinistra Luciano Tona, direttore didattico di Alma; a destra, Gualtiero Marchesi con i suoi allievi

La specializzazione in cucina necessita di una formazione adeguata a presidio della qualità Gusto • 232

cucina di qualità e, dunque, tale aspetto non è sempre un danno. Detto questo, contro ogni banale criminalizzazione della cucina veloce, è essenziale che la qualità sia perseguita anche all’interno dei fast food». La scuola che lei dirige è protagonista della progettazione di diversi concorsi rivolti ai giovani talenti della ristorazione italiana. Quanto conta il merito in cucina? «È fondamentale. Basti pensare al fatto che il primo pensiero in cucina dovrebbe essere la salute del cliente. Pensare di istituire concorsi come il Gran Trofeo d’Oro della ristorazione italiana, di sicuro favorisce l’impegno e la ricerca da parte degli chef. Lo scorso anno, ad esempio, questa competizione ha visto la partecipazione di 26 istituti alberghieri italiani e 6 provenienti da altri Paesi europei. Ritengo che ciò abbia contribuito, anche in minima parte, all’approfondimento di

metodi che preservano la qualità a tutto vantaggio del cliente finale». Tradizione e sperimentazione. Nella cucina di oggi come vengono combinati tali aspetti? «Ritengo che sia necessario il giusto mix. Direi che senza sperimentazione anche la tradizione più radicata si svilisce. Quando, invece, lo scopo è di stupire a tutti i costi, spesso si finisce in un vicolo cieco». Un aspetto non trascurabile è quello della crisi economica. Quanto può influire la recessione sulla ricerca della qualità nel cibo? «La crisi non può influire sulla bontà dei prodotti che deve essere un’esigenza inderogabile ai più svariati livelli e, secondo me, comprende anche l’onestà nei confronti dei propri mezzi da parte degli chef. Ricercare a tutti i costi la sperimentazione per stupire il pubblico a volte sminuisce la ricerca della qualità».

d

Maggio 2010



FORMAZIONE Università di Scienze gastronomiche

il cibo incontra il territorio VALTER CANTINO, RETTORE DELL’UNIVERSITÀ DI SCIENZE GASTRONOMICHE, RIFLETTE SULL’IMPORTANZA DELLA FORMAZIONE NEL SETTORE

di Ezio Petrillo

U

n presidio per la diffusione della cultura alimentare. L’Università di Scienze gastronomiche di Bra, nata dall’associazione internazione Slow Food, è un punto di riferimento per la ricerca enogastronomica del nostro Paese. Secondo Valter Cantino, rettore dell’Ateneo, le oscillazioni che investono l’economia sono un danno per quei piccoli agricoltori e imprenditori del settore che necessitano di un’adeguata formazione professionale. Quanto conta oggi rispetto al

Gusto • 234

passato la formazione professionale nel settore del cibo? «Il problema principale all’interno del settore agroalimentare è quello di affrontare nel migliore dei modi il cambiamento generazionale. Studi importanti ci dicono che nell’arco di dieci anni almeno due terzi delle nostre aziende saranno costrette a chiudere se non cambieranno il loro modello di produzione. Specie i piccoli produttori avranno bisogno di un sostegno in chiave di una robusta formazione professionale per poter supportare un cambiamento molto forte visto che i modelli tradizionali

Maggio 2010



FORMAZIONE Università di Scienze gastronomiche

In apertura, il rettore Valter Cantino; a fianco e sotto, studenti dell’Università di Scienze gastronomiche durante esercitazioni pratiche in aula

• non reggono più. Se vogliamo continuare a preservare l’economia del cibo dobbiamo trovare delle ricette nuove per sostenere modelli di un’agricoltura che non sia estensiva». Il nostro Paese sfrutta appieno le enormi risorse del territorio per lo sviluppo di una florida economia basata sul cibo e sul turismo? «Credo proprio di no. Fatte le dovute eccezioni, però, l’alimentare tiene meglio di altri settori grazie a quelle produzioni che hanno un valore riconosciuto. Quello su cui occorre lavorare, a mio avviso, è la presa di coscienza che gli elementi che rendono unici i nostri prodotti, devono essere portati al consumatore attraverso una filiera integrata. Spesso l’agricoltore “fatica” molto e porta a casa poco. Su questo aspetto, in particolare, l’Università sta spendendo molte energie per creare dei modelli e trasferirli a chi opera nel settore agro-alimentare. L’obiettivo è rendere gli agricoltori consapevoli del valore delle loro produzioni». Quanto una maggiore conoscenza dei prodotti che mangiamo può favorire l’incontro tra diverse culture? «Esiste un detto che recita “gli affari

Gusto • 236

si fanno a tavola”. Non solo economici ma anche sentimentali. Sviluppare la propria capacità di conoscenza delle culture altrui, attraverso un momento legato alle nostre abitudini primarie e fisiologiche come il consumo del cibo, è fondamentale per i processi di integrazione. Questo passaggio può essere importante a livello sociale, in un momento particolare come quello attuale, fatto dalla presenza sempre più numerosa di persone con culture e caratteristiche somatiche diverse rispetto a quelle autoctone». Ricerca della qualità e profitto economico. Oggi questi due concetti viaggiano assieme o si registra un cambiamento di direzione in tal senso? «Oggi è difficile trovare questi due concetti abbinati. Ci sono, però, le dovute eccezioni. Se guardiamo al settore vitivinicolo, ci accorgiamo che investimenti in qualità e marchio hanno premiato i produttori. Ma se, ad esempio, pensiamo al settore risicolo, abbiamo moltissime tipologie prodotte, ma il consumatore riesce a malapena a riconoscerne le diverse qualità. Sarebbe importante far cogliere le caratteristiche delle specifiche produzioni, magari approfondendo la radice storico-antropologica di un alimento».

d

Maggio 2010


FORMAZIONE Carlo Petrini

Una scienza complessa ALLA SCOPERTA DEI SAPORI. È L’IMPEGNO DELL’ATENEO DI BRA. LO SPIEGA CARLO PETRINI

di Ezio Petrillo

I

l cibo è l’espressione più autentica della trasformazione in cultura di ciò che offre la natura e il territorio. Rimane un mistero come, per troppo tempo, lo studio approfondito delle influenze degli aspetti culturali su quelli strettamente culinari e alimentari, sia rimasto un campo disciplinare totalmente inesplorato. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, da più di vent’anni si occupa della ricerca in ambito enogastronomico e di promuovere un certo tipo di educazione al gusto. Dal 2004, con la nascita dell’Università di Bra, il suo impegno è stato tradotto in sapere accademico. L’Università degli Studi di Scienze gastronomiche è una sua creazione. Come potrebbe sintetizzare, in breve, la missione del suo ateneo? «Il progetto dell’Università nasce dall’intento di ridefinire il concetto di gastronomia e riscattarne la dignità scientifica. L’obiettivo è quello di creare una nuova figura professionale, il gastronomo, capace di operare nella produzione, distribuzione, promozione e comunicazione dell’agroalimentare di qualità. L’ateneo licenzia i futuri esperti di comunicazione, divulgatori e redattori multimediali in campo enogastronomico, oltre ad

Maggio 2010

237 • Gusto


FORMAZIONE Carlo Petrini

Dall’alto, un’iniziativa organizzata da Slow Food e, in basso, il fondatore, Carlo Petrini

• addetti al marketing di prodotti d’eccellenza, manager di consorzi di tutela e di aziende del settore agroalimentare o di enti turistici. Al tempo stesso l’Università nasce con la vocazione di essere un centro di ricerca, studio e catalogazione dei saperi, delle tecniche e di tutte le forme di espressione delle comunità del cibo». Quali sono le linee di intersezione, oggi, tra cultura e cibo? «La gastronomia è una scienza complessa contenente i concetti di cibo e cultura sia materiale che immateriale. Se pensiamo alle connessioni della culinaria con i tantissimi campi delle scienze e dei saperi umanistici (dalla botanica alla chimica, dall’agronomia all’antropologia, dall’economia politica al commercio, dal savoir faire dell’uomo fino alla cucina tout court), possiamo capire immediatamente che il cibo stesso è cultura o, ancora meglio, natura che si trasforma in sapere attraverso l’intervento dell’uomo» Quanto risente la nostra cultura dell’influenza di aree agricole così diverse che producono prodotti molto variegati da regione a regione? «Le cucine italiane regionali e i patrimoni gastronomici di ogni terri-

Gusto • 238

torio sono la prova tangibile della ricchezza e della diversità culturale e geografica del nostro Paese. La cucina, come i dialetti, i canti, le feste di tradizione, marca culturalmente un territorio, la sua storia e il paesaggio stesso. L’Italia, con questo vario e ricco patchwork, ne è marcata indelebilmente nella sua peculiarità tanto che, a differenza della Francia, dove si può parlare dell’esistenza di una vera e propria cucina nazionale, nel nostro Paese è molto difficile riuscire a identificare un unico modello di cucina per tutto il territorio nazionale». Il rapporto tra identità del territorio e prodotti enogastronomici come influenza le nostre vite? «Di identità si parla sempre più spesso e, talvolta, a sproposito. Molto spesso tale concetto viene strumentalizzato. È certo che per gli italiani il cibo ha un valore identitario e di appartenenza molto forte. Quindi sì, il legame con i prodotti gastronomici è sempre più stretto e talvolta definisce l’essere stesso di una regione, di un luogo, di una comunità. Tale aspetto non è casuale perché il cibo lega ambiente, natura, climi, biodiversità e relazioni sociali in un unicum in continua evoluzione che contribuisce a definire in maniera importante quello che siamo».

d

Maggio 2010




FORMAZIONE Massimiliano Bruni

master food & beverage CIBO E MANAGEMENT. OGGI COME NON MAI, I DUE CONCETTI VIAGGIANO A BRACCETTO E SPECIALIZZARSI DIVENTA QUASI UNA NECESSITÀ. LO SPIEGA MASSIMILIANO BRUNI

di Ezio Petrillo

Maggio 2010

241 • Gusto


FORMAZIONE Massimiliano Bruni

F

ood come fonte di business. Nella realtà contemporanea i prodotti alimentari non sono più soltanto cibi da consumare, ma il frutto di una catena economica che coinvolge diversi attori. Analizzare i vari aspetti della filiera alimentare, oggi, si rivela necessario per chiunque volesse intraprendere un percorso professionale nel settore. Massimiliano Bruni, direttore del master in Fine Food & Beverage dell’Università Bocconi offre, in merito, una panoramica esaustiva. Quali sono, a suo avviso, le migliorie da apportare sulla filiera distributiva dei prodotti? «Ci sono due aspetti da migliorare. Il primo riguarda la filiera in senso stretto, da noi molto più lunga che altrove, e ciò produce un prezzo per il consumatore decisamente più alto di quello che dovrebbe essere. Il secondo attiene al fatto di come la grande distribuzione veicola e diffonde i prodotti dei territori. Le esperienze estere ci insegnano che la grande distribuzione organizzata può avere ampi margini di miglioramento che riguardano l’esposizione e la presentazione dei prodotti». Globalizzazione e culture locali nazionali. Nel cibo, quanto il primo aspetto influenza il secondo e quali conseguenze ne possono derivare? «Possiamo leggere la globalizzazione come una crescente diffusione di culture comuni, e quindi ciò determina la possibilità per le aziende di maggiori dimensioni o per quelle

medio-piccole che avranno la capacità di aggregarsi, di andare a vendere i propri prodotti all’estero più facilmente rispetto al passato. Se è vero questo, però, è anche vero che col crescere del profilo internazionale dei mercati si incontrano culture alimentari diverse. Per questo è necessario adattarsi e conoscere le usanze degli altri Paesi». Un imprenditore che oggi decide di investire sul cibo, di fronte alla concorrenza dei grandi centri commerciali, a cosa deve puntare per garantirsi una sufficiente fetta di mercato? «Molto dipende dalla categoria merceologica. Se un imprenditore fa un buon prodotto e riesce a certificare i processi produttivi assicurando alti livelli qualitativi, trova comunque un sufficiente spazio di mercato. A livello di mercati locali sui territori si può investire attraverso i canali tradizionali, ricavando comunque ottimi profitti».

Massimiliano Bruni, direttore del master in Fine Food & Beverage

Dal lato, invece, del consumatore, secondo lei cosa è cambiato nella scelta dei cibi? «Tanto. Dopo molti anni si è andata osservando una maggiore consapevolezza e attenzione del consumatore non sempre sostenuta, però, dalla cultura del prodotto. Se andiamo a vedere i consumi del vino, ad esempio, si osserva una crescita ma non sempre la domanda si indirizza verso prodotti di qualità, perché manca la cultura per distinguerli secondo il rapporto qualità/prezzo. Registriamo, poi, una crescita di prodotti bio, organici ed etnici. Si sono sviluppati, infine, i mercati di prossimità, in cui contadini vendono direttamente ai consumatori».

d Maggio 2010





SICUREZZA ALIMENTARE Efsa

sicurezza a 27 stelle


SICUREZZA ALIMENTARE Efsa

LE CRISI ALIMENTARI SONO IL PANE QUOTIDIANO DELL’AUTORITÀ EUROPEA PER LA SICUREZZA ALIMENTARE IL CUI DIRETTORE ESECUTIVO È CATHERINE GESLAIN-LANÉELLE

di Sante Canevelli


SICUREZZA ALIMENTARE Efsa

H

Nella pagina precedente, la sede dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) a Parma. In questa pagina, Catherine GeslainLanéelle, direttore esecutivo dell’Efsa

anno riabilitato la fiorentina, fissando l’obbligo di asportazione della colonna vertebrale (causa Bse) solo per i bovini con più di 24 mesi. Hanno rilevato come il rosso E128, il famigerato colorante alimentare sintetico, sia un rischio cancerogeno per l’uomo. Hanno ridotto (da 1.000 a 250) le sostanze attive contenute nei pesticidi. Crisi alimentari, sicurezza della tavola, pericoli biologici, prodotti fitosanitari: sono alcuni dei fronti che vedono impegnati gli scienziati e i ricercatori in forza all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (European food safety authority), con sede a Parma. Duemila le valutazioni scientifiche prodotte dal 2002 a oggi. Allarmi lanciati e poi tradotti, dalla Ue, in leggi e provvedimenti. «La nostra priorità – spiega Catherine Geslain-Lanéelle direttore esecutivo dell’Efsa – è assicurare la protezione dei consumatori europei. Nei prossimi mesi, gruppi di nostri esperti lavoreranno, ad esempio, sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute, sui pesticidi, sugli Ogm, sui coloranti e anche sulla sicurezza alimentare, come la clonazione degli animali e le nanotecnologie». Proprio perché indipendente, la consulenza scientifica dell’Efsa «rappresenta il fondamento del sistema europeo per la sicurezza alimentare. Grazie a questo sistema, i consumatori europei sono tra i più protetti e meglio informati al mondo per quanto riguarda i rischi associati alla catena alimentare». Molto c’è ancora da fare quindi? «Il livello di sicurezza in Europa è

Gusto • 248

molto elevato. L’Efsa fornisce solide basi scientifiche affinché le istituzioni europee e i governi nazionali possano adottare le misure adeguate per proteggere la salute pubblica e l’ambiente. E assicurare che gli alimenti europei per l’uso domestico e l’esportazione siano sicuri, sani e sostenibili. Poiché siamo alle prese con tecnologie sempre più complesse e con nuovi e vecchi rischi conosciuti o emergenti. C’è un crescente bisogno di collaborazione. Oltre 350 istituzioni scientifiche di tutta Europa, ci “prestano” i propri esperti per consentirci di portare a termine il nostro lavoro». Nel sistema europeo la valutazione è un processo distinto dalla gestione del rischio alimentare. Voi producete pareri, le istituzioni decidono. Qual è il vostro modus operandi?

«Tutte le istituzioni europee hanno l’obiettivo di salvaguardare la salute dei consumatori. Il nostro lavoro scientifico ha un impatto sulla vita quotidiana dei cittadini europei ed è alla base di decisioni importanti nel campo della sicurezza alimentare. A testimonianza dello stretto rapporto di collaborazione con i gestori del rischio alimentare, ci è stato chiesto di fornire pareri urgenti durante situazioni di emergenza per evitare che sfociassero in crisi gravi come quelle riguardanti la mucca pazza e la diossina a fine anni 90. Questioni come la presenza di melamina nel cibo richiedono una risposta nell’arco di qualche giorno, non settimane o mesi. E la nostra risposta rapida ha permesso di assumere decisioni tempestive. Per questo, abbiamo definito un modus operandi che assicuri la qualità del nostro lavoro, ma al contempo ci permetta di reagire

Maggio 2010



SICUREZZA ALIMENTARE Efsa

prontamente in caso di eventi urgenti. Inoltre, poiché i problemi alimentari non hanno barriere geografiche, l’Efsa ha definito una strategia internazionale per coltivare relazioni con interlocutori che svolgono compiti simili al nostro (Giappone, Usa, Australia e Nuova Zelanda, Cina)». Consumatori: le etichette dei cibi sono abbastanza esaustive? «Le istituzioni europee stanno ora discutendo su quali siano le informazioni da indicare sulle etichette alimentari per fornire un’informazione esaustiva. È una decisione che

Gusto • 250

non spetta all’Efsa. Noi forniamo basi scientifiche per aiutare a prendere tali decisioni. Ad esempio, verifichiamo la fondatezza scientifica delle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite nelle etichette o nei messaggi promozionali. La nostra consulenza contribuirà a garantire che le indicazioni sulla salute sui prodotti, autorizzate da Commissione e Stati membri, siano veritiere e aiutino i consumatori a fare scelte dietetiche salutari. È un lavoro importante che rispecchia la volontà del regolamento europeo su indicazioni nutrizionali e salute del 2006: i messaggi sulle etichette nella Ue de-

vono essere chiare e corroborate da prove scientifiche». Prossime sfide? «L’espansione del commercio alimentare, l’incremento di viaggi e migrazioni sono fattori che possono potenzialmente contribuire alla diffusione di nuovi rischi. La priorità adesso è di continuare ad assicurare la protezione dei consumatori europei e di servire come organismo di riferimento per la valutazione del rischio nella sicurezza di alimenti e mangimi, salute e benessere animale, nutrizione, protezione e salute delle piante».

d

Maggio 2010



Maggio 2010


APPUNTAMENTI Cibus

il mondo mangia italiano CON LO SLOGAN “WELCOME TO FOODLAND”, PARMA OSPITERÀ LA QUINDICESIMA EDIZIONE DI CIBUS, LA VETRINA BIENNALE CHE OSPITA LE PRINCIPALI INDUSTRIE ALIMENTARI ITALIANE

di Andrea Moscariello Maggio 2010

253 • Gusto


APPUNTAMENTI Cibus

P

unta sempre di più all’export il sapore italiano. Distributori e buyer da ogni parte del mondo si ritroveranno all’evento Cibus, la biennale di Parma che punta a raccogliere tutte le più grandi marche e catene rivolte al mercato alimentare e del fuori casa. «L’evento mira a fornire un vero e proprio patrimonio affaristico di contatti, nomi, accordi, affinché le produzioni italiane raggiungano e si rafforzino su nuovi territori». Elda Ghiretti, manager della fiera, presenta con uno spiccato entusiasmo l’edizione 2010. Anche a riscontro del fatto che, mai come quest’anno, le rappresentanze più importanti del comparto si ritroveranno nella città emiliana. A inaugurare l’evento saranno i principali esponenti del comparto, che faranno il punto di un settore storicamente anticiclico e meno colpito dalle crisi economiche. Ciò che differenzia Cibus dagli altri eventi europei legati all’enogastronomico sta nel fatto che a realizzarlo è un’associazione di categoria. «Fiere di Parma crea l’evento assieme a Federalimentare. Per

Nelle immagini alcuni scatti realizzati durante l’edizione 2008 di Cibus; in basso, Elda Ghiretti, product manager dell’evento

questo il nostro endorsement è composto dalla più grande fetta dell’industria alimentare italiana». In quello che si appresta a diventare il principale market place per il food nostrano saranno molti gli eventi in programma. A colpire è la sempre maggiore attenzione rivolta al segmento del “fuori casa”. «Non parliamo solamente di bar e ristoranti. Oggi dobbiamo calcolare la ristorazione collettiva, commerciale, i My Chef, gli Autogrill o i McDonald’s, solo per citare i principali, che ospitano milioni di viaggiatori. Chi viaggia consuma. E va a costituire un mercato in grandissima espansione». E per la prima volta Parma ospiterà anche alcuni fuori salone che rientrano nel programma “Cibus in città” e che puntano a creare eventi di spettacolarizzazione mediatica delle aziende e dei prodotti presenti in filiera. Inoltre verrà organizzata la

“Piazza dei prodotti Dop Igp” cui prenderanno parte 49 consorzi italiani affiancati dai soci di oriGin, l’associazione non governativa che raccoglie i produttori di denominazioni di origine a livello mondiale, i quali presenteranno alcune selezionate specialità enogastronomiche internazionali. Non solo, si attuerà un vero e proprio osservatorio socio economico cui prenderà parte la fondazione Qualivita, che ha curato la redazione dell’Atlante europeo dei prodotti agroalimentari, in particolare Dop e Igp. «Il carrello della spesa è stato, per certi aspetto, ricomposto, i consumatori sono molto più attenti e conoscono l’importanza dell’origine e della qualità della produzione alimentare – conclude Elda Ghiretti –. Con Cibus vogliamo fotografare questa situazione creando una base che agevoli l’esportazione delle marche italiane grazie ai grandi distributori mondiali».

d

Maggio 2010




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.