Mete G R A N D
13 17 22 50 62 76 84 90
T O U R
Editoriale Marco Zanzi Michela Vittoria Brambilla L’intervento Matteo Marzotto Antonio Colombo Il Mediterraneo visto da Folco Quilici, Giovanni Chiaramonte e Mimmo Jodice Il mare di Marcello Veneziani Marche, i ricordi di Valentina Vezzali e Massimo Lopez La Riserva Privata San Settimio Nella Milano Marittima di Luca Goldoni Le bellezze di Capri Rocco Barocco Tra i giardini d’Italia Jude Wade Paolo Pejrone, Paola Maresca Mimma Pallavicini, Maria Chiara Pozzana, Patrizia Spinelli, Luchino Visconti
10 • Mete Grand Tour
114 121 128
La Sanremo dei fiori Riccardo Giordano In viaggio con Stefano Zecchi Il profilo culinario della Serenissima
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Le vette di Mauro Corona
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Sui passi dei carbonai Nino Martino
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Piemonte “cotto e mangiato” Benedetta Parodi
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I portici di Bologna Cesare Cremonini
Giugno 2010
S O M M A R I O 220
Tra Napoli e Salerno Achille Bonito Oliva
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Gerace La perla medievale
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Sulle tracce di Piero Vittorio Sgarbi
246 158 164 166 178 182 208 210
La Toscana in scena Giorgio Albertazzi Firenze culla d’arte Trieste Giovanna Botteri Renato Balestra
274 286
Dosson di Casier Villa Contarini Nenzi Torino Paolo Crepet Roberto Cota, Sergio Chiamparino Ugo Nespolo, Enrico Morteo Dolcezze dal territorio Il lago di Como Andrea Vitali Mario Biondi
Sapori abruzzesi Il Parco Nazionale D’Abruzzo Specialità dell’Aquila
Vulture ieri e oggi Raffaele Nigro Gigi di Fiore Pasquale Squitieri Gianna Schelotto
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Il parco delle Madonie Angelo Aliquò
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Giardini Naxos Accanto al vulcano
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336 348 358 376 382 Giugno 2010
Sulle strade dell’Antica Roma Valerio Massimo Manfredi Carlo Delle Piane Arturo Diaconale Antonio De Sanctis
Il grande Nord Andrea Mochi Onory di Saluzzo Elisabetta Kelescian Antonio Bandini Angelo Persiani La strada del Chianti Firenze da gustare Fabio Picchi Dolce Toscana Sorvolando Todi Gubbio Testimonianze dal Medioevo
Mete Grand Tour • 11
UN RINNOVATO GRAND TOUR
Editoriale
di MARCO ZANZI
partire dal XVIII secolo ai rampolli dell’aristocrazia europea, al termine del loro ciclo di studi, si concedeva un lungo periodo di viaggio, il Grand Tour: la meta privilegiata era l’Italia. Quali erano le sorprese che la visita al Belpaese riservava loro? Certo tutta la storia dell’arte: quella Classica, l’Umanesimo e il Rinascimento. I templi della Magna Grecia, le rovine romane, i capolavori di Piero della Francesca, di Antonello, di Mantegna, di Leonardo, di Michelangelo e di Raffaello... Ma non era solo questo: erano anche i paesaggi. L’Italia delle cento città, dei tantissimi campanili, del patrimonio distribuito dappertutto. Erano le colline senesi e le calli veneziane, le prospettive dei portici bolognesi e le vedute romane, la “camera con vista” sulla cupola del Brunelleschi e i faraglioni e il mare di Capri. Ma erano anche certi scorci della campagna umbra e laziale e i borghi arroccati sulle montagne dell’Appennino... Era l’esperienza inebriante di vivere per un lungo periodo in mezzo al bello. Poi si aggiungeva la scoperta di sapori nuovi e di profumi diversi che ogni città, paese o villaggio offriva. Il “gusto” diventa un valore identitario del nostro Paese modellato dal bello dell’arte, dai paesaggi e dai sapori dei prodotti alimentari e della cucina. La cultura del viaggio viene dunque vissuta quale opportunità di conoscenza e diletto e si apre alla prospettiva di un’esperienza estetica che si nutre del paesaggio ed è insieme sapere e amore, aristocrazia del gusto e impresa del bello. Mete Grand Tour intende
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riproporre l’esperienza dei viaggiatori di due secoli fa creando itinerari spesso insoliti e accompagnando il lettore in quelli che sono i “luoghi dell’anima” di personalità illustri che appartengono al mondo della cultura e dell’arte, della politica e dell’economia, della comunicazione e dello spettacolo. In questo numero il viaggio parte dal mare, dal Mare Nostrum come lo chiamavano i Romani, il Mediterraneo, che ha lasciato profonde tracce nelle società che nel corso dei secoli si sono sviluppate sulle sue coste (e non solo). Braudel lo definiva una grande distesa di pianure liquide interrotte da porte e ogni porta permette l’accesso a nuove culture e nuove genti. Ma il mare è anche per eccellenza un luogo dell’anima: “il mare è il tuo specchio - scriveva Baudelaire - tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua…”. Il Grand Tour di Mete prosegue toccando città come Firenze, Torino, Trieste, Milano e Venezia. Si mette sulle tracce di Piero della Francesca partendo da Rimini fino a Firenze. Si perde in quei magici e segreti luoghi senza tempo che sono i giardini italiani. Sale sulle Dolomiti e segue la via Cecilia attraversando il Gran Sasso. Si ferma sulle sponde del lago di Como e sotto le Due Torri.Va alla ricerca dei rifugi dei briganti del Vulture e percorre il cammino dei carbonai della Valle Imperina. Scopre i sapori e i profumi del Chianti e arriva giù fino alle Madonie. Un viaggio affascinante e originale perché fatto insieme a guide d’eccezione, infatti, il vero viaggio di scoperta - diceva Proust - non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.
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Mete Grand Tour • 13
L’ESTATE PER RIPARTIRE e previsioni per l’estate sono positive e danno la tenuta del settore turistico migliore dell’anno precedente. Questo farà da apripista per la ripartenza dei flussi turistici. Gli indicatori statistici da un lato impongono di lodare gli imprenditori del turismo italiano per come hanno saputo affrontare la difficile crisi che ha coinvolto anche il loro settore; dall’altro confermano quanto aveva previsto l’Organizzazione mondiale del turismo, secondo la quale vi sarebbe stata una ripresa dei flussi anche in Europa. E l’Italia è prima in Europa e quarta nel mondo per numero di camere (1,1 milioni) e di posti letto (2,2 milioni) sopravanzando grandi Paesi come Germania,
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Spagna e Francia. Lo scorso 17 giugno ho firmato con il ministro Galan un accordo per valorizzare e promuovere insieme il sistema agroalimentare e il sistema turistico nazionale. L’accordo prevede tra l’altro la definizione di un programma nazionale di sviluppo del sistema “Turismo & agroalimentare”, l’individuazione di progetti pilota per la promozione di distretti turistico agroalimentari e di circuiti nazionali di eccellenza per il turismo enogastronomico, iniziative di supporto per sostenere l’immagine e il brand Italia.Tra i progetti già allo studio e di prossima realizzazione, la campagna itinerante “Magic Italy in Tour”, che porterà sulle piazze delle principali città d'Europa le eccellenze enogastronomiche, artigianali, culturali e artistiche del nostro Paese. E poi gli Stati Generali del vino, una grande vetrina per le produzioni vitivinicole italiane. Infine, i buoni-vacanza saranno rifinanziati non appena esauriti i cinque milioni di euro già stanziati. Ho preparato l’atto di rifinanziamento di questo progetto e di proroga per i buoni non ancora consumati, che potranno essere utilizzati a partire dalla fine di settembre. I buoni-vacanza rappresentano un contributo a favore delle fasce sociali più deboli per permettere a tutti di prendersi una pausa. L’attuale “tranche” ha iniziato a essere disponibile dalla fine di gennaio e sta terminando in questi giorni.
Editoriale
Michela Vittoria Brambilla Ministro del Turismo
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Mete Grand Tour • 15
L’intervento
L’ITALIA DA SCOPRIRE La caccia al particolare, per il presidente dell’Agenzia nazionale del turismo, Matteo Marzotto, ha un «potenziale straordinario». In un’ottica lungimirante l’Enit si è già mossa in questa direzione con “Italia much more”, campagna promozionale svolta nel 2009 in cinque mercati internazionali
a «un potenziale straordinario» il turismo che guarda al particolare. Viaggiatori che ricercano mete insolite di cui, peraltro, il Belpaese è ricchissimo. Per natura e per cultura. «È un mercato che esiste - osserva Matteo Marzotto, presidente dell’Enit, l’Agenzia nazionale del turismo. Sono molti i turisti interessati al lifestyle, ai localismi, ai centri più piccoli». Un modo differente di scoprire le bellezze che punteggiano lo Stivale che deve essere promosso. In questa direzione, un primo passo l’Enit lo ha compiuto con Italia Much More, campagna promozionale svolta dall’Agenzia nel 2009 per due mesi, in cinque mercati internazionali. Una sorta di bollino blu che, ricorda Marzotto, «dimostra semplicemente come si possa fare turismo in un territorio che continua a vivere la propria vita normale». Una tendenza che «forse è anche più interessante, essendo noi ricchi di queste opportunità». Con Italia Much More, l’Enit punta così ad «aggregare non i grandi
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Matteo Marzotto
luoghi di turismo». Certo per centrare il bersaglio, «occorre anche la collaborazione delle istituzioni», sempre presenti. «Abbiamo talmente tante agenzie di promozione turistica che, semmai, il problema è farsi latori di un’idea un po’ unitaria e poi proporla. È difficile avere un interlocutore solo. L’Agenzia nazionale del turismo, da questo punto di vista, può comunque utilizzare le proprie sedi per far parlare il territorio, intercettando i grandi e i tanti piccoli eventi locali e rilanciandoli in un circuito nazionale». Apprezzare il piccolo, il meno noto, ma non per questo importante. E magari andare anche controcorrente o fuori stagione come suggerisce il presidente dell’ Agenzia nazionale del turismo come, ad esempio, la Sardegna d’inverno, la Venezia d’autunno (ottobre o novembre) oppure i laghi nelle mezze stagioni. «Proporrei al turista un modo per capire meglio i colori della natura nella stagione antitetica rispetto allo stereotipo del luogo». E qui «l’Italia è un trionfo».
Matteo Marzotto, presidente di Enit
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Mete Grand Tour • 17
L’intervento
PATRIMONIO ITALIA Promuovere. Valorizzare. Innovare. Questi gli imperativi secondo il direttore generale di Federturismo Antonio Colombo per sostenere il prodotto turistico italiano. Che rilancia: «Occorre una strategia integrata»
Antonio Colombo
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l nostro Paese gode di «una ricchezza incomparabile», fatta non solo di arte e storia, ma anche di risorse naturali che attrae turisti da tutto il mondo. «Possediamo un mix di creatività, patrimonio artistico, bellezza paesaggistica che molti Paesi ci invidiano e che ha contribuito a fare del made in Italy un vero marchio di successo», sottolinea il direttore generale di Federturismo Confindustria Antonio Colombo. Che, però, non manca di sottolineare come per attrarre
Antonio Colombo, direttore generale di Federturismo
turisti occorra «una chiara politica di promozione e valorizzazione del patrimonio culturale e del Paese, accompagnata da investimenti per il consolidamento del sistema turistico-culturale». Gli obiettivi sono dunque «sviluppare la cultura del servizio, fidelizzare la clientela, puntare alla qualità, grazie a standard uniformi e trasparenti, a progetti di formazione per tutti gli addetti a contatto con il turista, con iniziative mirate». Questo perché il turismo, come tutti i settori produttivi, «ha bisogno di politiche industriali». Le politiche per il turismo «devono avere come obiettivo la competitività delle imprese dell’industria turistica». Tuttavia, avverte Colombo, «le politiche per il turismo non devono essere confuse con la promozione». Per rilanciare il settore occorre dunque «una strategia integrata, basata sull’innovazione, sulle infrastrutture, sulla qualità dei servizi offerti, sulla professionalità della forza lavoro». Il turismo deve «essere al centro di tutte le politiche connesse, dai trasporti, all’ambiente, alla sicurezza».
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18 • Mete Grand Tour
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IL GRANDE CUSTODE BLU
di ANDREA MOSCARIELLO
L’amore per i popoli, per i tesori nascosti, per i fondali. E una storia lunga trent’anni con un grande compagno d’avventura, il Mediterraneo. I racconti di Folco Quilici, quel ragazzino nato in campagna che, da grande, ha trovato l’avventura nei mari, scoprendo il suo regno al di là dell’orizzonte
Mediterraneo
rendere il largo. Sfuggire alla caotica vita quotidiana. Distrarsi, dal tutto, concentrandosi sul mare. I piedi scalzi che poggiano su un pavimento solido, ligneo, sporco di sale e di sabbia. E le mani segnate dalle corde, indispensabili per ormeggiare. È così che possiamo immaginare l’evasione di Folco Quilici. Sull’acqua, a bordo della sua barca, con la moglie accanto. Cineasta, fotografo, scrittore, giornalista. Un maestro dell’arte che nel corso della sua carriera ha saputo raccontare il rapporto tra l’uomo e il mare. Lui, che con Fernand Braudel e Levi Strauss seppe osservare il Mediterraneo con quello sguardo da poeta avventuriero, uno sguardo peraltro mai dissipato. E dal 16 luglio, presso Palazzo Granafei Nervegna, a Brindisi, con la collaborazione della Fondazione Fratelli Alinari, si aprirà la sua nuova mostra “I mari dell’uomo”: 84 scatti realizzati tra il 1952 e il 2008 in cui la contemplazione di Quilici verso l’elemento naturale si mostra in tutta la sua empatia. Parte dalla barca il dialogo con l’artista. «Io e mi moglie ne siamo praticamente imparentati. Ci costa un po’ di fatica, ma resta pur sempre la nostra meravigliosa evasione. Un’evasione, però, da cui non ci si può distrarre». Il mare impegna. «Vero. In mare, come in montagna, devi stare attento a quello che fai. Non è come quando vado in campagna, in cui alla fine mi ritrovo sempre a lavorare come un matto, tra macchina fotografica, penna stilografica o chissà quale altra diavoleria». Per lei che è nato nelle campagne
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ferraresi deve essere una bella evasione. «Una bella avventura. Ho sempre sognato i grandi mari». Mari con cui lei pare abbia un rapporto più fisico che mentale. O sbaglio? «In realtà i miei rapporti, psichici o materiali, non sono proprio con il mare, ma più con le sue genti. Tutti i miei lavori sono sempre stati dedicati a loro. Ai pescatori, agli archeologi». L’uomo la ispira di più? «Ho sempre pensato che un tramonto sul mare, una bella onda, o una balia suggestiva non bastino per fare un film o una bella fotografia. Sono gli uomini che vi lavorano, o soprattutto vi lavoravano, a darmi l’ispirazione, come si potrà evincere nella mia nuova mostra». Perché calcare sul verbo al passato?
Il mito al di là dell’orizzonte
In apertura,Canoa al largo della grande onda, Oceania, 1969 Folco Quilici © Fratelli Alinari; a sinistra, Folco Quilici
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Mediterraneo
Il mito al di là dell’orizzonte
«In quel lembo di mare c’è il mondo. Basta scavare. Il bello del Mediterraneo è questo» Sopra, Calabria, Riace. Uno dei bronzi del V secolo appena recuperati in basso fondale viene ripulito da alcune incrostazioni, 1972. Folco Quilici © Fratelli Alinari
«Perché oggi sono pochi coloro che lavorano veramente sul mare e nel mare. Anche i pescatori se ne stanno rinchiusi su pescherecci, su portaerei o dentro grandi container. Nemmeno lo vedono il mare, non sanno neanche dove si trovano. Un tempo, invece, il mare era qualcosa capace di temprare un uomo, di formarlo, scolpirlo. La natura è stata capace di creare un essere particolare, non soltanto dal punto di vista fisico, della forza, della resistenza, ma anche mitologico».
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Perché il mito è così legato alla dimensione marina? «Il mare, così come la montagna, è un mondo difficile, in cui l’uomo ha tentato di andare oltre la realtà. Regni meravigliosi al di là dell’orizzonte. Un contadino della bassa ferrarese come me non può avere simili sogni!». Il Mediterraneo, in particolare, porta con sé una grandissima eredità mitologica. «Non solo il Mediterraneo. Credo sia un elemento comune a tutti i mari che hanno un orizzonte chiuso. Pensiamo al Golfo dei Caraibi, al Golfo Persico, al Mare del Giappone o a quello del Nord. Tutti luoghi che hanno saputo creare un circuito di favole e miti. Addirittura i Polinesiani hanno creato la loro religione basandosi proprio sul rapporto
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Mediterraneo
Il mito al di là dell’orizzonte
Sardegna, Capo caccia, corallo in alta profondità, 1967 Folco Quilici © Fratelli Alinari
che hanno con il mare. Certamente, però, per quanto mi riguarda, il Mediterraneo ha rappresentato il mio punto di arrivo più importante». Il suo punto di arrivo è anche quello più vicino. Forse il sogno in gioventù l’ha portata troppo al largo? «Curioso vero? Sono partito dal Mar Rosso e in seguito sono andato in Polinesia. Cercavo la grande avventura, il grande film. Poi con il tempo, ho cominciato a retrocedere, ad avvicinarmi sempre di più alla mia terra. Dai posti più lontani a quelli più vicini. Non occorreva andare in capo al mondo per trovare l’avventura, il grande fascino. La storia del Mediterraneo è quella che mi conquista di più, la tradizione che amo maggiormente, che ho osservato con Braudel e Strauss. Il Mediterraneo mi è praticamente esploso tra le mani». Cosa accadde? «Non vi era solo il fatto che questo mare è altrettanto ricco quanto altri di favole, leggende, miti, paure, per non parlare della sua storia fatta di guerre, scambi, violenze, poesia. Il Mediterraneo ce l’avevo sottomano. Per
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questo, dal 1982, quando lavorai con Fernand Braudel, divenne il mio mare. Son passati quasi trent’anni ma ce ne vorrebbero almeno trecento per poterlo studiare appieno». Esiste un luogo simbolo del Mediterraneo? «No, non c’è. Non esiste una sua punta, una sua cima. Il Mediterraneo ha un carnet di micro culture vastissimo. E ognuna di queste fa capo a se stessa. È chiaro che hanno delle regole in comune, dei tratti a volte molto similari. Ed è questo il suo bello, ciò che amo studiare. Sappiamo pochissimo sull’interconnessione tra queste culture. Proprio in questi giorni sono andato a visitare le cosiddette tombe di Enea». Il luogo dove sbarcò con i troiani? «Ovviamente non è quello il luogo esatto, i conti non tornano, come sempre quando si tenta di connettere il mito con la geografia. Però mi sono ritrovato nei luoghi della fondazione di Roma. Là dove un popolo di navigatori che venivano da Oriente, dal mondo greco, s’incontrarono con i latini nell’ottavo secolo avanti Cristo. In quel lembo di mare c’è il mondo. Basta scavare. Il bello del
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«Quando posso vado ancora sott’acqua, è fondamentale per capire come il mare sia il raccoglitore di tutta la nostra storia»
Mediterraneo
Mediterraneo è questo. Possiamo poggiare i piedi dove la gente ha compiuto di tutto, dove si è scontrata, ammazzata, si è conosciuta. Un luogo di scontro, ma anche di scambio». L’archeologia è la sua ultima passione? «È il campo che più mi sta impegnando da qualche anno a questa parte. I miei ultimi film marini, come quello che ho girato a Pantelleria, “Un’isola nel tempo”, si occupano di archeologia, anche sottomarina».
Il mito al di là dell’orizzonte
Dolci ricordi di Sicilia Il Caffè delle Rose offre alla propria clientela prodotti di pasticceria e gelateria ottenuti da lavorazioni artigianali. La famiglia Lissandrello, che da 15 anni gestisce con dedizione questa attività, oltre a valorizzare i prodotti della tradizione locale, è alla continua ricerca del rinnovamento e creatività nella tradizione. Da citare per le granite, oltre a quelle classiche di limone, mandorla e caffè, l’estro creativo di gusti come pera williams variegata al cioccolato, ricotta, anguria e “coccodrillo”, un mix di vellutata al cocco con scaglie di cioccolato fondente. Oltre ai classici dolci e gelati, viene data particolare attenzione alla “gelateria mignon”. Dispone di tre laboratori, uno per granite e gelati, e gli altri due per la pasticceria fresca e i prodotti da forno. Su richiesta i prodotti possono essere spediti in tutta Italia.
CAFFÈ DELLE ROSE P.zza Duca degli Abruzzi, 25/26 Marina di Ragusa Tel. 0932 23.91.02
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Nel 2007, pubblicando il libro “I miei mari”, ha fatto emergere come, oltre a esserne affascinato, lei ha anche timore di questi luoghi. «Si tratta di un’emotività che si articola su più livelli. Il timore è un fatto fisico. Quando si è in barca la paura è legata all’improvviso rovesciarsi del tempo, all’imprevedibilità della natura. Si teme un’onda anomala. Io stesso negli anni ho passato dei brutti momenti. In mare devi stare sempre in timore, sempre in guardia. Il fascino, invece, è legato a ciò che il mare nasconde. Il sapere che sotto la tua barca o sotto la tua pancia, mentre nuoti, potrebbero esserci i resti di un pezzo di storia, tesori che varrebbe la pena di scoprire. Nella mitologia antica questi erano le ricchezze, gli ori, le spezie. Oggi sono quelli archeologici e naturali. Quando posso vado ancora sott’acqua, anche se personalmente ci so andare poco e male, però è
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fondamentale per capire come il mare sia il raccoglitore di tutta la nostra storia». Lei ha sempre sottolineato l’importanza di difendere e proteggere il patrimonio marino. In questi mesi, poi, con il disastro del Golfo del Messico, in tutti si è risvegliata una coscienza, un desiderio di preservarlo. Personalmente teme la fine del mare? «Partiamo dal fatto che esistono due mari nel mondo. I primi, quelli che rientrano nelle fasce territoriali, sono aree su cui si può esercitare, in una qualche misura, un potere nazionale. E grazie a questo oggi esistono migliaia di straordinari parchi marini, molti dei quali si trovano in Italia. Aree protette che rappresentano una catena di salvezza per la natura marina. Pensiamo soltanto alla costa di Portofino, dove è tornato a crescere il corallo rosso».
Da sinistra, India, coste del Kerala, piroghe tirate a secco, 1968; Favignana, una delle ultime grandi tonnare, 1971 Folco Quilici © Fratelli Alinari
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Brindisi:in mostra le emozioni di una vita Il Comune di Brindisi e la Fondazione per la Storia della Fotografia Fratelli Alinari, presentano la mostra “I mari dell’uomo - Fotografie di Folco Quilici”, un’esposizione dedicata al grande lavoro fotografico di Folco Quilici. Una testimonianza del suo lungo impegno attraverso un ampio e variegato percorso. Una collezione curata da Anna Azan. Un Archivio unico, oggi conservato presso gli Archivi Alinari. La mostra presenta 84 fotografie a colori di grande formato tra le più significative immagini realizzate da Quilici dal 1952 al 2008 sui mari dell’uomo, dalla Polinesia al Mediterraneo, dall’Oceania all’Oceano Indiano, con particolare riguardo ai paesaggi dalla Groenlandia, alla barriera corallina, alle tradizioni legate al mare, alle ritualità, ai villaggi sulla costa, al mondo degli abissi con i relitti e l’archeologia sommersa. Le immagini sono accompagnate da un filmato inedito di sessanta minuti che riassume, a conclusione della Mostra, momenti d’emozione vissuti da Quilici e documentati nei mari del mondo.
Mentre l’altro mare? «È quello non sorvegliato, sono principalmente i grandi oceani. E devo dire che l’inquinamento, comunque grave e da combattere, non è il primo nemico da affrontare. Non è nulla rispetto alla strage che sta compiendo la pesca in giro per il mondo. Se andiamo avanti così, nell’arco di una trentina d’anni non avremo più pesce da pescare». In alcune foto della sua mostra si osservano gli squali. Anche loro sono a rischio. «Sono le vittime dell’ultima strage bestiale. Fino a non molti anni fa nessuno lo pescava perché lo si riteneva non commestibile. Adesso, invece, venendo a mancare il pesce, si è aperta
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I MARI DELL’UOMO B r in d is i, Pa la z z o G r a n a f e i - N e r v e g na Da l 1 6 lu g lio a l 2 6 s e t t e m b re 2 0 1 0 w w w. a l i n a r i f o n d a z i on e . i t
una caccia spietata anche verso la punta massima della vita marina. Era accaduta una cosa simile anche con i delfini, negli anni ottanta. Ma per fortuna in quel caso le battaglie, tra cui anche le mie, sortirono effetti. Il delfino, del resto, è simpatico a tutti, gioca con i bambini, è un mammifero. Lo squalo, invece, fa paura. Ma questi brutti e cattivi assassini del mare sono un punto di riferimento per l’ecosistema mondiale. Ammazzandone 5 milioni al mese, in realtà molti di più, cosa accadrà? Temo purtroppo che si farà ben poco. Ci vorrebbe l’impegno degli organismi internazionali. Ma in questo mondo in cui si lasciano morire i bambini in Ruanda e in Kenia, chi si potrà mettere a salvare i pesci?».
Folco Quilici, fotografo, regista e scrittore, ha vinto l’Orso d’Argento al Festival di Berlino nel 1956 per “Ultimo paradiso” ed è stato candidato al premio Oscar nel 1971, per Toscana, uno dei quattordici film de l’Italia dal Cielo
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Mete Grand Tour • 31
Foto Giovanni Chiaramonte
LUOGHI SENZA TEMPO
Mediterraneo
di MATTEO CAVALLARI
In Sicilia è ancora possibile contemplare la dimensione originaria del mondo, è un dono che questa terra può ancora fare. Lo afferma Giovanni Chiaramonte, descrivendo il rapporto che ha con il luogo da cui è nata tutta la sua esperienza lavorativa e di vita
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iovanni Chiaramonte ha sempre cercato, attraverso la sua fotografia, di far risaltare come tema principale il rapporto tra luogo e destino nella civiltà occidentale. Tutto questo con la figura del mare che risulta centrale e sempre presente in tutte le sue opere. Da lui il mare stesso, in particolar modo quello di Sicilia, è inteso come un confine, un limite invalicabile che presuppone una fine. Che rapporto ha con il mare? «Diciamo che per me il mare della Sicilia è legato all’origine della mia vita perché la mia famiglia è originaria di Gela, che all’inizio del secolo scorso aveva ancora il suo nome medievale che è Terranova, nell’arco del Grande Golfo. Per me negli anni 50 venire da Milano, nel cuore della Lombardia, dopo quasi un giorno e mezzo di viaggio attraverso l’Italia e
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Il passato e il presente
In apertura, Palermo, 2002; a sinistra, Giovanni Chiaramonte
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Tempio di Segesta, 1998
Foto Giovanni Chiaramonte
arrivare lì, in questa collina oltre la quale si scendeva l’arco del golfo, coincideva proprio con l’esperienza di giungere a un confine ultimo, perché lì davvero finiva l’Italia, finiva l’Occidente. L’esperienza del mare per me è sempre dentro l’esperienza stessa di un confine, di un limite non valicabile a suo modo, la percezione di essere arrivato proprio in fondo. Altrettanto importante è il fatto che è un viaggio nel tempo perché proprio in quegli anni 50 avevano appena disotterrato le mura greche di Capo
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Soprano e per me è stato come rincontrare la geografia del mondo greco-romano. C’erano pochissime automobili, la natura del golfo era ancora incontaminata, con le dune e i gigli, la gran parte delle barche che pescavano avevano le vele. Tutto è sparito nell’arco di qualche anno, ma l’ho potuto vivere. Mio nonno poi, un capitano della marineria siciliana, mi narrava grandi racconti di mare». Cosa le è rimasto di quei racconti? «Da una parte l’esperienza della fine,
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Foto Giovanni Chiaramonte
Mediterraneo
Il passato e il presente
Sopra, vista del Monte San Calogero, 1998
dall’altra l’esperienza del tempo, della civiltà greco-romana e dell’ultima grande avventura della marineria a vela. Dentro la civiltà greco-romana intesa come grande avventura nel viaggio ottocentesco. Il cuore della mia fotografia è radicato nell’orizzonte del mare, e in gran parte dei miei lavori è sempre presente. Per cui da allora questa esperienza, che si comprende solo in questo tratto di terra che finisce nel mare, parte dalla mia esperienza giovanile a Gela e diventa la grande avventura della mia vita e della mia fotografia. Il rapporto tra terra e mare e il suo confine, il suo incontro è ancora uno dei temi della mia visione». Ci sono dei luoghi a cui è più legato? «L’arco del Golfo di Gela sicuramente, perché nella sua grande lunghezza tra Marina di Ragusa, Scoglitti, Gela e Licata, ha un paesaggio complesso, e soprattutto in inverno, è uno dei paesaggi più straordinari del mondo perché essendo volto a sud, il sole a dicembre lì è fisso, basso sull’orizzonte
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e illumina e scalda la costa in maniera straordinaria. Un altro luogo che prediligo è la zona di Cefalù, posta totalmente a nord con una rocca che porta a questa piccola spiaggia della città, sassosa, splendida, e salendo ti porta a un’altezza vertiginosa. Altri luoghi sono Acireale, Aci Catena e Aci Castello, caratterizzato dal rapporto con la lava, con la presenza dell’Etna alle loro spalle. Qui il mare è sempre visibile e mai dimenticato, con il profumo del vento e l’apertura del suo orizzonte, tutto questo sempre con l’esperienza della fine della terra nel senso che è sempre all’interno di un confine, di una finitezza. La Sicilia può venire intesa come una piccola isola che riesce a contenere la complessità del mondo». Sembrano luoghi senza tempo. «Il pensiero di fondo che alimenta tutti i siciliani, la Sicilia, la sua letteratura, è un pensiero originario apparentemente non moderno, ma che invece in realtà guarda sempre al tempo dell’origine, quindi al
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Foto Giovanni Chiaramonte
Mediterraneo
Il passato e il presente
tempo della fine. Questa esperienza della finitezza originaria dell’uomo, qui è come salvaguardata. Per esempio, l’anno scorso ho fatto un lavoro nella costiera tra Trapani e San Vito lo Capo, e lì ci sono degli angoli dove davvero il tempo è quello della terra, delle ere e credo che questo sia un dono che la Sicilia può dare all’umanità». In riferimento a una sua opera, “Terra del ritorno”, lei afferma che il Mediterraneo viene inteso come ritorno al passato e contemporaneamente incontro con il presente. Cosa vuole affermare esattamente? «Nella mia esperienza della contemporaneità del viaggiare, dalle mura greche di Gela alla Torre e Colonna Dorica e via via lungo le città, nella corsa al Mediterraneo tutti i diversi tempi del genere umano sono presenti. Da Istanbul a Napoli, dalla Tunisia al Marocco, alla Libia, i diversi tempi delle città coesistono. La dimensione umana può riscattarsi rispetto al grande tema della
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globalizzazione, si possono tenere presente le diverse forme delle epoche e anche i diversi aspetti dell’umano, osservabili nel presente, che si apre alle esperienze culturali. E la vista acquisisce un ruolo fondamentale, non più passivo bensì un confrontarsi continuo con la quotidianità, contrapponendosi a questo cambiamento di stile di vita dovuto a un maggiore scambio interculturale. E qui assume un ruolo fondamentale il centro storico, che permette l’inserimento e la salvaguardia delle diversità e che continua a essere vivo». Dal suo punto di osservazione, come è cambiato il rapporto tra le proprie radici e la gente di Siclia? «Quello che è cambiato a Palermo e in tutta la Sicilia è il rapporto con le proprie tradizioni, nel senso che diventa una sorta di abitudine, all’interno della quale c’è una persistenza di culti e di condivisione delle feste, però sicuramente il cambiamento indotto dalla moda e dal culto del corpo ha modificato l’orizzonte antropologico. Non
Sopra, da sinistra, Geraci Siculo, 1997, Trapani, 1999
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Mediterraneo
Il passato e il presente
dimentichiamo che la Sicilia è una delle poche regioni italiane che ha un gran numero di giovani, in cui il tasso di natalità è assai alto, per cui da questo punto di vista siamo di fronte a un nuovo mondo umano tutto da scoprire. Si può dire che è una vera e propria avventura». Vi sono odori, sapori, profumi a cui è profondamente legato? Vorrebbe consigliare piatti o luoghi e ristoranti, magari poco conosciuti, che trasmettono la vera identità siciliana?
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«C’è una serie di ristoranti straordinari dalla provincia di Catania fino ad Acireale, verso gli interni dove la presenza di piatti come le alghe cotte e il pesce di scoglio è davvero fuori dall’ordinario. Sempre all’interno, nella propria tradizione sono da citare i finocchietti selvaggi, veramente buoni; nella zona di Caltanissetta bisogna assolutamente mangiare le fave, le zuppe di verdura, le alici dentro le foglie di lattuga, tutti piatti fuori dai grandi menù, ma caratterizzati da sapori straordinari riconducibili alla Sicilia, all’atmosfera che si respira in questa terra».
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VERSO L’ORIZZONTE Un mondo atemporale, sincero, ma pur sempre sognatore. Nel mare di Mimmo Jodice si getta lo sguardo poetico di chi ancora oggi, in un mondo schiavo del suo evolversi, si appaga del fascino dell’immutato. Una visione che l’artista racconta celebrando 50 anni di carriera
Mediterraneo
Distesa di acqua e di cielo
di ANDREA MOSCARIELLO
U
na vita alla ricerca dell’infinito. Uno sguardo riposto sempre verso un mare privo di riferimenti temporali, dal volto immutato da migliaia di anni. Mimmo Jodice non ama tanto l’evolversi, quanto il soffermarsi del tempo su alcuni incredibili scenari naturali. E il mare, nella sua visione, è il protagonista principale. Scatti puri, a volte onirici, ma sempre sorprendentemente essenziali. «Una mia fotografia potrebbe essere stata scattata cento anni fa, o anche tra cento anni in futuro. Non cambierebbe». Questa dunque la poetica di uno dei maggiori fotografi italiani contemporanei. È il completo padrone della sua arte, ormai, impegnato unicamente nel portare avanti progetti personali, quelli dell’anima. «Non lavoro più su committenza. Mi occupo solo di ciò che amo. E il mio modo di lavorare, la mia produzione artistica, si allontana sempre di più dalla quotidianità». E proprio in questi giorni, la città di Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni, gli dedica
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Mimmo Jodice in uno scatto di Manuela Giusto. Ha iniziato a lavorare negli anni Sessanta; in apertura, “Stromboli” copyright Mimmo Jodice; nella pagina successiva, “Marelux Op. 20” copyright Mimmo Jodice
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Mediterraneo
Distesa di acqua e di cielo
un’importante mostra antologica, curata da Ida Gianelli e Daniela Lancioni, per celebrare cinquant’anni di attività artistica: 180 fotografie, scattate tra 1964 e il 2009. Le immagini di un mondo in bianco e nero, stampate quasi sempre a mano direttamente dall’autore. Scorci sorprendentemente vitali, oleografici, ma anche sintetici, talvolta quasi banali. Napoli e le sue spiagge, più di ogni altro luogo, assumono un aspetto iconico, rappresentativo di un mondo, ma soprattutto di una ferrea volontà, del desiderio di Jodice di bloccare e cristallizzare in uno scatto una costa partenopea che vorrebbe non cambiasse mai. Un’ambizione artistica frutto di un cuore bambino, che al passare e all’evolversi del tempo preferisce le certezze dell’eterno, dell’immutabile. Dalla celebre collezione del ciclo Mediterraneo,
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«Il mare per me è anche un luogo di memoria, testimone di vicende straordinarie della nostra civiltà» alla raccolta dal titolo Rivisitazioni, in cui l’artista si distacca dalla scena reale, puntando a un lavoro di autoanalisi in cui gli elementi naturali, visivi, fungono solo da mezzo. Un tramite finalizzato a raggiungere una dimensione introspettiva, in cui cuore e pensiero si confondono. Una storia, quella di Jodice, legata indissolubilmente al nostro Mediterraneo, a ciò che conserva, alla sua storia, alle sue mitologie. Non a caso, infatti, proprio su questo si concentra la parte finale della mostra. Una sezione per certi versi “visionaria” in cui onde, scogli e spiagge si mescolano. Ma sempre, rigorosamente, privi dell’inquinamento umano. «Mi sono sempre dedicato al mare, non solo inteso come paesaggio, come distesa di acqua e di cielo». Cosa rappresenta, dunque, per lei? «Il mare per me è anche un luogo di memoria, testimone di vicende straordinarie della nostra civiltà. Rappresenta una dimensione pura e assoluta ma capace di consentire varianti infinite». E cosa nasconde invece? «Cose straordinarie. Non solo battaglie. Ho avuto la fortuna, con i miei progetti, di ripercorrere tutti i suoi momenti del passato. In particolare la costa del Mediterraneo è ricchissima di testimonianze. Dall’Africa a
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Sopra, “Trentaremi 2000”; nella pagina a fianco, “Attesa”. Copyright Mimmo Jodice
oriente, fino alle coste europee. Molti luoghi, poi, sono incredibili anche se poco conosciuti ai più». Quali, per esempio? «Penso a Cartagine, in Tunisia. Le pietre sulle rive del suo mare si mescolano con i ruderi di antiche civiltà, delle terme di Antonino Pio. Poco più avanti, in Libia, c’è una stupenda città antica, Leptis Magna. Ma anche dalle mie parti, proprio qui, a Napoli, vi sono dei ruderi romani che vengono fuori dalle acque. Pietre storiche fissate al litorale su cui possiamo poggiare i piedi ancora oggi. Per questo il mare è innanzitutto memoria, conservazione». Napoli le sta proprio a cuore.
«Il mio pensiero va subito a Ulisse. Al suo viaggio, alle sue avventure, alle sue scoperte. Penso a centinaia di storie legate al mare» 44 • Mete Grand Tour
«Del resto ci sono nato. Ho sempre vissuto lì. Dico sempre di essere napoletano due volte, per nascita e per scelta». Una scelta anche lavorativa. «Probabilmente, per la mia carriera, sarebbe stato più agevole andare a svolgere il mio lavoro altrove. Ma ho sempre preferito restare nella mia città. E questa, devo dire, mi ha sempre ripagato. Napoli mi ispira, mi suggerisce i temi, la poetica. Da casa mia, come anche dal mio studio, riesco a vedere il mare. Una visione a cui non potrei mai rinunciare». Non lo farebbe per nessun altro luogo al mondo? «Non credo ne sarei capace. Qui da noi abbiamo una costa speciale, quella Amalfitana, quella Sorrentina. E poi le isole, Capri, Ischia. Però devo dirlo, più che essere legato al mare del turismo, dell’intrattenimento, sono interessato al mare inteso come luogo primitivo». Il suo mare è sempre stato definito dalla critica come un luogo assoluto, quasi del vuoto. È un’analisi corretta? «È proprio quello che le stavo spiegando. Il mio mare non è frequentato da barche, da turisti, da costruzioni. È puro». Posti del genere si possono ancora trovare? «Evidentemente è possibile. Il mio operato ne è la prova. Ma non è facile in un’epoca come la nostra. Le mie fotografie potrebbero rappresentare il mare così come lo avevano visto le popolazioni di migliaia di anni fa. E come, mi auguro, potranno vederlo anche le generazioni future. Fondamentalmente per me il mare è la linea dell’orizzonte». E tutto il resto? «Il resto, quindi l’immagine completa, viene fuori dalla turbolenza delle acque, dalla tessitura
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Mediterraneo
Distesa di acqua e di cielo
«Vado dove si può percorrere il litorale, dove è possibile cogliere la dimensione dell’alba, del tramonto. Non si giunge mai a un termine»
delle nuvole. Ma è sempre l’orizzonte l’elemento portante delle mie fotografie». Un orizzonte inteso come limite o come espansione? «Inteso come l’infinito. Il mare è l’infinito. Che si connota in due momenti. Il primo è appunto l’orizzonte, che idealmente ci spinge ad andare avanti, a proseguire, a non fermarci mai. Il secondo è il tempo perché le onde che si susseguono sono un po’ un metronomo temporale.Vanno avanti incessantemente, non si fermano mai. Mentre noi parliamo il mare, con il suo movimento, non si arresta. Prosegue come nei millenni passati e come farà per sempre». Esiste uno scatto che ancora insegue?
«Onestamente non mi capita mai di immaginare in anticipo uno scatto. Le immagini si scoprono da sole, continuamente, in modi diversi. Ogni singolo scorcio di mare apparentemente potrebbe sembrare un punto di osservazione singolo, ristretto. Ma se lo guardiamo attentamente non è mai uguale a sé stesso. L’immagine del mare si rinnova a seconda delle
Mediterraneo
ore del giorno o della notte, delle condizioni meteorologiche. All’infinito». Quali sono, invece, gli aspetti mitologici che più la affascinano del Mediterraneo? «Il mio pensiero va subito a Ulisse. Al suo viaggio, alle sue avventure, alle sue scoperte. Penso a centinaia di storie legate al mare. O, perlomeno, me le immagino. Storie legate tanto al bene quanto al male. Non è che tutto venga idealizzato come luogo o momento di bellezza assoluta». Dunque anche un mare “cattivo”? «Io spesso me lo raffiguro e lo penso come luogo
dello scontro, di guerre. Come, del resto, purtroppo lo è ancora oggi. Momenti difficili, di battaglia, di sofferenza. Momenti che hanno fatto la storia. Quello che mi colpisce è la varietà di situazioni che il mare ha ospitato e che continuerà a creare». Al di là del passato e delle sue testimonianze, in lei pare non mancare mai un tocco di fantasia. «La fantasia viaggia all’infinito quando ci si ferma a osservare le onde.Tornano in mente le cose lette, gli attimi vissuti, sensazioni provate sulla propria pelle ma anche ciò che abbiamo
Distesa di acqua e di cielo
Benvenuti nelle sale del buongusto Un ambiente accogliente e familiare. Dove gustare i piatti della cucina tipica regionale ma anche le più svariate ricette nazionali. Il Ristorante Taverna Dei Fieschi offre un’ampia gamma di piatti a base di carne, cacciagione e pesce da accompagnare a un’attenta selezione di etichette di vini rossi e bianchi provenienti da tutta Italia. Grande attenzione è rivolta alla scelta delle materie prime. Tra le specialità, i taglierini more, barbaresco e funghi porcini, nonché i dessert, dai dolci al cucchiaio alle torte, rigorosamente di produzione propria. Il locale dispone di due salette e giardino con spazio dedicato ai bambini, per un totale di circa 80 coperti.
RISTORANTE TAVERNA DEI FIESCHI Via Magioncalda, 30 Torriglia (GE) Tel. 010 94.48.15
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«Il mare è l’infinito. E la linea dell’orizzonte, idealmente, ci spinge ad andare avanti, a proseguire, a non fermarci mai»
Nella pagina precedente, “Marelux Op.26”; sopra, “Marelux Op. 2”. Copyright Mimmo Jodice
studiato». Negli altri elementi della natura non riesce a trovarvi gli stessi elementi? «Mi risulta molto più difficile. La montagna, le pianure, le città e le campagne non mi riportano alla mente le stesse immagini, le stesse sensazioni che il mondo marittimo è capace di suscitare nella mia memoria, nella mia sfera emotiva» Esiste un simbolo che più di altri è capace di catturare questa sua poetica?
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«Forse le vele. Che appunto inseguono l’orizzonte». Ma cosa caratterizza, fisicamente, il suo approccio con i luoghi del mare? «Generalmente parto e mi allontano dai luoghi abitati.Vado dove si può percorrere il litorale, dove è possibile cogliere la dimensione dell’alba, del tramonto. Non si giunge mai a un termine. Le suggestioni sono continue. Un conto è se si osserva il mare che si affaccia a est, un conto quello rivolto a ovest». Insomma, una perenne ricerca dell’incontaminato. «Più che incontaminato, ripeto, cerco con lo sguardo i luoghi in cui il mare è assoluto, dove non vi è presenza di alcun tipo. Dove i miei occhi possono percepire ciò che già possedevano le civiltà agli albori della storia».
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FASCINO E MITO DEL SUD Il Sud va raccontato per intero, non solo per la malavita o altri avvenimenti negativi. Va raccontato visitando e rappresentando il mito. In esso c’è il fascino di questa terra che ha tanto da raccontare e da offrire di MATTEO CAVALLARI
’è una forza di gravità che spinge verso Sud anche chi non vi è nato, anche chi non è meridionale vede nel Sud il luogo dove riposare o ricaricarsi». Ne è convinto Marcello Veneziani, nato a Bisceglie ma residente da anni a Milano. Secondo il giornalista e scrittore in questo periodo di globalizzazione che coincide con la settentrionalizzazione del mondo, il Sud diventa di conseguenza il luogo della vita autentica, vivaio dell’umanità e delle nostre radici. «Il movimento è verso Nord, al Sud riposa l’essere», sottolinea. In un viaggio con la memoria verso Sud, Veneziani racconta attraverso immagini recenti e ricordi dell’infanzia ciò che per lui rappresenta la terra in cui è nato e cresciuto descrivendo un luogo d’altri tempi, legato alle tradizioni. La Puglia che cosa rappresenta per lei? Che rapporto ha con la sua terra? «C’è da dire che in un primo tempo l’ho considerato come un ritorno alle origini. Con il passare degli anni l’ho inteso come una meta elettiva e non solo naturale, nel senso che ci sono tornato anche come se fossi un normale turista, innamorandomi per la seconda volta della mia terra. Oltre al legame originale, ce n’è anche un altro supplementare che è nato negli anni e che mi porta a tornare in Puglia e scoprire scorci notevoli di approfondimento, legami più forti di quelli che avevo all’origine. Mi sento un “turista di ritorno”. Si può dire che ho un doppio legame con la mia terra: il primo con la Puglia del passato, un’archeologia dei ricordi che ha il suo fascino, la sua bellezza. E
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poi c’è una scoperta del presente della Puglia di oggi con il suo mare, il suo paesaggio, la sua campagna, Un duplice legame, quindi, con il passato e con il presente». Ci sono ricordi a cui è particolarmente legato? Quali sono i suoi luoghi dell’anima che rappresentano qualcosa d’importante? «Se dovessi tracciare una geografia dei luoghi che sono legati a una felicità pura e intensa ne metterei in risalto due in particolar modo che fanno parte della mia infanzia pugliese; innanzitutto alcuni pomeriggi di giugno passati nella campagna della mia città: la raccolta di frutti, un sole straordinario e un cielo azzurro, splendido; poi le innumerevoli giornate passate nel mare di Puglia. Ecco, se dovessi identificare la felicità, lo farei con tutto questo. Ricordo, infine, anche le passeggiate fatte con mio padre e il suo
Sopra, Marcello Veneziani
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Puglia
La ringhiera sul mare
In alto, Castel del Monte; sotto, una veduta della Cattedrale di Trani
motorino monomarcia quando ero bambino e i tanti odori della primavera, indimenticabili. Sono tutti ricordi intensi e legati al paesaggio pugliese». Ci sono luoghi da consigliare, che per lei hanno un valore particolare e che magari non sono conosciuti come altri? «Bisogna innanzitutto fare una distinzione fra i luoghi miei personali, riconducibili esclusivamente alle spiagge, al mare e alla campagna di Bisceglie, la mia città natale, e quelli invece che determinano un’ebbrezza sia nel turista che nel pugliese. Dovrei allora consigliare Castel del Monte ad Andria, la Cattedrale di Trani sul mare e scorci del Salento, come alcuni tramonti su Leuca, tra Pulciano e Lido Silvano». Dal Gargano fino al Salento, la costa pugliese è molto lunga. Ci sono
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differenze culturali? «Io credo che mai la definizione di “Puglie” sia più azzeccata per questa regione. È una ringhiera infinita sul mare. È inevitabile pensare all’abisso tra popolazioni e luoghi: c’è una varietà di paesaggi e di cultura che denota una differenza totale. Ma la Puglia è comunque amabile anche per queste sue diversità. Ci sono anche punti in comune ovviamente; gli ulivi per esempio sono il filo conduttore della regione, sono sculture della natura che ricordano un po’ le opere scultoree del futurista Boccioni; le intendo come forme viventi. Nel mio libro Sud, per esempio, suggerisco di estendere i diritti umani agli ulivi perché sono da considerare come persone per come sono fatti e per quello che rappresentano: nelle loro sagome e profili, sono proprio una storia condensata nella natura. Il mare resta il filo d’Arianna di tutta la regione pugliese. In tutti questi fili di unità c’è comunque una diversità che credo sia straordinaria e anche una delle maggiori ricchezze della Puglia». Ci sono piatti, odori, profumi, che
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Puglia
rispecchiano l’identità della Puglia? «Se dovessi fare un test d’autenticità della cucina pugliese, partirei subito da un piatto che è principalmente barese, ma che è ricollegabile a tutta la regione, la “tiella”, cioè riso, patate e cozze, l’equivalente pugliese della paella. È un piatto difficile, saperlo fare bene dimostra l’autentica pugliesità. Per quanto riguarda altri piatti, ci sono i più tradizionali “fava e cicoria” e le varianti delle orecchiette. Da notare che c’è un incontro tra campagna e mare, tra una cucina fatta di ortaggi e una di pesce crudo, che credo sia una peculiarità della Puglia». A proposito d’identità, qual è il momento attuale della Puglia? «Io credo che ci sia un filo conduttore di continuità, perché c’è una marcata presenza della natura nel carattere dei pugliesi ed essa stessa ovviamente non cambia. Il legame con gli ulivi e la campagna rispecchia il carattere del pugliese e ne fa uno dei più forti. Con il passare del tempo evoluzioni ovviamente ce
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La ringhiera sul mare
ne sono state. In particolare c’è un dualismo in Puglia: da una parte la terra mercantile levantina, simbolo di una Puglia di commercio, inevitabilmente fondata su un maggiore dinamismo, anche rispetto a tutto il resto del Sud, molto fluttuante, proprio come il mare; dall’altra parte una forte e marcata natura contadina della Puglia, che credo rappresenti la mia esperienza con il passato. Questi due aspetti rappresentano due diversi modelli di cultura: non solo quella che differenzia il mondo marinaio da quello rurale, ma anche quella che all’interno di quest’ultimo differenzia il latifondo - che ha rappresentato i tratti essenziali della Puglia nei suoi estremi - e la mezzadria, un tipo di economia più dinamica, che ha dato luogo soprattutto nella Puglia centrale a forme differenti di organizzazione sociale, con risultati molto diversi ed economicamente più dinamici e moderni». Nel suo libro Sud. Un viaggio civile e sentimentale, lei fa un viaggio attraverso il mito del sud. Cosa intende per mito? «Per anni si è sempre parlato del meridione
Sopra, Lesina; a fianco, ulivi secolari a Otranto
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Puglia
La ringhiera sul mare
sotto un’ottica del tutto vittimistica e negativa. Con il mio libro ho voluto affermare che l’approccio migliore è quello di considerare il Sud per quell’incrocio che ne fa una leggenda, il mio tentativo è stato raccontarlo come mito vivente. Credo che l’unico modo per ridare il gusto di sentirsi meridionali, il piacere di dire “sono del Sud”, debba partire proprio dalla voglia di cantarlo, di farlo diventare un racconto, un mito appunto. Tutto questo secondo me è la sua forza segreta, che può avere un valore importante come appeal turistico, commerciale. Tutti questi fattori possono venire innescati se si ridà fiato al Sud inteso come luogo mitico». All’interno di questo viaggio, lei ha decritto non solo la realtà pugliese, ma anche quella di tutte le altre realtà del sud. Che differenze ha riscontrato? «Io ho cercato da una parte di sottolineare tutti i tratti comuni che danno luogo a
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un’identità unica meridionale, fatta molto di natura e cultura, di cordialità e di tanti altri fattori. Ci sono però delle innegabili differenze che sono anche, a mio avviso, la ricchezza del Sud. Innanzitutto quella tra un Sud tirrenico e uno adriatico, che inevitabilmente hanno dato luogo a modelli di crescita diversi. Non si può paragonare la Puglia alla Calabria senza considerare le differenze enormi che ci sono da una parte e dall’altra. C’è una diversità enorme anche tra il Sud dell’entroterra e quello che si affaccia sul mare. La regione più dinamica e caratterizzata da una modernità che comunque non ha voltato le spalle alla tradizione è la Puglia, mentre c’è un meridione che ha un rapporto difficile con il progresso, ed è quello che si trova in molte zone della Calabria e della Campania. Per quanto riguarda la Sicilia, infine, essa è un mondo a sé, credo che sia un concentrato al quadrato del Sud, che ne potenzia ed esalta pregi e difetti».
Sopra, una veduta di Bisceglie e, a destra, tipici dolmen pugliesi
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SOTTO IL SEGNO DI VALENTINA di SUSANNA DA VINCI
Ama la sua regione, le Marche, in modo viscerale. Perché, confessa Valentina Vezzali, «mi ha dato la possibilità di conoscere e praticare ad alto livello la scherma». Da Jesi al Conero, dalla Gola della Rossa alle grotte di Frasassi
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i lei è già stato scritto tutto. Dei suoi ori, dei suoi record infilzati con famelica energia uno dopo l’altro. Poco, invece, si sa del legame tra Valentina Vezzali e Jesi, la città dove è nata, vive e si allena. E più in generale del suo affetto per la terra marchigiana. «Noi tutti – rileva l’olimpionica – siamo fortemente legati alla terra natia. Io in modo particolare poiché è la regione che ha visto nascere anche mio figlio Pietro e mi ha dato la possibilità di conoscere e praticare ad alto livello la scherma che ha segnato positivamente la mia vita». Sicuramente Vezzali-Marche è una accoppiata vincente poiché l’eccellenza che esprime nella scherma la Vezzali non è altro che la sintesi della tenacia e
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volontà di affermarsi con l’impegno e il sacrificio della gente marchigiana che la fa emergere in moltissimi campi. Quali sensazioni abbina a questa regione? «Molteplici: dalla silenziosa laboriosità dei suoi abitanti al fascino dei suoi paesaggi, il mare, il sole, il verde dei colli, il silenzio delle ombrose altitudine dei monti insieme a documenti d’arte e storia con le molteplici tradizioni popolari. Come dice il suo nome una regione veramente al plurale». Jesi: che cosa la colpisce di più di questa città? «La cosa più affascinante di Jesi dal lato urbanistico è il centro storico che si erge su una piccola collina protetto da una cinta muraria ben conservata come i palazzi nobiliari e chiese che racchiude nel suo interno.Tra questi, si apre la piazza dove si narra sia nato nel 1194, sotto una tenda da Costanza d’Altavilla, il grande imperatore Federico II, detto “stupor mundi”, che in segno della sua riconoscenza insignì la sua città natale del titolo “regia”. Jesi inoltre mi
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affascina soprattutto per la sua vivibilità: è una città veramente a misura d’uomo». Spostiamoci sulla costa, quali i luoghi più a “misura di Vezzali”? «Sicuramente Senigallia per la tranquillità e, in modo particolare, per la sua spiaggia che degrada dolcemente verso il mare dando sicurezza alle tante mamme che come me amano portare i figli per farli giocare senza eccessivi pericoli. Nell’interno, il parco della Gola della Rossa difforme dalle tondeggianti colline marchigiane, ma caratterizzato da un paesaggio selvaggio che richiama quello alpino. Con le pareti a picco sulla strada costeggiata dal fiume per dar spazio all’incrocio con la gola di Frasassi, ad un piccolo slargo dove si possono ammirare un’abbazia romana (San Vittore, ndr), delle sorgenti di acqua curativa e le grotte di Frasassi dove la natura ha creato delle opere d’arte irripetibili di
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eccezionale bellezza». Molte le località balneari più o meno famose. A un viaggiatore può suggerire un “suo” tour per far conoscere una costa diversa? «L’itinerario che mi sento di suggerire è breve di circa 30 km ma è molto suggestivo. Si parte da Ancona si sale fino al piazzale del Duomo, dedicato a San Ciriaco, da dove si può ammirare uno splendido panorama sia del porto che del lungomare fino verso Pesaro. Ci si porta in prossimità del monumento ai caduti nella zona del Passetto che scende a picco sul mare. Da qui si prosegue per la riviera del Conero, si scende nella baia naturale di Portonovo, per poi risalire e percorrere la strada che attraverso il parco del Conero porta a Sirolo. Si prosegue per Numana e Porto Recanati per poi salire fino a Loreto dove oltre a rivedere dall’alto l’itinerario
In apertura, Valentina Vezzali con il figlio Pietro; sopra, scorcio del Tempio del Valadier fatto costruire da Papa Leone XII della Genga all’interno
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effettuato si può fare visita al Santuario mariano più famoso d’Italia». La costa, in certi tratti, ha alle spalle anche monti. Quali posti meglio caratterizzano le due parti? «La parte più settentrionale delle Marche dove si incontrano i monti dell’Appennino con le acque dell’Adriatico. Balconate e scogli rupestri si alternano a spiaggia sabbiose. Sullo sfondo ardui profili montani sovrastati da città d’arte quali Urbino, rocche intatte e ruderi su rupi impervie.
Piccoli paesi arroccati sulle pendici delle montagne costruiti con materiali locali che li fanno essere tutt’uno con l’ambiente circostante. L’armonia dell’uomo nella natura che porta alla meditazione, al misticismo e alla religiosità. Sentimenti che hanno lasciato il segno con i tanti luoghi di culto presenti su tutto il territorio. Questa è per me la parte che meglio rappresenta l’unicità delle Marche» . Profumi e sapori: quali meglio rendono gustosa questa zona? «Il profumo della lavanda colpisce per la sua intensità chi attraversa la strada sovrastante la riviera del Conero che si alterna a quello delle ginestre in fiore che accompagna il viaggiatore sia lungo la costa che nell’entroterra. Il brodetto ha un suo sapore caratteristico unitamente allo stoccafisso all’anconetana, due eccellenze che si possano abbinare con l’amarognolo del verdicchio senza dimenticare la porchetta che può essere gustata con un ottimo vino rosso piceno o del Conero».
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La costa marchigiana
Il mare, il sole il verde dei colli
A sinistra, l’imperatrice Costanza d’Altavilla, madre di Federico II, insieme al marito, l’imperatore Enrico IV
A due passi dal mare HOTEL MEUBLE LA SPIAGGIOLA Via Cristoforo Colombo, 12 Numana (AN) Tel. 071 73.60.271 www.laspiaggiola.it
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Dormire a pochi passi dal mare. Respirandone i profumi e l’aria salmastra. Siamo a Numana Alta, Bandiera Blu d’Europa, e l’Hotel Meuble La Spiaggiola sorge direttamente sull’omonima spiaggia. Situato in una zona tranquillissima e a pochi passi dal paese, La Spiaggiola fornisce esclusivamente il trattamento di pernottamento e prima colazione. I clienti possono eventualmente affittare ombrellone e lettini, a prezzo convenzionato, presso l’adiacente stabilimento balneare, dotato di bar e ristorante.
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MARCHE, TUTTE DA SCOPRIRE È «romantico» il legame che unisce Massimo Lopez alle Marche, una «regione tutta da scoprire e discreta nel modo di porsi». Mare, monti e arte avvolti nei «profumi di Fermo, Fabriano, i sapori del maceratese, gli oli»
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di SERENA PICCOLI
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i sé dice «sono nato per caso ad Ascoli Piceno». Le sue radici sono napoletane, come i suoi genitori, ma con una lontana spruzzata siciliana e spagnola. Un mix che non affievolisce il feeling che Massimo Lopez ha con la terra marchigiana, «un legame puramente romantico e affettivo». Attore, comico e doppiatore italiano, Lopez ha «vissuto Ascoli Piceno attraverso i racconti e le foto fatte dai miei genitori, essendo io, allora, troppo piccolo per poter avere ricordi vivi impressi nella memoria. Eppure, in qualche modo, una volta tornato nella mia città natale, ho potuto ripercorrere quei racconti e quei ricordi dei miei come accade in un viaggio nel tempo: un po’ come quando ti parlano di un bel libro e poi ti trovi a leggerlo in prima persona. Mi piacerebbe poter visitare l’appartamento dove sono nato, nel bellissimo centro storico della città». Quali sensazioni abbina alle Marche? «È una regione tutta da scoprire, discreta nel modo di porsi, persone laboriose e luoghi dove
La costa marchigiana
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respiri pace e serenità: una buona terapia per stimolare fantasia e creatività». La costa è un alternarsi di spiagge di ghiaia, di scoglio e di sabbia formata. Con baie talvolta raggiungibili solo via mare. Quali i posti che più l’affascinano? «Le spiagge della riviera del Conero dove fortemente sono rimasto colpito dal forte contrasto tra il giallo intenso e sano delle ginestre e il deciso blu del mare, la baia di Portonovo, Sirolo la spiaggia dei sassi neri». Lungo la fascia costiera si trovano molte località balneari famose. Da Senigallia a San Benedetto del Tronto. A un viaggiatore può suggerire un tour per
Da Senigallia a San Benedetto
“Dalla Maria”, insuperabili specialità caserecce Era il 1972. Maria Mencarelli comprò allora la sua celebre osteria, e tutt’oggi la gestisce. Impareggiabili le sue tagliatelle ai fagioli, ma il menù comprende tante altre squisitezze, dalla carne alla brace alla pasticciata, alle piadine sfogliate con i salumi, i formaggi e l’erba. Le crostate alla marmellata e il tiramisù. Tutte specialità fatte in casa con un ottimo rapporto tra qualità e prezzo.
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La costa marchigiana
Da Senigallia a San Benedetto
Dall’alto, il campanile del santuario di Loreto; il palazzo ducale di Urbino; la spiaggia di Senigallia
far conoscere la sua costa marchigiana? «Avrei l’imbarazzo della scelta, cercherei di evidenziare il contrasto fra mare ed entroterra. Partirei dalla spiaggia di velluto di Senigallia, andrei a Pesaro, dalle sue spiagge di sabbia fine che resta attaccata ai piedi e non si toglie più, per poi raggiungere facilmente Urbino, meravigliosa, ma per visitarla bene devi toglierti bene la sabbia di Pesaro dai piedi. E poi d’obbligo passerei a visitare Ancona (che se i miei amici di lì vengono a sapere che son passato in Ancona e non li ho chiamati si arrabbiano moltissimo e mordono). E poi ancora Loreto e Recanati e poco più a sud Portorecanati, un incantevole borgo di pescatori, quindi scenderei a Porto Sant’Elpidio e il suo storico entroterra per approdare poi a San Benedetto del Tronto col suo spettacolare lungomare ricco di palme caratteristiche e animato da una vita notturna molto piacevole e divertente». La costa è mare, ma alle spalle, ad esempio al Conero, ha anche monti. Quali luoghi meglio caratterizzano le due parti? «Per citarne uno, mi viene in mente Pesaro: le colline del Montefeltro». Profumi e sapori: quali meglio tratteggiano questa zona? «Sia i profumi sia i sapori a pari merito caratterizzano fortemente questa regione. Ricordo sapori e profumi a Fermo, a Fabriano, i sapori del maceratese, gli oli....!!». Le Marche marittime sono ..? «La vegetazione che si affaccia sul mare, gli strapiombi mozzafiato con sotto spiagge irragiungibili, il colore blu intenso del mare, la storia spesso molto antica di città e borghi che si affacciano sul mare. Marche misteriose, discrete, riposanti, profumate, silenzi e profondissima quiete».
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La Riserva Privata San Settimio
LA CITTÀ ESISTENZIALE di GIULIO LAI n patrimonio naturale inestimabile nel cuore delle Marche. Una terra in cui il lusso tangibile sta nelle cose semplici e straordinarie di ogni giorno, in cui scoprire il desiderio di risvegliarsi dove il tempo sembra essersi fermato. Profumi, sapori e tradizioni pure. La Riserva privata San Settimio, a Palazzo di Arcevia, in provincia di Ancona, attraverso i suoi 400 ettari, è da percorrere a piedi, a cavallo o all’avventura, in fuori strada. Qui rilassarsi è d’obbligo, tra il verde e la Spa. Ma, come spiega la sua titolare, Francescaromana Bartoletti, il vero progetto benessere della riserva comincia varcandone il confine d’ingresso «I nostri “rifugi” trasmettono sensazioni uniche di proprietà territoriali, senza contaminazioni con la civiltà. Rifugi sì, ma dotati di ogni comfort. E la grande casa padronale dove ritrovarsi per il “convivio” del cibo, una ricerca continua della qualità delle materie, tutte
U Sopra, Francescaromana Bartoletti, titolare della Riserva Privata San Settimio di Palazzo Arcevia (An). Sotto, un esterno della casa padronale info@sansettimio.it
Francescaromana Bartoletti si è ispirata al progetto e al sogno artistico del padre nella realizzazione di una delle strutture turistiche marchigiane di maggior successo degli ultimi anni, la Riserva Privata San Settimio prodotte nelle terre della riserva. Il rispetto profondo delle tradizioni con qualche piacevole sorpresa, fanno della cucina un momento atteso e desiderato». Ma non parte dal turismo la storia di questo piccolo borgo. Erano gli anni settanta e Italo Bartoletti elaborava il concetto, dell’amico architetto Ico Parisi, di “Casa e Città Esistenziale“ nasceva così il progetto “operazione Arcevia“ che univa molte personalità artistiche come Burri, César, Antonioni, Balderi, Restany e Crispolti. Il progetto, presentato anche alla Biennale di Venezia, rimase solo sui plastici. E così Francescaromana Bartoletti a distanza di anni si è ispirata a quel concetto, realizzando il suo resort, forse meno avveniristico, ma dove l’arte è sempre protagonista, mettendo in mostra le collezioni di grandi maestri come Mario Schifano, Mimmo Rotella e ancora le opere di Roberto Coda Zabetta, Filippo Sciascia,Valerio Adami e, non ultima, della fondatrice della riserva.
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Romagna
LA RIVIERA IN PROSA
di EZIO PETRILLO
Descrivere il litorale romagnolo vuol dire soprattutto essere al centro di una grande narrazione. Solo attraverso i racconti e il contatto con la gente del luogo si può scoprire l’anima della Riviera. Un viaggio nel tempo attraverso le parole di Luca Goldoni
ssere sul mare e, contemporaneamente, vivere la terra, la pineta, i colli. La Riviera romagnola, nelle parole dello scrittore Luca Goldoni, diventa un universo di ricordi in cui emerge la cultura di un popolo che è cambiato negli anni. Itinerari, sapori, luoghi d’arte, meraviglie della natura. Ci sono aspetti che non hanno subito l’erosione del tempo. Cosa rappresenta per lei il mare dell’Alto Adriatico? «Da almeno quarant’anni tutte le estati passo almeno un mese a Milano Marittima. Quando mi chiedono come mai preferisco un mare così piatto, in genere rispondo che non vengo in Riviera per il mare ma per la terra. Con quello che ho detto voglio intendere che è l’atmosfera che si respira e la gente che ci vive, a rendere speciale questo posto. Ci sono i miei amici pescatori, che mi raccontano storie straordinarie, le osterie, le pizzerie. Insomma c’è tutto un mondo da scoprire dietro la spiaggia che mi è diventato
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La terra, la pineta, i colli
familiare dopo tanti anni». Qual è il carattere distintivo della Riviera romagnola? «In quelle zone della Romagna, vige il concetto che mettendosi insieme si risparmia. C’è ancora un’idea della collettività ben radicata. Negli anni 60, ricordo i primi consorzi alberghieri a Milano Marittima, costituiti magari da cinque o sei hotel che si univano per abbassare i prezzi. Questo A fianco, lo scrittore Luca Goldoni autore, tra gli altri libri, di Una bestia per amico
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avviene ancora oggi, al contrario della spiaggia che è divisa in piccolissimi spazi come se fossero ducati. Se si fossero messi insieme, due, tre lidi, avrebbero potuto fare una grande piscina centrale, soprattutto nei periodi in cui il mare è impraticabile. A volte il mare è molto sporco perché ci sono delle persone senza scrupoli che vi riversano dentro di tutto senza nessun tipo di monitoraggio. In quei momenti lì, una grande piscina sarebbe stato l’ideale. Ma, a differenza degli alberghi, i titolari dei lidi non vogliono rinunciare a quella fettina di spiaggia che hanno strappato al demanio. Oggi, in sostanza, si pensa molto più ad accumulare un piccolo profitto personale piuttosto che a fare gli interessi della collettività». Quali sono i ricordi che più la legano al territorio di Milano Marittima? «Ho notato differenze sostanziali negli anni. Mi ricordo i primi anni che andavo in Riviera con mio figlio piccolo e i bambini scendevano in spiaggia alle 7.30 e alle 11 già
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rientravano. Erano tutti in pineta, perché il medico diceva che troppo sole fa male. Adesso a qualsiasi ora del giorno e della notte è tutto un frignare di bambini che si innervosiscono perché la mamma deve restare in spiaggia per prendere l’ultimo barlume di sole. Un’altra cosa che non c’è più rispetto al passato è il famoso moscone a remi. Ho chiesto un po’ in giro il perché di tutto questo, e mi dicono che è a causa dei bagnini che non hanno più voglia di caricarsi i remi in spalla e portarli in cabina per non farseli rubare. Adesso nessuno vuol più faticare per divertirsi. Noto soltanto questi pedalò, dove ci si adagia e si pedala molto lentamente. Ricordo che la spiaggia di una volta era una specie di grande cantiere dove si costruivano piste di sabbia, castelli, mentre adesso nessuno, nemmeno i bambini, fanno più nulla. I ragazzini piagnucolano con i genitori per avere qualche centesimo e attaccarsi al videogioco. Il mare e il paesaggio della Riviera, insomma, sono cambiati sotto molti aspetti». C’è un particolare del paesaggio
Romagna
La terra, la pineta, i colli
A sinistra, un moscone sulla spiaggia di Cervia; in alto, una cupola della basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna
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della Riviera che l’ha particolarmente ispirata nella sua carriera? «La fortuna della Riviera è di avere, alle spalle del mare, colline splendide dove si può andare tranquillamente in bici, attraverso itinerari cicloturistici di una bellezza unica, soprattutto verso Rimini. Dietro Cervia, poi, ci sono le saline. Distese di acqua che al tramonto producono effetti incredibili perché c’è un gioco di specchi davvero straordinario. Osservando bene questo paesaggio ci si accorge della presenza di certi tipi di uccelli come i cavalieri d’Italia, che prosperano in quantità. Non tralascerei, poi, la bellezza delle pinete, che proteggono le spiagge, talmente immense che negli anni sono diventate il luogo ideale per praticare sport come il golf. A questo riguardo faccio una piccola digressione. Ricordo che nei primi anni 70, i campi da golf non si potevano costruire, perché vigeva il motto “la terra a chi la lavora”. Scrissi un articolo a favore dell’edificazione dei campi da golf dal titolo “La terra a chi la gioca”. Sono sempre stato favorevole a tutte quelle attività che danno lavoro». Se dovesse accompagnare un suo ospite attraverso un itinerario magari poco conosciuto, dove lo porterebbe? «Passerei un pomeriggio nelle varie abbazie che ci sono sul territorio, alla ricerca degli splendidi mosaici che li ornano. Se una persona ha dei bambini la porterei a
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Mirabilandia, ma seguendo i miei gusti accompagnerei un mio ospite a vedere tutte quelle basiliche romaniche in cui d’estate fanno moltissimi concerti. Una di esse è Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, dove, oltre a concerti straordinari, si eseguono le letture di Dante. Sempre a Ravenna, poi, c’è un istituto che ha curato la traduzione in tutte le lingue del mondo della Divina Commedia. In estate vengono persone dall’India e dalla Cina che, nella loro lingua, cantano l’opera di Dante. Nella zona della Riviera, insomma, ci sono i mosaici, c’è l’arte, la cultura e, aspetto da non sottovalutare, si mangia molto bene». Quali sono i cibi e i piatti che preferisce quando torna a Milano Marittima e che magari potrebbe consigliare al lettore? «Senza dubbio i vini locali, come Trebbiano e Sangiovese, e ovviamente le piadine. In Riviera ci sono delle trattorie diventate famose forse più all’estero che in Italia. “La Casa delle Aie” è una di queste. Si tratta di una bellissima costruzione di fine Ottocento, dove si fermavano a dormire quelli che raccoglievano le pigne ed è diventata una specie di enorme trattoria con strutture molto belle e regolamenti ben precisi. Non esiste il pane, ma la piadina. Non esiste il prosciutto tagliato a macchina, ma quello tagliato col coltello e i piatti vengono serviti solo su tovaglie color ruggine di Gambettola».
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La terra, la pineta, i colli
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Viaggio in Italia
VISTA SULL’ANIMA di EZIO PETRILLO
Basterebbe solo il nome per descriverla. La vera anima di Capri, però, si può comprendere solo dai racconti, dal vissuto, dai passi, di chi ha un legame indissolubile con questa terra. Un viaggio autentico alla scoperta dell’Isola azzurra con un cicerone d’eccezione, Rocco Barocco
Capri
uestione di stile, di eleganza, di creatività. Il paesaggio caprese è una fonte continua di ispirazione. L’anima dell’isola azzurra si scopre, però, non solo nella vita mondana e nelle magiche notti in cui si anima la piazzetta. Essa risiede nei sapori, nelle passeggiate nascoste, in una cultura unica e autentica che emerge dai racconti di coloro che hanno un rapporto speciale col territorio. Rocco Barocco ci porta alla scoperta dell’anima di un luogo: l’isola azzurra, patrimonio dell’umanità in tutte le sue molteplici sfumature. La natura, la cucina, l’arte, la cultura, le atmosfere quasi mistiche della grotta azzurra. Attraverso gli occhi dello stilista, si svelano i segreti della perla del mare che funge da guardiano del Golfo di Napoli. Qual è il suo rapporto personale con l’isola azzurra e quali ricordi la legano a Capri? «Il mio rapporto con l’isola azzurra è quello che ho permeato dalla particolare magia che solo Capri possiede. Un ricordo, semplice ma fantastico, è quello di un bagno di notte nella grotta azzurra illuminata dal chiarore della luna. Bisogna soltanto viverle certe cose per poterle capire fino in fondo». Dove accompagnerebbe un suo ospite per fargli apprezzare al meglio l’isola azzurra, magari fuori dai tradizionali itinerari turistici? «Sicuramente all’arco naturale con una passeggiata in discesa verso Pizzolungo, da dove si ha l’impressione di toccare con mano i Faraglioni. Si tratta di uno degli itinerari più affascinanti di tutta l’isola. Lungo il sentiero,
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La perla del golfo
in pochi chilometri di costa, si possono ammirare diverse sfumature del paesaggio. Si può osservare tutta la penisola Sorrentina da una prospettiva meno nota e, inoltre, ci si imbatte in pochi turisti. Questo consente di godere in solitudine il panorama e i profumi, i suoni della natura e del mare. Immancabile, poi una passeggiata in via Krupp, che collega Marina piccola con i giardini di Augusto». Può descriverci uno scorcio, un paesaggio, che le è rimasto particolarmente impresso e che magari l’ha anche ispirato nella sua carriera? «La particolare atmosfera che si respira a Villa Fersen, che spesso ho visitato assieme al mio
Sopra, lo stilista Rocco Barocco
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Capri
ospite e amico Roger Peyrefitte». I sapori di Capri. Quali sono i posti in cui ama tornare e “rifugiarsi” per apprezzare al meglio la cucina caprese? «La cucina caprese è ottima in ogni parte dell’isola. I prodotti di questa terra sono famosi in tutto il mondo. Se devo citarle un piatto in particolare, un primo che preferisco sono i ravioli della migliara, magari accompagnati da una caprese a base di mozzarella e pomodori. Ma a Capri sono sensazionali soprattutto i dolci. La torta caprese, penso non abbia bisogno di troppe presentazioni. Ne apprezzo i sapori in special modo con un tocco di gelato alla vaniglia che mi attende quando ritorno dal mare per rifugiarmi al “Piccolo Bar”». C’è un aspetto della cultura di Capri che ha portato con sé nel corso della sua vita? «L’isola azzurra non è solo vita mondana, serate per i vip e mare. È anche e soprattutto cultura. In questo senso, sono molti i tratti di Capri che mi hanno influenzato nel mio percorso di vita. Le varie frequentazioni e reminiscenze letterarie mi sono rimaste dentro più di ogni altra cosa. Ricordo, a tal proposito, le edizioni de La Conchiglia che ben rappresentano questo taglio culturale dell’isola. C’è un filo comune che caratterizza le scelte di questa casa editrice, che è una precisa idea del viaggio, dell’isola, del Sud e del Mediterraneo. Attraverso le sue pubblicazioni, Capri è diventato uno
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La perla del golfo
straordinario laboratorio internazionale en plein air di arte e cultura oltre che meta di un turismo colto e di qualità». Capri ieri e oggi. Qual è l’aspetto che è cambiato di più negli ultimi anni dell’isola? «Nel tempo sono cambiati molteplici aspetti. Sicuramente ciò è dovuto alla diversa frequentazione dell’isola, soprattutto diurna. È di sera, a mio avviso, che gli abitanti si riappropriano completamente dei luoghi, il cui fascino resta immutato». In sintesi, a suo avviso, qual è il segreto che ha reso Capri la perla del mare privilegiata dalle personalità più importanti del mondo? «Non c’è un solo segreto. Ce ne sono tanti. Tra essi sicuramente la sua storicità, le sue dimensioni ridotte, l’indiscutibile magia del mare e la grande abilità con cui i suoi abitanti sono riusciti a conservarne il fascino intatto, nonostante una mole di turisti non indifferente».
Sopra, la famosissima via Krupp che collega la zona della Certosa di San Giacomo e dei Giardini di Augusto con Marina piccola
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Archivio Grandi Giardini Italiani - www.grandigiardini.it
IL MADE IN ITALY DEL VERDE L’Italia è il giardino d’Europa, scriveva il celebre Goethe. Uno scrigno che racchiude parchi e giardini di grande di fascino. Un tesoro che va però adeguatamente promosso. FRANCESCA A spiegarlo è Judith Wade, fondatrice del circuito Grandi DRUIDI Giardini Italiani, che riunisce 76 giardini d’Italia
n patrimonio storico, botanico e artistico che attraversa la penisola. Un patrimonio un tempo riservato a pochi e che, invece, oggi si vuole far conoscere in tutta la sua straordinaria varietà. È questo l’obiettivo che si prefigge Grandi Giardini Italiani, società fondata nel 1997 dall’attuale amministratore delegato Judith Wade, che ha messo a sistema un circuito di 76 parchi e giardini italiani, di cui il 60% è proprietà di famiglie private, mentre la restante parte appartiene allo Stato - ne sono un esempio la Reggia di Caserta e Venaria Reale - oppure a fondazioni bancarie, come il Giardino Bardini e Villa Peyron a Firenze. Il trait d’union di questi spazi verdi è, prima di tutto, la loro visibilità, la loro apertura al pubblico. L’horticultural tourism è, del resto, sbocciato anche in Italia, come dimostrano gli oltre sette milioni di visitatori registrati dal network di
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Giardini d’Italia
Horticultural tourism
In apertura, il parco giardino Sigurtà a Valeggio sul Mincio in provincia di Verona; a lato, Judith Wade, fondatrice e Ad del circuito Grandi Giardini Italiani
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Giardini d’Italia
Horticultural tourism
Archivio Grandi Giardini Italiani
In alto, il parco del Castello di Miramare di Trieste, il più visitato in Italia nel 2009
giardini nel 2009, con un aumento del 27% di clientela nostrana. «La crisi ha senz’altro fatto rimanere in Italia molti turisti – commenta Judith Wade – però in questi ultimi dieci anni si è assistito al lento ma costante incremento di visitatori italiani». Da un lato, ha inciso la collaborazione con le scuole per quanto concerne i percorsi didattici: «molti dei nostri giardini sono luoghi dove gli istituti sanno di poter avviare i ragazzi a un’iniziazione alla botanica e alla storia dell’arte, contribuendo alla loro sensibilizzazione». Dall’altro lato, prima mancavano la necessaria esposizione stampa e le classiche informazioni “dove, come e quando”». Oggi il sito internet www.grandigiardini.it è tra i più cliccati in Europa nell’ambito del turismo culturale. E non è un caso che il giardino più
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visitato sia il parco del Castello di Miramare di Trieste, di proprietà dello Stato, che ha sfiorato i tre milioni di visitatori. «È il primo giardino che si incontra venendo dai paesi dell’Est europeo – prosegue Wade – che hanno vissuto con l’entrata nella Ue una crescita del livello di benessere». A meritare una menzione speciale è anche il parco giardino Sigurtà di Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, di Giuseppe e Magda Sigurtà. «Ha toccato la quota di 350 mila visitatori, contando 20 giardinieri fissi, uno staff di manutenzione di assoluto livello europeo, due ristoranti, tecnologia a disposizione del visitatore, distinguendosi quindi come un esempio ottimale di rapporto con il pubblico». Il valore del made in Italy dei giardini è riconosciuto un po’ ovunque. Accompagnato però, come sottolinea l’amministratore delegato, da una spiacevole reputazione che riguarda enti e proprietari privati: quella di non essere in grado di mantenere bene i giardini. «Chi si rende deficitario nell’accoglienza e nei servizi offerti non può far parte di Grandi Giardini Italiani»: il network identifica soprattutto un modello di gestione efficiente degli spazi verdi, dove ogni giardino aderente può diventare un’impresa capace di sostenersi autonomamente, rispettando parametri di qualità (servizi, brochure, percorsi, punti di ristoro, corsi ed eventi) e generando al contempo un sistema economico virtuoso. «Se si fa bene il proprio lavoro – conclude l’Ad – i fondi ci sono, si ottengono e sono anche molto generosi. Quello che manca oggi è l’iniziativa del sistema Italia nel suo complesso, che ha perso mordente nel settore turistico».
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Foto Dario Fusaro
IL SEGRETO DI UN GIARDINO FELICE
Giardini d’Italia
di FRANCESCA DRUIDI
Il rispetto dello spirito del luogo e della flora naturale che lo caratterizza. Sono queste le fondamenta che sostengono il lavoro di Paolo Pejrone, uno dei più famosi architetti di giardini, creatore di orti e giardini dall’Italia all’Arabia Saudita, dalla Francia all’Inghilterra
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l mio vorrebbe essere un posto dove le piante possano vivere bene, senza stress e senza malattie, con dignità e naturalezza». Così Paolo Pejrone, uno degli architetti di giardini più noti e talentuosi d’Italia, riassume nel volume Cronache da un giardino, pubblicato da Mondadori Arte, la filosofia che anima il suo personale “Eden”, il Bramafam, lontano e discreto rifugio di Revello, ma che in fondo ha da sempre attraversato il suo lavoro nel nostro paese e all’estero. Esistono matrici botaniche da tenere necessariamente presenti quando si progetta un giardino? «È impensabile farlo senza pensare alle piante, a cui si deve inevitabilmente legare la necessaria conoscenza per poterle far vivere. Anzi, non soltanto vivere, ma vivere bene. Perché un giardino intessuto di piante stentate dà più
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Il trionfo delle rose
A fianco, Paolo Pejrone, architetto di giardini e autore di diversi volumi, tra cui I miei giardini, Gli orti felici e Cronache da un giardino; In apertura, l’orto creato da Paolo Pejrone per la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma
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La simbologia dei giardini «Si entra in un giardino per uscirne trasformati nella nostra essenza». Lo spiega l’architetto Paola Maresca (nella foto in basso a destra), autrice di numerosi saggi tra cui Giardini simbolici e piante magiche, edito da Pontecorboli. Elementi di peculiare valenza simbolica all’interno di un giardino, sottolinea l’esperta, sono «l’apparato scultoreo, le grotte che spesso alludono a una sorta di discesa agli Inferi e segnano l’inizio di un percorso allegorico, e ancora il tema dell’acqua che ricorda il lavacro purificatore». Molte allegorie sono racchiuse nel giardino, «associato fin dalla più remota antichità, sia nel mondo occidentale che in quello orientale, al Paradiso terrestre, un luogo magico dove regnano sovrane bellezza e armonia». A partire dal Medioevo, come sottolinea Paola Maresca, la magia delle forme e dei numeri sottende la realizzazione dei giardini che, intrecciandosi con l’astrologia e le corrispondenze planetarie delle piante, darà vita ai Orti dei Semplici, dove si sperimentava la cosiddetta alchimia verde. «Nell’inquieto manierismo assistiamo poi a un proliferare di parchi alchemici, per arrivare al ‘700 dove, con il diffondersi in Europa dell’ideologia massonica, itinerari iniziatici caratterizzano il disegno dei giardini all’inglese e il parco diviene una sorta di rappresentazione di un’opera più vasta». La mitologia presente nell’apparto decorativo del giardino rimanda ad antichi miti e antiche verità, mentre «la scienza alchemica è rappresentata da un percorso che dalle tenebre, la Nigredo, ossia la prima operazione alchemica, simboleggiata sovente da una oscura grotta, conduce, attraverso un percorso meditativo segnato da manufatti, iscrizioni o significative sculture, alla luminosa rinascita, che può essere espressa da una montagnola artificiale o da una torre che svetta verso il cielo». Tra gli elementi più emblematici, c’è il labirinto: «una figura dai complessi risvolti allegorici, che compare assai presto nel disegno dei giardini, sovente mascherata da apparati ludici. Ma è soprattutto a partire dal ‘500, il grande secolo dell’ermetismo, che si realizzeranno nei giardini labirinti di verzura dai profondi significati simbolici. Soprattutto in molte ville patrizie,
l’impressione di una prigione, di un inferno, che non di un giardino. Ogni pianta ha la propria vita, la propria dignità, una propria forma, esigenze che vanno agevolate. È fondamentale scegliere le piante giuste. Inutile piantare ippocastani a Palermo. Bisogna avere rispetto del clima e dell’origine delle piante, sapere dove queste solitamente crescono, dove e come amano vivere. Dal mio punto di vista, il giardino più riuscito è quello in cui le piante sono felici e quindi non danno lavoro, poiché non si forza la natura, ma anzi si conduce insieme, tra persone, piante e giardino, un’esistenza civile e adeguata. Senza operare eccessivi stravolgimenti, che mi fanno svenire dalla rabbia». In che misura gli spazi verdi riflettono sia la memoria storica che la volontà di chi li ha creati? «Ogni giardino è un piccolo, grande, mondo a sé. E questo aspetto deve sempre esistere. C’è tutto un insieme di elementi che riveste una particolare importanza nella compagine e che poi concorre a delineare la storia del
a partire da Villa d’Este a Tivoli, dove dietro i grandi apparati scenografici si nascondono segreti e arcani». Secondo Paola Maresca un parco che ancora conserva tutto il suo fascino arcano è il Parco dei Mostri di Bomarzo nei pressi di Viterbo, realizzato nel ‘500 da Vicino Orsini, il cui simbolismo, oggetto di vari studi, non è stato completamente decifrato. Va ad affiancarsi il parco dei Tarocchi, che s’innalza nella campagna maremmana in prossimità del confine laziale nei pressi di Capalbio. «Nel parco, realizzato dall’artista Niki de Saint Phalle, sculture-edifici dalle dimensioni enfatizzate rappresentano le ventidue carte degli arcani dei Tarocchi, dai misteriosi e criptici significati, in un itinerario dove arte, natura e fantasia s’intrecciano in un intrigante connubio».
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Giardini d’Italia
Foto Dario Fusaro
Foto Dario Fusaro
Il trionfo delle rose
giardino stesso. E ha un senso ricordarlo. Chi è bravo poi capisce al volo quelle componenti che, anche tra le righe, convergono a costituirne la memoria: la pianta che è stata impiegata, come è stata usata, fino alla modalità con cui è stata piantata. Tutti accorgimenti che identificano dei messaggi. Il giardino non è, infatti, una serie di belle piante disposte in maniera isterica. È qualcosa di più». Si possono individuare delle tendenze comuni nella progettazione di giardini? «Esiste una forma di globalizzazione delle piante, poste sul mercato per vari motivi. Da una parte c’è la novità, dall’altra la facilità di riproduzione e la velocità di crescita. Il mercato è sensibile a queste tendenze. Il fatto che ci siano piante globali non è un aspetto sul quale disperarsi, la società attuale presenta queste caratteristiche. Stipulare una sorta di patto con il proprio giardino significa però che le piante non vengono selezionate perché globalizzate, ma perché risultano le più adatte alla convivenza. I giardini pubblici individuano tutto un altro scenario.
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Devono essere robusti, puliti, sicuri e le piante sono scelte di conseguenza». Una pianta globalizzata oggi? «Negli ultimi dieci anni ha preso piede la buganvillea, proveniente dal Sud America, con fiori color rosso, arancio, bianco, rosa. È una pianta particolarmente manipolata. Anche se bellissima, bene inteso, e viene usata al posto del classico geranio. C’è stato il periodo delle lavande. Per non parlare delle rose: è sempre un grande trionfo. Si gioca ormai sulle novità, spacciandole per nuove frontiere. Oggi ci sono nuove rose, ma le “vecchie” sono le migliori. Questo però dipende dalla sensibilità e dalla creatività di chi progetta il giardino». A Revello si trova, invece, il suo regno personale, il giardino del Bramafam. «È il mio laboratorio, dove ho provato e sperimentato molteplici soluzioni. In questi ultimi anni ho sollevato il compito ai miei clienti, che erano un po’ le mie vittime, e sono diventato io stesso vittima delle mie prove. È diventato il mio campo e sta andando avanti. Amo soprattutto rivasare le piantine piccole. Rivasare, diserbare, potare».
In alto, da sinistra, il Bramafam, il giardino di Paolo Pejrone a Revello nel Saluzzese; il giardino Zilia in Corsica, uno dei lavori che l’architetto ha amato di più insieme all’orto di Santa Croce in Gerusalemme
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SCRIGNI NATURALI
Un itinerario alla scoperta di alcune delle più suggestive, spesso ancora poco note, espressioni botaniche, storiche e artistiche dello Stivale. A indicare la rotta, tre esperte di giardini: la giornalista Mimma Pallavicini, l’architetto Mariachiara Pozzana e la giornalista-fotografa Patrizia Spinelli di FRANCESCA DRUIDI
Foto Nic Barlow - www.grandigiardini.it
n viaggio nell’arte, nel tempo, nello spazio e nella bellezza. È quello che si può compiere nei giardini e nei parchi dislocati in molte regioni d’Italia: aperti al pubblico oppure privati, antichi o moderni. Giardini all’italiana, dove prevalgono le composizioni dell’arte topiaria, le strutture geometriche votate alla simmetria e alla prospettiva, le fontane, le statue e le composizioni di agrumi. Giardini all’inglese, dove prevale il concetto di paesaggio e si ricerca quell’aspetto “selvaggio” dato da alberi, grotte, ruscelli, tempietti e rovine. Tutti sono luoghi magici, che conservano la memoria del
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Foto Marianna Galimberti
tempo in cui sono stati realizzati e rispecchiano le peculiarità culturali dei territori in cui sorgono oltre che la volontà di chi li ha commissionati e ideati. Senza alcuna pretesa di esaustività, si delineano tre diversi itinerari, grazie ai suggerimenti di tre specialiste dei giardini: Mimma Pallavicini, Mariachiara Pozzana e Patrizia Spinelli. TRA MARE, MONTI E LAGHI Si parla spesso di Venaria Reale, ma il “Parco più bello d’Italia”, concorso promosso da Briggs & Stratton, ha inserito anche il Parco di Racconigi nella lista dei dieci parchi più suggestivi del Paese. «Racconigi è stato un bel recupero e, per quanto mi riguarda, da piemontese che ama i giardini – commenta la giornalista e scrittrice Mimma Pallavicini – lo è anche perché ha fatto riaffiorare la memoria di un re, Carlo Alberto di Savoia, che a metà Ottocento credette nell’innovazione in agricoltura e nell’integrazione tra piccola agricoltura e giardinaggio». E nel ricordare la
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storia dei fratelli Roda, i due giovanissimi giardinieri spediti da Carlo Alberto per oltre un anno nei grandi giardini reali europei affinché imparassero le mode e le tecniche più innovative, tessendo rapporti in grado di immettere il parco del castello di Racconigi, e l’Italia sabauda, nel circuito delle regge europee, Mimma Pallavicini evidenzia le «magie spettacolari offerte dalla natura, che si sente protetta all’interno delle lunghissime mura storiche alle porte dell’abitato di Racconigi. In primavera, poi c’è un via vai di cicogne che nidificano sui comignoli della Margaria». In Liguria, S. Margherita Ligure, con i giardini di Villa Durazzo e quelli de La Cervara presso l’Abbazia di San Girolamo al Monte di Portofino, e Genova la fanno da padrone. «Certamente il paesaggio, il clima marino, la vicinanza alla città hanno giocato un ruolo importante per le case di villeggiatura di nobili, borghesi benestanti, artisti dei secoli scorsi. Tutta la Liguria per altro ospita grandi giardini ed è stata scelta non solo da italiani». Sir Hanbury, ad esempio, fece costruire la sua
Giardini d’Italia
Il verde d’Italia da nord a sud
In apertura, il giardino di Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio in provincia di Padova; a lato, Mimma Pallavicini, autrice di diversi volumi dedicati ai giardini; in alto, particolare di Villa Melzi d’Eril
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Foto Dario Fusaro
Sopra, un’immagine di Villa Reale di Marlia a Lucca (Archivio Grandi Giardini Italiani)
villa sul promontorio della Mortola, al confine della Liguria con la Francia. «Ancora oggi il giardino è un santuario botanico». Risalendo a nord, i laghi lombardi regalano uno scenario dove si incastonano ville e giardini meritevoli di segnalazione.Villa Carlotta e il Vittoriale degli italiani, soltanto per fare due nomi. Ai quali l’esperta aggiunge Villa Melzi d’Eril, sul lago di Como, «interessante sia per chi visita un giardino per coglierne la storia, il disegno e la scelta vegetale sia per chi cerca solo un’oasi di pace e benessere. Interpreta bene il senso e la fruibilità di un grande giardino italiano». In Trentino Alto Adige, non vanno dimenticati i
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giardini di Castel Trauttmansdorff di Merano, che hanno ricevuto più di un riconoscimento. Mimma Pallavicini ricorda quanto la conca ai piedi del Castello fosse anonima. «Ma con mano felice e le idee molto chiare è stato realizzato un giardino moderno, agile e pieno di piccole magie, dedicato alla didattica e alla fruizione, all’arte dei giardini e alla botanica. Vorrei ci fossero soluzioni simili in ogni città italiana. Invece resta appannaggio di una città come Merano, attenta al suo verde e al richiamo turistico che esercita sui nord europei». Anche il Veneto è un incredibile scrigno di giardini, per la maggior parte annessi a dimore
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prestigiose, che raggiungono una cifra considerevole: circa 3.500 ville antiche. Il giardino preferito in assoluto da Mimma Pallavicini è, infatti, veneto, ed è quello di Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio in provincia di Padova, portato allo splendore nella seconda metà del Seicento dal nobile veneziano Zuane Francesco Barbarigo e dal figlio Antonio; giardino celebre per statue, cascate, fontane, giochi d’acqua, il labirinto di bosso e la garenna dei conigli di ispirazione antico-romana: «tutte le volte che lo visito ci sento dentro la storia, il mistero, l’ariosità, la bellezza all’ennesima potenza. Ma è possibile, a grandi linee, individuare direttici comuni in questi giardini? «Non credo. Ogni giardino è una storia a sé, non sopporta omologazioni di alcun tipo. In fondo, il bello di andare per giardini è proprio questo: non si sa mai che cosa si trova. È la biodiversità. E più i giardini sono amati da chi li ha in consegna e più si fanno amare, secondo una legge non scritta di amore per la bellezza che dovrebbe coinvolgerci tutti in un Paese che dalla natura e dalla civiltà ha avuto molto».
«Un patrimonio botanico inestimabile quello toscano, con circa 800 giardini storici»
Foto Luca Piola
NON SOLO FIRENZE Un patrimonio botanico inestimabile quello toscano, con circa 800 giardini storici e più di 100 aperti al pubblico. A guidarci in un percorso tra i suoi giardini “dell’anima” è l’architetto Mariachiara Pozzana che opera con il suo studio a Firenze, responsabile tra l’altro dell’importante restauro del giardino Bardini, dopo che per questioni ereditarie era stato abbandonato per più di trent’anni, «un restauro impostato – come lei stessa racconta – su un recupero archeologico, scientifico e conservativo degli elementi già presenti, ma
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A lato, l’architetto Mariachiara Pozzana; sopra, una veduta della Reggia di Colorno, in provincia di Parma (Archivio Grandi Giardini Italiani)
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Giardini d’Italia
Il verde d’Italia da nord a sud
anche sull’inserimento di un contributo moderno e innovativo realizzato di concerto con le sovrintendenze, mai in contrasto con il paesaggio esistente». Dal Bardini, visitabile con il Giardino Boboli nel centro di Firenze, si può proseguire con i giardini delle ville Medicea di Castello, La Petraia e Corsini afferenti al polo museale fiorentino e protagoniste dell’edizione 2010 di “Piccoli grandi musei”, un programma di visite ed eventi promosso dall’ente Cassa di Risparmio di Firenze. «Si tratta di veri e propri patrimoni dell’umanità, in particolare il giardino di Castello che rappresenta, nonostante le modifiche succedutesi negli anni, il prototipo del giardino rinascimentale con uno spazio prospettico, chiuso e murato. Oltre alla bellezza del luogo e dell’architettura,
Foto Nic Barlow - Archivio Grandi Giardini Italiani
non è da sottovalutare l’importanza botanica, con una delle collezioni di agrumi più significative d’Italia». Usciti da Firenze, passaggio obbligato è il giardino di Villa Gamberaia, «un luogo magico,
Rilassarsi tra il mare di Taormina e l’Etna La tipica architettura rurale siciliana circondata di vigneti e boschi. E, tutt’intorno, un panorama mozzafiato: il mare e Taormina a est, l’Etna a ovest. L’Agriturismo Le Case del Merlo, situato a mezz’ora di distanza sia da Taormina che dai rifugi dell’Etna, offre questa splendida vista e anche di più. Il ristorante propone i piatti dell’antica tradizione siciliana, come le tagliatelle croccanti al finocchetto selvatico, da accompagnare al vino di produzione propria: un bianco doc, l’Etna bianco superiore, la cui unica zona di coltivazione è proprio un piccolissimo territorio attorno al paese di Milo.
AGRITURISMO LE CASE DEL MERLO Via Sciara Praino, 11/14 - Milo (CT) Tel. 095 95.51.06 www.lecasedelmerlo.it info@lecasedelmerlo.it
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esteso poco più di un ettaro ma perfetto nelle sue proporzioni, caratterizzato dall’arte topiaria, con gradi sfere di bosso, cipressi che formano belvederi e vasche di acqua». Spostandoci in una Lucchesia dalle molte sorprese, la visita al parco della Villa Reale di Marlia permette al suo interno «di fare un balzo cronologico, di stile e di storia, passando dal giardino formale del Cinque-Seicento al giardino paesaggistico a una parte più moderna realizzata negli anni Trenta del secolo scorso». Uno sguardo lo merita anche il giardino di Villa Cetinale, «che a un’impostazione cinquecentesca sovrappone un gusto inglese», nei pressi di Siena, territorio dove l’architetto Pozzana consiglia di non perdersi il giardino di villa L’Apparita a opera del grande architetto paesaggista Pietro Porcinai: «uno spazio particolarmente rappresentativo di una maniera contemporanea di inserirsi all’interno del paesaggio, con un accesso in trincea che conduce al loggiato, creando in chi si avvicina alla casa un senso di sospensione e di attesa e un teatro verde minimalista. Il progetto è caratterizzato dall’adozione, da parte di Porcinai, di un criterio di essenzialità nella distribuzione degli spazi così come nelle piante». Firmato sempre da Porcinai è il Parco di Pinocchio, naturalmente situato a Collodi, in provincia di Pistoia, «interessante sotto il profilo del paesaggio e divertente, quindi, non soltanto per i bambini», che aiuta a rivivere una fiaba grazie al confronto tra l’immaginario espresso nel linguaggio simbolico dell’arte e l’immaginario personale del visitatore. Nella vicina Emilia Romagna, si può fare una sosta al giardino del Parco Ducale di Parma, voluto
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da Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, quale luogo per gli svaghi di corte, e oggi proprietà comunale. In prossimità di Parma, alla Reggia di Colorno il seguace dell’horticultural tourism può godersi da vicino lo spettacolo di «un giardino barocco, realizzato secondo i concetti del giardino classico francese». Peculiare nella sua originalità è il giardino
Giardini d’Italia
Archivio Grandi Giardini Italiani
Reinhardt in Umbria, una novità assoluta nel panorama botanico italiano, un progetto in continua evoluzione portato avanti da Thomas Reinhardt e sua moglie Martina Kofoth. Il giardino tropicale può essere, infatti, definito stagionale, perché nasce in primavera e muore in inverno, assumendo ogni anno un aspetto diverso.
Nella pagina a fianco, il Parco di Pinocchio a Collodi; sopra, giardino di Villa Gamberaia, in provincia di Firenze
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DALLA TUSCIA ALL’ISOLA Il Lazio racchiude molti tesori:Villa Lante di Bagnaia,Villa Farnese di Caprarola, il Castello Ruspoli di Vignanello, uno dei più fulgidi e perfetti esempi di giardini all’italiana del Seicento. A ospitarli è Viterbo che, come spiega la giornalista e fotografa paesaggista Patrizia Spinelli, «è una zona caratterizzata dalla facilità di accesso all’acqua, storicamente scelta da
A fianco, Patrizia Spinelli Napoletano, giornalista, fotografa paesaggista; sopra, il giardino di Ninfa, finalista 2010 del concorso “Parco più bello d’Italia”, promosso da Briggs & Stratton
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cardinali e vescovi come sede per residenze dove concedersi un buen retiro». A Villa d’Este a Tivoli, capolavoro dell’arte e patrimonio dell’umanità dell’Unesco con le sue fontane, ninfei e giochi d’acqua, sembra di essere catapultati su di un set cinematografico e in effetti «il giardino ha fatto da sfondo a numerose pellicole, tra cui Ben Hur». La creatività del grande paesaggista inglese del Novecento Russell Page, e la sua capacità di adattare le proprie invenzioni progettuali ai colori e alle caratteristiche del territorio italiano, si esemplificano in modo straordinario nel parco botanico di San Liberato, sul Lago di Bracciano, realizzato dal gardener con il conte Donato Sanminiatelli e sua moglie Maria Odescalchi, e nei giardini della Landriana, il cui progetto originario è stato nel corso degli anni ampliato e modificato dalla fautrice del luogo, Lavinia Taverna. Imperdibili anche l’Oasi di Porto, visitabile solo con carrozze trainate da cavalli per preservare il delicato equilibrio di flora e fauna, e il Giardino di Ninfa di Latina, frutto di un notevole programma di recupero del borgo di Ninfa, rimasto in stato di abbandono per secoli, da parte della famiglia proprietaria, i Caetani: «qui si respira l’incanto straordinario di un giardino che ha saputo costruirsi come da solo e sul quale è intervenuta la mano gentile dei Caetani che lo hanno reso un giardino romantico in stile anglosassone». In Campania spicca in tutto il suo splendore La Mortella: a Zaro, uno dei luoghi più suggestivi di Ischia, sempre Russell Page disegnò per la carismatica moglie del celebre compositore William Wolton, Susana Walton che poi lo ha di fatto realizzato, un giardino
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Giardini d’Italia Il verde d’Italia da nord a sud
A destra, particolare del parterre del Castello Ruspoli di Vignanello a Viterbo; sotto, giardino La Mortella a Ischia
ricavato dalla terra di origine vulcanica e ricco di specie botaniche straordinarie. «Nel punto più alto spicca la Sala Thai con il giardino orientale, luogo di meditazione impregnato del profumo dei fiori, dove il silenzio è spezzato solo dal rumore del vento». Purtroppo, come sottolinea Patrizia Spinelli, una parte considerevole del patrimonio botanico di Napoli vive «chiusa nelle mura dei palazzi aristocratici e nelle ville del centro storico, giardini firmati da grandi paesaggisti come Vanvitelli, John Andrew Graefer, Pietro Porcinai, Russell Page, e scanditi da collezioni botaniche esotiche e mediterranee importanti». La fa da padrona la camellia japonica, introdotta nel Settecento, che la regina Maria Carolina di Borbone fece impiantare
Foto Dimitry Tereshchenko - Archivio Grandi Giardini Italiani
Archivio Grandi Giardini Italiani
Foto Patrizia Spinelli
Una parte considerevole del patrimonio botanico di Napoli vive nelle ville del centro storico
Archivio Grandi Giardini Italiani
alla Reggia di Caserta: «questo arbusto, con la molteplicità splendida delle sue corolle, rappresenta così Napoli e la Campania». È bene non dimenticare i giardini claustrali visitabili di «San Pietro a Majella, Chiesa di Carmine Maggiore, Santa Chiara, Chiostro di San Gregorio Armeno, le secolari camelie Tricolor del Chiostro Grande del Fanzago e il Chiostrino del Priore nella Certosa di San Martino, il Giardino Italia di Palazzo Reale di Napoli e il camelieto di Villa Floridiana». Aperti al pubblico sono anche il Parco Idrotermale del Negombo, affacciato sulla Baia di San Montano, e Villa San Michele ad Anacapri, un vero e proprio giardino-museo. «Il Miglio d’Oro, tracciato compreso tra i quartieri periferici di Napoli e i comuni di Torre del Greco e Torre Annunziata, deve al lavoro costante dell’ente Ville vesuviane, diretto dall’architetto Paolo Romanello, il restauro conservativo di molte ville, a cominciare dalla bellissima Villa Campolieto. Tra gli splendori privati si annoverano il parco vanvitelliano di Villa Giulia e a Sorrento i giardini di età imperiale di Villa Tritone e dell’Hotel Vittoria. Anche l’entroterra tra Avellino, Benevento e Caserta è ricco di magnifici paesaggi privati tra cui Castello Lancellotti, Casale Guevara, Masseria San Massimo, Castello e Palazzo Ducale Pignatelli della Leonessa». Spostandoci, infine, in Sicilia, meritano una visita a Catania l’Orto Botanico e il parco realizzato da Ettore Paternò del Toscano alle pendici dell’Etna, «su ettari di territorio lavico con un sistema di terrazzamenti, inserendo in maniera armoniosa nella vegetazione autoctona una serie di collezioni esotiche e soprattutto palme».
Giardini d’Italia
Il verde d’Italia da nord a sud
In alto, Castello Lancellotti a Lauro, in provincia di Avellino ); sotto, Parco Paternò del Toscano a Catania
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UNO STILE ECLETTICO
Giardini d’Italia
di FRANCESCA DRUIDI
Un giardino dove ispirazioni diverse convivono armoniosamente. È il parco del quattrocentesco Castello di Grazzano Visconti. Dove i membri della famiglia Visconti di Modrone sono soliti trascorrere le vacanze estive e i momenti di risposo. Oggi, grazie a Luchino Visconti di Modrone e sua sorella Anna, il parco è un tesoro visitabile
ipote del grande maestro del cinema Luchino Visconti e pronipote del duca Giuseppe, fondatore del Borgo intorno al Castello Grazzano, di proprietà della famiglia dal XIV secolo, Luchino Visconti di Modrone ha ereditato da entrambi aspetti importanti. Dal primo, la passione per i set e per le immagini in movimento, confluita nell’Enormous Film, casa di produzione di spot, corti, documentari e scatti fotografici; dal secondo, la passione per il Castello di Grazzano, a pochi chilometri da Piacenza, e per il verde. Lo conferma la gestione, con la sorella Verde, dello splendido parco di 150 ettari che circonda il Castello. Ha deciso insieme a sua sorella Verde di aprire tre anni fa al pubblico il parco del Castello di Grazzano Visconti. Perché condividere con altre persone questo luogo? «Il Borgo di Grazzano Visconti è stato costruito
Il Castello di Grazzano Visconti
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dal mio bisnonno tra la fine dell’800 e i primi del 900 con l’obiettivo di mostrare ai visitatori come gli artigiani praticavano i mestieri antichi e cercare di far apprezzare questo suo progetto, quasi unico in Italia, di architettura neomedievale. L’apertura al pubblico del parco procede in questa direzione: si tratta di un’ulteriore parte del paese
Nella foto, Luchino Visconti di Modrone e sua sorella Verde nel parco del Castello di Grazzano Visconti che hanno aperto al publico
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Giardini d’Italia
che prima non si poteva ammirare e che invece, oggi, risulta visitabile. In qualche modo vuole essere anche un omaggio nei confronti della cultura e del gusto eclettico del mio bisnonno. Stiamo, inoltre, iniziando a organizzare degli eventi nel giardino: a settembre si terranno tre concerti con i gruppi di musica da camera dell’Orchestra giovanile Cherubini, l’orchestra fortemente voluta e diretta dal maestro Riccardo Muti». Qual è l’aspetto che ama maggiormente del giardino? «Sicuramente l’eclettismo, e cioè guardare tante cose diverse in un posto solo. Convivono elementi del giardino francese, inglese e all’italiana.Tutti questi vari aspetti si fondono nel medesimo luogo con grande facilità e armonia, perché non sorge mai la domanda “che tipo di giardino è questo?”, te lo godi e basta». C’è un ricordo particolare che la lega al parco? «Un ricordo specifico non c’è, si parla di un susseguirsi costante di ricordi. Ogni volta che ci
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ritorno - fortunatamente ogni fine settimana - gli odori, i rumori, l’immagine del sole che attraversa il fogliame di un albero o che batte su un gruppo di ortensie, producono il costante rivivere dei ricordi che conservo fin da bambino. Ogni giardino in fondo ha i suoi profumi, i suoi rumori, ma questo giardino in particolare è davvero speciale per me perché ci sono cresciuto e ancora oggi ho la fortuna di riuscire ad andarci». Con la sua casa di produzione, la Enormous Films, ha prodotto un documentario dedicato al giardino Barbarino-Pizzoni Ardemani diretto da Gianluca Migliarotti. Da dove nasce questo progetto? «Io amo i giardini e il verde in generale, essendo cresciuto in campagna. Appena posso cerco di fuggire dalla mia città, Milano, che purtroppo non offre grandi spazi verdi. La mia è una passione che però non ho coltivato in chissà quale modo, la vivo come chiunque ami stare all’aria aperta. Sono entrato in contatto con Judith Wade, amministratore delegato di Grandi Giardini Italiani, per inserire il parco del Castello di Grazzano Visconti nel circuito. Judith mi ha espresso la necessità di comunicare e far scoprire in qualche modo la bellezza di questi luoghi e così abbiamo pensato di realizzare il documentario su Barbarino-Pizzoni Ardemani: un piccolo esempio di quello che è un mondo vastissimo, per qualità e per storia, che in tanti conoscono, ma non quanti vorremmo. I giardini, d’altronde, fanno parte della cultura italiana e il documentario può rappresentare un veicolo in grado di far da cassa di risonanza al lavoro del network di giardini».
Il Castello di Grazzano Visconti
Nella foto, il parco del Castello di Grazzano Visconti, in provincia di Piacenza (www.castellodigra zzanovisconti.it)
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FIORI DI SANREMO Dal simbolismo quotidiano all’arte culinaria. Dalla musica al design contemporaneo. Sanremo è da secoli la città dei fiori. E lo ricorda non solo attraverso i festival. Riccardo Giordano, presidente del distretto floricolo, racconta il successo dei fiori e della riviera di GIANLUCA MONFORTE
M In alto, il distretto floricolo di Sanremo; a destra, Riccardo Giordano, presidente dell’Unione cooperativa floricoltori della riviera dei fiori di Sanremo
essaggeri di sentimenti e ambizioni, i fiori non colorano solo i nostri paesaggi, giardini e tavoli, ma ci ammaliano, profumando la nostra quotidianità. La mitezza del clima italiano e le risorse delle nostre terre rappresentano il background ideale per la floricoltura. Ma se c’è un’area del panorama nostrano a essersi resa nota nel mondo proprio per la sua ricchezza floreale, quella è la riviera ligure, non a caso riconosciuta come Riviera dei Fiori e dominata dalla città dei fiori, Sanremo. «Già dalla fine dell’Ottocento, la produzione di fiori recisi di campo come i narcisi e le violacciocche, e delle fronde verdi, ha avuto un ruolo decisivo nella conoscenza internazionale della nostra città». Il presidente dell’Ucflor Mercato dei Fiori di Sanremo, Riccardo Giordano, racconta alcuni dettagli che legano la riviera ligure ai suoi fiori.
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Quali sono i fiori simbolo di Sanremo? «In generale tutti i fiori tipici della mazzeria invernale, ricordiamo in particolare i ranuncoli, gli anemoni, la ginestra, la mimosa ma anche tutta la gamma di verdi ornamentali tipici della nostra riviera come i ruscus, asparagus e fogliame». Quanto hanno contribuito i fiori all’immagine internazionale della città di Sanremo? «Già dalla fine dell’Ottocento, la produzione di fiori recisi di campo come i narcisi e le violacciocche, e delle fronde verdi, ha avuto un ruolo decisivo nella conoscenza internazionale della nostra città. Nei primi anni del Novecento, grazie alle condizioni climatiche favorevoli, che hanno permesso di ottenere una produzione floricola anche invernale, e allo sviluppo del trasporto
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ferroviario, Sanremo è infatti riuscita a instaurare fitte relazioni commerciali con l’estero, prevalentemente con Paesi del nord Europa. Iniziò in questo periodo la produzione industriale di fiori recisi con la coltivazione di garofani in “pien’aria”, resa possibile grazie alle temperature miti della riviera ligure. Ancora oggi i prodotti floricoli sanremesi varcano i confini nazionali grazie al lavoro della rete delle nostre aziende commerciali esportatrici. I nostri fiori arrivano nelle case di tutta Europa ma non solo; grossi quantitativi vengono spediti anche in Nord America, in Russia anche nelle provincie più lontane come Vladivostok e in Giappone». Quando Sanremo è divenuta la
La tradizione dei pescatori C’è chi dice che era il cibo dei navigatori, i quali dovevano compensare la loro alimentazione con le verdure. Chi ritiene sia nato dall’elaborazione della servitù che raccoglieva gli “avanzi” di nobili commensali. Certo è che il Cappon Magro è uno dei piatti simbolo della cucina ligure. E a Sanremo, allo storico ristorante Giannino, viene proposto tutti i venerdì. Non solo. Questo locale, simbolo tanto della tradizione quanto del rinnovarsi delle ricette tipiche della costa ligure, è anche sinonimo di freschezza, di cucina raffinata, proponendo sempre specialità di stagione, sapientemente curate dallo chef, oltre che titolare, Anna Tiburzio. E il gusto, così, si affaccia su uno dei lidi più belli del mondo.
RISTORANTE GIANNINO C.so Felice Cavallotti, 76 18038 Sanremo (IM) Tel. 0184 50.40.14
«Ranuncoli, anemoni, ginestre e mimose sono tra i fiori simbolo di Sanremo»
città dei fiori? «Al principio del Ventesimo secolo. Durante il periodo della belle epoque, il messaggio inviato da Sanremo tramite la sua produzione floricola è stato talmente significativo da determinare dei cambiamenti nella toponomastica locale. Infatti Sanremo è riconosciuta in tutto il mondo come “la città dei fiori” e la costa ligure come “la riviera dei fiori”». Quali sono i motivi per cui a Sanremo, l’arte dei fiori privilegia i recisi di campo? «Le ragioni sono principalmente legate alle condizioni climatiche; le temperature miti della riviera ci permettono infatti di coltivare i nostri fiori anche in inverno. Le condizioni geomorfologiche non sono invece ottimali per attuare una produzione su larga scala, in quanto il territorio su cui si estende la città di Sanremo è collinare.Tuttavia questa limitazione viene brillantemente superata, grazie alla costruzione di terrazze che ancora oggi caratterizzano il paesaggio ligure». Quali artisti dei fiori hanno partecipato a rendere noti i vostri fiori nel mondo? «I floral designer che hanno utilizzato i nostri fiori e partecipato ai nostri festival o saloni, sono numerosi e tra i migliori al mondo. Fra i più noti ricordiamo il norvegese Tor Gundersen, l’israeliano Ben Zion Gil e la tedesca Wally Klett». Tra le vostre varietà quali specie sono utilizzabili in ambito gastronomico? «Nonostante la gastronomia floreale abbia da sempre impegnato i grandi maestri dell’arte culinaria, per le nuove ricette degli chef contemporanei vengono spesso utilizzate le rose e la violetta».
Risotto alle fragole e petali di rose Ingredienti per due persone 150 gr. di riso carnaroli
100 gr. di fragole
1 l. di brodo vegetale
1 rosa rosa coltivata senza nessun tipo di trattamento chimico
1/2 bicchiere di vino bianco secco 1 cipollina fresca
parmigiano grattugiato per mantecare
Preparazione: In una casseruola far imbiondire nell’olio la cipollina tritata. Aggiungere il riso e lasciarlo tostare per un minuto. Versare quindi il vino, far evaporare e cominciare la cottura aggiungendo un po’ alla volta un mestolo di brodo. Nel frattempo lavate, pulite e frullate le fragole. Sciacquate bene i petali di rosa e asciugate con delicatezza. Dopo 15 minuti di cottura del riso aggiungere le fragole frullate, amalgamare e fate riprendere il bollore per altri 5 minuti circa. Spegnete il fuoco, e aggiungente 3/4 dei petali di rosa spezzettati. Mantecare con il parmigiano grattugiato. Portare in tavola decorando i piatti con gli altri petali interi di rosa.
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I luoghi dell’anima
NATURA,STORIA E RELIGIONE di ADRIANA ZUCCARO
Venezia bellezza. Milano conoscenza. Calcutta autenticità. Sono le equazioni primarie della vita di Stefano Zecchi. Grato all’educazione estetico-filosofica ricevuta in Italia, si è lasciato andare ai flussi di storia, religione e natura della “madre India”
arta e penna e via. In giro per Milano non vedremo Stefano Zecchi alle prese con la tastiera di un computer portatile. I suoi saggi e romanzi sono figli di un’arte scrittoria manuale, istintiva e pausata allo stesso tempo; sono espressione di una temporalità interiore captata e riflessa in tutti quei luoghi eletti dall’esperienza “vita”. Stefano Zecchi, scrittore, giornalista e docente di estetica, racconta la percezione della bellezza appresa nella sua Venezia e gli strumenti di conoscenza acquisiti nella sua Milano. Per lasciarsi infine conquistare dal ricordo dell’indomabile “madre India” dove la soggettività si dissolve in flussi di storia, religione e natura. Profondi, trascendentali, seducenti. Immaginando un viaggio proustiano alla ricerca dei luoghi dell’anima, quale ambiente racconta la sua infanzia e adolescenza? «La casa in cui sono nato, cresciuto e rimasto fino a circa i quindici anni. Almeno dal punto
C
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Venezia, Milano, Calcutta
di vista della facciata, credo sia la casa più bella del mondo perché fa una terrazza su piazza San Marco, il posto in cui si ha l’immediata percezione della bellezza. Quella casa è stata la mia più bella esperienza estetica. Credo, infatti, che Venezia mi abbia dato un sentimento particolare della vita, di serenità. Non esistevano le macchine e si poteva uscire
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I luoghi dell’anima
Venezia, Milano, Calcutta
Stefano Zecchi è nato a Venezia. È scrittore, giornalista, insegna Estetica all’Università Statale di Milano
di casa senza il rischio di venire improvvisamente travolti. Finito il liceo sono andato a studiare a Milano. Era la metà degli anni Sessanta e a chi veniva come me da un posto protetto e raccolto come Venezia, Milano dava gli strumenti per conoscere la vita». Se si improvvisasse guida “non turistica” a Venezia, quali luoghi presenterebbe ai suoi ospiti? «Non si può far troppo i presuntuosi ma a chi non ha mai conosciuto Venezia non si può non far visitare quelle che sono le mete turistiche di tradizione. Per cui il suggerimento che potrei dare è di perdersi tra le calli veneziane senza porsi alcuna meta. Gironzolare, gironzolare. Molti hanno paura di perdersi, ma in realtà non ci si perde mai a Venezia perché alla fine si arriva sempre in quei luoghi caratteristici che ti aiutano a ritrovare il cammino. Quindi da un lato, non si può non conoscere la piazza e la basilica di
San Marco, il Ponte dei Sospiri, Rialto e tutti quei posti che rientrano nella tradizione; dall’altro però, perdersi dentro le migliaia di callette, canali e ponti, è un’esperienza straordinaria». Quale zona predilige per le sue passeggiate tra le calli veneziane? «Se decido di perdermi in qualche zona di Venezia, vado verso Castello. In genere vanno di moda le Zattere ma a me piace passeggiare verso la Laguna, verso i bacini di San Marco e da piazza San Marco verso i giardini della
Ho appreso l’arte passeggiando con mia madre per Venezia. Lì ho capito che cos’è l’estetica. Una conoscenza delle espressioni artistiche ma anche un’educazione allo stile, al buon gusto, al rispetto 122 • Mete Grand Tour
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Biennale». Lontano dai ritmi metropolitani, qual è oggi il luogo in cui le piace rifugiarsi a Milano? «C’è da fare una premessa. Milano è una città che non vive all’esterno come Roma o Venezia. I bar non hanno quasi mai dei tavolini fuori per potersi sedere. Anche un bel verso di Saba e alcune riflessioni di Buzzati indicano come Milano viva dei suoi cortili e degli interni. Milano in sostanza è avara di esterno, non si espone. E questo spiega anche la sua tradizionale sobrietà, anche se oggi tende più a perderla. Il posto che più mi piace a Milano è la mia università, l’Università Statale. Con quei cortili rinascimentali del Filarete e il grande cortile barocco del Richini, credo che sia tra i posti più belli d’Italia, una realtà architettonica di grande accoglienza». Quali curiosità enogastronomiche suggerirebbe a chi intende visitare Milano? «Milano è per fortuna la città più
internazionale d’Italia e quindi a Milano il tipico non esiste. Il tipico è a Venezia con l’ombretta di bianco e il polipetto, ad esempio. A Milano c’è l’happy hour, il drink, c’è lo snack; si usano in inglese le parole che indicano il momento di relax. A Milano si mangia bene tutto, anche il pesce perché è fresco, ma il tipico è escluso». Il suo piatto preferito? «Mangio volentieri il pesce cucinato nel modo più semplice, cotto alla griglia, al forno o bollito e condito con una goccia d’olio.
Venezia, Milano, Calcutta
Il gianduiotto della laguna GELATI NICO Dorsoduro 922 Zattere - Venezia Tel. 041 52.25.293 www.gelaterianico.com gelateria.nico@tiscali.it
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Venire a Venezia e non fermarsi alle Zattere a degustare il favoloso “gianduiotto” della Gelati Nico significa rinunciare a uno dei rari piaceri genuini del palato. Locale storico, raccontato in tanti romanzi, da oltre 80 anni delizia veneziani e turisti con gli inarrivabili gelati, memoria di antiche ricette e di splendide, moderne combinazioni. La gelateria dispone di una piccola ma elegante sala interna e di una storica terrazza che si affaccia sul canale e che ha visto sedersi personaggi come Omar Shatiff e Louis Ginzberg, deliziati dai gelati e dai cocktail della Gelati Nico. Mete Grand Tour • 123
La buona tavola si reinventa con fantasia Oltre agli affezionati clienti veneziani, anche i turisti hanno imparato a conoscere questo elegante ristorante che della qualità del servizio, la cordialità, e l’estro dello chef fa le consolidate caratteristiche. La cucina, rispettosa delle materie prime del territorio, si adopera nell’intento di proporre tradizione e fantasia senza mai passare il limite. Note particolari per i crudi marinati proposti nel variopinto acquario, con piatti come il gran misto di pesce crudo, la pasta fatta in casa, le fritture croccanti e asciutte e una carta dei dessert degna di nota. Carta dei vini di buono spessore, anche nei rossi, con ricarichi modesti.
L’OSTERIA DI SANTA MARINA Campo Santa Marina, 5911 - Venezia - Tel. 041 52.85.239 Chiuso Domenica e Lunedì a mezzogiorno
Il pesce deve essere cucinato nel modo più semplice, alla griglia, al forno, bollito e condito con una goccia d’olio. Il pesce quando è buono deve essere lasciato assolutamente al naturale
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Non deve esserci nulla di particolare perché il pesce quando è buono deve essere assolutamente naturale. Poi mi piacciono gli spaghetti al nero di seppia o alle vongole». Il fascino dell’India quali sensazioni ha impresso nella sua memoria durante i soggiorni a Calcutta? «Calcutta è l’essenza dell’India. È un mondo che improvvisamente ti dà addosso in una maniera molto più potente della tua stessa individualità, della tua soggettività. Un mondo così forte che, stando lì, ti costringe a mettere in discussione le questioni più elementari della vita: l’amore, l’amicizia, la famiglia. E poi anche le questioni più enormi come la morte e la vita. L’India diviene madre delle tue sensazioni, delle tue emozioni. È una realtà che non potrà mai essere dominata soggettivamente ma che, al contrario, ti domina, ti controlla, ti costringe a esserne una sua parte». Che tipo di lettura emozionale può esperire quando ripensa all’Oriente? «I tre anni trascorsi a Calcutta hanno modificato la mia percezione del mondo e dei valori. L’India rimane dentro. Un viaggio
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I luoghi dell’anima
Venezia, Milano, Calcutta
organizzato per un paio di settimane non cambia niente perché generalmente rimane tutto in superficie e allora dà l’idea del caos, della miseria e della mancanza di una vita organizzata come quella occidentale. Invece vivendo lì ci si accorge che c’è un’altra idea di vita e un’altra idea di mondo. Queste sono cose che rimangono dentro, come la semplicità della gente conosciuta e i ragazzi a cui ho insegnato. Se dovessi riassumere in modo semplicistico la mia esperienza in Oriente, posso affermare di aver vissuto la sensazione di ciò che è l’autentico». Andava in cerca di ristornati italiani a Calcutta? «No, assolutamente. Sei così coinvolto che non riesci a importi. Poi ho trovato degli amici che mi hanno aiutato a conoscere la città e la parte intorno. Se dovessi dare un suggerimento a chi va lì è proprio di abbandonarsi ai flussi, alle sensazioni, agli odori. Mai cercare di ritrovare lì gli angoli
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della propria origine, della propria terra perché sarebbe un errore clamoroso. Il piatto indiano che mangiavo più volentieri è il Tandoori che di fatto è un modo di cucinare, un forno particolare dove si arrostisce il pollo o la carne. E poi il naan, il pane fatto in modo molto semplice che può essere anche ripieno al formaggio». Arte, filosofia e scrittura. Qual è il luogo che meglio di altri può raccontare le sue passioni? «Ho appreso l’arte passeggiando con mia madre per Venezia. Lì ho capito che cos’è l’educazione estetica: una conoscenza storica delle espressioni artistiche, pittoriche, architettoniche e scultoree ma anche un’educazione allo stile, al buon gusto, al rispetto perché questo è il senso della bellezza. Milano invece è stato il luogo in cui ho acquisito meglio gli strumenti per conoscere la vita e non per ultimo l’insegnamento filosofico dei grandi maestri come Paci, Geymonat, Remo Cantoni e Dino Formaggio. La scrittura è forse una sintesi e gli ambienti che più racconto sono l’India e
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Mentre l’Africa è potenza della natura e l’Europa cultura, l’India è un tutt’uno di storia, natura e religione
Venezia, per me i luoghi dell’anima più forti». Però quando decide di scrivere adesso rimane a Milano? «Ho sempre scritto fondamentalmente a Milano perché ormai c’è la mia casa. In realtà posso scrivere dappertutto, anche sotto le fronde di un albero, perché non scrivo con il computer ma a mano». Se decidesse di intraprendere un viaggio all’insegna della natura, quali sarebbero le tappe principali?
«Ho girato molto il mondo, dall’America all’Europa, fino in Africa però andrei sempre verso l’India perché l’India è natura, storia e religione messe insieme. Mentre l’Africa è solo potenza della natura e l’Europa solo cultura, l’India ha questo elemento molto forte che è la storia che si unisce alla natura e alla religione. Il senso del sacro che c’è in India non si trova da nessun’altra parte del mondo».
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Carne e pesce. I buoni piatti del territorio La passione di una gestione familiare che va avanti da oltre 80 anni. Un locale rustico ormai simbolo della tradizione muranese, dove gustare le specialità tipiche del territorio. La Trattoria Ai Frati dispone anche di un’ampia terrazza ristorante che affaccia direttamente sul Canal Grande di Murano, svelando una splendida vista. I piatti sono soprattutto a base di pesce, cucinati con ciò che di più fresco offre il mercato e spaziano dal-
l’antipasto di granzeola, al risotto di pesce Gò, alle seppie in umido con polenta bianca. Non manca comunque anche qualche piatto tipico a base di carne, come il buon fegato alla veneziana. I vini sono locali ma genuini e l’atmosfera è classica e cortese.
TRATTORIA AI FRATI Fondamenta Venier, 4 Murano (VE) Tel. 041 73.66.94 Fax 041 73.93.46
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Mete Grand Tour • 127
Il profilo culinario della Serenissima
ARTE A TAVOLA di STEFANO MARINELLI A Venezia si respira cultura anche al tavolo di un ristorante, soprattutto se si ha la possibilità di farlo a fianco della Fenice o nei pressi della Peggy Guggenheim Collection. Parola di Giovanni Trevisan
a qualunque prospettiva la si guardi,Venezia si distingue sempre per quella patina di storia e cultura che la riveste. E il profilo culinario della Serenissima non fa eccezione. È legato all’arte e alla storia, così come ogni angolo della città. «Il mondo della musica, per ovvi motivi, è sempre stato di casa al mio ristorante» – conferma Giovanni Trevisan, proprietario della Taverna La Fenice, situata proprio accanto all’omonimo Gran Teatro. «Sull'albo delle firme, si possono leggere nomi di personaggi celebri, da Strauss a Toscanini, da Strawinskij a Rubinstein, da Katia Ricciarelli a Pavarotti» prosegue Trevisan, a testimoniare che la Taverna ha sempre rappresentato negli anni un punto di riferimento per il mondo culturale che gravita
D «Il ristorante “Ai Gondolieri” si trova nelle vicinanze della Peggy Guggenheim Collection ed è spesso frequentato da pittori, artisti e politici» 128 • Mete Grand Tour
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Il profilo culinario della Serenissima
intorno al teatro. Infatti hanno fatto tappa nel ristorante nomi eccellenti non solo della musica, ma di tutto il mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo, che «in passato portò ai tavoli della Taverna anche Pirandello, Petrolini, Fregoli, senza dimenticare i vari Belmondo, Mastroianni, Deneuve, Moravia e tanti altri» racconta il proprietario. La Taverna si presenta con la classica struttura dei locali del ‘700 veneziano, rappresentando a sua volta un pezzo di storia della città. «Siamo in grado di offrire ai nostri ospiti pranzi e cene anche all’interno dello stesso teatro, nelle sue sale Apollinee» sottolinea Trevisan, dimostrando quanto sia stretto il legame fra il locale e La Fenice, anche dal punto di vista prettamente funzionale, e non solo culturale. Un’ulteriore dimostrazione di grande affinità fra cibo e cultura la si può apprezzare “Ai Gondolieri”, storico ristorante della città, sempre di proprietà del signor Trevisan. «Il locale si trova nelle vicinanze della Peggy Guggenheim Collection e delle Gallerie
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dell’Accademia – dice il ristoratore – ed è spesso frequentato da pittori, artisti e anche politici, italiani e stranieri». Nasce nei primi anni del Novecento e la sua insegna è in caratteri anni ’40, protetta come insegna storica dal Comune di Venezia. Ma in laguna il fascino dell’arte e della storia non ha mai oscurato la tradizione della cucina. «Che siano personaggi celebri o semplici turisti, chi viene a Venezia vuole comunque assaggiare le specialità del posto – sostiene Trevisan -, ma ama anche essere stupito e non mangiare sempre le stesse cose, quelle che si trovano ovunque». Per questo la cucina offre un menù controcorrente «dove non ci sono i tradizionali piatti di pesce, ma pietanze ispirate alle primizie stagionali e a carni molto particolari». Così il pesce viene bandito per lasciare spazio a «porchetta trevigiana, tacchinella con castraure, fegato alla veneziana, panzerotti con fonduta di montasio e tutti quei piatti – spiega il signor Trevisan - che appartengono al patrimonio gastronomico della zona, ma che a Venezia non rappresentano lo standard».
In apertura, il ristorante Ai Gondolieri Sopra, un piatto realizzato e interno del ristorante Taverna la Fenice
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Mete Grand Tour • 129
La purezza delle Dolomiti
Scalare, scolpire e scrivere
SOLO NEVE E GAMBE
di ADRIANA ZUCCARO
Lunghe camminate. Notti all’aperto. Cime mai raggiunte da nessun altro prima di lui. Dopo aver scalato le vette della Groenlandia, Nuovo Messico e California, la “naturale” ambizione di Mauro Corona continua a rifugiarsi tra le montagne delle Dolomiti friulane. Dove non nevica “firmato” ulla di convenzionale. Se per convenzionale si intende la risposta al “metropolitanismo” dilagante di questo Ventunesimo secolo. Un’asciutta, se pure magica forma di espressione corroborata dalle riflessioni che propone a se stesso, alla vita inanimata degli alberi, alle montagne rocciose, agli specchi d’acqua che intralciano i sentieri delle sue maestose Dolomiti, ai suoi interlocutori. Fuori dal tempo e dalle “grazie” della mondanità
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sciistica, l’alpinista-scultore-scrittore Mauro Corona, rifiuta «la catena di non rivelamento» cui è soggiogata una parte degli attori in scena, per denunciare la noncuranza ambientalistica raccontata dalle valli e alture friulane. «Continuano a fare impianti di sci e a estirpare boschi per creare nuove piste. Così non funziona. Dove è finita allora la purezza delle Dolomiti? Dobbiamo dire a voce alta come stanno le cose se vogliamo davvero amare la montagna. Altrimenti restano solo le chiacchiere». Con sincera e severa schiettezza, Mauro Corona
In apertura, Col Nudo è la montagna più alta delle Prealpi venete al confine tra la provincia di Belluno e Pordenone. Mauro Corona ne ha scalato la parete nord in 5 giorni
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Piccoli pezzi di storia Verocai, l’antiquario gioielliere per antonomasia a Cortina d’Ampezzo, un nome che è come un eco dalle mille evocazioni: il Tirolo ampezzano materializzato negli oggetti artistici più preziosi della plurisecolare storia della contea asburgica. Gioielli d’epoca unici e irripetibili, avorii e coralli; oggettistica in argento, peltro, vetro, avorio, bronzo, legno intagliato e intarsiato, quadri, sculture e mobili antichi: solo cose rare e particolari e ognuna con la sua storia che la titolare Marina, vedova del mitico professor Silvino Verocai, volentieri Vi racconterà.
Scalare, scolpire e scrivere
Mauro Corona è alpinista, scultore e scrittore friulano. Ha aperto più di 300 vie alpinistiche sulle sue montagne e non solo. È annoverato tra gli scrittori più amati d’Italia
racconta perché «la magia delle Dolomiti si rivela solo dove non nevica “firmato”». Quale itinerario suggerirebbe a un ricercatore dei luoghi “magici” delle Dolomiti? «Non è che voglio sempre tirare l’acqua al mio mulino ma suggerirei la Val Vajont perché accoglie luoghi che vale davvero la pena scoprire. Se si fa un giro della valle non si trova neanche un segno, neanche un bollino. Lì ancora non nevica “firmato”. Non proporrei di certo Cortina, Sankt Moritz, Courmayeur o Cervinia. Il mio itinerario “dell’anima” toccherebbe invece la Val Cimoliana. Raccomanderei poi il paesino di Claut, luogo scelto per i prossimi campionati mondiali di sci alpinismo, se pure non ospiti
VEROCAI ANTICHITÀ GIOIELLI DI MARINA MENEGUS Largo Poste 4 ang. C.so Italia Cortina d’ Ampezzo (BL) Tel. 0436 86.15.00
neanche un albergo e nessun impianto di risalita. Un paesino in cui è stato evitato lo scempio dei boschi a favore delle piste. Chi decide di salire non chiacchera soltanto perché quando si vuole una cosa pura e pulita si accetta il sacrificio che comporta raggiungerla. La montagna è quella. L’esempio di Claut lo porterò dappertutto perché credo sia straordinario ciò che sono riusciti a fare solo con la neve e le gambe». Cosa sono per lei le Dolomiti? «Sono le camminate, le notti all’aperto, le scalate da solo o con qualche amico con cui vale la pena accompagnarsi. Dove non nevica “firmato” tutto è per me magia. Arrivare dopo 15 ore di montagna in una piccola osteria, mangiare un panino e bere un bicchiere di vino. Basta con i tramonti rossi. La realtà è ben diversa. Continuano a fare impianti di sci e a estirpare boschi per fare piste. Così non funziona. Dov’è la magia? Dove è finita allora la purezza delle Dolomiti? Dobbiamo dire a voce alta come stanno le cose se vogliamo davvero amare la montagna. In quelle zone dove per andare a fare la spesa bisogna percorrere 15 o 20 km così come qui da noi in Valcellina, lasciano passare
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migliaia di tir colmi di ghiaia su una strada del 1901. Eppure il parco delle Dolomiti è stato riconosciuto patrimonio dell’Unesco». Quale delle sue scalate ha lasciato in lei un ricordo indelebile? «Sono stato in Groenlandia, in Nuovo Messico, in California sul Capitan. Credo però che la scalata più emozionante sia stata qui, sulle mie cime, quando insieme a due miei cari amici, Franco Miotto e Benito Saviane, abbiamo scalato la parete nord del Col Nudo in 5 giorni. Appesi lì, lontani dal mondo, senza poter scegliere di
tornare indietro, senza possibilità di soccorso. Un errore voleva dire la morte. Se dovessi quindi scegliere una delle molte scalate che ho fatto, quella del Col Nudo credo resti quella che mi lascerà maggiori ricordi». Quali tra i paesaggi esplorati e vissuti può essere annoverato quale “luogo dell’anima”? «Il luogo dell’anima c’è l’ha ognuno dove è cresciuto, dove l’infanzia torna a cercarlo. Può essere la famiglia, può essere l’osteria. Il mio luogo dell’anima è la Val Semola, a Erto. È lì che
In alto, a sinistra, uno dei rifugi della Val Vajont; a destra, Mauro Corona durante un’arrampicata sulle Dolomiti
In vacanza sulle Dolomiti L’Albergo delle Alpi, completamente ristrutturato e situato in centro città, offre ai suoi ospiti ogni comfort in un ambiente caldo e raffinato. 85 posti letto in camere dotate di servizi privati, aria condizionata, TV color con antenna satellitare, pay-tv, frigobar, telefono con uscita diretta, collegamento wireless. Il Ristorante delle Alpi conserva la tradizionale classe in un ambiente di raffinata eleganza. Offre sia specialità tipiche locali sia raffinati piatti di cucina internazionale accompagnati da vini esclusivi della fornitissima cantina.
ALBERGO RISTORANTE DELLE ALPI Via Jacopo Tasso, 13/15 - 32100 Belluno Tel. 0437 94.05.45 - 0437 94.03.02 Fax 0437 94.05.65 www.dellealpi.it info@dellealpi.it info@ristorantedellealpi.it
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Mete Grand Tour • 133
sono cresciuto anche facendo il pastore dai sette ai tredici anni. Ma potrebbe essere anche un altro posto perché in fondo viene da chiedersi “quale anima?” L’abbiamo persa, siamo cinici. Se posso quindi dire il luogo in cui vorrei che le mie ceneri riposassero in pace, questo è la Val Zemola. È lì che spargeranno le ceneri con un calcio alla cassetta senza tanti preamboli o preghiere». Cosa mangia un alpinista come lei durante le arrampicate? «Dipende. Se devo fare uno sforzo la mattina presto, mangio riso e carboidrati. Durante il giorno invece ci si porta dietro le barrette di assimilazione veloce che possono essere di cioccolato o muesli con il miele. Un’attenta alimentazione deve essere accompagnata da molto allenamento e camminate. Non bisogna eccedere con cibi pesanti o non bere troppo. Anche se in fondo non bisogna poi privarsi di
tante cose. Io mi bevo anche i miei bicchieri di vino ma la sera, ad esempio, se l’indomani non devo fare sforzi, non mangio di certo la pasta; piuttosto delle verdure, una bistecca o un po’ di pesce. Ma la giusta educazione alimentare andrebbe insegnata nelle scuole. Siamo indietro anni luce. La gente si alimenta male perché non sa». Nelle scuole francesi è stata introdotta l’arrampicata come materia obbligatoria. «I francesi sono più pratici e pragmatici di noi. Sanno che l’arrampicata sviluppa l’intelligenza motoria, il senso di decisione istantanea, la fiducia dei ragazzi in se stessi. Noi italiani siamo un popolo di calciofili e mi va benissimo, ma non bastano il calcio e la Ferrari. Stiamo perdendo ad esempio la manualità, l’uso delle mani. Non sappiamo più fare un orto o catturare una lepre o un coniglio. Nelle scuole andrebbero fatti insegnare anche gli artigiani, i contadini e le guide alpine. La gente si perde, molla il sentiero, muore di freddo perché non sa accendere un fuoco e ritrovare il
La purezza delle Dolomiti Scalare, scolpire e scrivere
La petuccia è un prodotto tipico delle valli del pordenonese. È prodotta con carne di selvaggina; oggi, più spesso, di pecora o montone anche misturata con carne di manzo, tritata e impastata con una concia di sale, pepe, finocchio selvatico o altre erbe, pressata o insaccata e quindi, fatta affumicare
Vivere i lenti ritmi della natura Punto di partenza ideale per escursioni sulle Dolomiti o, più semplicemente, punto di ristoro e riposo per soddisfare la nostalgia di una vita dai ritmi più umani, l’Agriturismo Casa De Bertoldi offre piccoli appartamenti da due o sei posti, dove l’ambiente familiare ritrova i suoi spazi. Qui si può vivere accanto alla natura dove i rumori dell’aia
arrivano sussurrati e dalle finestre si godono splendidi panorami. L’agriturismo De Bertoldi alleva, per suo uso e consumo, manzi, maiali, oche, galline e conigli: animali tenuti con la cura della tradizione bellunese. Sulla tavola di legno massello arrivano gustose pietanze frutto di una produzione realmente naturale. Il ristorante è aperto dal giovedì alla domenica.
AZIENDA AGRICOLA CASA DE BERTOLDI Via Pedecastello, 40 - Castion (BL) Tel. e Fax 0437 92.50.76 - Cell. 340 73.35.807 www.casadebertoldi.it casadelbertoldi@libero.it
La purezza delle Dolomiti
Scalare, scolpire e scrivere
cammino di ritorno». Esiste un rifugio enogastronomico in cui poter trovare prodotti tipici delle Dolomiti friulane? «I prodotti tipici sono quasi dappertutto in Italia. Non so perché dimostriamo un inconscio affetto, una costante promozione e salvaguardia dei prodotti tipici. Qui in Friuli, alla Molassa ad esempio, c’è un ristorante che per trovarlo, bisogna avere la bussola. È situato in cima a una rupe tra Barcis e Andreis. Guardare giù verso il burrone che troneggia fa venire la pelle d’oca. Lì preparano i piatti tipici della Valcellina come la petuccia, carne affumicata mista a pane grattato; oppure la polenta fatta con zucca, accompagnata dai fagioli. Sono poi qui diffusi per esempio i salumi con l’aglio. Molti sono i prodotti caratteristici friulani e ogni paesino propone il suo». Tra scrittura, scultura e arrampicate, in quale luogo torna a rifugiarsi? «Vorrei innanzitutto precisare una cosa. Scalare, scolpire o scrivere sono facce di una stessa azione, cioè togliere. Io devo togliere legno se voglio
Il 44° patrimonio Unesco domina l’Italia Nove gruppi dolomitici per un’estensione complessiva di 142 mila ettari, cui si aggiungono altri 85 mila ettari di “aree cuscinetto”, per un totale di 231 mila ettari, suddivisi tra le province di Trento, Bolzano, Belluno, Pordenone e Udine: questo il patrimonio dell’umanità sancito dall’Unesco a Siviglia il 26 giugno del 2009. Con le Dolomiti, i siti italiani patrimonio dell’Unesco sono diventati 44 e l’Italia è il Paese che ha il maggior numero, davanti alla Spagna, che ne ha 40.
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vedere una scultura; devo togliere parole per non diventare noioso e prolisso; nella rampicata, devo togliere movimenti per superare velocemente un passaggio pericoloso. La vita stessa è come scolpire: bisogna togliere, sempre, a volte anche molte chiacchere superflue.Tra le mie esperienze, quella californiana sul Capitan mi è piaciuta molto ma c’era troppa gente. Lì ho capito di essere anch’io “gente” e ho deciso di sottrarmi al caos. Mi piace stare qui dove trovo ancora cime in cui non è mai salito nessuno. Se nella Val Vajont, nella Valmontina, nella val di Bosconero si guarda per aria si vedono dei campanili bellissimi e inesplorati. Ed è in momenti simili scatta l’ambizione umana e quindi anche la mia. Io ho sempre l’ambizione di dire “sto appoggiando le mie mani dove nessun essere umano dalla creazione del mondo non le ha mai appoggiate”. Quando arrivo su una cima mai scalata, un’emozione potente mi pervade». Quante cime ha scalato nella sua vita? «Una volta lo dicevo perché ero ambizioso. Quando ho raggiunto più di 300 vie nuove, ad esempio, l’ho comunicato al Club Alpino Italiano, alle riviste e ai giornali specificatamente alpinistici. Ma da 15 anni a questa parte ho fatto molte vie e cime nuove ma non lo dico più a
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Panorama mozzafiato e sapori montanari Ai piedi della Marmolada, regina delle dolomiti, uno scenario mozzafiato. Siamo in una delle zone più belle delle Dolomiti e l’Agriturismo Malga Ciapela si propone come base di partenza per escursionisti e scalatori. Qui si possono assaporare tipici piatti montanari, antipasti di salumi e formaggi, polenta con spezzatino, formaggio fuso, funghi e salsiccia, seguiti dai dolci panna montata coi mirtilli, yogurt, strudel e crostate. Tutti di produzione propria. Particolare attenzione merita il formaggio di malga prodotto a latte crudo garantito dal marchio C.E.
AGRITURISMO MALGA CIAPELA Ss Via Gran Pian, Malga Ciapela - Rocca Pietore (BL) Tel. 0437 62.611 Cell. 347 72.01.307 – 348 30.41.660 agriturismo_malgaciapela@hotmail.com
nessuno perché finalmente tutta l’ambizione che avevo l’ho un po’ ridimensionata. Di fatto parlo delle mie esperienze di scalatore attraverso i miei libri perché rappresentano la mia fonte di sopravvivenza. Ma se ci domandiamo “perché mettiamo tanto di nome e cognome alle nostre opere, belle o brutte che siano?” la risposta sarà “perché siamo degli ambiziosi”. Quando Borges tentò di fondare una rivista i cui collaboratori
dovevano risultare anonimi, il progetto fallì perché, come raccontò poi Borges, nessuno voleva essere il primo degli anonimi. Il mio sogno è invece proprio quello scrivere senza apporre al libro il mio nome e cognome. Il problema? La gente non compra a scatola chiusa». Cosa sogna per le sue montagne? «Vorrei che si continuasse, come diceva Pessoa, a rinverdire.Vorrei che la gente provasse a rinverdire, a mantenere l’entusiasmo e a essere naturale. Sarebbe bello se la gente lasciasse le automobili a margine delle zone di villeggiature. Ma l’umanità non può essere naturale quando non ha più fede nel futuro. C’è un calo di fede in noi stessi e in quello che verrà. E l’ho capito anch’io ma mi sforzo di essere naturale. La gente dice la vita è tutta qui? Allora mangio, bevo e vado in macchina. Ecco dove principia la fine del mondo. C’è il nichilismo imperante. L’animo umano si sta consumando. Non ha più entusiasmo. Ed io mi ritrovo disarmato».
In queste pagine, alcune panoramiche delle Dolomiti dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità
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Mete Grand Tour • 137
Valle Imperina
La montagna dimenticata
T A destra, il direttore del Parco nazionale Dolomiti Bellunesi, Nino Martino
SUI PASSI DEI CARBONAI di NICOLÒ MULAS MARCELLO
In una cornice incantevole come quella delle Dolomiti, esiste una piccola valle ricca di storia e di tradizioni che ancora oggi, attraverso i suoi ruderi, racconta la vita dei minatori che l’hanno popolata per secoli: la Valle Imperina. Nino Martino fa da guida attraverso i segreti di questi luoghi
ra le imponenti catene montuose sopra Belluno, alle porte del Parco nazionale Dolomiti Bellunesi, c’è un caratteristico sito che per secoli ha rappresentato uno dei più importanti centri minerari d’ Europa. Si tratta della Valle Imperina, luogo di rilevante importanza storica e antropica del Parco, che testimonia una cospicua attività di estrazione di pirite cuprifera durata fino al 1962. La prima notizia certa di una produzione di questo metallo in Valle Imperina risale al 1417. Nel secolo successivo la miniera venne sfruttata dalla Repubblica di Venezia per realizzare le cuspidi dei campanili e spesso anche per gli scafi delle navi. Ora il sito è un importante centro didattico di archeologia industriale che testimonia le varie fasi di estrazione e lavorazione del minerale. «Nel villaggio minerario – spiega Nino Martino, direttore del Parco nazionale Dolomiti Bellunesi – sono visitabili i forni fusori e il centro visitatori del parco, ospitato nella vecchia centralina idroelettrica. La viabilità interna del villaggio è tutta percorribile a
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piedi e si possono vedere anche gli ingressi delle gallerie Santa Barbara e Magni». Come si presenta l’area dal punto di vista geologico? «Qui passa un’importantissima linea di faglia: la linea della Valsugana, che è il confine “geologico” meridionale delle Dolomiti. La frattura ha portato in superficie rocce antichissime, che contengono anche la mineralizzazione di pirite cuprifera, utilizzata
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per secoli dall’uomo». Le vie utilizzate per trasportare e lavorare il minerale sono oggetto di recupero e valorizzazione. Quali località interessa il “sentiero dei carbonai” e qual è il percorso che circoscrive l’area? «Il Parco nazionale Dolomiti Bellunesi, con la collaborazione della Comunità montana Agordina, del Comune di Rivamonte e della Regione, ha recuperato il villaggio minerario di Valle Imperina e la viabilità che un tempo utilizzavano i minatori per recarsi al lavoro. Qui si incrociano due itinerari tematici del Parco: “la via degli Ospizi”, che congiunge la Certosa di Vedana con Valle Imperina percorrendo la Val Cordevole e toccando antichi ospizi medievali e “la montagna dimenticata” un itinerario di sei tappe, per complessivi 40 chilometri, che ripercorre vecchie strade realizzate per scopi militari e i
sentieri utilizzati dai minatori. Il percorso parte dal forte di forcella Moschesin e termina ai resti delle miniere di mercurio di Vallalta. Quello che viene chiamato “sentiero dei carbonai” è in realtà un pezzo della montagna dimenticata: itinerario tematico curato dal Parco». Riva d'Agordo, oggi Rivamonte Agordino, è stata una comunità mineraria di lunga durata, nella quale il lavoro e la sua cultura si sono tramandati per secoli di padre in figlio fino al 1962. L’attività ha dato anche una forte spinta all’economia locale. Come si presenta oggi la zona e cosa rimane delle testimonianze di chi viveva questi luoghi? «Resta il complesso minerario di Valle Imperina, uno dei siti di archeologia industriale più importanti dell’arco alpino. La
Valle Imperina
La montagna dimenticata
Tra escursioni nel verde e cucina casereccia Situato nello splendido scenario delle Dolomiti, l’Albergo Trieste fa della tranquillità e della pace del luogo, nonché della cordialità e della gentilezza tipica della conduzione familiare i suoi punti di forza. La famiglia Tremonti gestisce tutta l’attività allo scopo di creare per i propri ospiti una calorosa atmosfera di un ambiente caratteristico. Il ristorante propone una cucina genuina, con i piatti tipici del territorio, quali cansunziei, funghi, speck e ricotta affumicata, cacciagione, da accompagnare ai migliori vini veneti e friulani. Indimenticabili i dessert preparati in casa.
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ALBERGO TRIESTE Viale Città di Genova, 266 - Lorenzago di Cadore (BL) Tel. 0435 75.004 www.albergotrieste.it - hotel@albergotrieste.it
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zona oggi è assai diversa: anticamente brulla per effetto del taglio del bosco e delle piogge acide legate alle attività di lavorazione del minerale, oggi queste montagne sono ricoperte da un bosco rigoglioso e sono inserite nel Parco nazionale Dolomiti Bellunesi. Testimonianze del passato sono anche le abilità artigianali di qualche anziano “caregheta” che contribuiscono a far proseguire una plurisecolare tradizione di costruttori e impagliatori di sedie, che partendo da Rivamonte Agordino andavano in tutta Europa. II Parco promuove queste attività tradizionali con il marchio Carta qualità». Il centro minerario rappresenta oggi una delle porte d’ingresso del Parco. Lungo il percorso sono ancora presenti
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Sopra, un’antica casa dei minatori; a sinistra, il museo del Centro minerario
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Valle Imperina
La montagna dimenticata
Sopra, le cascate della Valle Imperina
gli edifici dei forni per la fusione e la raffinazione del rame. È possibile visitare questi siti? Si organizzano escursioni a tema? «Nel villaggio minerario sono visitabili i forni fusori e il centro visitatori del parco, ospitato nella vecchia centralina idroelettrica. La viabilità interna del villaggio è tutta percorribile a piedi e si possono vedere anche gli ingressi delle gallerie Santa Barbara e Magni (che però non sono visitabili all’interno). Durante l’estate il Parco organizza mostre d’arte all’interno dei forni fusori. Quest’anno, dall’1 agosto al 5 settembre ci sarà una mostra di Paolo Del Giudice. Gli orari di apertura del centro visitatori e dei forni sono 1 maggio - 30 giugno: sabato, domenica e festivi 13.30-18.30, 1 luglio - 31 agosto: tutti i giorni 13.30-18.30, 1 settembre - 1 ottobre: sabato e domenica 13.30-18.30. L’ingresso è libero. A Valle Imperina ci sono anche un ostello del Parco e un ristorante. Le guide del Parco, riunite
nella Cooperativa Mazarol, organizzano escursioni guidate. Maggiori informazioni alle pagine www.dolomitipark.it e www.parks.it/ost/imperina/». Questo sentiero si inserisce nella suggestiva cornice del Parco. Ci sono progetti di recupero dei siti minerari? «Il sito minerario è stato recuperato grazie ad un lavoro che dura ormai da più di dieci anni e che ha comportato investimenti per oltre 6 milioni di euro. Il progetto per il futuro, se si troveranno fondi, è la riapertura di una parte delle gallerie sotterranee».
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Vivere la natura Piccola azienda agrituristica a conduzione familiare, Malga Canidi è legata all’attività di alpeggio del bestiame in malga: una cinquantina di bovini, alcuni ovini, caprini e qualche cavallo. In malga viene lavorato il latte munto giornalmente e prodotto un formaggio fresco a pasta pressata semicotta che viene interamente venduto in loco. Ma presso l’agriturismo ci si può fermare per una sosta in mezzo alla natura, gustando la tipica polenta cotta sul fuoco a legna con formaggio cotto in padella con una noce di burro e un trito di cipolla, accompagnata da vari affettati di produzione propria. L’Agriturismo è raggiungibile dalla Valbelluna, a circa 12 Km dall’incrocio di Gus, oppure da Follina attraverso la Claudia Augusta Altinate.
AGRITURISMO MALGA CANIDI DI NELLO VENTURIN Loc. Canidi - Mel (BL)
Cel. 348 76.20.146 – 349 72.74.255 – 346 63.42.220
144 • Mete Grand Tour
sabrinaventurin@libero.it
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IL TRIONFO DELLA BUONA TAVOLA
La cucina piemontese
di ALVISE BEVILACQUA
Con il suo libro Cotto e mangiato è entrata nelle nostre cucine. Benedetta Parodi, alessandrina di origini, ama i sapori semplici. Qui racconta il Piemonte d’estate, un tripudio di tavolate en plein air. Dal salamino di Mandrogne agli agnolotti
Tra sagre e feste di piazza
La cucina piemontese
Tra sagre e feste di piazza
on c’è borgo senza sagra. Il Piemonte, d’estate, è un tripudio di cantine aperte, assaggi e feste di piazza in cui deliziare il palato con i tanti prodotti Dop o Igp. Piemonte e Alessandria in particolare. «Ogni paese è una scoperta», avverte Benedetta Parodi, alessandrina doc che, con il suo Cotto e mangiato (edito da Vallardi), è entrata, con semplicità, nelle cucine di tante signore, e forse anche signori. Suggerendo ricette «veloci, facili, economiche» e soprattutto «golose», capaci di sollecitare «la fantasia» dei novelli chef. «Mi piace una cucina in cui si sentono i sapori soprattutto quando sono naturali – confida Benedetta Parodi –. Ad esempio, se si comprano dei porcini, è un peccato affogarli nella panna o anche solo metterci il sugo rosso». Ecco perché i funghi per condire «le tagliatelle, basta farli rosolare con un semplice soffritto di aglio e un po’ di prezzemolo». Tavolate en plein air, ma anche castelli, spesso vicini di casa di «cantine con vini meravigliosi». Accade così che «un giorno si va a mangiare il
n Sopra, la giornalista chef, Benedetta Parodi; a fianco, una veduta del castello di Brignano
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salamino di Mandrogne: un insaccato di magro speziato all’aglio che io preferisco grigliato». E un altro scatta il tour degli agnolotti. «Ogni paese – racconta la giornalista – ha i suoi agnolotti. C’è chi li fa con la carne bollita, chi con la carne brasata, chi con la carne d’asino. Insomma sono un’istituzione domenicale. Ci si sposta di pochi chilometri e … via con gli agnolotti». Palati peripatetici. E la sera «si dorme in agriturismo», uno dei tanti rustici che punteggiano un territorio che ha fatto dell’accoglienza il suo fiore all’occhiello. Tanti i profumi che possono guidare olfatto e gusto dei gourmet. Ad esempio, seguendo il bouquet di un vino ci si mette sulle tracce di «Andar per cantine, castelli e … vinerie», un importante itinerario turistico, giunto alla decima edizione. Una rete di 55 aziende vinicole e 12 vinerie che, fino a ottobre, spalancano le loro porte per gli amici di Bacco.
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«Mi piace una cucina in cui si sentono i sapori soprattutto quando sono naturali. Ad esempio, se si comprano dei porcini, è un peccato affogarli nella panna o anche solo metterci il sugo rosso»
La cucina piemontese
Tra sagre e feste di piazza
Un’esperienza tra arte e sapori Al Ristorante Pisterna si possono ammirare dipinti di arte moderna concessi dalla galleria d’arte Repetto. Le tre sale che lo compongono, Ruggeri, Frangi e Lacognata prendono il nome proprio dalle opere che ospitano. Un ambiente che soddisfa occhi e palato. Ammirando le opere d’arte, si possono assaporare nuove ricette e sapori che miscelano la tradizione con l’innovazione. I menù variano frequentemente per garantire sempre la massima qualità della materia prima. Non mancano i piatti a base di pesce e il foie gras e, nel periodo autunnale, sua maestà il tartufo bianco. La cantina offre una vasta scelta di vini nazionali e internazionali.
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RISTORANTE PISTERNA Via Scatilazzi, 15 - Acqui Terme (AL) Tel. 0144 32.51.14 Fax 0144 35.27.37
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Agnolotti Gli agnolotti a Tortona li chiamano “Gobein” e si presentano con piccole gobbe perché la pasta è ben schiacciata a mano sul ripieno, la loro forma è rettangolare. A Tortona gli agnolotti sono più piccoli di quelli fatti nel Monferrato e risultano molto saporiti per l’abbondante parmigiano e la loro cottura. Ingredienti per 6 persone: 1 kg. carne (vitello, manzo e maiale) 1 cipolla 2 coste di sedano 1 spicchio di aglio 1/2 litro di vino 400 gr. di farina 6 uova 200 gr. di parmigiano grattugiato brodo q.b. sale, pepe, noce moscata. Preparazione: Aggiungere alla farina 4 uova intere, 1 cucchiaio di parmigiano e poca acqua in modo che risulti una pasta soda e ben lavorata e lasciare riposare. Intanto per il ripieno, tagliare la carne a pezzi regolari e rosolarla in una casseruola con il burro, la cipolla, la carota e le coste di sedano tritate e lo
Nella pagina a fianco lo storico Raduno Motociclistico Internazionale Madonnina dei Centauri ad Alessandria
Tour a cavallo fra arte, gastronomia, campagna, vini, tartufi e frutta. Un intreccio che riunisce una ragnatela di aziende vitivinicole con le loro tenute e le loro cantine aperte, ristoranti tipici, enoteche, attività agrituristiche ricettive artigianali, castelli e luoghi di interesse storico culturale. Da notare che le vinerie che partecipano garantiscono sempre la presenza nella “lista dei vini” di almeno 10 vini Doc o Docg della selezione speciale del concorso enologico “Marengo Doc” della Camera di Commercio e della Provincia di Alessandria, e di almeno 5 vini e grappe prodotti da aziende presenti nel circuito “Andar per cantine, castelli e …
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spicchio d'aglio schiacciato; quando saranno rosolate, salare e bagnare con il vino rosso, lasciare stufare a fuoco lento sino a cottura. Quando la carne è cotta, tritarla fine e, in una terrina, amalgamarla con due uova, il parmigiano, il sale, il pepe, un pizzico di noce moscata. Tirare la pasta in due fogli sottili: sul primo mettere il ripieno a pallottoline e con il secondo ricoprire pigiando bene attorno al ripieno, tagliare gli agnolotti con l'apposita rotella dentellata. Lessare gli agnolotti per 5/6 minuti e scolarli al dente, condirli con burro fresco o buon sugo di carne. servire con abbondante parmigiano.
Ricetta di Aldo Domanda, executive chef al ristorante ‘il Cenacolo’ (piazza Castello, Lerma Al) e presidente Associazione Cuochi Alessandria
vinerie”. Ma non è tutto. Luglio è un fiorire di sagre, da quella della tagliatella e del cinghiale a Basaluzzo a quella dei malfatti di Momperone fino alla festa del vino e della nocciola a Lu Monferrato. Senza trascurare, la celeberrima partita a scacchi, con pedine viventi, sulla scacchiera della piazza principale di Castelnuovo Bormida. Allietata da cena medioevale, corteo storico e spettacolo degli sbandieratori. Oppure lo storico raduno motociclistico internazionale Madonnina dei Centauri ad Alessandria, giunto alla 65esima edizione e considerato uno dei più importanti eventi del
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mototurismo europeo, organizzato dal Moto Club Madonnina dei Centauri di Alessandria. Durante la manifestazione vengono organizzati alcuni tour enogastronomici nell'alessandrino al fine di conoscere le bellezze del territorio. Nell’area del raduno si possono trovare due birrerie, un ristorante oltre a numerosi stand del settore motoristico. Spettacoli freestyle nei tre giorni della manifestazione. Concerto del sabato sera e domenica si conclude con l’imponente sfilata dal Santuario di Castellazzo ad Alessandria con la partecipazione di migliaia di motociclisti.
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La cucina piemontese
Tra sagre e feste di piazza
Per chi cerca i vantaggi dell’alimentazione naturale Al Ristorante Torino Michele Tamburrino e Andrea Gallinaro hanno dato nuova linfa a questo storico locale proponendo pane, pasta e pasticceria preparata in casa secondo le ricette tradizionali piemontesi con farine biologiche macinate a pietra. Piatto tipico del ristorante è il coniglio in peperonata, raffigurato anche sul piatto del buon ricordo (il locale è affiliato all'Unione Ristoranti del Buon Ricordo). Da gustare antipasti, primi piatti, agnolotti, rabaton, risotti, la carne cruda alla monferrina con tartufo, il carrello dei bolliti e i deliziosi dolci, inebriati dai migliori vini piemontesi e nazionali anche certificati bio. Il ristorante è informato dall’Associazione Italiana Celiachia per gli intolleranti al glutine e propone anche una cucina per chi è intollerante a frumento, latte, solanacee, e piatti vegetariani.
RISTORANTE TORINO Via Vochieri, 108 - Alessandria Tel. e Fax 0131 55.752 www.bioristorantetorino.it bioristorino@tiscali.it
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INNAMORATO DI BOLOGNA Così si definisce, senza mezzi termini, Cesare Cremonini. Che nella sua città vive, scrive e assapora preziosi momenti di pace. Ecco la sua Bologna, tra i ricordi dell’infanzia e la musica
Per le vie di Bologna
I portici e le osterie
di LARA MARIANI
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e luci dei lampioni verso sera sono più arancioni dei tramonti a primavera. L’ora in cui Bologna entra in scena è l’ora in cui le donne di una volta vanno in chiesa solo un gatto vagabondo è in cerca di una fede passeggera”. È la seconda strofa di una canzone che Cesare Cremonini ha dedicato alla sua città. Si intitola “Piazza Santo Stefano”, ma non l’ha scritta seduto sui gradoni della piazza guardando la chiesa. E nemmeno appoggiato su uno dei “fittoni” che ogni tanto sbucano dai sanpietrini. L’ha scritta mentre era lontano. In Argentina, perché durante il viaggio non poteva fare a meno di tornare con la mente a casa. Gli mancava la sua città. E questa mancanza si è presto trasformata in musica. In una di quelle melodie che trasmettono intensità anche a chi quei luoghi non li ha mai visti. “Piazza Santo Stefano ha un segreto le rondini dal cielo fanno spesso avanti e indietro. E portan via i colori dell’inverno proteggono i passanti come i portici dal vento. E volano, volano via”. Ma cominciamo dal principio, dai suoi ricordi
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Cesare Cremonini, nato e cresciuto a Bologna ha pubblicato di recente “1999 2010 The greatest hits”
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Una veduta di Piazza Santo Stefano, detta anche Piazza delle Sette Chiese. La Piazza, spesso utilizzata per manifestazioni culturali e concerti, è circondata da importanti palazzi storici
d’infanzia, per scovare i luoghi della sua anima, gli indirizzi delle sue emozioni. Dove sei nato? «In un piccolo paesino appena fuori Bologna, ma praticamente in campagna, Colunga. Un borgo di appena quattro case, anzi quattro case e una chiesa, subito dopo Idice. Caratteristica di Bologna è che una volta usciti dal centro, in poco meno di 15 minuti, ci si ritrova in mezzo alla campagna. Ed è proprio nella campagna bolognese che sono nati i miei primi ricordi, le cene con i nonni, i natali, i compleanni, l’estate con l’anguria e soprattutto i tramonti coloratissimi.Tutta la mia prima infanzia è legata
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alla famiglia e ai tramonti di Colunga». In seguito ti sei trasferito nel centro della città, a cui tuttora sei legatissimo. Cosa in particolare dell’infanzia a Bologna ha lasciato un’emozione unica dentro di te? «Sicuramente la fiera di Santa Lucia in strada Maggiore. Ai tempi vivevo di fronte alla Chiesa dei Servi e quel piccolo mercatino natalizio sotto il portico riusciva a trasmette in tutta la via un’incredibile e calda atmosfera». E da Strada Maggiore a Piazza Santo Stefano il passo è stato breve. «Piazza Santo Stefano è il luogo in cui mi
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trovavo a 16 anni con gli amici per fare due chiacchiere seduti sotto il portico. Per me è sempre stata il simbolo, il cuore pulsante della città. E non solo perché è un luogo fuori dal tempo che non ha perso il suo fascino, ma perché i suoi portici per me sono sinonimo di aggregazione, di incontro, di ritrovo». Effettivamente Bologna fino a qualche anno fa era considerata una città molto accogliente.
«Per me lo è ancora. E i portici sono il simbolo di questa città nel mondo. Di una città dove è facile incontrarsi, confrontarsi, scambiarsi pensieri e opinioni. E questa bolognesità, capace di abbracciare più culture non deve smarrirsi, neanche in futuro». Eppure c’è chi sostiene che Bologna non è più la stessa. «In generale la società sta cambiando, stiamo vivendo un momento storico di passaggio
Riscoprire i sapori di una volta L’agriturismo Calderino sorge in un casale, risalente al 1828 e completamente ristrutturato, e domina una larga ansa del fiume Lamone. Si allarga su 9 ettari di terreno, impiantati a frutteto secondo i principi dell’agricoltura biologica. Nomi di fiori contraddistinguono gli 8 appartamenti dotati di ogni comfort compresa dispensa con alimenti di base. Al piano terra, un’ampia sala dove gustare cene a base di piatti tipici ro-
AGRITURISMO CALDERINO Via Galamina, 11 - Fraz. Sarna - Faenza (RA) Tel. 0546 43.170 - Cell. 328 59.68.312 www.agriturismocalderino.it
magnoli. L’agriturismo è anche luogo di produzione. Qui si raccolgono frutta di stagione e prodotti dell’orto, per conservarli secondo le ricette di una volta. Confetture, sciroppi e gelatine di frutta si possono scoprire nella dispensa dei prodotti tipici.
Per le vie di Bologna
I portici e le osterie
I portici sono il simbolo di questa città nel mondo. Di una città dove è facile incontrarsi, confrontarsi, scambiarsi pensieri e opinioni e questi momenti spaventano, rendono le persone più chiuse e impaurite. Non c’è posto in cui oggi non si dica “si stava meglio quando si stava peggio”, ma nonostante tutto per me Bologna rimane una città accogliente, in cui è facile sentirsi a casa». Quali sono i locali dove più che in altri si respira la bolognesità? «La mia bilancia ha sempre contato quei 4/5 chili in più per colpa del ristorante “Alice” in via d’Azeglio. Il proprietario, Oscar, è un mio grande amico è per me l’emblema della bolognesità. Anch’io ho aperto un’osteria con qualche amico, si chiama “La Tigre”. Insieme cerchiamo di mantenere quel legame tra il bolognese e
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l’osteria tipica, un legame che solamente alcuni locali antichi di Bologna, sopravvissuti in questi ultimi 30 anni, hanno saputo mantenere». Uscendo da Bologna, quali sono i posti in cui ti piace rifugiarti? «Amo molto una località della Basilicata, Maratea. Ci andavo in vacanza con i miei genitori, ma soprattutto qui ho scritto la mia prima canzone, “Vorrei”. Ero in treno e dovevamo viaggiare leggeri, non potevo portare con me la chitarra, così mi sono messo a scrivere. E quello è stato l’inizio di tutto. Anche se il luogo dell’anima per scrivere canzoni rimane Bologna, perché è qui che faccio meno fatica a guardarmi dentro e a vivere momenti di pace».
Una veduta dall’alto del centro di Bologna e dei suoi portici
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LA TOSCANA IN SCENA di NIKE GIURLANI
Ricordi che si perdono tra poesie, suggestioni uditive e immagini evocative. Fiesole, Firenze, la Maremma, Lucca: questi i luoghi, tra passato e presente, prediletti dal maestro Giorgio Albertazzi per il quale, però, la Pescaia rappresenta il luogo ideale nel quale rifugiarsi
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a zona di Fiesole rappresenta la sua infanzia, le sue origini. Proprio qui, grazie al regista Athos Ori ha scoperto la passione per il teatro. Se percorre le strade che attraversano le colline degli inglesi riaffiorano immagini e suoni celati spesso da un cancello chiuso. La Maremma rappresenta, invece, il presente, il luogo dove vive la contessa Pia De Tolomei,
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sua moglie e dove si rifugia appena può, attratto dal fascino selvaggio e intenso del paesaggio. Per il maestro Giorgio Albertazzi non esistono, però, dei luoghi che sente particolarmente suoi, «ci sono più che altro dei luoghi poetici, come direbbe Borges, ai quali sono fortemente legato – racconta l’attore – e uno di questi è senz’altro la casa di mio nonno a San Martino a Mensola». Quali ricordi le tornano in mente se ripensa alla sua infanzia fiesolana? «L’antica chiesetta di San Martino a Mensola, dove sono stato battezzato da un parroco irruente chiamato dai fiorentini “frusta passere”, ma soprattutto la casa dove sono nato. Mio nonno lavorava come maestro muratore nella villa “I Tatti”di Bernard Berenson e noi vivevamo nella dependance. Nel grande parco della villa, tra verde, statue e fontane, Berenson ospitava da Thomas Mann a Winston Churchill, alla regina Vittoria, a Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse e tanti altri. Ricordo un grande lucernaio giallo e una finestra che dava sul parco. Io e Robi, mio fratello, ci affacciavamo
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IL MIO FIUME Apro la finestra e ho gli occhi pieni d’Arno oliva oliva come i tram di una volta la mia Firenze della fine di marzo giù da San Miniato agli specchi di Santa Trinita trionfante e sobria come una campanella francescana il camioncino delle verdure scende ai mercati e tesse un’aria serica – liscia coi fari accesi di prima mattina È giorno. Non si odono voci nel crepitio della pescaia Poesia inedita di Giorgio Albertazzi, 1960
da quella finestra attratti dalla musica in certe sere di primavera, e soprattutto da ragazze che correvano felici, ci sembrava. Berenson, con la sua barbetta pirandelliana, fece murare la finestra proprio da mio nonno: il buon uomo a malincuore eseguì l’ordine. Il giardino dei Tatti mi è rimasto precluso da sempre, perfino quando con una troupe televisiva, anni fa, siamo andati per girare un’intervista in quei giardini, la direttrice inglese, ora la villa è sede della fondazione dell’Università di Harvard per lo studio del Rinascimento italiano, disse: “No”». Ci sono dei luoghi di Firenze ai quali è particolarmente legato? «Firenze è una città straordinaria. Dietro i
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quartieri storici, i suoi grandi e importanti monumenti, il Duomo, il campanile di Giotto, insomma tutta la Firenze dei Medici, si cela la mia Firenze: più appartata si nasconde nelle strette vie medioevali, intorno al Teatro della Pergola (l’arco di San Piero, la Salita Dei Bardi, Piazzale Michelangelo) o nelle cosiddette colline degli inglesi, fra pinete e uliveti che ispirarono Elisabeth Browning e D’Annunzio. Resto comunque un uomo del contado, che da Fiesole va a Firenze, che allo stadio siede nella curva sud». Quali, in particolare, i luoghi più cari? «Sicuramente Settignano resa celebre dal suo scultore, Desiderio da Settignano, che ha
In apertura Giorgio Albertazzi; in alto una veduta dell’Arno
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I luoghi poetici Dalle ville ai teatri
A destra, la Villa “I Tatti”, attualmente sede della fondazione dell’Università di Harvard per lo studio del Rinascimento italiano; nella pagina seguente, un tipico paesaggio maremmano
contribuito con la sua arte a impreziosire questo piccolo paese. Qui, in un antico teatro del Cinquecento ebbe luogo la mia iniziazione teatrale, con “L’allegro principe” di Athos Ori, in una compagnia amatoriale. Fu una splendida ragazza, più grande di me di qualche anno, che mi convinse a fare teatro. Si chiamava Noris, la conobbi sull’autobus che prendevo andando a scuola. Era molto bella e quando mi chiese se volevo andare a fare teatro a Settignano le dissi subito di sì: se mi avesse chiesto di andare a fare una rapina avrei detto ugualmente di sì. Un altro dei luoghi della memoria è una stradina a Settignano che separa la villa La Capponcina di D’Annunzio dalla Porziuncola di Eleonora Duse. Chi dei due attraversava la strada, ci domandavamo noi ragazzi, per gli incontri
amorosi? Ogni volta che vado lì, immagino il latrare dei levrieri di D’Annunzio, lo scalpitare dei suoi cavalli». Ma oltre che curiosare dal di fuori, è mai riuscito ad intrufolarsi in qualche
Piccoli tesori artigianali Da novantadue anni la ditta Baldini è conosciuta per la produzione artigianale di maniglie, pomi, borchie, battenti e chiavi in stile e anche accessori da bagno, appliques e lampadari. Ubaldo iniziò l’attività nel 1918 riproducendo e riparando le guarnizioni e gli accessori dei mobili antichi in qualunque stile. Fin dall’inizio conservò il modello di ogni pezzo che riproduceva o restaurava, spesso bronzi importanti che antiquari e collezionisti portavano nella sua bottega. La ditta Baldini vanta una collezione di modelli forse unica al mondo. Alla morte di Ubaldo la figlia Wilma continuò l’attività per quasi cinquanta anni per poi lasciarla ai due operai più giovani Andrea Fantoni e Gianluca Albanese, attuali titolari.
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giardino? «C’è una località a Castel di Poggio che noi chiamavamo il lago del Leader, era un luogo chiuso, vietato, ma insieme ai miei amici spesso saltavamo il cancello perché all’interno si nascondeva un meraviglioso laghetto di un colore verde bottiglia, molto intenso. Era un luogo misterioso, romantico, dal fascino decadente». Una località che resta fuori dai classici tour che meriterebbe di essere visitata? «San Miniato in Monte. Qui c’è una chiesa mirabile, un capolavoro dell’architettura del Duecento. Tutta la zona collinare che circonda Firenze è da scoprire, perché non si può rimanere che affascinati dalla morbida tenerezza di questi paesaggi, con pini, cipressi e olivi, che ben descrisse Gabriele D’Annunzio ne “La sera
fiesolana” e che dipinse Giotto. E poi l’Erta Canina, cara a Ottone Rosai e Pian dei Giullari». Che cosa rappresenta invece la Maremma?
Preziosità. Ieri come oggi Dal 1965 sul Ponte Vecchio, che è da secoli la culla del “gioiello”, la Famiglia Vaggi, ormai giunta alla terza generazione, mantiene viva la passione per la tradizione orafa fiorentina ancora oggi realizzata a mano da sapienti maestri orafi. La Gioielleria Vaggi propone una vastissima gamma di gioielli di produzione propria e antichi offrendo inoltre articoli di oreficeria, argenteria per la casa e orologeria dei più famosi marchi. La Famiglia Vaggi gestisce con orgoglio la Boutique Gianmaria Buccellati e presenta in esclusiva su Firenze: Roberto Coin e Breitling.
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«Nell’immaginario di noi ragazzi la Maremma era il luogo delle paludi, dei grandi buoi dalle corna bianche, dei cinghiali: qui avvennero i famosi scontri tra i cow-boy di Buffalo Bill e i butteri, che ebbero la meglio. Oggi è il luogo dove, nella sua tenuta La Pescaia, vive mia moglie Pia, diretta discendente della Pia dantesca (“Siena mi fé, disfecemi Maremma”), fra cani e cavalli, in un paesaggio selvaggio, che nasconde un’anima profonda, intensa e raffinata, che è riuscita a dar valore a se stessa. Il carattere
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di Pia si rispecchia perfettamente con il paesaggio: apparentemente brusco, nasconde una grande tenerezza. La Maremma è un luogo speciale, unico al mondo. Forse solo nelle coste della California o della Terra del Fuoco in Argentina, si possono assaporare le stesse atmosfere». Dove porterebbe un gruppo di amici in visita in Maremma? «Li porterei fra i boschi, i torrenti e sulle spiagge sabbiose, desertiche, dove spesso si incontrano dei robusti tronchi di legno che sembrano delle sculture, molto simili ai paesaggi africani». Se chiude gli occhi, qual è il primo luogo della Toscana che le viene in mente? «In Toscana ogni borgo, ogni pietra, è ricco di cultura, di storia, di arte. La Toscana vale le sue pietre, tutto si ricostruisce con le pietre, “purché siano autentiche”, come dice l’Imperatore Adriano nelle “Memorie” della Yourcenar. Sicuramente la Pescaia è un luogo a me molto caro, ma ce n’è un altro che mi viene subito in mente. Si tratta della tomba di Ilaria del Carretto a Lucca. Questa città è entrata nel mio cuore leggendo Sparkenbroke di Charles Morgan. Già conoscevo la storia di Ilaria del Carretto, ma attraverso questo scrittore ho rivissuto la vita della “santa liberatrice che viene dal mare”». Quali sono i primi sapori che le vengono in mente di queste zone? «La pappa con il pomodoro, il tortino di carciofi che si mangia alla Buca dell’Orafo vicino a Ponte Vecchio e infine la bistecca mangiata in una trattoria di Maiano, una località non distante da Ponte a Mensola, vicino alla Villa di Poggio Gherardo, dove Boccaccio scrisse il Decamerone».
I luoghi poetici
Dalle ville ai teatri
A sinistra in alto, la spiaggia della Pescaia; sotto, il monumento funebre di Ilaria del Carretto a Lucca
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Firenze culla d’arte
L’ARTE IN CAMERA di STEFANO MARINELLI lloggio in un Bed and Breakfast e visita in un museo. Sembra il tipico programma del turista che decide di trascorrere un weekend nella culla dell’arte per eccellenza, Firenze. Meno scontata, invece, è la possibilità di fare entrambe le cose nello stesso momento, nel medesimo posto. Casa Schlatter incarna l’idea, assolutamente originale, del Bad and Breakfast-museo, dove gli ospiti possono godere della vista di numerose opere autentiche, realizzate nelle stanze di questa antica dimora di lusso ai piedi delle colline di Fiesole, dal pittore e scultore, vissuto e assai apprezzato all’epoca dei macchiaioli e simbolisti. Un raffinato antipasto, prima del banchetto d’arte e cultura, offerto dal capoluogo toscano. «La residenza è stata restaurata con cura, nel completo rispetto dell'atmosfera originale, i quadri stessi, di ragguardevoli dimensioni, non sono mai stati spostati dalla loro collocazione originale – garantisce Alessandra Schlatter, pronipote dell’artista ed ex antiquaria e arredatrice – conservando così tutto il fascino del tempo, senza dover rinunciare però a tutti i comfort: aria condizionata, tv e internet». L’edificio risalente ai primi del Novecento, costruito dallo stesso Carlo Adolfo Schlatter, dopo che la sua famiglia si trasferì in Italia dalla Svizzera, dispone di tre
A Sopra, l’ingresso di Casa Schlatter. Sotto, un autoritratto di Carlo Adolfo Schlatter
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L’antica residenza di Carlo Adolfo Schlatter, uno dei pochi esempi a Firenze di studio di artista dei primi novecento, è diventata un Bed and Breakfast. Le opere esposte nelle sue camere conducono alla scoperta di una Firenze indimenticabile
camere. «Ognuna delle tre camere ha un suo nome, legato alla propria storia, e ognuna è caratterizzata da un quadro del mio bisnonno» rivela Alessandra. La camera “Carlo Adolfo”, un tempo parte integrante dello studio dell’artista, è detta anche “camera dei cigni”, «per la presenza di una grande tela in cui è raffigurata una coppia di maestosi cigni», mentre la camera “Emma”, appartenuta alla signora Schlatter, ha una connotazione decisamente femminile, dove pezzi di antiquariato sono accostati al rosa intenso del pavimento e delle pareti, e ad un grande quadro «che affronta il tema romantico dello sgretolarsi del tempo, appartenente al periodo decadentesimbolista del pittore», spiega Alessandra. E Infine la camera “del Giardiniere”, decorata dalla collezione di acquerelli orientali di soggetto botanico e arredata da mobili con intagli floreali. Così Alessandra Schlatter, è riuscita a racchiudere una goccia dell’atmosfera d’arte fiorentina, in un luogo dedicato all’accoglienza del turista. www.casaschlatter-florence.com
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L’ODORE DEL MARE I profumi e i sapori d’infanzia non si scordano mai. Nemmeno dopo molti anni trascorsi in giro per il mondo. Succede anche di svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte desiderando ardentemente una pietanza del paese natio, com’è capitato a Giovanna Botteri
È
Crocevia di culture
di SIMONA CANTELMI
nota per i suoi reportage dalle zone di guerra, tra cui Bosnia, Afghanistan e Iraq. Un approccio deciso alla telecamera, che le permette di comunicare quasi a tu per tu con lo spettatore, coinvolto direttamente nel racconto. Giovanna Botteri ha viaggiato e viaggia molto per lavoro, ma la sua città natale vive in lei ed è costantemente nei suoi pensieri. La sua storia inizia a Trieste, crocevia di lingue e culture diverse, che si mischiano e compenetrano. «Sono nata e vissuta in Gretta – spiega la giornalista – quel pezzo di collina che sovrasta Barcola e il mare, accoccolata ai piedi di Prosecco e Monte Radio». Si conosce Prosecco per il celebre vino, ma ad avergli dato il nome è la frazione di Trieste sull’Altipiano Carsico, che in lingua slovena è detta “Prosek”. «Si andava “giù” in città, o “su”, in Carso. Da
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Sognando Trieste
La giornalista Giovanna Botteri è attualmente corrispondente della Rai dagli Stati Uniti
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Sognando Trieste
Crocevia di culture
In alto, rosone della Cattedrale di San Giusto
bambini, mio fratello Marco e io giocavamo assieme ai vicini nella “Campagneta”, selvatica e a suo modo rischiosa, con qualche vipera nascosta, gli alberi da cui regolarmente cadevi, le battaglie con le castagne. Altrimenti la nonna ci accompagnava al Faro della Vittoria, dove tutto era un po’ misterioso, anche per via del guardiano e la sua famiglia che abitavano così in alto, e quella spianata bianca che metteva in soggezione». Da bambini tutto è più magico e l’immaginazione è vivida e questi paesaggi solleticano, anzi accendono la fantasia. «Al primo raggio di sole, si andava al mare. E non c’è niente di più struggente ed emozionante di quell’odore di mare fuori stagione, delle passeggiate a Miramare cercando i sassi piatti da far saltare sulla superficie del’acqua e i gabbiani offesi da
quell’invasione prematura. La passeggiata finiva sempre al Castello di Miramare, uno dei luoghi più magici della città. Era come essere catapultati in un’altra epoca: le sale con i velluti e quei giardini meravigliosi...». Aggirandosi per le sale della lussuosa dimora nobiliare si viene proiettati nell’Ottocento e quasi ci si aspetta di vedere l’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo conversare con la moglie Carlotta del Belgio e si potrebbe quasi aver timore di disturbarli, considerando l’alone intimo e familiare che circonda gli ambienti. Se contaminazione e multiculturalità possono essere due parole chiave per descrivere Trieste, lo stesso può dirsi per il Castello di Miramare, poiché nella sua linea
La certezza di un ristorante che sceglie da sempre la qualità Piuttosto che offrire piatti di pesce non freschissimo, il Ristorante Al Bagatto ha preferito chiudere un giorno, o proporre solo menù di carne. Questa è la dimostrazione della serietà che da 45 anni dimostra un locale che da sempre vuole dare a Trieste il luogo dove assaporare il meglio del pesce fresco giornaliero. Dal mese di marzo, Al Bagatto è aperto solo per il turno serale, per dare la possibilità ai clienti di apprezzare le creazioni culinarie anche con un orario prolungato.
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RISTORANTE AL BAGATTO Via Cadorna, 7 - Trieste - Tel. 040 30.17.71 albagatto@libero.it
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Gnocchi di susine È una ricetta di origine mitteleuropea e in Italia è tipica del Friuli Venezia Giulia. È dedicata soprattutto a chi apprezza le preparazioni dolci e salate assieme. Una pietanza che è fusione armonica tra sapori ben si addice a una città multiculturale come Trieste.
Ingredienti per 6 persone 1 kg di patate
architettonica si riscontrano modelli tratti dai periodi medievale, gotico e rinascimentale e l’aria austera del castello si fonde alle rilassanti tinte del giardino e alla placidità del mare. Giovanna Botteri, quando torna a Trieste, ricerca pace e armonia in poche e semplici cose. «A Trieste ho sempre bisogno di vedere il mare. Andare a Barcola, sedermi all’aperto, sole o Bora non importa, respirare l’aria salmastra, bermi “un capo in b”, cioè un capuccino ristretto nel bicchiere di vetro, e leggermi un libro». Barcola fa rima con relax, poiché classico luogo di passeggio per i triestini durante tutto l’anno e, nelle estati più calde e afose, meta di bagnanti, che si ritrovano in particolare ai “topolini”, piattaforme balneari che sono anche luoghi di aggregazione per chi va al mare. La calma del mare? Non solo, perché Barcola è anche teatro di un evento molto “affollato”: dal 1969 ogni anno nel mese di ottobre nel mare antistante la frazione si svolge un’importante manifestazione nautica, la Barcolana, la più gremita regata velica del Mediterraneo, con quasi duemila barche partecipanti. Trieste è anche città di scrittori. «È bello
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150 g di farina 0 (quantità leggermente variabile a seconda dell’umidità delle patate) 200 g di farina di grano duro Prugne secche 100 g di pane grattugiato 120 g di burro 2 uova Zucchero Cannella Sale
Preparazione: Lessate le patate con la buccia deponendole a freddo in abbondante acqua poco salata, pelatele e passatele ancora calde con lo schiacciapatate. Lasciate raffreddare completamente il passato e poi impastatelo con le uova, la farina e un pizzico di sale. Formate dei rotoli del diametro di circa 3 cm e tagliateli a tocchetti di circa 3 cm. Deponete ciascun tocco sul palmo di una mano e infilate al suo interno mezza prugna e un cucchiaino scarso di zucchero, richiudete bene l’impasto e dategli una forma sferica. Fate fondere 20 g di burro e rosolatevi il pane grattugiato. Lessate gli gnocchi in acqua bollente e salata e pescateli con il mestolo forato quando vengono a galla. Conditeli con il resto del burro fuso, il pane grattugiato tostato, lo zucchero e la cannella.
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Parco San Giovanni Il comprensorio dell’ex ospedale psichiatrico provinciale è costituito da un parco di circa 22 ettari e ha al suo interno quaranta edifici di varie dimensioni, collegati tra loro e alla rete urbana cittadina. Dopo la chiusura dell’ospedale psichiatrico gran parte delle costruzioni era stata abbandonata al degrado. Oggi alcuni edifici sono dell’Università degli Studi di Trieste e la Provincia ha riconsegnato alla città il Teatrino di San Giovanni, dopo averlo ristrutturato e averne recuperato la funzionalità. L’intero comprensorio è stato valorizzato e si presenta come un insieme omogeneo e organico, nonostante i diversi soggetti
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presenti nell’area (Università, Comune, Provincia e Azienda sanitaria). Tanti sono gli eventi che vengono organizzati, tra cui “Horti Tergestini”, mostra mercato di piante e arredi per il giardino che si svolge ogni primavera, la più importante mostra del settore, nonché di cerniera con l’Est, grazie a una capacità organizzativa dovuta anche all’alta qualità degli espositori. Innumerevoli sono eventi, manifestazioni e spettacoli estivi.
Per maggiori informazioni e-mail: gabinetto@provincia.trieste.it web: http://www.provincia.trieste.it gabinetto@provincia.trieste.it www.provincia.trieste.it
arrivare in treno o in macchina, quando il golfo si apre lentamente ai tuoi occhi. Fermarsi al Castello di Duino, dove Rilke scrisse alcune delle poesie e lettere più intense, poi a Miramare e farsi tutta la passeggiata di Barcola, fino a giungere in piazza dell’Unità d’Italia, dove prendere un caffè al Caffè degli Specchi, per poi proseguire nella vecchia parte della città, risalendo, come faceva Umberto Saba, verso San Giusto da cui godersi la vista di tutta la città. Poi riscendere verso Trieste, in via Giulia al caffè San Marco, per vedere se Claudio Magris sta ancora scrivendo. Consiglierei di concludere il percorso a San Giovanni, dove c’è il bellissimo parco che ospitava una volta il vecchio manicomio chiuso da Franco Basaglia». Trieste è stata fonte d’ispirazione per Rainer Maria Rilke, che durante il suo soggiorno a Duino ha scritto le Elegie Duinesi e per Umberto Saba, per il quale la città è un tema caro in più di un componimento (basta pensare alla celebre raccolta Trieste e una donna). I sapori e gli odori dell’infanzia rimangono nella memoria e basta poco per farli ritornare a galla, come Marcel Proust
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con la sua “madeleine” in Alla ricerca del tempo perduto. «Trieste ha straordinarie e antiche pasticcerie. La Bomboniera, Eppinger, La Cubana. Io ricordo ancora, però, il profumo che usciva dalla panetteria dei genitori della mia compagna di classe Rosanna Matucanza, che si trovava lungo la strada che percorrevo per andare a scuola ogni mattina. Preparavano dei panini dolci, che tagliavano a metà e dove io mettevo la mia tavoletta di cioccolato: a contatto con il
pane caldo si scioglieva e il profumo di pane e cioccolato usciva da sotto il mio banco durante le prime due ore di scuola, finché non suonava il campanello e potevo finalmente far merenda. Ho mangiato panini dolci e cioccolato fino al ginnasio». Ogni terra ha i suoi odori e sapori, che rimangono impressi nella mente e permeano alcuni eventi o particolari del passato di ognuno. «Quando torno a Trieste – prosegue Giovanna Botteri – la prima tappa è
In alto, a sinistra, rose del parco San Giovanni; a destra, l’interno del caffè San Marco di Trieste
Di tutto un po’
RIGATTERIA DI PINTO Via Malcanton, 12 - Trieste Tel. e Fax 040 63.08.66 www.rigatteria.com
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Una vasta scelta di libri antichi e moderni, oggetti, mobili, quadri, stampe e curiosità di ogni tipo dalla metà dell’800 agli anni ’50. Tutto questo si può trovare alla Rigatteria Di Pinto nel cuore di Trieste. Inoltre, articoli da collezione di vario genere, dalle cartoline d’epoca alle fotografie di fine secolo, dai dischi 78 giri ai vinili anni ’60 ai moderni CD. Laura e Claudio, i due titolari, si occupano personalmente degli acquisti e sono sempre alla ricerca di cose nuove e curiose da proporre alla loro clientela. Il negozio non chiude mai per ferie ed è aperto anche la terza domenica di ogni mese in occasione del mercatino delle pulci.
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Trieste, crocevia di lingue e culture diverse, che si mischiano e compenetrano
In alto, particolare della Cattedrale di San Giusto, che mette in evidenza la compresenza di diversi stili; sotto, veduta della Barcola con, sulllo sfondo, faro della Vittoria
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sempre dalla signora Maria, da Sardoz, a Precenico. Chifeletti di patate con goulash o sugo di cacciagione, e poi gnocchi di susine: certe notti a New York mi sveglio di soprassalto, perché mi capita perfino di sognarli». Trieste è città di confine, aspetto che ha influenzato numerose famiglie del territorio, fra le quali quella di Giovanna Botteri, di padre triestino e madre montenegrina. La città organizza manifestazioni che promuovono la multiculturalità e rievocano le vicende del passato. «La scorsa estate c’è stata una bellissima celebrazione delle giornate della cultura ebraica. Di fronte alla sinagoga, in piazza San Francesco, è stata eretta la “tenda di Abramo”, un modo simbolico per ricordare come una città che ha vissuto e sofferto sulla sua pelle le diversità di razza, lingua, religione e idee politiche possa alla fine trasformare il buio della sua storia in una luce più forte per guardare il futuro». Cosa dire di più di Trieste? Giovanna Botteri vuole tenersi qualcosa per sé: «ma un po’ di segreti ce li volete lasciare a noi triestini, o no?».
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PROFONDO BLU Il colore del mare e del cielo. Brillante e intenso, che può sfumare in diverse gradazioni secondo la luce e le condizioni climatiche. Renato Balestra, che ha a che fare ogni giorno con tinte e nuance, per le sue creazioni si è ispirato alla sua città natale
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di SIMONA CANTELMI
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uando le pieghe di un abito, di un blu vivace e gradevole, avvolgono il corpo di una donna e ne accarezzano la pelle sembrano le onde del mare di Trieste, che lambiscono la riva quasi volendo andare incontro al cielo e ai palazzi. È quello che accade alle realizzazioni di Renato Balestra, perlopiù caratterizzate da un blu intenso, altre con accostamenti di altre gradazioni di blu, azzurro e verde, proprio come le sfumature dello specchio marino di fronte al Castello di Miramare o alla Barcola. Lo stilista è cresciuto durante un periodo di fermento culturale, intellettuale e artistico, che lo ha formato e gli ha dato importanti input per la professione. Quali sono i luoghi di Trieste sfondo di sue vicende giovanili che ricorda con piacere? «Ricordo con grande piacere la mia giovinezza a Trieste, dove ho fatto i miei primi studi fino al primo anno di liceo. Per quanto riguarda l’università ho fatto i primi due anni a Padova, poi sono tornato a Trieste per gli ultimi anni dell’università. Ho memoria soprattutto di un grande fermento in quegli anni: Trieste era una
La mia Trieste
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città con molta cultura, noi ragazzi respiravamo l’atmosfera dei grandi triestini, scrittori, poeti, artisti, che stimolava il nostro intelletto e che richiamava costantemente la nostra attenzione. Mi ricordo il Caffè degli Specchi, dove si radunavano i grandi della letteratura. Nello stesso tempo, ricordo la grande passione per il mare: appena potevamo andavamo al mare a fare grandi nuotate in compagnia. Stavamo sempre all’aria aperta, aspetto che ricordo molto bene. Il mare era un leit motiv nella nostra vita». Quali sono i luoghi della città più suggestivi e particolari per lei oggi?
Come le onde del mare
In apertura veduta dalla Barcola; sopra, Renato Balestra;
Ghiotti soggiorni triestini La tradizione rinnovata: è questo lo slogan che la nuova gestione dello storico Ristorante Daneu ha scelto per sintetizzare la sua idea di ristorazione. Il locale, attivo dal 1903, esprime in modo inconfondibile la tradizione culinaria locale, formando una cospicua rassegna di piatti tipici locali. L’offerta culinaria viene accompagnata dalla possibilità di soggiornare presso L’Angolo dei Ciliegi, residence completamente rinnovato, dotato di monolocali e bilocali con angolo cottura, immersi nella tranquillità del Carso triestino, e punto di partenza ideale per la visita di Trieste, nonché di innumerevoli siti turistici italiani, sloveni e croati.
RISTORANTE DANEU Strada per Vienna, 76, Villa Opicina (TS) Tel. e Fax 040 21.12.41 ristorantedaneu@libero.it angolodeiciliegi@libero.it
Jota carsolina Ingredienti 300 gr. di fagioli rossi 500 gr. di crauti acidi 100 gr. di lardo 2 patate grosse 200 gr. di pancetta affumicata 3 cucchiai di farina 5 spicchi d'aglio 1 cipolla kummel alloro sale e pepe q.b.
ANTICA TRATTORIA SUBAN via E. Comici 2/d Trieste Tel. 040 54368 www.suban.it anticatrattoria@suban.it
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Preparazione Mettere a bagno i fagioli la sera prima. La mattina seguente scolarli, lavarli e cuocerli in acqua con 3 foglie d’alloro e 100 grammi di pancetta. A parte rosolare l’aglio fino a doratura quindi aggiungere la rimanente quantità di pancetta tagliata a pezzettini, un cucchiaio di farina per addensare e i crauti lavati e scolati. Insaporire con il kummel, salare e pepare, quindi ultimare la cottura aggiungendo un po’ d’acqua. Dopo circa un’ora incorporare le patate e farle cuocere assieme ai fagioli. A parte preparare un soffritto con olio d'oliva lardo cipolla e cuocerlo fino a ottenere un colore ambrato. Ultimata la cottura dei fagioli e delle patate, passare metà del contenuto al setaccio e rimetterlo nel brodo di cottura. Aggiungere al tutto i crauti e continuare la cottura a fuoco lento per due ore.
«Per me sono rimasti sempre quelli. Anni fa feci una grande sfilata a Piazza dell’Unità, che a mio avviso è una delle più belle piazze d’Italia. È seguita poi una sfilata evento al Teatro Verdi, al quale sono molto legato perché ricordo che da giovane, quando ero spiantato e senza nulla, andavo ad assistere agli spettacoli nel loggione: tornare dopo anni a fare i costumi di scena per le grandi opere, come ad esempio per “I Cavalieri della Rosa”, è stata un’emozione. Adesso è qualche anno che manco da Trieste e appena ho un po’ di tempo voglio tornarci. Poi vorrei tanto avere l’occasione o che mi invitassero per tornarci anche col mio lavoro. Mi farebbe molto piacere». Storia e arte a Trieste. Ci sono luoghi a cui è particolarmente legato o opere d’arte per lei emozionanti o che guarda con particolare interesse, essendo anche lei artista, attento a luci, colori, forme e armonie? «Già da ragazzo ero molto attento all’arte. Ho cominciato a studiare pittura quando avevo quattordici anni. Mi ricordo la prima lezione: mettevo il nero per le ombre e mi dicevano “Le ombre hanno colore, non azzardarti a mettere il nero quando fai l’ombra ma usa il colore”; questo è il primo ricordo che ho dei miei primi approcci con la pittura. D’altra parte nella mia famiglia c’è stato un pittore abbastanza famoso, Antonio Balestra, del quale ci sono dei quadri alla pinacoteca di Villa Revoltella a Trieste. Si respirava l’atmosfera dei grandi scrittori, come Saba, Joyce. Poi soprattutto credo che i colori di Trieste mi abbiano influenzato: il mio blu in fin dei conti è un colore tipico di Trieste». Parliamo dell’aspetto enogastronomico. Quali sono i sapori di
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La mia Trieste
Trieste che Lei preferisce? «C’è una minestra che si chiama “iota”, fatta con crauti, fagioli, patate e pancetta. Poi ci sono dei molluschi che ho trovato quasi solo a Trieste: i mussoli. Inoltre, lo strudel è una mia grande passione. Ci sono tanti piatti tipici che mi piacciono ancora molto e che tento di mangiare ogni volta che vado a Trieste». Ci sono locali caratteristici?
«L’Elefante bianco, Suban, c’è il bar e ristorante dell’albergo Duca degli Abruzzi, il Savoia. Poi le gelaterie e alcuni locali in riva al mare, a Grado per esempio». Pensa spesso a Trieste? «Certo, vorrei aggiungere che i corsi e ricorsi della vita esistono. Oggi a Roma vivo in una via che ha lo stesso nome della via in cui vivevo a Trieste».
Come le onde del mare
Sopra, il giardino di Villa Revoltella
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Un’eleganza sobria e funzionale L’albergo, una nuova costruzione nel rispetto dell’architettura delle antiche case del Carso, è situato sull’altipiano carsico nel centro di Basovizza. Ed è di recente apertura. Dispone di 21 camere ed è strutturato in tre edifici, la casa madre, la Dependance Center Hotel e la nuova Dependance Lipa, inaugurata nel ottobre 2009, per un totale di 46 stanze. Le tre strutture si trovano una vicino all’altra e dispongono di aree di parcheggio. Le camere sono tutte
arredate con gusto e semplicità, nel rispetto di un ideale di eleganza sobria e funzionale. Sono dotate di bagno con doccia e asciugacapelli, telefono, TV satellitare, minibar, aria condizionata e cassetta di sicurezza. Nelle immediate vicinanze si trovano i laboratori del Sincrotrone di Trieste e dell’Area Science Park. L’albergo é in posizione strategica anche per i viaggi verso la Slovenia e la Croazia o per visitare la città di Trieste.
CENTER HOTEL Via Igo Gruden, 43 - Basovizza (TS) Tel. 040 92.21.334 www.centerhotel.it info@centerhotel.it
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ALLA CORTE DEI DOGI di VINCENZO MENICHELLA Da dimora dell’aristocrazia veneziana ad albergo esclusivo. Il recuperato fascino di Villa Contarini Nenzi, dove si sposano eleganza, riposo e benessere
Dosson di Casier, in provincia di Treviso, sorge Villa Contarini Nenzi, storica residenza di un’antica famiglia veneziana, costruita nel XVIII secolo e riportata recentemente al suo antico splendore, per offrire l’esclusiva opportunità di trascorrere un periodo di relax a pochi passi dalla laguna veneziana. Immersa in un verdissimo parco, la villa è il luogo ideale per soggiorni di villeggiatura o affari, in un’atmosfera signorile, intima e riservata. Tra le più influenti della Repubblica di Venezia, la famiglia Contarini, forse per le stesse esigenze di tranquillità e riposo, costruì la villa dotandola di due barchesse, una scuderia a tre piani, munita di granaio e fienile, e una chiesetta-oratorio. Situato nei pressi del Terraglio, strada storica che collega Treviso a Venezia, il complesso presenta un impianto lineare e classico, dove il corpo centrale, che si sviluppa su tre piani, è unito alle costruzioni adiacenti da due bassi porticati che formano una corte; gli interni, arredati con mobili d’epoca, sono arricchiti da eleganti stucchi ottocenteschi, bassorilievi, ceramiche, alcuni quadri della scuola di Jacopo Bassano e sfoggiano una pavimentazione in terrazzo veneziano. Nel corso degli anni la residenza è stata acquisita dalle più importanti famiglie della Serenissima: i Guizzetti, gli Antonini, i Della Rovere e infine, i Nenzi. A partire dagli anni ’60 fu in parte ristrutturata dall’Istituto per l’Infanzia di S. Maria della Pietà, che lo utilizzò come convitto per gli orfani. Solo la recentissima opera di restauro, che ha trasformato la villa in un Hotel 4 stelle
Villa Contarini Nenzi
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Residenza d’Epoca, le ha restituito decoro, adeguando i suoi locali alla nobiltà delle sue origini. L’ambiente della villa, circondato da un ampio giardino con palme e alberi secolari, si presenta come un elegante rifugio dallo stress e dalla turbolenza cittadini, qui si può trovare calma, serenità e benessere. A dare il benvenuto al visitatore la reception, situata nell’ampia e luminosa hall, che offre informazioni turistiche e suggerimenti. Il caffè-bar offre stuzzicanti aperitivi, cocktail, caffetteria, oltre a una selezione dei vini delle più rinomate cantine trevigiane, che la clientela potrà gustare nei comodissimi salottini, dove d’inverno ci si riunisce davanti al caminetto, oppure passeggiando tra i sentieri che si snodano nel rigoglioso parco secolare. L’hotel dispone di 43 camere, tutte insonorizzate, climatizzate e arredate con mobili d’epoca con l’ausilio di moderne tecnologie per il wi-fi e la sicurezza. Quattro
In apertura, veduta esterna dell’Hotel 4 stelle Residenza d’Epoca, Villa Contarini Nenzi sita a Dosson di Casier (TV). Sopra, un particolare del ristorante Le Scuderie di Villa Contarini Nenzi
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In alto, la sala piscine della SPA & Centro Benessere della villa. Sotto,una delle camere
«L’ambiente della villa, circondato da un ampio giardino con palme e alberi secolari, si presenta come un elegante rifugio dallo stress e dalla turbolenza della città» 180 • Mete Grand Tour
le tipologie di alloggio: si va dalle camere con letto alla francese; alle spaziose e confortevoli camere classiche; alle deluxe, decorate in stile veneziano con vista sul giardino all’italiana e sul parco; fino alle suite, preziosamente arredate e decorate con stucchi in stile veneziano, dotate di salottino e angolo lettura: tra queste spicca quella “del Doge”, composta da tre camere e da una sala multifunzionale. Fiore all’occhiello di Villa Contarini Nenzi è la SPA & Centro Benessere dove farsi coccolare con massaggi rilassanti e trattamenti di bellezza. Qui si troveranno saune, bagno turco, piscine con acqua calda di cui una dinamica con vasche idromassaggio e l’altra con i sali del Mar Morto per le attività di recupero motorio e cervicale, idroterapia, talassoterapia, trattamenti speciali e bagni personalizzati. Completano la squisita ospitalità della Residenza d’Epoca il ristorante Le Scuderie, in un ambiente raffinato e circondato dal parco e dai giardini. La capace Sala degli Archi è utilizzata per convegni grazie alla moderna tecnologia in armonia con gli arredamenti d’epoca. Essa si abbina alla Sala della Musica, che con la sua secolare bellezza è utilizzata per eventi e feste familiari di minor capienza. www.hotelvillacontarininenzi.com
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182 • Mete Grand Tour
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NEI LUOGHI DELL’ INFANZIA di NIKE GIURLANI
Un tuffo nel passato, negli anni dell’infanzia dello psichiatra Paolo Crepet. Scavando tra ricordi e suggestioni emerge una Torino “calvinista”, «per cui si va avanti per meriti e non per furbizia», e un luogo sempre più multietnico
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orino rappresenta per lui la sua infanzia, le giornate spensierate che erano, però, limitate dal clima di austerità che si respirava tra le vie della città. Erano, infatti, gli anni della rinascita della Fiat, quando Paolo Crepet giocava con le macchinine a pedali nel parco del Valentino o andava a curiosare nelle librerie con suo padre. Ai ricordi di bambino si legano le immagini più recenti di una Torino fortemente multiculturale, come si può toccare con mano visitando il mercato di Porta Palazzo. Ma la sensazione più forte che lo psichiatra associa a Torino è la magia data dalla «vicinanza alle Alpi, quando in quelle straordinarie giornate di tramontana riesci a scorgere le vette in maniera nitida e si respira la classica aria di montagna». Come una determinata città influisce nella formazione del carattere di un essere umano? «Nascere in un luogo piuttosto che in un altro è un aspetto centrale nella vita degli esseri umani. Calvino quando è arrivato a Torino ripeteva spesso che sentiva la mancanza del clima mitigato della costa ligure, la brezza marina, la capacità repentina del cambiamento. Giunto a Torino, invece, si era trovato di fronte
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Vivere Torino
La magia delle Alpi
In apertura un particolare della Mole Antonelliana; a sinistra lo psichiatra Paolo Crepet
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Nel cuore di Torino l’arte pasticcera tradizionale La pasticceria Germano, situata nel cuore di Lucento, antico quartiere torinese, dal 1982 delizia il pubblico tramandando la tradizione della classica “arte pasticciera” di Torino, famosa in tutto il mondo, e introducendo nuovi prodotti e tipi di produzione improntati su una modernità di stile adatta alle esigenze di un pubblico sempre più esigente e raffinato. La produzione, rigorosamente quotidiana, spazia dai classici pasticcini a panettoni, colombe e uova pasquali, dagli stuzzicanti salatini alle vere e proprie pizze. Disponibili anche a domicilio.
PASTICCERIA GERMANO Via B. Luini, 136 - Torino Tel. 011 73.36.34
a una città squadrata, napoleonica. Il luogo dove si nasce influisce sul modo di porsi delle regole, di affrontare i ritmi della vita.Vivere nella sobria Torino o nella caotica Napoli inevitabilmente porta ad assumere un approccio diverso a livello caratteriale e di abitudine». Che cosa le manca di più di Torino? «Per me Torino è legata più che altro ai ricordi dell’infanzia. Erano gli anni della rinascita della Fiat e per tutte le strade, le piazze e nelle case si respirava un clima di forte austerità e il colore preponderante era il grigio. Questo luogo mi ha lasciato un’idea calvinista della vita per cui si va avanti per meriti e non per furbizia». Quali erano i luoghi e le abitudini che caratterizzavano le sue giornate in questa città?
184 • Mete Grand Tour
«Ho sempre amato recarmi nei caffè torinesi, da bambino adoravo Platti, un’antica caffetteria conosciuta in particolare per il cioccolato, come in fondo tutta Torino, una delle principali produttrici di questa leccornia. È nata proprio nei miei anni torinesi questa passione che mi accompagna ancora oggi». Quali luoghi meno conosciuti, ma altrettanto affascinanti, consiglierebbe di visitare? «Direi che Torino meriterebbe di essere più frequentata dai turisti perché è una città molto affascinante. In particolare resto sempre piacevolmente colpito dal mercato che si svolge a Porta Palazzo, crocevia di diverse culture ed etnie. Torino, infatti, negli ultimi anni si è trasformata in una città fortemente multietnica». Ci sono nel capoluogo piemontese dei
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Vivere Torino
La magia delle Alpi
«Quando mia madre mi portava a giocare all’aria aperta era sempre un momento di gran festa» suoi luoghi dell’anima? «Sicuramente le librerie che frequentavo insieme a mio padre e poi il famoso parco del Valentino dove correvo con le macchinine a pedali. In quegli anni di forte austerità, quando mia madre mi portava a giocare all’aria aperta, erano sempre dei momenti di gran festa. E poi la magia data dalla vicinanza delle Alpi, quando in quelle straordinarie giornate di tramontane riesci a scorgere le vette in maniera nitida e si
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respira la classica aria di montagna. Una sensazione unica che solo quando ho vissuto per un periodo in India sono riuscita a riprovare. Sono, inoltre, molto legato a un piccolo paesino, Salice d’Ulzio, dove sono cresciuto. Qui, mi ricordo, veniva spesso l’allora presidente della Repubblica Einaudi e ho ancora nitida nella mente l’immagine di quest’uomo vestito di nero con il cappello e il bastone che camminava per le vie del paese». La vista più bella su Torino? «Il panorama che si può ammirare da Superga, reso ancora più suggestivo se incorniciato da una nevicata. Questa era la classica passeggiata domenicale dell’infanzia torinese». Sempre più spesso all’interno dei percorsi culturali si inseriscono anche
In alto, una veduta del Parco del Valentino
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A tavola con il conte Cavour Inaugurato nel 1757, il ristorante del Cambio (nella foto) porta avanti una cucina torinese doc, a base di agnolotti, brasati, fritto misto alla piemontese, vitello tonnato e numerose altre specialità. L’atmosfera che si respira nel locale è quella tipicamente sabauda, caratterizzata da velluti cremisi, specchi barocchi sovrastati dalle pitture del Bonelli e un trionfo di legni dorati. Nella sala più ampia è conservato il tavolo dove sedeva abitualmente il conte Camillo Benso di Cavour, suo più fedele e insigne frequentatore. Lo storico ristorante fu, infatti, il punto d’incontro dei più grandi nomi della politica, dell’aristocrazia e della cultura subalpina e del Regno. «Un nostro piatto tipico è la finanziera a base di frattaglie, del quale, pare, andasse particolarmente ghiotto il conte Cavour – racconta il direttore del ristorante Daniele Sacco – e, vista la presenza di aceto, questa ricetta si abbina bene con un vino rosso, leggero, fresco, come può esserlo un Dolcetto o Grignolino».
I l Ri s t o r a n t e d e l C a m b i o s i t ro v a in v ia Do r s o d u ro 9 2 2 , Pia z z a C a r ig n a n o 2 t e l. + 3 9 0 1 1 5 4 6 6 9 0 w w w. c a mb i o . t h i . i t
percorsi enogastronomici. Quali sono i piatti e i vini da assaggiare in un tour tra Torino e dintorni? «Torino ha una grandissima tradizione culinaria, un piatto tipico è il bollito, ma sono molto buoni anche il pane e i grissini. Da provare, inoltre, i piatti tipici a base di acciuga. Una particolarità che caratterizza la tradizione culinaria nei dintorni di Torino sono le minestre non solo a base di verdure, ma anche di fiori, solitamente con rose colorate. Di vini abbiamo l’imbarazzo della scelta, ma se dovessi scegliere consiglierei di gustare un piatto di tagliatelle con il tartufo annaffiato da un buon Nebbiolo. Per gustare i veri sapori consiglio di assaggiare le ricette del ristorante “del Cambio”, che è un vero e proprio pezzo di storia dell’Italia».
A sinistra, la vetrina di un'antica libreria torinese
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TERRITORIO DA SCOPRIRE
di NIKE GIURLANI
l suo monumento preferito è la Mole Antonelliana perché lo tiene idealmente legato alla sua Novara. Ma Roberto Cota di Torino ama, in particolare, «la collina che arriva fino in città». Intorno al capoluogo, inoltre, si nascondono numerosi luoghi cari al presidente del Piemonte, dove la vera protagonista è la natura. Tra questi, merita una particolare attenzione, l’antico Forte di Exilles che sorge su un promontorio roccioso nel cuore della valle di Susa, in un’area ancora oggi in gran parte intatta. Un vero gioiello, a due passi dalla città, è sicuramente Venaria Reale. Qual è il suo primo ricordo legato
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Novara è la città che l’ha visto crescere, ma è a Torino che ormai ha sede il suo “quartier generale”. E proprio da dietro le finestre del Palazzo della Regione, il governatore Roberto Cota ama curiosare tra la folla di piazza Castello. Appena può, però, va alla scoperta di luoghi suggestivi intorno alla città a stretto contatto con la natura, come il Forte di Exilles
Vivere Torino
I giardini e la Mole
In apertura, il Forte di Exilles; a sinistra, Roberto Cota
Vivere Torino
I giardini e la Mole
«Gli angoli segreti di Torino sono i bellissimi giardini e cortili interni delle case storiche» alla città di Torino? «Quello di cui conservo chiara memoria risale all’ultimo periodo delle elementari. Si tratta di una gita che aveva come meta principale il Museo egizio. Negli anni penso che Torino sia cambiata molto, diventando a poco a poco una metropoli moderna, conservando però quelle caratteristiche
monumentali che solo una capitale può avere». A quali monumenti, paesaggi o panorami è più affezionato e perché? «L’aspetto che, soprattutto, mi affascina di Torino è la collina che arriva fino in città. È straordinario che una metropoli possa avere degli scorci di un piccolo borgo o quanto meno di un luogo di vacanza. Il monumento a me più caro è la Mole perché idealmente mi collega a Novara che insieme a Torino rappresenta una delle due città della mia vita, entrambe caratterizzate da un’opera Antonelliana». Ci sono luoghi che andrebbero maggiormente valorizzati? «Sicuramente Porta Palazzo e San Salvario.
Farsi tentare dal canestrello Il Canestrello è il dolce tipico di Borgofranco: una fragrante cialda in diversi gusti. Ha origini antichissime, ci sono documenti che ne attestano la presenza già nel 1400. Prima solo alla vaniglia, poi dal 1650 anche e soprattutto al cacao. Aldo Ferrando, fondatore della Bottega del Canestrello, oggi gestita dalla figlia Silvia, ha inventato altri sette gusti: nocciola, limone, arancia, menta, caffè, cocco e pistacchio. La bottega offre anche altri biscotti: gli Arturo, friabilissimi frollini con cacao e nocciole, i baci di dama, gli amaretti morbidi, le paste ‘d melia, le Evelise, con un cuore di croccante alla nocciola e sesamo e molti altri ancora.
LA BOTTEGA DEL CANESTRELLO Via Marini, 30 - Borgofranco d’Ivrea (TO) Tel. 320 566 21 89 bottega.canestrello@libero.it
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Mi soffermo spesso a riflettere sul perché quartieri così belli debbano essere così malandati. Dovrebbero essere recuperati come è già avvenuto per altre zone del centro». Quali sono i luoghi più affascinanti, ma ancora poco conosciuti di Torino? «Penso che gli angoli segreti di Torino siano i bellissimi giardini e cortili interni delle case storiche che andrebbero di certo fatti conoscere di più: sono davvero un tesoro nascosto». Qual è il luogo più adatto per scattare una foto ricordo? «In piazza Castello, dove c’è anche il Palazzo della Regione. Mi capita spesso di guardare da dietro le tende del mio ufficio la piazza piena di gente senza farmi vedere. Questo gesto mi fa sentire tra le persone, nel mezzo
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della piazza. Soprattutto durante l’ostensione della Sindone ho notato che molti turisti scelgono proprio questo luogo di Torino per le loro foto». Quali sono i luoghi particolarmente meritevoli nei dintorni della città? «La Reggia di Venaria, ma è un’affermazione scontata. Mi ha colpito molto il Forte di Exilles, che consiglio caldamente a tutti di visitare. La Sacra di San Michele e Cavoretto potrebbero essere altre due mete diverse ma ugualmente appaganti». Quali sono i piatti e i vini della tradizione che predilige? «Io amo molto i bolliti che, naturalmente, vanno accompagnati dei vini rossi: ce ne sono molti, ma potrei suggerire un Nebbiolo, perché penso sia sempre un ottimo compromesso qualità-prezzo».
Sopra, Piazza Castello e un particolare interno della Reggia di Venaria
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Mete Grand Tour • 191
UNA FINESTRA SULL’EUROPA di NIKE GIURLANI
ppartengo a quella generazione che ricorda quando nell’attuale corso Unità d’Italia c’erano le baracche degli immigrati dal sud e che ha vissuto il benessere del miracolo economico nell’età più ricettiva”. È quello che ripete spesso, e ha anche scritto in un libro, il sindaco Sergio Chiamparino. Pur restando affezionato, come è ovvio, ai luoghi dell’infanzia, per il primo cittadino, oggi, «nulla può competere con la mia finestra in Piazza Vittorio o con il mio percorso di jogging al Valentino, salvo forse lo scorcio di Piazza Castello a Palazzo Civico». L’aver potuto attraversare una fase tanto densa di cambiamenti rappresenta per il sindaco una vera fortuna. «Prima la città-fabbrica che vive al ritmo della grande industria, poi, la progressiva trasformazione, seguita dallo sviluppo delle infrastrutture, dalla valorizzazione dei beni artistici e dell’ambiente, avvenuti anche grazie alle Olimpiadi», conclude il primo cittadino. Per lavoro viaggia molto, che cosa le manca, in questi casi, di Torino?
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Una città in evoluzione e crocevia di culture, la Torino di oggi. Per scoprirne, però, la sua essenza basta guardarla dall’alto della Mole, come consiglia il sindaco Sergio Chiamparino. La sua impressione di Torino? «Una città moderna, aperta e cordiale, frequentata dai turisti, interessante per viverci e lavorare»
Vivere Torino
Città moderna aperta e cordiale
In apertura, l’igloo di Mario Merz, nella zona delle Ogr; foto di Bruna Biamino qui a sinistra, Sergio Chiamparino
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Vivere Torino
Città moderna aperta e cordiale
«La città in sé, ma non sono uno particolarmente difficile in questo senso. Mi ambiento facilmente anche all’estero, sono curioso di costumi e modi degli altri. E poi c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere, imparare». Tornando da un viaggio si sente a casa quando vede… «Le mie montagne, le montagne intorno alla città». Quali luoghi sono ancora poco conosciuti e, invece, meriterebbero più attenzione? «Direi, per esempio Piazza Foroni e dintorni. Uno straordinario e ben conservato esempio
di edilizia popolare di inizio Novecento». Dove guiderebbe un suo ospite che volesse scoprire la vera anima di Torino? «Partirei con un giro al Valentino, se possibile magari anche correndo, per iniziare la giornata all’aria aperta, immersi nel verde del grande parco cittadino. Proseguirei con una visita a Porta Palazzo per fare qualche acquisto nel più grande mercato all’aperto d’Europa e assaporare la mescolanza di profumi, sapori, odori e culture del mediterraneo. E poi proporrei una visita a Eataly, con una sosta per il pranzo. Infine, per vivere appieno l’atmosfera di Torino porterei il mio ospite in cima alla Mole Antonelliana, di sera, naturalmente dopo una passeggiata
Antiche e nuove specialità della cucina piemontese In questo angolo di Piemonte vicino alla città, nelle tre salette e in estate anche nel dehor esterno, si possono gustare nuove e antiche ricette, tra cui spiccano una grande scelta di antipasti tipici, come il Patè tartufato e la Carne cruda di Fassone battuta al coltello. Tra i primi piatti si può gustare la pasta fresca fatta a mano come i Gnocchetti di Castagne o di Asparagi e gli Agnolotti ripieni di Fonduta, e poi ancora gli Agnolotti del Plin alla Langarola, i classici Tajarin all’uovo, la Zuppa di Trippa e la Crema di Sedani con Tartufi. Tra i secondi troviamo i classici Brasato al Barolo, Fritto misto alla Piemontese, Selvaggina e la Finanziera alla Torinese. In stagione troverete la Bagna Caôda, Fonduta, Funghi e Tartufi. Per concludere il pranzo è disponibile il carrello dei Formaggi, fra i più ricercati e rari delle vallate piemontesi, accompagnati da Miele di montagna e “Côgnà” di produzione propria, e un’ampia scelta di dolci. La cantina offre circa 200 etichette provenienti soprattutto dalle Langhe e dal Monferrato, ma anche dal Veneto e dal Friuli e da tutta Italia.
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RISTORANTE FRANDIN DA VITO Via Settimo, 14 S. Mauro Torinese (TO) Tel. 011 82.21.177
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Vivere Torino
«Una città moderna, aperta e cordiale, frequentata dai turisti, interessante per viverci e lavorare» nel centro e prima di una cena tradizionale in uno dei tanti ristoranti di qualità che la città può offrire». Il panorama ideale per una foto ricordo? «In questo periodo davanti all’igloo di Mario Merz, nella zona delle Ogr: un’area simbolo per le grandi mostre che contraddistinguono il programma di “Italia 150”, due allestimenti molto importanti e attesi, evocativi per il nostro Paese, anche se la foto di Piazza Vittorio con sfondo Mole è davvero imperdibile». Qual è l’immagine, la sensazione, l’impatto che vorrebbe che si conservasse della città? «Una città moderna, aperta e cordiale, frequentata dai turisti, interessante per viverci e lavorare». Che cosa caratterizza l’enogastronomia torinese? «La cucina piemontese è per stomaci robusti: agnolotti, brasati, formaggi delle valli e vini rossi. In alternativa bolliti misti con brodo oppure fritti misti alla piemontese, sempre rigorosamente con vini rossi del Piemonte».
Città moderna aperta e cordiale
Dall’alto, l’interno dell’Eataly; la città vista dalla Mole e Torino durante le Olimpiadi invernali 2006
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UNA CITTÀ METAFISICA
di NIKE GIURLANI
Alla scoperta delle tante anime del capoluogo piemontese tra passato e futuro attraverso i ricordi e le suggestioni dell’artista Ugo Nespolo, per il quale Torino è soprattutto «una città che pensa, che teorizza, una città con una forte identità metafisica» ’
ante le Torino che appartengono al maestro Ugo Nespolo, che è nato in via dell’Accademia e conosce ogni angolo di questa città, dalle antiche strade ai nuovi quartieri. C’è la Torino della sua infanzia «dove sono nato e cresciuto ed è, quindi, ricca di ricordi che riaffiorano in particolare quando mi allontano per motivi di lavoro», racconta l’artista. E poi c’è quella
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architettonica, «della quale ho sempre amato la sua struttura ortogonale di estrazione romana, basata sull’incrocio del cardine e del decumano». Ma, soprattutto, «è una città che pensa, che teorizza, una città con una forte identità metafisica, e per questo molto apprezzata da De Chirico». Non si può, infine, tralasciare che «ha in sé la suggestione di essere la prima capitale d’Italia» ricorda Nespolo, che nota quanto il fascino discreto e sottile della città si rispecchi anche nel
Sopra, installazioni realizzate dal maestro Ugo Nespolo ai piedi della Mole Antonelliana
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Sopra, Ugo Nespolo
carattere riservato e appartato dei torinesi. Per raccontare l’atmosfera di questa città l’artista parte dalle parole evocative di Gozzano “come una stampa antica bavarese vedo al tramonto il cielo subalpino”. Quando si allontana da Torino quali aspetti le mancano di più? «Prima di tutto, la mia casa che si trova nel cuore di Torino, in piazza Solferino, a due passi dal Teatro Alfieri, che sicuramente è una delle piazze più storiche. E poi il mio studio che, invece, è situato in Cit Turin, il quartiere che presto diventerà la nuova anima di Torino. Infine mi manca camminare sotto gli aulici portici torinesi che sono qualcosa di più di una semplice entità architettonica».
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Ci sono dei luoghi ai quali è particolarmente affezionato? Luoghi anche d’ispirazione e di riflessione? «I luoghi legati alla mia giovinezza. Io ho sempre abitato in via dell’Accademia Albertina, il vecchio cuore della città, una zona dalla forte anima barocca. Piazza Carlina e via Po sono luoghi che mi riportano indietro nel tempo quando passeggiavo tra queste vie e curiosavo tra le antiche librerie». Quali sono le zone che andrebbero maggiormente valorizzate? «Negli ultimi anni stiamo assistendo a un fenomeno molto interessante. Molti quartieri, a ridosso del centro storico, si stanno trasformando e stanno acquisendo una loro identità e un ruolo importante per la città. Per esempio il Cit Turin. È situato a due passi dal centro e nella vicina stazione di Porta Susa presto arriverà l’Alta velocità. Nel giro di un anno e mezzo svetterà nel cuore del quartiere il grattacielo di Renzo Piano e continuamente vengono portate avanti opere di riqualificazione e ristrutturazione come nel caso della nuova Galleria d’arte moderna che sorge negli ex depositi e officine delle Ferrovie dello Stato. Tutto intorno sorgono edifici e ville in stile liberty che conducono verso piazza Benefica. Qui, ogni mattina, seguendo la moda francese, si tiene un mercato molto ricco e particolare, dove si può trovare di tutto. Quando mi capita di far visitare questo quartiere ad amici e artisti stranieri lo trovano tutti molto interessante perché si assapora il fascino della continua evoluzione». Se dovesse calarsi nel ruolo di
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«Torino è una città che pensa, che teorizza, una città con una forte identità metafisica» Cicerone per accompagnare un ospite che volesse intraprendere un percorso diverso da quelli classici suggeriti dalle guide turistiche, dove lo condurrebbe? «Il mio percorso partirebbe sicuramente dai portici, che attraversano la città per ben 16 chilometri, e caratterizzano fortemente la città. Poi proseguirei con una passeggiata
lungo il Po, con una sosta ai famosi Murazzi. Imprescindibile, inoltre, un giro nel parco del Valentino con il suo famoso castello. Qui meritano sicuramente un po’ di attenzione gli imbarcaderi con le società di canottiere, uniche in Italia. Poi lo condurrei al Palazzo Reale, con un giro nei luoghi simbolo della cultura sabauda. Ma dopo questo excursus storico mi concentrerei più che altro sui quartieri in evoluzione come Cit Turin e il Lingotto». Ci sono dei luoghi nei dintorni di Torino che meriterebbero di essere visitati? «Il parco della Mandria, un posto unico e vicinissimo alla città che di sera è un
Vivere Torino
Le tante anime della città
Tradizione e spazi essenziali
RISTORANTE SANTA MARTA Via Delle Scuole, 2 - 10035 Mazzé (TO) Tel. 011 98.35.616
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Ricavato da un’antica chiesa del XVIII secolo, nel cuore del centro storico di Mazzé e nelle adiacenze del famoso Castello, il Ristorante Santa Marta presenta un arredo moderno e di design, essenziale, giocando sul contrasto con la location originaria. Il Ristorante Santa Marta offre una cucina tradizionale e di qualità, legata ai sapori e ai prodotti del territorio. Ad accompagnare i piatti, inoltre, una fornita cantina per la degustazione dei migliori vini piemontesi. Orario: lunedì aperto a cena, mercoledì e venerdi aperto a cena, sabato e domenica aperto a pranzo e a cena. Martedì chiuso.
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L’arte in metropolitana La metropolitana di Torino, inaugurata nella sua prima parte in occasione dei XX giochi olimpici invernali, non è solo un sistema di trasporto, ma anche un museo d’arte che corre per la lunghezza di 9,6 chilometri. Tutte le stazioni della metropolitana sono, infatti, caratterizzate dalle vetrofanie realizzate da Ugo Nespolo (nella foto). Il quale per la realizzazione di queste opere si è ispirato a due aspetti: il nome del luogo e la presenza di elementi che caratterizzavano in particolar modo ogni zona. L’obiettivo dell’artista è stato quello di alleggerire la struttura un po’ severa con una ventata di colori e immagini che si richiamassero alla’immaginario popolare. A breve saranno inaugurate sei nuove stazioni per le quali Nespolo ha realizzato altrettante vetrofanie seguendo la stessa filosofia.
vero spettacolo. Mi capita spesso di andare a osservare le tantissime specie di animali che sono presenti in quest’area. Ma tutta la zona della collina meriterebbe di essere visitata. Io adoro la Villa dei laghi e Venaria Reale, che oggi sicuramente può essere considerata la Versailles italiana. Passando oltre Villa della Regina, proseguendo sulla strada collinare sorge, poi, il parco di Villa Genero, dove da ragazzo mi recavo con i miei amici». Se oggi dovesse realizzare un’istallazione per Torino dove vorrebbe collocarla e che cosa vorrebbe trasmettere?
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«Farei una grandissima scultura utilizzando i numeri che compongono la sezione aurea: 1,618, mettendo così in risalto la natura razionale di questa città, con un’accezione, ovviamente, positiva poiché la sezione aurea, ha come obiettivo cogliere l’aspetto armonico dell’oggetto osservato. La collocherei nel quartiere del mio studio, che sicuramente sarà un quartiere importante per il futuro di Torino». Quali sono i piatti e vini da assaggiare in un tour tra Torino e dintorni? Un ristorante che lei ama e che consiglierebbe? «Torino ha una cultura enogastronomica importante e quindi proporrei una cena con piatti tipici della tradizione. Di vini, abbiamo l’imbarazzo della scelta, il mio preferito è il Nebbiolo, ma amo, in particolare i prodotti realizzati dall’azienda Gaia e da Pio Cesare, dove a volte mi reco per visitare le cantine. Ultimamente Torino si è anche distinta per un’eccezionale produzione di gelati artigianali realizzati dall’azienda Grom, ora conosciuti in tutto il mondo. Ma se parliamo di gelati, non posso non citare la storica caffetteria-gelateria Fiorio, dove si racconta che Tomasi di Lampedusa abbia scritto dei racconti, spesso anche frequentata dal conte di Cavour e da Nietzsche. Di ristoranti ce ne sono molti di qualità, i miei preferiti sono il Birichin oppure quello di Lavazza. Per mangiare del buon pesce fresco invece consiglio l’Ancora. Per una cena ad alti livelli, però, bisogno assaggiare i piatti dello chef Davide Scabin a Rivoli».
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I TESORI NASCOSTI
di NIKE GIURLANI
Nei caffè di questa città «si è giocata parte della storia del Risorgimento», racconta lo storico e critico del design Enrico Morteo, secondo cui, inoltre, «a Torino ci sono musei che non è possibile trovare in altre città d’Italia» aspetto più evidente per Torino è che ha superato il concetto di città-fabbrica», racconta Enrico Morteo, nato a Torino, ma da anni residente a Milano. Il critico, nel 2008, ha preso parte al World design capital che ha visto Torino premiata per la capacità di ridisegnare spazi urbani, aspetti
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In apertura, l’interno di Palazzo Madama
economici e vita sociale. «Il tempo non è più scandito dalle sirene delle fabbriche – precisa – ma, anzi è una città in continuo movimento». Questa è la sensazione più forte che si percepisce a Torino secondo Morteo. «C’è, inoltre, molta attenzione nel riutilizzare e valorizzare le grandi fabbriche del territorio per nuovi scopi, lo stesso anche a livello d’infrastrutture». L’internamento della
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Vivere Torino
Musei e caffè
Sopra, lo storico e critico del design Enrico Morteo; nella pagina a fianco, in alto, una veduta esterna di un caffè torinese
ferrovia, in particolare, «ha cambiato il paesaggio della città che è tornato a essere quello di una grande capitale e non soltanto di una grande città industriale», ricorda il critico. Lei ha dichiarato che negli ultimi venti anni Torino è sempre stata all’avanguardia per l’arte contemporanea. Qual è la forza a livello artistico di questa città? «Per capire il rapporto tra Torino e l’arte bisogna tornare agli anni 50 e 60 quando è stata la capitale dell’arte povera, dove hanno operato artisti come Pistoletto, Gilardi e Paolini. Figure fondamentali sono state, inoltre, Ettore Carruccio, redattore alla Gazzetta del Popolo e direttore della Biennale di Venezia e Luigi Mallè, direttore
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dei musei civici della città e promotore della Galleria Gam. Una città, quindi, ricca d’iniziative, dove pubblico e privato hanno collaborato per far crescere la città». Da anni vive a Milano, cosa le manca della sua città natale? «Principalmente due aspetti: uno è il rapporto con lo scenario naturale molto presente nella città, il fiume, la collina, il verde dei grandi parchi, aspetti che a Milano sono impensabili. E poi i caffè della città. Questi luoghi hanno una forte funzione sociale. Nella mia giovinezza torinese, era tipico ritrovarsi nei caffè, ognuno di loro ha una propria storia, una propria personalità, una propria funzione. Nei caffè torinesi, inoltre, si è giocata parte della storia del Risorgimento italiano».
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«Nella mia giovinezza torinese, era tipico ritrovarsi nei caffè, ognuno di loro ha una propria personalità, una propria funzione. Nei caffè si è giocata parte della storia del Risorgimento italiano»
Magie di pesce sul lago Sirio La particolarità del Ristorante il Cigno è senza dubbio la splendida terrazza con vista panoramica. Ottanta posti che si affacciano direttamente sul lago Sirio, circondati da incantevoli tigli. Qui nel fresco di una location immersa nel verde, si possono assaporare i piatti della cucina mediterranea a base di pesce con ottime ricette poco elaborate e varie specialità tipiche campane. Nel periodo invernale la cucina offre anche i piatti tipici piemontesi e di selvaggina. Da quest’estate, si organizzano anche abbondanti grigliate all’aperto.
RISTORANTE IL CIGNO Via Lago Sirio, 3 - Chiaverano (TO) Tel. e Fax. 0125 45.476 Cell. 349 12.90.499 www.ristoranteilcignoivrea.it info@ristoranteilcignoivrea.it
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Vivere Torino
Musei e caffè
“Ritratto d’uomo” di Antonello da Messina, olio su tavola cm 36,5x27,5, conservato nel Museo civico d’arte antica a Palazzo Madama
A quali caffè è particolarmente legato? «Ce ne sono molti, per esempio Mulassano, il quale credo abbia i tramezzini più buoni d’Italia o Pepino, rinomato per i suoi gelati come anche Fiorio. Poi sono affezionato a un piccolo caffè, il Bicerin, che si trova accanto alla Consolata, un luogo che anche un laico non può esimersi dal notare». Quali sono i luoghi, dal punto di vista artistico, meno conosciuti, ma particolarmente interessanti? «Il Museo civico d’arte antica, all’interno di Palazzo Madama, conserva un bellissimo Antonello da Messina. Sempre all’interno del Museo, all’ultimo piano, sono conservate le collezioni di ceramica di Massimo d’Azeglio, che oltre a essere stato un noto pittore e scrittore, ha ricoperto anche il ruolo di ambasciatore di corte. Nei suoi viaggi ha raccolto delle preziose manifatture, tedesche, francesi, russe in una sorta di straordinario paesaggio che è a metà tra arte e quotidiano. Questa è la conferma che a Torino ci sono musei che non è possibile trovare in altre
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«Un luogo particolarmente interessante? Il Museo civico d’arte antica, all’interno di Palazzo Madama, dov’è custodito un capolavoro di Antonello da Messina»
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Vivere Torino
«La Sacra di San Michele è stato un luogo molto importante, in particolare, quando l’arrivo dei barbari trasformò queste abbazie in centri di sopravvivenza della cultura»
Musei e caffè
In alto, la Sacra di San Michele, complesso architettonico collocato sul monte Pirchiriano, all'imbocco della Val di Susa
città d’Italia». C’è un luogo nel capoluogo piemontese o nei dintorni che rappresenta un suo luogo dell’anima? «La Sacra di San Michele nella Val di Susa, un’abbazia posta nel punto nel quale la valle si restringe. Un luogo molto importante, in particolare, quando l’arrivo dei barbari trasformò queste abbazie in centri di sopravvivenza della cultura. In una giornata di sole offre uno splendido panorama proprio sulla Val di Susa fino a Rivoli e Torino, e a volte, si riesce a scorgere anche Superga». Quali sono i piatti e i vini da assaggiare a Torino? «I vini torinesi fanno parte ormai del
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patrimonio nazionale, non solo della regione, e lo stesso si può dire dei tartufi, ma per questi, bisogna avere la pazienza di aspettare novembre o dicembre, quando si abbassano le temperature e si trovano qualità eccellenti. Torino a livello enogastronomico è una città sorprendente perché offre la possibilità di conoscere piatti particolarmente elaborati, come la finanziera, che viene preparato con le rigaglie del pollo, con un retrogusto agrodolce. Ottimo quello del ristorante Del Cambio, in piazza Carignano. Interessanti anche le proposte del Gatto Nero o di Eataly, una grande dispensa di Slow Food in via Nizza accanto al Lingotto. Molto spiritosi, infine, anche i ristoranti di proprietà di Piero Chiambretti».
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Scoprire Ivrea attraverso i sapori dei suoi dolci come la polentina di Ivrea, gli eporediesi e i canavesani al liquore, autentici simboli della città piemontese. Eventi conosciuti in tutto il mondo, itinerari e tratti caratteristici della cultura del territorio, nelle parole di Stefano Balla
GLI ITINERARI DOLCI DI IVREA
di EZIO PETRILLO
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splorare il territorio attraverso la dolcezza dei suoi sapori tipici. Eporediesi, canavesani al liquore, polentina, sono tra le specialità della città di Ivrea. Ognuno ha la sue ricette per esaltarne al meglio i gusti. «Di piatti tipici Ivrea è ricchissima; polenta e merluzzo, bagna caoda, cipolle ripiene, ma, come dolce, il più famoso in assoluto è la Torta 900, un dolce tutto nostro». A parlare è Stefano Balla. «La nostra pasticceria è proprietaria esclusiva del marchio e del brevetto della torta 900 e abbiamo consumatori in ogni parte di Italia.
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La soddisfazione che si prova ad assaggiare una torta buona come questa vale assolutamente una gita ad Ivrea». Non solo sapori. Il territorio piemontese offre anche dei paesaggi inaspettati e nascosti. «Ivrea è una bella località collocata al centro del più grande Anfiteatro Morenico d’Europa afferma Balla - , dominata dal netto profilo orizzontale della Serra e attraversata dalle acque della Dora Baltea. Ivrea è una città d’arte; nella parte più alta della città, su una piazza che domina tutti i tetti sorge il Duomo,
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Dolcezze dal territorio
in stile Romanico. Sulla stessa piazza svetta il Castello divenuto simbolo d’Ivrea. Lungo il fiume Dora merita attenzione la suggestiva Arcata del Ponte Vecchio, originariamente in legno. In un angolo dei giardini pubblici, proprio di fronte alla nostra pasticceria, sorge il romanico Campanile di Santo Stefano. Sulla centrale via Palestro si affaccia la bella Piazza Ottinetti, e poco lontano il Teatro Civico Giuseppe Giacosa». A livello culturale il territorio è rappresentato da un evento conosciuto in tutto il mondo.
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«A Ivrea il Carnevale è un avvenimento importantissimo – conclude Balla -, sentito e vissuto intensamente da tutti i cittadini come in nessun altro paese canavesano. Nella settimana che precede il mercoledì delle Ceneri tutti gli eporediesi si riversano sulle piazze e sulle strade della città, partecipando attivamente alla festa o semplicemente condividendo con i suoi protagonisti la gioia di quei giorni. Originale e spettacolare è la famosa Battaglia delle Arance, che simboleggia la rivolta del popolo contro il Tiranno».
In alto a sinistra la pasticceria Balla di Ivrea e la loro specialità, la“torta 900” ballaristorante@libero.it
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LAGO DI COMO, PERSONALITÀ DIFFERENTE
di RENATO LOMBARDI
La geografia del lago «non permette troppo l’omologazione» osserva Andrea Vitali che su quello specchio d’acqua dolce ci è nato e ci vive. E che trova il “suo” lago nella parte selvaggia del borgo di Gera Lario
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a il lago nelle vene, Andrea Vitali. «È una specie di mamma». Lo sciabordio dell’acqua, è «una musica che ha accompagnato la mia vita». C’è un legame simbiotico tra lo scrittoremedico di Bellano e il “suo” lagh de Comm, uno specchio d’acqua su cui si riflettono borghi, ville, paesi e comuni delle province di Como e Lecco. Due rive, la cui «differenza» è profonda. E, «in questi anni, la si sente in maniera particolare». Una diversità uguale «a quella che intercorre sul lago Maggiore tra la riva di Piero Chiara e l’altra – osserva Vitali –. Noi, lecchesi, siamo la sponda brutta: abbiamo puntato tutto sul lavoro e sull’industria», ora in crisi. Mentre quella «di là era ed è turistica: alberghi lussuosi, accoglienza». Due dimensioni che, in Vitali, si ricompongono. E da cui trae linfa, nutrimento. «Sono nato sulle rive del lago – racconta –. Sono l’unico dei miei
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fratelli a essere nato nell’ospedale di Bellano che è proprio a picco sul lago. Credo quindi che di avere introitato sin dall’inizio la presenza di questa massa liquida che mi ha segnato per la vita intera». Nato e vissuto sull’acqua lacustre. «Abito nella casa paterna che è anch’essa a picco sul lago. Senza il lago non ci sto. È per me una presenza più che fondamentale, è genitoriale. È una di quelle presenze che sembrano anonime, ma che, quando le cerchi, le trovi».Vedo quell’acqua e «sono a casa». Insomma, lago «carta d’identità». La sua geografia «non permette troppo l’omologazione: il confondere un paese con l’altro». Estensione ben definita, circoscritta. Questo «mantiene, preserva l’identità sulle sue rive». Acqua dolce e confini che «non permettono come accade in città che la periferia raggiunga il centro e viceversa. Si mantengono i nuclei originari, distinti l’uno dall’altro per tradizioni, per modalità di comportamento, per vizi o per virtù. E in questo s’individua la sua personalità». Il lago che non c’è più, quello della natura dirompente, sopravvive a Gera Lario. Alto lago «ancora incontaminato dal troppo turismo». Con «spazi e panorami ancora abbastanza selvatici». Appunto Gera Lario, «laddove l’Adda confluisce nel lago – spiega Vitali –. È uno dei posti meno contaminati dal cemento; ne ha pochissimo. Qui il lago esprime veramente la sua natura». Come pure lungo la «strada che sale da Como verso Cernobbio: è una riva che è ancora un po’ risparmiata dalla speculazione edilizia. È la parte più verde e più conservata. Si è costruito, ma con una mentalità meno invasiva». «Ineffabili» i profumi del lago, ma non i suoi sapori. «Prediligo il missoltino (o misultit) –
Le due anime del lago
Specchio di ville borghi e paesi
Andrea Vitali, scrittore-medico di Bellano; nella pagina fianco, uno scorcio dello specchio lacustre
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Missoltino
ammette Vitali –, l’agone del lago di Como diverso da tutti gli altri agoni per le sue misure. Generalmente viene pescato in giugno, di solito di contrabbando. Così, quando si apre la pesca all’agone, in genere non c’è più». Per diventare missoltino, l’agone subisce una complessa lavorazione: i pesci vengono privati delle interiora (la curada), strofinati con sale e, dopo un eventuale taglio dorsale, deposti in una marmitta, ancora con sale. Dove vengono rivoltati ogni 12 ore. Dopo un paio di giorni, vengono risciacquati e infilzati in uno spago, così da poterli essiccare all’aria aperta per alcuni giorni. Quindi, insieme a foglie di alloro, vengono disposti in una latta (misolta, originariamente di legno) con il coperchio (di legno) che esercita una leggera pressione, modulata dalla sovrapposizione di più latte e sassi. La pressatura procede per un paio di giorni, eliminando l’olio fuoriuscito. Un procedimento artigianale. «A novembre, il missoltino è pronto. È secco, salatissimo e va consumato, scaldato sulla piastra o nel forno, con la polenta e un po’ di aceto sopra». Fondamentale per la «puccetta».
La ricetta tipica prevede che il missoltino, scottato su brace, sia degustato con il toc, polenta senza uguali. Il toc al Silvio si fa ancora sul camino che deve essere acceso almeno 4 ore prima e caricato con legna di rubinia e faggio. Una volta che la brace abbia caratterizzato il focolare, si pone il paiolo rigorosamente di rame sul camino e si aggiunge acqua. La quantità di acqua, che determinerà la quantità di prodotto finito, è in misura al numero di commensali e alle loro “bocche”. Di solito si calcola un “mezz” (mezzo litro) per persona. Poco prima che l’acqua bolla, si aggiunge sale quanto basta. Giunta a piena bollitura, si comincia a dosare la farina, mescolando energicamente con una frusta. Appena preso consistenza, si può agganciare la frusta meccanica e a fuoco vivo, si fa cuocere la polenta per circa un’ora. A polenta cotta si diminuisce l’intensità della fiamma. E con sapiente alchimia, si dosa il burro (240 gr.) e il formaggio magro della Latteria (260 gr.) per circa un’ora e un quarto. Il risultato finale è una crema di polenta che non scotta al tatto in quanto tramite un cucchiaio di legno i commensali disposti a cerchio attorno al camino attingono direttamente dal paiolo tolto dal fuoco. Non prendendo assolutamente in bocca la polenta, ma toccandola fanno appunto il proprio toc, dal dialetto pezzo.
Ricetta di Cristian Ponzini, oste pescatore dell’Albergo ristorante Silvio Via P. Carcano 10/12 Bellagio Tel. +39 031 95 03 22
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DOVE LA NATURA È REGINA di LORENZO CAROLI
È il profumo della libertà la sensazione che lo scrittore Mario Biondi collega al lago di Como. Dove ha vissuto la sua adolescenza, impregnandone la memoria. «Molta della mia narrativa è ambientata sul lago, anche se con nomi di luoghi artefatti»
ul lago di Como, dove regna «lo strapotere locale della natura», Mario Biondi è «cresciuto». Almeno dai 4 ai 19 anni. E ai suoi occhi, ora da scrittore, quell’acqua con i confini «rappresentava la vacanza, ovvero la libertà. Con i miei compagni più cari del liceo Volta – ricorda – avevamo l’usanza, alla fine dell’anno scolastico, di sporgerci sopra la rientranza tra la gelateria Ceccato e la Stazione Nord per gettare in acqua quaderni e diari vecchi. Una volta siamo dovuti scappare a gambe levate, inseguiti da uno scrupoloso vigile che voleva multarci. Per fortuna, correvamo più forte di lui. A quei tempi le vacanze si facevano così: l’acqua era ancora praticabilissima, al largo davanti a Villa d’Este mi è più volte capitato di berla. Si nuotava in uno dei lidi, si usciva in barca a remi o a vela, certe fortunate volte persino con una fanciulla, protetta dal casto scafandro di uno dei costumi da bagno di allora, in ghisa impenetrabile. Bellissima vita. Semplice, educata, allegra, onesta». Il suo lago è ammantato di un’atmosfera divertente, ma in genere lo si associa una dimensione un po’ rarefatta, quasi decadente. È un luogo comune? «Non è un luogo comune. A dargli questo tono è anzitutto la nebbiolina che lievita quasi immancabilmente dall’acqua. L’echeggiare di tenebrose sirene. Il sentore, un pochino di aldilà, che accarezza le narici …». Quanto di quell’aria l’ha accompagnata negli anni successivi? E quanto quei paesaggi sono entrati nella sua scrittura?
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«Mi hanno accompagnato sempre. Il panorama più bello del mondo, per me sarà sempre quello del lago di Como che si vede da certi punti della Valfresca, la strada vecchia per San Fermo. Una volta era quello che si godeva dalle gallerie della provinciale, ma poi l’hanno massacrato con l’autostrada. Molta della mia narrativa è ambientata sul lago, anche se magari con nomi di luoghi artefatti». Quali scorci lacustri meglio raccontano il periodo della sua giovinezza? «Per quanto possano piacere ai russi o alle star di Hollywood, temo siano diventati una cosa molto diversa. D’altra parte, i principi Trubetzkoy sono arrivati un bel po’ prima. E anche le famose “Regine” da cui il lago ha derivato il suo soprannome. Ma ancora adesso attraversare il lago in traghetto da Cadenabbia a Bellagio (o viceversa) suscita una straordinaria emozione. O vedere il ramo di Como e quasi insieme quello di Lecco da certe fortunatissime
Atmosfere lacustri
La nebbia e il profumo di libertà
A sinistra, Mario Biondi, scrittore e viaggiatore
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Rivive il Piccolo mondo antico Verrà riaperta al pubblico Villa Fogazzaro Roi, la casa dello scrittore Antonio Fogazzaro sulla sponda italiana del lago di Lugano. A donarla al Fai, il marchese Giuseppe Roi, nipote del celebre scrittore Una villa, un lago, un grande scrittore. E un’atmosfera artistica e intima al tempo stesso. Villa Fogazzaro Roi, sulla sponda italiana del lago di Lugano, a pochi chilometri da Como, ha difeso nei secoli il suo piccolo grande mondo. Quel piccolo mondo antico, raccontato in uno dei più importanti romanzi della nostra letteratura, che ora rinasce grazie a un gesto generoso. Villa Fogazzaro Roi, il romantico e bellissimo luogo dove Antonio Fogazzaro ha scritto e ambientato Piccolo mondo antico, è stata donata al Fai, Fondo Ambiente Italiano e presto verrà riaperta al pubblico. Questo gesto di civiltà lo si deve al pronipote dello scrittore, il marchese Giuseppe Roi, scomparso lo scorso anno. «La proprietà di Oria, Villa Fogazzaro Roi – commenta Ilaria Borletti Buitoni, presidente Fai – è un bene particolarmente vicino allo spirito del Fai perché si tratta di una proprietà nella quale l’anima di chi ci ha vissuto, sia Antonio Fogazzaro prima che Giuseppe Roi che poi ce l'ha donata, sono parte stessa del fascino e della bellezza del posto. Il Fondo Ambiente Italiano non solo lavorerà per mantenere e far conoscere Oria, ma anche perché lo spirito di chi l’ha amata viva per sempre». Un piccolo mondo antico quasi dimenticato sia dal punto di vista letterario che geografico. La donazione del marchese Roi ha quindi un doppio valore di riscoperta. Stanze e arredi, la loggia, la darsena, le terrazze: oggi la villa, pur mantenendo inalterata l’atmosfera che si respirava ai tempi di Fogazzaro, è una casa che ha vissuto anche dopo la morte del suo più celebre inquilino, arricchita dal marchese di beni e arredi che il grande scrittore aveva davvero attorno a sé negli anni in cui vi risiedeva e da una collezione di oggetti coevi, raccolti con ostinazione e sapienza nel corso degli anni. Villa Fogazzaro Roi Per informazioni: dal lunedì al venerdì tel. 02.467615296 proprieta@fondoambiente.it
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zone sopra il Ghisallo». Sapori e profumi, quali lo descrivono meglio? «Quanto a sapori non saprei dire. Purtroppo non ricordo più come fossero i decantati piatti del Cotoletta di quei tempi o dell’allora celebrato ristorante Villa Geno o del Piazzolo. I profumi, invece, mi sembra siano stati sempre un po’ riservati, molto in consonanza con il carattere dei comensi, sempre pudichi, restii a svelarsi, salvo magari concedersi outing clamorosi una volta in libertà a Parigi, Londra, Stoccolma o New York». Si può raccontare letterariamente questo specchio d’acqua? «Io l’ho fatto più volte, in almeno cinque romanzi. E non escludo di farlo ancora: le ambientazioni sono perfette, già pronte per essere applicate a sviluppi narrativi». Cinque aggettivi per tratteggiare il lago? «Vediamo: malinconico, riflessivo, solitario, sereno. Evito solare perché ormai lo si applica persino alla Befana».
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Il lago di Como
PASSAGGIO NELLA STORIA A ridosso del lago di Como, i sapori del territorio vengono di EZIO PETRILLO esaltati da scorci che lasciano senza fiato. Ma il lago è anche eventi, manifestazioni, cultura. Robert Webber, General manager del Palace Hotel, descrive la bellezza senza tempo di questa terra
l lago e oltre. Gli indimenticabili scorci manzoniani restano nell’anima non soltanto per le caratteristiche insenature, ma anche per le passeggiate nei boschi, per i sapori del territorio, e per una città, Como, che sforna le sue bellezze poco alla volta. Robert Webber, General Manager del Palace Hotel, ci accompagna alla scoperta del lago di Como. Perché ci sono aspetti che non risaltano immediatamente agli occhi del visitatore. «Molti infatti tendono a concentrarsi sul lago, ma io
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vorrei spostare l’attenzione su Como - afferma Webber - . Molte città si concedono immediatamente per la loro bellezza e imponenza, la particolarità di Como invece è che va scoperta piazza per piazza, vicolo per vicolo, scorcio per scorcio, solo così si riesce davvero ad assaporare l’anima di questo posto». Se un turista è alla ricerca di itinerari insoliti, Webber non ha dubbi su quelli da segnalare. «Uno dei più suggestivi è una passeggiata della durata di 4 ore che parte da Brunate per arrivare a Faggeto Lario. Si tratta di un piacevolissimo
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La ricetta: risotto con zucchine ampio sentiero in mezzo al bosco con stupendi sguardi sul lago: si giunge a Brunate con la funicolare, da qui in 20 minuti si arriva al piazzale della Chiesa di S. Andrea e si prosegue per l’ampia mulattiera a sinistra della chiesa stessa per giungere dopo circa mezz’ora alla capanna CAO. In questa prima parte ci si trova immersi in una tranquilla atmosfera tra ville in stile liberty e rigogliosi giardini dagli alberi secolari. Si prosegue poi in costante salita fino alla Baita Bondella a 1075 mt. Da qui si potranno ammirare scorci eccezionali sui monti delle cime lariane e sulle cime delle alpi. Proseguendo in 40 minuti si raggiunge la Bocchetta di Molina luogo panoramico e soleggiato. Successivamente si prende un sentiero in discesa della durata di circa 1 ora e 30 minuti fino ad arrivare al Borgo di Molina (frazione di Faggeto Lario), paesino poco rinomato e ricco di antiche vie, portali in pietra, piazzette e gradinate. Si conclude continuando la discesa fino ad arrivare alla statale e riprendere un autobus per Como». I piatti che si possono degustare durante il soggiorno sono svariati. «Ad esempio il risotto con filetti di pesce persico dorati al burro e salvia è un piatto che esalta al meglio i sapori di questa terra». Ma il lago di Como non è solo sapori e paesaggi. Anche la cultura si manifesta attraverso numerosi eventi. «Ogni anno il comune di Como organizza delle manifestazioni legate all’arte e alla cultura di rilievo internazionale e di grande richiamo turistico – sostiene Webber - . Per citarne qualcuna, quest’anno presso Villa Olmo è stata allestita la mostra di quadri di “Rubens e I fiamminghi”. Iniziata a Marzo andrà avanti fino al 25 Luglio. Inoltre dal 1 al 18 di Luglio è previsto il festival “Como città della musica” che vedrà l’alternarsi di spettacoli teatrali, concerti e
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matita e i loro fiori, medaglione di foie gras in crosta di pasta fillo e riduzione al Madera Dosi per 4 persone 360 gr di riso carnaroli 40 gr di cipolla 100 gr di burro 200 gr di parmigiano 10 zucchine baby con fiore 1 foglio di pasta fillo 2 lt di brodo di carne leggera 100 ml di Madera 100 ml di sugo di carne 200 gr fegato d’oca grasso 1 bicchiere di vino bianco secco Preparazione: Rosolare in una casseruola per risotti la cipolla con poco burro e olio extravergine di oliva. Aggiungere il riso, rosolare e sfumare con vino bianco, proseguire la cottura con il brodo caldo. Dopo 5 minuti aggiungere le zucchine tagliate a rondelle e i loro fiori. A cottura ultimata mantecare il
riso con burro e parmigiano. Impiattare il riso e decorare con la scaloppa di fegato precedentemente avvolta nella pasta fillo e dorata da ambo i lati in una padella antiaderente. Chiudere il piatto con la riduzione al Madera e sugo di carne ristretti.
balli con la presenza di artisti di importanza internazionale». La sostanza che il territorio esprime è un connubio tra tradizione e innovazione. Un connubio che anche il Palace Hotel ha fatto proprio, «sposando la qualità delle materie prime che accompagna ogni piatto, tra il mescolarsi di tradizione e innovazione e poi, l’invidiabile posizione sul lago che lascia la sensazione di trovarsi fuori dal tempo».
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In apertura, una facciata del Palace Hotel. In basso a sinistra, lo chef Ercole Sandionigi In alto, una ricetta proposta dal ristorante Antica Darsena www.palacehotel.it
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I LUOGHI DA RIVIVERE di NIKE GIURLANI
Ama definirsi un “critico agrario”, ma dalla sua terra, al confine tra la Campania e la Basilicata, Achille Bonito Oliva, si è ben presto allontanato per inseguire le sue passioni: la poesia e l’arte. Grazie alla Certosa di Padula ha però riscoperto il fascino di questi luoghi
uando sua madre gli chiese cosa volesse fare da grande, Achille Bonito Oliva rispose: “il bambino”. Sarà per questo che la sua vita è stata sempre improntata al vitalismo e al senso del gioco. Dal suo paese d’origine, Caggiano, ha sentito il bisogno di prendere presto le distanze. Forse sarà stato per il suo perenne senso di nomadismo, lo stesso che lo porta a non sentire nessuna città completamente sua. Oggi, quando non è in giro per lavoro, risiede a Roma e vive questa città come un premio, ma non rinnega certo le sue origini napoletane, anzi. Attraverso un viaggio a ritroso, il famoso critico d’arte ripercorre i luoghi più cari, rivelando affascinanti mete al confine tra la Campania e la Basilicata per poi giungere fino a Napoli. Lei è nato a Caggiano sull’Appennino lucano. Che cosa rappresenta per lei questo luogo? «La mia infanzia. Sono nato nel palazzo di famiglia, lo stesso dove poi sono stato battezzato e dove precedentemente si erano sposati i miei genitori. La famiglia di mio padre apparteneva all’aristocrazia di campagna mentre quella di mia madre alla borghesia agraria. Il Vallo di Diano, dove si trova Caggiano, rappresentava il feudo della mia famiglia, per questo mi piace definirmi un critico agrario. Finite le scuole elementari ci trasferimmo a Napoli. D’estate, però, tornavamo a Caggiano e durante queste permanenze forzate mi sentivo spesso a disagio. Abituato, ormai, a una città di mare come Napoli trovavo difficoltà a inserirmi e a interagire con i ragazzi del posto. Iniziai, quindi, ad appassionarmi alla lettura, divorando
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«Mi sono riconciliato con i luoghi della mia infanzia grazie alla Certosa di Padula» un libro dietro l’altro, credo di essere diventato un intellettuale “per disperazione”. Questa sorta d’immobilità perenne del luogo mi spinse a prenderne ben presto le distanze. Caggiano divenne per me “il luogo dal quale andare via”, come direbbe Rimbaud». E non ha più sentito il bisogno di ritornare in questa terra? «Mi sono riconciliato con i luoghi della mia infanzia grazie alla Certosa di Padula, un luogo straordinario di 50 mila metri quadri che rappresentava l’unità amministrativa nel Medioevo, e che si caratterizza per la presenza di molti stili che vanno dal Trecento al Settecento. Questo complesso monumentale
A sinistra, un particolare della scalinata della Certosa di Padula; Sopra, il critico d’arte Achille Bonito Oliva
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Sopra, una panoramica di Caggiano, situata sull’Appennino lucano
con il suo secolare parco è diventato lo sfondo per “Natura e Arte in Certosa: Ortus Artis e Fresco Bosco”. Ormai, infatti, sono dieci anni che organizzo delle mostre in questo luogo. Trovo meraviglioso come l’arte contemporanea riesca a legarsi perfettamente allo scenario storico del complesso. Grazie a questo evento sono riuscito a portare nella Certosa di Padula artisti di fama internazionale come Pistoletto, Cucchi, De Maria, Paladino, Chia, West, Mauri e numerosi altri. Ormai possiamo parlare di un ricco parco di opere che sono state lasciate dagli artisti in comodato d’uso, a tempo indeterminato, alla Certosa. Questo luogo “ai confini della realtà” si è
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aperto all’arte internazionale e allo stesso tempo mi ha fornito l’occasione per ritornare nella mia terra. È stato, quindi, un ritorno rafforzato dalla mia identità, dalla mia professionalità, un ritorno all’insegna della creatività e della fantasia critica». Del periodo trascorso a Napoli, quali sono i luoghi più cari? «Sicuramente la scuola Denza dei padri Barnabiti a Posillipo nel punto più alto e suggestivo di Napoli, un luogo privilegiato. Qui c’era un grande parco dove, dopo le lezioni, ci fermavamo a giocare a calcio. In questa città portai a termine i miei studi e dopo l’università, iniziai le mie prime prove da
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Napoli e Salerno
Arte antica e moderna
«Napoli è una città complessa, vitale ma precaria, allegra e allo stesso tempo lazzarona» poeta visivo. Luogo simbolo di questi anni è stata sicuramente la libreria Guida Portalba. Qui nella saletta rossa, agli inizi degli anni 60, venivano grandi scrittori come Ginzburg, Moravia, Sanguineti, Argan, Brandi, Kerouac, Pasolini. Io, al tempo ero un giovane intellettuale, che alla fine delle conferenze prendeva la parola e faceva dei lunghi
interventi. Iniziai così a farmi notare e a essere apprezzato da questi grandi intellettuali che spesso al termine delle conferenze mi coinvolgevano nelle loro cene. Napoli è una città complessa: vitale, ma precaria, allegra e allo stesso tempo lazzarona, nella quale bisogna inventarsi un mestiere assecondando le proprie vocazioni. Io mi inventai quella di poeta sperimentale, in seguito, però, abbracciai il mondo della prosa e, infine, iniziai a occuparmi d’arte. Nel 68, poi, mi trasferii a Roma». Di nuovo, però, il destino la riporterà a Napoli, per quale motivo? «Anche questa volta è stato un ritorno professionale perché sono stato chiamato da Bassolino come consulente alla Regione per le
La locanda dei sapori autentici Lasciarsi andare ai piaceri della buona tavola. Con la certezza di assaporare piatti provenienti da materie prime genuine. L’agriturismo La Locanda del Gallo propone una vastissima gamma di ricette, dagli antipasti, come il tagliere che include un assaggio di salumi, formaggi e verdure, speck, pancetta, soppressata, caciotta, nodino, burrino, ricotta, olive verdi e verdurine, ad alcuni primi tipici come il risotto con porcini, zucca e cacio tartufato. I piatti variano a seconda della stagione ed è possibile avere anche ricette senza glutine. Tra i secondi piatti spicca la tagliata di vitello con rucola, pomodorini, mandorle e pistacchi. Per concludere in bellezza il pasto, dolci, quali la torta Rossana e la panna cotta, e liquori, come la liquirizia, sono tutti di produzione propria. Presso La Locanda del Gallo si può anche pernottare, ogni camera è dotata di bagno privato.
AGRITURISMO LA LOCANDA DEL GALLO Loc. Sannella - Casalbuono (SA) Tel. 0975 86.21.00 Fax 0975 20.61.69 Cell. 328 26.81.037
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arti. Insieme abbiamo promosso una serie di mostre in tutto il territorio regionale. Con Eduardo Cicelyn e Mario Colognato abbiamo creato il museo Madre, del quale, tuttora sono vicedirettore. Inoltre, sono stato il consulente per la metropolitana di Napoli, che grazie al mio contributo e a quello degli artisti che ho selezionato è diventata una sorta di museo d’arte obbligatorio». Un lato artistico di Napoli poco valorizzato e che invece meriterebbe più attenzione? «La musica, ma non quella napoletana “anima e core”, bensì, quella elettronica. Qui, infatti, c’è una validissima scuola. A Napoli, inoltre, ci sono musei molto interessanti, oltre al Madre,
merita una visita anche il Pan. A Castel Sant’Elmo e a Capo di Monte, invece, vengono spesso organizzate mostre d’arte contemporanea». Quando ritorna a Napoli, quali sono le sue tappe obbligatorie? «L’Excelsior, il mio albergo preferito, caratterizzato da un’architettura di inizio 900 molto affascinante. Grazie alla sua posizione si può ammirare Castel dell’Ovo, un antico bastione situato nel vicino borgo marinaro e in lontananza Posillipo. Appena posso, però, mi concedo volentieri una passeggiata in via Caracciolo. Qui ho abitato per alcuni anni e ogni volta che la ripercorro, mi torna alla mente un episodio di quando ero ragazzo:
Napoli e Salerno
Arte antica e moderna
A sinistra la spiaggia di Amalfi; nelle pagine seguenti la città di Salerno e Praiano
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Napoli e Salerno
Arte antica e moderna
«L’aspetto che più apprezzo di Salerno è che, conoscendola poco, posso godere i vantaggi di una bellezza di superficie. La sensazione che mi trasmette è quella di un luogo industrioso»
Tra ampi spazi e ricette raffinate Uno tra i ristoranti più particolari e raffinati della zona. Un locale dove poter gustare piatti a base di pesce cucinati secondo le ricette tipiche campane, sapientemente rivisitate per far fronte alle sempre più attuali esigenze di leggerezza. La Compagnia del Concord offre sapori semplici ma intensi, materie prime fresche e selezionate, abbinamenti originali. Il complesso dispone di ampie sale con aria condizionata ed è una location adatta a ospitare pranzi e banchetti in genere. Offre inoltre un ampio terrazzo e sala per convegni, meeting e feste organizzate. La cantina è una vera sorpresa dove l’impegno del patron Giuseppe Martino ha reso possibile una carta dei vini di notevole importanza. L’ampia offerta si completa con la varietà di pizze cotte nel forno a legna.
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Napoli e Salerno
mentre camminavo per questa strada, sono stato attratto da una bellissima musica. Si trattava della colona sonora del film “Il terzo uomo” con Orson Welles che ho avuto poi modo di vedere da grande». Quali sono gli artisti che hanno saputo reinterpretare la vera anima di Napoli? «Dall’arte antica a quella contemporanea ci sono molti esempi che potrei citare, uno su tutti l’importante quadro di Caravaggio le “Sette opere di Misericordia”, che si trova in via dei Tribunali nel cuore della città. Del 500
Arte antica e moderna
Tra sogno e vertigini sulla costa amalfitana Su una di quelle alture della costa Amalfitana, dove la terra precipita e dirupa in un cielo capovolto che nelle notti serene le luci delle lampare fanno stellato, si aggrappa l’albergo. Questo è il luogo, magnificamente descritto da Maria Orsini Natale in “Francesca e Nunziata”. È in questa vertigine di panorami, immersa in una luce senza suoni, sospesa, irreale e segreta come una favola, terrazzi e balconi a rincorrersi, ad alternarsi e a nascondersi fra pergolati e ombrelloni. Dentro ogni balcone una camera, per ogni camera un nome ad evocare un ricordo, una melodia, un sogno: Lazzarella, Reginella, Maliziusella.
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Napoli e Salerno
Arte antica e moderna
potrei invece ricordare un pittore francese, chiamato Monsù Desiderio, che trasferitosi a Napoli realizzò molte vedute della città. Arrivando all’epoca attuale ci sono per esempio Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino, che appartengono alla Transavanguardia, movimento da me fondato intorno ai primi anni 80.Trovo che nelle loro opere ci sia una vis comica, un’energia, una vitalità, un’iconografia tipica di questa terra, penso per esempio alla luce mediterranea che si ritrova nelle opere di De Maria, o alla figurazione arcaica di Paladino o, infine, alle forme notturne di Clemente». Qual è il rapporto, invece, con la città di Salerno? «Qui ho insegnato Storia dell’arte contemporanea per dieci anni e, inoltre, è la città di origine di mia moglie. L’aspetto che più apprezzo di Salerno è che, conoscendola poco, posso godere dei vantaggi di una bellezza di superficie. La sensazione che mi trasmette è quella di un luogo industrioso, che si caratterizza per la presenza di un popolo sagace. Non a caso alle spalle c’è la lunga tradizione della scuola medica salernitana. E poi, quando sono in queste zone, ne approfitto per assaporare il piacere di passeggiare per la costiera amalfitana: Praiano, Maiori, Cannaverde, sono mete imperdibili». Quali sono i sapori e gli odori che le vengono in mente, se pensa a questi territori? «Un piatto che amo molto sono i tubettielli con piselli. Se, però, penso alla mia terra d’origine mi torna subito alla mente la sopressata, un salame che produceva la mia famiglia, tipico di quelle zone, senza grassi e che va mangiato senza pane».
La Napoli di Caravaggio Le “Sette opere di Misericordia” (nella foto) è un dipinto di Michelangelo Merisi da Caravaggio del 1607. Questo olio su tela, 390 x 260 cm, è attualmente conservato nel Pio Monte della Misericordia di Napoli. L’opera è la rappresentazione delle “sette opere di Misericordia corporale” e il significato morale di fondo è il rapporto speculare tra le opere misericordiose che gli uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini. Un tema che ben interpretava gli ideali di fondo della congregazione alla quale l’opera era destinata. Caravaggio ambienta la scena al crocevia di un vicolo buio, in una composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi. Può essere confusa con una semplice scena di genere, ed è per questo che alcuni sostengono che sia stata ambientata in una strada popolare di Napoli.
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Gerace
LA PERLA MEDIEVALE di GIGI RONCAGLIA
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uando si parla di Gerace, si entra in un mondo di altri tempi, in cui tradizione e ospitalità spiccano in maniera evidente. Una piccola perla che mantiene ancora intatte le tradizioni medioevali. “Qui a Gerace si respira un’aria surreale – spiega Aurelia Terranova, che gestisce tre dei più rinomati alberghi quattro stelle della zona – chiunque arrivi se ne rende subito conto: si è ad un passo da tutto e a contatto con tutto e, al contempo, come in un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato e il resto del mondo sembra non esistere”.Tutto questo denota un’altra caratteristica di Gerace, ovvero la sua posizione
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Gerace, candidata a diventare patrimonio dell’Unesco, conserva ancora intatta la sua struttura medioevale originaria. Aurelia Terranova, imprenditrice alberghiera e amante di questo luogo, ci guida in un percorso tra le vie della storia di questo borgo millenario strategica. “È un’atmosfera unica: siamo immersi nel Parco Nazionale d’Aspromonte, a soli 10 minuti dal mare, che dominiamo dall’alto”. Appena si arriva a Gerace, si entra in un antico Borgo Medievale le cui architetture uniscono la maestosità dello stile bizantino alle forme del gotico cistercense. Cultura, cultura e ancora cultura.. Qui si è nel cuore della Magna Grecia. Ogni angolo di questo paese ha qualcosa da essere visto, visitato, studiato. “Ovunque ci si volti si incontra traccia del passato – continua Aurelia Terranova - ricco di cultura, di questo piccolo ma prezioso borgo: in una finestra bifora del ‘200, in un portale con le feritoie difensive o nelle bellissime chiese. Lo sguardo spazia, in un batter d’occhio, dallo stile bizantino, al gotico, al romanico per poi affondare nello splendido mare.” Tutto questo è accompagnato da un’ospitalità che rende il turista come a casa propria. ‘L’ospite viene prima di tutto’: questo è il motto che caratterizza la gente di Gerace, e della Calabria in generale. Giugno 2010
E il monastero diventa albergo
“Le strade sono rimaste intatte sin da quando ci si camminava unicamente con gli asini: per questo sono piccole, strette e ancora oggi inaccessibili, in buona parte, alle macchine. Ogni casa o palazzo, sempre in pietra, ha il suo balconcino o la sua finestrella che ogni geracese ama adornare con piante e fiori e in giro l’unico motivo costante durante il giorno è il semplice cinguettio degli uccellini”. Gerace è sede ideale per ogni tipo di evento. “Chi desidera un’ambientazione particolare per un matrimonio o per un congresso, non ha che da venire qui e mettersi all’opera o delegare il tutto a noi che, grazie alla nostra esperienza ormai consolidata negli anni, offriamo anche pacchetti di eventi ‘chiavi in mano’. Due delle nostre strutture, per esempio, hanno delle piccole chiesette adiacenti – quasi private – perfette per matrimoni di circa 80 persone, sempreché non si voglia optare per la bellissima e imponente Cattedrale, il cui stile è puro ed essenziale, che ha una capienza di 200 persone e continuare la cerimonia in un antico monastero, oggi divenuto uno dei nostri alberghi, Palazzo Sant’Anna, con un terrazzo estivo per le cerimonie che domina sulla vallata e sul mare”. “Le nostre strutture hanno la possibilità di far alloggiare fino a 75 persone. Ospitiamo solitamente i gruppi in visita culturale, ma anche gruppi di motociclisti e turisti occasionali di stanza a Gerace o di passaggio solo per qualche notte”. I convegni di piccole dimensioni – con 100 partecipanti circa - riescono benissimo sempre presso Palazzo Sant’Anna ma, per chi desidera una scenografia ancora più insolita e sicuramente esclusiva, la Chiesa di San Francesco – sconsacrata – ha una capienza di 200 posti ed è disponibile per eventi di ogni tipo.
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La Casa di Gianna, nel cuore del centro storico di Gerace, è un’antica dimora gentilizia che svela al passante, fin dalla sua entrata, illuminata a giorno grazie alle vetrate di copertura e la bellissima scalinata in pietra, la bellezza degli ambienti interni. Le dieci camere – di cui due in dependance – conservano anch’esse il fascino della residenza originale, anche se perfettamente funzionali dal punto di vista dell’accoglienza professionale. La Casa di Gianna è ideale per matrimoni di circa 150 persone. Ha accanto la piccola Chiesa dell’Addolorata, molto accogliente, che conserva ancora un bel portale litico del 1756. Al ristorante, si possono degustare pietanze ricercate, ma anche piatti preparati con ingredienti caratteristici della cucina regionale e rivisitati e personalizzati dalla fantasia dello chef. www.lacasadigianna.it Palazzo S.Anna è nato dal restauro dell’antico complesso monastico risalente al 1308. Ha sale ampie e spaziose e muri molto spessi. Nei lunghi corridoi che portano alle camere sembra di rivivere l’atmosfera austera dell’antico convento. Qui, le dieci camere, in buona parte con una stupenda vista su oltre 100 Km di costa ionica, sono elegantemente arredate con mobili in legno, intagliati da un artigiano napoletano, e dotate di ogni comfort. Palazzo Sant’Anna, oltre ad essere un albergo molto particolare, è il luogo ideale per eventi di ogni tipo, dal convegno alla riunione d’affari, e dal banchetto di nozze al workshop aziendale. Proprio accanto all’ingresso principale vi è la Chiesetta S.Anna, sempre aperta ai visitatori in cui, all’occorrenza, si possono celebrare funzioni religiose. www.palazzosantanna.it La Casa nel Borgo, all’ingresso di Gerace, è arredata con uno stile volutamente più moderno rispetto gli altri due alberghi. Riesce ad ospitare fino a 33 persone ed è indicata per un turismo più giovane ed informale. www.lacasadelborgo.it
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SULLE TRACCE DI PIERO
Percorsi
di FRANCESCA DRUIDI
Da Firenze ad Arezzo. Passando per Monterchi, direzione Sansepolcro. Poi Urbino, risalendo sino a Firenze. Un “pellegrinaggio artistico”, guidati da Vittorio Sgarbi, sui luoghi che hanno segnato una delle figure ancora oggi più amate ed enigmatiche, quella di Piero della Francesca Da Firenze ad Arezzo
a Firenze all’alta Valle Tiberina, dal cuore della civiltà toscana al confine umbro-romagnolo-marchigiano, fino a raggiungere Urbino e risalire, infine, a Rimini. Un percorso chiave per il turista desideroso di mettersi sulle orme di Piero della Francesca. Percorrere questo itinerario significa innanzitutto lanciare uno sguardo al mondo dell’artista, il cui
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vero nome era Piero di Benedetto de’ Franceschi, ma soprattutto comprendere le tappe salienti della sua parabola creativa. Nel compiere questo viaggio, accompagnati per l’occasione dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, si potranno ammirare realtà urbane e paesaggistiche di notevole fascino, inquadrando vedute e scorci che hanno assistito alla vita e all’opera di uno dei più grandi pittori del Quattrocento.
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Percorsi
Da Firenze ad Arezzo
FIRENZE Risale al 1439 la documentata presenza di Piero a Firenze, luogo dell’iniziazione artistica del pittore come collaboratore di Domenico Veneziano all’esecuzione degli affreschi della cappella maggiore della Chiesa di Sant’Egidio raffiguranti le storie della Vergine, oggi purtroppo andati perduti. Per un giovane come Piero, l’odierno capoluogo toscano era una sorta di ombelico del mondo. Culla del Rinascimento, il clima cosmopolita e in costante fermento offriva l’opportunità di assorbire esperienze e conoscenze teoriche dagli artisti più importanti dell’epoca. «Domenico Veneziano – spiega Vittorio Sgarbi – è il riferimento più diretto e logico. La sua figura evoca quella di Paolo
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Uccello e di Masaccio, probabilmente guardati da Piero della Francesca. La “Pala di S. Lucia dei Magnoli” di Veneziano (conservata agli Uffizi, ndr) è la chiave del passaggio di Piero dalla realtà di Masaccio a una visione “quintessenziata” di pure idee, alla quale concorrono anche Beato Angelico e pittori di area non direttamente toscana come Boccati da Camerino». Gli Uffizi di Firenze permettono oggi di osservare le opere degli artisti che potenzialmente sono stati stimolanti per la formazione di Piero, oltre a custodire, nella Sala Filippo Lippi, l’unica testimonianza pierfrancescana in città: il “Dittico dei duchi di Urbino”, ritratti di Federico da Montefeltro e della moglie Battista Sforza, che assurgono a celebrazioni degli ideali di una corte rinascimentale. Opere che preannunciano il percorso intrapreso da Piero della Francesca tra l’Adriatico e l’Umbria, al servizio di signori alla ricerca di una legittimazione, anche culturale, delle loro conquiste.
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Percorsi
Da Firenze ad Arezzo
AREZZO Spostandoci ad Arezzo, centro dall’origine antichissima a ridosso dell’Appennino toscoromagnolo, una delle maggiori città etrusche prima di diventare strategica città romana, sono almeno due le tappe obbligatorie. La prima è nella Cattedrale, dai tratti gotici, che custodisce le vetrate istoriate di Guillaume de Marcillat e soprattutto La Maddalena di Piero, la cui modernità figurativa è sottolineata dallo spargersi dei capelli sottili sulla spalla e dal rosso acceso del mantello. «In quanto opera solitaria possiede una dimensione statuaria, è un monumento in sé, non si legge come racconto. È interessante studiarla per la sua volumetria moderna e perché si comprende come Piero conquista lo spazio». Dopo aver visitato la Piazza Grande di Arezzo, magari proprio il penultimo sabato di giugno e la prima domenica di settembre quando diventa lo scenario per la Giostra del Saracino, si raggiunge la Basilica di San Francesco che ospita, nella cappella Bacci, il ciclo affrescato della Leggenda della Vera Croce. Il lavoro fu
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In apertura, “Dittico dei duchi di Urbino”, ritratti di Federico da Montefeltro e della moglie Battista Sforza. In queste pagine, a sinistra in alto, gli Uffizi, in basso, Vittorio Sgarbi. In alto, particolare della “Leggenda della Vera Croce”, Basilica di San Francesco. A fianco, il Duomo di Arezzo
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Percorsi
Da Firenze ad Arezzo
In alto, panorama di Monterchi. In basso, “La Madonna del parto”. Nella pagina seguente, un particolare del “Polittico della Misericordia” al Museo Civico di Sansepolcro
commissionato dalla famiglia Bacci a Piero della Francesca, che lo ha eseguito tra il 1452 e il 1466 circa, per sostituire il defunto Bicci di Lorenzo, morto proprio nel 1452 lasciando incompiuta la sua opera. «L’aspetto che mi ha sempre colpito maggiormente della presenza ad Arezzo di Piero non è tanto l’aver innovato il linguaggio di Bicci di Lorenzo, ma la coincidenza con la caduta dell’Impero Romano di Oriente. Un pittore che affronta temi così assoluti per la storia lo fa nello stesso anno di questo evento epocale. È una coincidenza significativa». Sgarbi individua, inoltre, una singolare continuità tra l’esperienza bizantina di Ravenna e la pittura di Piero. «Come se quest’ultima fosse il punto estremo di traduzione nella lingua moderna della dimensione assoluta del mondo bizantino».
MONTERCHI Da Arezzo si procede fino a Monterchi, borgo incastonato tra due piccole valli, la Val Padonchia e la Val Cerfone, luogo di nascita della madre di Piero della Francesca, Monna Romana. Meritevoli di una visita sono la Chiesa di San Simeone e la chiesa situata all’interno del Monastero di San Benedetto, ma la meta del “pellegrinaggio pierfrancescano” per eccellenza è il museo della “Madonna del Parto”, che accoglie il celebre, omonimo, affresco, realizzato da Piero per l’antica chiesa
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di Santa Maria Momentana. «Un’opera notevole – commenta Sgarbi – perché la Madonna mostra questo processo di crescita del ventre che è la chiave volumetrica dell’opera, con i due angeli, dalla ieraticità quasi bizantina, che mettono in evidenza il volume della pancia della Madonna posta di tre quarti, che si pone la mano sul ventre in un’immagine sovvertitrice dell’iconografia che esprime una dimensione dove il quotidiano e l’eterno convivono».
SANSEPOLCRO Godendo appieno del paesaggio offerto dall’Alta Valle del Tevere, si approda a Sansepolcro, un tempo Borgo San Sepolcro, città natale di Piero della Francesca, dove nacque presumibilmente nel 1412, che ha conservato pressoché inalterato l’assetto urbanistico medioevale, arricchendosi nei secoli di pregevoli edifici rinascimentali e barocchi. Di notevole interesse sono la Cattedrale, il Palazzo delle Laudi, oggi sede del Comune, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie, quella di San Francesco e di San Lorenzo, oltre alla piazza Torre di Berta, cuore del centro storico e sede, la seconda domenica di settembre,
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In queste stanze, la storia di Firenze Affacciato sulla piazza simbolo di Firenze, da cui prende il nome, la Residenza d’Epoca InPiazzadellaSignoria è gestito con passione ed entusiasmo da Sonia e Alessandro Pini che hanno voluto ridare vita a una dimora quattrocentesca ormai in abbandono. Sviluppato su quattro piani, la Residenza d’Epoca consta di 10 camere intitolate a illustri personaggi fiorentini, da Giotto a Brunelleschi alle due Deluxe Leonardo e Michelangelo per le coppie più romantiche. L’ultimo piano ospita tre appartamenti completi di piccola cucina, aria condizionata, tv satellitare, radio e CD, telefono e cassaforte.
del tradizionale Palio della Balestra. Del resto, il fulcro dell’intero itinerario pierfrancescano risiede qui, in particolare nel Museo civico. Opere come la “Resurrezione”, complessa e simbolica - definita dallo scrittore Aldous Huxley il più bel dipinto del mondo -; il “Polittico della Misericordia”, commissionatogli dalla confraternita della Misericordia di Sansepolcro nel 1445, con la Madonna che, al centro della composizione, apre il suo manto ad accogliere i devoti inginocchiati; il frammento raffigurante il volto di San Giuliano, rinvenuto nel 1954 nell’antica chiesa di Sant’Agostino e San Ludovico sono qui custoditi, a testimoniare il genio dell’artista del primo rinascimento. Piero, del resto, intrattenne un rapporto continuativo con la propria città, alla quale tornò spesso tra un lavoro e l’altro, tanto che Sansepolcro è presente
Giugno 2010
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L’enigma della Flagellazione È un’opera enigmatica, la “Flagellazione”. Silvia Ronchey (nella foto), docente di Civiltà bizantina presso l’Università degli Studi di Siena, offre la sua interpretazione nel saggio L’enigma di Piero (Rizzoli, 2006), che prende le mosse da un’ipotesi di Kenneth Clark, uno dei più grandi studiosi di Piero della Francesca, poi sviluppata da Carlo Ginzburg. Nel volume, che si basa su documentazioni offerte dalla recente bizantinistica, sono messi in relazione la conoscenza storica e prosopografica di Bisanzio negli anni 50 del 400 e l’attività di Piero della Francesca. «La mia – spiega l’autrice – è una lettura in chiave bizantina che parte dalla ricostruzione dell’importanza nello scacchiere
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“internazionale” di Bisanzio al momento della sua caduta, nella cerniera tra l’evo antico e l’evo moderno». Il quadro è diviso in due. «Nella parte destra, a mio avviso, abbiamo da sinistra il Bessarione, tutore degli interessi di Bisanzio presso la curia pontificia e gli stati occidentali e, a destra, Niccolò III d’Este, padrone di casa della seduta iniziale del Concilio di Ferrara-Firenze del 1437-39 che doveva celebrare l’unione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Al centro, Tommaso Paleologo, l’ultimo erede della dinastia dei principi Paleologi. I tratti somatici del giovane biondo corrispondono alle raffigurazioni di Tommaso in nostro possesso». Determinanti sono poi il color porpora della sua veste e i piedi scalzi che, per Silvia Ronchey, confermano il fatto che si tratti del porfirogenito, dell’erede al trono di Bisanzio, in attesa di indossare i calzari, anch’essi color porpora, simboli
del potere. «A suffragare la mia interpretazione c’è, inoltre, il parallelismo visivo, certificato da studi sul quadro, tra la figura di Tommaso e quella del Cristo flagellato nella parte sinistra». Cristo che, dunque, assurge a metafora «di una Costantinopoli non ancora caduta, ma gravemente minacciata dai Turchi». All’estrema sinistra dell’opera, Giovanni VIII Paleologo, che guidava la delegazione orientale al Concilio, «seduto sul trono di Ponzio Pilato in qualità di rappresentante dell’Impero romano». Il vero soggetto non è dunque la flagellazione, ma il conciliabolo tra i tre personaggi perché, come conclude Silvia Ronchey, «il Concilio era il presupposto fondamentale per una politica del papato e delle potenze occidentali in soccorso di Bisanzio». Il tema dell’opera è dunque il salvataggio di Bisanzio.
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in diversi scenari figurativi dell’artista, che rimandano in modo evidente ai colori e ai contorni delle sue terre. «È vero – ribatte Vittorio Sgarbi – che i paesaggi sul fondo del “Dittico dei duchi di Montefeltro”, del “San Girolamo con un devoto” esposto a Venezia e della “Resurrezione” mostrano un collegamento con i luoghi reali. Ma la forza di Piero della Francesca è quella di renderli luoghi assoluti. È evidente che i suoi occhi hanno corso quell’orizzonte, ma poi esprime una singolare capacità di trasfigurazione della dimensione realistica. Unisce, come nel caso della “Madonna del Parto”, presenza ed eterno, assoluto e quotidiano. La Valtiberina certamente l’ha influenzato, ma Piero non si è fermato alla descrizione dei luoghi, creando invece dei luoghi della mente».
URBINO Con Duca Federico da Montefeltro, Urbino si trasforma in uno dei centri più fervidi del Rinascimento. In questo scenario Piero ha realizzato il dipinto più amato da Sgarbi, la “Pala di Montefeltro”, oggi conservata presso la Pinacoteca di Brera di Milano, un tempo nella Chiesa di San Bernardino: «Se fossi ministro della cultura, la ricollocherei, anche solo per breve tempo, nella sede originaria, affinché la scatola architettonica riprodotta nell’opera sia inserita di nuovo nell’altare, indicando un rapporto fondamentale tra lo spazio dipinto e lo spazio reale». A Urbino Piero della Francesca deve aver provato il gusto della sperimentazione e del confronto, vivendo appieno il fervore intellettuale che, con ogni probabilità, ha favorito anche l’attività teorica, sintetizzata nel suo “De
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Da Firenze ad Arezzo
In alto, il Palazzo Ducale di Urbino. A fianco, la “Madonna di Senigallia”, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino
Prospectiva pingendi”. «Le architetture di Urbino costituiscono l’emanazione, attraverso il Laurana, del pensiero del pittore biturgense. Il Palazzo Ducale è la traduzione in architettura del suo pensiero pittorico, intimamente architettonico e progettuale». La Galleria Nazionale delle Marche, ospitata oggi nel Palazzo Ducale, individua il cuore della tappa urbinate in quanto accoglie nell’“appartamento
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del Duca” l’enigmatica “Flagellazione”, oggetto delle indagini di molti storici, e “La Madonna di Senigallia”, celebre per il suo impiego della prospettiva e dei colori, che Piero dipinse in occasione del matrimonio della figlia del Duca di Montefeltro con Giovanni della Rovere.
RIMINI Questo peculiare itinerario pierfrancescano si conclude a Rimini, dove nel 1451 Piero della Francesca fu incaricato di realizzare, nel Tempio Malatestiano, l’affresco votivo di Sigismondo Pandolfo Malatesta raffigurato in adorazione di San Sigismondo. Una delle più vivaci e originali rappresentazioni della psicologia e degli atteggiamenti di un signore rinascimentale. Il pittore biturgense fu chiamato, insieme al grande teorico dell’architettura Leon Battista Alberti e Agostino di Duccio, a contribuire al rinnovamento artistico in senso rinascimentale voluto da Sigismondo. «Piero della Francesca è stato un pittore aulico che corrispondeva allo spirito del potere del tempo», afferma Vittorio Sgarbi, che però critica l’attuale collocazione dell’opera, posta in controluce rispetto alla disposizione originaria che godeva di una luminosità a favore, così come l’aveva pensato il suo autore: «il dipinto rappresenta, infatti, la luce del potere». Piero della Francesca si spegne, dopo un crepuscolo
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Da Firenze ad Arezzo
artistico attraversato anche dalla cecità, il 12 ottobre del 1492, data della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Inizia la storia moderna. Ma Piero della Francesca resta «un artista – conclude Vittorio Sgarbi – assolutamente contemporaneo: il mio maestro Francesco Arcangeli paragonava la sintesi dell’immagine realizzata dal pittore all’opera di Mondrian. Piero è stato il maestro ideale di Balthus e molti esponenti dell’arte contemporanea e dell’arte astratta hanno guardato a lui non come a un artista antico, e sono stati influenzati dalla sua dimensione arcana e assoluta. Nel periodo successivo alle avanguardie futuriste, nei primi decenni del secolo scorso, l’affermazione di un’idea di arte che ricostruisce gli spazi, può definirsi un’applicazione di Piero della Francesca alla contemporaneità».
In alto,il Tempio Malatestiano a Rimni. A fianco, “Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo”
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LA STRADA DEL SALE
di GIORGIO GOVONE
Romani costruttori di strade. Diecimila le città dell’impero collegate attraverso percorsi glareati. Salaria: via di comunicazione tra Roma e l’Adriatico. Costola della Salaria, la meno nota via Cecilia che taglia il teramano e il parco del Gran Sasso
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l nome indica la sua origine: Salaria, via del Sale. Da Roma al mare Adriatico. Con approdo a Castrum Truentinum, alla foce del fiume Tronto, riva destra (l’odierna Martinsicuro). Chilometri glareati che tagliavano (e tagliano) «l’alto Lazio, la Sabina e i territori della Marsica». Archeologo, profondo conoscitore e divulgatore di civiltà scomparse,Valerio Massimo Manfredi viaggia in modo assiduo lungo le vie dell’impero. «Trecentomila chilometri attraverso cui si poteva andare da Cadice a Ormusia (oggi Ormuz); da Trebisonda a Eburacum (York); da Assuan a Sarmizegetusa, in Romania. Insomma, tutte le diecimila città dell’impero erano collegate da strade». Come mostra e racconta la Tabula Peutingeriana, «un documento straordinario, una mappa che illustra le vie militari dell’Impero. Si tratta di una copia medioevale (XII-XIII sec.) di un’antica carta romana che porta il nome dell’umanista e antichista «Konrad Peutinger che la pubblicò». Undici pergamene riunite in un’unica striscia che tracciano i 60.000 km pavimentati e che sono «una riproduzione quasi certamente fedele di un originale probabilmente di età adrianea e che, a sua volta, si rifaceva, si pensa all’Orbis pictus (mappamondo, ndr) di Agrippa». Salaria costruita come una normale via consolare, ma senza ricevere in dote la gens del suo costruttore. Come è accaduto, ad esempio, alla via Emilia con il console Marco Emilio Lepido. «In effetti – osserva Manfredi – non è considerata una consolare, aggettivo che attesta la sua origine militare e coloniale, essendo il console a capo dell’esercito». In assoluto, infatti, le arterie erano concepite «per controllare l’impero» questi percorsi permettevano di
Via Cecilia
I
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Tra Roma e l’Adriatico
«Le diecimila città dell’Impero erano collegate da trecentomila chilometri di strade»
«spostare gli eserciti con grande rapidità e avevano il compito del cursus publicus, la posta imperiale che viaggiava, di giorno e di notte, attraverso le mansiones e le mutationes (stazioni di cambio)». In un certo senso, però, sulla via del Sale la funzione militare e quella economica trovano una perfetta sintesi. «Roma aveva bisogno di uno sbocco sull’Adriatico dove si è affacciata, conquistando in primis Sena Gallica (Senigallia). Poi piano piano si attesta su quella costa.
Valerio Massimo Manfredi, archeologo, profondo conoscitore e divulgatore di civiltà scomparse
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Via Cecilia
Inevitabile, quindi, il bisogno di collegamento». La Salaria è lì. O meglio era già lì. Perché prima portava il sale dal guado del Tevere alla Sabina, mentre la via Campana dalla foce raggiungeva, costeggiando la riva destra del fiume, il guado in zona Foro Boario. L’una era il prolungamento e completamento dell'altra. Costituendo così un sistema unitario. Forse presente già prima della fondazione di Roma (VIII sec. a.C.). Del resto, nota Manfredi, «molto spesso le strade romane non fanno che ripercorrere dei tracciati già esistenti». Uscendo dall’omonima Porta romana, la Salaria
prendeva la direzione di Forte Antenne. Superato l’Aniene, si marciava su Settebagni (Septem balnea). Da lì verso la collina della Marcigliana Vecchia dove si trovava l’antico insediamento latino Crustumerium. Lasciato alle spalle Passo Corese, si giunge a Fara in Sabina. Al 35esimo chilometro, il bivio: dalla Salaria, secondo alcune ipotesi, in zona Ponte Buita si distacca la via Cecilia, diretta poi ad Atri (Hatria). Questo, mentre la strada maestra proseguiva su Rieti, per poi gettarsi nel mare Adriatico. Non prima di aver risalito il Velino, per raggiungere la vicina Cotilia (Vicus
Tra Roma e l’Adriatico
Sopra una sezione della Tabula Peutingeriana, pergamena di età medioevale, una sorta di ‘mappa stradale’ che riproduce 60.000 km di strade romane
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A pochi passi dal centro di Roma in un’atmosfera calda e accogliente, potete gustare il pane a lievitazione naturale, la pasta, i grissini e i dolci artigianali. Carni di primissima qualità cotte su brace di quercia tra cui, danese, angus argentina, scottona chianina (geneticamente certificata) e il manzo "Wagyu tipo Kobe". Pizza cotta nel forno a legna ecologico con impasto a lunga lievitazione altamente digeribile. Ampia sala fumatori a norma di legge e gradevole veranda estiva. Carta dei vini di livello.
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Il comfort di “sentirsi a casa”
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Tra Roma e l’Adriatico
«Questi percorsi permettevano di spostare gli eserciti con grande rapidità e avevano il compito del cursus publicu» reatinus), dove si trovano sorgenti di acque acidule, solforose e ferrose. Attraversate le “gole del Velino”, alle pendici del monte Terminillo, il cui superamento richiesero idee e soluzioni tecniche avanzate per gli ingegneri romani. Sorpassato l'Appennino centrale, la via scendeva nella valle del Tronto, quindi raggiungeva Ascoli e Piceno (Asculum) e poi il mare. Per contro, la sorella minore, la via Cecilia va oltre, costeggiando nel suo percorso Amiternum (nella piana di L’Aquila). Un ramo della via Cecilia, transitata anche per Interamnia Praetuttiorum (Teramo), è probabile raggiungesse la costa a Castrum Novum (Giulianova). Incerta la paternità del costruttore
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dell’arteria che potrebbe identificarsi, nel 142 a.C., con il console Lucio Cecilio Metello Calvo oppure, nel 117, a.C. con Lucio Cecilio Metello Diademato. Lo stesso tracciato è alquanto incerto. Due soli i documenti esistenti che lo attestano: un'iscrizione rinvenuta a Roma, vicino a porta Collina, con cui si ricorda l'appalto di alcune opere di risistemazione della via la cui datazione potrebbe essere del periodo di Silla. E una pietra miliare a Sant’Omero (Teramo), tra i Piceni dunque, dove si citano il console L. Caecilius Q.f. Metellus, che si presume possa essere il costruttore della via, e la distanza da Roma è di 119 miglia.
Il sistema viario dell'antica Roma di collegamento con il Mar Adriatico. In rosso la via Salaria, in viola la via Tiburtina Valeria, in blu la via Flaminia
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TERRA DI FORTI EMOZIONI di FELICE SACCHETTA
Teramano da parte di padre, l’attore e regista Carlo Delle Piane vive l’Abruzzo in modo viscerale. Raccontandolo sull’onda dei ricordi e dei sentimenti
Un’ “isola” nel verde d’Abruzzo COUNTRY HOUSE LE GROTTE DEI SARACENI Via Mediana, 2 - S. Omero (TE) Tel.0861 85.04.01 Fax 0861 85.20.12 www.legrottedeisaraceni.it info@legrottedeisaraceni.it
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Via Cecilia
«Come posso dimenticare le estati trascorse a Casoli, ad Atri, al mare a Roseto? Non è solo la mia infanzia, quello che mi trovo a ripensare e rivivere è il “gusto” profondo per questa terra che è la mia casa»
Dal mare vero alla montagna
«un insieme di tratti disomogenei che vanno a comporre un’unica opera», l’Abruzzo dell’attore e regista Carlo Delle Piane. Il cui legame con questa regione, e in particolare con il teramano, affonda le sue radici nella dimensione familiare. Maschile. Essendo il padre abruzzese di Santa Margherita di Atri (Teramo). «Se percorro in macchina la provincia di Teramo, mi trovo a vivere un contesto, uno scenario naturale che parte dal Gran Sasso e arriva a Giulianova o a Roseto degli Abruzzi – racconta l’artista nato a Roma, in zona Campo de’ Fiori –. E la gamma di sensazioni che sfociano in sentimenti è talmente ampia e variegata che, per un attimo, dimentico i miei legami affettivi e vivo una realtà che, di per sé, è motivo di emozione». L’onda dei ricordi. «Come posso dimenticare le estati trascorse a Casoli, ad Atri, al mare a Roseto? È impossibile anche se lo volessi. Non è solo la mia infanzia, quella che mi trovo a
è
Nella pagina, a fianco uno scorcio di Campo Imperatore; In alto, l’attore e regista Carlo Delle Piane
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ripensare e rivivere, è il “gusto” profondo per questa terra che è la mia casa. E non immagina quanto sia importante per un uomo come me il sentirsi a casa. Nella biografia che il giornalista Massimo Consorti sta finendo di scrivere su di me, e che uscirà in autunno, è raccontata la mia vita, ovviamente non solo professionale. Il rapporto con l’Abruzzo in generale e con quello teramano in particolare emerge in modo prepotente e, leggendola, ci si potrà rendere conto di quanto avere questa terra nel Dna abbia inciso in ogni momento della mia vita e della mia carriera». Quali emozioni abbina a questo territorio all’apparenza molto duro, ma nel profondo ricco di umanità? «Le sensazioni che provo le ho descritte nel primo film che ho girato da regista e che ho voluto fortemente ambientare ad Atri. “Ti amo Maria”, questo era il titolo del film, trattava una disperata storia d’amore che partiva dal carattere molto duro dei protagonisti per approdare a
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Via Cecilia
Dal mare vero alla montagna
un rapporto in cui non solo l’umanità, ma anche la capacità di comprendere l’altro, sfociava in un ritrovarsi drammatico finale. Lo scenario di Atri e dei dintorni faceva da scenario a personalità che, per molti versi, ne rispecchiavano l’essenza. Il prossimo film a cui stiamo lavorando, e di cui curerò la regia, lo gireremo ancora in Abruzzo, e si gioverà degli stessi luoghi, anche se in un contesto filmico diverso e sicuramente più complesso del precedente. Per anticipare la sua domanda posso solo dirle che abbiamo appena terminato l’adattamento e che, a breve, effettueremo i sopralluoghi». La natura qui è prorompente, quanto e come ha influenzato gli abruzzesi e il loro modus vivendi? «Credo che l’Abruzzo sia l’unica regione italiana in cui è possibile trovarsi di fronte a contesti paesaggistici opposti in pochissimo tempo; dal mare vero alla montagna vera, dal porto di Giulianova alle piste da sci di Prati di Tivo o di Campo Imperatore. È chiaro, quindi, per rispondere alla sua domanda, che un assetto del territorio così particolare abbia sviluppato nella
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gente d’Abruzzo una capacità di adattamento alle situazioni più svariate che vanno dalla gioia della festa, alle situazioni più drammatiche. La riprova sta nella dignità, nella forza e nel coraggio con cui, ad esempio, gli aquilani stanno affrontando le conseguenze del terremoto. La bellezza della natura dell’Abruzzo è la sua forza indiscussa». Può suggerire un itinerario ‘diverso’, un paesaggio, uno scorcio per far conoscere la sua Teramo? «Ricordo le gite al Santuario di San Gabriele, a Isola del Gran Sasso. Con i miei parenti partivamo da Casoli percorrendo le strade di allora.Terminata la visita di fede al santuario, andavamo a Castelli, lo splendido borgo alle pendici del Gran Sasso, proprio alle falde del Monte Camicia, per mangiare le crespelle o i maltagliati con la cicoria. Ricordo la strada tortuosa e poi improvvisamente il paesino arroccato e sullo sfondo la maestosità del “grande sasso”, come un grande teramano, Ivan Graziani, ha definito la nostra montagna in una sua canzone. All’epoca certo non apprezzavo le splendide ceramiche dei negozietti o quelle della
In senso orario, un particolare del santuario di San Gabriele dell'Addolorata, a fianco, la città di Teramo
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Dove nasce l’eccellenza d’Abruzzo 38 ettari di terreno. 30 ettari coltivati a vigneto che appartengono alle zone della d.o.c.g. Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane, della d.o.c. Montepulciano d’Abruzzo e della d.o.c. Trebbiano d’Abruzzo. È l’azienda agricola Nicodemi, sui dolci pendii del comune di Notaresco. Le uve selezionate mediante la raccolta manuale sono trasferite nella moderna cantina dove vengono vinificate con lunghe fermentazioni a temperatura controllata. Ne derivano il Notàri Montepulciano Colline Teramane e il Notàri Trebbiano d’Abruzzo, vini che interpretano pienamente la cultura e la tradizione del territorio.
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Dal mare vero alla montagna
pala d’altare della chiesa principale, ma ricordo i calanchi tanto simili a quelli di Atri ed è come, nonostante il mal di stomaco di noi bambini per un viaggio in auto assurdo, non ci fossimo mai mossi da casa». Mare e monti: Teramo pare divisa in due. Quali luoghi meglio caratterizzano le ‘due’ parti? «Io la vedo divisa in tre perché tra il mare e il Gran Sasso c’è tutta la stupenda zona collinare
che, ovviamente, identifico con Atri, le sue colline dolci verso Casoli, i calanchi aspri verso Cellino Attanasio, ma anche con Campli. Mi è capitato di scoprire ultimamente Sant’Omero, un paese che non conoscevo, grazie a uno splendido documentario girato un po’ di tempo fa da Caterina Carone, una regista teramana giovanissima e di grande valore. E il piacere di vedere sullo schermo raccontare la vita della gente di Teramo è stato pari allo scoprire che anche in Abruzzo stanno crescendo cineasti di
A sinistra, il porto di Giulianova
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Dal mare vero alla montagna
Sopra, una veduta di Cellino Attanasio
indiscussa qualità. Per tornare alla sua domanda le dirò che, sempre per motivi sentimentali, per me il mare è quello di Roseto, col suo arenile bianco e la montagna è il Gran Sasso, il gigante che dorme». Le città possono essere lette anche attraverso il filtro della memoria, dai profumi alla gastronomia. «Pur essendo tornato parecchie volte in Abruzzo, da adulto continuo a vivere questi luoghi attraverso le immagini e i profumi che ho vissuto da bambino, quando trascorrevo le vacanze estive a Casoli e il profumo del pane appena cotto nel forno, riempiva l’aia del casolare di mia zia. Quello era il pane sul quale i miei parenti mettevano un filo d’olio e un pizzico di sale, una fetta di pomodoro e, quando volevano esagerare, mezza salsiccia. Ricordo il profumo e il sapore
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del ragù e la caccia alle polpettine di carne che facevo con i miei fratelli e i cugini. I maccheroni ammassati, gli spaghetti alla chitarra e le minestre ricche di verdure saporite. Poi c’era il timballo, ma quello arrivava solo nei giorni di festa insieme al pollo e al ciambellone buono come una torta da grande pasticceria. Il mio rapporto con la cucina abruzzese è questo e non riesco a non farlo correre sul filo della memoria, del ricordo, dell’emozione che ancora provo quando ripenso a quei momenti e a quei luoghi». Carlo Delle Piane oggi. Quali progetti e quali sorprese il pubblico deve ancora aspettarsi da lei? «Ci sono molte cose che bollono in pentola. Tutti progetti belli e impegnativi con qualcuno in dirittura d’arrivo e un altro già in corso d’opera. Come le ho detto, in autunno uscirà la
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Via Cecilia
«L’Abruzzo è l’unica regione in cui è possibile trovarsi di fronte a contesti paesaggistici opposti in pochissimo tempo»
mia biografia, un progetto quasi ultimato che ripercorre la mia vita e non solo attraverso il cinema. Stiamo lavorando alacremente al secondo film che girerò da regista, ancora in Abruzzo poi c’è lo spettacolo teatrale che ha debuttato a Roma lo scorso mese di dicembre, a Napoli in aprile e che sarà in cartellone per due settimane ancora a Roma, a novembre prossimo. Lo spettacolo si intitola “Io, Anna e Napoli”. In scena con me, oltre a un gruppo di musicisti di prim’ordine e uno schermo bianco sul quale scorrono immagini, c’è Anna Crispino, una bravissima cantante napoletana. Napoli è la città sullo sfondo, un luogo che definisco il “palcoscenico d’Italia”. In primo piano momenti della mia vita, dei miei film e le stupende canzoni del repertorio classico e moderno napoletano interpretate da Anna Crispino. Continuo, insomma, la mia vita d’attore, con Napoli sullo sfondo e Teramo nel cuore».
Dal mare vero alla montagna
In alto, il rosone del duomo di Atri
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A contatto con la natura e le tradizioni contadine Trenta ettari di terreno coltivati con metodi biologici. Un allevamento di bovini allo stato brado e animali da cortile. È l’azienda agricola Colle S. Giorgio da cui si gode di uno stupendo panorama dal Gran Sasso al mare. Da qui si può partire verso interessanti escursioni o riposare in una delle sei camere doppie ricavate dalla recente ristrutturazione di un casale in pietra di fine 800. Una sala del vecchio casale ospita un’esposizione di oggetti di uso quotidiano delle antiche tradizioni contadine. Nell’accogliente sala ristoro, biscotti e dolci tradizionali e le ricette della tipica cucina abruzzese.
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IL GRAN SASSO E I MONTI DELLA LAGA
di MARIO VIVOLO
Dall’Ephedra major alla regina del parco, la Genista pulchella subsp. Aquilana. Dirupi, cascate e boschi. Con alberi monumentali. Una natura dirompente e maestosa domina nei 150.000 ettari del parco nazionale del Gran Sasso e monti della Laga
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na straripante sinfonia naturale è il benvenuto con cui il parco nazionale del Gran Sasso e monti della Laga accoglie a chiunque percorra anche solo una manciata dei suoi 150.000 ettari spalmati tra Abruzzo, Lazio e Marche. Un pentagramma ricco di colori, profumi, paesaggi e immagini che viene suonato all’unisono. Cangiante. Per la sua estensione, il parco è ‘diviso’ in undici distretti; ciascuno ispirato alle peculiarità culturali, paesaggistiche o storiche che dischiude. La forte presenza antropica si integra con una dimensione geografica, climatica e geomorfologica
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punteggiata da fauna e flora, esempi tra i più rari del Mediterraneo e, in alcuni casi, dell’intero pianeta. «È per questa ragione – spiega il Presidente del Parco, Arturo Diaconale - che l’Ente parco si è dotato di organismi dediti alla ricerca scientifica, come il Centro Ricerche Floristiche dell'Appennino (Crfa) gestito in collaborazione con l’Università di Camerino, i cui ricercatori lavorano allo studio della flora dell’area protetta e, in generale appenninica, al fine di fornire indicazioni utili per attuare azioni di tutela mirate ed efficaci. Grazie al Centro, sappiamo ad esempio che il nostro parco, con 2.364 specie censite, è una delle aree protette europee
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Via Cecilia
più ricche in biodiversità vegetale». Una ricchezza che, osserva Fabio Conti, responsabile scientifico del Centro, «il parco deve alla caratteristica unica di includere due massicci di natura litologica diversa: il calcareo Gran Sasso e i monti della Laga, dalla natura arenaceomarnosa. Con un’escursione altimetrica che va da 500 mt sul livello del mare ai quasi 3000 mt, attraversando valli fluviali, pareti rocciose, vallecole umide, pascoli e boschi. Ciò rende l’area protetta il teatro di continue scoperte floristiche». Provenendo da Roma, da L’Aquila, la piana di Navelli, famosa per la coltivazione dello zafferano, introduce al distretto “Terre della Baronia”. Con i borghi fortificati in antico parte della Baronia di Carapelle: Santo Stefano di Sessanio, borgo mediceo; Castel del Monte, capitale della transumanza; Calascio, set di film come LadyHawk e Il nome della rosa e Castelvecchio Calvisio, con la sua pianta ellittica. In maggio, la spettacolare fioritura dell’Adonis vernalis, ranuncolacea a fiori giallo-sole. È
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l’unica stazione in Italia dove la bellissima specie sopravvive ed è stata scoperta negli anni ‘80 da alcuni escursionisti in gita, dopo che, per anni, era stata considerata estinta. «L'Adonis vernalis – sottolinea la botanica, Daniela Tinti è, per la sua appariscenza, l'icona della flora del distretto». Ma si « rimane affascinati anche dalle distese piumose dei pascoli a Stipa, dalle orchidee, dai bianchi Eliantemi appenninici e dalle archeofite: papaveri, fiordalisi, gittaioni, che ancora fioriscono copiosi nei campi non compromessi dall’uso massiccio di diserbanti. Nelle distese pascolive, si potranno scorgere piante che, fino a qualche anno fa, erano sfuggite persino agli studiosi come il Bulbocodium versicolor, specie steppica o la Pulsatilla montana, dai fiori viola cupo». Continuando in direzione di Pescara, si raggiunge il distretto “Valle del Tirino”, ritagliato intorno al tracciato del fiume omonimo, alimentato solo dalle acque sorgive che scaturiscono alle falde del Gran Sasso. Le sue rive sono caratterizzate da vegetazione fluviale. Con salici, pioppi, canneti, punteggiati dai gialli Iris pseudacorus. Intorno, un paesaggio agrario ben conservato, ma a forte rischio a causa dell'abbandono della coltivazione del mandorlo, qui condotta insieme a quella dell’ulivo. Nell’area, è stato rinvenuto il Guerriero di Capestrano, enigmatica statua; mentre, a monte, i Grottoni di Calascio hanno restituito testimonianze archeologiche. Arricchiscono il comprensorio, dal clima più mediterraneo del parco e perciò adatto ad ospitare i vigneti nella Conca di Ofena, il “Forno d’Abruzzo”, i centri di Capestrano e Ofena, costruiti con la bianca pietra calcarea del Gran Sasso. Anche la flora,
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In viaggio nella biodiversità
Il calcareo Gran Sasso dà il nome all’omonimo parco che include anche i monti della Laga: 150.000 ettari spalmati tra Abruzzo, Lazio e Marche
qui ha il suo guerriero: il Goniolimon italicum, una delle specie più rare d'Europa. Seguendo i contrafforti del versante pescarese del Gran Sasso, “Le Grandi Abbazie” svelano perle architettoniche: San Clemente a Casauria, San Bartolomeo a Carpineto della Nora e Santa Maria Casanova a Villa Celiera. Come gli antichi centri di Corvara e Pescosansonesco. «La natura non è da meno – osserva il direttore del Parco, Marcello Maranella -. Con boschi, cime montuose, la suggestiva valle del Voltigno, lo spettacolare canyon di Valle d’Angora che da Campo Imperatore scende fino a Farindola. Il paese ha legato il suo nome al ritorno del camoscio appenninico sul Gran Sasso, quasi estinto ai primi del ‘900, la cui reintroduzione è il maggior successo dell’Ente». «Nel distretto – sottolinea la botanica - fiorisce la rara Campanula fragilis subsp. cavolinii che, con i suoi cuscinetti viola, punteggia le mura di castelli e abbazie. E' una pianta endemica dell'Italia centrale che vive solo in Abruzzo. Meno appariscente, ma affascinante, è l’Ephedra major, anello di congiunzione fra le conifere e le latifoglie risalente all'era terziaria e
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miracolosamente scampata alle glaciazioni, che vive abbarbicata alle calde pareti calcaree più esposte a meridione. Un fossile vivente. Sul Voltigno, vegeta una rarissima specie di aglio selvatico (Allium phtioticum) che, in Italia, si trova solo in Abruzzo». Salendo di quota verso il Gran Sasso, le “Alte Vette” introducono nella parte selvaggia del parco. Rupi, precipizi, valli glaciali, antiche morene si alternano in un ambiente cui fa da sfondo Campo Imperatore. L’altopiano, il più esteso del continente, «potrebbe benissimo essere Tibet», come scriveva il naturalista Fosco Maraini, visitandolo negli anni Trenta. Al disciogliersi delle nevi, la piana si tinge di viola con una fioritura di crochi mozzafiato. Emozionante osservare il giardino roccioso naturale dove i miti della flora d'alta quota fanno bella mostra di sé: i cuscinetti fioriti di Silene acaule, la Stella alpina dell’Appennino, l'Adonide distorta, l’Androsace di Matilde e il rarissimo Genepì appenninico. «Su queste montagne – spiega Conti - si concentra la flora che, con le glaciazioni, è scesa dalle zone artiche e qui è rimasta rifugiata
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al ritiro dei ghiacci». Anche la fauna dischiude presenze preziose, come la Vipera dell’Orsini. Sui fianchi delle montagne, in dura pietra calcarea, i villaggi di Assergi, Camarda e Paganica. Procedendo verso i monti della Laga, s’incontra il distretto “Alta Valle dell’Aterno”. Qui, tra boschi e vallate coltivate, si trovano i centri di Capitignano, Montereale, Cagnano Amiterno e Pizzoli. Il distretto conserva i resti archeologici
della città romana di Amiternum, mentre nelle selve di faggi e cerri, è possibile imbattersi in rarità floristiche come il Melo fiorentino (Malus florentina), un piccolo melo selvatico le cui foglie somigliano a quelle del biancospino. E, nella calta palustre, il trifoglio fibrino, altrove scomparso per la manomissione dell’ambiente acquatico da parte dell'uomo. Da Amiternum, a collegare il capoluogo, con Teramo e l’Adriatico, parte la “Strada Maestra”, distretto ritagliato sul tracciato della strada statale 80 e autentico cuore del parco. Qui il Gran Sasso e i monti della Laga vengono a contatto. I bianchi calcari e le arenarie si toccano e si sovrappongono. Il lago di Campotosto, il bacino artificiale più esteso d’Europa, è un paradiso per l’avifauna e reca una flora peculiare, tipica della torbiera che occupava la zona prima della realizzazione del lago. Qui, illustra Conti, «si possono mmirare le fioriture di Menyanthes trifoliata, Succisa pratensis, Eriophorum latifolium e, in un'unica località, la piccola pianta carnivora Pinguicula
Relax, natura e sapori nel cuore de L’Aquila Natura incontaminata, pace, silenzio. E i buoni sapori della cucina casereccia, con ricette tipiche realizzate secondo le ricette tradizionali, lavorando solo materie prime selezionate. Siamo all’Agriturismo Regina di Cuori, nel cuore verde de L’Aquila. Gli ospiti qui possono riposarsi in comode camere con bagno, fare rilassanti passeggiate all’aria aperta, godere dell’ospitalità calorosa della gestione familiare.
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«I bianchi calcari e le arenarie si toccano e si sovrappongono»
vulgaris». Più a sud, il Chiarino è la “valle dell’Eden” del parco dove di recente è stata ricostituita una cospicua popolazione di cervi. Nella faggeta del Chiarino, sbocciano le piccole bulbose tipiche del sottobosco: Scille, Crochi, Bucaneve, Corydalis insieme ad Anemoni e Cardamine. Lungo la strada che percorre il passo delle Capannelle, ci si può imbattere in una delle regine floristiche del parco: la Genista pulchella subsp. aquilana, descritta dallo stesso Conti: «Per capire di che pianta si trattasse ho dovuto girare il mediterraneo e chiedere in prestito campioni d'erbario a mezza Europa. Poi ho capito che non si conosceva niente di simile al mondo e l'ho battezzata con il nome dell’Aquila nella cui provincia ricade la località in cui l’ho rinvenuta». Il contiguo distretto della “Valle siciliana” interessa il versante teramano del Gran Sasso, antico feudo della potente famiglia dei Mendoza. In essa, sono ricomprese le dolomitiche pareti del Corno Grande e del monte Camicia, costellate di Sassifraghe e Sedum. Dove il camoscio appenninico compie le sue evoluzioni e l’Aquila reale e il Falco pellegrino sono i signori del cielo. Più in basso, le faggete ammantano i ripidi fianchi dei monti da dove precipitano le acque di torrenti e
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fiumi. Bellissimi i colori della faggeta d'autunno, quando faggi, aceri, ciliegi selvatici e sorbi sfumano tra il verde, il rosso e il giallo. Ai piedi del gigante dell’Appennino: Castelli, una delle capitali dell’arte ceramica; Isola del Gran Sasso, in passato apprezzato centro per la produzione della lana; Tossicia, artigianato del rame. Genius loci dei boschi fra Casale San Nicola e San Pietro, il famoso "Acerone", un possente Acero di monte cavo al suo interno. Il distretto “Via del Sale” si identifica con l’antica via Salaria. Le foreste che ammantano i contrafforti settentrionali dei monti della Laga costituiscono l’elemento ambientale di maggior pregio. Con la presenza del raro Abete bianco, mentre i piccoli paesini in pietra arenaria sono immersi nei castagneti con alberi monumentali, spesso cariati e contorti. Nella vallata scorre impetuoso il Tronto; nel mezzo di bancate di arenaria o depositi di travertino, la pietra spugnosa con cui sono stati realizzati i paesi della vallata e Ascoli. La presenza dell’arenaria influenza anche la vegetazione e la flora. Perché troviamo specie di piante adattate al substrato acido che, sul
Orto botanico del Centro Ricerche Floristiche dell'Appennino (Crfa), istituto di cui si è dotato l'Ente parco ha censito ben 2.364 specie del parco
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calcare del Gran Sasso non vegetano o quasi, come l'Erica e la Ginestra dei carbonai. Il distretto ricavato intorno alle “Sorgenti del Tronto” racchiude i comuni laziali del parco: Accumoli e Amatrice e una fetta dei monti della Laga. La zona umida di Agro Nero è punteggiata da laghetti, sorgenti e piccole torbiere. «La Vallisneria spiralis è una rarissima pianta acquatica dalle caratteristiche foglie nastriformi spiega Conti - e qui vegeta spontanea offrendo rifugio alla fauna acquatica come il raro Tritone alpestre». La denominazione “Tra i Due Regni” allude al ruolo di terra di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli ricoperto dal distretto per secoli. Le mole calcarea dei monti Gemelli domina il paesaggio e racchiude l’orrida gola scavata dal torrente Salinello e le innumerevoli grotte carsiche che hanno restituito importanti testimonianze, dal Paleolitico al Medioevo. Le gole sono dominate dai possenti ruderi di Castel Manfrino, mentre a valle, la Fortezza di Civitella del Tronto sbarrava l’accesso settentrionale agli invasori. Campli, la cittadina farnese, lega il suo nome alla necropoli italica di Campovalano e al Museo Archeologico. La montagna di Campli è detta “Montagna dei Fiori”, regno di 370 specie: Gagee, Erysimum, Eliantemi, Globularie,Timi e Ginestrelle. Numerose le rarità: il Verbascum phoeniceum (unica specie di verbasco a fiori viola) e il fossile vivente Ephedra major.
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A conclusione del viaggio, “Cascate e Boschi”, cuore dei monti della Laga. Faggete, costellate di abeti bianchi e betulle, si alternano a cerrete, quercete e castagneti ove, d’autunno, riecheggia il bramito dei cervi in amore.Tra le tante foreste, il Bosco Martese, è quello che più di tutti evoca una natura primordiale. Spesso gli alberi assumono dimensioni colossali come il castagno di Nardò a Morrice di Valle Castellana. Inoltre, cascate, scivoli d’acqua, sorgenti e torrenti segnano il fianco dei monti. «In questi ambienti stillicidiosi – sottolinea Conti -, in cui il suolo impregnato d'acqua è privo delle sostanze azotate indispensabili alle piante, alcuni organismi vegetali si sono evoluti, acquisendo la capacità di sopperire alla mancanza di nutrienti catturando piccole prede animali. Sono le Pinguicule, piccole piante insettivore le cui foglie sono ricoperte di peli ghiandolari che secernono una sostanza vischiosa, in grado di trattenere piccoli insetti e poi, grazie all'arrotolamento della foglia, enzimi proteolitici che li digeriscono». Più in alto, le alte vette della Laga, segnate dalle brughiere a mirtilli e dai salici erbacei, offrono un’atmosfera nordica al centro del Mediterraneo.
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A CONTATTO CON LA NATURA
di STEFANO MARINELLI
Una vacanza all’insegna di escursioni e passeggiate a cavallo, per respirare la purezza dei boschi e incontrare animali protetti. Il Parco Nazionale d’Abruzzo offre tutto questo ai suoi visitatori. A parlarne è Daniel Esposito
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escasseroli è una perla incastonata proprio nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo. Situata nell’alta Valle del Sangro, circondata da montagne bellissime e da immensi boschi secolari, in una delle zone montane più suggestive d’Italia, rappresenta la meta ideale sia per chi desidera un rilassante soggiorno estivo, sia per chi ama gli sport invernali. «Una gita a cavallo attraverso le
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valli verdi, per uno dei tanti sentieri del Parco, lunghe camminate all’alba verso le zone più interne, per cogliere l’opportunità di vedere gli animali protetti, una gita sui laghi di Barrea o di Scanno, oppure un’ascensione al Monte Marsicano. Sono tutte occasioni ideali per chi cerca di evadere dallo stress quotidiano» afferma Daniel Esposito, proprietario dell’Hotel Iris, che
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Sono circa 150 gli itinerari turistico-naturalistici del Parco, lungo i quali vengono organizzate escursioni a cavallo, a piedi, in bicicletta e, in inverno, con gli sci da fondo
organizza pacchetti mirati all’osservazione in natura nel Parco Nazionale d’Abruzzo in collaborazione con Wildlife Adventures, il progetto a cura di Umberto Esposito. «L’albergo, oltre a essere circondato da un favoloso scenario naturale, si trova proprio adiacente all’attrezzato galoppatoio di Valle Cupa - svela Esposito -, che offre la possibilità di compiere splendide escursioni, per immergersi nella natura incontaminata dei boschi circostanti». Sono circa 150 gli itinerari turisticonaturalistici all’interno del Parco, lungo i quali vengono organizzate escursioni, oltre che a cavallo, anche a piedi, in bicicletta e, in inverno, con gli sci da fondo. Per visitare l’incantevole paesaggio e cercare l’emozione di osservare da vicino la fauna del parco. Infatti, il più antico dei parchi della montagna appenninica ha avuto un ruolo fondamentale nella conservazione di alcune delle specie più importanti. «L’orso bruno marsicano, il camoscio d'Abruzzo e il lupo appenninico sono soltanto alcuni degli animali che è possibile incontrare nei tanti percorsi escursionistici e vengono organizzati anche corsi di fotografia naturalistica» assicura Esposito. L’Abruzzo e il suo Parco, quindi, rappresentano la destinazione ideale per gli amanti della natura, ma anche per le buone forchette. «Le tradizioni gastronomiche di questa regione, dove pastorizia e agricoltura sono attività ancora sviluppate, sono rimaste intatte e la cucina propone gusti forti e genuini, robusta nei sapori». Tradizioni che non vengono dimenticate nemmeno dal ristorante dell’Hotel Iris, in cui «ogni piatto è frutto della cucina tipica abruzzese».
Il Parco Nazionale D’Abruzzo
A sinistra, esterno dell’Hotel Iris e in basso, immagine di Pescasseroli www.bamby-iris.it
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www.wildlifeadventures.it
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IL GELATO ALLO ZAFFERANO di SIMONA CANTELMI
La ricetta del gelato rimane quella di una volta, ma si apre a nuove sperimentazioni. E così nasce il gusto allo zafferano, al Montepulciano e con la ricotta e le noci. Le ricette dei fratelli Di Luzio de La Dolce Vita di L’Aquila
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gusti classici, come crema e cioccolato, piacciono sempre, ma il gelataio deve dare spazio anche a sapori nuovi, soprattutto quando si trova in una terra come l’Abruzzo, ricca di materie prime prelibate. Nel gelato artigianale sono proprio le materie prime fresche e gli ingredienti di qualità a determinarne la bontà e le proprietà nutritive. Dovrà anche esserci un corretto bilanciamento dei componenti solidi dei vari elementi. Tali componenti sono il grasso vaccino, unito talvolta a quello del tuorlo d' uovo di gallina, gli zuccheri, i solidi magri del latte. «I gusti che vanno per la maggiore sono quelli tradizionali, però cerchiamo di proporre alla clientela anche sapori particolari – afferma Ortensio Di Luzio come il gelato allo zafferano e quello al Montepulciano, fatti con i prodotti tipici
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Specialità dell’Aquila
della nostra terra. E poi ancora è allettante proporre accostamenti particolari, che generino un’armonia di sapori, come il gelato al gusto di ricotta e noci e quello alla mandorla variegato al pistacchio, che è una nostra specialità». Senza dimenticare mai il rispetto per la tradizione che è un valore importantissimo, soprattutto per quanto riguarda la lavorazione del gelato. «Tutti i gelati sono fatti con la ricetta di una volta, utilizzando due pastorizzatori e due mantecatori, in modo da creare un gelato come si faceva trent’anni fa». Molte gelaterie oggi utilizzano basi già pronte, fornite da aziende specializzate, dalle quali nascono poi tutti i vari gusti, ma ovviamente il sapore è diverso. «La Dolce Vita è invece legata al metodo tradizionale. Tutti gli ingredienti base (latte e derivati, zuccheri, uova e neutro)
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vengono sapientemente miscelati per ottenere un gelato che crediamo soddisfi il palato della nostra clientela. Certo, serve più tempo e più personale, perché la lavorazione è più impegnativa, ma i risultati non sono paragonabili». Alla base di un buon gelato c’è la lavorazione, ma anche la qualità della materia prima, ad esempio la frutta. «Questa ci viene consegnata quotidianamente – spiega Di Luzio – perché abbiamo deciso di non utilizzare nulla di congelato. Un fornitore di fiducia la porta ogni mattina alle sette». E se il gelato in estate è un must, la produzione non si ferma neanche durante il corso dell’anno, «perché i gusti classici come il cioccolato e la nocciola non tramontano mai».
La Dolce Vita di L’Aquila, dei fratelli Di Luzio, propone anche colazioni, aperitivi e musica dal vivo
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ortensio.diluzio@hotmail.it
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ABRUZZO, TAVOLA DAI SAPORI FORTI Dalle virtù teramane alle “scrippelle m’busse”, passando per le forche caudine della diatriba tra brodetto alla giuliese e teramano. Quella che osserva lo chef Antonio De Sanctis è una cucina ricca di tradizioni
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di CAROLINA FACCHINI
una cucina decisa, con radici forti che traggono linfa da «tradizioni gastronomiche intatte». Terra, mare. Monti, colline e costa. Un dualismo che si riflette anche in tavola, osserva dai suoi fornelli Antonio De Sanctis, presidente dell’Unione cuochi abruzzesi, nonché titolare, con il fratello Enzo, del ristorante Le Ginestre a Villa Santa Maria.
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La tradizione è servita
A sinistra, Antonio De Sanctis; in apertura, la piana di Campo Imperatore. Foto di M.Anselmi / Archivio Ente Parco Gran Sasso Laga
La scelta di offrire un servizio personalizzato La ridotta capacità ricettiva consente un servizio personalizzato di ottimo livello, reso dal personale multi lingue con notevole esperienza professionale. L’Hotel delle Vittorie infatti, dispone di sole 41 camere, provviste di ogni comfort. Il palazzo con i suoi colori pastello è un esempio della caratteristica architettura romana dell’età umbertina, mentre una completa ristrutturazione rende gli interni classici e contemporanei con linee sobrie e colori tenui.
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«Dove ancora si pratica la transumanza, la pastorizia e l’agricoltura propongono gusti forti e genuini»
Pastorizia e agricoltura sono le chiavi per leggere la tavola teramana. «Entrambe sono attività ben sviluppate» e nella gastronomia si riflettono «proponendo gusti forti e genuini. Una cucina robusta nei sapori, nei cui piatti dominano aromi e spezie». La cucina abruzzese è tradizionalista oppure guarda anche all’innovazione? «Siamo profondamente legate alla nostra tradizione gastronomica, ma non per questo non ci si rinnova. A Villa Santa Maria, nel 1560 Ferrante Caracciolo organizzò, all’interno del proprio castello, la prima scuola alberghiera della storia. Convocò i giovani del paese e quelli di tutti paesi vicini, a loro insegnò i segreti dell’arte culinaria. Da allora, nel Regno delle Due Sicilie, i cuochi abruzzesi divennero famosi. Ancora oggi, a Villa Santa Maria, c’è il rinomato istituto alberghiero Marchitelli che, con le nuove tecniche di cottura, riesce a rinnovare le nostre ricette tradizionali. Un’ultima curiosità: Villa Santa Maria è anche il paese natio di san Francesco Caracciolo, ora patrono dei cuochi d’Italia». Andiamo al mare, quali le ricette
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che meglio lo raccontano? «Sul versante marittimo e costiero ci possiamo soffermare sul brodetto. Fin dai tempi antichi, esiste la cosiddetta guerra dei brodetti dove il brodetto alla giuliese è il contendente di quello alla vastese. La differenza fra i due è questa: il brodetto giuliese prevede la cottura graduata, prima del pesce più duro a cuocersi (seppie, totani, calamari) in ultimo del pesce della cottura immediata (merluzzo, sogliola, triglia). Quello alla vastese, invece, vuole la cottura di tutto il pesce insieme e il coperchio viene tolto solo quando la pietanza viene portata a tavola». Entroterra: quali i sapori la tratteggiano meglio?
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Brodetto alla Giuliese Pietanza a base di pesce tipica della zona di Giulianova ed esaltante l’unicità del gustoso pesce dell’Adriatico
«In questa zona, la cucina tradizionale si basa in gran parte sulle carni (ovini, bovini, suini), sui formaggi, sui tartufi, sui funghi e sulle verdure con numerosi aromi tra cui l’immancabile peperoncino piccante da noi abruzzesi preferito al pepe. Dal teramano emergono le “scrippelle m’busse” (crepes bagnate al brodo) e le “virtù”, antica ricetta di verdure che l’usanza vuole si consumi agli inizi di maggio. Fanno degna corona i ravioli ripieni di ricotta con zucchero e cannella, conditi con un denso ragù di maiale». Vini: quali? «L’Abruzzo vanta tre vini Doc: Montepulciano (cerasuolo o rosso), trebbiano (bianco), Dorato del sole Controguerra (rosso o bianco) e recentemente è nato un Docg Montepulciano d’Abruzzo colline teramane. Altri vini eccellenti sono il Montonico,
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Ingredienti per 6 persone
Preparazione:
4 kg. di un misto di triglie, merluzzi, rombo, coda di rospo, seppie, aragostine, pesce ragno, testone, pannocchie, vongole e cozze; 200 gr. di olio, pomodoro a pezzetti, prezzemolo, aglio, peperoncino, sale q. b. e qualche listello di peperone dolce.
In una teglia di coccio piuttosto larga versare l’olio e tutti i sapori. Quando il sugo bollirà, aggiungere le seppie tagliate a listarelle. A metà cottura delle seppie, mettere nella teglia il pesce da taglio, le aragostine intere, il pesce ragno e qualche listello di peperone. Poco prima che abbia termine la cottura del tutto, aggiungere i merluzzi, le triglie e le sogliole e, per ultime, le vongole e le cozze. Cuocere per circa altri 45 minuti.
Sanmarco». Chiudiamo con i prodotti Dop e Igp. «L’agricoltura e la pastorizia abruzzese hanno rivalutato il concetto di qualità sulla quantità e riscoperto nelle zone interne le colture: olio di oliva, zafferano, salamini alla cacciatora, vitellone bianco dell’Appennino centrale e ventricina».
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Mete Grand Tour • 283
I RIFUGI DEI BRIGANTI di RENATA GUALTIERI
“Da soli, a cavallo, ma sui cigli dei colli sporgevano le sagome di uomini armati, cappellacci, fazzoletti e bandiere. Gialla rossa blu l’una, biancorossa e listata dalla croce l’altra”. Sono i briganti raccontati nel libro I fuochi del Basento dello scrittore e giornalista Raffaele Nigro che ripercorre le strade del brigantaggio
a modernità è arrivata anche in Basilicata. Sono nate le strade di fondovalle, dopo le bonifiche dei territori dalla malaria, e il letto dei fiumi ha costituito un ottimo supporto per gli asfalti.Tuttavia ci sono aree collinari e montane dell’interno che restano quelle di centocinquanta anni fa». Lo scrittore e giornalista Raffaele Nigro spiega quanto sono cambiate oggi le vie sulle quali si muovevano i briganti. Ci può indicare un paesaggio suggestivo lungo questo percorso o un luogo a cui lei è particolarmente legato? «Uno è l’area di Monticchio, nel cuore del Vulture, un territorio compreso tra il cratere del vulcano e l’Ofanto, dove i briganti avevano i loro rifugi e ora sono sorte le industrie di imbottigliamento dell’acqua minerale. L’altro è il falsopiano di Aliano, tra i calanchi e le anse del Sinni. Una terra resa mitica dalla presenza di Carlo Levi». Quali sono le tappe più significative da percorrere nella zona del Vulture? «Se si va in cerca di monumenti non si può prescindere dai castelli di Melfi, Lagopesole e Palazzo San Gervasio. Un percorso tra le grandi chiese passa dalla Trinità di Venosa, le cattedrali di Melfi, Rapolla, Acerenza, Atella e dal santuario di San Michele. Le tappe del brigantaggio devono invece toccare la foresta di Monticchio ma anche le forre dell’Ofanto e della Melfia, la valle di Vitalba». Il contadino che diventa brigante cerca il pane bianco, la carne succulenta, i formaggi squisiti e i vini generosi. La scelta del brigantaggio, della montagna, è stata, quindi, anche una fuga dalla fame? «Fuga dalla fame, dalle ingiustizie, dalla noia e da un sistema di regole feudali e medievali. Ma anche
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una scarsa voglia di rispetto delle leggi e delle regole. Certamente l’analfabetismo ha fatto molto, ma anche la dipendenza da regole arcaiche come la vendetta e la legge del taglione e dal delitto d’onore.Tutto questo va però riferito al brigantaggio romantico. Diverse le ragioni che animarono un brigantaggio politico dovuto ai mutamenti spesso violenti di governi e di potentati». Cosa rimane oggi della tradizione culinaria di quei luoghi? «Dopo il diluvio della modernità, dell’invasione della cucina francese ed europea sembrava che tutto dovesse morire. Per fortuna nelle case restava viva la cucina tradizionale e questo ha permesso di raccogliere ricette, di pubblicarle e di provarle anche nella ristorazione commerciale. La quotidianità antica sulla tavola si è arricchita in ragione del benessere attuale e dell’arrivo sul mercato di prodotti che vengono da altre aree». Cosa resta nei suoi ricordi della terra dove lei è nato? «I volti dei miei parenti e dei compagni di liceo, le passeggiate in campagna e lo struscio serale nella via centrale di Melfi. Restano tanti fotogrammi legati all’infanzia, il bosco di castagni ereditato da mia madre, i giochi nei vicoli e certe nevicate epocali che ci riempivano di gioia per l’eccezionalità e la festosità dell’evento».
Le anse del Sinni e Monticchio
In apertura, un particolare della cattedrale di Rapolla; sopra, il giornalista e scrittore Raffaele Nigro
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IL FANTASMA DI CARMINE CROCCO di RENATA GUALTIERI
«Nessuna presenza o tradizione è riuscita a mutare lo spirito sobrio e la cultura priva di gratuite sbavature della gente lucana nell’area del Vulture». È il racconto del giornalista e saggista Gigi Di Fiore
pazi umani che sono contenitori di memorie. «Restano ricordi vivi in gran parte della popolazione, anche attraverso racconti orali tramandati da generazioni. Racconti proliferati attorno a luoghi come il castello di Lagopeseole costruito nel 1242, che oggi ospita un’esposizione permanente di reperti archeologici medievali, sopra la valle di
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Vitalba. Da lì gli ufficiali piemontesi ritennero partissero le bande dei briganti. E per snidarli, fecero distruggere a cannonate l’intera selva tutt’attorno». Il giornalista e saggista Gigi Di Fiore ripercorre, tra geografia e storia, la terra del Vulture. Cosa resta oggi delle strade del brigantaggio? «I paesi che videro la trionfale e quasi inarrestabile avanzata degli oltre mille uomini
Sopra, veduta di Vulture dal Castello di Lagopesole
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Vulture
«La più famosa “Taverna dei briganti” si trova a Lagopesole in direzione del castello» Sulle strade dei briganti
di Carmine Crocco: Ripacandida e Ginestra, Venosa, Lavello. E poi, Melfi, la prima capitale normanna d’Italia, dove il più famoso capo brigante del periodo post-unitario fu accolto e ospitato con grandi onori dai notabili locali a suon di balli e luminarie. E resta Rionero sul Vulture, il paese di Crocco e di Giustino Fortunato, non molto distante da Melfi. Qui, proprio la grande casa dei Fortunato è oggi sede della biblioteca comunale con i volumi che appartennero al famoso meridionalista. Proprio nei boschi di Monticchio, ancora visitabili, attorno a Rionero, Crocco si rifugiò a lungo. C’è anche il capoluogo Potenza, naturalmente, che José Borjès voleva assaltare, mentre Crocco fu contrario temendo la reazione dei militari piemontesi. Una vicenda ricordata anche dallo scrittore Carlo Alianello, scomparso qualche anno fa, nel suo più famoso romanzo L’eredità della priora. Alianello era di Tito, paese non molto lontano da Potenza, e qui è nata una fondazione a suo nome, dove sono conservati
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molti suoi ricordi». C'è una leggenda legata al mondo dei briganti lucani che può raccontarci? «È la leggenda sussurrata, credibile, ma mai provata, dell’uccisione a bruciapelo di Peppe Cola Summa detto Ninco Nanco, allora quarantenne, per tre anni luogotenente di Crocco. Braccato, dopo il tradimento di Michele Caruso divenuto uno dei più noti pentiti tra i briganti lucani in cambio di un bell’impiego di guardaboschi, venne scovato in un capanno tra Avigliano, paese di cui Ninco Nanco era originario, e Lagopesole. I luoghi, sempre quelli. Si arrese e uscì a braccia alzate. Disarmato. Un colpo di fucile lo raggiunse alla gola, uccidendolo. A sparare fu il capo delle guardie di Avigliano, prima borbonico e poi passato a servire i Savoia. Temeva che Ninco Nanco potesse rivelare i nomi dei notabili a lungo complici delle bande dei briganti. In tempi di “normalizzazione” era pericoloso in quel marzo del 1864 venire a sapere che su quel territorio tanti tra i “galantuomini” avevano fatto a lungo il doppio gioco in attesa dell’evolversi degli eventi, a difesa dei loro latifondi e delle loro ricchezze. Ma sui mandanti di quell’uccisione, circolarono solo voci e mai nessuna prova. La leggenda, che per molti è convinzione, è sempre viva». Qualche ristorante o taverna, in zona, ricorda nell'insegna o nel nome delle pietanze, i briganti lucani?
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«Non è un caso che la più famosa “Taverna dei briganti” si trovi proprio a Lagopesole in direzione del castello, dunque, nel comune di Avigliano in provincia di Potenza. Ne è titolare e chef Francesco Giammaria e propone naturalmente, carni, affettati locali e la famosa “pezzente” la salsiccia povera di quei luoghi. Poi, ovviamente, vino Aglianico in quantità. Anche a Venosa c’è un ristorante pizzeria dal nome evocativo: “Trattoria il Brigante”». Il tema del brigante riporta alla tematica dell’aggressività nella comunità del Pollino che veniva celata nella simbologia del lupo, re dei boschi. Le popolazioni del luogo come accoglievano i briganti? «Diciotto sentieri fanno da tracciati suggestivi al grande parco del Pollino, nel sud della Basilicata. Luoghi che furono rifugio ideale per molte bande di briganti. Per affinità sociali, la gente del luogo parteggiava per i briganti. Li univano la stessa miseria, gli stessi problemi di fame di terre, lo stesso timore di vedere i loro figli reclutati dalla leva piemontese. E non a caso, come sarebbe stato per ogni tipo di guerriglia, gli ufficiali piemontesi adottarono nella repressione l’unica tattica possibile: fare terra bruciata attorno a complicità e connivenze territoriali, per isolare le bande. Se la simbologia del Pollino era rappresentata dal lupo re dei boschi, il ricorso a metafore con figure di animali era diffuso nella cultura
Sulle strade dei briganti
Nella pagina precedente, Gigi Di Fiore; in basso, il Castello di Loagopesole qui a sinistra, un’immagine di Carmine Crocco
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Vulture
Sulle strade dei briganti
brigantesca. Crocco ripeteva che “il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non ti morde”. Ma amava dire anche che “bisogna farsi lupo per non farsi sbranare come agnellini”». L’autobiografia di Carmine Crocco ha il suo punto d’avvio nella rievocazione accorata del paesello natio, Rionero in Vulture. Quanto è radicale la rottura operata dal brigante “la carne invece delle erbe, i banchetti interminabili invece dei digiuni”? «Negli anni della macchia, Crocco visse ancora molto di stenti: acqua e pane, nei momenti in cui era braccato nei boschi. La carne e il formaggio, conditi di vino rosso, erano conquiste soprattutto dei giorni felici dopo i vittoriosi ingressi in paesi come
Ripacandida e Melfi. Conquiste durate poche ore. Del resto, sempre Crocco scrisse: “Avevo 600 soldati che erano pastori, contadini, cafoni. Ma se dovessi scegliere tra due reggimenti uno di studenti, l’altro di pastori o contadini, sceglierei i secondi perché abituati al freddo, alla fame, alle fatiche”. Ritorna l’abitudine alla fame, ripresa anche da Giuseppe Massari nella sua
«La “Storia bandita” rievoca la vicenda di Carmine Crocco. Memorie che diventano occasioni di turismo e attrattiva»
Il Vulture visto dalla cinepresa La ricchezza paesaggistica, i laghi, il verde dei boschi e i pascoli. Il ricordo di Pasquale Squitieri (nella foto), regista del film “Li chiamarono briganti” che ripercorreva le storia dei briganti del Vulture. Quale ritiene siano i paesaggi suggestivi sulle strade del brigantaggio? «I paesaggi che si videro traversati da bande brigantesche sono quasi sempre boschi, come quello immenso e fascinoso di Lagopesole. “Di boscaglia in boscaglia, quasi sempre di notte per sentieri impraticabili, arrivammo alle sponde del Basento”. Racconta Crocco». C’è una scena del film su tutte che ben ritrae il territorio del Vulture e la sua gente? «La scena che meglio esprime la ricchezza naturale, fatta di boschi, corsi d’acqua, vigneti, pascoli del Vulture è quella che ricostruisce la rivolta dei contadini contro un esercito che, ritenendoli complici dei briganti, tutto distrugge e uccide». Il vino è ricorrente nelle scene del film così come nella tradizione lucana. C’è un vino di quelle zone che ama particolarmente? «Il vino compare spesso come un compagno di vita e d’avventura. È evidente che il più famoso fosse all’epoca l’Aglianico del Vulture». Quali sono i suoi ricordi legati alle riprese del film? «Per realizzare il mio film, sempre rifiutato perché ritenuto anti-unitario, ho impiegato 28 anni. Un buon motivo per rivivere storicamente e umanamente tutte le vicende narrate. Mi sono sentito parte, più che regista, di quella storia».
relazione sul brigantaggio del 1863: “Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere, né prosperità; si vede condannato a perenne miseria e in lui nasce l’istinto della vendetta. L’occasione gli si presenta e non la lascia sfuggire, si fa brigante”». La presenza del generale dei briganti quanto ha segnato la scelta dello stile di vita degli abitanti della zona del Vulture? «Nessuna presenza o tradizione storica è riuscita a mutare lo spirito sobrio e la cultura priva di gratuite sbavature della gente lucana anche nell’area del Vulture. La cultura contadina dei silenzi e dell’ospitalità amichevole quando supera l’iniziale diffidenza, è ormai un’eredità radicata. Nel
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territorio di Brindisi Montagna, a 12 chilometri da Potenza, è stato creato da qualche anno un grande parco storicoculturale sull’esperienza del brigantaggio. Ricalca i parchi simili creati in Francia, nella regione vandeana. È su 12 ettari in un territorio suggestivo, con sei aree tematiche. D’estate, viene rappresentato lo spettacolo “La storia bandita”, che rievoca la storia di Carmine Crocco, in uno scenario all’aperto, con musiche, costumi, testi registrati dalle voci di famosi attori e oltre 200 figuranti. Memorie che diventano occasioni di turismo e attrattiva, in un’area che, non a caso, è stata scelta nel 1994 come sede di uno degli stabilimenti Fiat più produttivi, sorto a Melfi, celebrato persino da studiosi americani come il professor Stanley Davis di New York».
Nella pagina a fianco, la scena “Soldati e cannone” tratta dal cinespettacolo “La storia Bandita” che si tiene ogni estate nel Parco della Grancia di Brindisi Montagna
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PASSEGGIANDO TRA I BOSCHI di RENATA GUALTIERI
«Quando ritorno con la mente alla Basilicata preferisco pensarla come Lucania e accostarla alla sua chiara derivazione dal termine lucus». Placidi specchi d’acqua, scenari incantati e leggende inquietanti nelle rievocazioni nostalgiche della psicoterapeuta Gianna Schelotto
uando penso al Vulture e alla gioia legata a quei luoghi la ricordo sempre come la vedevo nell’infanzia. Poi ci vado e la trovo trasformata. Sono un po’ dispiaciuta, avrei voluto che tutto restasse fermo, cristallizzato come quando io sono partita. Una volta mi è accaduto di tornare giù e aver subito addirittura l’umiliazione di non riconoscere la strada da fare per entrare in paese, perché era tutto cambiato». La psicoterapeuta Gianna Schelotto riassapora le sensazioni legate a Rionero in Vulture, il paese che le ha dato i natali. Se dovesse indicare un’immagine che ben esprima l’essenza della Basilicata quale sceglierebbe? «Io sceglierei l’immagine del Lago Piccolo di Monticchio perché questo luogo suggerisce una grande serenità. C’è lo specchio lacustre, ci sono gli alberi che si piegano sull’acqua formando come dei passaggi, delle gallerie tutte verdi. Sembra una scena di grande idillio ma poi ci si ferma a pensare e si ricorda che là dove c’è l’acqua c’era il fuoco del vulcano, perché questo lago è nato dal cratere del Vulture. Intorno al Lago Piccolo di Monticchio ci sono tante leggende inquietanti, ad esempio si narra di bagnanti catturati e mai più restituiti, di vegetazioni intricatissime sul fondale. Quando ritorno con la mente alla Basilicata preferisco pensarla come Lucania e accostarla alla sua chiara derivazione dal termine lucus». Quale è il suo primo ricordo legato a questa terra? «Il mio primo ricordo è legato a una passeggiata nei boschi. Ero molto piccola ed ero incantata da questi scenari. Avevo uno zio che era cacciatore e una volta mi portò a caccia con lui e un suo
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amico. Io non li ho visti sparare ma li ricordo con il fucile in spalla mentre io camminavo al loro fianco dandogli la mano in questo bosco che, all’epoca, mi era sembrato un posto incantato». Se dovesse accompagnare un gruppo di curiosi in visita nella sua terra quali angoli insoliti e suggestivi gli farebbe scoprire? «Io ricordo le destinazioni delle nostre gite da ragazzi. C’era un posto proprio alle falde del Vulture che si chiamava Fontana dei Lupi, dove c’era l’acqua che sgorgava direttamente dalle rocce del monte, un’acqua meravigliosa, freschissima. Si arrivava in questo posto camminando a piedi, facendo un sentiero nel bosco e la cosa meravigliosa era, e forse ancora è, che si arrivava a questa fontana e poi guardandosi in giro c’era tutta una distesa di fragoline di bosco rosso vivo che era veramente bellissimo. Tralasciando le tappe più battute Venosa, Melfi, i castelli federicei, io suggerirei delle passeggiate nei boschi del Vulture». La Basilicata è una terra ricca di tradizioni culinarie. Quali piatto riassaporerebbe volentieri? «I “migliatidd”, pezzi di agnello avvolti nella rete di grasso che tiene insieme le viscere dell’agnello legate con le intestina, poi le zuppe di ceci e lagane, una specie di tagliatella che veniva fatta a mano in casa e i salumi che sono straordinari». A quale vini lucani ben si legano questi sapori? «Non ce n’è che uno: l’Aglianico del Vulture, va bene con tutto, poi ci sono i Moscati e le Malvasie molto buone ma per piatti un po’ robusti ci vuole l’Aglianico».
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Vulture
Le leggende e il lago
In apertura, il lago Piccolo di Monticchio; qui sotto, la psicoterapeuta Gianna Schelotto
LA MAGIA DEL PARCO
Parco delle Madonie
di RENATA GUALTIERI
«Si va dalle finestre sul mare alle vedute panoramiche che, risalendo lungo le pendici del massiccio montuoso, si aprono a ventaglio offrendo scorci di Sicilia sempre più vasti come una cartolina che si dispiega piano». Tra i sentieri del Parco delle Madonie con il commissario Angelo Aliquò l Parco abbraccia un territorio molto vasto che dal litorale tirreno risale lungo il massiccio montuoso delle Madonie fino a toccare quasi i 2.000 metri sul livello del mare. È facile comprendere che un tale dislivello, distribuito in quasi 40 mila ettari, riesce a regalare scenari bellissimi e fra loro profondamente diversi. «Fra i posti che preferisco c’è il bosco degli agrifogli giganti, a Piano Pomo, un luogo
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misterioso e quasi magico che sembra uscito dalla fantasia di Tolkien. Qui secolari conformazioni arboree assumono le forme più strane e davvero pare di trovarsi in un bosco incantato». La straordinaria “fotografia” di Angelo Aliquò commissario straordinario del Parco delle Madonie. Quali sono gli scorci più belli da vedere in un’escursione naturalistica nel Parco delle Madonie? «Si va dalle finestre sul mare che, una dopo
Finestre sul mare e vedute panoramiche
A sinistra, un sentiero del Parco delle Madonie
Una terrazza sul mare Da quest’anno, oltre alla splendida terrazza panoramica da dove si può ammirare la costa orientale sicula e quella calabrese assaporando le molte specialità di pesce, carne e verdure, al Ristorante Trattoria da Nino è disponibile anche una meravigliosa sala privè panoramica, usufruibile solo su prenotazione a menù degustazione a base di pesce, accompagnato da ottimi vini. La nuova sala ospita da un minimo di sei persone a un massimo di dodici.
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Parco delle Madonie
«Fra i posti che preferisco c’è il bosco degli agrifogli giganti, a Piano Pomo, un luogo misterioso e quasi magico che sembra uscito dalla fantasia di Tolkien»
Dall’alto, il commissario speciale dell’ente Parco delle Madonie, Angelo Aliquò; sotto, un particolare del bosco di Piano Pomo; nella pagina seguente, un particolare dell’Abies nebrodensis
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l’altra, si aprono fra San Mauro Castelverde, Pollina, Cefalù e Gratteri, alle vedute panoramiche che, risalendo lungo le pendici del massiccio montuoso, si aprono a ventaglio offrendo scorci di Sicilia sempre più vasti come una cartolina che si dispiega piano. Monte dei Cervi, la Quacella, il Vallone della Madonna degli Angeli, Pizzo Carbonara e Pizzo Antenna Grande, Monte San Salvatore e la Madonna dell’Alto, sono luoghi di straordinaria bellezza, vivi e capaci di cambiare profondamente con il volgere delle stagioni». Quali sono i siti che necessitano a oggi di una maggiore valorizzazione? «Lo scorso anno, con la collaborazione di Arta e Azienda Foreste, abbiamo avviato un processo di manutenzione e restauro di buona parte della rete sentieristica del nostro Parco. Si tratta di un intervento esteso che migliora di molto il patrimonio di tracciati presenti nella nostra area protetta e la loro fruibilità. Stiamo procedendo anche a una campagna di recupero delle cave abbandonate in area Parco, vere e proprie ferite alle nostre
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montagne che vanno curate con riforestazioni e adeguamenti ambientali». Che importanza riveste il Film Festival del Paesaggio per la valorizzazione delle bellezze del territorio madonita? «Penso che il cinema nel secolo scorso abbia avuto un ruolo di straordinaria importanza nella promozione e diffusione delle altre arti, in particolare la storia e la letteratura, malgrado talvolta si sia concesso il lusso di interpretarne e modificarne il senso e il significato profondo. Adesso la produzione cinematografica sta cambiando, in quest’ambito credo che il Film Festival sul Paesaggio rappresenti un’interessante novità capace di promuovere in modo moderno e
Parco delle Madonie
Finestre sul mare e vedute panoramiche
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Parco delle Madonie
Finestre sul mare e vedute panoramiche
In alto, escursione autunnale nel Parco delle Madonie
diretto la tutela dell’ambiente senza, per altro, temere “travisamenti” di sorta perché dalla potenza delle immagini il pubblico percepisce direttamente la bellezza dei luoghi e non il racconto di essa, come in un libro o in questa intervista». È stata da poco ideata la “mappa del cibo delle Madonie”. Quali sono i prodotti tipici di quei territori e che uso ne viene fatto nella cucina locale? «Le gente delle Madonie, nonostante la diffusione dei prodotti delle industrie alimentari, ha saputo conservare gelosamente
i sapori della cucina tradizionale. Questo patrimonio, per qualche decennio trascurato, adesso torna a riproporsi con forza legato com’è ai temi dell’agricoltura biologica e dell’educazione alimentare. Sono famose le carni delle Madonie, da tempo tutelate da un marchio, la produzione casearia, formaggi e latticini eccellenti che hanno suscitato anche l’interesse di Slow Food, come nel caso della provola delle Madonie. Altro presidio di Slow Food è il prezioso e gustosissimo “fagiolo badda” che testimonia un altro importante settore della produzione alimentare di qualità,
Dettagli di sicilianità
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quello dei legumi e dei cereali. Francamente qui il pane ha un altro sapore, senza parlare dell’olio e delle produzioni vitivinicole. Un plauso va ai giovani del progetto Noc 32 che stanno realizzando questo importante censimento delle nostre abitudini alimentari. Sono segnali confortanti che mostrano la capacità delle giovani generazioni di legare il passato al futuro, individuando nelle nostre tradizioni una possibile fonte di ricchezza». L’Ente promuove degli “Itinerari del gusto” quali tappe prevedono? «Al momento si tratta di sei tappe che coinvolgono strutture ricettive di cinque comuni: Castelbuono, Polizzi Generosa, Collesano, Petralia Sottana e Scillato, dove si può gustare un ricco menù di piatti tradizionali. L’iniziativa è stata promossa in occasione della manifestazione “Voler bene all’Italia”. Speriamo possa continuare e coinvolgere nuove strutture distribuite nei 15 comuni del Parco». Quali bellezze offrono i comuni del parco? «Le bellezze dei comuni sono tali e tante che è impossibile citarne solo alcune, perché si
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andrebbe necessariamente incontro a grossolane dimenticanze. Si può senz’altro dire che, come del resto in buona parte d’Italia, il grosso della produzione artistica si trova dentro le centinaia di chiese distribuite sul territorio. Qui è possibile ammirare le tele e gli affreschi del Salerno e del Vazzano, le sculture del Gagini e del Quattrocchi, i crocifissi di Frate Umile Pintorno. I musei
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Parco delle Madonie
Finestre sul mare e vedute panoramiche
Da sinistra, la peonia spontanea delle Madonie e il fagiolo badda, presidio Slow Food
sono ricchi di antichissimi reperti, testimonianze degli insediamenti indigeni e delle successive colonizzazioni. Il patrimonio architettonico poi, credo sia il principale elemento di attrazione per ciascuno dei comuni del parco, in cui la bellezza è determinata soprattutto dall’armonia, coerenza ed equilibrio che si ritrovano in ogni piazza, in ogni vicolo, in ogni scorcio panoramico. Alle bellezze del patrimonio
artistico vanno aggiunte, nelle Madonie, le attrazioni geologiche, qui è come se ogni pietra avesse una storia da raccontare». Quali sono le specie più rare tra flora e fauna autoctona madonita? «La specie autoctona più conosciuta è senz’altro l’Abies nebrodensis. Da tutto il mondo vengono esperti sulle Madonie per studiare e visitare gli ultimi esemplari esistenti al mondo di questo tipo di abete,
Sicilia, dolce tradizione Cannoli, cassate di ricotta, pignolate, paste di mandorla. E ancora, torrone e marzapane. Questo e tanto altro si può trovare presso la Pasticceria Etna. Prelibatezze realizzate secondo una lavorazione prettamente artigianale, che il signor Chemi, fondatore nel 1963 della pasticceria, ha tramandato agli attuali gestori, nel segno di una continuità che garantisce la qualità e l’irresistibile bontà dei prodotti.
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Parco delle Madonie
«Alle bellezze del patrimonio artistico vanno aggiunte le attrazioni geologiche, qui è come se ogni pietra avesse una storia da raccontare»
oggi salvato dal rischi di estinzione grazie all’opera del parco. Poi ci sono diverse specie di orchidee selvatiche di straordinaria bellezza e centinaia di altri straordinari endemismi, tanto che un insigne esperto di botanica come il professor Raimondo ha definito le Madonie “un giardino botanico a cielo aperto”. Per quanto riguarda la fauna, sulle Madonie, giusto poche settimane fa, è tornata a nidificare l’aquila mentre è in corso un progetto per la reintroduzione dell’avvoltoio grifone. Sono segnali positivi che mostrano il buono stato di salute in cui versa la nostra area, segno che la presenza del parco serve».
Finestre sul mare e vedute panoramiche
Sopra, il vallone della Madonna degli Angeli
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Accanto al vulcano
LA NEVE SUL MARE di EZIO PETRILLO Sapori, cultura, paesaggi che non si dimenticano. Giardini Naxos non può essere rappresentata solo come il mare di Taormina. Alla scoperta della località messinese con Gianluca Mincica
i piedi dell’Etna innevato, un abbraccio al mare cristallino. Giardini Naxos è un lembo di terra che, per conformazione geografica, quasi vuole proteggere la purezza delle acque che bagnano il territorio a nord del Vulcano. «Giardini Naxos è famosa solo ed esclusivamente per la spiaggia e non vive di luce propria, ma attraverso Taormina. È un vero peccato». A parlare è Gianluca Mincica, direttore dello Sporting Baia Hotel. «Abbiamo un mare stupendo, le spiagge di sabbia, la buona cucina, la professionalità degli operatori locali. Insomma tutto è sinonimo di bellezza. Vi invito a provare la sensazione di stendersvi al sole con dietro l’Etna innevato. È una sensazione bellissima». Ma se il turista volesse essere accompagnato lungo un itinerario poco conosciuto, magari
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nascosto agli occhi della “massa”, il Gianluca Mincica non ha dubbi su cosa consigliarci. «Giardini Naxos presenta una costiera frastagliata e molto rocciosa nel versante sud, dove sono presenti delle piccole insenature, poco conosciute, ma di rara bellezza. Consiglio di affittare una piccola barca ed effettuare la navigazione attorno Capo Taormina, riserva naturale del WWF. C’è da rimanere quasi straniti da così tanta bellezza». Alle meraviglie del paesaggio si aggiungono quelle della cucina e dei sapori esaltati da questa terra. «Mi sento di consigliare un semplice piatto di pasta, possibilmente fresca con pomodorino di Pachino a crudo, del pesce spada a tocchetti saltato e della granella di pistacchio, possibilmente di Bronte». Le usanze e le tradizioni dei Giardini sono figlie di una storia millenaria. «Giardini Naxos è la prima colonia Greca in Sicilia da cui ne deriva il nome Naxos – illustra Mincica - . Nasce come villaggio di pescatori, ed è divenuta in seguito una località turistica. La gente del luogo è cortese e disponibile specie con gli stranieri. Alcuni si fermano volentieri per spiegare come si riesce a far colazione con granita e brioche,
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Accanto al vulcano
«Giardini Naxos è un lembo di terra che, per conformazione geografica, quasi vuole proteggere la purezza delle acque che bagnano il territorio a nord del Vulcano» tipico alimento estivo a base di creme di frutta». L’offerta delle strutture alberghiere sul territorio, per riuscire a mantenere una fetta nutrita di clientela di qualità deve puntare su un giusto rapporto col prezzo. «A mio avviso troppi albergatori sono convinti che avere tariffe alte sia sinonimo di qualità – spiega Mincica - . Non è assolutamente vero. Bisogna puntare sul rapporto qualità prezzo, sulla cucina tradizionale e sulla cortesia». Meritano attenzione anche le aree che circondano i Giardini. «Sarei veramente entusiasta di accompagnarvi in alcuni dei caratteristici paesi che si trovano nell’area di Giardini Naxos – conclude Mincica cominciando da Savoca e Forza D’Agrò dove hanno girato molteplici film d’autore come il Padrino, per finire con le Gole dell’Alcantara».
In apertura, una veduta dell’Etna innevato dai Giardini Naxos. Sotto, la facciata dello Sporting Baia Hotel.In alto, la piscina situata all’interno dell’albergo
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TUTTI I COLORI DELLA NORVEGIA di NICOLÒ MULAS MARCELLO
Una terra ricca di luoghi incredibili in cui la natura si offre in modo spettacolare. Non è un caso che per gran parte dell’anno la Norvegia sia una meta ambita per viaggi e vacanze. L’ambasciatore italiano a Oslo Antonio Bandini, svela i segreti di una terra avvolta dalle leggende
n paese affascinante, misterioso, attraversato prevalentemente da montagne che si gettano nel mare dove le frastagliate insenature dei fiordi creano spettacolari paesaggi unici al mondo. La Norvegia è un luogo dalla natura aspra e selvaggia che costituisce veramente il confine d’Europa. La storia italiana incontrò quella norvegese quando nel 1432 il mercante veneziano Piero Querini nel costeggiare il Portogallo venne spinto dal mare burrascoso alle isole Lofoten. Da allora la maggior parte dello stoccafisso prodotto nelle isole norvegesi è esportato proprio in Italia. «L’identità e la storia della Norvegia – spiega il neo ambasciatore Antonio Bandini – sono fortemente legate al mare, che è anche la via preferenziale per lo scambio interculturale». Il suo incarico di ambasciatore a Oslo è partito da poco. Qual è stato il primo impatto con la città? «Quello climatico: la sera del 3 maggio splendeva il sole (fino alle undici!) ma la mattina del 4 l’aria era piena di fiocchi bianchi. Mia moglie e io pensavamo che fosse polline, invece era neve. Oslo ci è apparsa subito gradevole e accogliente, pulitissima, silenziosa e piena di fiori dovunque. Ben poche le automobili, il traffico ricorda il nostro di mezzo secolo fa. Ma naturalmente il motivo è che ci sono mezzi pubblici efficienti, tante biciclette e una polizia del traffico che non perdona. E poi la gente è molto garbata e accogliente, dà quasi l’impressione di esserti grata per esserli venuti a trovare quassù, ai limiti delle civiltà e dei ghiacci eterni. Ma basta un po’ di sole e Oslo si trasforma: le strade si riempiono di gente, la
Il grande Nord
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I fiordi e i ghiacciai
baia di barche a vela e i bar all’aperto diventano sovraffollati. Infine una gradita scoperta: l’acqua nel bellissimo fiordo è molto più calda di quanto si possa pensare e una bella nuotata nordica è a portata anche di freddolose sensibilità mediterranee». Che idea si è fatto della cultura norvegese? «L’identità e la storia della Norvegia sono fortemente legate al mare, che non solo è sempre stato una fonte inesauribile di approvvigionamento e di trasporto di mercanzie, ma anche la via preferenziale per lo scambio interculturale con il mondo esterno che ha plasmato l’immagine della nazione scandinava sia all’interno che all’estero. I
In apertura, le case dei pescatori del fiordo di Bergen. Sopra, l’ambasciatore italiano a Oslo, Antonio Bandini (foto: Nancy Bundt)
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«I norvegesi vivono da sempre quasi in osmosi con la natura, con la quale hanno un rapporto profondo» norvegesi vivono da sempre quasi in osmosi con la natura, con la quale hanno un rapporto profondo che traspare nella loro produzione letteraria e artistica. I norvegesi amano essere il più possibile vicini alla natura e sono uno dei popoli europei dove, forse proprio per contrastare i condizionamenti climatici inevitabili per chi si trova a oltre 60° nord, praticare attività sportive e ricreative all’aperto è un vero stile di vita». Quali sono i luoghi storici più interessanti che ha scoperto visitando la Norvegia? «A Trondheim, nella Norvegia centrale, la Cattedrale di Nidaros, una delle più belle chiese in stile romano-gotico della Scandinavia,
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la cui realizzazione, iniziata intorno al 1070, fu terminata intorno al 1320. Del complesso della Cattedrale fanno parte anche il palazzo arcivescovile e la cripta dove sono esposti i tesori della Corona Norvegese. A Bergen, la maggiore e più importante città norvegese nel Medioevo, c’è l’antico quartiere anseatico di Bryggen. Considerata la “capitale dei fiordi”, Bergen ebbe una grande importanza dal Duecento e nei secoli successivi per la sua appartenenza alla Lega anseatica e dal suo porto veniva esportato in tutta Europa lo stoccafisso che arrivava dalle isole Lofoten. Gli antichi edifici in legno, che ospitavano le case dei mercanti e i magazzini per le merci, sono ora nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. E nella stessa lista si trovano le antiche incisioni rupestri di Alta, nella Norvegia settentrionale, databili tra il 4.000 e il 500 a.C., e la parte vecchia della cittadina mineraria di Røros nella Norvegia centrale, una delle pochissime in Europa a essere interamente realizzata in legno». Il paesaggio norvegese offre scorci di rara bellezza che non si possono trovare in nessun altro luogo. Se dovesse consigliare un percorso attraverso la Norvegia quali luoghi indicherebbe? «Vorrei citare due viaggi in treno che forse non sono così noti ai turisti, ma che meritano di essere vissuti: il primo, di poco meno di due ore, è il tratto ferroviario della Raumabanen che collega, seguendo il corso del fiume Reuma e passando per ben 32 ponti, la località di Dombås, nel cuore della Norvegia, a quella di Åndalsnes sulla costa occidentale; il secondo, di circa un’ora, collega Bjørli a Åndalsnes. Sono due brevi, ma emozionanti viaggi che ti portano a diretto contatto con l’essenza
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I fiordi e i ghiacciai
In alto, un particolare della cattedrale di Trondheim
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«La gente è molto garbata e accogliente, dà quasi l’impressione di esserti grata per esserli venuti a trovare quassù, ai limiti delle civiltà e dei ghiacci eterni»
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della natura norvegese nell’incontaminata valle di Romsdal. Il paesaggio è straordinario e ricco di contrasti: montagne altissime e innevate, tra cui la Trollveggen (la parete dell’orco), la parete rocciosa più ripida d’Europa, vasti altopiani dove vivono folte mandrie di renne selvagge, verdissimi e rigogliosi fondi valle. Insomma, come dice il nome di uno dei giri turistici più popolari in questo Paese, “la Norvegia in un guscio di noce”. Bisogna solo ricordarsi che per motivi climatici la Raumabanen è aperta solo nella stagione estiva». I percorsi turistici si sposano anche con i sapori enogastronomici del posto. Quali piatti e vini tipici ha scoperto? «La tradizione culinaria norvegese deriva ovviamente dalle materie prime di cui il paese dispone, quindi pesce, carne, soprattutto di maiale e d’agnello, ma anche di renna e alce. Uno dei piatti più caratteristici nelle regioni occidentali è la “pinnekjøtt”, carne d’agnello essicato, e a volte affumicato, cotta al vapore su bastoncini di betulla (i pinner, appunto). Altri piatti tipici della tradizione natalizia e reminiscenze di tradizioni antiche, anche se un po’ “difficili” per il palato mediterraneo, sono il rakefisk, la trota fermentata; il lutefisk, il merluzzo ammollato nella soda e la smalahove e la testa di pecora o agnello salata e a volte affumicata. Tra i formaggi tipici vi sono il brunost e geitost, formaggio scuro di capra, diventato una specie di simbolo nazionale, e il gamalost, un formaggio fresco, con aggiunte di muffe e fermenti lattici, che risale all’era vichinga. Molto buoni, davvero, i frutti di bosco: fragole, lamponi, mirtilli rossi, verdi e gialli (i cosiddetti mirtilli artici). Bevande tipiche sono la birra, la più consumata e di cui esistono diverse varianti regionali, e l’acquavite,
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I fiordi e i ghiacciai
un liquore fermentato di patate e cereali, di cui una marca, la Linie Aquavit, è nota per attraversare l’equatore, in botti di quercia su navi norvegesi, in un viaggio di quattro-cinque mesi intorno al mondo che secondo gli esperti contribuisce a darle un gusto particolarmente pieno e corposo». Quando è libero dagli impegni quali sono le zone di Oslo che frequenta con più interesse? Esiste uno scorcio della città al quale è più affezionato?
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«Oltre alle splendide viste, d’obbligo, che si godono dalla collina di Holmenkollen a ovest e dalla collina di Ekeberg a est, uno degli scorci più suggestivi, nel cuore della città, è la vista della fortezza medievale di Akershus e del porto dai vecchi cantieri navali di Aker Brygge, ora convertiti in un centro pulsante di ristoranti, negozi e locali alla moda. Suggestiva è anche la passeggiata lungo il fiume Aker nella vecchia zona industriale della capitale».
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Nella pagina precedente, le montagne intorno a Oslo; sotto, un tipico Fiordo norvegese; in questa pagina in alto a sinistra, la fortezza medievale di Akershus; a destra, la lavorazione dello stoccafisso; sotto il museo delle navi vichinghe a Oslo
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SUGGESTIONI FINLANDESI di NICOLÒ MULAS MARCELLO
oreste, laghi e radure a perdita d’occhio caratterizzano i coinvolgenti paesaggi finnici. Un paese che conserva un forte legame con la natura e dove la socialità del suo popolo e il progresso tecnologico ne delineano la cultura. L’ambasciatrice italiana a Helsinki, Elisabetta Kelescian, sottolinea che «l’elemento naturale e gli spazi intatti sono dominanti. I “segreti” della Finlandia sono dunque prevalentemente paesaggistici, con notevole varietà di situazioni climatico-ambientali». Si dice che la Finlandia sia il paese culturalmente più vicino al resto d’Europa tra quelli scandinavi. Qual è stato il primo impatto con la Finlandia in veste di ambasciatore? «La prossimità, o per meglio dire, l’integrazione della Finlandia all’Europa intesa come area omogenea politico-socio-culturale è senz’altro profonda, e dimostrata dalla sua aspirazione a un crescente grado di integrazione dell’Ue in molteplici, determinanti settori. L’impatto immediato per chi si trovi a contatto pressoché quotidiano con la pubblica amministrazione finlandese è la sua snellezza e funzionalità perseguite attraverso un costante sforzo di semplificazione. È un esempio di sistema
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È considerato il paese più europeo dell’area scandinava. La sua storia e i segreti del suo paesaggio ammaliano milioni di turisti che ogni anno si spingono in Finlandia per scoprirne la cultura e le tradizioni. L’ambasciatrice Elisabetta Kelescian ne delinea un personale ritratto
Aurora boreale e spazi vergini
In apertura una strada della città vecchia di Turku. Qui a fianco l’ambasciatrice italiana a Helsinki, Elisabetta Kelescian
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«La cultura finlandese è fortemente influenzata da quella svedese, anche in ragione della durata del dominio di Stoccolma»
Sopra, la cattedrale luterana di Helsinki
all’avanguardia quanto a efficienza di gestione amministrativa e di capacità di esprimere eccellenza nell’utilizzo dell’innovazione a beneficio dell’organizzazione sociale: vale a dire dei cittadini». Quali sono i luoghi più interessanti che ha scoperto visitandone anche gli angoli più nascosti? «Non è necessario esplorare luoghi nascosti della città: essa si manifesta al suo simbolico e tradizionale approdo - il mare - nella raffinata e garbata sembianza che gli architetti russi hanno impresso come legato positivo dell’era in cui San Pietroburgo dominava il Paese». Se dovesse consigliare un percorso attraverso la Finlandia per scoprirne i segreti, quali luoghi indicherebbe?
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«Il paese è di grandi dimensioni, ben più ampie dell’Italia, e demograficamente assai ridotto (equivalenti a Roma e la sua provincia). Di conseguenza, l’elemento naturale e gli spazi intatti sono dominanti. I “segreti” sono dunque prevalentemente paesaggistici, con notevole varietà di situazioni climatico-ambientali. In particolare, la Carelia finlandese, il sud ovest del paese (l’Arcipelago di Turku) e la Lapponia offrono bellezze naturali del tutto inedite per un turista dell’Europa meridionale, oltre che una fauna estremamente diversificata e luminosità per noi inconsuete». La storia finlandese è legata al periodo dell’occupazione russa. Cosa è rimasto di quell’ epoca? «Se per “occupazione russa” si intende il complesso rapporto creatosi a seguito della seconda guerra mondiale, la definizione non è corretta: la Finlandia non è stata occupata dalla Russia, ma profondamente condizionata nella sua azione politica. Se parliamo del “periodo russo”, che dall’inizio del 1800 ha visto la Russia subentrare alla Svezia nel controllo del paese, anche in questo caso l’“occupazione” ha riguardato essenzialmente la zona meridionale del paese. La Russia non ha mai ritenuto di espandersi sull’intero territorio: il suo interesse si è focalizzato sui porti del Baltico per ragioni commerciali e di sicurezza e sulla retrostante fascia meridionale, propizia per clima e vocazione commerciale. È qui che sono ancora evidenti le tracce del periodo russo: ville sontuose, parchi progettati da architetti inglesi e russi, che costituirono luoghi di gradevole vacanza per la nobiltà russa nel corso di un secolo, sino all’insorgere della rivoluzione del 1917. La fase del Granducato russo non è ricordato negativamente dalla storia finlandese
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Aurora boreale e spazi vergini
In questa pagina una veduta del Castello di Savonlinna
perché ha coinciso con una vasta autonomia, la libertà di utilizzo della propria lingua, una facoltà di legiferare su molteplici materie. Sono notevolissimi benefici se confrontati con la situazione della pesante dominazione svedese protrattasi per otto secoli». Come potrebbe descrivere la cultura finlandese? «La cultura finlandese è fortemente influenzata da quella svedese, anche in ragione della durata del dominio di Stoccolma, anche nel bilinguismo previsto dalla Costituzione (più virtuale che reale, essendo proprio di quel cinque per cento di finlandesi di ceppo svedese, che è comunque parte rilevante della classe dirigente del paese, sotto il profilo economico e culturale). È indubbio che la Finlandia mantenga con la Svezia un rapporto preferenziale, e che nella sua “morfologia” l’elemento svedese conservi un ruolo importante». Lungo tutta la Finlandia si scorgono paesaggi ammalianti. Quali sono i luoghi che le sono rimasti più impressi per bellezza del paesaggio? «I parchi naturali, numerosi e variegati in diverse zone del paese, sono estremamente attraenti, proprio perché davvero naturali, nell’elemento faunistico come in quello paesaggistico: vere e proprie oasi di “naturalità” intatta. Lo stesso si può dire per la Lapponia, ove la dimensione delle pianure, le luci straordinarie, nel pieno dell’estate come nell’interminabile, ammaliante inverno, non hanno confronti se non in altre zone dell’estremo nord dell’Europa. Sono sensazioni che nei nostri paesi sovrappopolati non abbiamo l’occasione di avvertire. Altro luogo a mio parere “speciale” è Savonlinna, nella zona
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«I parchi naturali, numerosi e variegati in diverse zone del paese, sono estremamente attraenti proprio perché davvero naturali»
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centro orientale del Paese, ove ha sede nel mese di luglio un festival lirico tra i più rilevanti d’Europa: una sorta di Spoleto del Nord, quanto ad atmosfera e tensione culturale, un delizioso paese sull’acqua, ove il Castello, che ospita le performance liriche, domina come scenario-scenografia incomparabile, il lago Saima, parte della principale via fluviale per la limitrofa Russia». Se dovesse consigliare un piatto della tradizione, quale indicherebbe? «La cucina finlandese non pone problemi al turista, pur non essendo estremamente variata. È di ottima qualità e molto “regionalizzata”: dominano, ovviamente, i crostacei e il pesce sempre freschissimo (il salmone e l’aringa al naturale o affumicati sono incomparabili; i gamberi, delicatissimi, e in generale il pesce d’acqua dolce; poi pasticci e paste salate, oltre a un’enorme varietà di dolci, focacce, muffin e, soprattutto, crostate e torte a base degli squisiti e freschissimi frutti di bosco. L’anatra, cucinata in svariati modi, è ottima e così l’alce. A
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Helsinki, l’offerta è estremamente varia sia per quanto riguarda la cucina internazionale che quella etnica». C’è un luogo in particolare della città di Helsinki al quale è più affezionata? «Più di uno. In particolare, i deliziosi caffè sulla riva del mare, nei parchi della città o nelle zone immediatamente limitrofe. Il tramonto è un momento davvero magico, specie l’estate: la serenità trasmessa dalle luci nettissime e smaglianti, dalle barche a vela che rientrano in porto, dalla varietà di uccelli che si avvicinano senza alcun timore, induce davvero a pensieri vivificanti e positive riflessioni. E alla considerazione che il modello di vita e di valori qui dominante sia forse più umano, più “completo” che non in altri contesti europei: nella sintesi che riesce ad attuare tra l’uomo e il suo habitat, nello spazio che è dato alla riflessione e alla concentrazione. Tutti elementi che, dobbiamo ammetterlo, trovano poco spazio nei più chiassosi e spesso alienanti ritmi di vita dei paesi del sud».
In alto, un particolare del quartiere Katajanokka di Helsinki
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a bellezza di un paesaggio variegato che va dalle vaste catene montuose, alla regione dei grandi laghi fino ad arrivare alle pianure sconfinate del sud, costituisce il vanto della Svezia, il più esteso e popoloso paese scandinavo. «Tutta la Svezia – spiega l’ambasciatore Angelo Persiani – è una collezione di cittadine e luoghi dove si conservano tradizioni del passato oppure modi di vita legati ai tempi della natura». Qual è stato il primo impatto con la
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Svezia in veste di ambasciatore? «La mia “storia svedese” inizia in realtà ben prima del mio arrivo a Stoccolma in veste di ambasciatore d’Italia nello scorso aprile. Subito dopo la laurea in Giurisprudenza - era il 1969 - grazie a una borsa di studio del governo svedese effettuai un periodo di ricerca in Svezia, dove studiai il sistema carcerario e la politica di recupero dei condannati. Si trattò per me di un’esperienza appassionante, non solamente dal punto di
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SVEZIA UNA TERRA DA SCOPRIRE
di NICOLÒ MULAS MARCELLO «Sono molti i luoghi della Svezia che richiamano il carattere del paese e degli svedesi. Oltre alla capitale, che raccoglie i ricordi più importanti della storia e della cultura, vi sono i grandi spazi verso il Nord che fanno intendere il senso profondo dell’anima di questo popolo». L’ambasciatore italiano a Stoccolma, Angelo Persiani, racconta la sua esperienza
vista scientifico ma soprattutto umano e culturale. Ebbi così modo di ritornarvi pochi anni dopo, sempre grazie a una borsa di studio, per un’altra ricerca, questa volta sul problema dei suicidi. Finì che in Svezia trovai quasi una seconda casa: ne imparai la lingua, iniziai a lavorarvi, infine sposai una svedese. Tutta questa lunga introduzione è per dire che arrivare in Svezia come ambasciatore è stata per me un’esperienza particolare, una sorta di “ritorno a casa”, ma questa volta per cercare
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In alto, una veduta del lago Maelaren; accanto, l’ambasciatore italiano a Stoccolma, Angelo Persiani
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di rappresentare al meglio il mio Paese in una terra così lontana, ma allo stesso tempo così amica dell’Italia e degli italiani». Ci sono angoli più nascosti di Stoccolma che consiglierebbe a un suo ospite? «Stoccolma è la capitale storica di un Paese che, nei secoli, ha visto prima un processo di consolidamento delle strutture statali con la dinastia Vasa, quindi l’assunzione del ruolo di vera e propria grande potenza europea, e infine, dopo le guerre napoleoniche, la concentrazione sul progresso interno politico, economico e sociale - facendone uno dei Paesi più avanzati non solo in Europa ma anche nel mondo. Quindi, a Stoccolma non mancano i luoghi che ricordano queste vicende storiche: dal Palazzo reale al museo che ospita la nave Vasa, dalle numerose chiese al Museo nazionale. Ma poi vi sono anche i luoghi simbolo della Svezia quale nuova potenza scientifica e tecnologica: il Museo Nobel, la cittadella tecnologica di Kista, le
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università. Ma si deve iniziare dalla città vecchia (“Gamla Stan”): è il cuore di Stoccolma, particolarmente ben conservato. È lì che è nata la città, ovviamente dettata dalla geografia, nell’isola che controlla il passaggio dall’entroterra del grande lago interno (“Maelaren”) al mare aperto passando per il vasto arcipelago, delizia dei velisti. Lo dico perché mi fa pensare, anche se non lo ho mai trovato scritto da nessuna parte, a un parallelo con la nascita di Roma. Anche la nostra capitale si fonda su un’isola centrale (tiberina), all’altezza di una corrente, dove i traffici dal mare dovevano essere scaricati per risalirla e dove i traffici a monte dovevano spostarsi seguendo la collocazione geograficoeconomica di un mercato. Bastò questo agli Etruschi per creare il foro, drenando con la cloaca massima gli acquitrini che circondavano i vari colli». Se dovesse consigliare un percorso attraverso la Svezia per scoprire i segreti di questo popolo quali luoghi indicherebbe? «Sono molti i luoghi della Svezia che
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Tra natura e storia
In alto, uno scorcio della Gamla Stan, la città vecchia di Stoccolma; qui accanto, la torre Turning Torso di Malmö
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Il grande Nord
Tra natura e storia
richiamano il carattere del paese e degli svedesi. Oltre alla capitale, che raccoglie i ricordi più importanti della storia e della cultura, vi sono i grandi spazi verso il nord che fanno intendere il senso profondo dell’anima di questo popolo, il suo rapporto strettissimo con la natura e l’ambiente, il senso di libertà e allo stesso tempo la forte coscienza sociale impregnata di regole non imposte, ma da tutti comprese e rispettate. A nord di Stoccolma, si trova subito la Dalecarlia (“Dalarna”), regione storica da cui prese il via il processo di riunificazione e indipendenza avviato dal fondatore della dinastia Vasa, Gustavo, e dove si celebra annualmente la Vasaloppet, corsa di sci di fondo che ricorda l’impresa del giovane sovrano che per fuggire dai danesi percorse oltre cento chilometri sugli sci. Ancora più a nord si arriva nella
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«Suggerirei un giro in automobile o, per i più sportivi, in bicicletta nell’arcipelago intorno alla capitale, che conduce sino al mare aperto del Baltico» Lapponia svedese, terra di vastità disabitate, in cui piccoli nuclei di Lapponi (Sami) ancora oggi vivono secondo le antiche tradizioni fondate sullo spirito della comunità, sull’allevamento delle renne e sulla cultura sciamanica. Infine, suggerirei un’esperienza sui numerosi arcipelaghi svedesi, a iniziare da quello stupendo di Stoccolma (con oltre diecimila isole e isolette). Anche qui si coglie lo spirito di libertà che anima questo popolo e anche la loro profonda tradizione marinara, risalente all’epopea vichinga che nell’alto Medioevo condusse queste genti sino al Mar Nero e al Mediterraneo». Basta spostarsi qualche chilometro da Stoccolma per scoprire paesi deliziosi come Mariefred dove passa ancora un treno a vapore. Quali altri luoghi conservano ancora tradizioni simili? «Tutta la Svezia è una collezione di cittadine e luoghi dove, come detto, si conservano tradizioni del passato oppure modi di vita legati ai tempi della natura. Suggerirei un giro in automobile o, per i più sportivi, in bicicletta, nell’arcipelago intorno alla capitale, che conduce sino al mare aperto del Baltico. Grazie ai numerosissimi ed economici, se non
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spesso gratuiti, traghetti e chiatte si possono girare decine e decine di isole dalla natura incontaminata e dai paesaggi marini mozzafiato. Qui, su isolette a volte veramente minuscole, vivono ancora famiglie e comunità isolate ma allo stesso tempo perfettamente integrate con la vita moderna della capitale. Da non tralasciare però le altre città più importanti: Uppsala e la sua università, Malmo e la vicina città universitaria di Lund e Göteborg, seconda città svedese anch’essa proiettata sul mare». Parliamo dei sapori enogastronomici svedesi. Se dovesse consigliare un piatto della tradizione, quale indicherebbe? Esistono dei luoghi rinomati per la cucina? «Per gli italiani la cultura gastronomica svedese probabilmente non brilla per fantasia e varietà. Essa è infatti tradizionalmente legata a un territorio dal clima molto rigido e quindi a un’agricoltura caratterizzata da prodotti limitati. Comunque, esistono diversi piatti veramente gustosi, tra cui le aringhe nelle loro diverse marinature; i piatti di cacciagione e, ovviamente, il salmone, che viene servito in decine di modi diversi. Per approfittarne basta servirsi allo “Smörgåsbord”, la tavolata con cui negli alberghi migliori viene offerta una vasta scelta di queste specialità». Quando è libero dagli impegni istituzionali quali sono le zone di Stoccolma che frequenta con più interesse? Esiste uno scorcio della città al quale è più affezionato? «Sono legato alla citata “Gamla Stan”, la città vecchia, dove ritrovo il fascino del Medioevo. Altrimenti c’è la “Kaknästornet”, una torre
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Tra natura e storia
panoramica con un grande belvedere nella periferia orientale. Sembrerà un po’ troppo turistica ma visto che la domanda è personale, rispondo con tocco personale: a me quella torre ricorda l’inizio della storia con mia moglie. È una storia italo-svedese degli ultimi 40 anni. Niente male, per essere una fase dei lavori in corso per costruire la nostra Unione europea, no? E in fondo un viaggio turistico di italiani in Svezia fa parte della stessa impresa».
In alto, la Cattedrale di Uppsala; sotto, a una delle stanze del Konstmuseum di Göteborg
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Tra antico e moderno
DANIMARCA IL PAESE DELLE FAVOLE di NICOLÒ MULAS MARCELLO «Navigli grandi e piccoli si dondolavano nell’ampio canale, gli uni accanto agli altri» così Hans Christian Andersen descrive il suo primo arrivo a Copenhagen. Andrea Mochi Onory di Saluzzo svela i segreti della capitale danese e del resto della Danimarca
è un luogo dove l’antico e il moderno, la città e la campagna convivono in una placida armonia fatta di colori e atmosfere suggestive. Lo si può trovare in Danimarca, il paese più piccolo dell’area scandinava ma intriso di magia a partire dalla sua capitale Copenhagen. La tranquillità della sua gente, il rispetto della natura (che si concretizza con un intenso uso delle biciclette) e un clima moderatamente nordico, fanno della
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Danimarca un luogo da scoprire anche attraverso i suoi piccoli borghi alle porte delle grandi città. L’inverno è intriso di romanticismo e l’estate offre colori intensi e un sole che tramonta solo dopo le dieci di sera. «Gli scorci suggestivi sono molti – spiega l’ambasciatore italiano a Copenhagen Andrea Mochi Onory di Saluzzo - e forse il modo migliore per goderseli è fare il giro della città in battello, scoprendone prospettive nuove e inconsuete». Cosa la affascina della Danimarca? «Come tre anni or sono, quando ho iniziato la mia missione in Danimarca, ho subito notato un aspetto che spesso colpisce noi italiani, è la particolare atmosfera che contraddistingue la Danimarca, nei paesaggi, nello stile di vita, nei tempi dei danesi. Spesso è come entrare in una dimensione, che a volte appare diversa dalla convulsa vita del nostro mondo contemporaneo. D’altro canto, si respira anche un’atmosfera di grande modernità: basta attraversare il grande ponte sullo Storebælt che congiunge la Selandia con l’isola di Fionia o quello che collega
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Copenhagen a Malmö, in Svezia. Oppure osservare il paesaggio punteggiato dalle mille turbine eoliche che producono energia pulita. O ancora spostarsi comodamente sulla veloce metropolitana di Copenhagen, fra l’altro è di produzione italiana, recentemente premiata come migliore metropolitana al mondo». Copenaghen è una città ricca di storia. Ci sono angoli più nascosti che consiglierebbe di visitare? «La nostra residenza, acquisita dallo Stato italiano negli anni 20 del Novecento, è magnificamente posizionata nel quartiere settecentesco di Frederikstad, esattamente accanto alla Reggia di Amalienborg. Il quartiere offre molti angoli interessanti dal punto di vista storico e vale la pena dedicargli tempo, per scoprirne gli aspetti meno noti e i numerosi negozi di antiquariato e d’arte che lo contraddistinguono. Anche le stradine del centro storico sono tutte da scoprire, ognuna con le sue particolarità e le sue caratteristiche, da percorrere senza fretta a piedi o in bicicletta». Se dovesse suggerire un percorso attraverso tutta la Danimarca per scoprire i segreti di questo popolo quali luoghi indicherebbe? «La Danimarca è formata da oltre 400 isole e un viaggio alla scoperta dei segreti di questo Paese dovrebbe comprendere almeno una visita ad alcune delle più suggestive, come ad esempio le pittoresche Bornholm e Ærø. Ma non sempre è facile raggiungerle e comunque ciò richiede tempo, che spesso non tutti hanno. Dunque un itineraio ideale più fattibile potrebbe partire da Copenhagen,
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In apertura, la passeggiata Nyhavn di Copenhagen; sopra, l’ambasciatore italiano a Copenhagen, Andrea Mochi Onory di Saluzzo
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Sopra, i giardini Tivoli di Copenhagen
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«I danesi sono particolarmente orgogliosi della propria cultura e delle proprie tradizioni»
attraverso l’isola di Fionia, e arrivare alla punta settentrionale dello Jutland toccando le mete più significative per comprendere il vero spirito di questo Paese: Odense, la capitale dell’isola di Fionia, dove ha avuto i natali il celebre scrittore Hans Christian Andersen; Ribe, antica cittadina medievale, porta dei commerci verso l’Europa occidentale e meta preferita dalle cicogne; Skagen, l’estrema punta dello Jutland la cui particolare natura e luce ispirarono numerosi artisti alla fine dell’Ottocento ed è il punto ove si uniscono i due mari». Come potrebbe descrivere la cultura danese? «I danesi sono particolarmente orgogliosi della propria cultura e delle proprie tradizioni. Sulle pietre runiche di Jelling, risalenti a oltre mille anni fa, è incisa la data di nascita di uno dei regni più antichi al mondo. Così come la bandiera danese: onnipresente non solo sugli edifici pubblici ma anche e soprattutto su quelli privati, secondo la leggenda sarebbe caduta dal cielo quasi ottocento anni fa. Una storia dunque antichissima, alla quale questo popolo difficilmente rinuncia. Anima della cultura danese è il concetto di “hyggelig”, un’atmosfera di sicurezza e di benessere sulla quale i danesi hanno costruito la loro società e il loro stile di vita». Attraverso tutta la Danimarca è possibile scoprire paesaggi suggestivi. Quali luoghi conservano ancora tradizioni antiche? «Se si hanno a disposizione più giorni, è interessante un’escursione all’isola di Bornholm, che si trova nel Mar Baltico, fra
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Svezia e Polonia. L’isola, oltre a essere interessante dal punto di vista paesaggistico, conserva memorie storiche di rilievo, come le chiese rotonde la cui storia secondo alcuni sarebbe riconducibile alle vicende dei Templari, o il castello di Hammershus, protagonista di varie vicende storiche legate alle dispute fra Danimarca e Svezia per l’egemonia sul Baltico. La Danimarca fu terra di vichinghi e dunque altro tema per il viaggiatore attento potrebbe essere un percorso sulle tracce di questo popolo: dalla fortezza di Trelleborg in Selandia alla città di Roskilde, l’antica capitale; dalle pietre runiche di Jelling, patrimonio mondiale dell’umanità alla necropoli di Lindholm Høje, vicino ad Aalborg. Se poi si sceglie giugno come mese per le proprie vacanze in Danimarca, si può rivivere la tradizione, qui ancora molto sentita, della festa d’inizio estate, il 23 giugno, la sera antecedente il giorno di San Giovanni. In tale occasione sulle spiagge si accendono falò per scacciare via definitivamente l’inverno e le sue insidie. Assai suggestivo è, ad esempio, percorrere la
«La Danimarca fu terra di vichinghi e dunque altro tema per il viaggiatore attento potrebbe essere un percorso sulle tracce di questo popolo»
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Tra antico e moderno
via costiera (Strandvejen) che congiunge Copenhagen a Elsinore, per ammirare da vicino questa antica tradizione». Per quanto riguarda l’enogastronomia danese se dovesse consigliare un piatto della tradizione, quale indicherebbe? Esistono dei luoghi rinomati per la cucina? «I danesi, e lo dimostrano ormai i prodotti provenienti da tutto il mondo presenti nei supermercati, sono aperti alle più varie esperienze in ambito gastronomico e sono entusiasti ammiratori della cucina italiana e consentitemi di aggiungerlo - dei nostri vini. Negli ultimi anni c’è stata una riscoperta dei sapori tradizionali danesi, che sono i preferiti soprattutto in occasione delle grandi feste, ad esempio quelle natalizie o pasquali, quando la famiglia si riunisce intorno alla tavola. Non
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molti sanno che esistono a Copenhagen ben 13 ristoranti insigniti dalle stelle Michelin, dei quali il più noto è il Noma (il nome è l’abbreviazione delle parole danesi “NOrdisk” e “MAd”, “cibo nordico”)». Quali sono le zone di Copenhagen che frequenta con più interesse? Esiste uno scorcio della città al quale è più affezionato? «Copenhagen è una città di mare e dunque bellissimi angoli di visuale si possono avere passeggiando lungo le banchine dell’antico porto-canale o sui nuovissimi moli dell’Opera House, dove antico e moderno si confrontano in soluzioni spesso azzardate, ma in genere sempre piacevoli. Gli scorci suggestivi sono molti e forse il modo migliore per goderseli è fare il giro della città in battello, scoprendone prospettive nuove e inconsuete».
In alto nella pagina accanto, una delle pietre runiche di Jelling; sotto, uno scorcio della necropoli di Lindholm Høje, nei pressi di Aalborg; In questa pagina, l’Opera House di Copenhagen
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IL VINO ROSSO PIÙ AMATO AL MONDO di BEATRICE CECINA
Per esaltarne al meglio il bouquet, i piatti toscani, dalla ribollita al peposo, sono perfetti. Chianti, un figlio molto noto della fiorentinità. Frutto di un lavoro artigianale, spiega il barone Alessandro de Renzis Sonnino, dell’omonima azienda
n attesa di gustare la nuova vendemmia, «molto dipenderà da cosa succede ad agosto e settembre, quando inizierà», al castello di Sonnino, a Montespertoli, si guarda al Chianti come espressione dell’abilità di mastri artigiani perché «per avere un ottimo prodotto, è importante portare in cantina dell’ottima uva. Ogni produttore di vino, che lo faccia con la propria uva, è un artigiano – confida il barone Alessandro de Renzis Sonnino, la cui famiglia guida l’omonima azienda vitivinicola dal 1850 –. Certamente, non è sempre facile. Sono molti i fattori che influenzano la buona riuscita di un’annata. Qui sta la maestria del produttore, cercare di ovviare alle avversità, soprattutto climatiche». Chianti, Toscana e Firenze: legame indissolubile? «Nessuno può fare a meno dell’altro. Il legame è molto forte e ogni abitante di questo territorio lo sa; io per primo che amo molto questa
Sulla via del Chianti
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Itinerari enologici
Nella pagina a fianco, vista panoramica del Castello di Sonnino, a Montespertoli; a fianco, il barone Alessandro de Renzis Sonnino
Le verdi colline di Montelupo
FATTORIA DI PETROGNANO Via Bottinaccio, 116 - Montelupo Fiorentino Tel. 0571 91.37.95 Fax 0571 91.37.96 www.petrognano.it info@petrognano.it
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Situata su un colle, sopra Montelupo Fiorentino, la Fattoria di Petrognano è immersa in uno scenario incantevole di verdi colline e cipressi centenari. 87 ettari di terreno coltivato a vigneti e oliveti circondano la Fattoria che produce un’ottima selezione di vini e olio extra vergine di oliva toscano. La struttura dispone di 10 appartamenti, piscina, campo da tennis, pallaio toscano, ping-pong, mountain bike e barbecue. La Fattoria di Petrognano è anche la posizione ideale per visitare le più note città d’arte della Toscana.
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Sulla via del Chianti
Itinerari enologici
terra». Quali sono le caratteristiche organolettiche del Chianti? «Innanzitutto una buona acidità e una buona trama tannica. Poi un tenore alcolico e una struttura che ne permetta il lungo invecchiamento. I profumi devono essere floreali, fruttati e speziati, ma non ci dimentichiamo la mineralità tipica del Sangiovese, principale uva che costituisce il Chianti». Come si conserva? «La conservazione è un po’ complicata: ambiente con temperatura costante che non superi mai i 18 gradi. Una buona umidità; la bottiglia deve essere coricata e sempre al buio. Un Chianti strutturato dura molto a lungo». Qual è il miglior modo per servirlo? «E’ molto importante la temperatura, tra i 17 e i 18 gradi. A me piace berlo in bicchieri da degustazione molto ampi per apprezzarne meglio i profumi …». Quali sono i migliori abbinamenti culinari che esaltano questo nettare? «Beh qui torniamo al legame con il territorio. I piatti della nostra tradizione le assicuro che vanno tutti bene ... la ribollita, la trippa, la bistecca fiorentina. Non le dico con il “peposo”: manzo a tocchetti in umido con tanto pepe». Qual è il principale costituente del Chianti ? «Il disciplinare del “Chianti Montespertoli” impone l’impiego di Sangiovese di toscana per almeno il 70%. Le altre tipologie d’uva sono quelle consigliate per la coltivazione in toscana. Ci sono quelle più tradizionali, come Canaiolo e Colorino; altre invece più di richiamo internazionale come Merlot e Cabernet
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Souvignon. Nel nostro vino più tipico, il Sonnino, usiamo piccole percentuali di uve a bacca bianca, come Trebbiano e Malvasia, proprio come la più lontana tradizione contadina della Toscana insegna». E il Chianti Montesperoli? «Nel 1997, Montespertoli, la più piccola delle sette sottozone che costituiscono il Chianti, ha ottenuto la denominazione Chianti Montespertoli. Un riconoscimento speciale per noi che possediamo il 30% delle vigne con questa denominazione. In questo modo, l’azienda ha potuto, con soddisfazione, puntare sui caratteri tipici che contraddistinguono il nostro territorio». Quanto conta l’invecchiamento in legno? «Se vogliamo vini che durino nel tempo, l’invecchiamento in legno è indispensabile. Un tempo le botti venivano considerate solo dei contenitori; oggi sappiamo che il legno arricchisce il vino sotto tutti i profili, specialmente quello organolettico. Se vogliamo bere un prodotto più semplice, non occorre che il vino sia invecchiato in legno, ma lo potremmo
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Sulla via del Chianti
Itinerari enologici
abbinare a piatti meno ricercati. Un vino da bene tutti i giorni». Il tempo e la tecnologia hanno cambiato il modo di produrlo? «La tecnologia ci ha permesso di seguire più approfonditamente tutte le fasi produttive. Negli anni, gli investimenti ci hanno permesso di conoscere molte più cose che prima sembravano banali. Ciò a tutto vantaggio del consumatore che deve sapere cosa beve. Il modo di produrlo, però, deve rimanere lo stesso: il più fedele possibile alla tradizione». Il Chianti può essere visto come
espressione dell’abilità di mastri artigiani? «Ogni produttore di vino, che lo faccia con la propria uva, è un artigiano. Certamente non è sempre facile. Sono molti i fattori che influenzano la buona riuscita di un’annata. Qui sta la maestria del produttore, cercare di ovviare alle avversità, soprattutto climatiche. Per avere un ottimo prodotto è importante portare in cantina dell’ottima uva». Cosa non si sa ancora del Chianti? «Sul Chianti è stato detto e scritto molto. Credo però che le cose da scoprire siano ancora molte. Tante sono legate al passato e alla storia della
Un tuffo nella movida fiorentina La storia della discoteca Manduca inizia nei lontani anni 50 quando si chiamava La Villetta, si raggiungeva in carrozza ed era frequentata da Tyrone Power. Oggi il Manduca sorprende offrendosi ai suoi clienti come locale show food d’eccezione, sullo sfondo di una Firenze del tutto inedita, metropolitana e glamour, che richiama atmosfere internazionali. La collocazione, insolita e intrigante, sospesa tra il verde secolare del Parco delle Cascine e le volte dominanti del Ponte all’Indiano, crea un effetto assolutamente innovativo. Qui nulla è lasciato al caso, dalla ristorazione alla carta, alla professionalità del personale, alla cura quotidiana di un ambiente che presenta sempre il meglio di sé. La particolare disposizione della piscina, degli arredi e degli spazi privè, consentono di utilizzare il locale per presentazioni di collezioni di moda, esposizioni, feste private, oltre a proporsi come una location ideale per servizi fotografici.
MANDUCA SHOW E BISTROT Parco delle Cascine c/o CIT (Centro Ippico Toscano) Via San Biagio a Petriolo, 2 - Firenze Tel. 055 34.01.19 www.ilmanduca.com www.villettamanduca.com
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Chianti in Castello Il castello Sonnino o di Montespertoli, essendo largamente conosciuto con entrambi i nomi, si trova nelle vicinanze di Firenze, immediatamente al di fuori dell’abitato del paese di Montespertoli. Si raggiunge facilmente dal capoluogo toscano, imboccando la superstrada in direzione Pisa-Livorno, uscita Ginestra Fiorentina, e proseguendo poi per Montespertoli. Venti minuti di macchina nel meraviglioso paesaggio del Chianti. Per la sua posizione, il suo passato e le sue produzioni tipiche si caratterizza per essere una storica azienda agricola, ma anche sinonimo di un territorio, di un paese sulla vetta di un poggio circondato da colline con oliveti, vigne e cipressi. Un luogo nel cuore autentico della Toscana. Composto da vari corpi, il nucleo originario del castello, e una parte della torre, è del XIII secolo. La villa e gli altri annessi sono, invece, del 1600. All’inizio del 1900, qui vi abitò il ministro Sidney Sonnino che, in quel periodo, ospitò molti illustri italiani: re Umberto I, re Vittorio Emanuele III, Giolitti e D’Annunzio. Dal 1850, l’azienda è di proprietà della famiglia de Renzis Sonnino. E conta 180 ettari di estensione tra cui 45 a vigneto e 17 a oliveto.
Toscana. Nei nostri archivi aziendali, risalenti a metà 800, c’è molto della storia dell’agricoltura e della viticoltura nelle nostre zone. Attualmente l’Università di Firenze sta studiando molti documenti». Quali sono le aree e i paesi in cui il Chianti è più apprezzato? «I mercati principali sono gli Stati Uniti e l’Europa, in particolare Germania e Svizzera. Oggi con la globalizzazione il Chianti si sta espandendo nel mondo, specialmente nei paesi emergenti. Abbiamo ottimi riscontri da Cina e Brasile. Dove si sta creando una vera e propria cultura del vino; il consumo cresce in maniera molto veloce specialmente per i vini di qualità. In Italia, il mercato del Chianti è un po’ in flessione. Purtroppo, la crisi penalizza i prodotti di qualità a
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vantaggio di quelli che fanno solo una politica di prezzo». La contraffazione è un vostro acerrimo nemico: come si distingue il vero Chianti? «La contraffazione è un vero flagello. Il vero Chianti si riesce a distinguerlo quando si è imparato a riconoscerlo dopo una lunga esperienza, non certo per la fascetta di stato. Molte associazioni di appassionati fanno una buona divulgazione, ma la strada da percorrere è ancora lunga. I controlli sono indispensabili. In Italia le cose possono essere migliorate, ma vanno abbastanza bene; all’estero invece si trova di tutto. Prodotti con i nomi più strani e con marchi che richiamano alla Toscana e al Chianti; ciò provoca molti danni sia dal punto di vista economico che dell’immagine».
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LA STORIA DI UNA CULTURA di SARAH SAVINI
È rosso rubino tendente al granato. Un vino, il Chianti che racconta la vita di un territorio. A partire da quello denominato Colli Fiorentini. È disciplinato in ogni suo passaggio e la sua nascita si perde nei secoli
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n nome, una storia millenaria. Chianti. Suo quel colore rosso rubino, tendente al granato per effetto dell’invecchiamento. Suo, il celebre fiasco. Suo quell’inconfondibile bouquet armonico, asciutto, sapido, leggermente tannico. Con un odore intenso, vinoso, anche con sentori di mammola. Frutto di uve figlie di vitigni concentrati tra Arezzo, Firenze, Pisa, Pistoia, Prato e Siena e
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su terreni situati a un’altitudine non superiore ai 700 metri, il Chianti nasce con il concorso del Sangiovese (minimo 70%) e di complementari (fino al 30%: per vitigni a bacca bianca massimo 10% e per i Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon 15%). La resa massima di uva per ettaro è di 90 quintali per il Chianti e 80 quintali, in particolare, per i Colli Fiorentini.
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Sulla via del Chianti
Disciplinare fiorentino
Colli perché, la denominazione Chianti può essere integrata appunto con le specificazioni Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Montalbano, Rufina e Montespertoli. Duemilacinquecento produttori (riuniti sotto l’ombrello di un Consorzio ad hoc) per oltre 600 mila ettolitri di rosso spremuto dai 10.500 ettari di vigneti. Due i modi per consumarlo: giovane, quindi fresco e gradevole, oppure invecchiato a medio e lungo periodo durante il quale matura un colore, un profumo e un sapore inconfondibile. A dargli personalità, contribuiscono anche la pigiatura delicata, la fermentazione alle giuste temperature, l’evoluzione in pregiate essenze legnose e
Una degustazione ad hoc L’agriturismo è strategicamente collocato nel cuore del Chianti a soli 20 km da Firenze e 40 km da Siena. La piscina, immersa tra gli olivi e baciata dal sole, è il luogo ideale per rilassarsi completamente. La giornata si conclude nella romantica atmosfera delle camere in stile antico con letti a baldacchino e dotate dei moderni comfort (asciugacapelli, tv sat, cassaforte, frigo, wi-fi). L’azienda offre cucina casalinga, visite delle cantine e degustazioni dei propri prodotti, vino Chianti Classico D.O.C.G., olio extravergine d’oliva, “zafferano delle colline fiorentine”, e di quelli tipici locali.
AGRITURISMO CORTE DI VALLE S.R. 222 km. 18,5 - Loc. le Bolle Greve in Chianti (FI) Tel. 055 85.39.39 Fax 055 85.44.163 www.cortedivalle.it cortedivalle@cortedivalle.it
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«La denominazione Chianti può essere integrata con le specificazioni Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colli Senesi, Colline Pisane, Montalbano, Rufina e Montespertoli»
l’affinamento in vetro. Invenzione della natura, il celebre rosso è anche espressione della natura e della cultura toscana. La sua nascita si perde nella notte dei secoli. Il debutto ufficiale nell’Ottocento. Nel 1967, la Denominazione di Origine controllata che ne fissa le caratteristiche in apposito disciplinare. Come, ad esempio, accade per l’invecchiamento. Per Colli Fiorentini, per aver diritto alla menzione “riserva”, per almeno 8 mesi dovrà rimanere in fusti di legno. Con successivo affinamento in bottiglia per almeno quattro mesi. Quanto, invece, al suo arrivo in tavola, potrà avvenire solo dopo l’1 settembre dell’anno successivo alla vendemmia. Quanto al consumo, le particolarità del
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Chianti Colli Fiorentini, il disciplinare prevede colore rubino vivace tendente al granato con l’invecchiamento; odore intensamente vinoso, talvolta appunto con profumo di mammola e con un più pronunziato carattere di finezza nella fase di invecchiamento. Quanto al sapore; armonico, sapido, leggermente tannico che si affina col tempo al morbido vellutato. Il titolo alcolometrico volumico totale minimo è dell’11,50% con un massimo di 4g/l di zuccheri riduttori, acidità totale minima del 4.5g7L ed estratto non riduttore minimo del 21 g/l. A fronte poi della menzione “riserva”, il titolo alcolometrico volumico totale minimo sale al 12.50% e l’estratto non riduttore minino del 22 g/l.
Sopra, una delle tante vigne intorno Firenze dove si produce il Chianti Foto :Consorzio Vino Chianti
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Sulla via del Chianti
Disciplinare fiorentino
Nel caso poi di Chianti con il riferimento alla sottozona «Montespertoli», il colore, recita sempre il disciplinare, sarà rubino vivace tendente al granato con l’invecchiamento; l’odore intensamente vinoso, talvolta con profumo di mammola e con più pronunziato carattere di finezza nella fase di invecchiamento e il sapore: armonico, sapido, leggermente tannico, che si affina col tempo al morbido vellutato. Nel complesso, il prodotto dell’annata, che ha subito il «governo», presenterà vivezza e rotondità. Il titolo alcolometrico volumico totale minimo sarà del 12%, con un massimo di 4 g/l di zuccheri riduttori; l’acidità totale minima di 4,5 g/l; l’estratto non riduttore minimo di 21 g/l. Se con la menzione «riserva»: titolo alcolometrico volumico totale minimo sale, anche qui, al 12,50% e l’estratto non
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«Due i modi per consumarlo: fresco e gradevole oppure invecchiato a medio e lungo periodo» riduttore minimo a 22 g/l. Infine, il confezionamento. Per l’etichettatura, designazione e presentazione dei vini, c’è scritto sul disciplinare, «è vietata l'aggiunta di qualsiasi qualificazione diversa da quelle previste nel presente disciplinare ivi compresi gli aggettivi extra, fine, scelto, selezionato, vecchio e simili. È tuttavia consentito l'uso di indicazioni che facciano riferimento a nomi, ragioni sociali, marchi
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Un Mugello da gustare tra carni e ribollita
privati, non aventi significato laudativo e non idonei a trarre in inganno il consumatore». Per contro, le bottiglie o altri recipienti «devono essere consoni ai tradizionali caratteri di un vino di pregio anche per quanto riguarda la forma e l’abbigliamento si legge sul disciplinare -. Qualora i vini Chianti, siano confezionati in fiaschi, è vietata l’utilizzazione di un fiasco diverso da quello tradizionale all'uso toscano. Ed è inoltre vietato l’utilizzo dei fiaschi usati». Sono consentiti sistemi di chiusura previsti dalla normativa vigente. «È in ogni caso vietato confezionare i recipienti con tappi a corona o con capsule a strappo. Per il confezionamento è consentito solo l’uso del tappo raso bocca a eccezione dei contenitori di capacità non superiore a litri 0,375 per i quali è ammesso l’uso del tappo a vite».
Situato a poco medo di 1 chilometro dall’uscita dell’autostrada A1 Barberino di Mugello, e a pochi chilometri dall’outlet di Barberino, dal lago Bilancino e dall’autodromo, il Ristorante Le Capannine propone ricette semplici ma efficaci e piatti appetitosi tipici della cucina toscana, come la ribollita, affettati e salumi, carne alla brace, fiorentine e altre prelibatezze, per soddisfare con gusto i palati più esigenti. Il ristorante è aperto 365 giorni l’anno con orario continuato dalle ore 11 alle ore 24.
RISTORANTE LE CAPANNINE Via Don Minzoni, 88 - 50031 Barberino di Mugello (FI) Tel. 055 84.20.777 Fax 055 84.22.644
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COME SI PREPARA LA FIORENTINA di I sapori di Firenze raccontati da uno dei più grandi chef italiani, STEFANO il fiorentino Fabio Picchi. Un percorso fra carne e salumi per scoprire MARINELLI tutti gli aspetti della secolare tradizione fiorentina
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irenze, conosciuta e ammirata in tutto il mondo per la sua arte, per la sua storia, per l’immagine sublime che si è creata nel tempo. Ma anche terra dalle forti tinte popolari, dalle radicate tradizioni contadine, di principi basati su valori concreti. E la fiorentina rappresenta il simbolo che unisce le due facce della città, in un perfetto connubio di cibo e poesia. La bistecca più famosa del mondo appare come un’opera
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d’arte agli occhi, e alle papille, di chi ha la fortuna di vederla nel proprio piatto. Ma non tutti sanno quanta cura richieda questo pezzo di carne affinché sbocci in quel trionfo di sapori universalmente riconosciuto. Un allevamento scrupoloso e una meticolosa frollatura. Ma sono soprattutto i metodi di cottura gli ingredienti indispensabili per ottenere l’autentica fiorentina, quella che appartiene al patrimonio secolare della cultura toscana. Patrimonio che abbraccia anche tutti quei salumi le cui fragranze e i cui sapori hanno reso famoso il nome di Firenze in Italia e all’estero. Fabio Picchi, uno dei più celebri chef italiani e fiorentino doc, svela tutti gli aspetti della vera cucina fiorentina. Sono in molti, in tutto il mondo, a considerare il sapore della fiorentina alla stregua di una poesia. Ma cosa rende così speciale questa bistecca? «È l’incontro fra il macellaio e il suo cliente
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Firenze
Tradizioni contadine
che deve essere speciale. È necessario che si crei un rapporto affettuoso e sincero. Questo è il primo sentiero da percorrere per ottenere una vera fiorentina. È indispensabile che la carne venduta sia ben frollata e chi la compra non deve farsi ingannare sulla misura. Lo spessore massimo deve corrispondere all’altezza di un fiammifero». Come si fa a capire se il macellaio ci sta dando una buona fiorentina? «È impossibile capirlo. Per questo è
Il vero gelato artigianale Gabriella Macrì ha scelto di puntare tutto sull’indiscussa qualità dei propri gelati, proponendo sapori sempre naturali e “veri”. La scelta accurata delle materie prime, la meticolosità nella preparazione delle miscele, permettono di ottenere un perfetto mantecato, leggero al palato, senza troppi grassi e dal sapore che va oltre l’ordinario. Oltre ai “classici” proposti tutto l’anno, gelati realizzati con ingredienti originali e prodotti freschi di stagione: ne derivano particolarità tipiche di alcuni periodi dell’anno, come il gelato di more di rovo selvatico, quello di fichi di campo, di cachi, di melagrana o di castagne e il gelato alla rosa.
GELATERIA PINGUINO Via Q. Sella, 6/d - Firenze Tel. 055 66.72.74
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assolutamente fondamentale che si instauri un rapporto, un feeling fra cliente e macellaio. Comunque il segreto di una buona fiorentina sta nella fase di frollatura. Per la sua durata ogni macellaio ha il proprio trucco, che conserva con cura, ma in ogni caso deve sempre andare ben oltre i 15 giorni». Poi, una volta portata a casa, come la si trasforma in una poesia? «Innanzitutto bisogna evitare di conservarla in frigorifero. La carne deve restare a temperatura ambiente. Poi bisogna accendere una brace. Una vera fiorentina la si ottiene soltanto sulla brace, dove, se si desidera raggiungere il massimo della schiettezza, va predisposto un mucchietto di foglie d’ulivo. Quindi, la carne deve essere cotta con un fuoco violento, per cinque minuti da una parte e cinque dall’altra. Dico solo cinque minuti, perché la carne deve essere già a temperatura ambiente. Le foglie d’ulivo, bruciando, produrranno un fumo scuro, le cui molecole andranno ad attaccarsi con il “bruciaticcio” della carne. Infine, quando si andrà a tagliare la bistecca, sul piatto si vedrà apparire un sugo scuro, sporco di queste molecole». Un sugo sporco di molecole, ma anche di sangue. O no? «In realtà è improprio dire che la fiorentina deve essere al sangue. Se la stornatura è stata giusta, la carne deve essere completamente rossa dentro, ma non deve perdere liquidi. Quel poco di sugo e di umidità che esce dalla carne, andrà a comporsi con il suo
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Firenze e “Il Sabatini” Quasi un secolo di sapori Più che un locale, un’istituzione. Sabatini è dal 1924 uno dei ristoranti più famosi in città. Tanto che non è infrequente sentire dire tra amici “Scommettiamo una cena dal Sabatini?”. A Carlo Lazzerini e Claudio Schiavi l’onore di portare avanti oggi la tradizione del ristorante continuando a offrire a fiorentini e ai tanti stranieri cui il locale è noto (esistono ristoranti Sabatini anche in Giappone) i migliori piatti della cucina toscana. Da provare i panzerotti alla Sabatini e gli spaghetti alla Sabatini, preparati alla fiamma sul momento. Ottimi anche i dolci, come la zuppa inglese e le arance marinate nell’Alkermes. La lista dei vini conta più di 500 nomi di altissimo livello.
RISTORANTE SABATINI Via Panzani, 9 A - Firenze Tel. 055 28.28.02 – 21.15.59 Fax 055 21.02.93 www.ristorantesabatini.it info@ristorantesabatini.it
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“bruciaticcio” ed è lì che la fiorentina raggiunge il massimo della sua potenza alchemica. Tutto questo che rappresenta un gesto preistorico, arcaico, cioè quello di porre la carne direttamente sulle braci. E poi bisogna allontanarsi dall’abitudine di utilizzare salse e marinature, che ne deviano il sapore. Per elevarlo a piatto sublime, sono sufficienti un grande allevamento, un grande macellaio e un uomo, perché alla griglia ci devono stare gli uomini, ma, tengo a precisare, con femminea generosità». A proposito di allevamento, da quale animale si ricava la migliore fiorentina?
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«Le vacche chianine offrono carni particolarmente sapide e morbide, per questo sono quelle più indicate. La costata è la parte prescelta per la fiorentina, quella con l’osso che si attacca alla colonna vertebrale. Ma la chianina di per sé non è sufficiente, perché se non viene allevata nella giusta maniera, si traduce in un disastro. La stessa cosa accade se ben allevata, ma macellata nel modo sbagliato». Come è nato il rapporto viscerale e indissolubile che unisce questa bistecca alla città di Firenze? «La scuola di macelleria fiorentina affonda le sue radici nella notte dei tempi ed è
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Firenze
Tradizioni contadine
senza dubbio la più alta scuola di taglio italiana. Dopo tutto, i fiorentini hanno una sorta di mania per la carne. È vero che ora il numero dei macellai si è ridotto notevolmente, ma in passato ce n’era uno ogni cinque metri, a testimonianza della ricchezza culturale della città nell’ambito della carne. Ma anche della ricchezza economica. Non dobbiamo dimenticarci che Firenze, un tempo, era uno snodo cruciale del commercio mondiale, in particolar modo di quello della carne. Detto
Sulle rive del Marinella per gli eventi più esclusivi La Villa di Travalle, costruita su un complesso trecentesco sulle rive del torrente Marinella, fu abitata nei secoli da illustri famiglie fiorentine. La Villa venne ampliata alla fine del 1600 e davanti alla facciata sud fu costruito un bellissimo giardino di impianto barocco. Oggi “Il Giardino di Travalle” ospita eventi indimenticabili, una splendida limonaia offre ampia possibilità per iniziative culturali, cerimonie, matrimoni e convegni. Il Ristorante “Le Tre Lune” è parte integrante della struttura ricettiva e gode dell’intimità di un esclusivo dehor. La “Fattoria di Travalle” coltiva i terreni intorno alla Villa, di particolare pregio risulta l’olio extra vergine di oliva, e i vini rossi “Nero del Castellaccio” e “Mansueto”.
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FATTORIA DI TRAVALLE Via Travalle, 25 - Calenzano (FI) Tel. e Fax 055 88.79.263 www.travalle.it fattoria@travalle.it
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Dai bottegai della fiorentina questo, bisogna ammettere che il termine “bistecca” deriva da “beef steak”. Si narra che una guarnigione inglese di passaggio a Firenze, nel giorno di San Lorenzo, accese una brace e cosse la carne grosso modo come si cuoce una fiorentina. Che sia leggenda o storia, è molto probabile che la fiorentina che conosciamo sia stata importata da un’altra cultura, presumibilmente anglosassone». Allora non c’è traccia della tradizione toscana nella fiorentina? «La fiorentina che mangiamo oggi è così prelibata proprio perché la sua preparazione è stata affinata dall’amore che i Toscani nutrono verso la carne. E sicuramente la fiorentina di oggi è tutt’altra cosa rispetto a quel gesto primitivo che i militari inglesi compirono in strada. Un gesto che, comunque, i Fiorentini colsero e fecero proprio. Questo dimostra come a Firenze la gente sia sempre stata di ampie vedute e attenta alle novità. Dopo tutto anche pomodori e patate provengono dall’America. Il cibo è sempre movimento e comunicazione, ogni piatto è frutto di uno scambio culturale. E l’indole fiorentina si adatta perfettamente a questo concetto». La fiorentina con cosa può essere accompagnata? «I funghi di faggio riescono a conferire un gusto sublime alla fiorentina. Si devono farcire con l’aglio e cuocere in un forno violento. Poi bisogna farli leggermente ritirare. Infine basta alternare un pezzetto di
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Seguono il ritmo delle stagioni i gusti proposti in uno dei ristoranti simbolo dell’Appennino ToscoEmiliano. Il Cosimo de’ Medici di Barberino di Mugello, in realtà, è una vera e propria bottega artigiana fucina dei sapori toscani. Funghi, zuppe, cinghiale e, soprattutto, il secondo che ha reso celebre questo locale, la bistecca alla fiorentina. Perché ha il profumo della carne sanguigna la vera anima di questa località in provincia di Firenze, che oltre al celebre circuito, si articola tra antichi castelli medievali, il Lago Bilancino e campi da golf. Ma la tradizione culinaria sorpassa i monti, e così, magari sorseggiando un Brunello di Montalcino, ci si destreggia tra piatti senesi, come l’acqua cotta, fiori di zucca ripieni, tagliolini in crosta di formaggio al prugnolo e, ovviamente, la ribollita.
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carne e un pezzetto di fungo per provare un’esperienza sensazionale. E del buon vino rosso. Anche lo champagne si sposa bene, se vogliamo fare una concessione ai Francesi, ma il rosso italiano è insostituibile». Firenze, però, non è solo fiorentina. Anche la tradizione dei salumi è molto antica. «È proprio vero. Ancora oggi, di notte, vedo gente che si aggira a trafficare con i salami, che spesso le famiglie si fanno in casa, fuori da ogni regola e assolutamente illegali, ma buonissimi, molto scuri, anzi neri. I salami
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sotto cenere sono una specialità. E poi ci sono le salsicce. Il popolo fiorentino è forse l’unico al mondo che fa le salsicce e nelle prime 48 ore se le mangia crude. La vera salsiccia è quella che ha un equilibrio di sale tendente al basso, soprattutto quando ha una componente di grasso molto alta, quindi parlo di quella spalmabile. Anche la salsiccia magra è molto buona, quella che in 48 ore diventa salamino. E come non parlare della soprassata, quella autentica, senza polifosfati, con prezzemolo, un poco di aglio, molto pepe e scorzette di limone. Quando in
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bocca la scorzetta acida incontra tutto quel grasso, gli dà quel senso di equilibrio che permette di raggiungere l’apoteosi. E ancora il buristo, quello farcito con scorze di arancio e pinoli: un capolavoro». Scorze di limone e di arancio non rischiano di coprire il sapore genuino del salume? «La cucina è ricerca, sintesi di sapori. È l’esito di tutto quel meccanismo di comunicazione, di scambio di idee che fa la storia di ogni pietanza. E non si tratta di un processo che coinvolge noi cuochi professionisti. Si origina dal basso, fra le casalinghe, che parlando fra di loro fondono stili diversi, anche culture diverse, dando luogo a quelle innumerevoli contaminazioni
che costituiscono l’anima della cucina». Quale tipo di prosciutto, invece, si identifica con la tradizione fiorentina? «Il prosciutto tipico è quello a taglio casentinese. Un prosciutto molto stretto, al quale viene tolto il 50% del sale, sostituito da pepe in abbondanza. È un prosciutto, quindi, che presenta una caratteristica dolcezza, conferita dal pepe, appunto, e dall’aglio. Abbiamo anche degli ottimi prosciutti casalinghi salati, ma hanno una controindicazione. Quando si va a mangiarli, spesso accade che ci si fermi dopo due fette. Non perché non siano buoni, ma a causa dell’eccesso di sale. Con i prosciutti dolci, invece, questo inconveniente non capita mai, anzi, una fetta tira l’altra».
Firenze
Tradizioni contadine
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Spazio nuovo, antichi sapori Atmosfera di grande suggestione, per un locale nuovo come ubicazione, ma di grande esperienza nella conduzione. Inserito in un’assolata villetta, circondato da un proprio curatissimo parco e immerso in una secolare pineta, “Il Battibecco” esprime in tutte le sue componenti la voglia di affermarsi nel girone degli eccellenti. L’ambiente è rustico-raffinato, suddiviso in due sale. Nella prima un bel soffitto in legno con massicce travi a vista e un grande camino del 1500, nella seconda ampie vetrate che si affacciano sul bosco. La cucina curata dagli chef Enrico Boaretto, Lorenzo Falciani e Ignazio Zuccaro propone piatti della tradizione sapientemente rivisitati.
RISTORANTE BATTIBECCO Via Vittorio Veneto, 38 - Impruneta (FI) Tel. 055 23.13.820 Fax 055 20.10.188 www.ilbattibecco.it info@ilbattibecco.it
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INEDITE GOLOSITÀ Antica e moderna. L’arte dolciaria realizza mix di ricette tipiche e di inedite golosità. A Massa Carrara, il maestro pasticcere Giorgio GIULIO Fruzzetti, fa un excursus della migliore tradizione italiana fino a CONTI raccontare le sue ultime creazioni
internazionalizzazione arriva anche in tavola. Eppure, «anche se l’arte pasticcera vive ormai la contaminazione globale», molta della produzione dolciaria italiana non conosce battuta d’arresto. Lo sa bene Giorgio Fruzzetti, maestro pasticcere di Massa Carrara, attento sperimentatore e inventore di nuove ricette, ma anche puntuale conoscitore della più grande tradizione dolciaria nostrana. «Ci sono dolci che si fanno in tutta Italia come il tiramisù, il millefoglie, il pan di spagna. I classici nazionali. All’estero ho avuto modo di vedere riconfermato anche il successo del nostro babà, del cannolo siciliano, della cassata». Ma circoscrivendo la zona di produzione toscana
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alla provincia di Massa Carrara, i dolci tipici guardano più alle atmosfere di montagna. «Le autentiche origini della torta di riso, ad esempio, delle bollenti di castagnaccio o delle frittelle di mele, sono massesi. In esse ricorrono diverse quantità e modalità di utilizzo dell’olio d’oliva, dell’uvetta e dei pinoli» precisa Fruzzetti. In generale però gli ingredienti più utilizzati per i dolci di Massa Carrara, oltre al tris di latte uova e farina, sono anche le castagne, il rosmarino, il riso e vari tipi di liquore. «La tradizione massese si è evoluta partendo dalle ricette testate e diffuse nei conventi, dai frati e dalle suore, e giunte alle casalinghe, quindi alle famiglie. Il passaggio successivo ne ha comportato l’elaborazione in pasticceria e la commercializzazione delle meglio riuscite». Ma come è possibile contribuire a una costante evoluzione innovativa della pasticceria? «Bisogna distinguere il lavoro di pasticcere dall’arte dolciaria. Occorre passione e creatività.Tra i miei nuovi dolci c’è ad esempio il Cioccogiò. È una pasta lievitata e spugnosa, imbevuta in una deliziosa crema ganache di cioccolato. Oppure la torta Monica, con base di pasta frolla e pere caramellate, ricotta, zucchero di canna e cannella. Il mix di zucchero sulla superficie viene
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Massa Carrara
L’arte del nuovo e del buono
gratinato con una fiammata di gas propano». Si tratta di personali idee di Giorgio Fruzzetti unite a tendenze apprese all’estero. «Per la torta Monica ho trovato ispirazione in Austria, mentre per il Cioccogiò ai Caraibi, per via delle loro bacche di cacao». Quindi una passione, quella pasticcera, per l’arte del nuovo e del buono. Un’arte ritrovata anche nelle sculture e nei dipinti di dolci realizzati con estrema perizia dal maestro massese, come la torre di Pisa al cioccolato.
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La vera cucina messicana Sembra una classica piazza messicana. Nell’arredamento e nei sapori. La Plaza Pub è conosciuto per le salse piccanti, dalle più leggere a quelle quasi impossibili da assaggiare per quanto fanno lacrimare gli occhi. Qui si gustano anche 40 tipi di panini, tacos e specialità messicane, piatti freddi e tanta birra. Ma la Plaza Pub ospita un “locale nel locale”: oltrepassando un cancello in ferro si arriva al ristorante El Rey. Qui si assapora l’originale cucina messicana, con piatti che si possono trovare solo in Messico e ricette studiate personalmente in loco dai proprietari, imparando dai migliori cuochi messicani: dalla Sopa Azteca, all’Enchiladas, dal Pollo al Mole, al Cochinita Pibill, e tanti altri piatti.
LA PLAZA PUB RISTORANTE MESSICANO EL REY Viale XX Settembre, 199 - Avenza (MS) Tel. 0585 51.554 Cell. 331 54.54.033 www.elrey.it
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IL PIACERE DEI SAPORI SEMPLICI
Pistoia
di SIMONA CANTELMI I brigidini e il berlingozzo
In Toscana si realizzano dolci legati a particolari ricorrenze e periodi dell’anno. Il maestro pasticciere Graziano Giovannini, della pasticceria Giovannini di Montecatini Terme, parla delle tradizioni dolciarie toscane e pistoiesi
el territorio pistoiese si producono dolci della tradizione toscana, come i ricciarelli, il panforte o i cantucci, ma esistono anche alcuni prodotti legati a feste e usanze. «A Lamporecchio, in provincia di Pistoia, si fanno i brigidini, che sono simili a cialde fatte con uova, farina e zucchero e schiacciate in piastre calde. Poi c’è il berlingozzo, che è come un ciambellone» spiega Graziano Giovannini, dell’omonima pasticceria di Pistoia. «Noi facciamo soprattutto ricciarelli, cantucci, panforte, ma anche il torrone, fatto alla pasticcera e non con le macchine d’industria. Ogni paese ha le sue usanze e prodotti specifici che vengono fatti anche nelle ricorrenze: per l’epifania qui nel pistoiese e a Lucca si fanno i befanini o befanotti di pasta frolla, mentre il 24 agosto per la festa di San Bartolomeo si fanno i “pippi”, delle frolle con molto lievito, gonfie e a collana, che vengono indossate. Si tratta di dolci legati soprattutto alla tradizione e al folclore».
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Ogni città toscana ha un dolce particolare, realizzato con le materie prime del posto. «Nel senese c’è la tradizione della pasticceria medievale del ricciarello fatto col miele, prima che si scoprisse lo zucchero. Poi ci sono i cantucci, in fondo come una frolla arricchita di
Sotto, i befanini
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Pistoia
I brigidini e il berlingozzo
In alto, la torta medicea della pasticceria Giovannini di Montecatini Terme; sotto, pan di ramerino
mandorle, ma io ci metto anche un po’ di pinoli. Il pinolo di Pisa è rinomato e ci si possono fare torte con crema semplicissime, ma che si vendono bene e piacciono». La Toscana, anche grazie alle tradizioni contadine, è molto semplice, non è caratterizzata da grandi lavorazioni sia nella cucina sia nella pasticceria. «Per Pasqua a Livorno, a Pisa e a Pistoia, si fanno le schiacciate livornesi, che sono simili a focacce con l’anice. Si trovano poi dappertutto, non solo a Livorno, perché il pasticcere che ha imparato le fa. Per la Quaresima c’è il “pan di ramerino”, con lievito, uvetta e rosmarino. Firenze ha per carnevale la schiacciata, un dolce a base di lievito, con impasto allo strutto di
maiale e parecchi rossi d’uovo, profumato con buccia d’arancio o di limone, un po’ di vaniglia o, chi vuole, le spezie. Per quanto riguarda il cantuccio, c’è chi ci mette le gocce di cioccolato o l’uvetta, mentre per me il cantuccio è una cosa tradizionale e lo faccio com’è nato e si è sempre venduto. Poi in Toscana c’è la collina con i castagni, pertanto è diffuso anche un frollino alla base di farina di castagne, che viene mescolata con la farina normale, e un po’ di burro. In Garfagnana, più a contatto con l’Emilia, c’è il castagnaccio: tanti lo fanno solo di farina di castagna, acqua o latte, ma noi qui lo facciamo da pasticceria, con uvetta, pinoli, rosmarino e noci». La semplicità è un elemento che contraddistingue la pasticceria della zona. «Noi cerchiamo di fare quello che è nella tradizione nel miglior modo possibile. Io faccio la torta medicea – spiega Graziano Giovannini –. Si prende uno stampo da pan di spagna, di quelli normali a cerniera o una tortiera, che si ricopre di pastafrolla con un po’ di lievito. Poi si riempie con una purea di albicocche, qualche amarena in qua e là e con un composto che si chiama frangipane, costituito da parti uguali di zucchero, uova, farina e burro. Si aggiunge un cucchiaio di maraschino e si mette questo composto sulla purea di albicocche. Quando cotta rimane una parte piuttosto umida all’interno. A volte io ci metto anche un po’ di pinoli sopra».
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I DOLCI SAPORI
di ANTONIO SPERANZA Era il pane dei soldati romani, il dolce tipico di Lucca, il buccellato. Al Medioevo, invece, risale la torta coi bischeri, prelibatezza dolciaria di Pisa. Lo chef pâtissier, Stefano Parenti, racconta le origini e la lavorazione di questi antichi sapori
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a viaggiato con i legionari lungo le strade dell’Impero, il dolce tipico di Lucca: il buccellato. «Il suo nome deriva dalla forma di una tromba romana, la buccella», racconta Stefano Parenti, chef pâtissier alla pasticceria “Le dolci tentazioni” e dimostratore per la ditta Nova di Lucca, nonché titolare dell’omonima attività di famiglia a Pisa. In origine, il buccellato era un «pane ricco
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dato ai soldati legionari. Solo dopo è diventato il dolce delle feste». E nella sue versione moderna, conservata la forma del filoncino, veniva portato dai lucchesi sulle proprie mense, quale dolce domenicale, dopo aver assistito alla messa o aver partecipato alla festa religiosa dell’Esaltazione della Santa Croce o del Palio della balestra. Entrambi appuntamenti settembrini. E per unire sacro e profano, narra la leggenda che «una moglie nel 1495 avvelenò il marito proprio con il buccellato, usando ingredienti sbagliati», rammenta lo chef. Dolce semplice, il buccellato di Lucca è frutto della nobilitazione del pane. Molte le variazioni sul tema. «Vi sono tante ricette, in alcune si può aggiungere la frutta candita, mentre a volte la presenza di uova è soggettiva. E comunque in tutte si ritrovano sia i semi di anice che l’uvetta». Molteplici i modi di consumarlo. In primis, essendo un dolce fresco, può essere mangiato a fette, sorseggiando un buon
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bicchiere di passito. Altrimenti, lo si può tagliare a fette spesse un paio di centimetri e cospargerlo di panna fresca e fragole o panna e caffè, o ricotta e rhum. «Oppure quando è raffermo – svela Parenti – si può tostare e usare tipo fetta biscottata per il latte oppure come fondo per le torte». E se il buccellato rappresenta la tradizione, all’ombra della Torre del Guinigi, la novità non è certo fattore secondario. La pâtisserie, rileva Parenti, «qui è apertissima
Terre ricche di prelibatezze
Sulla tavola toscana sapori di terra e aromi del mare Le gustose ricette tipiche toscane. Piatti di terra, cacciagione ma anche invitanti pietanze di mare. Preparate con diversi modi di cottura: brace, forno a legna, girarrosto, stufato. Da Pinzo, oltre alle famose pizze spianate a mano e cotte nel forno a legna in pietra, si possono assaporare i piatti della tradizione, dalla pasta fatta in casa come i Tortelli di Mamma Emma, le Pappardelle al Cinghiale, calde Zuppe alla Frantoiana o il tipico Farro alla Lucchese. I secondi piatti spaziano dalle antiche ricette come il Picchiante, la Trippa alla Lucchese, alla cacciagione come il Coniglio o il Cinghiale alla cacciatora, ai tanti arrosti cotti nel secolare girarrosto.
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La ricetta del buccellato Ingredienti Farina tipo manitoba kg.1 lievito di birra gr.50 burro gr.125 zucchero gr.350 latte gr.500 sale gr.8 uova gr.125 uvetta gr.500 semi di anice gr.50
Preparazione Impastare tutti gli ingredienti a eccezione dell’uvetta e dei semi di anice. Una volta raggiunto un impasto liscio e asciutto, incorporare l’uvetta e i semi di anice. Lasciare riposare l’impasto per circa 3 ore fino a che non raggiunge il triplo del volume. Formare dei filoncini o ciambella di circa 400 gr. Fare lievitare e cuocere in forno preriscaldato a 180° per circa 20 minuti.
all’innovazione. Cerca sempre di essere aggiornata anche nei metodi di lavorazione. L’ausilio di attrezzature moderne aiuta a guadagnare nei tempi di lavorazione. Sono precise nella costanza di rendimento del prodotto finale, ma senza alterarne il gusto o le basi della pasticceria». Ma non solo perché l’arte dolciaria lucchese, nel suo «stare al passo con i tempi, è alla costante ricerca di prodotti intriganti che attirino l’attenzione del consumatore» sia nella vista che nel gusto. «In questi anni – spiega lo chef – vanno molto di moda le torte moderne cioè montate e fatte raffreddare in anelli di acciaio e poi decorate con fili di cioccolato o frutta intagliata». Nella “lotta” dolce-amaro, «in linea di massima dovrebbe prevalere il gusto che sta sempre nel mezzo, cioè mai troppo dolce. Ho, comunque, una teoria: un dolce è buono quando appena finito di gustare ti viene voglia di mangiarne ancora».
LA TORTA COI BISCHERI DI PISA La storia gastronomica dei dolci di Pisa è altrettanto ricca e complessa. Radicati ai metodi del passato, attenti all’innovazione. È la filosofia che caratterizza la lavorazione dei dolci a Pisa, terra ricca di prelibatezze tra cui spicca la famosa torta coi bischeri. Se
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Terre ricche di prelibatezze
nel dialetto toscano la parola “bischero” ha un connotato negativo, indicando una persona poco furba, in campo culinario ha un significato completamente diverso. «L’origine di questa torta è da ricercare nel Medioevo. Si dice che i feudatari la facessero preparare per farla gustare nei
giorni di festa. Il nome prettamente toscano, in particolare, è stato dato perché mentre i signori a corte mangiavano il ripieno della torta, la cornice, che altro non è che una frolla fatta a forma di guglie, veniva considerata scarto e data ai contadini». Il dolce sopra citato,
I dolci sapori della tradizione Le origini di questa pasticceria si perdono lontane nel tempo, e i suoi prodotti mantengono ancora il gusto dei sapori genuini di una volta. L’attenzione alla tradizione e ai prodotti tipici la fa da padrona. Qui si possono trovare i Veri Biscotti di San Miniato, che si distinguono per gusto, friabilità, bilanciamento e aroma, la Torta di San Miniato soffice, lievitata naturalmente e con all’interno una dolce inzuppatura di Vin Santo tipico toscano, il Cantuccio di Re Tartufo che unisce il cantuccino al Re della tavola, il tar-
tufo, i Vatussi, cantuccini filiformi croccanti alle mandorle, le Cicche, bastoncini croccanti al cioccolato e tante altre golosità.
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Lucca e Pisa
Terre ricche di prelibatezze
fa parte della tradizione pisana da tempo immemore. Si dice venga proposto dalle massaie con ricette personalizzate nei particolari in base alla famiglia di provenienza. «Le leggende e gli aneddoti che raccontano la nascita della definizione per questa originale torta – afferma Parenti - si perdono tra le voci di nonne ed anziani contadini». Oltre alla forma, particolare è anche la preparazione e la ricetta. «Il dolce ha per ingredienti principali riso e cacao – sottolinea Parenti - , a cui si aggiungeranno
sempre l’uvetta, i pinoli e la frutta candita oltre alla cannella». Nonostante la torta coi bischeri sia una reminiscenza specificamente casalinga, oggi è possibile mangiarne di buonissime sia in pasticceria, sia soprattutto come trionfante finale di un pranzo. «I ristoratori – precisa Parenti - si affidano a chef che riprendono e rielaborano le antiche ricette contadine ma la pasticceria pisana, in genere, è anche aperta all’innovazione». La torta coi bischeri proviene dalla campagna pisana, e più
I grandi classici della cucina toscana A Sasso Pisano nel comune di Castelnuovo di Val di Cecina, nel complesso delle colline metaliffere note come “Valle del diavolo”, per le particolari manifestazioni geotermiche che caratterizzano la zona, sorge un caratteristico locale, il Tinaio. L’ambiente è quello caratteristico toscano. Riccardo Bertone accoglie gli ospiti con simpatia e cordialità, preparando specialità tipiche toscane di produzione propria, dalla pasta fresca al taglio della carne e alla pasticceria. Chi preferisce la pizza può trovarla in tantissime versioni. Il Tinaio vi augura buon appetito.
BAR RISTORANTE IL TINAIO Via Cavour, 22 Sasso Pisano (PI) Tel. 0588 26.023 - 26.097
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Torta coi bischeri Ingredienti per 6 persone (fondo torta) 300g farina 3 tuorli 150g di burro 150g di zucchero 1 limone Ingredienti per 6 persone (ripieno torta) 150g di riso 750g di latte 3 cucchiai di zucchero 100g di cioccolata fondente 2 uova 20g di burro
precisamente da Pontasserchio dove viene preparata tutto l’anno. In sostanza, parliamo di un’arte dolciaria molto legata ai metodi del passato. «Quella pisana – conclude Parenti – è un’arte culinaria che mantiene il rapporto con le tradizioni e le origini contadine e marinare, in cui convivono sapori decisi e piatti che con disinvoltura seguono la conformazione geografica del territorio. Il gusto e' sempre soggettivo ma nella tradizione locale non si tende mai a fare dolci molto ricchi di liquore. Oltre alla torta coi bischeri, la nostra Provincia sforna altri gustosi dolci come il castagnaccio alla pisana, la nozza di Calcinaia e la schiacciata di Pasqua. La pasticceria a Pisa e in Toscana, in genere, offre un menu abbastanza ricco. Ciò non toglie che nei negozi si possono trovare dolci di origini straniere come lo strudel, oltre che torte alla pesca e il kranz».
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un pizzico di sale una manciata di uvetta passa una manciata di pinoli una manciata di canditi
Preparazione Per preparare la base della torta coi bischeri di Pisa bisogna far ammorbidire il burro e aggiungervi i tuorli, lo zucchero e la farina. Impastate bene il tutto e lasciare riposare per circa un’ora. In disparte cuocere il riso nel latte con un pizzico di sale e, una volta cotto, farlo raffreddare per circa mezz’ora. Aggiungere i tuorli, lo zucchero, il liquore, il burro ammorbidito, la cioccolata a scaglie e infine gli albumi montati a neve; amalgamare e poi aggiungere l’uvetta, i canditi e i pinoli. Prendere una teglia, imburrarla e inserirvi la pasta frolla facendola aderire bene ai bordi, mettere all’interno della pasta frolla il ripieno preparato in precedenza, e fare delle striscioline sottili con la pasta frolla in avanzo per guarnire la superficie della torta. Infornare a temperatura moderata per circa 45 minuti.
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I DOLCI CHE VENGONO DA LONTANO Nasce nell’800 la pasticceria nella città portuale. Frutto di abili mani non livornesi. Bocca di dama, schiacciata di Pasqua, frati e budino o torta di riso, le goloserie di COSTANZA DEL MASTRO
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omincia con un’adozione, la tradizione dolciaria a Livorno. All’ombra del faro, «s’inizia a parlare di pasticceria, e mi sento di affermarlo da non livornese, quando gli ebrei nel 1800 cominciarono a fare delle preparazioni a base di miele, uova, farina che poi vendevano nei loro negozietti sparsi per la città». Loretta Fanella è il cuore dolce del Caffé Mamà a Livorno. Chef pâtissier la si dovrebbe tecnicamente definire. Da non livornese, si è immersa nella storia tuffandosi in un libricino, uscito da poco, sulla pasticceria della città marittima scritto da Paolo Ciolli. Molti comunque i dolci figli di quei primi impasti. Tra questi, snocciola Fanella, «ci sono
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la bocca di dama, biscottini a base di farina di mandorle, uova, zucchero e farina. Furono fatti da un pasticcere ebreo livornese per il granduca di Toscana, Ferdinando II dei Medici, che ne onorò la bontà. E poi c’è la schiacciata di Pasqua, un pane dolce aromatizzato all’anice preparato appunto durante la festività. Oppure i frati, tipiche ciambelle fritte che, spostandosi in un altro paese, cambiano nome, divenendo bombolone o in America donut. Infine c’è il budino o la torta di riso, la mattina a colazione nei bar o pasticcerie». Sapori più o meno ricchi, ma ricorrenti. «Nelle ricette antiche – osserva la chef
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Livorno
pâtissier – sicuramente troveremo ingredienti che si ripetono molto spesso: miele, mandorle, anice e fichi secchi». Dove «prevale il dolce, visto l’utilizzo di miele e mandorle. Ai nostri giorni, però, tendiamo ad alleggerire quel sapore, aggiungendo ingredienti o frutta acida che tende a correggere la dolcezza e a rinfrescare la bocca». Se poi s’incastona la pâtisserie livornese in quella toscana, emerge come «l’innovazione cominci a farsi strada. Se poi entriamo nelle
Delizie antiche
Garanzia di qualità La bella stagione è foriera di sole, mare e pause golose. Ecco perché andare alla Gelateria Popolare 2, nel cuore di Livorno, giunta alla terza generazione e premiata dalla Camera di Commercio per la continuità aziendale. L’attenzione alla qualità delle materie prime è sempre la stessa, dal 1936. Gelati e torte gelato sono prodotti “alla vecchia maniera”, utilizzando solo materie prime eccellenti e frutta di stagione. Uno dei gelati migliori di Livorno, che può essere assaporato anche da chi ha intolleranze alimentari. Il bancone offre una vista di almeno 36 gusti di gelato. Alla Gelateria Popolare 2 ci si può rifugiare anche d’inverno, per gustare favolose cioccolate alla panna.
GELATERIA POPOLARE 2 Via C. Meyer, 11 Livorno Tel. 0586 26.03.54
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La schiacciata di pasqua Ingredienti 150 gr zucchero 600 gr farina 22 gr lievito di birra 2 uova 15 gr rosolio di menta 50 gr olio 30 gr vin santo scorza di un arancio grattugiata essenza d’arancio essenza d’anice un cucchiaio di anici
Preparazione Impastate la farina con il lievito di birra e acqua e lasciare lievitare. Dopo circa due ore aggiungere un uovo sbattuto e lo zucchero con 50 gr olio, impastare accuratamente e rimettere a lievitare. Dopo altre 3 ore aggiungere l’altro uovo sbattuto, il vinsanto, la scorza, le essenze, il rosolio, gli anici e impastare ancora accuratamente. Poniamo nella forma a lievitare per circa mezz’ora, cospargiamo di uovo sbattuto e zucchero e inforniamo a 200° per circa mezz’ora.
Di certo ora nella cucina, in particolare nella pasticceria, non si può più fare una differenzazione regionale
panetterie, possiamo trovare ancora preparazioni dolci con origini più antiche». Quanto poi alle nuove tendenze della pasticceria toscana, «non mi sento di fare una classifica perché tutto dipende dalle mode del momento. Di certo ora nella cucina, in particolare nella pasticceria non si può più fare una differenzazione regionale».
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PIÙ LEGGERE DELL’ARIA Nel silenzio dell’alba si accende per alcuni secondi una luce e risplende nell’arco dell’orizzonte una mongolfiera. Nell’aria estiva della campagna umbra, si svolgerà anche quest’anno il Gran Premio Italiano Mongolfieristico, divenuto ormai un appuntamento fisso per Todi di NICOLÒ MULAS MARCELLO
V Antiche macchine volanti
In apertura e nella pagina seguente, mongolfiere in volo sulle colline di Todi
olare è sempre stato il desiderio dell’uomo, farlo sorvolando il suggestivo paesaggio rappresentato dalle colline della campagna umbra costituisce un’esperienza davvero unica. Come ogni anno Todi ospiterà il Gran Premio Italiano Mongolfieristico. Dall’11 al 25 luglio le colline tuderti saranno teatro della XXII edizione di questa importante manifestazione che vedrà la partecipazione di 40 mongolfiere provenienti tutte dall’estero. Nell’aria estiva di uno dei più caratteristici panorami italiani dondoleranno, come sospese fuori del tempo, nel silenzio appena interrotto dal rombo dei bruciatori, antiche macchine volanti. Uno spettacolo di colori che investirà dal cielo il comune perugino, noto per aver dato i natali al poeta duecentesco Jacopone De Benedetti (meglio conosciuto come Jacopone da Todi). L’evento è considerato il più rappresentativo nel suo genere per quanto riguarda l’Italia e sta crescendo di anno in anno richiamando sempre una notevole quantità di spettatori tra veri appassionati e semplici curiosi. La piacevole cornice di Todi e la campagna circostante si prestano a completare un quadro
singolare e affascinante come questo, punto d’incontro anche di appassionati di fotografia pronti a cogliere scatti di rara bellezza. I palloni aerostatici rappresentano uno dei più antichi mezzi che l’uomo ha inventato per raggiungere il cielo. Le prime testimonianze accertate in Europa risalgono alla fine del 1700 ma ancora oggi la mongolfiera continua ad avere il suo fascino e un certo grado di romanticismo grazie proprio alla sua armonia, alla silenziosità e al rispetto che riserva alla natura. Un’esperienza
A tavola, come nel medioevo Nelle vicinanze del Lago Trasimeno, circondata dalle armoniose colline dell’Umbria, il Residence Ristorante La Posta del Cavaliere offre sei appartamenti per affitti giornalieri o settimanali. Il ristorante, dall’atmosfera tipica medioevale, è ricavato in parte da una roccia, curato e arredato nei minimi dettagli. Offre una cucina rivisitata con piatti tipici realizzati con i prodotti del territorio, da accompagnare ai vini della cantina, principalmente rossi e locali.
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Sopra, mongolfiere in Piazza del Popolo prima di alzarsi in volo in notturna
magica che, per chi non soffre di vertigini, rappresenta il modo migliore di godersi splendidi paesaggi. Il momento più atteso della manifestazione sarà la serata del 14 luglio quando gli aeromobili verranno gonfiati in notturna di fronte agli importanti monumenti tuderti come la Concattedrale della Santissima Annunziata, la chiesa di San Fortunato, il convento di San Giovanni Battista e piazza del Popolo. Un piccolo borgo dove il tempo non sembra essere mai passato dai fasti del Medioevo quando Todi vide una forte espansione urbanistica. Il raduno rappresenta un ottimo pretesto per
visitare uno dei più suggestivi comuni italiani che sorge in cima a una collina che supera i 400 metri, da cui domina la splendida campagna della provincia a sud di Perugia. Un tipico esempio della bellezza del paesaggio umbro che sposa i colori della natura con la storia e la cultura dei suoi monumenti, nei quali rivivono arte medievale e immancabili leggende. Basti pensare alla cattedrale della Santissima Annunziata dove è presente un dipinto di Ferraù da Faenza, d’ispirazione michelangiolesca, chiamato proprio “Il giudizio universale”. O alla rocca che rappresenta il punto più elevato della città: per costruirla papa Gregorio IX fece abbattere molti edifici circostanti. O ancora la chiesa di San Fortunato nella cui cripta è presente la tomba di quattro santi tra cui San Cassiano e su una parete del muro è rappresentato in un affresco il beato Jacopone Da Todi. Ma questi sono solo alcuni dei tanti tesori da scoprire girando per il borgo. Infine, anche per gli spettatori più curiosi e audaci ci sarà la possibilità di salire sulle mongolfiere e scrutare dall’alto la città. Ogni mattina all’alba le mongolfiere si alzeranno per sorvolare le colline per una durata di circa un’ora e mezzo.
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Un piccolo paradiso nel cuore dell’Umbria La Fattoria di Vibio è situata a Monte Castello di Vibio, piccola cittadina annoverata tra i Borghi più belli d’Italia che si caratterizza per l’armonia architettonica, la vivibilità e la felice integrazione tra natura e ambiente costruito. Ai propri ospiti la Fattoria di Vibio offre vari servizi, tra cui ristorante, centro benessere, possibilità di praticare trekking a cavallo. È il luogo ideale per chi vuole immergersi nello stile di vita “slow life”, per rallentare i ritmi frenetici della vita quotidiana, assaporando i tipici prodotti della zona.
FATTORIA DI VIBIO Località Buchella, 9 Doglio - Montecastello di Vibio (PG) Tel. 075 87.49.607 Fax 075 87.80.014 www.fattoriadivibio.com
Tutto l’incanto dei tempi lontani Il Bed & Breakfast Torre Sangiovanni s’innalza tra le mura cittadine del Castello di Collevalenza. L’antica torre del 1200, sapientemente ristrutturata, è diventata un’affascinante residenza d’epoca arredata con antichi mobili, oggetti di famiglia e tappeti persiani. Offre sistemazione in 4 camere deluxe e 5 camere suite con vista sul parco, tutte dotate di bagno privato con asciugacapelli, Tv satellitare, telefono, internet, riscaldamento e climatizzazione. La colazione servita è continentale o americana, è varia e abbondante, accompagnata da gustose crostate e ciambelloni della Casa. All’interno, il ristorante con due intime sale arredate con cura nei dettagli, dove potrete gustare la cucina saporita umbra, accompagnata dai vini regionali. A selezionare le materie prime e le etichette, la padrona di casa veneta Rosary che cura il tutto con una grande passione. All’esterno, Torre Sangiovanni dispone di un delizioso giardino che guarda il piccolo parco secolare dove nelle serate estive si può assaporare una gustosa cenetta accompagnata dal canto degli uccellini e dei grilli.
TORRE SANGIOVANNI BED & BREAKFAST E RISTORANTE voc. Castello, 26/G 06059 Collevalenza – Todi (PG) Tel. 075 88.73.64 Fax 075 88.70.203 www.torre-sangiovanni.it info@torre-sangiovanni.it
Testimonianze dal Medioevo
RIVIVERE LA STORIA
di UGO GUIDI
L’Umbria e Gubbio sono la testimonianza vivente di un passato che ritorna ancora oggi per essere vissuto e visitato. Borghi, monasteri, chiese, sapori autentici. La descrizione di Maria Carmela Colaiacovo n tuffo nella storia medievale.Visitare l’Umbria rappresenta più di un semplice viaggio turistico. All’aspetto puramente naturalistico e monumentale, infatti, si aggiunge un contatto con la dimensione spirituale delle chiese, dei borghi, dei monasteri. Maria Carmela Colaiacovo, direttore generale del Park Hotel ai Cappuccini, parla della storia e dei sapori di Gubbio. «Siamo nel cuore dell'Umbria, candido gioiello immerso nel verde. Le pietre e l’architettura della nostra città, sono tra le testimonianze più alte di un Medioevo luminoso, raffinato e colto. La nostra struttura alberghiera è un magnifico esempio di integrazione di antichi ambienti e soluzioni stilistiche moderne e contemporanee .Tra gli arazzi e gli affreschi presenti spicca una tela del Sartorio unitamente a opere d’arte firmate dai grandi artisti italiani: Capogrossi, Arnaldo Pomodoro, Abbozzo». L'Umbria e Gubbio in particolare, offrono anche esaltanti sapori a tavola. «Potrete apprezzare nel nostro territorio - evidenzia la dott.ssa
U Il Park Hotel ai Cappuccini, un monastero del XVII secolo sapientemente restaurato nel centro storico di Gubbio
Colaiacovo - , prodotti tipici in gustose ricette interpretate all'insegna della leggerezza e accompagnate dai migliori vini umbri e nazionali». Arte e sapori si intrecciano con una natura incontaminata da apprezzare in toto. «Consigliamo vivamente dei percorsi da fare a piedi, in bicicletta o a cavallo, tra cui il famoso Sentiero Francescano della Pace, tra Gubbio ed Assisi. Si può salire per l’affascinante “Gola dei dinosauri” su per il “Colle eletto dal Beato Ubaldo” o raggiungere il Parco Regionale del Monte Cucco, luogo ideale per escursioni nelle grotte carsiche». Per gli amanti del relax e della cura del corpo, la bellissima spa offre un ambiente design incorniciato dalle tinte calde del legno ed impregnato dal naturale profumo delle essenze del territorio e di quelle studiate da Aveda, dove il corpo ritrova la sua dimensione di equilibrio.
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www.parkhotelaicappuccini.it
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