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Mete G R A N D

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T O U R

EDITORIALE Michela Vittoria Brambilla Bernabò Bocca MILANO ILLUMINATA Letizia Moratti Cinzia Ferrara Mario Botta FOTOGRAFARE L’ARTE Aurelio Amendola IL NATALE A NAPOLI San Gregorio Armeno

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TAVOLE IN FESTA I pani dolci I MERCATINI DI NATALE Bolzano Trento Merano

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FIRENZE I luoghi di Dante

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FREDDE PRELIBATEZZE

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PROFUMI DI SPEZIE

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IL CHIANTI CLASSICO Marco Pallanti Osvaldo Baroncelli Fattoria Nittardi Enoteca Pinchiorri ENTROTERRA SENESE Parco della Val d’Orcia PANORAMI DELLA VAL D’ORCIA I MILLE VOLTI DELLA CAPITALE Roberto Gervaso VITERBO La città dei Papi La Macchina di Santa Rosa

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S O M M A R I O

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A BARI CON Michele Mirabella

TOUR SEMI SERIO DI PALERMO Gaetano Basile Roberto Alajmo RINASCIMENTO LOMBARDO Philippe Daverio ITINERARI RELIGIOSI Il Sacro Monte di Varese SUL LAGO DI COMO Alla scoperta di ville e giardini Marco Ferradini BRESCIA La provincia dei laghi

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STRADE DEL VINO Lucca, Montecarlo e Versilia DENTRO LE MURA DI LUCCA Mauro Favilla Icilio Disperati Mario Cipollini MEMORIE LUCCHESI

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LA VERDE CALABRIA Parco dell’Aspromonte Parco della Sila VIAGGIO IN GARFAGNANA Le Alpi Apuane Il Buffardello e gli altri folletti UN WEEKEND A GENOVA Il Museo del Mare L’acquarioVillage Tullio Solenghi LE CINQUE TERRE Monterosso al Mare I muretti a secco La Liguria rocciosa VAL DI VARA La valle dei borghi rotondi SAVONA Dalle colline al mare Pinacoteca, un deposito di emozioni

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Editoriale Michela Vittoria Brambilla Ministro del Turismo

TURISMO, OPPORTUNITÀ E SVILUPPO el mutato contesto internazionale del turismo globalizzato e con un’Europa che attira ancora più del 50 per cento dei turisti del mondo, ma che ha bisogno di ridisegnare la sua strategia per continuare a competere con successo, l’Italia deve non solo ricoprire il ruolo che le spetta sullo scenario internazionale in ragione della sua natura di potenza turistica mondiale, ma deve anche confrontare conoscenze e best practice con i paesi che oggi determinano, a livello globale, l’andamento del mercato. Da qui la mia insistenza per superare la logica in cui la si canta e la si suona in famiglia. La nostra capacità di individuare la strategia più opportuna sarà decisiva per l’elaborazione della politica nazionale del turismo che ci guiderà negli anni futuri. I risultati della prima parte di quest’anno in termini di flussi internazionali ci dicono che il trend è quello giusto: i nostri flussi sono saliti del 5,3 per cento, ben al di sopra della media europea. In questa dimensione di confronto

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internazionale, assume ancora maggior importanza il fatto che ora l’Italia è stata eletta alla Presidenza del Consiglio esecutivo dell’Organizzazione mondiale del Turismo, in considerazione del ruolo determinante svolto nell’ultimo anno. L’Organizzazione Mondiale del Turismo è il massimo organo deputato a definire e guidare, attraverso il suo consiglio esecutivo, le strategie del turismo mondiale. Si tratta del braccio operativo dell’Onu che riunisce 120 paesi. È quindi il massimo riconoscimento possibile per il nostro Paese, il più importante e prestigioso. Ne sono davvero orgogliosa. Il turismo rappresenta un settore strategico per il rilancio del Paese che possiede un enorme potenziale in termini di attrattori culturali, paesaggistici e storici, un potenziale ancora parzialmente inespresso. Sono certa che la condivisione di obiettivi e di strategie tra Governo e Regioni permetterà di delineare politiche incisive per la crescita dell’industria turistica del Paese.

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ALBERGHI TREND POSITIVO aumento delle presenze turistico-alberghiere registrate a ottobre, rispetto allo stesso periodo del 2009, rappresenta per le imprese ricettive italiane una importante conferma di un trend che sembra impostarsi al recupero, mentre sul fronte dell’occupazione della forza lavoro continua a registrarsi un calo dei collaboratori. I numeri da noi elaborati indicano un incremento del 3,7% di pernottamenti nel mese di ottobre, tra italiani e stranieri (rispetto all’ottobre 2009) che in ragione d’anno porta il risultato complessivo da gennaio ad ottobre (rispetto a gennaio/ottobre 2009) ad un +0,5% di presenze. Guardando, infine, ai risultati del nostro osservatorio relativi ai lavoratori, verifichiamo come l’occupazione tra i nostri collaboratori abbia subito, sempre a ottobre, un calo

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Editoriale Bernabò Bocca Presidente di Federalberghi

del 2,5% per quelli a tempo indeterminato e invece di un +2,1% tra quelli a tempo determinato, generando da gennaio ad ottobre comunque una perdita complessiva del 2,4% (rispetto a gennaio/ottobre 2009), in ragione di un -3,5% di lavoratori a tempo indeterminato ed un -1% di lavoratori a tempo determinato. Alla luce di questi numeri è facile confermare in ragione d’anno, purtroppo, un importante calo dei fatturati delle imprese, costrette peraltro a tenere basse le tariffe a causa della recessione mondiale ed a perseverare in una obbligata logica di taglio dei costi del personale, per la quale rivolgiamo un appello al mondo politico affinché prenda in esame questa problematica, che alla lunga potrebbe rischiare la dequalificazione del nostro sistema turistico senza il varo di misure ad hoc, quali la deducibilità del costo del lavoro nel calcolo dell’Irap al fine di rilanciare la competitività del settore.

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Milano illuminata

LUCI SU MILANO

di FRANCESCA DRUIDI Letizia Moratti

I luoghi simboli di Milano si illumineranno in occasione della 2a edizione di Led – Festival Internazionale della Luce. «Il segreto – rimarca il sindaco Letizia Moratti – è guardare alla luce come strumento importante per sicurezza, sostenibilità e qualità urbana»

eicentomila led, dal 4 dicembre al 10 gennaio, accenderanno le porte storiche che conducono in città, mentre la più importante arteria commerciale si trasformerà nella via delle rose di luce». Così il sindaco di Milano, Letizia Moratti, delinea lo scenario che prenderà vita nel capoluogo lombardo grazie a Led – Festival Internazionale della Luce, curato da Beatrice Mosca e Marco Amato, promosso dal Comune e dall’assessorato all’Arredo, Decoro Urbano e Verde guidato da Maurizio Cadeo, con il patrocinio di Associazione per il Disegno Industriale, Associazione Italiana di Illuminazione e Aiap Associazione Italiana Progettazione per la Comunicazione Visiva. Un progetto che, come ricorda il primo cittadino, rientra nel circuito dei grandi festival della luce europei, dalla città di Lione con “La Fête des

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Sopra, il sindaco di Milano, Letizia Moratti; in apertura, “Archi di luce” di Luca Locatelli (Categoria Led Award Professionisti 2010)

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Milano illuminata

Letizia Moratti

In alto, “Shining water”, installazione di Fontana Piazza Castello realizzata da Stefano Veglia (Led Award professionisti 2010); nella pagina a fianco, “Make it new!”, installazione di Massimiliano Nicoletti tratta da Led Festival 2009 realizzata a Porta Ticinese da Disano Illuminazione

Lumières”, che ogni anno attira milioni di visitatori, alle grandi light cities: Londra, Parigi, Berlino e Francoforte. Installazioni, opere d’arte, allestimenti e proiezioni luminose trasformeranno Milano in un palcoscenico di luce a cielo aperto, tra sostenibilità, risparmio energetico, creatività e innovazione. Si tratta di un evento diffuso che assume rilevanza non solo nella prospettiva delle ricadute economiche e di visibilità che sarà in grado di generare, ma anche e soprattutto per la nuova visione metropolitana che veicolerà: la luce assurge, infatti, in questo contesto a strumento capace di modificare spazi e luoghi, coinvolgendo gli spettatori in un’affascinante e inedita lettura del paesaggio urbano e della contemporaneità, offrendo allo stesso tempo possibili modelli d’illuminazione per la città del futuro in termini di estetica, ma anche di funzionalità e sicurezza. Gli “artisti della luce” protagonisti della seconda edizione di Led, offriranno, secondo il sindaco Moratti, un’importantissima occasione per dimostrare

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come design e tecnologia costituiscano un binomio eccellente per ottenere risultati di grande suggestione urbana. Può indicare i temi che faranno da leitmotiv alla manifestazione e gli obiettivi di questa seconda edizione? «Sono gli elementi naturali, l’aria, l’acqua, il cosmo e la natura, i temi a cui si sono ispirati i grandi light designer e i giovani talenti per accendere Milano. Una Milano illuminata dal centro alla periferia, dal quadrilatero della moda ai Navigli, dai quartieri della movida alle più importanti arterie commerciali. Il Festival Internazionale della Luce è un percorso espositivo open air che si esprime attraverso la luce della natura, dell’acqua, del verde, del sogno e dello stupore, tra moda, design e creatività. È un evento aperto a tutta la città con 60 allestimenti scenografici. Nuvole e altalene luminose, fontane illuminate, nebbia di luce, lune e soli accesi, alberi accesi, fiori colorati e prati fioriti, farfalle, pesci e balene illuminate: un omaggio anche ai “100 anni di luce”, celebrati nel 2010 dalla Fondazione Aem. Milano è la città della luce elettrica: è stata, infatti, la prima in Europa ad avere quartieri illuminati dalla luce elettrica. Milano, già capitale del design, con la seconda edizione di Led è sempre più un luogo di innovazione e sostenibilità ambientale». Milano, città dei futuristi. Milano, città che guarda al futuro. Quali suggestioni e prospettive offre il festival per il capoluogo dal punto di vista della riqualificazione, della trasformazione urbanistica e architettonica di oggi, ma

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Milano illuminata

Letizia Moratti

Sopra, “Over the rainbow”, progetto di Laura Inglese per i Navigli (Categoria Led Award Professionisti 2010)

soprattutto di domani? «Uno sguardo al passato e uno al futuro. Milano, la città di Marinetti e dei futuristi che all’inizio del secolo scorso celebravano l’elettricità facendone uno dei fondamenti della propria estetica, torna a riproporre un binomio, quello tra la città e la luce, sempre suggestivo. Un binomio che ci permette di ridisegnare e reinventare la città attraverso la luce artificiale. Milano vive una stagione di grandi cambiamenti. Il segreto è quello di guardare alla luce non solo come occasione di arte e di design, ma come strumento importante per sicurezza, sostenibilità ambientale e qualità urbana. L’illuminazione scenografica dei monumenti storici, l’impiego di nuove fonti illuminanti e il risparmio energetico sono fra i primi traguardi della nostra città». Il festival identifica anche una vetrina per le eccellenze del sistema creativo, formativo e produttivo del design e dell’illuminotecnica. In che modo Milano sta incoraggiando lo slancio

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verso la sperimentazione, l’innovazione e la ricerca sotto il profilo formativo, ma anche economico e culturale? «Creatività, formazione e sistema produttivo coinvolgono l’intera città. Testimonianza tangibile della possibilità di creare nuove sinergie tra il mondo dell’arte e il mondo dell’impresa, della tecnologia e del design. Un modello Milano che si apre a tutti protagonisti del settore, nazionali e internazionali, ponendo al centro l’eccellenza produttiva lombarda. Da Karim Rashid a Gilbert Moity, da Matteo Thun a Fabio Novembre, i grandi light designer della scena internazionale affiancano i giovani talenti delle più importanti scuole di design di Milano. E sono proprio gli studenti, provenienti da 30 Stati e nazioni diverse, i veri ambasciatori delle eccellenze formative e innovative della nostra città nel mondo. Giovani talenti che, anche quest’anno, abbiamo voluto coinvolgere in prima persona attraverso il Led Award, concorso istituito dal Comune di Milano per decorare la città attraverso le più originali proposte progettuali e opere d’arte di luce».

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BAGLIORI D’ARTE

di RICCARDO CASINI

Cinzia Ferrara, architetto e lighting designer, illustra le sfide odierne nell’illuminazione degli spazi pubblici e rivela il suo sogno per Milano: «Un intervento complessivo che vada dai Navigli alla Darsena»

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he la luce sia divenuta un elemento imprescindibile nello studio e nella progettazione architettonica è chiaro ormai anche ai non addetti ai lavori. Oggi non solo il design di interni, ma anche l’arredo urbano richiede sempre più attenzione nei confronti degli elementi luminosi. E se per il secondo anno consecutivo a Milano è la manifestazione «Led» a celebrare il rapporto tra luce e città in vista delle festività natalizie, vi sono realtà come lo studio Ferrara Palladino che nel capoluogo lombardo (e non solo) operano da tempo in questo campo. «Quando si parla di “cultura della luce” – spiega

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l’architetto Cinzia Ferrara – si fa riferimento al tentativo di dare il giusto risalto a un mezzo architettonico vero e proprio che può modificare lo spazio e l’ambiente in cui si opera. La luce non è un elemento accessorio, e su questo oggi la consapevolezza è aumentata. Ma dall’altra parte si registra un’invasione di campo nel nostro settore da parte delle aziende che vendono prodotti di illuminazione e che per fare fatturato cercano di proporre progetti e servizi di supporto alla vendita, non potendo però per ovvi interessi instaurare - al contrario di un libero professionista - un rapporto di fiducia con il committente». A quali sfide è chiamato allora oggi un lighting designer? Quali sono le difficoltà nell’illuminare edifici storici o vincolati? «Oggi il mercato è dominato dall’entrata in scena dei led, un corpo illuminante potenzialmente alla portata di tutti nonché una tecnologia che ci fa compiere un passo in avanti verso il futuro. Ma si tratta anche di uno

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strumento non applicabile ovunque, il cui utilizzo va accuratamente valutato in base al tipo di intervento. Per quanto riguarda gli edifici storici, il risultato migliore è quello che cerca di evitare un’eccessiva spettacolarizzazione, andando invece nella direzione di una valorizzazione che non significhi mortificazione. É necessario operare all’interno di un rapporto di rispetto, cercando di donare all’edificio una valenza notturna senza renderlo “pittoresco”». Ma quale dev’essere il rapporto tra illuminazione pubblica, nuove tecnologie e risparmio energetico? «Se da una parte quest’ultima è divenuta una tematica “di moda”, dall’altra fa parte da sempre del modo di pensare di un lighting designer: sostenibilità, facilità di manutenzione e, in generale, un risultato che abbia valenza nel tempo sono tra gli ingredienti del corretto rapporto con la committenza, privata o pubblica. Oggi l’attenzione si focalizza sui materiali, sul

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ciclo di vita di un prodotto, sul tipo di applicazioni e sui loro risvolti. Il nostro studio ad esempio ha recentemente disegnato un oggetto per una famiglia di corpi illuminanti per l’arredo urbano, interamente realizzato in alluminio: l’impiego di un solo materiale, tra l’altro interamente riciclabile, va nella direzione indicata, ovvero quella di pensare alla morte dell’oggetto e al suo corretto smaltimento». La città di Milano vi ha già visti protagonisti di numerosi interventi, tra i quali l’illuminazione del Duomo. Qual è il rapporto tra questa città e la luce? «Milano è la città italiana più facilmente accostabile a una grande capitale europea. Per questo credo che debba pretendere molto di più a livello di arredo urbano. Invece gli interventi sono sporadici e non armonizzati, si sente la mancanza di un’idea centrale, di un piano complessivo. La luce, non va dimenticato, costa poco e può migliorare significativamente la

A sinistra, l’architetto Cinzia Ferrara con i soci dello studio Ferrara Palladino; nella pagina a fianco, l’intervento di illuminazione del Museo d’arte contemporanea della Dogana a Venezia

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Milano Illuminata

La luce incontra l’architettura

«É necessario operare all’interno di un rapporto di rispetto, cercando di donare all’edificio una valenza notturna senza renderlo “pittoresco”» Due intervent dello studio Ferrara Palladino a Milano: a sinistra, illuminazione dell’area pedonale e design dei corpi illuminanti al campus Bovisa; a destra, illuminazione interna ed esterna della stazione Garibaldi

qualità di vita dei cittadini. Purtroppo è mancata finora la volontà di pensare all’illuminazione della città in modo coordinato. “Led” è una manifestazione interessante, soprattutto in un periodo vicino al Natale, ma è pensata per festeggiare la luce e non per modificare stabilmente il volto della città: le installazioni proposte sono infatti per loro natura temporanee ed effimere». Nonostante il ricco curriculum, comprendente tra gli altri il campus Bovisa e la stazione centrale, esiste ancora un intervento in particolare che sogna di realizzare nella sua città? «Il primo a cui penso è il sistema delle vie d’acqua di Milano, a partire dai Navigli: una zona

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conosciuta anche dai turisti stranieri e legata al fermento e alla vita notturna, ma nonostante questo finora bistrattata con piccoli e sporadici interventi. Al contrario, andrebbe pensato un intervento complessivo e omogeneo, che comprenda anche la Darsena. Per “Led” invece abbiamo ideato un’installazione in una piazza poco milanese per certi versi come quella di Sant’Alessandro: l’opera, intitolata “Convivio”, rappresenta una sorta di tavolo, luogo simbolo di condivisione e incontro, con vari tessuti metallici che creino, insieme ai led sottostanti, particolari nuance cromatiche ed effetti di luce. Purtroppo il cantiere avviato recentemente sulla facciata della chiesa di Sant’Alessandro ci ha costretto a rinviare il progetto».

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LE STELLE DI MILANO

di NIKE GIURLANI

Il cielo stellato del Teatro alla Scala realizzato dall’architetto Mario Botta non solo «mette in risalto la torre durante la notte, ma allo stesso tempo crea un’atmosfera misteriosa, quasi come se ci trovassimo in un sogno»

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ario Botta, è stato tra i primi a valorizzare Milano attraverso la luce con l’opera di ristrutturazione e riqualificazione del Teatro alla Scala. Più recentemente, invece, ha realizzato un tetraedro d’acciaio e luce per la Stazione Centrale di Milano, intitolata a Santa Francesca Cabrini, la protettrice degli emigrati. L’installazione luminosa è una forma di stele, «sospesa nell’atrio d’entrata della Galleria delle carrozze in modo che si veda già da piazza della Repubblica – spiega l’architetto – e ha come obiettivo finale quello di creare un rapporto tra la stazione e la città». La luce ricopre un ruolo fondamentale per l’architetto perchè «serve a creare lo spazio», ma occorre fare una distinzione importante tra luce artificiale e quella naturale. Quest’ultima, secondo Mario Botta, è particolarmente valorizzata nelle opere dell’architetto Tadao Ando. Come, grazie all’illuminazione, è riuscito a valorizzare il pregio architettonico del Teatro alla Scala di

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L’architetto Mario Botta

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Milano illuminata

Mario Botta

Milano? «La grande torre scenica rappresentava un volume importante che sovrastava i tetti della città, ma allo stesso tempo era fondamentale, per le esigenze tecniche delle macchine sceniche, creare un grande vuoto interno per poter svolgere tutti i meccanismi scenici. Questo volume così importante è stato allora ingentilito attraverso la creazione di un cielo stellato realizzato con una serie di piccole luci (led), che mettono in risalto la torre durante la notte, ma allo stesso tempo creano un’atmosfera misteriosa, quasi come se ci trovassimo in un sogno». In particolare com’è riuscito a valorizzare l’impianto neoclassico attraverso un linguaggio moderno e tecnologicamente all’avanguardia? «Prima di tutto dovevamo sottostare ad una fondamentale esigenza tecnologica: non venir meno alla struttura portante realizzata da

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Piermarini. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo adottato, dal filo di gronda verso il basso, un principio molto semplice, il restauro conservativo che ha dato rilievo, forza e ha tutelato la parte neoclassica. Dal filo di gronda verso l’alto, invece, abbiamo adottato un linguaggio contemporaneo, un linguaggio astratto fatto di trame architettoniche che nel caso della notte si esprimeva attraverso le luci e nel caso del giorno attraverso le strutture in pietra di botticino». Quali sono le architetture che lei ama e nelle quali la luce è la protagonista principale? «La luce naturale è l’asse portante della maggior parte delle architetture perchè è essa stessa la vera generatrice dello spazio. Nelle opere di Tadao Ando, in particolare, il lavoro della luce diventa importante per la definizione dello spazio architettonico. Per quanto riguarda le luci artificiali, invece, è molto più difficile perchè credo che non vi sia ancora una completa consapevolezza del valore di questo tipo di luce, al di fuori di uno spettacolo o di un evento pubblicitario, e quindi è ancora poco utilizzata per segnare e definire la forza architettonica, che è per lo più una forza geometrica, presente all’interno delle città». Anche per lei la luce rappresenta uno degli aspetti principali nella realizzazione dei suoi progetti. In quali è particolarmente importante? «Senza dubbio nella realizzazione delle chiese perchè in questi casi lavoro molto con la luce zenitale e quindi sfrutto al meglio la tensione che si crea tra terra e cielo».

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IL RAGGIO ATTESO

Fotografare l’arte

di MICHELA EVANGELISTI

Far vedere alla gente quello che altrimenti non vedrebbe. Tirare fuori dal marmo vita e sensualità. Comunicare con immediatezza la sacralità di un’architettura. Questo riesce a fare la luce se a coglierla e a modellarla è un maestro della fotografia come Aurelio Amendola

Aurelio Amendola

In apertura, una foto scattata all’interno della Basilica di San Pietro, a Roma; a sinistra, il fotografo Aurelio Amendola

re passate a seguirla, a studiarla, ad aspettare, con tutti i sensi tesi, quella giusta. Il raggio che trasfigura, il fascio che regala a forme e capolavori un senso nuovo, che fa del dettaglio un tutto. La luce attraverso l’obiettivo del maestro di Pistoia, una lunga carriera alle spalle e un convinto attaccamento all’analogico e al bianco e nero, diventa una materia da plasmare, come creta, o ancora uno strumento espressivo potente, da rispettare. Anche quando si fa attendere. Quali sono i suoi segreti per sfruttare le potenzialità della luce e piegarla alle sue esigenze creative? «Segreti non ne ho e non ho avuto maestri che mi abbiano insegnato come scattare; già a vent’anni lavoravo in autonomia. Come sono solito dire, le cose o si sanno o non si sanno: si tratta di una sensibilità personale, c’è chi le luci è capace di vederle e chi no». La luce naturale è protagonista degli scatti

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Fotografare l’arte

Aurelio Amendola

In alto a sinistra, una foto di San Galgano; a destra, un altro scatto realizzato nella Basilica di San Pietro

che ha realizzato a San Galgano, dove, insinuandosi tra colonne e rosoni, crea giochi e motivi suggestivi. Quanta ricerca e attesa ci sono dietro queste immagini? «Quando lavoro con la luce naturale non posso arrivare, scattare in fretta e poi andarmene. Prima resto a lungo a guardare, ne studio gli effetti, aspetto le sensazioni che mi piacciono: ci vuole tempo. Per realizzare cinque o sei foto a San Galgano ho impiegato giorni e giorni: era una luce invernale, che scemava presto. Sono andato sul posto non so quante volte e a ogni attesa coglievo qualcosa di differente». Ha immortalato le sculture di Jacopo Della Quercia, Michelangelo e Donatello. In tutti gli scatti la luce rotola sul marmo definendone i volumi. «Chi ammira i capolavori dei grandi scultori del passato vede delle opere bellissime ma piatte. Con la mia luce posso intervenire sulle sculture per fare emergere la vita, per far vedere alla gente ciò che altrimenti non potrebbe vedere. Il mio David non è quello che si vede in Galleria dell’Accademia a Firenze, ma è un’opera nuova:

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con le luci artificiali ne ho sprigionato la sensualità». Di fronte a opere d’arte assoluta, come la Pietà di Michelangelo, il suo obiettivo va sempre alla ricerca del dettaglio e mai dell’opera nel suo insieme. Come mai? «L’intero lo trovi nelle cartoline di saluti, nei libri di storia dell’arte. Io fotografo ciò che vedo e ciò che sento: da un dettaglio la gente deve capire che si tratta della Pietà». Ha dato vita anche a una vera e propria galleria di ritratti dei più noti maestri d’arte del XX secolo. «Ogni tanto mi annoio di stare con la gente che non parla e allora mi dedico ai ritratti d’artisti; e quando mi stanco degli artisti, torno dalle statue. Devo ammettere che grazie alla mia attività di ritrattista ho fatto degli incontri bellissimi.Varcare la soglia dello studio di un artista è un po’ come entrare nel Sancta Sanctorum. Siamo soli e lui lavora, per davvero. Io mi metto in un angolo e lo osservo, per un giorno o due. Non tocco nulla, lascio la confusione intatta, e cerco il più possibile di sfruttare la luce naturale».

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LE LUCI DEL NATALE

Napoli

di RENATA GUALTIERI

«Le bancarelle, illuminando il percorso con le luminarie dei presepi e una miriade di pastori in terracotta, sughero e legno, creano un atmosfera mistica, accompagnate dalle sonanti zampogne». È lo scenario della Fiera di Natale diretta da Enzo Morzillo

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ercorrendo le mura di San Gregorio Armeno si scoprono pezzi di colonna, altari del foro romano, che gli abitanti della zona hanno usato per le architetture delle loro abitazioni. «È suggestivo il dipinto armonioso - e raro per bellezza e colore che il turista può ammirare percorrendo tale strada». Il piccolo borgo è costellato da numerose botteghe che mai come in questo periodo dell’anno vengono prese d’assalto da migliaia di turisti curiosi provenienti dai luoghi più svariati. Ma anche un buon napoletano non può mancare a questo appuntamento. Enzo Morzillo, direttore artistico della Fiera di Natale del 2010, svela quali luci, forme, colori, addobbi e proiezioni faranno da sfondo. Ricco il calendario degli eventi previsti per questa edizione della manifestazione organizzata dall’associazione culturale Corpo di Napoli, in collaborazione con la Regione e il patrocinio di Comune e Provincia di Napoli, che terminerà il 6 gennaio prossimo con una rassegna ricca di avvenimenti, spettacoli musicali, rappresentazioni teatrali, conferenze e presentazioni di libri.

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San Gregorio Armeno

In apertura, il Vicolo di San Gregorio Armeno; qui sopra, Enzo Morzillo, direttore artistico e presidente dell’associazione teatrale “Gli amici di Eduardo”

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Napoli

San Gregorio Armeno

Qui sopra, una bottega artigiana di San Gregorio Armeno

Da quali spettacoli musicali, rappresentazioni teatrali, conferenze verrà arricchita la rassegna? «Con la Fiera di Natale 2010, abbiamo voluto dare un volto nuovo alla tradizione natalizia, in quanto mai fino ad ora in una rassegna di tal importanza, vi partecipavano a livello musicale gruppi folk, e teatrali del panorama campano. Un’ immersione a 360 gradi nella tradizione popolare dell’epoca, con canti e balli, litanie e nenie, proprie del popolo della tammurriata e

Artigiani di tradizione millenaria abitano le botteghe del vicolo e offrono armoniose strutture natalizie con presepi e pastori del 700 38 • Mete Grand Tour

non solo, con i personaggi della storia e del teatro in maschera, primo tra tutti Pulcinella, che accompagna i gruppi durante le loro esibizioni». A cosa è dovuta questa scelta? «In qualità di direttore artistico della rassegna, ho preferito portare gruppi della tradizione popolare, in quanto espressione del popolo napoletano. Gli strumenti acustici, come le “tammorre”, le classiche chitarre battenti, i flauti, le ciaramelle, le fisarmoniche e le zampogne, sono più vicini al calore artistico campano. Ho scelto quindi di chiamare gruppi storici della tradizione folkloristica, primo tra tutti “a paranza do lione”, che genera uno spettacolo itinerante di altissima emotività portando una suggestiva riscoperta

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del calore familiare, dei paesi del luogo; il gruppo “Fontanavecchia”, dello storico paese Casalduni, farà nelle strade dei vicoli dei decumani una sorta di viaggio attraverso i canti dell’800 e delle lavandaie, dei briganti delle montagne del Beneventano e dei canti natalizi delle famiglie storiche dei luoghi della zona. A seguire altri gruppi, di formazioni giovani, quali “I tammurrari sparsi” e “Il cantore del Vesuvio”. Per dare spessore alla rassegna nei vicoli, ci saranno brevi ed itineranti rappresentazioni teatrali, con monologhi inediti della tradizione natalizia di quei luoghi interpretati dagli attori dell’associazione teatrale di Benevento “Gli amici di Eduardo” di cui sono presidente». Le luminarie natalizie come

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addobbano a festa la strada resa celebre in tutto il mondo dagli artigiani del presepe? «Le bancarelle, illuminano il percorso con le luminari dei presepi e con una miriade di strutture e di pastori in terracotta, sughero e legno, creano un atmosfera mistica, accompagnate dalle sonanti zampogne che si alternano durante tutto il percorso». Cosa trova un visitatore curioso che si affaccia in una delle tante botteghe dei maestri artigiani che costellano le strade di San Gregorio Armeno? «Molti gli artigiani, con tradizione millenaria, che abitano le botteghe del vicolo e offrono armoniose strutture natalizie con presepi e pastori del 700 di stoppa e addobbi di ogni genere».

Sopra, a sinistra, un presepe della tradizione artigiana. A destra, una bancarella lungo la via che espone addobbi natalizi

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DOLCI PER LE FESTE

Tradizioni natalizie

di FRANCESCA DRUIDI I pani dolci

«Il pane quotidiano si arricchisce di dolcezza, colore e consistenze per segnare una ricorrenza o un rito». Lo spiega Andrea Sinigaglia, docente di storia della cucina

A fianco, Andrea Sinigaglia, direttore operativo di Alma (Scuola Internazionale di Cucina Italiana) e docente di Storia della cucina italiana

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a pasticceria italiana legata alle festività natalizie si caratterizza soprattutto per la produzione di pani dolci. Una tradizione che fa risalire le sue origini alla cucina povera e che ha elaborato, tenendo conto delle peculiarità delle singole regioni italiane, una serie di ricette di dolci che, in definitiva, rappresentano versioni arricchite del pane preparato tra le mura domestiche.

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Una tradizione dolciaria che non è priva di riferimenti temporali, religiosi e antropologici, come emerge dall’analisi di Andrea Sinigaglia, direttore operativo di Alma (Scuola Internazionale di Cucina Italiana) e docente di Storia della cucina italiana. Esiste un’epoca storica alla quale ricondurre l’inizio della consuetudine

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Il “Pan de Oro” Il pandoro ha varie storie e nomi non ufficiali, ma come ricorda Alessandro Busato, maestro pasticcere di Isola della Scala, provincia di Verona, è senza dubbio un dolce di origini venete, per l’esattezza veronese. Risale al 1884 il deposito del brevetto industriale del pandoro da parte di Domenico Melegatti. «Il pandoro artigianale è preparato con nobili materie prime di altissima qualità, ad esempio gli ingredienti che uso io sono principalmente burro fresco, uova, latte intero, zucchero, burro di cacao, miele biologico, farina e bacca di vaniglia, per ottenere una durata di circa 60 giorni, poiché non viene aggiunto alcun conservante». Conservanti necessari per ottenere una scadenza maggiormente lontana (dai 6 mesi circa in avanti), e per

che vede, in occasione del Natale, il consumo di pani dolci? «Arricchire il pane è da sempre un modo di sottolineare che la quotidianità è scandita da tempi e momenti speciali. Il pane quotidiano, immancabile e sacrosanto già nella cultura classica e poi in quella cristiana per eccellenza, si arricchisce di dolcezza, colore e consistenze per segnare un evento,

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questo adoperati dalle industrie dolciarie o dalle piccole aziende del settore specializzate nei lievitati da ricorrenza. «Esistono alcune varianti del pandoro – spiega Busato – c’è chi lo prepara meno soffice e inserisce frutti di stagione -ad esempio marronie cioccolato, mentre c’è anche chi impiega le creme per renderlo più morbido, finendo in sostanza per imitare l’industria. Io l’ho composto da frutti di bosco e l’ho glassato con cioccolato bianco e pistacchi. L’ho preparato anche sfogliato, vera origine del pandoro, come era nato». Ma il maestro pasticcere non sembra avere dubbi su quale sia in definitiva il pandoro più buono: «rimane sempre il tradizionale con lievitazione stupenda e sofficissima e un fantastico sapore di burro e vaniglia».

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una ricorrenza o un rito». Si sono registrati cambiamenti significativi nel corso dei secoli in termini di modalità di preparazione e impiego degli ingredienti di queste specialità? «Il pane rappresenta un paradigma, una cornice. È l’alimento “bacheca”, il cibo manifesto di conquiste, contaminazioni,

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Zelten È una specialità del Trentino Alto Adige, il cui nome deriva dal tedesco selten (talvolta) che ne evidenzia l’eccezionalità della preparazione in occasione delle feste natalizie. Non esiste una ricetta codificata, poiché la varietà degli ingredienti cambia a seconda della zona

Ingredienti per 6 persone 600 g di farina 100 gr di burro 400 gr di fichi secchi tagliati a pezzettini e messi nel rhum a macerare 100 gr di uva sultanina 100 gr di arancia e cedro canditi 100 gr di noci sgusciate 50 gr di pinoli 50 gr di mandorle spellate 2 uova 2 cucchiai ben colmi di zucchero 30 gr di lievito di birra latte q.b.

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Preparazione: Mettere la farina a fontana in una scodella, sbriciolarvi il lievito e bagnarlo con latte tiepido; coprire con lo zucchero e far lievitare il tutto. Dopo circa mezz’ora, unire il burro precedentemente sciolto in un po’ di latte tiepido assieme al sale, le uova e tutti gli altri ingredienti, escluse noci e mandorle. Amalgamare bene e maneggiare finché la pasta risulterà liscia; ungere con burro una lamiera o tortiera e stendervi la pasta dello spessore di circa un centimetro; guarnire con le mandorle e le noci che dovranno essere leggermente premute sulla superficie. Far lievitare in luogo caldo e poi cuocere a forno medio. Quando lo zelten sarà dorato, ma non troppo, pennellarlo con vino rosso nel quale sia stato prima bollito un bel po’ di zucchero. Lasciare ancora in forno per qualche minuto e poi lasciarlo raffreddare per almeno mezz’ora.

scambi commerciali. Spezie, frutta candida, aromi, cioccolato, diventano segni potenti di ostentazione di un rapporto che quel determinato luogo ha avuto con culture diverse da sé e dal proprio pane. Spesso questo processo avviene per contaminazione di esotismi, perché il pane può essere la cosa più povera, più pura e più desiderosa di alterità ed esotismo appunto, un meccanismo che serve per ricondurre in un ambito familiare la distanza culturale più sorprendente. Si pensi al pan pepato o al panforte, retaggi delle crociate». Di quali particolari significati simbolici e religiosi si caricavano in origine questi cibi? «Il pane è l’unico cibo perfetto secondo la teoria galenica degli umori, possedendo, unico tra tutti i cibi, un bilanciamento sorprendente tra i quattro elementi: Aria, Acqua, Terra e Fuoco. Il pane nella transustanziazione eucaristica diventa vero e proprio corpo di Cristo, in questa unica e semplice, seppur misteriosa, via di incontro fra il cristiano e il suo Dio. Certe cronache medievali narrano che in Purgatorio il peccatore raccoglierà tutte le briciole di pane che ha prodotto nella sua vita e lo farà con le palpebre degli occhi. Grande spreco, grande pena! Sicuramente il pane non si butta, non si maltratta, si raccoglie se cade a terra. Il pane è sacro e questa sacralità si fa rito quando tale alimento assume una veste speciale e diventa indicatore del tempo e della liturgia». In che modo questa tipologia di dolci riflette non solo i sapori tipici del

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Tradizioni Natalizie

I pani dolci

territorio, ma anche le abitudini e i costumi delle popolazioni che lo abitano? Oggi quanto si è mantenuta intatta tale eredità dolciaria in Italia? «I territori in Italia continuano a produrre pane dolce, che è la vera realtà della tradizione pasticcera che racconta il rapporto e il desiderio di zucchero, latte e miele che una civiltà come la nostra, cresciuta a pane nero, col mito del bianco ha vissuto per secoli». Panettone, panforte, zelten, pandoro, buccellato sono alcune delle ricette regionali nelle quali si declina il concetto di pane dolce preparato in occasione del Natale. Si possono individuare degli elementi in comune

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nonostante la diversa provenienza? E quali, invece, sono le maggiori differenze che si segnalano nello specifico tra Nord, Centro e Sud? «Da un certo punto di vista, Nord e Sud non sono più in questo caso parametri ideali per misurare somiglianze e distanze. Il pane con l’uvetta, che identifica uno dei primi tipi di arricchimento, lo troviamo un po’ in tutta Italia. Il pane lievitato dolce e morbido è forse una caratteristica più nordica, quello arricchito dentro e ricoperto fuori, più “barocco” se si vuole, è più mediterraneo, ma tanto è dovuto alle singole e specifiche realtà di scambi commerciali, presenze di civiltà o di persone che hanno prodotto la contaminazione».

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PROFUMO DI LIEVITO

C’era una volta il pane dolce che, arricchito di ingredienti preziosi, veniva preparato in occasione delle feste religiose. Giovanni Pina, presidente dell’Accademia dei Maestri Pasticceri Italiani, svela il segreto del pane dolce per antonomasia, il panettone

di FRANCESCA DRUIDI

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Il panforte

il capofila dei pani dolci che si gustano a Natale.Tracce della sua preparazione e del suo consumo risalgono al Medioevo milanese e ancora oggi rappresenta una delle icone della gastronomia italiana nel mondo. Giovanni Pina, presidente dell’Accademia dei Maestri Pasticceri Italiani, illustra alcune delle peculiarità che contraddistinguono la lavorazione del panettone. L’Accademia dei Maestri Pasticceri Italiani si prefigge di rivalutare in chiave moderna la pasticceria tradizionale italiana. È possibile farlo quando si entra nell’ambito dei dolci di ricorrenza? «L’aspetto tradizionale di un dolce come il panettone o il pandoro costituisce l’elemento maggiormente ricercato dal cliente. Si ricerca il tradizionale, ma sempre di alta qualità. Il panettone che si prepara in pasticceria non deve assomigliare a quello reperibile nella grande distribuzione, altrimenti la scommessa è già persa in partenza». Qual è la differenza sostanziale tra un panettone realizzato in un laboratorio

È

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È uno dei dolci nel complesso più antichi, che da sempre appartiene alla tradizione gastronomica di Siena. Deriva da focacce che nel Medioevo venivano preparate con il miele e la frutta fresca (ad esempio fichi, uva, susine e mele), dove quest’ultima veniva spezzettata, impastata con gli altri ingredienti e appassita a fuoco lento. In virtù di questo tipo di cottura, il dolce assumeva un caratteristico gusto acidulo, da cui è derivato il nome panforte. Ne è seguita poi un’evoluzione, data dalla sostituzione della frutta fresca con quella candita (cedro, arancia, melone) e dall’aggiunta di spezie. «Come per tutti i dolci – sottolinea il maestro pasticcere toscano Paolo Sacchetti – il segreto di una buona riuscita risiede negli ingredienti e nella scelta delle materie

prime, in questo caso ottimo miele e frutta candita di prim’ordine, oltre che nella maestria di saper mettere tutto insieme». Il panforte, come aggiunge Sacchetti, rimane un prodotto principalmente artigianale e se ne preparano di diverso tipo, con il cioccolato e differenti varietà di frutta secca, optando per versioni più o meno speziate, più o meno pepate. «Io realizzo preferibilmente il panforte “Margherita”, ideato in onore della regina d’Italia Margherita di Savoia, che assistette al Palio di Siena nel 1879, e preparato con 17 ingredienti di base, quante sono le contrade della città. Si tratta di quindici ingredienti tra cui cedro, popone (melone), arancio, mandorle, farina, zucchero e le spezie, ai quali si aggiungono il fuoco e l’acqua».

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Buccellato siciliano È il dolce natalizio siciliano più noto il buccellato (o cucciddatu). Prende una forma grande e rotonda ad anello (soprattutto a Palermo) ed è ripieno di conserva di mandorle e fichi secchi. Ma viene confezionato anche in forme più ridotte. Esistono buccellatini casalinghi in quasi tutti i paesi siciliani, con una grande varietà di forme e sapori. Ingredienti per 6 persone 500 gr di farina 00 200 gr di zucchero 300 gr di burro 4 uova 1 dl. di latte 150 gr gherigli di noce 300 gr di fichi secchi 60 gr di pistacchi 100 gr uva sultanina 50 gr di cioccolato fondente a gocce 150 gr di mandorle tostate 5 chiodi di garofano ridotti in polvere 250 gr di zuccata tagliata a dadini Cannella in polvere Marmellata d’arancia Ciliegie e bucce d’arance candite 1 /2 bicchiere di Marsala

noci e le mandorle tritate a pezzetti

Preparazione:

sioni si deve intravedere il ripieno).

Per preparare la pasta, impastare

Mettere in forno preriscaldato a

la farina con il burro, lo zucchero,

180° per circa mezz’ora. Trascorso

tre uova, un pizzico di sale, il latte,

questo tempo, sfornare e spennel-

sino a ottenere un composto

lare il buccellato con un cucchiaio

omogeneo e consistente. Avvol-

di marmellata d’arance sciolta nel-

gete l’impasto in pellicola e la-

l’acqua, quindi spolverare con i pi-

sciarlo riposare in frigo per circa

stacchi tritati e rimettere in forno

un’ora e mezza. Per il ripieno, tri-

per altri cinque minuti. Una volta

tare grossolanamente i fichi secchi

cotto, decorare con la frutta can-

e riporli in una ciotola con l’altro

dita. Fare raffreddare definitiva-

uovo, l’uva sultanina, la cannella, le

mente e toglierlo dalla teglia.

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non troppo piccoli, la zuccata, i chiodi di garofano e il Marsala. Mescolare bene e mettere sul fuoco per circa dieci minuti. Fuori dal fuoco aggiungere tre cucchiai di marmellata e mettere da parte a raffreddare. Stendere la pasta in una sfoglia non troppo sottile (circa un centimetro) e formare un rettangolo sul quale adageremo il ripieno. Chiudere questo rettangolo, formando un grosso salame. Piegare questo rotolo su se stesso, saldando bene le due estremità, in modo da ottenere una ciambella. Adagiare il buccellato su una teglia foderata con carta da forno e incidere la superficie (da queste inci-

artigianale e quello industriale? «Il panettone industriale ha una shelf-life, una durata, molto più lunga in virtù della presenza di conservanti. La produzione è del resto programmata in funzione delle feste natalizie. Il pasticcere, invece, conferisce al suo panettone una vitalità inferiore, applicando un concetto di freschezza e di “ingredientistica” del tutto differente: s’impiegano solo burro, tuorli d’uovo, canditi della migliore fattura. Mentre però il panettone industriale non necessita di manodopera costante, perché a monte lavora un processo meccanizzato, in pasticceria il prodotto assume un costo più elevato proprio a causa del binomio volumi inferiori - manodopera superiore». Oggi sono diffuse particolari reinterpretazioni o varianti della ricetta originale? «Accanto alla proposta più canonica, esiste

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Tradizioni natalizie

Giovanni Pina

tutta una serie di prodotti che possono essere definiti come innovativi: panettoni con mousse al caffè all’interno piuttosto che panettoni farciti in vario modo con creme e liquori. Tra gli inserimenti che io stesso realizzo per i panettoni, va fortissimo quello con i marron glacés, ma anche quello con albicocche candite e dadini di marzapane è piuttosto richiesto. Altri abbinamenti gustosi riguardano il caffè liofilizzato all’arancia, lo zenzero, pere e cioccolato. L’alternativa al panettone classico era quello al cioccolato, ma negli ultimi anni hanno preso piede anche queste variazioni di farciture, che danno al prodotto un connotato differente». Qual è il segreto di un buon panettone? «Innanzitutto la competenza di chi lo fa. Lavorare con il lievito naturale richiede esperienza e particolare attenzione. E poi interviene la scelta delle materie prime. Un solido know how e materie prime nobili fanno la differenza».

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Tra le varie ricette regionali dei pani dolci, ce n’è una che merita una segnalazione speciale? «Se il prodotto è buono, è buono. C’è poco da fare. Un panettone può essere preparato bene a Bergamo, dove sono io, oppure a Napoli o in Sicilia, dove ci sono colleghi che lavorano altrettanto bene la pasta lievitata. L’essenziale è che il dolce possieda le caratteristiche di un buon panettone. Poi ogni regione possiede le proprie peculiarità: Lombardia, Veneto, Piemonte e anche Emilia Romagna sono maggiormente orientate al panettone, mentre procedendo verso sud le tradizioni si esprimono in maniera ancora differente». Quali sono gli aspetti più delicati nella lavorazione di questa tipologia di specialità? «La cultura del lievito naturale, la preparazione e il mantenimento. Il saper cosa fare».

In apertura, Giovanni Pina, presidente dell’Accademia dei Maestri Pasticceri Italiani. La sua pasticceria si trova a Trescore Balneario, in provincia di Bergamo

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TUTTA LA MAGIA DEL NATALE Passeggiando tra le bancarelle del tradizionale mercatino di Natale di Bolzano si possono trovare centinaia di oggetti e prodotti enogastronomici per un regalo originale. Roberta Agosti ci guida tra le strade addobbate a festa di NICOLÒ MULAS MARCELLO

O

gni anno i mercatini natalizi del Trentino Alto Adige attirano migliaia di turisti da tutta Italia e anche dal resto d’Europa. Quest’anno quello di Bolzano sarà un appuntamento significativo: «È una tappa importante – spiega Roberta Agosti, direttore reggente dell’Azienda Soggiorno Bolzano – quella che si avvicina con l’inaugurazione del prossimo mercatino di

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Bolzano il 25 novembre alle ore 17.00: si apre infatti la ventesima edizione della rassegna». Qual è il segreto del successo del mercatino di Natale di Bolzano? «È un evento nato dalla volontà di alcuni visionari bolzanini che hanno visitato i “colleghi” di alcune città germaniche, in particolare Norimberga per capire il successo della kermesse. Il successo sta in alcuni capisaldi: regole certe per i 95 espositori che quest’anno esporranno una grande varietà di prodotti; la tipicità che trasporta la tradizione sulla piazza nel commercio, ma anche in tutto ciò che circonda il mercatino: le decorazioni, le luminarie, i profumi della pasticceria e della gastronomia tipica; in tutto il centro si respira l’atmosfera dell’Avvento; il programma di animazione in piazza propone solo musiche autentiche, spesso proposte da gruppi in costume tipico, un’esperienza unica per qualità e quantità; il programma per bambini: teatro delle marionette, trenino, lettura di favole

Mercatini di Natale

legate alla tradizione, la magia dell’Avvento per i piccoli si percepisce in ogni angolo; le carrozze trainate da cavalli: un autentico romantico viaggio per vedere i palazzi del centro da un’altra prospettiva». Quanti visitatori ha registrato l’anno scorso il mercatino? «È difficile calcolare il numero dei visitatori; gli studi svolti dall’Università e dalla Camera di Commercio attestano la cifra sui 600.000 per tutti i cinque i mercatini dell’Alto Adige (accanto a Bolzano vi sono Merano, Bressanone, Brunico,

Bolzano

Roberta Agosti, direttrice dell’azienda di Soggiorno e Turismo di Bolzano

La qualità di capi made in Italy Nata da pochi mesi nel centro storico di Bolzano, la boutique Mya offre un’ampia selezione di capi di abbigliamento per donne dai venti ai settant’anni. Parola d’ordine del negozio è qualità, ecco perché si punta soprattutto sul made in Italy e su tessuti di alto livello. L’offerta comprende anche capi per taglie forti e accessori sia eleganti che sportivi. I cappelli dell’artigiano Stondo, il total look di Daniela P., camicie delle Sarte Pettegole, e di Baindouche, Via delle Perle, maglieria Purotatto e le meravigliose fantasie dai colori indiani dei foular Pjaar.

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Vipiteno)». Tra i profumi e i sapori della tradizione quali prodotti tipici possiamo trovare nel mercatino natalizio di Bolzano? «Innanzitutto la pasticceria tipica: gli spitzbuben (i birichini, due biscotti al burro con farcitura di marmellata e una spruzzata di zucchero al velo), i cornetti al profumo di vaniglia, le stelle di cannella, i classici strudel di mele e le varianti

con altra frutta, con la ricotta, il pane di qualità come lo schüttelbrot, lo speck, il miele e altri prodotti a marchio che vengono proposti con uno strettissimo controllo di qualità. Ci sono poi le bancarelle con le specialità calde: le minestre di orzo, gli spätzle (gnocchetti con spinaci), gli schlutzkrapfen (ravioli con spinaci e ricotta), ma anche i panini con lo speck gli immancabili würstel in tutte le varianti. Quest’anno per la prima volta ci sarà uno stand della strada del vino con la migliore produzione vinicola del territorio che va da Bolzano a Terlano e poi giù fino a Termeno e la Bassa Atesina. Uno stand è anche riservato ai prodotti del contadino».

Mercatini di Natale

Bolzano

Vacanze in Alta Badia

AGRITURISMO LÜCH DA PĆËI Str. Pecei, 17 - 39030 S. Cassiano (BZ) Tel. 0471 84.92.86 Fax 0471 84.07.31 www.luchdapcei.it info@luchdapcei.it

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Situato poco sopra il centro di San Cassiano, in posizione panoramica, il Lüch da Pćëi domina l'intera valle. Qui Marina e Luca Crazzolara LA SIEIA accolgono gli ospiti in ambienti raffinati. Le Str. Berto, 61 camere sono realizzate per soddisfare ogni esigenza e per 39030 S. Cassiano (BZ) chi desidera una piccola casa di montagna, sono disponibili Tel. 0471 84.95.17 anche deliziosi appartamenti da 60 mq. Un servizio www.lasieia.com aggiuntivo per gli ospiti del Lüch da Pćëi, è offerto presso La info@lasieia.com Sieia, storica segheria di proprietà della famiglia Crazzolara. Qui, nel ristorante composto di quattro bellissime stuben realizzate da materiali di prima qualità, è possibile, da fine novembre, assaggiare piatti tipici locali arricchiti da specialità casearie di produzione propria.

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La vera birra artigianale

GASSL BRÄU Via Conciatori, 18 Chiusa (BZ) Tel. 0472 52.36.23 www.gassl-braeu.it info@gassl-braeu.it

Nel cuore di uno dei borghi più belli d’Italia, Chiusa, sorge un birrificio e piccolo ristorante dove la birra viene realizzata in maniera del tutto artigianale, senza pastorizzazione né filtraggio per mantenerne tutte le caratteristiche originali. Al Gassl Bräu si producono tre tipi principali di birre: bionda, rossa e Weizen e alcune birre stagionali, come quella di castagne. A disposizione anche confezioni da 5 litri per chi vuole portarsi la birra a casa. Norbert, mastro birraio, è anche il padrone di casa del Gassl Bräu, un locale molto bello, arredato con materiali rustici e caratteristici; dal ferro battuto, al rame, dal legno alla pietra. Il ristorante conta circa 50 posti a sedere all’interno e altri nel dehor estivo e propone le ricette tipiche sudtirolesi e bavaresi, primi e secondi piatti e dolci fatti in casa, in base alle stagioni, con prodotti tipici.

Un’atmosfera particolarmente suggestiva regna nel “Bosco Incantato” di Palais Campofranco a pochi passi dal mercatino. In cosa consiste? «È un cortile interno di un palazzo ottocentesco dove l’atmosfera è più raccolta, il boschetto costringe a un percorso defilato, più tranquillo dove si possono osservare e acquistare idee regalo e gastronomia».

Quali eventi e novità potranno trovare i turisti quest’anno al mercatino di Bolzano? «Il calendario è di tutto rispetto: ogni domenica mattina concerti con le bande musicali di Bolzano, sabato – domenica e festivi nel pomeriggio dalle ore 14.00 alle 18.00 gruppi musicali in costume propongono musiche tipiche dell’Avvento (la Stille Nacht si suona solamente alla vigilia di Natale!), cori di bambini si alternano a voci maschili. Ogni appuntamento è preceduto dalla lettura di poesie da parte di tre angioletti in costume, bimbi fra i 7 e i 10 anni che si cimentano con il pubblico per un momento emozionante. Nella tenda della croce rossa ogni sabato pomeriggio una narratrice racconta le storie di Natale. Tutti i pomeriggio spettacolo natalizio di marionette in piazza Walther, sempre per i bambini. Non si può passeggiare in centro senza imbattersi in qualche piacevole momento musicale o tradizionale».

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L’INCANTESIMO SI RIPETE Mancano ormai solo pochi giorni al via per il mercatino di Natale di Trento che quest’anno giunge all’edizione della maturità, la diciottesima. Claudio Facchinelli spiega i segreti del successo di questo evento di NICOLÒ MULAS MARCELLO

U

n’atmosfera magica che ogni anno rappresenta un appuntamento fisso non solo per i trentini, ma per migliaia di visitatori che affollano gli stand in cerca di prodotti tipici o soltanto per vivere l’emozione

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natalizia. “Trento Città di Natale” non è solo stand enogastronomici e oggettistica, numerosi sono gli eventi e le iniziative che costellano il calendario dal 20 novembre al 23 dicembre in Piazza Fiera. Una tradizione che da 18 anni porta a Trento ogni anno oltre 500 mila persone. Saranno 70 le casette in legno che ospiteranno gli espositori: «Ogni realtà o espressione del nostro territorio – ricorda Claudio Facchinelli, presidente di Trento Fiere – cerca di partecipare per rendere il più possibile interessante e appetibile per i turisti Trento come città del Natale». Perché il mercatino di Trento attira così tanti turisti? «Perché dà ai visitatori la possibilità di immergersi in uno scenario incantato e di vivere un’emozione unica aspettando la festa più bella dell’anno. Inoltre, il mercatino di Natale di Trento da sempre si propone sobrio e semplice e devo dire che questa sua caratteristica è stata molto apprezzata dalla maggioranza dei visitatori in tutti questi anni». Ogni anno quanti visitatori registra il mercatino? «Le rispondo con lo slogan del nostro mercatino che recita “ogni anno oltre

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500mila persone ritornano bambini al mercatino di Natale di Trento”». Per quanto riguarda l’enogastronomia cosa si può trovare di caratteristico tra le bancarelle? «Sono sapori tipici della tradizione montana che ancora oggi la nostra comunità esprime. Dai formaggi ai salumi, dai vini alla grappa, agli spumanti; inoltre, i piatti della nostra peculiare enogastronomia come i canederli, le zuppe tipicamente trentine come l’orzetto, le trippe, i tortelli di patate, la polenta, lo strudel e tante altre specialità che

Mercatini di Natale

Trento

A sinistra, Claudio Facchinelli, presidente Trento Fiere; in alto, due immagini del mercatino di Trento

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Ai piedi del Brenta, nel cuore di Madonna di Campiglio D’estate o d’inverno, le Dolomiti di Brenta regalano un’emozione unica e intensa. L’Hotel Diana, completamente ristrutturato nel corso dell’estate 2008, è parte di questa emozione. Alla sincera e cordiale ospitalità si affianca il tocco personale nell’architettura, la luminosità dall’arredamento in abete chiaro, il tepore trasmesso dai materiali pregiati, l’ambiente ricco di particolari e un’eleganza discreta che non pretende formalità. L’Hotel Diana ha la tipica accoglienza delle baite di montagna. È il luogo dove l’ospite riesce finalmente a sentirsi a proprio agio.

HOTEL DIANA Via Cima Tosa, 52 38084 Madonna Di Campiglio (TN) Tel 0465 44.10.11 www.hoteldiana.net info@hoteldiana.net

16 ristoratori preparano con cura e maestria». L’oggettistica artigianale è una delle caratteristiche del mercatino. «L’artigianato locale esprime l’intreccio antico ma ancora vivo tra il mondo tedesco e quello latino. E troviamo addobbi di Natale, sculture in legno per il presepe, realizzate a mano, creazioni di fiori e ghirlande dell’avvento, calde ciabatte in lana e in genere oggettistica a tema natalizio in legno, vetro, ceramica e porcellana». Ci saranno novità quest’anno? «È difficile portare novità e cambiare una formula che porta tanto successo.

Quest’anno come novità nei prodotti portiamo le trote trentine e i prodotti cosmetici e curativi della nostre Terme di Comano. Inoltre, Trento Città del Natale propone un ricco calendario di eventi e iniziative rivolti alla cittadinanza promosso dall’amministrazione comunale ma realizzato insieme alla città, ai suoi cittadini e ai diversi soggetti che operano sul territorio. Penso ai cori, ai teatranti e ai pastori del Calisio. Ogni realtà o espressione del nostro territorio cerca di partecipare per rendere il più possibile interessante e appetibile per i turisti Trento come città del Natale».

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IL NATALE DI MERANO Mancano ormai solo pochi giorni al via per il mercatino di Natale di Trento che quest’anno giunge all’edizione della maturità, la diciottesima. Claudio Facchinelli spiega i segreti del successo di questo evento di NICOLÒ MULAS MARCELLO

C

ittà di benessere e relax per vocazione, anche Merano ospita ogni anno il suo tradizionale mercatino natalizio che registra sempre centinaia di migliaia di presenze. L’offerta del mercatino di Natale, che quest’anno si svilupperà dal 26 novembre 2010 al 6 gennaio 2011, spazia dall’artigianato, alla maglieria, alla pasticceria, per soddisfare tutti sia coloro che ricercano l’oggetto di materiale biologico, come maglioni di lana o oggetti in legno sia i golosi che non potranno perdere l’occasione di provare le specialità dei mercatini e dei bar e dei ristoranti locali. Inoltre sono tantissime le iniziative pensate per i bambini

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tra animazione, pista di pattinaggio e una vera e propria fabbrica di cioccolato. Un momento dell'anno molto suggestivo, in cui i profumi del vin brûlè e della pasticceria natalizia si mescolano ai suoni della musica ed alle tradizioni dell'Avvento. «Durante tutto il Natale a Merano – spiega Michael Frasnelli, organizzatore dell’evento – abbiamo un vasto programma di manifestazioni collaterali con bande musicali locali, gruppi vocali, formazioni di fiati che si esibiscono dal balcone del Kurhaus, animazione per bambini e anche un concerto di beneficenza» Cosa rende così particolare il

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mercatino di Merano? «Sicuramente per la sua posizione romantica lungo il fiume Passirio davanti allo stupendo Kurhaus in stile liberty, in Piazza Terme, oppure in piazza della Rena. In fondo si può dire che tutta Merano è Natale. I portici sono pieni di alberi, le luci di sera scintillano. Poi dobbiamo anche aggiungere che il Natale a Merano, ormai da 18 anni, offre prodotti di alta qualità alto atesina. Non solo nel mangiare ma anche nell’artigianato». Ogni anno quanti visitatori registra il mercatino? «Dal sondaggio dell’anno 2007 dell’Istituto di ricerca economica della Camera di

Mercatini di Natale

commercio di Bolzano abbiamo il dato ufficiale di 314.000 visitatori. Con orgoglio possiamo dire, che il 53% dei visitatori passa più giorni a Merano per godersi meglio la Città del Natale». Parliamo dei prodotti tipici della tradizione. Cosa possiamo trovare?

Merano

A fianco,Michael Frasnelli, presidente di Kaufleute Aktiv Meran

Suggestioni e ricordi di un artista Il legame con Merano, sua terra d’origine, è indissolubile. Marcello Jori, importante protagonista della scena artistica italiana, nonostante il suo lavoro lo porti in giro per il mondo non dimentica l’Alto Adige e le sue tradizioni: «non posso fare a meno dell’Alto Adige, del Tirolo e di Merano. Ci torno sempre per amore di Merano, della mamma, della cultura tirolese che adoro e della gente tirolese che apprezzo sempre per la serietà». Merano come ogni anno a Natale si vestirà di luci e colori attraverso le bancarelle del suo tradizionale mercatino natalizio: «il successo di pubblico enorme che registra il mercatino – continua Jori – mi sbalordisce. In fondo si tratta solo di piccoli oggetti venduti lungo la strada ma anche in questo gli altoatesini sono speciali perché riescono a dare una grande dignità a tutto ciò che fanno». Molti i prodotti della tradizione: «Sicuramente il vin brûlè è uno dei prodotti che più apprezzo quando passo dal mercatino perché emana questo odore così rassicurante, così antico e così natalizio e poi si trovano sicuramente lo stinco e i würstel, cose che io non mangio durante l’anno quindi quando posso abuso». La magia natalizia riporta sicuramente anche ai ricordi d’infanzia quando il Natale si vive con trepidante attesa: «da bambino vivevo il Natale come la festa più importante dell’anno e mi ha dato sempre un’immensa felicità. Sono nato in un albergo tirolese quindi ero sempre in mezzo a tanta gente. I miei natali erano da film, pieni di parenti, amici e turisti. Purtroppo oggi l’albergo non c’è più ma a Natale a Merano ci torno ogni anno».

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Viaggio in stile liberty

HOTEL MERANERHOF **** Via Alessandro Manzoni, 1 Merano (BZ) Tel. 0473 23.02.30 info@meranerhof.com www.meranerhof.com

In ambienti ricchi di stile e raffinatezza, il gusto liberty si intinge di dettagli che da oltre quarant’anni indicano un’affascinante opportunità di viaggio, divertimento e relax. Nel cuore di Merano, affacciato alle nuove terme e alle Passeggiate, non lontano dal Kurhaus e dalla città vecchia, l’hotel Meranerhof è meta ideale per chi vuole lasciarsi viziare dalla tradizionale ospitalità altoatesina. Camere, suite e appartamenti, dotati di ogni comfort e arredi raffinati, godono tutt’intorno di una splendida oasi di palme e cedri libici. La spaziosa zona wellness e la creatività dello chef de cousine partecipano alla soddisfazione dei piaceri “fuori casa”. Anche se in realtà, al Meranerhof, pernottare significa vivere una straordinaria e impeccabile esperienza dell’abitare.

«Tipici sono sicuramente tutti i prodotti offerti negli stand gastronomici come i crauti, i würstel, i formaggi tipici. Ma anche lo speck, i funghi porcini, le grappe, le marmellate, il miele, le erbe penso proprio che ce ne sia per tutti i gusti». Per quanto riguarda l’artigianato invece? «Tra gli articoli dell’alto artigianato troverete crocefissi, angeli, figure sacre e altri prodotti realizzati sotto i vostri occhi dall’intagliatore di legno. E poi ancora candele che diffondono il loro profumo lungo il mercatino, addobbi natalizi con cannella e chiodi di garofano, ceramica, vetro e tanto altro». Quali eventi e novità ci saranno quest’anno? «Quest’anno ci sarà la Fabbrica del

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Cioccolato di Ritter Sport in Piazza della Rena dove i bambini gratuitamente potranno scoprire i segreti del cioccolato e realizzare da soli il proprio quadrato Ritter Sport. Dall’8 al 15 dicembre dalle ore 9 alle ore 17. In Piazza della Rena troverete la Casa dell’Artigianato Artistico. A rotazione, maestri artigiani illustreranno dal vivo la propria abilità nel creare oggetti di uso quotidiano e decorazioni. In Piazza Terme l’indimenticabile pista di ghiaccio per grandi e piccini. Durante tutto il Natale a Merano abbiamo un vasto programma di manifestazioni collaterali con bande musicali locali, gruppi vocali, formazioni di fiati che si esibiscono dal balcone del Kurhaus, animazione per bambini e anche un concerto di beneficenza. Più di 160 manifestazioni in 40 giorni».

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di PAOLA MARUZZI

Firenze

DENTRO LA CASA DEGLI ALIGHIERI

I luoghi di Dante

Il più autentico del falsi storici. Così, strizzando l’occhio al rigore scientifico dei revival architettonici, viene definito il Museo Casa di Dante. Per Silvano Fei è una piattaforma didattica nel cuore della Firenze medievale, che stuzzica la curiosità dei ragazzi

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ualche anno fa, in occasione dell’ultima inaugurazione dopo l’incendio che distrusse buona parte del patrimonio conservato,Vittorio Sermonti lo definì “il più autentico dei falsi storici”. Sono parole che, naturalmente, vanno lette facendo attenzione alle sottigliezze. La Casa di Dante è vera in quanto metafora di un’epoca. Lo spiega meglio Silvano Fei, presidente dell’Unione Fiorentina Museo Casa di Dante, che ha il merito di aver nuovamente aperto le porte della dimora museale più celebre ed evocativa d’Italia: «Questo pezzo di storia, sapientemente ricostruito, trova la sua ragione d’essere in una rigorosa funzione scientifica e didattica. Con la consapevolezza della messa in scena, abbiamo voluto far rivivere non tanto il fantomatico quotidiano del poeta, ma la Firenze del tempo, che è tuttora visibile». Più che un teatro di posa in cui sono cristallizzati oggetti e frammenti di un altrove temporale troppo distante per averne misura, il museo vuole essere un percorso dinamico alla scoperta degli usi e costumi

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In apertura, la statua di Dante in piazza Santa Margerita a Firenze; a sinistra, l’ingresso del Museo Casa di Dante

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medievali. Dante è quindi il veicolo più adatto per tale viaggio a ritroso. «Accanto alle “finzioni”, da qualche anno non mancano i reperti originali: la cosiddetta brocca di Beatrice, le collezioni di armi bianche trecentesche e alcuni resti di ceramiche sono alcuni esempi. Il più antico di tutti è un pugnale che, verosimilmente, sarebbe potuto essere usato nella leggendaria battaglia di Campadino».Viene da chiedersi se l’arma fosse stata a difesa dei guelfi o dei ghibellini. L’esercizio dell’immaginazione non è azzardato, anzi è forse l’elemento fondante della visita. E, a guadare i numeri, pare proprio la Casa abbia stimolato abbondantemente la fantasia e la curiosità dei giovani visitatori.

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«All’anno registriamo circa 70 mila presenze. Sono studenti di tutte le età. Normalmente ci rivolgiamo a scolaresche, sia italiane che straniere. Abbiamo inoltre all’attivo una serie di laboratori didattici, concorsi e giochi, che hanno come obbiettivo imparare decifrare le “tracce” dantesche sparse per la città. Per esempio invitiamo i bambini a riconoscere, con l’ausilio di una carta che rappresenta la città, i monumenti presenti a Firenze ai tempi di Dante (gli stessi che i ragazzi hanno avuto modo di vedere durante la passeggiata per il centro cittadino). Una piacevole attività di verifica e di eventuale messa a fuoco delle informazioni». Altrettanto interessante è proprio la travagliata

In alto, la Casa di Dante nel centro storico di Firenze, di fronte alla Torre della Castagna

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Sotto il segno della magia fiorentina Ricavato da un convento, l’Hotel Morandi nasce sotto il segno dell’arte. Entrando colpiscono le pareti affrescate e le ampie stanze dal sapore antico. A qualche passo, la scuola di recitazione dove si è formato l’attore Giorgio Albertazzi. Questo solo per dare un’idea dell’atmosfera in cui è calata la struttura. Cittadini da tutto il mondo arrivano a Firenze con la speranza di venire catturati dalla sua magia. Soggiornare presso l’Hotel Morandi può aiutare a innescare la scintilla. Calato in un contesto da cartolina è l’angolo ideale per una vacanza all’insegna del relax, dell’eleganza e dell’arte.

HOTEL MORANDI Via Laura, 50 - 50121 Firenze Tel. 055 23.44.747 www.hotelmorandi.it welcome@hotelmorandi.it

storia di quella che, non a torto, viene riconosciuta come l’abitazione del sommo poeta. Un avventura che inizia quando Firenze era capitale del neonato regno d’Italia. Nel 1895, il sesto centenario della nascita di Dante, si riunisce una commissione di esperti per studiare il “caso”. Come dentro a un romanzo noir, si scova la prova inconfutabile. Tutto ruota attorno a un remotissimo albero di fico di proprietà degli Alghieri, le cui radici rovinavano la recinzione del vicinato, il tal caso un priore. L'edificio si trovava nel Popolo di San Martino al Vescovo, di fronte alla Torre della Castagna, in fregio a quella che era via de’ Magazzini, cioè dove oggi sorge la Casa di Dante. «Un motivo in più per mantenere in vita e rendere fruibile questo patrimonio turistico, che ufficialmente è in piedi dal 1911, quando il comune di Firenze promuove i primissimi lavori di recupero e ricostruzione, affidandoli all’architetto

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Castellucci: si demoliscono le case d’angolo per dar luogo a una piazzetta, abbattendo tutti quegli elementi che già Falcini riteneva estranei alla casa degli Alighieri. Dopo le demolizioni è necessaria una ricomposizione architettonica basata su una serie di progetti di ipotetica ricostruzione. Se, per certi versi, l’intervento può ritenersi discutibile per le numerose licenze e per la maestosità, ha comunque il pregio di inserirsi, come uno dei migliori esempi, nel filone architettonico del revival». E. in tema di rivisitazioni, Silvano Fei chiude parlando di come venivano vissute le mura domestiche. «Non possiamo averne la certezza assoluta. Alcuni aspetti rimangono un po’ un mistero. Certo è che la camera da letto fungeva da salotto, da luogo aperto alla conversazione. Così si passava il tempo seduti a cerchio sui pancali, delle cassapanche dove venivano riposti i vestiti».

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GOLOSO E ARTIGIANO

P La gelateria fiorentina Perché no! www.percheno.firenze.it perche_no1939@yahoo.it

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rima regola: bandire coloranti, conservanti, emulsionanti e aromi surrogati. Insomma tutto ciò che non sia rigorosamente naturale. Così il gelato si riappropria di un ingrediente speciale, troppo spesso dimenticato dall’industria dolciaria: la qualità certificata. Assumere la filosofia dell’artigianalità significa, prima di tutto, selezionare attentamente le materie prime. In questo caso l’elenco è lungo, ma basta solo un piccolissimo assaggio per farsene un’idea: zucchero di canna biologico e sciroppo naturale di rosa gallica officinalis. Queste bontà vengono usate rispettivamente per fare il caramello e il gusto alla rosa. Dietro ogni ricetta e accostamento di sapori c’è sempre un calibrato studio gastronomico. «Qui niente è lasciato al caso – precisa Cecilia Cammilli, titolare della gelateria – La scelta di un ingrediente al posto di un altro ha il suo perché e la sua storia ». E la storia risale addirittura a più di settanta anni fa, quando la storica gelateria ha iniziato a soddisfare gusti e palati dei fiorentini, e non solo. Oggi

Fredde prelibatezze

di LUCIANA FANTE Si fa presto a dire che il gelato è buono. Ma le vere prelibatezze si fanno solo con ingredienti biologici e certificati. Come accade nella storica gelateria fiorentina di Cecilia Cammilli

entrando, oltre ai classici, si trovano prelibatezze decisamente fuori dal comune. «Da segnalare il gelato fatto con i pistacchi di Bronte, che acquistiamo direttamente dal produttore (presidio Slow Food), il gusto alla nocciola prodotto con nocciole piemontesi Igp (nocciola tonda gentile delle Langhe), il fiordilatte con semi di sesamo caramellato e miele di castagno dell’Appennino toscano. Da non perdere l’assaggio di mousse fatte con panna montata senza aggiunta di nessun tipo di additivo, sempre fresca di giornata. Come tutti i nostri prodotti».

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ARTE PONTE TRA CULTURE Sotto la maschera del turismo mordi e fuggi, scavando oltre la superficie di Firenze, vetrina internazionale. La Fondazione Romualdo promuove l’arte, toscana e non solo, per far scattare la molla degli incontri interculturali tra i giovani d’Europa di PAOLA MARUZZI

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n insieme di circostanze, apparentemente scollegate, ha messo in moto un ambizioso progetto culturale, nato nella culla del Rinascimento italiano e, in virtù di questo, di stampo europeo. «Nel lontano 1991, Pietro Cannata rompe con una martellata il secondo dito del piede sinistro del David di Michelangelo – racconta Paolo Del Bianco, presidente della Fondazione Romualdo Del Bianco – e mentre ci si stringe attorno a questo episodio drammatico, è ancora forte il ricordo della caduta del Muro di Berlino». Il nesso è chiaro: per la Fondazione il patrimonio artistico è la possibilità di creare un ponte. Si pone come viaggio sopra le righe delle diverse nazionalità, come strumento “riparatore” dei conflitti. La scommessa è, quindi, scoprire un linguaggio universale che vada al di là delle barricate ideologiche, oltre la cortina di ferro; ma anche tutelare e promuovere i tesori, nascosti o da salvare, dei Paesi. «Partiamo per mostrare una Firenze colorata a coloro che l'avevano vista da

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lontano, in bianco e nero». La prima scintilla scocca così tra i due orizzonti politici e culturali contrapposti: l’Occidente e l’Oriente europeo. Ma questo è solo l'incipit, altri binari e iniziative vanno a “complicare” il quadro degli incontri. «Se in un primo momento gli interlocutori principali sono i rettori e i presidi dell'ex blocco sovietico, subito dopo giungono loro, i giovani. E tuttora sono il motore della Fondazione. Arrivano da Paesi non solo europei e, una volta a Firenze, li facciamo mescolare. La regola è questa: un minimo di tre nazionalità e un massimo di cinque». Seguono dei percorsi tematici alla scoperta della città. Tra gli ultimi quello della

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Firenze

danza. Sotto la superficie dei buoni propositi, la Fondazione spinge ad azioni mirate, a campagne di sensibilizzazione funzionali al reperimento di fondi. «Il nostro obbiettivo è anche quello di creare attenzione da parte del mondo imprenditoriale fiorentino. In quest’ottica, per esempio, abbiamo sostenuto la ricostruzione del Museo Casa di Dante, un bel progetto in cui la didattica fa da perno». Ma la partita per la valorizzazione dell’arte si gioca dentro e fuori i confini italiani. «Di recente, grazie alla collaborazione con l’Università di Firenze e con il Politecnico di Milano, abbiamo sottoscritto un'intesa che va in aiuto alla Repubblica di Crimea, o meglio

del sito archeologico di Chersonesos. Pur essendo in parte venuto alla luce, non ha ancora suscitato l’interesse, sia turistico che scientifico, che meriterebbe. Ecco, noi aiutiamo ad accendere i riflettori su realtà “seminascoste”». Il patrimonio delle bellezze materiali si fa pretesto per interrogarsi su questioni che hanno a che fare con le radici culturali dei rispettivi Paesi che entrano in gioco nei progetti. «La globalizzazione ci obbliga a riflettere su questi temi. Il nostro motto è, appunto, life beyond tourism. In pratica crediamo nella capacità di passare attraverso la

La culla del Rinascimento

Paolo Del Bianco, presidente della Fondazione Romualdo Del Bianco

All’ombra del Bargello

A “Le Mossacce” vi sembrerà di entrare in una casa fiorentina, con l’informale e sincera accoglienza della famiglia Fantoni-Mannucci che da oltre 50 anni preserva le tradizioni gastronomiche locali. Sarete circondati dai profumi della ribollita o dell’inzimino, potrete scegliere il taglio della vostra bistecca e scoprire attraverso il bancone della cucina i segreti delle ricette fiorentine. Nel menù troverete sempre i prodotti di stagione, cucinati con quella semplicità e gustosità che ha fatto grande nel mondo la cucina toscana. Il tutto ovviamente da accompagnare con un ottimo Chianti. Ma soprattutto potrete fare nuove conoscenze: in questo locale scelto da molti fiorentini come ritrovo per la pausa pranzo, potrete domandare cosa accade in città e scoprire Firenze e i suoi “umori” fuori dai classici percorsi turistici. Comprese “le mossacce” del personale che appena avrete finito, con cortesia e risoluzione, dirà “fuori uno avanti un altro!”. Perché in questo locale non si prenota il tavolo ma nessuno che si sia affacciato è mai rimasto con la fame.

TRATTORIA LE MOSSACCE Via del Proconsolo 55R Firenze - Tel 055 29.43.61

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Firenze

La culla del Rinascimento

maschera del turismo mordi e fuggi. Ci rappresentiamo come un fiore, i cui cinque petali sono rispettivamente: incontro, comunicazione, conoscenza, conservazione ed economia. Il frutto è appunto la piattaforma, teorica e pratica, che si viene a creare». Secondo Paolo Del Bianco il traffico incessante di persone che passano e sostano nella completa indifferenza di ciò che li circonda, consuma Firenze, ne logora l’immaginario. Per arginare il pericolo che la culla del Rinascimento si trasformi in un prodotto usa e getta, la Fondazione guida i ragazzi stranieri alla scoperta della città attraverso percorsi tematici e laboratori, che vanno al di là della semplice visita ai luoghi simbolo. «In altre parole spingiamo la

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realizzazione di un mondo migliore, dove regni la pace, l’amicizia e la tolleranza. Il tutto facendo leva sull’interesse e l’amore che Firenze e il suo immenso patrimonio di storia e tradizioni sanno suscitare nell’animo di persone estremamente sensibili. È quindi verso questo inestimabile patrimonio che dobbiamo indirizzare ogni nostra risorsa disponibile, per proteggerlo dalle insidie dell’incuria e del tempo, dall’ignoranza e dall’inciviltà, affinché ne possano beneficiare i milioni di persone che ogni anno visitano Firenze e la Toscana e, in futuro, le generazioni a venire: un investimento per la pace nel mondo. Questo è il devoto tributo di riconoscenza che ci sentiamo in dovere di rendere alla nostra città».

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Profumi di spezie

DORATO E AROMATICO di LUCIANA FANTE

Colora, profuma e spezia. Da secoli lo zafferano dona quel tocco in più alle nostre tavole. Sulle colline fiorentine della Corte Di Valle la magia dell’oro giallo

N Marco Mazzoni, di Corte di Valle a Greve in Chianti (Firenze) www.cortedivalle.it cortedivalle@cortedivalle.it

el Medioevo veniva utilizzato persino come unità di misura per stabilire il valore delle merci. Tanto era prezioso lo zafferano. Quello toscano, lo zima di Firenze, era poi una rara leccornia: arrivavano mercanti da mezza Europa per acquistarlo. Ci sono numerose testimonianze storiche che attestano quanto fossero diffuse la coltivazione e la commercializzazione della spezia della Valdesana. Non è un caso, quindi, che nel lontano 1475 lo statuto di San Godenzo, una terra a ridosso dell’Appennino, includesse anche gli zafferani – oltre alle vigne, agli orti, ai grani, alle biade, ai castagneti e alle terre olivate – nella liste di prodotti e coltivazioni da tenere a cura. A guardare i campi che circondano Corte di Valle pare proprio che la vocazione per il Crocus sativus, il fiore da cui si ricava il cosiddetto oro giallo, sia sopravvissuta ai secoli. «Una passione che non è solo strettamente culinaria» puntualizza Marco Mazzoni. «Infatti la pianta aveva un impiego anche nella farmacopea e nella pittura. Oltre alle proprietà aromatiche inconfondibili, lo zafferano è ricchissimo di carotenoidi, dalla funzione antiossidante, e di vitamine B1 e B2». Con la consapevolezza di

tenere in vita un pezzo della tradizione enogastronomia made in Italy, nell’azienda agraria collocata in Greve in Chianti, viene coltivato lo zafferano. «In particolare in questo periodo dell’anno, la spezia gialla va a impreziosire il ventaglio dei nostri migliori prodotti: l’olio extravergine e il Chianti Classico. Novembre è appunto un mese “dorato”. «Dopo aver interrato i bulbi ad agosto, a ottobre spuntano i fiori. E ora ci prepariamo a raccogliere i frutti. Servono 120 mila fiori per ottenere solo un chilo di zafferano. Chi fa sosta da noi, oltre a gustare piatti speziati, ha anche l’opportunità di acquistare la spezia. Così lo zafferano continua a viaggiare per il mondo».

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IL GALLO NERO di NIKE GIURLANI

Colore rosso rubino, profumo di spezie e piccoli frutti di bosco. Queste le caratteristiche che rendono unico il Chianti Classico che ha nel Gallo Nero il suo storico simbolo, retaggio di un’antica leggenda, come racconta Marco Pallanti

on oltre 600 soci iscritti, di cui circa 350 imbottigliatori, il Consorzio Vino Chianti Classico rappresenta oggi il 95% dell’intera denominazione. «Il Chianti Classico è un vero e proprio vino di territorio, da nessun altra parte potrebbe nascere con le caratteristiche che lo distinguono nei mercati di tutto il mondo, proprio perché il suo vitigno principale, il Sangiovese, nel Chianti trova la sua naturale consacrazione» spiega il presidente del Consorzio, Marco Pallanti. «Vitigno a bacca rossa originario dell’Italia centrale, il Sangiovese dà vita a vini dal colore rosso rubino che con l’invecchiamento tende al granato, al profumo di spezie e piccoli frutti di bosco, dalla buona struttura, eleganti, rotondi, vellutati». Il Gallo Nero è da sempre il simbolo del Chianti Classico che dal 2005 viene riportato anche sulla fascetta di stato. Come mai proprio il Gallo Nero? «La leggenda narra che nel periodo medievale, quando le repubbliche di Firenze e Siena si combattevano per prevalere l’una sull’altra, il territorio del Chianti, fosse oggetto di dispute

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Chianti classico

continue. Per porre fine alle contese e stabilire un confine definitivo, venne adottato un bizzarro quanto singolare sistema. Si convenne di far partire dai rispettivi capoluoghi due cavalieri e di fissare il confine nel loro punto d’incontro. La partenza doveva avvenire all’alba e il segnale d’avvio sarebbe stato dato dal canto del gallo. I senesi ne scelsero un gallo bianco, mentre i fiorentini optarono per uno nero. Il giorno fatidico della partenza, non appena fu tolto dalla stia, il gallo nero cominciò a cantare fortemente anche se l’alba

Marco Pallanti

era ancora lontana così il cavaliere di Firenze partì immediatamente e con gran vantaggio su quello senese, che dovette attendere le prime luci del giorno, quando il suo gallo, cantando regolarmente, gli permise di partire. Fu così che quasi tutto il Chianti passò sotto il controllo della repubblica fiorentina». Se dovesse guidare un gruppo di turisti alla scoperta del territorio e del Chianti classico, dove li condurrebbe? «Difficile scegliere tra le suggestioni che regalano i 70.000 ettari del territorio di produzione del Chianti Classico. Per lo più coperto da boschi, dove prevalgono querce, castagni e pini, punteggiato da cipressi, il Chianti è una zona con altitudini che oscillano tra i 200 e gli 800 metri, ricco di testimonianze lasciate dai diversi protagonisti e storie che nel tempo lo hanno animato. Viaggiando per i 9 comuni che lo compongono (Castellina, Gaiole, Greve e Radda in Chianti per intero ed, in parte, quelli di Barberino Val d’Elsa, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi, San Casciano Val di Pesa e Tavarnelle Val di Pesa) è facile imbattersi

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Sopra, il presidente del Consorzio Vino Chianti Classico, Marco Pallanti

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Calici made in Tuscany Non è l’odore del mosto a riempire l’aria nelle sale di degustazione ma il profumo dei vini già distillati e versati in calici “della tradizione”. Dai vitigni di tutta Italia, con radicata predilezione per i rossi made in Tuscany, da più di quarant’anni Duilio Cavaciocchi apre i battenti dell’Enoteca del Chianti Classico di Panzano 365 giorni l’anno. Non sono solo le pareti a esporre l’immensa varietà di bottiglie etichettate anche da aziende estere; tavoli, espositori e banconi fanno da vetrina per i bevitori più esigenti. L’Enoteca del Chianti Classico è la più grande del centro-nord d’Italia. Accoglie i vini di oltre 2800 aziende di cui più di 400 solo delle zone del Chianti Classico. Gli spazi dedicati ai migliori aceti e oli, introvabili anche nei più forniti dei supermercati, si spostano nelle tavole di chi non può fare a meno di autentici sapori liquidi.

ENOTECA DEL CHIANTI CLASSICO Via Chiantigiana, 15-19 - Panzano in Chianti (FI) - Tel. e Fax 055 85.24.95

in pievi romaniche, abazie e nei tanti castelli e fortificazioni nati in periodo medievale e poi, in tempo di pace, trasformati in magnifiche residenze, circondate oggi da ettari di vigne che si colorano in maniera diversa con il trascorrere delle stagioni». Che attenzione c’è da parte dei mercati stranieri verso il Chianti Classico? «Attualmente il Chianti Classico viene distribuito in oltre 60 Paesi in tutto il mondo. Bisogna tuttavia considerare che i primi 5 mercati - Usa, Italia, Germania, Inghilterra e Svizzera - coprono il 78% di tutte le vendite. Nell’ultimo decennio il mercato mondiale del vino ha attraversato una fase di profonda ristrutturazione, tanto sul lato dell’offerta quanto sul lato della domanda. Il vino ha, infatti, cessato di essere considerato un «semplice» alimento ed ha cominciato ad affermarsi come un prodotto di status, dalle molteplici valenze culturali e simboliche.

La domanda di qualità ha rappresentato il motore della crescita, ed è stata soddisfatta da un numero sempre più ampio d’imprese provenienti da tutti i Paesi produttori. Analogamente a quanto avvenuto in altri comparti economici, la comunicazione ha assunto un ruolo decisivo sia per la sua capacità di orientare il gusto dei consumatori che nel favorire o meno l’affermazione di singole imprese o brand collettivi». Quale sarà la direzione futura della produzione? «Un vino come il Chianti Classico non può fingere di non avere una tradizione e una storia che derivano dalla cultura del territorio e, quindi, tagliare completamente i ponti con il passato, ma non può neppure continuare a perpetrare il passato nel futuro. Sono convinto che la miglior soluzione sia: mantenere quel tanto di buono che ci proviene dal passato e di trasportarlo nel futuro migliorandolo attraverso le conoscenze scientifiche che indubbiamente sono la nostra fonte di progresso».

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IL NETTARE DEGLI DEI

di NIKE GIURLANI

Un viaggio alla scoperta della cultura viticola toscana per conoscere più da vicino il Sangiovese, con le sue varie e preziose declinazioni, che lo rendono famoso e apprezzato non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Come ci illustra Osvaldo Baroncelli, presidente di Ais Toscana. Quest’ultimo mette in luce, inoltre, la particolare attenzione che in questo momento viene riservata al mondo delle bollicine

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a parola vino ha origine dal sanscrito e deriva da vena, dove ven significa amare, la stessa della parola Venus,Venere. Quindi il vino è da sempre legato all'amore ed alla gioia di vivere. Sarà per questo motivo che sempre più spesso gli enoturisti, o più in generale gli appassionati del nettare degli dei, amano perdersi tra le suggestive colline toscane, alla scoperta di profumi intensi e avvolgenti che ben sanno delineare la storia e la cultura di questa terra. Re assoluto è sicuramente il Sangiovese «in tutte le sue versioni Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, Chianti Classico, Morellino di Scansano» come mette in luce Osvaldo Baroncelli,

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presidente Ais Toscana. Qui la tradizione viticola risale al tempo degli Etruschi, ma negli anni sono subentrate sempre nuove tecniche di produzione. «Ormai da qualche anno, con l’utilizzo della zonazione, a ciascun terreno vi corrisponde una specifica cultura viticola – spiega l’esperto – e grazie alla formazione geologica della nostra regione, che contempla tutte le tipologie di suolo, abbiamo ottenuto grandi risultati in viticoltura». Quali sono i vini più antichi della Toscana? E quelli più giovani che si sono affermati negli ultimi anni, qualitativamente interessanti? «I vini antichi non esistono, sembrerà un paradosso ma nella nazione culla della viticoltura i vini nei secoli si sono sempre modificati. Tra i vini che hanno più storia alle spalle e provengono dalla più antiche famiglie nobili toscane, posso menzionare Antinori, Frescobaldi e Mazzei. Per vini giovani, se si intende quelli che non hanno tradizioni

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I vini della Toscana

secolari, la Toscana ne ha moltissimi. Questo perché negli ultimi venti anni si sono fatti ingenti investimenti nel rinnovare il vigneto toscano che hanno portato come conseguenza la nascita di nuovi prodotti corrispondenti alle esigenze attuali del mercato». Quali sono le caratteristiche organolettiche di questi vini? «Tutti i vini sono diversi, e quindi anche le

caratteristiche organolettiche sono specifiche come nelle personalità degli individui. In Toscana abbiamo un’ampia scelta di vini di qualità rappresentati in tutte le tipologie: vini bianchi, rossi, dolci, spumanti e ciascuna di queste esprime al meglio il territorio e l’azienda produttrice». Quali devono essere le caratteristiche, invece, dei terreni? «Ormai da qualche anno, con l’utilizzo della zonazione, a ciascun terreno vi corrisponde una specifica cultura viticola. Grazie alla formazione geologica della nostra regione, che contempla tutte le tipologie di suolo, abbiamo ottenuto grandi risultati in viticoltura». Com’è cambiata la produzione? «Sempre per gli investimenti fatti in

Osvaldo Baroncelli

In apertura, Osvaldo Baroncelli, presidente Ais Toscana

Il Divin... mangiar toscano Siamo in un piccolo ristorante tipico a gestione familiare. Dalla schiacciata al dolce qui è tutto prodotto artigianalmente e i menù sono decisi giorno per giorno rispettando la stagionalità dei prodotti, tutti rigorosamente toscani. Dall'olio delle colline fiesolane al riscoperto zafferano a vini ai salumi e formaggi, tutto proviene dalla zona di Firenze e Siena. Tra i prodotti di eccellenza spiccano le pappardelle sulla nana (anatra muta) e la cacciagione in dolce e forte.

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I vini della Toscana

Osvaldo Baroncelli

Toscana, molta tecnologia è arrivata in cantina, senza stravolgere però la tradizione e la genuinità del prodotto. In termini poi quantitativi, la riduzione, come in tutta Europa, è diminuita a vantaggio di una grandissima qualità che fa invidia al mondo». Quali sono le qualità più amate in Italia e all’estero? «In questo momento, sia in Italia che all’estero, i consumi ci suggeriscono una particolare attenzione ai vini con le bollicine. Inoltre, abbiamo osservato che c’è un’attenzione particolare verso il vino proveniente da particolari zone vocate e caratterizzato da uvaggi autoctoni. Essendo rappresentante della regione Toscana posso

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confermare che il nostro Sangiovese - in tutte le sue versioni Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano, Chianti Classico, Morellino di Scansano - ha sempre un importante pubblico d’estimatori». Quali sono le “strade del vino” che caratterizzano la Toscana? «Negli anni ho riscontrato un sempre maggior interesse da parte degli appassionati e degli enoturisti nel percorrere i tanti percorsi che sorgono nel nostro territorio e posso affermare che le vie che conducono alle aziende sono sempre più affollate, perché le realtà produttrici hanno capito che l’accoglienza è parte fondamentale della loro promozione».

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IL CLASSICO MODERNO

di NIKE GIURLANI

Il Riserva e il Casanuova di Nittardi sono due vini «che fondono tradizione e modernità» spiega Stefania Canali che insieme al marito Peter Femfert sono i proprietari della storica Fattoria Nittardi, un tempo appartenuta a Michelangelo Buonarroti

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ituata nel cuore della Toscana, tra Siena e Firenze, sorge la storica Fattoria Nittardi, che dal 1981 è di proprietà di Peter Femfert e di sua moglie Stefania Canali, produttori di Chianti Classico, Riserva e Casanuova di Nittardi. Questi «sono vini che fondono tradizione e modernità – spiega Stefania Canali –, le uve sono prodotte in vigneti moderni impiantati in un’antica fattoria, le notizie più remote la fanno risalire al 1182, data in cui non è certo si producesse già vino, mentre è noto e documentato che nel XVI secolo la proprietà era di Michelangelo Buonarroti, che con il nipote Lionardo, amministratore della fattoria, produceva dell’ottimo vino». La modernità sta nella «gestione agronomica dei vigneti – continua – dove non si risparmiano cure alle piante volte ad aiutarle al meglio possibile a produrre frutti sani e concentrati e nell’approccio enologico in cantina dove ci si limita a trasformare le uve nel

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modo poco invasivo per esaltare in pieno il terroir». Inoltre, la nota di modernità sta anche «nell’usare carati di rovere francese per esaltare le caratteristiche già intrinseche nelle uve» sottolinea la produttrice. La differenza la fa poi l’altitudine di Nittardi, «il microclima che privilegia la nostra vallata insieme a quello spirito di gruppo che caratterizza la nostra azienda, rappresentare uno stimolo forte che ci accomuna

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La tradizione in chiave moderna: Enoteca Pinchiorri Il legame con i prodotti toscani all’enoteca Pinchiorri è molto sentito. «A partire dalle verdure, passando per i pesci e le carni, cerchiamo sempre di trovare piccoli produttori ma con grande passione, che lavorino con noi per valorizzare al meglio i prodotti che scegliamo» spiega il maitre Alessandro Tomberli. «La nostra è una cucina d’autore con delle basi solide e questo ci permette di poterci esprimere in totale libertà, spaziando senza compromessi tra la cucina tradizionale e quella e moderna». Tra i piatti più rinomati troviamo «i doppi ravioli farciti di Burrata e faraona, con fon-

e ci spinge a sperimentare e a cercare il meglio in vigna e in cantina». Molti i clienti, sia italiani che internazionali, che prediligono l’etichetta Nittardi. «Ci piace mettere i nostri clienti tutti su un unico piano» rileva Stefania Canali, ma tra i più affezionati ci sono «Yoko Ono, Inge Feltrinelli, Günter Grass, Giovanni di Lorenzo». Quali sono le uve e le tecniche di produzione che utilizzate? «Nei nostri due vini Chianti Classico utilizziamo esclusivamente tre varietà, due storiche: sangiovese e canaiolo (nel Casanuova di Nittardi) ed una internazionale oramai nazionalizzata, il

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duta di parmigiano, sugo d’arrosto e timo che ben si lega al Monteso di Chianti Rufina 2004 Frescobaldi oppure la ricciola saltata un istante, marinata agli agrumi e finocchietto selvatico, petali di cipolla alla barbabietola e riso allo zafferano, ideale con un Sylvaner Eisektaler 2007 Peter Pliger». Se però si parla di Chianti Classico, la scelta ricade su una «quaglia farcita di porcini e pane toscano, con il suo uovo affrittellato e lenticchie di Castelluccio (nella foto), perfetto un Chianti Classico vigneto Bellavista 2004 Castello di Ama» conclude l’esperto.

merlot che usiamo in piccolissima percentuale (circa un 5%) nella nostra Riserva selezionata e che dona un tocco di moderna suadenza in più al vino. Nei nostri vini Maremmani (Nectar Dei e Ad Astra) utilizziamo fusioni di vitigni internazionali quali: syrah, cabernet sauvignon, petit verdot, merlot e in Ad Astra abbiamo voluto mettere anche del sangiovese di Maremma per renderlo più fresco e di pronta beva.Tutte queste varietà in Maremma esprimono le loro potenzialità tecniche e “seduttive” al meglio». Quali gli abbinamenti migliori? «Data la potenza dei vini, gli abbinamenti sono

Nella pagina a fianco, i proprietari Peter Femfert e sua moglie Stefania Canali; in alto, una veduta della fattoria Nittardi

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Chianti Classico

Fattoria Nittardi

In alto la cantina dell’azienda e i vitigni

da ricercare con carni rosse o cacciagione, formaggi oppure alcuni ristoratori hanno azzardato abbinamenti di Ad Astra, ottimo da servire leggermente freddo (16-18 °C), con crostacei e zuppe piccanti di pesce quale cacciucco e simili». A livello internazionale quali sono i mercati più interessati a questa qualità di vino? «Non ci precludiamo alcuna strada, ad esempio adesso siamo alla conquista di Asia, Cina e India. In Giappone, Corea e Hong Kong siamo presenti già da alcuni anni. Al momento il nostro mercato più recettivo è in Germania, in particolare, e tutto il nord Europa, più in generale». Qual è l’identikit di un appassionato del Chianti Classico? «È sicuramente una persona a cui piace bere

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bene senza compromessi, è disposto a pagare qualcosa in più per poter “degustare” un territorio unico al mondo non soltanto per la qualità dei vini a cui da origine ma anche per rievocare quelle bellezze naturali che lo contraddistinguono». Qual è stata la vostra annata migliore? Quale l’etichetta più pregiata? «Annate ottime ce ne sono state molte, ma in particolare ci piace ricordare la 98, la 2004 e la 2006. Abbiamo due vini d’altissima qualità, Nectar Dei e Riserva creati da uve altamente selezionate con un processo che parte da molto lontano, si inizia, infatti, con la potatura per poi passare ad una selezione particolare dei germogli (capi a frutto) per arrivare ad una preselezione in vendemmia verde (quando necessario) e infine cernita alla raccolta. La più costosa è il Nectar Dei».

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LA VALLE DELL’ARMONIA di MICHELA EVANGELISTI

“Terra che appare come un fondale della memoria o un luogo del sogno”. Così viene rievocata la Val d’Orcia in un verso del poeta Mario Luzi. E l’amministratore unico del parco, Daniele Visconti, non sa trovare descrizione migliore

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n eccezionale esempio di come il paesaggio naturale sia stato ridisegnato nel periodo rinascimentale per rispecchiare gli ideali di buon governo e per creare un’immagine esteticamente gradevole. Una fonte inesauribile di ispirazione per i pittori della scuola senese. Questa è la Val d’Orcia nelle parole dell’Unesco: un universo a sé, nel quale uomini e natura vivono in armonia. Nelle quattro stagioni come cambia la Val d’Orcia? «Il verde intenso della primavera esplode nel giallo oro dell'estate, il marrone dell’autunno cede il passo al grigio della terra lavorata in inverno, punteggiata dal bianco della neve. I paesaggi della Val d’Orcia hanno la straordinaria capacità di declinare ogni singolo colore in tutte le sue sfumature». La Val d’Orcia non è solo natura ma anche un reticolo di riferimenti storici, artistici e architettonici di

Siena va a nozze con La Cerimonia In 18 anni “La Cerimonia” ha collezionato centinaia di matrimoni di successo. La conoscenza capillare del territorio permette di presentare location dalle caratteristiche differenti, scelte con criteri di bellezza artistica, paesaggistica ma anche di funzionalità, sicurezza e comfort. La Cerimonia - Catering seleziona i migliori prodotti e controlla meticolosamente gli standard qualitativi affinché ogni piatto rappresenti un mix di genuinità e originalità. Il miglior risultato dell'evento è motivo di orgoglio, come la chiarezza dei costi, sempre espressa in fase preventiva e concordata con i clienti. Le esperienze vere sono il miglior allenamento per le idee e le capacità che sono in costante divenire.

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Entroterra senese

Parco della Val d’Orcia


Entroterra senese

Parco della Val d’Orcia

eccezionale valore. Quali le tappe imprescindibili? «I comuni che costituiscono la Val d’Orcia sono cinque e il mio suggerimento è quello di fare tappa in ognuno di essi. Poi consiglierei di visitare l’abbazia di Sant’Antimo a Montalcino, il borgo medioevale di Bagno Vignoni, Monticchiello, nel comune di Pienza, il Fosso Bianco di Bagni San Filippo e la frazione di Contignano a Radicofani». Un castello dove andare per rivivere le atmosfere del passato? «Sicuramente la Fortezza di Radicofani. Rappresenta un simbolo importante anche

nella storia e nella letteratura, essendo la dimora di Ghino di Tacco citato da Dante nella “Divina Commedia” e conosciuto per la sua ferocia nelle ruberie e nelle aggressioni e per le burle di cui parla anche il Boccaccio». Val d’Orcia è sinonimo anche di terme e benessere. «Certo, consiglio infatti una visita a paradisi termali come Bagni San Filippo e Bagno Pignoni, conosciuti da secoli per le qualità delle acque che sgorgano naturalmente. Il territorio offre ampia scelta per tutte le tasche, dai centri benessere di altissima qualità fino alla possibilità di un semplice bagno rilassante nelle piscine termali».

In apertura, Bagni San Filippo; nella pagina precedente, Daniele Visconti, amministratore unico del Parco e uno dei tanti castelli della Val d’Orcia; a destra, un podere immerso nel verde; nella pagina successiva, la quercia delle Checche 90 • Mete Grand Tour

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Tra boschi e sapori Una vacanza di relax, sport, riposo, avventura, immersi nella natura, nella storia e nell’arte. L’Hotel si affaccia sul panorama della Val d’Orcia, ai piedi del Monte Amiata e gode di tutti i comfort di un albergo a tre stelle. Le 28 camere, tutte con balcone, sono complete di servizi privati, Tv e telefono. Il ristorante, con la sua cucina casalinga è il posto ideale per gustare specialità tipiche toscane a base di funghi, cacciagione, pasta fatta in casa, carne alla brace. Imperdibile la tradizionale zuppa di funghi, preparata seguendo una ricetta tramandata in famiglia di generazione in generazione.

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La valle è ricca di prodotti agricoli e artigianali caratteristici. Quali sapori rincorrere e cosa portarsi a casa come souvenir? «I prodotti enogastronomici e quelli dell'artigianato locale fanno parte del patrimonio culturale immateriale, che ha una lunga tradizione e appartiene a uno stile di vita da proteggere e tramandare. Dopo una visita, oltre ai ricordi e a tante foto, conviene portarsi a casa un po’ dei nostri sapori: olio, vino, salumi di cinta senese, pecorino e zafferano». Ha un giorno libero: dove va a passeggiare? «Mi piace passeggiare lungo tutte le strade bianche che solcano il territorio della Val d’Orcia, dalle quali si può godere di panorami unici. Ma ci sono due luoghi che prediligo per un momento di serenità personale: la quercia delle Checche e il lago della Vittoria».

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LA VOCE DEL CONTADINO

La Val d’Orcia

di MICHELA EVANGELISTI

Tramandare le memorie dei mezzadri per conservare l’identità di una comunità. Gianfranco Pinzi ci racconta la Val d’Orcia della parsimonia “

““S

carpe grosse e cervello fino. È la voce del contadino”. Non è solo un vecchio proverbio, ma il titolo del libro di Gianfranco Pinzi, conoscitore delle tradizioni della Val d’Orcia, dove è nato e ancora vive, e presidente dell’associazione culturale Quelli della Vecchia. Nel suo libro ha raccolto storie raccontate dai personaggi che hanno vissuto nella valle, saperi e memorie dei mezzadri, per conservare

Gianfranco Pinzi, autore del libro Scarpe grosse e cervello fino. È la voce del contadino. Storie e memorie raccontate dai personaggi che hanno vissuto in Val d’Orcia

Tra wellness e natura Con incantevole panorama sulla Val d’Orcia e antichi borghi, come Pienza e Bagno Vignoni, l’Agriturismo Casa Picchiata dispone di splendidi appartamenti e camere arredati con mobili d’epoca, aria condizionata, camino. Il fiore all'occhiello della struttura è il nuovissimo centro benessere con piscina interna riscaldata panoramica, idromassaggio, nuoto controcorrente, musicoterapia, watsu, tisane, letti ad acqua, fitness, massaggi e fanghi all’argilla. Cucina casalinga tipica toscana. A testimonianza dell’eccellenza dei suoi servizi, l’Agriturismo Casa Picchiata ha ricevuto di recente l’“Oscar dell’agriturismo” consegnato ad Agri@tour 2010.

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La Val d’Orcia

Gianfranco Pinzi

Molti piatti tradizionali vengono ancora preparati nel rispetto delle antiche ricette

e tramandare le testimonianze di una “società della parsimonia”, della quale ormai si stanno perdendo le tracce. «Il vero autore del libro non sono io, che ho solo raccolto le interviste – spiega Pinzi – ma chi mi ha trasmesso le sue esperienze. Ho lasciato i racconti così come li ho ascoltati, senza snaturarli, perchè il loro stile povero e verace è il miglior modo per ricordare un mondo dove l’analfabetismo dominava, e quel pochissimo che si riusciva a racimolare lo si metteva da parte e lo si custodiva con cura». Nella valle c’è un panorama che preferisce? «La Val d’Orcia è la mia terra natale, quindi per me i suoi paesaggi sono tutti belli. La valle non ha fabbriche, strutture architettoniche che ne spezzino l’armonia, è tutta coperta di coltivazioni agricole, punteggiata di case coloniche, nelle quali lavoravano i mezzadri nel secolo scorso e che ora sono state per la maggior parte trasformate in accoglienti agriturismi. È un luogo di assoluto silenzio e di totale tranquillità».

Un tuffo nella natura

HOTEL BOSCO V.le Concetto Marchesi, 83 - Chianciano Terme (SI) Tel. 0578 64.307 info@hotelbosco.it - www.hotelbosco.it

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Situato in posizione centrale ma silenziosa, l’hotel Bosco gode di una bella panoramica, di fronte al Parco Fucoli, a 200 metri dal Parco Acquasanta e Terme Sensoriali e a soli 50 metri dal centro medico "Chianciano Salute". L’hotel è gestito direttamente dai proprietari che promuovono una cucina particolarmente curata, che ogni giorno propone i più raffinati e ricercati piatti della cucina toscana. La prima colazione è con buffet all’italiana, per il pranzo e la cena è disponibile un doppio menù a scelta. L’hotel è dotato di bar, solarium, un ampio giardino e un grande parcheggio alberato, una piscina circondata dal verde dei prati e della pineta sovrastante; è disponibile inoltre un campo per il gioco delle bocce.

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C’è un posto al quale è particolarmente affezionato, che le fa riaffiorare ricordi d’infanzia? «Alcuni piccoli castelli, come Castelluccio, Castelvecchio e Spedaletto, con annesse vecchie fattorie medioevali, dove da bambini si era soliti riunirsi. Arrivavamo a piedi, perché a quei tempi non avevamo nemmeno una bicicletta, e stavamo in compagnia. Un punto d’aggregazione per noi ragazzi era anche il fiume Orcia, in fondo alla valle, dove accompagnavamo al pascolo il bestiame». Ha un itinerario, magari poco noto, da suggerire a un turista curioso? «Nella valle ci sono tanti percorsi ricchi di suggestioni da seguire e i dieci paesi che la compongono hanno tutti alle spalle una storia particolare e interessante.Valgono sicuramente una visita San Quirico d’Orcia, dove passava la vecchia strada Francigena, e Radicofani, che fu il castello del Robin Hood italiano, ovvero Messere Ghino di Tacco. Nella seconda quindicina di luglio suggerisco una tappa a

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Monticchiello, per assistere agli spettacoli del “Teatro povero”, che opera da quasi quarant'anni nel borgo. Gli abitanti presentano un “autodramma” elaborato collettivamente nel corso dell’inverno, che, prendendo spunto dalla storia della comunità, affronta tematiche di attualità. Il testo, in toscano, ma facilissimo da seguire, è leggero, agile, schietto, con spunti che lasciano spazio alla risata come alla riflessione più profonda. La nostra lingua è povera e confusa, è un dialetto misto, di cui il turista può apprezzare la ricchezza». Quali sono i sapori caratteristici della valle e le ricette della tradizione? «L’economia della valle è prettamente agricola, ma la terra è povera, adatta a produrre solo grano, fave, cereali. Fagioli, ceci e lenticchie sono stati per secoli la carne del contadino. Molti dei piatti tradizionali vengono ancora preparati negli agriturismi, nel rispetto delle antiche ricette: la pappa col pomodoro, i pici - spaghetti grossi fatti a mano - con sugo di carne o pomodoro, i frascarelli».

Sopra, il castello di Radicofani

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POLVERE DI FIORI di MICHELA EVANGELISTI

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Un aroma inconfondibile e mille proprietà. Con Egisto Brandi, da quindici anni contadino di mestiere e un passato da consulente agronomico, scopriamo lo zafferano della Val d’Orcia Novembre 2010


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aleotta fu la cena. Assaggiando una gustosa pietanza a base di zafferano preparata da una zia della moglie, Egisto Brandi rimase folgorato dalla preziosa e versatile polvere gialla, ricavata dallo stimma della pianta Crocus sativus. Incuriosito, andò a far visita ai padri dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore e attraverso i loro racconti e una ricerca nella biblioteca del monastero si documentò sulla storia dello zafferano, le cui prime tracce nella zona risalgono alla metà del XIII secolo. Da una breve trasferta all’altopiano di Navelli tornò a casa con alcuni bulbi. Siamo nel 1995 e inizia l’avventura. Oggi nell’azienda agricola Brandi, a San Quirico d’Orcia, lo zafferano occupa circa 12.000 metri quadrati di terra: si tratta, e Brandi lo dice quasi con stupore, della più grossa coltivazione singola d’Italia (le altre sono gestite

Lo zafferano

Egisto Brandi

Note classiche e sapori senesi La panoramica via Lauretana, che congiunge Siena ad Asciano, si snoda tra colli e cucuzzoli. In questi sentieri c’è tutto il fascino della terra delle “crete”. Dopo 20 chilometri si arriva al borgo di Asciano, immerso nel verde della valle del fiume Ombrone. Per chi ama la musica classica è il posto ideale. Ogni anno, infatti, la piccola cittadina ospita concerti e rassegne. Come sempre il ristorante pizzeria La Mencia si fa trovare pronto con i suoi prodotti tipici. Posto d’onore per la carne chianina, il tartufo e il carciofo di Chiusure. Ma sono solo alcune delle tante prelibatezze senesi che l’esperienza de La Mencia è in grado di mettere in tavola.

LA MENCIA Corso G. Matteotti, 85 - Asciano Tel 0577 71.82.27 www.lamencia.it

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Come fatto in casa Siamo nell’antico e suggestivo borgo medioevale di Sant’Angelo in Colle in una piccola piazzetta davanti al vecchio pozzo del paese. Ed è stato proprio il vecchio pozzo ad aver dato il nome alla trattoria gestita dalle sorelle Paola e Franca, che in nome del rispetto della tradizione propongono piatti locali caratteristici: le zuppe, la pasta fatta in casa, la scottiglia, la carne alla brace e tante altre specialità. Da non perdere i dolci casalinghi fatti personalmente da Paola e Franca. Inoltre la trattoria propone una vasta scelta di vini locali dal Brunello di Montalcino, al rosso, al Moscadello, vini che possono essere degustati accanto al caminetto nel fredde serate invernali.

In apertura, Egisto Brandi impegnato nella raccolta; a destra, stimmi di zafferano

da cooperative o associazioni) e contribuisce per il 18-20% alla produzione nazionale. Quali sono le caratteristiche del suo zafferano? «Produco soltanto zafferano in stimmi. Quello in polvere che si trova in commercio viene tagliato con altre sostanze, per lo più con il cartamo. In assenza di una precisa legge di tutela, venderlo direttamente in filamenti è l’unico modo per garantirne la totale genuinità». Come mai la coltivazione dello zafferano, diffusissima tra Seicento e Settecento, poi declinò? «Perché era richiesto un impegno di manodopera notevole e l’avvento dell’era industriale provocò un vero esodo dalle campagne verso i centri urbani». Quali sono i momenti più delicati della coltivazione? «Il primo, tra luglio e agosto, è la fase nella quale si cavano i bulbi per poi rimetterli a dimora. Il secondo è tra ottobre e novembre,

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TRATTORIA “IL POZZO” Piazza del Pozzo 2 Sant’Angelo in Colle - Montalcino Tel. 0577.84.40.15

nel periodo della fioritura: ogni mattina bisogna uscire a raccogliere i fiori, perché il giorno successivo non sono più buoni, e tassativamente entro 8/10 ore devono essere puliti e separati, ovvero i 3 stimmi rossi presenti in ogni fiore devono essere divisi dai 3 stimmi gialli. A volte, per non perdere prodotto, si lavora anche la notte». Allo zafferano vengono attribuite eccezionali proprietà. «Straordinarie qualità medicali gli sono riconosciute fin dall’antichità. Galeno usava lo zafferano per ridurre le emorragie intestinali, le gastriti e le ulcere. Sono provati i suoi effetti benefici sul sistema nervoso centrale, sulla regolarità dei cicli femminili e le sue doti di afrodisiaco. Bisogna fare attenzione però, perchè in dosi massicce può rivelarsi letale». Come lo si impiega in cucina? «Lo zafferano in cucina sta bene ovunque, dall’antipasto al dolce. Nella zona le pietanze più conosciute sono il coniglio con lo zafferano, la trippa alla montalcinese e le pizze di Pasqua».

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iStockPhoto/Veni

MAGIA DELLE ACQUE di PAOLA MARUZZI

Il restyling del prestigioso Grand Hotel Ambasciatori va sotto il segno del benessere e del relax. Nel cuore della Toscana nasce una Spa panoramica che rievoca lo spirito di Chianciano Terme: terra delle acque, del buon cibo e di felliniana memoria

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ofisticate o minimaliste, le strutture turistiche non sono mai isole sganciate dalla realtà circostante. Il territorio, con il suo carattere e il suo immaginario, filtra e si rispecchia nel savoir faire dell'ospitalità. Il patrimonio paesaggistico della Val d'Orcia e della Valdichiana, riconosciuto anche dall’Unesco, fa scattare la molla della suggestione già prima di aver poggiato le valigie.

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Perché le colline toscane regalano uno spettacolo inimitabile. E perché da qui si dirama uno degli itinerari enogastronomici più rappresentativi del made in Italy: il vino Nobile di Montepulciano, i salumi di cinta senese e la bistecca di razza Chianina sono solo alcuni dei prodotti tipici. «Il nostro albergo è sospeso in quest'atmosfera – spiega Daniele Barbetti, proprietario del Grand

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Hotel Ambasciatori – a metà strada tra Montepulciano, Montalcino, le terre del Chianti e, dulcis in fundo, Chianciano Terme. È stato quindi naturale per noi ripensare la nostra offerta turistica focalizzandoci sul benessere, guidati dalla filosofia di mettere al centro la persona, offrendo un soggiorno all'insegna dell’equilibrio tra mente, corpo e natura». Lo sa bene Daniele Barbetti, che oltre a condurre l'Hotel assieme alla famiglia da quattro generazioni, è membro del cda della Fondazione del Museo Archeologico delle Acque: un'opportunità che Chianciano offre a coloro che, oltre al benessere, vogliono ripercorrere i segni delle civiltà etrusca e romana. «Salus per aquam, erano infatti soliti dire i latini. Bisogna saper scavare nella storia e nelle tradizioni di un luogo per riscoprire quel valore aggiunto che solo la cultura e il territorio possono offrire». Uno sguardo al passato per aprire nuovi orizzonti sul futuro. Il sentiero tracciato in decenni di attività dal prestigio delle Terme di Chianciano ha stimolato la creatività degli imprenditori locali. Dalla prossima primavera infatti presso il Grand Hotel Ambasciatori sarà attivo un centro benessere che

In alto, il Centro benessere Salone Sensoriale delle Terme di Chianciano www.termechianciano.it

si colloca sul solco della grande tradizione termale. «La Spa sarà dotata di una piscina coperta riscaldata di circa 200 mq, bagno turco, sauna, grotta del sale, cascate di ghiaccio ed una prestigiosa Spa Suite, per una superficie complessiva di oltre 500 mq dedicati al benessere. Sarà un wellness center completo delle più moderne tecnologie e con una vista panoramica unica nel suo genere». Originale è sicuramente la decisione di collocare la Spa all'ultimo piano dell’Hotel. Attraverso le vetrate si apre una A sinistra, duplice emozione: da una parte il relax, dall'altra ill Grand Hotel Ambasciatori lo spettacolo della vista delle colline della Val www.barbettihotels.it d’Orcia e della Valdichiana, fino ad abbracciare con lo sguardo il Lago Trasimeno e il Monte Amiata. Il centro benessere non è l’unico work in progress del’Hotel «stiamo infatti realizzando nuove suite ed ampliando le sale meeting, con il fine di integrare al meglio l’offerta del benessere con quella della enogastronomia e della cultura. Perché vogliamo che il nostro Hotel sia solo il primo assaggio di quel menù ricchissimo che è il nostro territorio».

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ROMA POLICENTRICA di MICHELA EVANGELISTI

«È difficile vivere a Roma ma è impossibile viverne lontano». È l’aforisma che Roberto Gervaso dedica alla città eterna, della quale ci parla con amore, cinismo e ironia

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In apertura, la cupola della chiesa di Sant’Agnese; in alto a destra, Roberto Gervaso

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na città che non si stupisce più di nulla, che non è tollerante ma menefreghista, che non è generosa ma calcolatrice. Un ritratto a tinte forti quello che emerge dalle parole di Roberto Gervaso. Lo storico, giornalista e scrittore, in onda tutte le mattine dal lunedì al venerdì su Rete Quattro con la trasmissione “Peste e corna”, non ha mezze misure. «Roma è una vecchia baldracca, piena di rughe, verruche, acciacchi e vene varicose, grassa e flaccida. Continua a fare marchette, ma puoi pagarla in cambiali o con un assegno a vuoto, che tanto non succede niente. Ormai ne ha viste talmente tante, e tante ne ha fatte, che è indifferente a tutto. Non può meravigliarsi di nulla una città dove sono passati tutti gli eserciti: può solo vivere alla giornata, alla nottata, lasciar correre. L’importante è che non si turbi il suo equilibrio». Ma, nonostante le sue bassezze, è una città che non puoi fare a meno di amare. Perché è saggia, perché conserva le vestigia di un passato glorioso, perché quando ti siedi nelle sue hostarie ti sembra di entrare in un film di Alberto Sordi e hai la certezza di alzarti con la pancia piena. Il luogo di Roma che ama di più? «Ovviamente il Colosseo, vicino al quale abito. Anzi, è il Colosseo che abita vicino a me!» Un luogo legato a un ricordo? «Via Santa Maria dell’Anima, dove ho abitato dal 1967 al 1972. Avevo la compagnia dei miei trent’anni e una splendida mansarda, che nei momenti felici trasformavo in una garçonniere. Lì ho scritto la mia storia d’Italia e dalla scrivania godevo di una vista

meravigliosa sulla cupola di Sant’Agnese. È stato senza ombra di dubbio il periodo più spensierato della mia vita. Piazza Navona all’epoca non era ancora quel luna park che è diventata ora; Indro Montanelli abitava al numero civico 93. Mi bastava attraversare la piazza ed ero a casa sua. In quel periodo andavo da lui ogni giorno, erano gli anni in cui lavoravamo insieme». Ha un itinerario meno noto da suggerire a un turista curioso? «Consiglierei di seguire l’Appia antica, lungo la quale si incontrano una natura rigogliosa, reperti archeologici, le catacombe, la splendida tomba di Cecilia Metella e ville meravigliose». Dove batte il cuore più autentico di Roma? «Roma è una città policentrica. Uno dei suoi cuori è sicuramente localizzato in piazza di Spagna; poi c’è un altro centro, che possiamo

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I mille volti della capitale

Roberto Gervaso

A destra, un tratto dell’Appia Antica; in basso, piazza Navona

definire strategico e topografico, in piazza Venezia, perché è da lì che si prendono le misure delle distanze della città. Poi ci sono altri cuori: la fontana di Trevi - forse uno dei più affollati -, piazza Navona, piazza Barberini. Ma la Roma che vogliono vedere i turisti, che è anche la Roma più bella, è quella dove abito io, la Roma antica del Circo Massimo, del Colosseo, della Domus Aurea, delle terme di Traiano, dell’arco di Costantino. La vecchia Roma, invece, la si respira a Trastevere, un rione che io amo molto, ma che ormai è diventato una casba. Roma è l’unica città africana senza un quartiere europeo, diceva Ennio Flaiano. Una descrizione oggi più azzeccata che mai. La capitale è ormai un guazzabuglio di etnie, i

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I mille volti della capitale

Roberto Gervaso

Un particolare della Fontana di Trevi di Roma

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I mille volti della capitale

Roberto Gervaso

romani sono in netta minoranza». Cosa le manca di più di Roma quando è in viaggio? «Tutto, soprattutto il peggio: la confusione, la finta bonarietà, la maleducazione e la falsa tolleranza, di una città che non si meraviglia più di nulla. Nel racconto di Ennio Flaiano, “Un marziano a Roma”, quando l’extra terrestre sbarcava in città erano tutti stupiti e curiosi. Poi pian piano è diventato un romano anche lui, e nessuno si accorgeva più della sua presenza. Poi di Roma mi mancano anche le vestigia - il Colosseo, la Domus Aurea, che hanno recintato perché non hanno i soldi per restaurarla - i rumori, gli odori e i sapori». Dove va a cena e quali sono i piatti che predilige? «Le hostarie offrono il meglio della gastronomia romana, e non solo. Sono ancora a conduzione familiare, il proprietario sa fare il proprietario e fa una scenata davanti a tutti se un piatto non è buono o il servizio si allasca. Al loro interno, tra vecchi frigoriferi, pareti in legno, vecchine che fanno capolino dalla cucina, si respira l’atmosfera dei vecchi film di Alberto Sordi; sembra di tornare indietro nel tempo, negli anni 50 e 60, quando sono nate. Alcune purtroppo stanno chiudendo, schiacciate dalla concorrenza, ma le migliori sopravvivono – almeno finché sopravvivono i proprietari - perché si spende poco, si mangia bene e il servizio è rapido. Sotto casa ho la trattoria Nerone, dove amo cenare. Sono frugale, l’abbacchio non mi piace e trovo che la trippa sia l’equivalente di una colata di piombo nello stomaco. Preferisco ordinare il baccalà alla romana o gli gnocchi».

Nelle hostarie romane, tra vecchi frigoriferi e pareti in legno, si respira l’atmosfera dei film di Alberto Sordi

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La Viterbo medievale

Alfio Cortonesi

LA CITTÀ DEI PAPI

di NIKE GIURLANI

Perdersi nel quartiere di San Pellegrino per scoprire il fascino medievale di questa città, nella quale «i papi trascorsero nel Duecento, dopo il Pontificato di Innocenzo III, dei lunghi periodi» come ci illustra il professor Alfio Cortonesi

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La Viterbo medievale

Alfio Cortonesi

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ra la fine del XII e il XIII secolo, i papi avevano l’abitudine di trasferirsi in diverse città del Lazio per varie ragioni. «L’itineranza pontificia poteva essere legata a motivi politico-militari, per esempio se la loro presenza non era reputata sicura, o per motivi climatici, perchè nelle stagioni calde preferivano cercare refrigerio altrove, inoltre – spiega il professor Alfio Cortonesi, professore ordinario di Storia Medievale presso l’Università degli Studi della Tuscia – perché in altri luoghi pensavano di trovare un approvvigionamento più facile». Principalmente questi spostamenti si sono avuti «verso Anagni e Viterbo e, proprio in questa città, i papi trascorsero nel Duecento, dopo il Pontificato di Innocenzo III, dei lunghi periodi». Per rivivere le atmosfere medievali il professor Cortonesi suggerisce di visitare, o meglio, di perdersi tra le strade del quartiere di San Pellegrino, per poi attraversare il ponte del Paradosso e andare alla scoperta di un altro importante quartiere, quello di Piano Scarano. Che cosa ha significato per la città di Viterbo? «Sicuramente dei benefici immediati, perchè il papa

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In apertura uno scorcio di Palazzo Alessandri; in alto, una veduta esterna del palazzo papale; a sinistra, il professor Alfio Cortonesi, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università degli studi della Tuscia

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La Viterbo medievale

Alfio Cortonesi

In alto, una veduta esterna di Palazzo Gatti

si muoveva con la curia pontificia e quindi con diverse centinaia di persone. Questo comportava un interessante mercato dei beni commestibili e dei beni immobili. Di fatto, quindi, si registrava una vitalità diffusa nella città e, inoltre, si attestano delle conseguenze di carattere politico. La presenza dei papi ha comportato, infatti, il consolidamento della famiglia dei Gatti, che ha rappresentato un punto fermo nella storia del medioevo viterbese». Qual è l’episodio più significativo che si è svolto nella famosa Sala del Conclave del Palazzo dei Papi? «È legato all’elezione di Gregorio X, che comportò un conclave cardinalizio molto lungo, durato dalla morte del suo predecessore Clemente IV, nel novembre del 1269 fino alla nuova elezione avvenuta quasi due anni dopo. Questo conclave fu motivo di scandalo anche per la popolazione viterbese che esercitò delle forti pressioni affinché i cardinali scegliessero al più presto il successore, che fu appunto il papa Tebaldi, di origini piacentine, il quale prese il nome di Gregorio X». Qual è il modo migliore per conoscere

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la Viterbo medievale? «Senza dubbio, il modo migliore e più affascinante per conoscere la Viterbo medievale è perdersi tra le strade del quartiere di San Pellegrino, caratterizzato da emergenze architettoniche tipiche del periodo storico, come, per esempio, la facciata esterna di Palazzo Gatti o il palazzo degli Alessandri. Molte poi le torri gentilizie di altre importanti famiglie della città. Questo quartiere è ben conservato ed è interessante ammirarne la storia perchè si riesce a scorgere la “potenza arcigna” che ben è stata descritta in passato dallo scrittore Virgilio Marchi. Anche la pietra tufacea contribuisce ad arricchire questo paesaggio conferendo una tonalità scura all’intero quartiere che lo differenzia dal laterizio toscano o dal calcare di altri centri storici medievali dell’Alto Lazio. Suggerisco poi di compiere un’incursione al ponte del Paradosso, situato a valle del quartiere di san Pellegrino, che lo divide da un altro importante quartiere, quello di Piano Scarano, ricco anch’esso di significative testimonianze medioevali, ma che forse resta un po’ fuori dai classici tour della città, ma che invece merita di essere visitato».

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SANTA ROSA ILLUMINA VITERBO Tradizioni religiose

Suggestivo e coinvolgente, il trasporto della Macchina di Santa Rosa affascina ogni anno migliaia di turisti. Una lunga tradizione che emoziona e coinvolge il pubblico presente, come racconta il presidente del Sodalizio dei Facchini Massimo Mecarini

La Santa bambina

di NIKE GIURLANI

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na data, in particolare, caratterizza il calendario della città di Viterbo. Si tratta del 3 settembre che, da oltre 750 anni, vede come protagonista la Macchina di Santa Rosa, una torre illuminata, alta 28 metri e pesante 50 quintali, portata a spalla per le vie della città dai Facchini. «La tradizione del trasporto della Macchina di Santa Rosa nasce il 4 settembre del 1258, data in cui avvenne, per volontà di Papa Alessandro IV, la solenne traslazione del corpo intatto della Santa viterbese dalla modesta sepoltura della fossa comune di Santa Maria del Poggio al Monastero della Clarisse, che poi prese il nome di colei che i viterbesi chiamano “la Santa Bambina”, morta a soli 18 anni, nel marzo 1251» spiega il presidente del Sodalizio dei Facchini, Massimo Mecarini. «Il baldacchino sul quale venne effettuata la traslazione, crebbe con gli anni in ricchezza di particolari, strutture artistiche aggiuntive e altezza». La celebrazione venne poi divisa in due distinti momenti: il pomeriggio del 2 settembre con la

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In apertura, la Macchina di Santa Rosa; sopra, il presidente del Sodalizio dei Facchini, Massimo Mecarini e il capo facchino Sandro Rossi; nelle pagine successive, i facchini durante il trasporto della Macchina di Santa Rosa

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La Santa bambina

sfilata del corteo storico, in cui la reliquia del cuore della Santa viene portato in processione e la sera del 3 settembre con il trasporto vero e proprio della Macchina di Santa Rosa. Come si diventa facchino? «Tutti i facchini e gli aspiranti tali devono superare la “prova di portata”, introdotta nel 1968, che consiste nel trasportare sulle spalle per circa 90 metri una cassetta riempita con lastre di ghisa del peso complessivo di 150 chilogrammi. La prova si svolge ogni anno alla fine di giugno all'interno dell'ex chiesa di Santa Maria della Pace. Le prove vengono valutate da una commissione che, in base ai risultati, stila la formazione che effettuerà il trasporto il successivo 3 settembre. La posizione che ogni facchino assumerà durante il trasporto viene stabilita in base all'altezza e, soprattutto, all’esperienza». Come sono divisi durante il trasporto? «I facchini che hanno portato a termine un maggior numero di trasporti sono, in genere, posizionati sotto la base della Macchina e vengono chiamati “ciuffi ”, dal particolare copricapo in cuoio imbottito, utilizzato per proteggere la zona cervicale, sulla quale ricade il peso maggiore. Ai lati della base si trovano le “spallette”, così chiamate perché durante il

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trasporto sostengono la Macchina appoggiandola sulla spalla, e si distinguono in “spallette fisse” e “spallette aggiuntive”, queste ultime entrano in formazione solo nei tratti più larghi del tragitto». Qual è il percorso che caratterizza il trasporto della Macchina? «Il trasporto avviene su un percorso di circa un chilometro che prevede cinque soste. La partenza è da piazza San Sisto alle ore 21.15, dopo che i Facchini hanno ricevuto nella vicina chiesa la benedizione in “articulo mortis”. Il capo facchino inquadra tutti i suoi uomini ai piedi della Macchina, ripete l’ordine di “accapezzate il ciuffo”, poi chiama le file dei facchini per raggiungere i posti assegnati. Segue poi l’esortazione: “Facchini di Santa Rosa, semo tutti de ‘n sentimento?”, alla quale rispondono tutti con un coro unanime di sì. Allora, “sotto col ciuffo e fermi... Fermi!”, seguito dal fatidico, “sollevate e fermi. Per Santa Rosa, avanti”. La prima sosta è a piazza Fontana Grande, si prosegue poi in piazza del Plebiscito davanti al Palazzo Comunale e alla Prefettura e prima di appoggiarla sui cavalletti i Facchini fanno compiere alla Macchina uno o più giri su se stessa, di solito per ricordare i Facchini

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recentemente scomparsi o qualche personaggio illustre o un evento che ha caratterizzato la vita della città o della Nazione. Durante questa sosta i Facchini rendono poi omaggio alle autorità, per poi continuare in direzione della Piazza delle Erbe, accanto alla famosa fontana con i leoni». E le successive tappe? «La quarta è davanti alla Chiesa del Suffragio, prima di affrontare la parte più stretta: Corso Italia. La quinta è a piazza del Teatro dove i Facchini si riposano prima di prepararsi alla

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parte finale del percorso da farsi in salita e di corsa. Gli uomini che compongono la formazione aumentano, oltre i consueti 113, si aggiungono 20 facchini addetti alle leve ed altri 30-35 uomini alle corde. Si affronta quindi di corsa l’erta finale per giungere sulla piazzetta, intitolata proprio ai Facchini di Santa Rosa, di fronte al Santuario. Qui avviene l’ultima “girata” e poi la splendida costruzione viene posata definitivamente sui cavalletti, con la statua della Santa rivolta verso il Santuario».

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IL MIO PALCO

di FRANCESCA DRUIDI

Bitonto e Santo Spirito sono i luoghi dell’infanzia. Bari è quello della formazione e della realizzazione professionale. Le mete dell’anima di Michele Mirabella

foto: Carlo Cofano (Iesseppi News)

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i sono sogni nella vita che paiono lontani, quasi irraggiungibili. Tra questi, si può senz’altro annoverare quello di riuscire a sfatare l’antipatico detto secondo cui “nessuno è profeta in patria”. Riuscire, infatti, a realizzare qualcosa di importante nella propria città, nella propria zona di appartenenza, non è una missione da poco. Ed è la sfida che attende Michele Mirabella, docente, regista teatrale nonché conduttore televisivo, amato dal pubblico che lo segue

da anni con “Elisir” e oggi con la nuova trasmissione “Apprescindere”. Il 6 dicembre dirigerà il dittico “Il Tabarro” di Giacomo Puccini e “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni, chiamato a inaugurare la nuova stagione d’opera al teatro Petruzzelli di Bari. Non un luogo qualunque, come sottolinea lo stesso Mirabella: «Dirigere nel teatro che da bambino guardavo alla stregua di un tempio, che ho visto bruciare e poi essere ricostruito -io stesso ho collaborato per farlo

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In apertura, Michele Mirabella durante le prove de “Il Barbiere di Siviglia” portato in scena a settembre al Teatro Petruzzelli; sopra, Corso Vittorio Emanuele a Bari

ricostruire- rappresenta una grande soddisfazione». Non è un’emozione da poco, insomma. «Sono molto contento di questa chance che ho e, ribadisco, sono felice fino alla commozione di inaugurare con la mia firma la stagione lirica del Petruzzelli». Nato a Bitonto, il professore della televisione italiana, come è stato più volte soprannominato, oltre alla passione che lo lega al teatro, ripercorre altri ricordi e fotografie del suo passato e del suo presente in Puglia, sempre con elegante ironia. Quali sono i paesaggi che maggiormente la legano a Bari? «Senz’altro sono legato ai cinema, ma soprattutto ai teatri di Bari, il Piccinni, il Kursaal e il Petruzzelli, dove ho vissuto il mio apprendistato artistico e professionale. Ma il luogo che più mi attrae di Bari è

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Bitonto, il paese nel quale sono nato. A dire il vero, mi piace tutta la provincia del capoluogo pugliese». Vi sono sensazioni che lei associa in maniera indelebile alla sua città natale? «Sento ancora in modo vivido gli odori e i profumi e ricordo bene la natura della mia infanzia. A stagliarsi nitidamente nei miei pensieri è poi il borgo di Santo Spirito, che si trova a undici chilometri da Bari, dove possiedo ancora quattro mura e un pezzo di prato. È davvero un borgo di mare meraviglioso, lo amo molto, anche perché vi ho trascorso tutte le estati dell’infanzia. L’infanzia del favonio, del föhn, del vento caldo dell’estate. Rammento quando, verso le 2 del pomeriggio, si sollevava questa specie di alito bollente, secco, che poi diventava umido e sciroccaccio. Per questo mi piace. L’aria era, inoltre, intrisa di questo odore di salmastro delle alghe, del mare, dell’Adriatico, così brutale quando vuole, come sa essere solo un vero mare». Quali sono gli angoli, gli scenari, di Bari che consiglierebbe a chi non ha mai visitato la città? «Sicuramente lo stupendo Corso Vittorio Emanuele, lungo, arcigno e dolce allo stesso tempo. E poi Borgo Antico che identifica la radice, la semenza, da cui nascono la città moderna e il Borgo Murattiano. Volendo ci si può avventurare nel Borgo Murattiano, dove credo si concentri la più grande esibizione di negozi moderni d’Europa». Particolare sarà anche il rapporto con l’Università di Bari, che l’ha vista prima nei panni di studente e successivamente nel

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Borgo di Santo Spirito, foto: Viaggiare in Puglia (Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia)

ruolo di docente. «Sì, non può che essere tale. Tutta la vita universitaria è bella o almeno era bella, non ho certezze su come possa profilarsi allo stato attuale vista da uno studente. Di certo, io e i miei coetanei venivamo da un liceo come si deve. Eravamo felici di esserci emancipati dalla routine scolastica ed entusiasti della novità. Si sta parlando dei momenti più belli della nostra vita, però non lo sapevamo, non ne avevamo la contezza o la percezione». Tornando al teatro, è forse banale affermare come il suo legame con il teatro Petruzzelli sia decisamente ben solido. «Il 6 dicembre debutto con il dittico di opere

Santo Spirito è un borgo di mare meraviglioso, vi ho trascorso tutte le estati dell’infanzia

Come a casa vostra

TRATTORIA NONNA MARIA Piazza Garibaldi, 5 - Monopoli (BA) Tel. 080 93.01.997 - Cell 333 92.04.545 www.trattorianonnamaria.com

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La trattoria Nonna Maria offre il meglio della cucina tipica casalinga. Nel centro storico di Monopoli, in un antico Fondaco, nella sua semplice e ospitale essenza, la trattoria abbina alla cucina tradizionale locale quella nazionale, utilizzando sempre prodotti freschi di stagione. Questo antico Fondaco oggi ospita le bontà di Maria Doria. Non è lei la nonna, infatti ha solo 35 anni, ma è proprio sua nonna ad avergli tramandato tutta la sua esperienza tra forno e fornelli. Le specialità sono i frutti di mare crudi, i carpacci di pesce, il tubettino allo scorfano, crostacei vivi, zuppa di pesce e la favolosa frittura di paranza.

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Bari

Michele Mirabella

Sotto, un’altra immagine de “Il Barbiere di Siviglia” al Petruzzelli per la regia di Michele Mirabella

liriche “Cavalleria rusticana” e “Il Tabarro” che dirigo in occasione dell’inaugurazione della stagione del Petruzzelli, coronando il sogno della mia vita. L’ho già fatto con “Il Barbiere di Siviglia” il 24 settembre scorso ed è stato memorabile. Dirigere nel teatro che da bambino guardavo alla stregua di un tempio, che ho visto bruciare e poi essere ricostruito -io stesso ho collaborato per farlo ricostruire- rappresenta una grande soddisfazione. Non è un sogno da poco quello che si sta avverando. Sono molto contento di questa chance che ho e, ribadisco, sono felice fino alla commozione di inaugurare con la mia firma la stagione lirica del Petruzzelli. Credo molto in questo genere di segnali e di emozioni. Provo forti queste sensazioni». Se dovesse fare riferimento a un

Menhir a Palombaio, frazione di Bitonto. Foto: Viaggiare in Puglia (Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia)

piatto che ama e che apprezza della tradizione gastronomica della sua zona, cosa sceglierebbe? «È stata appena promossa sul campo la dieta mediterranea come patrimonio dell’umanità. E la Puglia ha una gran parte di merito in questo senso. La cucina mediterranea, e pugliese in particolare, è sontuosa di cose povere. Innanzitutto di grandi verdure: grandi peperoni, sedani, finocchi, cicorie, lattughe, cardi, carciofi e sublimi cime di rape, oltre alle meravigliose fave. Io celebro in particolar modo il magnifico olio extravergine d’oliva della Puglia, soprattutto della zona di Bari e segnatamente di Bitonto». Può indicarmi un locale, un ristorante, in cui è solito recarsi? «Sono due. Frequento la celeberrima “La Pignata” e il ristorante-trattoria-pizzeria che, fin da quando eravamo ragazzi, ha ospitato i nostri frugali conviti, ossia la gloriosa Taverna Verde».

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PALERMO CANAGLIA

di ADRIANA ZUCCARO

Così Roberto Alajmo descrive l’amore per la sua città. Piena di forze e contraddizioni, di tracce invisibili e leggende manifeste. E se c’è un luogo che ne racconta l’essenza, il mercato di Porta Carbone si fa voce narrante

G In alto, Roberto Alajmo, autore dell’ultimo L’arte di annacarsi

reci, romani, arabi, normanni e spagnoli. Le tante le dominazioni che si sono susseguite in Sicilia hanno lasciato tracce indelebili.Tra queste però, non poche sfuggono allo sguardo del turista convenzionale. A Palermo, ad esempio, «non esistono tracce del mondo ebraico nonostante siano forti nel carattere proprio dei siciliani. Non per nulla diceva Moni Ovadia che la Sicilia è l’unico paese medio-orientale a non aver mai dichiarato guerra a Israele». Attraverso lo svelamento di verità storiche e popolari, lo scrittore palermitano Roberto Alajmo racconta il suo amore per la Sicilia e lo paragona a quello che in fondo si prova per una canaglia. «Tu sai che è una canaglia ma non puoi farci niente». Attraverso quali dettagli è riuscito a ricucire le invisibili tracce ebraiche lasciate in Sicilia? «Studiando e osservando il carattere dei siciliani e confrontandolo con altre popolazioni. Indagando per esempio il rapporto con la madre, molto profondo in tutti i Paesi del Mediterraneo, ma particolarmente forte in Sicilia. Così mentre la

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madre ebrea magari dice “se non mangi mi ammazzo” la madre siciliana dice “se non mangi ti ammazzo”: da qui si ricava una sostanziale la differenza. I siciliani, come gli ebrei, hanno poi la tendenza a parlar male di sé stessi senza però accettare che siano gli altri a parlare male di loro». Suggerendo un tour “atipico” per un viaggiatore particolarmente curioso, quali luoghi della Palermo sconosciuta alle masse turistiche indicherebbe? «Il primo posto dove bisogna andare, a Palermo come in tutte le città, sono i mercati. Nella mia città esistono tre tipologie di mercato: la Vucciria molto turistica, troppo vista e fotografata; il Ballarò, cuore pulsante dell’Albergheria, non più autentico nel senso delle tradizione perché pienissimo di gente proveniente da culture differenti, e forse per questo straordinariamente vivo; e in mezzo, il mercato di Porta Carbone, il più solare, più luminoso rispetto agli altri, più corrispondente all’immagine di Palermo da cui forse un turista

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vuol lasciarsi catturare. Il mercato è in fondo il posto in cui si coglie l’essenza cittadina più che in ogni altro luogo». Oltre i mercati? «Degno di essere visitato è senza dubbio Palazzo Abatellis, sede della Galleria Regionale in cui è conservata una tela di Antonello da Messina che rappresenta l’Annunziata, un bellissimo busto di Eleonora D’Aragona; ma il motivo principale della visita al palazzo, è Il trionfo della morte di un autore sconosciuto, forse Pisanello, un’opera maestra sicuramente vista da Picasso prima di dipingere la sua Guernica. È un cavallo scheletrito che trafigge con le sue frecce la morte che porta in groppa e tende a far riflettere sul sentimento della morte che hanno i siciliani. Alle spalle di Palazzo Abatellis, indicherei il quartiere arabo della città, la Kalsa, il quartiere esemplare di

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Palermo dove ci concentrano il meglio e anche il peggio. È il più colpito dai bombardamenti e il più lasciato intatto dalla ricostruzione per cui ancora pieno di macerie, pieno di contraddizioni, anche di mafia e di antimafia». E pieno di prelibatezze gastronomiche. «Ci sono dei piatti che si mangiano solo in famiglia: le madri ebraico-siciliane li preparano secondo le loro credenze e la disponibilità del mercato, ma sono sempre convinte di essere le uniche a saper fare, ad esempio il “brociolone”, un polpettone con dentro quel che c’è in cucina, introvabile anche nei più blasonati ristoranti di Palermo. Ma la specificità che può essere facilmente attinta da un turista senza attendere l’invito in case private, è la ricchissima gastronomia da strada. Le “panelle” fanno da regine e sono le più semplici. Per il resto sono

In alto, ingresso del mercato di Porta Carbone a Palermo

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Tour di Palermo

Roberto Alajmo

Da sinistra, l’Annunziata di Antonello da Messina e particolare de Il trionfo della morte, entrambe conservate al Museo Abetellis di Palermo

tutti cibi particolarmente grassi come la “stigghiola”, le interiora di pecora variamente farcite con prezzemolo, ad esempio». Da quale civiltà deriva la “stigghiola”? «Innanzitutto è da notare come la stigghiola non sia carne bensì l’ombra della carne. Sono parti del corpo dell’animale che normalmente non erano appetitose per le aristocrazie per cui venivano usate come compenso per i macellatori. La stigghiola racconta difatti un’altra componente ebraica di Palermo: gli ebrei addetti ai macelli che non potevano ricevere denaro per aver ucciso, venivano pagati con le parti ignobili dell’animale che cercavano di rivendere facendo ad esempio il pane con la milza. La stigghiola è un piatto che ha più di mille anni e si fa solo a Palermo». Nel suo ultimo libro, L’arte di annacarsi presenta Palermo come una città evocatrice di leggende. Perché? «L’eterna rinascita di questa città è la leggenda di sempre. È come l’orizzonte, più ti avvicini e più si allontana. Palermo è la leggenda più leggendaria di tutte con il suo centro storico che

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da anni è sul punto di nascere ma che poi non riesce a schiodarsi dal punto di partenza. Anche l’idea che la Sicilia si sposti è una grande leggenda ma che si muova è vero: per questo da sempre aspettiamo la sua rinascita ma puntualmente non arriva mai». “Più di ogni altra (città) Palermo è capace di coniugare bellezza e crudeltà”. Nel libro così chiosa la descrizione di Pizzo Sella. Ma per il palermitano Roberto Alajmo cosa significa vivere tale contraddizione? «L’amore per Palermo non è un amore liscio, come può essere quello per una città come Firenze o Venezia, belle e basta, in cui ci si può fermare alla contemplazione. Anche perché fermandosi alla bellezza, a Palermo ti portano via la macchina fotografica. Quello per Palermo è un amore per una canaglia che non puoi fare a meno di amare. Anche se non ti si nasconde più nessun difetto, una volta che è avvenuto lo svelamento, è un continuo elastico fra il voler partire e il voler restare. Ed è ciò che io provo da sempre».

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IL FASCINO DI PALERMO Donne, dialetti, arte e buona tavola. Le bellezze del capoluogo siciliano illuminano anche gli angoli più antichi della città. Uno dei più affascinati, per Gaetano Basile, è la Kalsa. Dove la storia sposa la curiosità di ADRIANA ZUCCARO

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ono tante, tantissime le meraviglie custodite tra gli storici palazzi, strade e piazze della città di Palermo. Innumerevoli le prelibatezze della sua cucina. Straordinari gli influssi linguistici assorbiti dai popoli che l’hanno occupata nei secoli. Per individuare quindi le mete ignorate dalle guide turistiche convenzionali e scoprire i segreti nascosti al turismo di massa, non ci si poteva che affidare al “più palermitano dei palermitani”. Scrittore, giornalista, storico, esperto delle più autentiche ricette della Palermo buongustaia ma soprattutto insaziabile innamorato di ogni angolo

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della sua terra, Gaetano Basile, all’inizio di un viaggio virtuale si rifà al buon Mallarmè che prima di raggiungere una meta urlava “J’ai lu tous les livres” (Ho letto tutti i libri). «Chi viene a Palermo deve avere le idee chiare su ciò che desidera conoscere perché è una città complicata. C’è la Palermo nuova e quella del centro storico, quella normanna e quella del Gattopardo, c’è

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Palermo

quella dei mercati antichi e quella dei palazzi, quella dei cavalli, delle ville, del festino, di Cagliostro, del mare, dei Viceré e come se non bastasse, c’è la Palermo nascosta dentro chiese e oratori». Dalle stranezza che gravitano intorno al centro storico, fino ai piatti preferiti di Gaetano Basile, Palermo accoglie i curiosi e con effetti speciali è pronta a stupirli. Quali luoghi del centro cittadino meritano curiosità storica? «Un’area da non perdere, un pezzo sconosciuto della città, è la Kalsa, una cittadella fortificata realizzata al di fuori delle mura cittadine nel X secolo. Fu residenza dell’emiro Halil Ibn Ishaq e il palazzo, vero centro direzionale della città a due passi dal porto, si chiamava Al-Halisah che significa “La eletta”. Questa zona fu separata dalla Palermo medievale per oltre 600 anni, tanto che i suoi abitanti fino a mezzo secolo fa, parlavano un dialetto palermitano con un’inflessione particolarissima, strascinato e un vocabolario proprio. Gli uomini erano tutti pescatori e marinai, le donne abilissime ricamatrici, non per niente arabe: il loro rakam, infatti, in italiano si traduce in “sfilato a mano”. Si fecero così, alla Kalsa i corredi nuziali di tutte le nobildonne

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Gaetano Basile

siciliane». Quali opere ospita e nasconde la Kalsa? «Visitando la Kalsa è possibile ammirare opere importantissime come il palazzo Lampedusa, il seicentesco palazzo Betulla e palazzo Butera, uno dei più belli del 700 palermitano con uno dei terrazzi che affaccia sulle mura cinquecentesche che danno sul mare. La cosa più curiosa è un’unica porta edificata contro i saraceni perché quando arrivavano, e la città aveva le porte sbarrate, con un ariete di legno buttavano giù le due ante della porta ed entravano. Noi ci facemmo furbi e inventammo un tipo di porta anti-saraceni con tronchi d’albero che scendevano dall’alto verso il basso, infilati in due guide laterali per cui quando ne rompevano uno,

In apertura, Gaetano Basile; sotto, palazzo Butera; a sinistra, particolare della chiesa di Santa Teresa; sopra, particolari del festino di Santa Rosalia a Palermo

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Sopra, una focacceria storica di Palermo. A fianco, piatto di parmiciana, segue “guastedda” con la milza e, infine, la caponata

lo sostituiva subito l’altro tronco. Da questo nacque il termine di “saracinesca”. Si trova a Palermo e si chiama Porta dei Re». Quali curiosità custodiscono le chiese della Kalsa? «Dopo la peste del 1624, da cui nacque poi il festino, sempre nel curiosissimo rione della Kalsa, vennero erette tre chiese per mano dello stesso architetto siciliano, Giacomo Amato e tutte e tre chiese in un’area di soli 300 metri. Cose da pazzi! La prima si chiama di San Nicolò della Pietà ed è in barocco romano; la seconda è il Noviziato dei Crociferi, una curiosa chiesa a pianta ottagonale, di rigore tardo-rinascimentale; e infine l’ultima, quando erano passati intanto 30 anni, è la Chiesa di Santa Teresa in puro barocco siciliano, dalla facciata talmente bella che si abbatté un pezzo delle mura cittadine per poterla vedere dal mare. Perdersi in tanta bellezza non è suggerito in nessun itinerario turistico». Cosa succede durante il festino? «Il festino palermitano del 4 settembre non è la festa di Santa Rosalia come la gente crede. In realtà, quei tre giorni di caldo incredibile, con sfilate e grandi abbuffate, non sono altro che un immenso ex voto popolare per grazia ricevuta. In

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quell’occasione si porta in giro un carro enorme su cui troneggia Santa Rosalia, con musicisti a bordo e un corteo enorme che parte dal palazzo Reale, percorre tutto il Cassero, esce fuori dalla città e una volta davanti al mare, con il trionfo del gioco di fuoco, lascia tutti completamente estasiati. La gente prende parte al corteo, mangiando e bevendo per strada. Perché da noi c’è ancora la gioia di poter toccare il cibo, averlo fra le mani, sentirne il calore, la consistenza». Può suggerire un aneddoto che catturi un tratto peculiare del carattere palermitano? «Noi palermitani pratichiamo l’autocritica compiaciuta dei nostri vizi e dei difetti. Lo aveva notato Sciascia e con lui non pochi altri. Ma un esempio che può corroborare la tesi dell’autocritica chiama in gioco un personaggio di grande spirito che era il vecchio principe Gaetano Starrabba di Giardinelli il quale diceva sempre: “quando il Padre Eterno vuole male a qualcuno lo fa nascere in Sicilia, se poi lo vuole fottere lo fa nascere a Palermo”. Con il suo accento palermitano da Gattopardo, rendeva perfettamente l’idea». Quale piatto può essere simbolo

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Palermo

Gaetano Basile

culinario della città? «Quella che erroneamente molti chiamano parmigiana è invece la nostra tanto amata parmiciana. Nella nostra lingua significa “persiana” perché le fette di melanzane fritte si dispongono nella teglia rettangolare come se fossero le scalette di una persiana. Non ha nulla a che vedere con Parma e con i parmensi; è un terribile sbaglio che purtroppo non c’è verso di correggere. Addirittura la parmiciana fa parte di quei piatti che si chiamano, in gergo tecnico a trompe d’oeil, perché sembravano presentare una sorta di gioco visivo, spolverato da un pugno di caciocavallo. Il simbolo per eccellenza è, però, la caponata». Perché la caponata? «È innanzitutto un piatto corale. Basta vedere come si affannano sotto l’afa tutte le donne di casa: una che affetta le melanzane, una che frigge, una che prepara la salsa, una che pulisce capperi e sedano, ognuno collabora per giungere finalmente all’atteso esame e commento da parte maschile. Noi uomini riusciamo sempre a indovinare chi l’ha fatta anche perché ogni donna dà un suo imprinting all’opera, ognuna di loro aggiunge il quid. Non dimentichiamo però

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un altro cibo tipico palermitano che è la “guastedda” con la milza. Il termine “gastelle”, che in francese significa focaccia o panino rotondo ed è stato introdotto a Palermo dai normanni, è la radice del francese gâteau, che da noi è diventano guastedda. Dentro a questo panino rotondo ci si mette la milza, la ricotta, una spolverata di caciocavallo e si fa soffriggere il tutto nello strutto». E il piatto della domenica? «Gli anelletti al forno. Pare che i pastifici producano questo formato di “piccoli anelli” solo per i palermitani. Li si fa cuocere a mezza cottura, si dispongono in una teglia da forno creando strati di pasta con ragù di carne, pisellini e fette di melanzane fritte. Alcuni aggiungono anche una fettona di mortadella col pistacchio, pezzetti di primosale, foglie di caciocavallo fresco e un ultimo strato di pangrattato leggermente tostato con la granella di mandorla per fare la crosta in superficie. Al momento di servire non può mancare il basilico fresco. È il piatto unico della domenica, il piatto da portare al mare o in gita, tanto è più buona se riscaldata. Un Nero d’Avola abbondante e il riposino post pranzo è garantito».

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DETTAGLI RINASCIMENTALI

Arte in Lombardia

La cultura del paesaggio è una costante dell’arte rinascimentale lombarda. Il gusto degli artisti lombardi ha influenzato anche Leonardo da Vinci. Philippe Daverio svela gli angoli più nascosti della regione alla scoperta del rinascimento

Il Rinascimento lombardo

di NICOLÒ MULAS MARCELLO

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utto il territorio lombardo è costellato di opere, architetture ed elementi paesaggistici che raccontano il Rinascimento. Vedute, scorci e panorami eterogenei come quelli della Lombardia hanno ispirato numerosi artisti dell’epoca rinascimentale contribuendo alla creazione di veri e propri capolavori pittorici. A partire da Milano «il castello pensato e voluto da Francesco Sforza – sottolinea Philippe Daverio – è uno degli esempi più particolari del rinascimento lombardo. Ma soprattutto lo sono alcune chiese come quella di Santa Maria presso San Satiro a Milano». Qui Bramante non potendo concludere l’edificio con un quarto braccio per la presenza di una strada assai frequentata, fece costruire un finto spazio in prospettiva, con una volta in stucco, profondo soltanto 97 centimetri ma in grado di conferire una notevole profondità, anticipando tutti gli esempi di trompe l’oeil della storia dell’arte.

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In apertura, lo Sposalizio della vergine di Bernardino Luini (Santuario della Beata Vergine, Saronno); qui accanto, Philippe Daverio

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«Leonardo è stato influenzato molto dal gusto dei lombardi. Leonardo non è da Vinci, Leonardo è da Milano»

In alto a sinistra, il tramezzo della chiesa di San Maurizio a Milano; accanto, un particolare del Castello Sforzesco a Milano

«In Lombardia c’era la cultura del paesaggio. Gli affreschi di Bernardino Luini nella chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore ne sono un esempio straordinario». C’è chi definisce l’interno di questo edificio “la cappella Sistina di Milano” e la bellezza degli affreschi del Tramezzo testimoniano quanto fosse viva la tradizione pittorica in quel periodo a Milano, quando nel capoluogo lombardo arrivarono nomi come Bramante o Leonardo Da Vinci. «Leonardo è stato influenzato molto dal gusto dei lombardi. Leonardo non è da Vinci, Leonardo è da Milano. Aveva già una sua inclinazione in questo senso, ma il suo vero carattere viene

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fuori mescolandosi proprio con le influenze che gli hanno dato i lombardi. In particolare con le esperienze di Bergognone o di Zenale». Uscendo da Milano poi si possono trovare altri esempi importanti dell’arte rinascimentale forse meno noti ai più, ma comunque rappresentativi di un’epoca come «il ciclo di affreschi di Saronno, che non sono una meta molto turistica ma che mi sento di suggerire. I più celebri affreschi di Bernardino Luini, infatti, si trovano nel Santuario della Beata Vergine dei Miracoli». Imponente nell’antipresbiterio spicca il famoso Sposalizio della Vergine.

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PANORAMI SPIRITUALI Il Sacro Monte di Varese è una meta suggestiva per i fedeli che vogliono scoprire luoghi intrisi di storia. Circondati da paesaggi ammalianti immersi nella tranquillità, questi luoghi invitano al raccoglimento e alla preghiera

di NICOLÒ MULAS MARCELLO


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In alto, Paola Della Chiesa, direttore Agenzia del turismo della provincia di Varese

n luogo di pellegrinaggio che fin dal Medioevo accoglie i fedeli con i suoi misteri e i suoi sentieri che conducono alle quattordici cappelle dedicate ai “misteri del rosario” e arrivano al Santuario di Santa Maria del Monte. Quello di Sacro Monte di Varese è un percorso affascinante alla scoperta del quale ci accompagna l’Agenzia del Turismo della provincia di Varese. Il Sacro Monte di Varese è stato inserito nel 2003 nella lista del patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Per chi non è mai stato in questi luoghi cosa troviamo? «Il Sacro Monte, è un luogo davvero unico, non soltanto per il Santuario di Santa Maria del Monte, ma per lo scenario della via Sacra, dedicata ai misteri del Rosario. È un opera grandiosa che ha iniziato a prendere vita nei primi anni del XVII secolo, quando il frate cappuccino Giovanni Battista Aguggiari coordinò i lavori di realizzazione di un acciottolato che seguisse l’andamento ripido del monte, disseminando lungo la via Sacra quattordici cappelle rappresentanti i misteri del rosario. All’opera collaborarono vari architetti e scultori, spesso locali, quali Bussola, Prestinari, Silva, così come pittori quali Nuvolone, i fratelli Recchi e Pier Francesco Mazzucchelli (detto il Morazzone, come l’omonima località del Varesotto). Le 15 cappelle (in verità 14, in quanto la quindicesima è il santuario stesso) sono dedicate ai misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi, tre cicli molto diversi tra loro per tematica e contenuti, e intervallati dalla presenza di archi imponenti. Interessante è anche la fontana del Mosè, nei pressi del Santuario e opera dello scultore locale Argenti, proveniente dal vicino comune di Viggiù». Lo scrittore inglese Samuel Butler disse: «Pare che gli italiani non possano

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Varese

Il Sacro monte

guardare un posto elevato senza desiderare di metterci qualcosa in cima, e poche volte l’hanno fatto più felicemente che al Sacro Monte di Varese». Qual è il fascino di Sacro Monte? «È proprio quello a cui accennavo prima, cioè la realizzazione di un’opera architettonica complessa e che ben si sposa con l’ambiente in cui è inserita. Lo scenario è davvero unico: panorami che spaziano dalla città di Varese, ai vicini laghi della provincia, piuttosto che alla catena alpina e prealpina. Oltre che essere luogo di cultura, il Sacro Monte è luogo di fede e di preghiera. Un paesaggio così magnifico e ricco di punti panoramici appaga i sensi e invita alla tranquillità, alla riflessione, alla preghiera». Le statue e gli affreschi che ornano le cappelle costituiscono nel loro complesso un'elevata testimonianza dell'arte sacra seicentesca in area milanese. Ci sono anche altre opere importanti? «Sono opere di vario genere e di diversa fattura, personalmente mi ha molto colpito la Fuga in Egitto di Renato Guttuso: opera realizzata negli

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Di fianco, esterno di Santa Maria del Monte, sopra particolari dell’organo

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Varese

Il Sacro monte

anni Ottanta al fianco della Terza Cappella, dipinto ampio e ricco di colore, realizzato sopra un affresco deteriorato precedentemente realizzato dal Nuvolone. Si tratta di un grande murale in acrilico dai colori accesi, in cui l'artista rappresenta la tematica dell’Esodo. Pur nel rispetto dell’iconografia religiosa, il momento della fuga viene attualizzato dal Guttuso: Giuseppe, dagli evidenti caratteri mediorientali, è la figura del profugo palestinese che, a dorso di un mulo, vaga in un passaggio

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desertico dai colori giallo oro, tra palme e cactus, in un ambiente che sotto alcuni aspetti richiama la Sicilia che ha dato i natali a Renato Guttuso. Molto bella è anche la statua di Paolo VI dello scultore locale Floriano Bodini (realizzata sempre negli anni Ottanta) sul piazzale del Santuario». In qualità di guida turistica ci svela qualche aneddoto particolare che riguarda la storia di Sacromonte? «Molto spesso i fedeli che percorrono la via sacra si limitano alla visione delle cappelle e del paesaggio, non notando altri elementi particolari che caratterizzano la storia del Sacro Monte: per esempio, la presenza di piccole grotte come quella a fianco del cammino di fede, all’altezza della settima cappella, dedicata alle due figure delle beate Giuliana e Caterina. Queste due donne trascorsero parte delle loro vita, nel XV secolo, all’interno della grotta, in totale solitudine e condividendo l’ideale di povertà e di preghiera».

Sopra, Renato Guttuso “Fuga dall’Egitto”, di fianco statue del santuario di santa Maria del Monte

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NON SOLO GIULIETTA E ROMEO

di RICCARDO CASINI

Verona è nota ovunque come città dell’amore, ma offre anche percorsi storici e artistici di notevole spessore che le sono valsi il riconoscimento dell’Unesco. Un viaggio con il sindaco Flavio Tosi tra itinerari culturali e ricordi personali

C Il sindaco di Verona Flavio Tosi; nella pagina a fianco, Porta Leoni

ittà d’arte conosciuta in tutto il mondo, meta di un turismo a carattere internazionale che non conosce soste durante i vari periodi dell’anno. Questa è Verona. Ma la città scaligera non è solo Giulietta, Romeo o l’Arena.Verona, come diceva il filosofo Walter Benjamin, è una città che tra un «ribollio di colli», «mura ora ripide, ora smussate» e «differenze di altitudine, a volte appena percepibili» racchiude «una sottile sensibilità del tutto celata all’occhio profano». È possibile allora tracciare un itinerario dei luoghi meno noti al grande pubblico ma di sicuro interesse artistico e paesaggistico? Lo abbiamo chiesto a Flavio Tosi, sindaco di Verona dal 2007, nato e cresciuto in questa città, nella cui vita politica è attivo dal 1994, anno nel quale (appena venticinquenne) venne eletto consigliere comunale nelle fila della Lega Nord.

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Verona

«Verona – racconta – è internazionalmente conosciuta per essere la città dell’amore e del melodramma e i luoghi che celebrano questi due miti sono ovviamente la casa di Giulietta e l’anfiteatro Arena. Ma Verona è una città d’arte a tutto tondo riconosciuta dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità per due motivi fondamentali: la leggibilità di testimonianze di tutte le epoche storiche e per il complesso delle sue mura magistrali. È possibile quindi conoscere la città di Verona anche attraverso una prospettiva che fa perno sulle diverse epoche storiche». Partiamo allora dall’inizio della sua storia. «Tra gli itinerari di Verona romana possiamo mettere in luce il Teatro romano e il soprastante museo archeologico, il Ponte della Pietra e alcune porte fondamentali della città come Porta Leoni e Porta Borsàri. Per il periodo delle invasioni barbariche merita invece una citazione

Flavio Tosi

particolare la Basilica di San Zeno Maggiore, contenente il famoso trittico del Mantegna, il Duomo con annessa Biblioteca capitolare e altre basiliche quali San Lorenzo, San Fermo e la Pieve dei Santi Apostoli. Come architetture civili, in questi e nei periodi successivi, ricordiamo Piazza Erbe, la Torre dei Lamberti e Palazzo della Ragione. Questi monumenti si connettono al periodo del Medioevo scaligero, periodo il cui emblema è sicuramente Castelvecchio con il ponte scaligero, ma anche le Arche scaligere e la

Sulle colline veronesi Ulivi, vigneti e ciliegi. Sono ciò che s’incontra sulla strada per Cancello, graziosa località sulle colline di Verona. Ambienti sapientemente ristrutturati, piatti locali e gestione familiare sono, invece, quello a cui il visitatore va incontro varcando la soglia dell’agriturismo Corte Maccini, dove è possibile anche soggiornare. Se dentro la buona cucina è la padrona indiscussa, appena fuori si rimane incantati dai Monti Lessini. Uno spettacolo naturale che merita di essere scoperto e vissuto. Famose infatti sono le sue doline e le sue sorprendenti grotte. Un piccola escursione è l’ideale per prendere confidenza con questo angolo del Nord Italia.

AGRITURISMO CORTE MACCINI

Via Cancello, 3 - 37141 Cancello (Verona) Tel 045 98.80.07 www.agriturismoverona.it cortemaccini@tiscali.it

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Seguendo il ritmo delle stagioni Uno di quei posti in cui il vino la fa da padrone. Un’enoteca con cucina. Susanna Tezzon, sommelier professionista e donna del vino sarà la vostra guida, tra 700 etichette offerte dalla cantina, delle quali una trentina a calice, con rotazione quindicinale. Marilena Vedovelli dalla cucina proporrà manicaretti a base di prodotti di stagione e pesce di lago. In sala, invece, ad accogliere i clienti, l’ospitalità di Anna Maria Vedovelli. Due piatti in particolare non mancano mai: la parmigiana di tartufo e la carne di toro marinata con mostarda.

IL GIARDINO DELLE ESPERIDI Via Mameli, 1 - Bardolino (VR) - Tel 045 62.10.477

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I luoghi particolarmente legati alla mia infanzia sono Montorio, con il suo castello, e in generale le colline veronesi vicina zona di Piazza dei Signori». Cosa ci lascia invece il periodo successivo alla dominazione scaligera? «In questa veloce lettura storica possiamo passare ai rapporti tra Verona e la Serenissima Repubblica di Venezia, dai quali scaturiscono testimonianze straordinarie come la Chiesa di Santa Maria in Organo, Giardino Giusti, San Tomaso.Verona divenne poi fortezza austriaca e riporta tuttora molte tracce di questo periodo storico, a cominciare dal sistema delle porte di ingresso alla città e delle fortificazioni che l'abbracciano lungo le dorsali delle sue colline». Cosa consiglia a un turista che raggiunge Verona per la prima volta? «L'invito che possiamo rivolgere è proprio quello di studiare itinerari diversi da quelli canonici,

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perché Verona costituisce un esempio di museo diffuso, le cui preziosità vanno ben oltre i suoi due monumenti più conosciuti». Quali sono i luoghi ai quali è affezionato e dove trascorreva la sua infanzia? «Sono affezionato a tutto il territorio veronese, ma i luoghi particolarmente legati alla mia infanzia sono Montorio, con il suo castello, e in generale le colline veronesi, perché sono posti dai paesaggi bellissimi, ideali soprattutto per le lunghe passeggiate che facevo con il mio cane ed eccezionali per la pace e la tranquillità che riescono a trasmettere». Quale itinerario suggerirebbe invece per una serata romantica? «Per un’occasione simile trovo particolarmente

Sopra, il castello di Montorio Veronese

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Sulla piazza più antica di Verona Da 31 anni Guglielmo apparecchia le tavole più romantiche del Belpaese, quelle di piazza Erbe a Verona. Una città che evoca subito l’immaginario shakespeariano alla Romeo e Giulietta. La Torre 10 si distingue dalla miriade di locali turistici. Il pezzo forte, oltre ai piatti rigorosamente italiani, è proprio il gioiello su cui il ristorante si affaccia. Tutt’intorno si apre un ventaglio di bellezze artistiche: l’antico palazzo del Comune, la torre dei Lamberti e il barocco palazzo Maffei sono solo alcuni piccoli assaggi. Il monumento più antico e scenografico è poi la fontana, sormontata dalla statua della Madonna Verona.

RISTORANTE ALLA TORRE 10 Piazza Erbe, 10 - 37121 Verona - Tel. 045 80.31.230 allatorreverona@libero.it

indicato il centro città, con il suo lungadige e il ponte di Castelvecchio, oppure una passeggiata sul lago di Garda, che offre un panorama romantico in qualsiasi stagione». Quali sono i luoghi migliori dove bere un buono “sprizzato”? «Tutti i locali del centro storico sono indicati per gustare un ottimo spritz. Il posto più rinomato per farlo, però, resta ovviamente piazza Erbe». Quali sono invece i piatti della tradizione ai quali è più legato? Dove è possibile trovarli? «Apprezzo molto i piatti della nostra tradizione culinaria e in particolare il cotechino, la pearà, la trippa e la pastissada de caval.Tutti questi si trovano ormai facilmente sui menù di molti ristoranti di Verona, alcuni dei quali li cucinano da anni mentre altri hanno iniziato a farlo recentemente, sull’onda della riscoperta delle nostre tradizioni locali».

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EMOZIONI DI UN ARTISTA

di NICOLÒ MULAS MARCELLO

La storia pervade ogni scorcio di Como, come un grande abbraccio che si stringe intorno al lago. Attraverso gli occhi di Marco Ferradini ci addentriamo negli angoli più affascinanti di una città tutta da scoprire

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opo una visita al centro storico e alle imponenti ville che si affacciano sul lago, tra le piccole vie medievali di Como è possibile scoprire locali caratteristici per trascorrere serate in compagnia di amici gustando le specialità locali ma non solo. Il cantautore

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Marco Ferradini vive la sua città con tutta la passione di un artista che respira emozioni, anche quelle più nascoste, per raccontarle al pubblico. Como è la sua città. Come l’ha influenzata anche artisticamente e qual

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è il legame con la sua terra? «Il legame è sempre vivo perché siamo come gli uccelli migratori, nasciamo in un posto, andiamo via, compiamo un largo cerchio che è quello della vita dove andiamo a cercare la nostra realizzazione, ma poi siamo sempre legati alla terra dove siamo nati. Lì, nei momenti in cui voglio ricaricarmi, vado a trovare le mie radici, e mi ritrovo a camminare per la città oppure il paesino. Io sono nato in città ma poi ho vissuto in un paesino nella Val d’Intelvi per la precisione. Quindi mi divido tra Como città e Casasco d’Intelvi, che è un paese quasi al confine con la Svizzera». Se dovesse accompagnare un gruppo di amici alla scoperta di Como che percorso indicherebbe per fargli vivere

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le più belle suggestioni che la città può offrire? «La passeggiata a Villa Olmo è bellissima, oppure consiglierei di andare a Brunate, dove la funivia sale sul lato destro della città e da lì si può vedere tutta la città». Quali attrazioni artistiche meno conosciute da tutti si possono scoprire visitando gli angoli più nascosti della città? «Como è una città molto antica

In alto, Villa Olmo; qui accanto, Marco Ferradini, cantautore

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Como da scoprire

Marco Ferradini

In alto, la cripta della chiesa di San Carpoforo; sotto, la torre del Castello di Baradello

«Basta camminare per i vialetti di Como per respirare un’atmosfera rilassata, antica, bellissima»

dal punto di vista architettonico per via delle stradine che risalgono al Medioevo. Di fronte alla Cattedrale ci sono addirittura ancora le case a graticcio che ricordano un po’ quelle del nord Europa. Ci sono delle chiese molto belle: la Chiesa di San Carpoforo e quella di Sant’Abbondio, dove ci son belle sculture. Il Castello di Baradello ha una torre che è possibile visitare, ed è sul lato opposto di Brunate. Comunque, ripeto, basta camminare per i vialetti di Como per respirare un’atmosfera rilassata, antica, bellissima». Per una cena o una serata in compagnia quali locali ama frequentare? «Io andavo sempre all’Hemingway, che è un ristorante piccolino vicino a Piazza Volta nascosto dentro una piccola via - difficile da trovare francamente - però è molto carino, marito e moglie sono simpatici e non fanno il solito piatto tipico. Oppure consiglierei la pizzeria Don Lisander, dove è possibile gustare una pizza al tagliere molto buona e poi anche l’ambiente è piacevole». Il lago offre sicuramente paesaggi di rara bellezza. C’è uno scorcio in particolare al quale è più legato e perché? «Quelli sulla riva di Como sono

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meravigliosi: c’è questa passeggiata che è molto bella, d’inverno con la neve è fantastica. Da Como a Menaggio tutto il lato sinistro del lago di Como è incantevole, fatto di ville bellissime. C’è da dire questo: Como è riuscita a mantenere intatta la sua architettura. Lecco, invece, è una città gemella di Como, solo che lì hanno costruito dei palazzacci orrendi; sembrano due luoghi lontani anni luce».

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TRA LE VIE DI COMO

di NICOLÒ MULAS MARCELLO

Como offre percorsi culturali che non tutti conoscono. Oltre ai palazzi e le piazze storiche si possono scoprire angoli meno noti al grande pubblico. Monica Neroni suggerisce come visitare al meglio la città

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omo è famosa per i monumenti principali che sono tutti racchiusi nel centro storico. La città vecchia è ancora protetta dalle mura medievali che racchiudono tutti i punti più interessanti e naturalmente il Duomo, il Broletto, la Chiesa di San Fedele. Ma ci sono angoli della città e del lago che non tutti conoscono e che Monica Neroni, guida turistica dell’assessorato al Turismo della Provincia di Como ci aiuta a scoprire. Per svelare i luoghi meno noti di Como quale percorso indicherebbe? «C’è un bellissimo percorso legato ai razionalisti. Como è stata la patria di Giuseppe Terragni, che è il capostipite del Razionalismo, perciò abbiamo moltissimi monumenti che il grande pubblico non

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conosce; è una sorta di turismo di nicchia, molto conosciuto all’estero, ma meno conosciuto dagli italiani o dal grande pubblico, legato a un discorso architettonico. Abbiamo l’ex Casa del Fascio, oggi sede della Guardia di Finanza che è considerato il primo monumento moderno a livello mondiale, e il Novocomum. C’è un percorso razionalista nella zona dei giardini sul lago - la parte nuova della città - e questo sicuramente è uno degli aspetti che andrebbero sottolineati di più». Dal punto di vista artistico quali tappe non possono mancare nell’agenda di un turista che vuole visitare Como? «Normalmente il giro inizia da Piazza Cavour, che è la piazza più grande, una piazza moderna che si affaccia direttamente sul lago. Da lì si arriva subito in Piazza del Duomo che è già all’interno della città vecchia, del centro storico, zona pedonale. Il Duomo, costruito in 4 secoli di lavori è affiancato dal Broletto che è un palazzo comunale molto interessante, e una bella torre campanaria. Poi si prosegue nella via dello shopping, via Vittorio Emanuele, che

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arriva in piazza San Fedele, il cuore della città vecchia. È l’antico foro romano, da lì è nata la nostra città, e prosegue poi fino alle mura medievali, quindi fino a Porta Torre.Vicino c’è anche il Liceo Volta, che è stata la scuola dove Alessandro Volta ha studiato e del quale poi è diventato rettore. C’è un interessante museo archeologico all’interno della città, e un piccolo museo dedicato al fisico. E per coloro che vogliono allargare la conoscenza della città, c’è un museo dedicato alla seta, che è anche l’unico in Europa. È un po’ fuori dal centro storico ma sicuramente vale la pena andarci. Anche la Pinacoteca è molto interessante, con reperti di varie epoche. E poi, ogni mezzora

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sale la caratteristica funicolare, che da Como arriva a Brunate, che è un punto panoramico a 800 metri di altezza, un balcone naturale sulla città; molto bella anche la funicolare stessa, che è una delle più antiche, costruita alla fine dell’Ottocento. Questo per quello che riguarda la città. Dopodichè normalmente si prende il battello e si continua la visita sul lago per fermarsi nelle ville e nei giardini che rappresentano un po’ il clou della visita al lago di Como». Il turismo alla scoperta di ville e giardini si sta diffondendo in tutta Italia. Quali sono i giardini più importanti del territorio?

In apertura, Monica Neroni, guida turistica dell’assessorato al Turismo della Provincia di Como; in questa pagina, Villa Balbianello Per informazioni turistiche ufficio Informazioni e accoglienza turistica della Provincia di Como: www.lakecomo.org

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In questa pagina, gli agoni essiccati (Missoltini); nella pagina seguente, una veduta notturna di Como

«Le ville e i giardini sono un po’ la caratteristica del lago di Como, dimore storiche costruite tra il Settecento e l’Ottocento per la nobiltà e l’aristocrazia sia comasca che milanese, italiana ma anche europea (perché allora era un must avere una casa di vacanze sul lago di Como). Si sono poi trasformate in giardini che si possono visitare: i più interessanti sono sicuramente la villa Carlotta a Tremezzo, la villa Melzi a Bellagio, la villa del Balbianello a Lenno, ma poi ci sono anche delle altre ville, come per esempio la villa del Pizzo, che possono essere visitate con determinate modalità».

Il piatto tipo è il risotto con il filetto di pesce persico e poi i più caratteristici “missoltini”, pesci essiccati e serviti con la polenta 154 • Mete Grand Tour

Ci sono iniziative per la promozione del turismo sul lago in occasione del Natale? «La città si veste a festa come tutte le città e c’è una manifestazione interessante e piuttosto lunga per tutto il mese di dicembre che è ‘Como città dei balocchi’. Sono iniziative legate al Natale. Per quanto riguarda il lago invece, il lago dorme un pochino di inverno perché i giardini necessitano di essere chiusi per la manutenzione delle piante, vengono fatti numerosi lavori perché sono giardini dove vengono piantati alberi, arbusti, fiori che arrivano da ogni parte del mondo e quindi in inverno necessitano di essere protetti, mentre in estate possono crescere naturalmente. Quest’anno sull’isola comacina stanno organizzando una bellissima manifestazione, “Isola del Presepe”: su tutta l’isola costruiranno una serie di presepi in modo che l’isola sia accessibile anche in inverno per questa manifestazione». In ambito enogastronomico ci sono luoghi della città che rappresentano la tradizione culinaria del territorio? «Praticamente in tutti i ristoranti vengono proposti dei piatti legati alla tradizione. È la tradizione di una cucina povera, di una cucina contadina legata al lago, quindi al pesce. Ci sono delle piccole osterie, dei ristoranti che ripropongono chiaramente dei menu legati alla tradizione che si trovano o nel centro storico, oppure nei paesini del lago. Il piatto tipo è il risotto con il filetto di pesce persico, che si trova ormai in quasi tutti i menu e poi i più caratteristici “missoltini”, che sono dei pesci essiccati che vengono serviti con la polenta, oppure tutte le varie specialità legate appunto alla polenta, ai brasati, alla cacciagione: queste sono un po’ le specialità di questo territorio».

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LA PROVINCIA DEI LAGHI

di NICOLÒ MULAS MARCELLO

Un paesaggio policromatico fatto di laghi, montagne e pianure. La provincia di Brescia regala panorami unici da scoprire anche attraverso i suoi sapori. Paolo Rossi, presidente di Brescia Tourism, consiglia i percorsi più interessanti

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a provincia di Brescia offre una variegata offerta turistica. Dalle escursioni sulle coste degli otto laghi presenti ai percorsi enologici della Franciacorta, fino alla suggestiva zona montana dell’alta Val Camonica, le possibilità sono moltissime. «Ponte di Legno e l’alta Valle Camonica – sottolinea Paolo Rossi, presidente di Brescia Tourism – sono posti bellissimi. Quella è una parte della provincia di Brescia che a mio avviso va riscoperta». In un weekend da passare sui laghi della provincia quale percorso si sentirebbe di consigliare? «Innanzitutto io ritengo che quello di Brescia sia un territorio per tutte le stagioni. In questo periodo, tra l’altro, con l’arrivo dell’inverno in cui si mettono le barche in secca, è un’ottima occasione per vedere un territorio straordinario che sta cambiando colori in modo incredibile: un angolo di mediterraneo in un Nord Italia un po’ martoriato dal maltempo. Brescia è terra di laghi, per cui potremmo ipotizzare un percorso sul lago d’Iseo, con una puntata in Franciacorta

Dalla Franciacorta alla Val Camonica

Paolo Rossi

Sapori lagunari lavorati ad arte

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Su una spiaggia che colora le affascinanti sponde del lago di Garda, l’esaltazione dei prodotti lagunari è la sfida che il ristorante Al Porto pone in tavola ogni giorno in piatti di semplici prelibatezze lavorate ad arte. Avviata negli anni 50 come osteria per pescatori e contadini, divenuta nei decenni a seguire punto di ritrovo per personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, la seicentesca costruzione rurale che ospita il ristorante Al Porto, continua a blasonare l’appartenenza al territorio lagunare attraverso squisite portate di pesce presentate in formule culinarie atipiche e originali. Niente griglie, fritti e ricette votate a far apparire il pesce di lago rustico e scontato. Al Porto si punta al principio di freschezza, a cotture non aggressive, a verdure di stagione insaporite dall’olio extravergine di oliva di produzione propria e alla valorizzazione dei prodotti del luogo. In primis il pesce di lago non ha nulla da invidiare ai cugini d’acqua salata.

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Dalla Franciacorta alla Val Camonica

Paolo Rossi

per degustare questi vini straordinari, oppure sul Garda dove le occasioni di turismo sono anche in questa stagione straordinarie, dal termalismo di Sirmione ai campi da golf, poi una visita al Vittoriale con l’apertura della nuova mostra segreta di D’Annunzio». Per quanto riguarda i luoghi forse meno conosciuti, ma comunque meritevoli di visita, ci sono località che potrebbero offrire ai turisti che conoscono già la zona, nuove opportunità di scoperta? «Più che località da scoprire ci sono opportunità, come le visite nelle cantine. Si sta preparando il Chiaretto che sarà pronto da fine novembre. Questo è un vino vero, non novello, vino di una notte». Spesso si parla di turismo enogastronomico. Sono in molti infatti coloro che decidono di visitare luoghi e conoscerne i sapori. Quali sono i piatti e i vini caratteristici che possiamo trovare nella provincia di Brescia toccata dai laghi? «Una cucina a base di pesce come i filetti di persico oppure il coregone di lago, per non parlare dei casoncelli bresciani, e in questa stagione del tradizionale spiedo bresciano con polenta».

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Accanto alla bellezza del territorio quali opportunità dal punto di vista artistico e culturale offre la provincia dei laghi? «Io direi che la cosa straordinaria dei laghi e soprattutto di quelli bresciani è la loro location, l’essere al centro di una situazione straordinaria. Se pensiamo al Garda, il lago è a 120 km da Milano, 120 km da Venezia, a 60 km da Mantova e Cremona, 60 da Verona, 60 da Rovereto, per cui diventa anche una occasione per visitare quelle che sono le eccellenze del territorio circostante. In questo momento per esempio a Rovereto c’è una mostra bellissima al Mart. Oppure una visita a Verona, perché no. O a Mantova, che è una città artisticamente straordinaria». Dal punto di vista personale a quali luoghi di Brescia e provincia è più legato? «Io sono molto legato al lago di Garda perché sono gardesano, però in questo momento mi affascina molto la montagna bresciana: Ponte di Legno e l’alta Valle Camonica sono posti bellissimi. Ecco, quella è una parte della provincia di Brescia che a mio avviso va riscoperta. Tutta la parte montana e anche tutta la parte archeologica: i graffiti della Val Camonica, ad esempio, sono straordinari».

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SULLA STRADA DEL VINO E DELL’OLIO di PAOLA MARUZZI Alla scoperta degli itinerari enogastronomici che fanno della Lucchesia la terra del mangiar sano e del turismo slow. A colloquio con Alessandro Adami, presidente della Strada dell’olio e del vino di Lucca, Montecarlo e Versilia

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ucca, Montecarlo e Versilia. Tre rispettivi punti di partenza e di arrivi. Tre snodi cittadini e culturali che muovono le fila di quella che, forse troppo semplicisticamente, viene chiamata campagna. Le terre della lucchesia offrono un mosaico di specialità enogastronomiche. Dopo i vini e gli oli certificati, seguono una serie di sapori complementari. La Strada del vino e dell’olio,

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di cui Alessandro Adami è presidente, raccoglie la vasta gamma di piccole e medie realtà agricole. Ognuna ha la sua specificità, ma tutte fanno capo a un comune denominatore: la valorizzazione, in chiave turistica, del mangiare bene. Qual è il compito dell’associazione? «Esistiamo in virtù di una legge istitutiva della Regione Toscana. Facciamo parte della Federazione regionale della Strada dei vini e dei sapori. È la legge stessa che definisce la mission perseguita da ogni associazione. In sintesi, seguiamo la logica dell’integrazione delle risorse. Non a caso, a parte l’olio e il vino, coinvolgiamo altri prodotti alimentari e, soprattutto, tutti gli attori fortemente legati al territorio: ristoranti, agriturismi, bed&breakfast e ville». Quante sono le aziende associate? «Circa un centinaio. Mi sembra un buon numero, calcolando che la provincia di Lucca non è molto estesa. Sono quasi tutte aziende di

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piccole dimensioni, ma che nel tempo hanno investito sulla qualità. Così i vini e gli oli della Lucchesia hanno raggiunto alti standard e si rivolgono a un mercato di nicchia. Seppure la Toscana sia “monopolizzata” dalle terre del Chianti, pian piano stanno venendo alla luce anche altre realtà fino a qualche tempo fa considerate ingiustamente marginali». I prodotti della Lucchesia stanno quindi vivendo un’escalation qualitativa? «Esatto. È fresca la notizia, comparsa qualche giorno fa sulla Gazzetta ufficiale, che sancisce l’approvazione dell’Igt Costa Toscana, un

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marchio che conferisce nuovo smalto alle provincie della costa: Massa, Pisa, Luca, Livorno e Grosseto. È un’iniziativa voluta in primo luogo dai produttori e che naturalmente ha trovato il sostegno della Strada. Per quanto riguarda la “conquista” ufficiale della qualità siamo a buon punto». Oltre, naturalmente, ai prodotti dell’olio e del vino, qual è il filo conduttore della Strada? «A fare da motore c’è un ricco calendario di eventi che prende per mano il turista e lo accompagna alla scoperta del territorio. Dalle

In apertura, Alessandro Adami, presidente dell’associazione Strada del vino e dell’olio di Lucca, Montecarlo e Versilia; in alto, uno scorcio delle colline lucchesi

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Montecarlo, antesignano dei vini Doc Non è azzardato dire che i vini Doc rappresentano e caratterizzano, assieme alla Fortezza e ad altri monumenti medievali, il volto di Montecarlo. Infatti in queste terre si coltivano vigneti da tempi antichissimi. In un contesto naturalmente votato all’agricoltura non poteva mancare un Consorzio di Vini Doc, come appunto spiega il suo presidente Vasco Grassi. «Lavoriamo per tutelare e promuovere il marchio. La nostra è una zona piccola, era quindi necessario creare una sinergia tra le piccole realtà locali». L’avventura inizia negli anni Settanta, «quando si era da poco iniziato a parlare di certificazioni Doc. Quindi possiamo dire di essere stati in un certo senso degli antesignani. Naturalmente, abbiamo aderito alla Strada del Vino e dell’Olio». Tra le ultime iniziative, il Consorzio sta insistendo affinché venga modificato il disciplinare. «Il Doc si ottiene da un miscuglio di qualità di uve. Chiediamo che il marchio possa essere utilizzato anche per alcuni monovitigni». Ripercorrendo le fila delle caratteristiche che compongono i Doc Montecarlo, Vasco Grassi passa in rassegna questi fiori all’occhiello: «Per il Montecarlo Bianco è prevista la presenza delle seguenti uve: 40-60 per cento di Trebbiano Toscano e per il restante 40-60 per cento di Semillon, Pinot Gris e Bianco, Vermentino, Sauvignon, Roussanne, globalmente considerati, purché almeno tre dei vitigni indicati raggiungano singolarmente la percentuale del 10 per cento. Per il Montecarlo Rosso è, invece, previsto un 50-75 per cento di Sangiovese, 5-15 per cento Canaiolo nero, 10-15 per cento singolarmente o congiuntamente Ciliegiolo, Colorino, Malvasia Nera, Syrah, Cabemet Franc, Cabemet Sauvignon, Merlot».

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colline al mare e viceversa, da iniziative di carattere enogastronomico ad altre di taglio decisamente più ludico. Pensiamo, per esempio, alla mostra delle camelie che si svolge a Capannori, al Wine Art di Pietrasanta, all’Enolia, all’Olio e i Tesori di Lucca. E questi sono solo alcuni “assaggi”». Si può dire che il turismo enogastronomico sta prendendo sempre più piede e la Strada ha strategicamente intercettato questa nuova tendenza. «Il cibo è al centro dell’esperienza del viaggio. Quando si va in vacanza, ci si sposta inevitabilmente verso il mangiare, non solo per una questione meramente fisiologica: i sapori sono un elemento di riferimento importante, un modo per orientarsi. Oggi più che mai le produzioni tipiche concorrono enormemente ad arricchire una proposta turistica che vuole riallacciarsi alle radici proprie di ogni località. La Strada vuole appunto scovare nel cibo la

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Gita fuori porta, bussando alle porte di Montecarlo Nel borgo medievale di Montecarlo, a qualche chilometro da Lucca, per scoprire l’enogastronomia locale. E se l’avanscoperta delle colline toscane dovesse stuzzicare la voglia di fermarsi, allora è proprio il caso di bussare alle porte dell’Antica Casa dei Rassicurati e dell’Antica Casa Naldi. Due strutture che fanno capo a differenti gestioni, ma accomunate dalla stessa capacità di accogliere gli ospiti. Il modello è quello dell’albergo diffuso, una strategia di ricettazione flessibile, che permette di gestire e ricevere anche piccoli gruppi di turisti. Una trovata al passo coi tempi, che non dimentica la vecchia scuola dei casali toscani. Il comfort degli ambienti è sempre calato in un contesto tradizionale: un acquaio in pietra, taverna e cortile medievale danno decisamente un tocco di autenticità.

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“coltura” dei luoghi. Così, quando si beve un bicchiere di vino della Lucchesia non si può non pensare alle arie di Giacomo Puccini o a Carducci. Questa magia non scatta se ci si accontenta di sostare a un fast food». Le periferie, con i loro paesaggi collinari, sono un po’ il leitmotiv della Strada. Quali scorci si aprono discostandosi dai centri? «Riscoprire il paesaggio agricolo è tra gli obbiettivi principali. I territori dell’olio e del vino a cui l’associazione fa riferimento, vivono di un continuo andirivieni tra le zone rurali e i centri. Pensiamo, per esempio, a Lucca. La periferia non dà uno stacco netto, ma è la naturale continuazione della città. La nostra filosofia è quella di procedere attraverso una reciproca integrazione di contesti». Quindi c’è un integrazione tra città e

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campagna? «Esatto. In mezzo ci sono una serie di centri più o meno minori, dove la vita scorre in modo slow. C’è, per esempio Pietrasanta, che poggia sulla splendida tradizione della lavorazioni del marmo. C’è Montecarlo, con il suo fascino medievale e la fortezza. Ci sono Capannori e il suo patrimonio di ville, Camaiore, Massarosa. Per non parlare di Massaciuccoli o di Altopascio, industrializzato ma al tempo stesso legato alle tradizioni enogastronomiche, il pane prima di tutto. E l’elenco potrebbe continuare. Attraversando questi posti ci si rende conto di quanto armonioso sia il passaggio tra vita urbana e scenari rurali. Scivolando verso la periferia, magari dopo aver ammirato le bellezze artistiche di questi borghi, ci si ritrova a camminare lungo sentieri che costeggiano fattorie e campi coltivati».

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Musica, fumetti e buon cibo

TRA LE MURA DI LUCCA di A piedi o sulle due ruote. Per il sindaco, Mauro Favilla, PAOLA circumnavigando la rinascimentale cinta muraria di Lucca, si scopre MARUZZI la città della musica classica, del fumetto e del buon cibo

V

enire a Lucca vuol dire poter “assaporare” la città, perché l’intero centro storico è un monumento da gustare con calma». Sono le parole del primo cittadino, Mauro Favilla, che fa un bilancio positivo sull'evoluzione in chiave turistica che sta lentamente e metodicamente cambiando i connotati all'antico comune della Valdarno. Se fino a qualche anno fa il monopolio della Toscana si giocava tra le vicine Firenze e Pisa, oggi la città che ha dato i natali a Puccini conquista terreno. L’appeal di Lucca è un crocevia di fattori.Tra questi, il respiro degli eventi internazionali legati

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alla musica e al fumetto, la capacità di mettere in moto il buon cibo e la fruibilità slow, che fa leva sulle gambe e sulle due ruote. Lucca si sta muovendo per attrarre un turismo dal respiro sempre più grande. Cosa si potrebbe fare per incentivarlo? «Stiamo potenziando le attrattive destinate a un turismo amante dell’arte e del buon vivere. Si tratta di far assaporare un vero stile di vita, godere dell’arte e dei monumenti, dei piatti tipici, della musica e delle tradizioni. Guardando al turismo internazionale ci siamo “alleati” con Pisa per

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Maltagliati “a modo nostro” Sapori di mare e di montagna per chi desidera dare inizio agli antipasti e concludere con deliziosi dessert. Pizze e focacce cotte a legna per proteggere la fragranza delle farine. Tra le risorse del ristorante One Penny una in particolare lo rende unico a Lucca: la cucina rimane aperta fino a tarda notte. E nessuna esitazione se si chiede un buon piatto di maltagliati “a modo nostro”. «Rosoliamo con olio la carne di maiale e la salsiccia; aggiungiamo niepitella, peporino e pomodoro di Pachino e una volta cotti i maltagliati, li condiamo con il sugo e li adagiamo su una foglia di cavolo». Come i maltagliati, al One Penny ogni ricetta scelta da Gigi, Fosca, Johnny e Denys Vangelisti, rivisita la tradizione con tocchi di prelibata modernità.

RISTORANTE PIZZERIA ONE PENNY Viale Luporini, 732 - Sant'Anna Lucca Tel. 0583 41.94.05 - Fax 0583 31.63.61 www.onepenny.it

promuovere, nel periodo di bassa stagione, entrambi i centri come un unico brand. Abbiamo così realizzato il portale visitpisalucca.com. Siamo impegnati nella promozione internazionale di Lucca quale luogo natale di Giacomo Puccini. Questo grazie alla mostra “Puccini e Lucca” che è stata ospitata in tre diversi continenti». Quanto è importante tutelare il patrimonio artistico? «Non si tratta di tutelare una chiesa o un

monumento del centro storico, ma anche il territorio circostante, ricco di verdi colline. Il patrimonio che miriamo a conservare è anche culturale: Lucca è la città della musica, di Puccini, Boccherini e Catalani. Ed è la patria del fumetto. Ogni anno ospitiamo il più grande festival dedicato alla “nona arte”. L’ultima edizione ha visto 135mila visitatori». Lucca è da girare a piedi o in bici. Quanto incide il traffico nella fruizione delle bellezze della città? «Lucca conta 40 chilometri di piste ciclabili e un centro storico quasi completamente pedonalizzato. Chi viene a Lucca lascia l’auto e si muove in modo dolce. A questo scopo, stiamo incrementando anche i parcheggi, scambiatori fuori dalle mura, dove sorge anche la stazione ferroviaria. Il centro storico si presta quindi in modo a essere girato a piedi e in bici. Lo si può considerare un unico grande centro commerciale naturale dove sono raccolti oltre mille negozi».

Mauro Favilla

Mauro Favilla, sindaco di Lucca

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ATTORNO AL DESCO DI LUCCA di PAOLA MARUZZI

Dalle Alpi Apuane alla Garfagnana, passando tra i tanti borghi medievali. È questa la grande offerta della provincia di Lucca. Un territorio in cui marketing e prodotti tipici si stringono in un nuovo patto. Ne parla Icilio Disperati, presidente Apt Lucca

L’

autunno è per Lucca e provincia una stagione magica, quella in cui si festeggiano l’olio nuovo e i sapori antichi. Parte così un ricchissimo calendario di eventi, tra piccole sagre e interessanti performance culturali. A muovere le fila un marketing territoriale declinato in chiave enogastronomica. Spiega Icilio Disperati, direttore dell’Apt di Lucca: «Il tradizionale appuntamento di “Oli e Tesori”, che parte da ottobre e si chiude dopo l’Epifania, propone un condensato di iniziative. L’olio è, appunto, il

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nostro prodotto di punta. Ma accanto a questo ci sono una serie di “tesori” di carattere culturale». Come in una scatola cinese, all’interno della macro manifestazione, se ne apre un’altra: si chiama “Desco” e raccoglie tutti i prodotti tipici della Lucchesia, che vanno dal mare alla montagna. Che prodotti tipici ruotano attorno al Desco? «Olio e vino sono gli “ingredienti” trasversali, che ricorrono in tutti e quattro i weekend. Sul vino aggiungerei che fino a qualche anno fa il bianco di Montecarlo era l’unico Doc della Toscana. Poi naturalmente se ne sono aggiunti altri. Quest’anno abbiamo deciso di far scendere in piazza quattro prodotti tipici, che sono un po’ rappresentativi del nostro territorio: il fagiolo, il farro, le castagne e, immancabilmente, il pane e l’olio. Ognuno si declina su particolari tipi di sagre e ricette locali». Quali piatti tipici vengono proposti? «L’elenco è lungo, ma possiamo citare il taglierino che utilizza il fagiolo come elemento base, la zuppa di Aquilea, con pane, verdure di

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stagione e condita con l’olio.Tipica è anche la zuppa di farro. Con la farina di castagne - o meglio le mondine, come si chiamano da queste parti - si fanno delle frittelle e delle cialde particolari. Il pane è poi davvero centrale, considerato che sul nostro territorio abbiamo Altopascio, una delle principali città d’Italia particolarmente votate a questo prodotto». Quali altre iniziative avete promosso per attrarre il turismo enogastronomico? «Per chi sceglie di soggiornare a Lucca almeno una notte, abbiamo ideato una sorta di gioco. In pratica abbiamo un numero dedicato e, attraverso uno scambio di sms, guidiamo i visitatori a prenotare un dato ristorante. Poi in albergo facciamo trovare un set di accoglienza, che consiste nei calici per le degustazioni di vini e delle offerte speciali spendibili all’interno di un altro evento concomitante, il Foto Digital Festival. Sono piccole iniziative volte a incentivare un’offerta a tutto tondo. Ogni anno cerchiamo di rinnovare il calendario». Tra le iniziative meno scontate?

Dalla tradizione marinara Dopo varie esperienze maturate nei migliori locali d'Italia, nel 1979 Pino e Patrizia danno vita al Ristorante "da Pino", a due passi dalla splendida passeggiata di Viareggio. Il locale è caratterizzato da un'esclusiva cucina che rimanda ai sapori di Sardegna e ai tipici piatti della tradizione marinara. Si possono assaporare delicati crudi di mare, splendide aragoste e crostacei alla Catalana o alla Campidanese, spaghetti alle cicale, linguine con crostacei, calamaretti e bottarga di muggine di Cabras, le famose "Padellate di Pino" con pesce e crostacei locali, senza dimenticare il fritto di paranza e i pesci nostrani alla vernaccia di Oristano. Il tutto accompagnato dalla possibilità di scegliere tra più di 300 vini di ottima e pregiata etichetta della cantina. L'eccellenza è garantita dagli ottimi e golosi dolci di Patrizia.

RISTORANTE PINO Via Matteotti, 18 Viareggio, (Lu) Tel. 0584 96.13.56

Autunno a Lucca

Icilio Disperati

Icilio Disperati, direttore Apt Lucca


Muscoli e buona cucina Nelle zone rupestri della provincia di Lucca, precisamente nel comune di Capannori, in un piccolo borgo del Compitese. È qui che il re dei pedali, Mario Cipollini, muove i primi passi e assapora l’olio fatto alla vecchia maniera. «Sono cresciuto toccando con mano la tradizione contadina. E ne vado fiero. Mio padre aveva un frantoio». Un passato che lascia il segno e che continua a riflettersi sugli abbinamenti culinari del campione. «Tra i mie piatti preferiti c’è una sorta di ribollita, tipica di Lucca, un po’ diversa da quella fiorentina. E gli immancabili i fagioli, che appena tirati fuori dall’acqua calda e conditi con un filo d’olio sono la fine del mondo». Su queste colline Super Mario ha riscoperto il piacere di pedalare liberamente, senza lo stress di allenamenti ferrei. «Ho tutto. Le pianure, le dolci salite, le montagne e, all’orizzonte, il mare. Ho costruito la mia carriera cercando di godermi il paesaggio. Ma quando ti alleni duramente tutto passa in secondo piano, è come se avessi i paraocchi. Ora mi godo la mia terra».

«Ci sono i cosiddetti “Incontri fumosi”. A Lucca, infatti, c’è la manifattura tabacchi, dove si produce il sigaro Toscano. Invitiamo quindi a scoprire i vari abbinamenti del sigaro con liquori o cioccolate, tutti prodotti rigorosamente tipici. Degna di nota è anche l’iniziativa “Scrivi come mangi”, nata grazie alla collaborazione della Scuola creativa di scrittura di Lucca. In pratica alcuni ospiti illustri, tra cui Maurizio Fumagalli, spiegano come tradurre sulla carta il cibo». Quali attori contribuiscono a mettere in piedi un’iniziativa di tale portata? «L’Apt ha un ruolo organizzativo. Ma le risorse provengono da vari sponsor. Per citarne alcuni, la Camera di commercio, quindi il mondo degli imprenditori privati, la Provincia e il Comune di Lucca». Un bilancio sugli anni precedenti? «C’è stato un continuo crescendo. Siamo passati dalle 15mila presenze dei primi anni fino a

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sfiorare le 60mila. Ora l’obiettivo è estendere il più possibile l’iniziativa, facendo conoscere i prodotti non solo all’hinterland lucchese, su cui indubbiamente abbiamo un fortissimo riscontro». Quindi l’obiettivo è spingersi al di là dei confini regionali? «Sì. E mi sembra che stiamo procedendo bene. D’altronde Lucca ha scoperto di recente il suo appeal internazionale. Fino a qualche anno fa non era quasi contemplata dai classici itinerari turistici. D’altra parte questo ha fatto sì che mantenesse una sua forte autenticità. Molte città italiane, tradizionalmente appannaggio di un turismo globale, hanno cambiato volto, adeguandosi alle esigenze di mercato. Lucca, invece, sotto questo punto di vista non è ancora globalizzata. Per questo è possibile, almeno nel centro storico, trovare negozi e botteghe che si sono mantenute intatte».

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Memorie Lucchesi

TRA IL GIGLIO E IL DUCALE di ADRIANA ZUCCARO

N Un interno dell’hotel Universo di Lucca. A destra, storico ritratto fotografico di Chet Baker sul davanzale della camera n.15 www.universolucca.com

el magnifico edificio ottocentesco al centro della città natale di Puccini. Seduto sul davanzale della camera numero 15. In balia di ammalianti armonie jazz. Chet Baker sceglieva di soggiornare tra le storiche sale dell’hotel Universo, in quel magico dialogo tra le vicine magnificenze del teatro del Giglio da una parte e del palazzo Ducale dall’altra. «È costante il tentativo di recuperare le radici dell’hotel attraverso le memorie storiche della città – racconta Marianna Marcucci, direttrice dell’Universo dal 2001 –. Dai ricordi che la gente mi regala ogni giorno, ricostruisco il genius loci dell’edificio, definito “il più lucchese dei lucchesi”». Rimasto aperto ininterrottamente dal 1857, l’hotel Universo «è come un vecchio signore che sta vivendo una seconda giovinezza. Qui la storia si respira davvero e la letteratura ci ha ricordato in più occasioni, da Ruskin a Heine, da Tobino a Ceronetti e molti altri». Per oltre 150 anni anche la musica è stata ospitata

Storia, musica, letteratura e contemporaneità. Le sale dell’hotel Universo sono infuse delle memorie lucchesi. Marianna Marcucci ricuce il passato attraverso i ricordi e lo ripropone a ritmo di jazz all’hotel di piazza del Giglio. Per ricreare quell’atmosfera di arte e condivisione dei tempi passati «siamo partiti da un nostro illustre ospite della camera numero 15, Chet Baker, dedicando alla sua arte la prima rassegna “Universo Jazz” che quest’anno è alla sua seconda edizione». Ma oltre quel famoso davanzale, anche le altre stanze raccontano un passato. «La storia è il nostro designer di fiducia e fonte ineguagliabile di spunti sempre nuovi – afferma Marcucci –. Pezzi di antiquariato si accostano alla modernità delle nuove tecnologie. Comodamente sdraiati su una chaise longue del ‘700 i nostri ospiti possono infatti viaggiare anche in luoghi virtuali del pianeta web».

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UN “POLMONE” NATURALE

L’Aspromonte «con il suo panorama incontaminato e la sua originale naturalità» è per il presidente del Parco, Leo Autelitano, di grandissima importanza per l’intera Calabria

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di RENATA GUALTIERI

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È In apertura, una veduta dall’Aspromonte; qui sopra, il presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, Leo Autelitano

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una zona di immensa qualità ambientale e paesaggistica. Ma l’Aspromonte non è solo risorse naturali è anche storia, cultura, arte e tradizioni. A fronte di un patrimonio di grande ricchezza e di indubbio valore, assumono valenza strategica le azioni messe in campo dall’Ente gestore che, secondo il presidente del Parco Leo Autelitano, «non può limitarsi a svolgere la funzione, seppur primaria, della tutela del territorio e della biodiversità, ma deve farsi carico di ulteriori funzioni orientate alla ricerca e all’educazione ambientale, al turismo e alla ricreazione, alla valorizzazione delle tradizioni e delle tipicità locali nonché allo sviluppo economico e sociale, purché sostenibile e rispettoso delle finalità del Parco». Quali le attività previste e le linee progettuali per favorire il rispetto e la salvaguardia del patrimonio naturale dell’Aspromonte? «Quanto il Parco Nazionale dell’Aspromonte sta realizzando in tema di educazione ambientale è probabilmente il più avanzato progetto che esiste nel settore. Ogni attività educativa in campo ambientale, poggia naturalmente su un’efficace informazione che deve raggiungere tutte le fasce di popolazione presenti sul territorio. Per questo l’attività educativa diventa sinonimo di comunicazione, i cui canali possono essere i più svariati e anche i più fantasiosi. In questo modo, assume rilevanza culturale il tema della salvaguardia ambientale; se poi immaginiamo il complesso dei Parchi come un’unica grande rete, ne deriva un piano comunicativo globale del sistema aree protette dell’Italia che veicola e promuove un complesso di realtà, di fatti, di

iniziative, che insieme compongono l’immagine positiva del Paese». L’Osservatorio per la biodiversità che opportunità rappresenta per gli studenti e i potenziali visitatori del Parco? «L’Osservatorio dà all’utente la possibilità di esplorare in modo intelligente la biosfera della nostra regione e i suoi contenuti: habitat ed ecosistemi, piante, animali e molte altre forme di vita. Il sistema consente di vedere i parchi nazionali, tante altre aree protette, la rete Natura 2000; inoltre, permette di evidenziare i contenuti inclusi in queste aree, collegando geografia, topografia e rilievo, cartografia, limiti comunali, riserve naturali di ogni tipo alle specie in essi presenti, iniziando da quelle più rare e a rischio. La rubrica “Il museo risponde” vuole dare agli insegnanti di Scienze uno strumento efficace di identificazione delle specie viventi della Regione: un panel di esperti risponde alle richieste corredate da foto digitale e con priorità per le scuole, per instaurare un rapporto interattivo fra scienza e didattica in Calabria. La sezione web link offre

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Calabria

Parco dell’Aspromonte

In alto, una malva selvatica, sotto un esemplare di scoiattolo

I Centri Visita mettono in contatto il visitatore con la cultura e la natura dell’area protetta

infine ai visitatori del sito un’ampia panoramica della “biodiversity vision” globale, utile a ogni persona interessata alla conservazione della natura, alla conoscenza del mondo animale e vegetale, ad ambientalisti alla ricerca del dato locale». Che funzione svolgono i Centri Visita esistenti nella realtà del Parco? «Queste strutture hanno come obiettivo principale quello di rappresentare la realtà del Parco, accogliendo i visitatori e rappresentando il territorio attraverso filmati, illustrazioni e materiale divulgativo in grado di stabilire un contatto diretto fra il visitatore stesso e la cultura, le tradizioni e soprattutto la natura dell’area protetta. Ad Africo, la struttura, è orientata sull’opera di Zanotti Bianco, un uomo che si è speso per il mezzogiorno. A Gerace l’attenzione si sposta sugli aspetti storici, artistici, culturali e archeologici della Magna Grecia. Presso il Centro Visita di Bova il tema è incentrato sulle minoranze linguistiche e sulle peculiarità che ancora rendono viva e interessante la presenza dei Greci in Calabria. A Bagaladi, invece, tutto ruota intorno alle risorse storiche e gastronomiche del luogo. Ampio spazio viene dato all’olio d’oliva e all’intero ciclo di produzione. La struttura racconta con macchine e attrezzi la storia dell’olivicoltura. La porta di accesso di Delianuova è dedicata alla fauna del parco, alle specie protette e a quelle che abitualmente popolano il territorio dell’area protetta. Il tema del Centro Visita di Cittanova è la flora e la banca del seme. A Mammola vengono illustrati gli aspetti legati all’archeologia industriale legata all’utilizzo dell’acqua come forza motrice».

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I “CONTRASTI” DEL PARCO

di RENATA GUALTIERI

«In pochi chilometri paesaggi distinti e separati, quello tirrenico e quello ionico caratterizzati anche da clima e temperature differenti». È l’aspetto più interessante dell’Aspromonte per Diego Festa, guida ufficiale del Parco

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G In apertura le “Caldaie del latte”; sotto, Diego Festa, guida ufficiale del Parco nazionale dell’Aspromonte

razie alla diversità dei suoi ambienti, il Parco nazionale dell’Aspromonte offre un habitat ideale per un ricchissimo patrimonio floristico. Notevoli sono la faggeta che ricopre la vetta dell’Aspromonte fino a Montalto, l’abete bianco e pino laricio. Scendendo più giù si trovano le querce, rovere, roverelle, castagno, fino arrivare ai pini marittimi e al leccio nella macchia mediterranea. «La cosa più curiosa è la diversità di ambienti tra i due versanti il tirrenico e lo ionico che fa sì che ci siano micro climi differenti che consentono vegetazioni diversificate». Il versante tirrenico molto più verde arriva sulla piana di Gioia, nella località S. Elia di Palmi, nella Costa Viola dove l’Aspromonte finisce a picco sul mare e lì abbiamo i castagni fino a 300 metri. Tutto ciò è impensabile sulla costa ionica, che è molto più influenzata dallo scirocco, le precipitazioni sono molto inferiori e quindi c’è una vegetazione molto più rada; nelle colline vicino alla costa il fenomeno della

desertificazione è visibile soprattutto quando arriva giugno e il paesaggio cambia totalmente. Guido Festa, che con la sua associazione “Misafumera” organizza e gestisce trekking in tutto la Calabria e la Sicilia, nonché guida ufficiale del Parco, descrive curiosità e particolarità dell’Aspromonte. Fiumare e pietre quale spettacolo particolare creano? «La caratteristica dell’Appennino meridionale e dell’Aspromonte sono le fiumare che sono corsi d’acqua a regime torrentizio dove cioè l’acqua non scorre sempre. Nel periodo estivo autunnale le fiumare sono secche e quindi c’è un paesaggio di contrasto tra il letto tutto pieno di ghiaia e sassi e i costoni più verdi, che creano un contrasto notevole. Le fiumare erano usate come vie di comunicazioni per spostarsi da un versante all’altro perché non c’erano fiumi imponenti che dovevano essere guadati costruendo dei ponti. Anche sul versante tirrenico ci sono le fiumare, ma vi scorre molta più acqua. Nella piana di Gioia Tauro, invece, abbiamo dei piccoli fiumiciattoli. Più ci si sposta a nord e più le fiumare sono piene d’acqua». L’Aspromonte è anche un vero e proprio paradiso per gli ornitologi. Quali sono le più importanti rarità ornitologiche presenti nel territorio? «La specie più rara è l’aquila reale che per fortuna nidifica da qualche anno in una delle vallate più selvagge dell’Aspromonte. Poi ci sono vari uccelli stanziali, rapaci, dal ghebbio al falco pellegrino e molti uccelli di passaggio perché l’Aspromonte è un corridoio

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Parco dell’Aspromonte

Natura Selvaggia

Sopra, il Passo Zita

importantissimo verso il Mediterraneo. Gli uccelli migrano in primavera verso l’Africa e in autunno verso il nord Europa hanno bisogno di spostarsi su questi territori per non attraversare troppo il mare. L’Aspromonte è dunque attraversato da una moltitudine di uccelli tra cui le cicogne nere, il falco picchiaiolo e il capo vaccaio, che è un avvoltoio rarissimo che nidifica solo nel Crotonese». Il clima mediterraneo e vaste aree ricoperte da una fitta vegetazione e scarsamente frequentate dall’uomo costituiscono l’ambiente ideale per

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molte specie di animali. Quali gli esemplari più rari? «Al vertice della catena alimentare qui c’è il lupo che ha rischiato l’estinzione, ma esiste ancora in Aspromonte e lo stesso è avvenuto per l’aquila reale. Poi si incontra il cinghiale che non è più l’esemplare che si poteva trovare qualche anno fa ma è un ibrido di maiale che in alcune zone dell’Aspromonte si allevano allo stato brado. Il cinghiale è stato reintrodotto per questioni venatorie dall’Est Europa. Poi c’è la volpe, la faina, la donnola, e manca invece la lontra dagli anni Sessanta. Ci sono segnalazioni del gufo reale, esemplare di

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Parco dell’Aspromonte

Natura selvaggia

rapace notturno enorme, ma non ne è accertata la presenza. Il Parco da qualche anno ha attivato un progetto di reintroduzione, dopo più di 100 anni, del capriolo italico che è una sottospecie del capriolo che troviamo nel nord dell’Italia, è un progetto internazionale che interessa l’Italia e la Spagna. Questa iniziativa, che si concluderà nel 2011 dopo 3 anni di reintroduzione del capriolo, è un progetto pilota perchè testerà le potenzialità di sviluppo del capriolo italico nel sud Italia. Mancano invece i cervi, i camosci, i daini che non sono animali autoctoni. Un tempo c’era anche l’orso, ma ora non ce n’è traccia. Abbiamo la lepre italica che, specie al tramonto, è facilmente avvistabile». Quali sono i prodotti alimentari simbolo della tradizione pastorale e contadina dell’Aspromonte? «I pastori in Aspromonte sono famosi per le capre e, in misura minore, per le pecore. Le

In alto, una farfalla e sotto il cinghiale, patrimonio faunistico del Parco nazionale dell’Aspromonte

Il cinghiale è stato reintrodotto per questioni venatorie dall’Est Europa

capre si adattano perfettamente all’Aspromonte, che in alcuni punti ha un terreno abbastanza impervio, perché sono abili ad arrampicarsi. Quello che non viene quasi per nulla praticato in Aspromonte è l’allevamento dei bovini per latte, anzi c’è solo la zona di Ciminà dove viene prodotto il caciocavallo che forse diventerà presidio slow food. Tutti i formaggi sono caprini o ancora più comuni sono i pecorino- caprini. Famosa la carne di capra che si mangia quando si fa festa in montagna e poi i salumi tipici calabresi come il capicollo e il “capicollo azze anca grecanico”, presidio Slow food ed è prodotto da maialino nero calabrese, le soppressate, la nduja».

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SULLE TRACCE DEL LUPO di RENATA GUALTIERI

Leggende da smentire e curiosità da scoprire tra luoghi dall’interessante aspetto naturalistico e centri storici importanti con un ricco patrimonio enogastronomico e artigianale. Sonia Ferrari conduce i visitatori nel Parco nazionale della Sila

T

raversate in sleddog, ciaspolate, sci alpino e di fondo, trekking e turismo equestre. Sono solo alcuni degli intrattenimenti del Parco nazionale della Sila che si prepara ad accogliere allietare e divertire il visitatore nella stagione invernale. «Stiamo puntando molto sul turismo sostenibile e la tutela dell’ambiente – precisa la presidente del Parco Sonia Ferrari – perché riteniamo che sia importante realizzare dei veri e propri prodotti turistici che mirino a conservare le risorse locali sia ambientali che

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culturali per le future generazioni stiamo creando pacchetti e itinerari tematici per fare in modo che l’offerta turistica sia meglio strutturata e più facilmente accessibile per chi non conosce il territorio». Circa 20.000 presenze nell’ultimo anno anche provenienti da fuori regione, specie dalla Sicilia e dalla Puglia, grazie alle tante iniziative proposte, come la copertura delle spese di trasporto per le scolaresche che vengono in gita nel parco e vi pernottano almeno una notte in bassa stagione.

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Quale leggenda o curiosità meglio esprime l’essenza la magia del Parco della Sila? «Il simbolo della Sila è il lupo che è stato considerato da sempre nemico dell’uomo perché pericoloso per il bestiame domestico. In realtà i lupi si nutrono quasi esclusivamente di cibo che trovano nelle discariche e raramente attaccano l’uomo di cui anzi hanno una paura ancestrale. Quelli che invece creano danni sono i cani inselvatichiti che sono presenti in numero enorme sul territorio calabrese, circa 30.000 contro un centinaio di lupi. Un’altra leggenda da smentire è che sarebbe stata fatta una reintroduzione di lupi in Sila paracadutandoli». Tra i comuni del Catanzarese che fanno parte del territorio del Parco quali sono le aree di maggiore interesse? «Il Centro Visita Antonio Garcea a Monaco è sicuramente un’eccellenza del territorio del Parco della Sila, con due musei e l’antico villaggio silano ricostruito. Di grande attrattiva è il Parco Avventura a Zagarise, il più grande del Sud Italia, che fa divertire molto bambini e ragazzi. Da segnalare anche i due ecomusei, uno ad Albi che riguarda la civiltà contadina e l’altro dell’olio a Zagarise ospitato in un antico frantoio. A Taverna invece c’è la chiesa con gli affreschi di Mattia Preti». Quale è la tipologia di visitatore del Parco e quali le attività tradizionali, artigianali, sportive, enogastronomiche, turistiche da conoscere nella Sila catanzarese? «Ci sono turisti ambientalisti interessati solo all’aspetto naturalistico ma anche altri che si dedicano alle attività sportive e a visitare centri storici importanti e molte famiglie con ragazzi.

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In apertura, il lupo appenninico; qui a fianco, la presidente del Parco Sonia Ferrari; sopra, passeggiate a cavallo

L’enogastronomia resta un punto di forza della Sila con prodotti d’eccellenza, dalla patata Igp ai salumi e formaggi Dop, in particolare il caciocavallo silano. C’è un artigianato d’eccellenza orafa e tessile. Ancora oggi, infatti, ci sono dei maestri che producono tappeti e manufatti di grande valenza».

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A SPASSO NEI BOSCHI

di RENATA GUALTIERI

Dodici itinerari naturalistici proposti per immergersi nella natura incontaminata dei boschi. Una passeggiata della provincia di Catanzaro e tanta flora e fauna da ammirare. La guida autorizzata Iwona Szkodzinska conduce il viaggio nel Parco Nazionale della Sila

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scursioni a piedi, bagno nei fiumi o sotto le cascate che si susseguono lungo tutto l’arco dell’anno, viaggi in mountain bike o a cavallo. Tante le attrattive nel Parco della Sila. Nel comune di Zagarise, è possibile visitare il Parco Avventura attraverso percorsi appesi tra gli alberi con varie difficoltà: quelli più semplici per bambini più piccoli e la “difficoltà nera” per gli adulti. Qui ci sono aree di ristoro, giochi e aree picnic. La “Fattoria aperta in Sila” invece è un evento che prevede la possibilità di affiancare il fattore nelle sue operazioni di mungitura, pranzo, dalla razione del fieno alla chiusura delle stalle così i bambini possono toccare anche gli animali che in città non hanno la possibilità di vedere. Quali i sentieri assolutamente da percorrere nella Sila catanzarese? «Sicuramente quello della cascata Campanaro, alta

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Parco della Sila

Iwona Szkodzinska

In apertura, le Valli Cupe Canyon; qui a fianco, Iwona Szkodzinska, guida autorizzata del Parco

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22 metri, diviso tra il comune di Sersale e quello di Zagarise. Qui crescono lecci salice, frassino da manna, fico selvatico e alloro, ciclamino edera e alghe rosse indicatori della purezza dell’acqua del torrente. E alla fine del

Il terzo sentiero, per veri escursionisti, è la Cascata delle Ninfe il cui sentiero comincia lungo la strada provinciale tra Sersale e Buturo 190 • Mete Grand Tour

sentiero si può trovare una felce rarissima tropicale. La trota, la rana italica, la biscia da collare, la vipera, la ghiandaia e lo scoiattolo meridionale tra la fauna. Poi c’è il sentiero dei Giganti del monte Gariglione che è la vetta più alta con 1.765 metri nel comune di Taverna; lungo questo sentiero ci sono alberi centenari come il faggio e l’abete bianco. Il fondovalle è popolato da viola lacustre e ginestra silana, tipica delle zone del nord Europa, il lupo appenninico, il capriolo, il cervo e diffusissimo è il cinghiale, la volpe, il tasso la martora, la lepre, la faina, la donnola, il ghiro, lo scoiattolo e poi rapaci diurni come lo sparviero, il falco pellegrino, il nibbio reale o rapaci notturni come il gufo reale, comune e allocco. Il terzo sentiero, per veri escursionisti, è la Cascata delle Ninfe, il cui sentiero comincia lungo la strada provinciale tra Sersale e Buturo. Tra le specie floristiche compaiono il faggio, l’acero il leccio, il pino silano, il frassino, l’acero e l’edera; come fauna troviamo il tasso, la volpe, la ghiandaia, rapaci diurni e notturni, il capriolo il cinghiale, il lupo, il picchio, lo scoiattolo meridionale e poi nell’acqua abbiamo la fauna italica e la trota». Cosa propongono i percorsi del gusto lungo un viaggio tra i comuni della Sila Catanzarese? «Le coltivazioni agrarie e zootecniche hanno svolto un ruolo importante per l’economia del luogo. Qui prevale ancora la pratica della transumanza e gli animali, nei mesi più caldi, vengono portati a pascolare in Sila e alle prime nevi vengono spostati alla marina. Dal loro latte vengono ricavati dei formaggi come il caciocavallo silano, uno dei più antichi formaggi a pasta filata, di cui le prime

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Parco della Sila

Iwona Szkodzinska

testimonianze risalgono al 500 a.C. È importante e ricca la produzione di salumi come capicollo, salsiccia e soppressata che hanno ottenuto il marchio Dop. Nella cucina silana si mangia molta carne di agnello e di capretto accompagnata dalle patate locali. Poi c’è il fungo, che veniva definito la carne dei poveri perché svolgeva un ruolo di surrogato della carne vera. Spesso vengono organizzate sagre che danno la possibilità di conoscere il territorio attraverso la cucina tipica». Come si svolge il percorso del visitatore all’interno dell’Ecomuseo di Zagarise e quali i temi della civiltà contadina locale messi in risalto? «Si tratta del Museo dell’olio d’oliva e della civiltà contadina, nato per diffondere la conoscenza della cultura legata al territorio

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della Sila piccola. Questo Ecomuseo comprende 3 componenti molto importanti: il territorio, la popolazione e il patrimonio; il tema è la cultura locale e l’obiettivo è la sua divulgazione e conservazione. Il percorso espositivo è basato su intrattenimento e divertimento, infatti tutte le informazioni sono proposte all’interno del museo da personaggi a cavallo fra la fantasia e la storia che parlano tra di loro attraverso pannelli esplicativi. Qui il brigante Olivio, sua moglie e 2 diavoletti che vivono nella grotta di briganti accompagnano i visitatori per tutto il percorso attraverso filmati e testimonianze. La visita nel museo si può dividere in 3 settori: degustibus di oli extravergine d’oliva, il settore dell’olio d’oliva nella tradizione locale, infine il settore albero della vita, olivo nell’erboristeria».

Qui sopra, traversata della Sila in sleddog; nella pagina precedente, visitatori del Parco della Sila praticano sci di fondo

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BELLEZZA MARMOREA di RICCARDO CASINI Il Parco regionale delle Alpi Apuane occupa un’area che passa dalla pianura costiera a cime vicine ai 2mila metri. Un paesaggio dominato dalla roccia bianca lavorata nelle vicine cave e da grotte che, sottolinea il presidente Giuseppe Nardini, «sono un oggetto di culto per gli speleologi»

H Sopra, il presidente del Parco regionale delle Alpi Apuane, Giuseppe Nardini; nella pagina a fianco, il profilo del monte Corchia

a festeggiato da poco i 25 anni di vita, anche se quello in cui si inserisce è un contesto millenario. Nel Parco regionale delle Alpi Apuane, 54mila ettari compresi tra le province di Lucca e Massa Carrara, lo sguardo può passare in un attimo dalla pianura costiera versiliese affacciata sul mar Tirreno a cime elevatissime, come il monte Pisanino (1.947 metri). Per il suo presidente Giuseppe Nardini, il parco si inserisce «in un contesto scenografico dai profili che incantano e dai colori che si susseguono, come il blu del mare, il bianco della spiaggia, il verde delle pinete e l’azzurro cenere delle vette». Quali sono le attrattive naturalistiche principali del parco? «Tra le attrattive, volenti o nolenti, rientra sicuramente il marmo: quel candido splendore, croce e delizia dell’area protetta, indubbiamente affascina il visitatore. Anche se l’escavazione di questo materiale iniziò in età romana, il pensiero

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va subito a Michelangelo, al suo scolpire, ai biglietti da visita dell’Italia nel mondo come la Pietà o il Mosè, capolavori nati dal marmo estratto in questi luoghi. Peccato per l’uso dissennato che oggi si fa di questo materiale, il cui sfruttamento in quantità industriali sta lasciando solchi profondi sul territorio». Un’altra caratteristica del paesaggio è il sistema carsico, con le sue grotte. «Si tratta di una sorta di oggetto di culto per gli speleologi di tutto il mondo. Gli abissi apuani sono fra i più esplorati: il parco ha attrezzato per le visite turistiche l’antro del Corchia, aperto dal 2001, ma esistono anche, su altri due versanti, la grotta del Vento e la buca di Equi, ugualmente visitabili. Indubbiamente da vedere anche il sistema dei rifugi e dei sentieri, lungo i quali è facile incontrare animali di ogni specie: si va dai minuscoli e rari tritoni alpestri, alla salamandrina dagli occhiali o a quella pezzata, fino alla

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maestosa aquila reale e a moltissime specie di rapaci. Si può assistere al loro volteggiare, così come è possibile osservare il più comune muflone o il saltellare spaventato di un capriolo. I rari avvistamenti del lupo ci inducono inoltre a pensare a inserimenti sul versante interno dal vicino Appennino». Quali sono invece le specie floreali da ammirare? «Se c’è una categoria di persone per le quali le Alpi Apuane sono un luogo di visita prediletto, questi sono certamente i botanici. Come diciamo nella nostra guida, la specie più caratteristica è costituita dai fiori delle Apuane, ovvero piante erbacee, dette appunto volgarmente fiori, che si incontrano ovunque, anche attaccate alle rocce o nelle fessure delle pareti dei marmi. La vegetazione vede inoltre presente sul versante mare, alle quote più basse, l’intricata macchia mediterranea, con presenza di leccio, mirto, corbezzolo, ginestra odorosa, arbusti

di eriche e ginepro comune. Non mancano a queste quote terrazzamenti di vite e di ulivo. Sulla roccia silicea invece si trova il pino marittimo, almeno fino a 600 metri di altitudine. A quote superiori, ci si può immergere in boschi di querce e carpino, in prevalenza nero, ma anche nella comune scopina e nell’acero». Senza dimenticare i castagneti. «Impiantato fin dal Medioevo, il castagno predomina a quote ancora più alte. Oggi però è attaccato da un parassita che viene studiato e combattuto ma che in realtà sta demolendo, facendolo seccare, questo secolare paesaggio.Tra le presenze relittuali si segnalano poi il tasso, l’agrifoglio e, ancor più relittuale e oggetto di studio da parte del parco, l’abete bianco. Immense faggete, cerro con presenze di betulla ed estese praterie di vetta completano il panorama. Per ogni visita si segnala infine l’orto botanico, accessibile salendo dal versante massese verso il passo del Vestito».

Tra sport e natura

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Il Mini Hotel è situato in Garfagnana, nel Parco delle Alpi Apuane, vicino al Lago di Gramolazzo dove le montagne trovano il loro specchio naturale. La zona è l’ideale per chi ama praticare attività sportive come mountain bike, alpinismo, trekking, pesca, canoa o per chi desidera trascorrere vacanze rilassanti a stretto contatto con la natura. L’Hotel dispone di 18 camere con servizi privati, asciuga capelli, telefono e televisione. La cucina è genuina e ben curata, fatta di piatti tipici locali come il farro della Garfagnana, la polenta, i funghi porcini e la cacciagione. È disponibile anche un menù senza glutine. La gestione familiare garantisce una cordiale ospitalità.

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Viaggio in Garfagnana

Alpi Apuane

Qual è il periodo dell’anno migliore per visitare il parco? «Le Apuane, pur esercitando attrattiva e fascino, sono anche fonte di pericolo per l’escursionista. Si consiglia quindi di affrontarle soprattutto nel periodo primaverile fino al tardo autunno o inizio inverno, sempre adeguatamente attrezzati con scarponcini da trekking. Per i più esperti e attrezzati si accettano escursioni anche in inverno, raccomandando estrema prudenza. A tutti si consiglia sempre la visita dei paesi incastonati e arrampicati sui monti, dove l’ospitalità e i comfort non mancano mai; da frequentare anche le caratteristiche feste di paese che si svolgono in ogni borgo». Quale itinerario suggerirebbe a un turista che vuole visitare il parco a piedi o in bici? «A piedi, come già detto, consiglio il nostro sistema dei rifugi, senza dimenticare ovviamente la visita all’antro del Corchia. Numerosi sentieri sono percorribili anche in mountain-bike, e recentemente il parco ha inaugurato un percorso

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nel comune di Montignoso: le strade che lo attraversano sono frequentatissime da appassionati ciclisti». Quali strategie sono state adottate per migliorare l’appeal turistico del parco? «Il parco fa forti investimenti nel campo dell’educazione ambientale per abituare le nuove generazioni al rispetto e ai piaceri dell’ambiente. Sta cercando inoltre di mettere in rete una serie di opportunità attraverso il recupero di vecchie strutture che dovrebbero portare a un proprio sistema museale, fino all’azienda agricola e a un centro giovanile, e si sta dotando anche di sedi proprie. Recentemente, attraverso un percorso del programma “Agenda 21” legato allo sviluppo sostenibile, abbiamo certificato 15 strutture quali esercizi consigliati dal parco». Quali iniziative sono in programma nei prossimi mesi? «Stiamo per esaurire una serie di iniziative legate ai 25 anni del parco. Gli interessati possono collegarsi con il nostro sito, Apuaneweb, dove è possibile trovare ogni informazione».

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Le leggende della Garfagnana

Buffardello e gli altri folletti

B A destra, lo scrittore Oscar Guidi

I MISTERI DEL BOSCO di RICCARDO CASINI

Le tradizioni popolari della Garfagnana annoverano una lunga serie di personaggi mitologici e leggendari, tra cui il Buffardello è il più celebre. Lo storico e scrittore Oscar Guidi ci accompagna in un viaggio tra magia e folklore, per non dimenticare il patrimonio culturale di questa terra

uffardelli, linchetti, ma anche “streghi”, “curatori” e “segnatori”: la Garfagnana presenta un ricco campionario di folletti e personaggi leggendari, il cui ricordo - come nel caso di molte tradizioni popolari - rischia però oggi di scomparire. È anche il tentativo di preservarlo, oltre che un’innegabile curiosità, a muovere il lavoro di Oscar Guidi, storico e docente, da anni impegnato in ricerche di vario tipo nel territorio della Garfagnana e autore di pubblicazioni come Magia e folletti in Garfagnana, Gli streghi, le streghe… Antiche credenze nei racconti popolari della Garfagnana e l’ultimo Ursolina la Rossa e altre storie. Inquisitori e streghe tra Lucca e Modena nel XVI secolo, tutti pubblicati per Maria Pacini Fazzi editore. «Non so – spiega Guidi – se la Garfagnana sia una terra di misteri. L’Italia ha del resto molte zone in grado di tramandare credenze molto antiche. Forse uno dei motivi che rendono misteriosa dall’esterno questa terra è il suo relativo isolamento rispetto al resto del territorio, causato dalla sua collocazione geografica e dai difficili collegamenti viari. Sicuramente

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contribuisce anche il suo essere sempre stata una “terra di confine”, soggetta a svariate dominazioni; da ciò deriva anche la varietà linguistico-culturale ancora oggi facilmente riscontrabile». Cosa è emerso nel corso delle interviste realizzate per i suoi libri? «Le mie ricerche sul piano folkloristico e antropologico-culturale erano principalmente rivolte alla determinazione dell’identità di figure

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mitologico-leggendarie presenti nei racconti popolari, e alla magia “bianca”, rivolta cioè alla guarigione di particolari patologie. Dalle ricerche è emerso poi un quanto mai affascinante e profondo orizzonte legato alla stregoneria e alle processioni dei morti». Quanto è ancora diffusa oggi la conoscenza di questi personaggi leggendari? «Ormai le persone in grado di narrare di questi personaggi sono scarsissime. Già ai tempi delle mie ricerche, negli anni Ottanta, i miei informatori erano persone di età compresa tra 80 e 100 anni. Oggi c’è però una conoscenza che viene proprio dall’attività di ricerca e pubblicazione, accolta molto favorevolmente anche dalla popolazione locale, per cui, se così si può dire, si riscontra una sorta di conoscenza “di ritorno”». Tra i personaggi della Garfagnana il più noto è il Buffardello, a cui è stato dedicato anche un parco-avventura in località Prà di Lago. Ma ce ne sono altri. «Sono davvero molti, e descriverli richiederebbe

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molto tempo. Si va dai centauri di mitologica e scolastica memoria, a esseri volanti come la Sbrazila, la Folata, il Pirre, l’Omo selvatico, le Fate. Un po’ meno presente è il Diavolo. Ma i personaggi più interessanti sono gli Streghi con le loro metamorfosi e, naturalmente, le Streghe coi loro unguenti e voli notturni». In cosa differisce il Buffardello dal Linchetto, con il quale a volte viene confuso? «Sono entrambi due folletti dispettosi. Il Linchetto è molto più diffuso a Lucca e dintorni, mentre il Buffardello è più caratteristico dell’area apuana, Massa compresa. In quei luoghi della Garfagnana dove sono noti entrambi, il Buffardello conserva i suoi aspetti di spiritello

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burlone, mentre il Linchetto prende allora i connotati che sono più vicini a quelli di un essere malvagio, forse confondendosi col Diavolo». Dove compare in genere il Buffardello? «Il Buffardello agisce quasi sempre all’interno delle case o nelle stalle. Sembra quasi un Lare o una sorta di nume protettore della casa. E’ dispettoso. Si diverte a fare scherzi alle persone, ma anche agli animali. Lo si sente ridere di notte, può dare dei problemi sotto le lenzuola a coppie di giovani sposi. Frequentemente disturba gli animali nelle stalle, “attrecciando” loro la coda, togliendo fieno a una mucca per darlo a un’altra di cui si è invaghito». Quali sono i metodi per scacciarlo? «Ve ne sono diversi: una scopa poggiata alla porta col manico sul pavimento lo tiene fuori di casa; una tazza di riso sul comodino lo tiene lontano dal vostro letto perché, nel caso la facesse cadere mentre vi disturba, sarebbe costretto a contare i

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chicchi uno a uno. Ma se proprio volete schifarlo, dovete andare al gabinetto mangiando una fetta di polenta e cacio: è un tipo molto attento alle questioni igieniche…». Chi è invece Ursolina la Rossa, protagonista del suo ultimo libro? «Ursolina la Rossa da Saxo Rubro era una povera donna del Frignano che nella prima metà del Cinquecento venne accusata di stregoneria e processata dall’Inquisizione modenese assieme alla figlia. Sotto tortura, anche del fuoco, le vennero fatte confessare diverse nefandezze, come uccisione di bambini, rapporti carnali col diavolo, eccetera. Gli atti del suo processo sono molto interessanti con riferimento non soltanto locale, ma anche italiano. A differenza di quanto sostenuto da altri studiosi ho dimostrato che Ursolina non venne uccisa, ma dopo varie penitenze poté tornare sui suoi monti. Molto peggio invece andò alle “streghe” lucchesi Margarita e Pulisena».

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Foto Merlo

UN EDIFICIO A MISURA DI NAVE di RENATA GUALTIERI

L’uomo e il mare: un rapporto costruito nel tempo, raccontato da un percorso che si snoda lungo le tante sale del Galata Museo del Mare. A bordo il direttore Pierangelo Campodonico che indica da dove inizia e dove conduce il viaggio all’interno del museo marittimo di Genova

O

ggi il Galata, il cui restauro è stato seguito dall’architetto Guillermo Vazquez Consuegra, è il più grande museo marittimo del Mediterraneo. La collezione, esposta su circa 8.000 mq dei 12.000 complessivi, è un percorso cronologico che, a partire dal porto del XV secolo arriva fino

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all’età contemporanea, passando per le tre “età” della marineria: l’età del remo, che racconta la vita sulle galee e nell’antico arsenale, l’età della vela, che parte dai vascelli e giunge fino agli ultimi clipper e, infine, l’età del vapore, con la nascita e affermazione dei piroscafi. «La mostra Novembre 2010


Foto Costa Edutainment

Visitando Genova

Il Museo del Mare

Foto Merlofotografia

delle opere originali è interrotta da tre grandi ricostruzioni che – precisa il direttore Pierangelo Campodonico – animano e caratterizzano il percorso di visita: una galea genovese del 600, un brigantino-goletta dell’800 e gli ambienti diversi di un piroscafo per emigranti, al principio del 900». È possibile entrare a bordo, accedere ai dormitori, maschili e femminile, e salire al ponte superiore, dove sono ricostruite infermeria, cabina di seconda classe, refettorio e cabina del commissario di bordo. Più in là è ricostruito il ponte di coperta del piroscafo, dove hanno trovato posto sia una wheelhouse originale, sia la

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sala delle feste dello yacht imperiale asburgico “Yaza”. L’ultimo piano è dedicato alla grande emigrazione italiana: con il successo della mostra La Merica. Il 2011 vedrà invece un nuovo allestimento del 3° piano dedicato ad altre frontiere dell’emigrazione italiana in Sud America e una alle recenti immigrazioni in Italia. Secondo il portale europeo di viaggi Trivago il Galata Museo del Mare è all’ottavo posto nella classifica tra i musei più visitati d’Italia. Di quanti visitatori si parla? «In sei anni il Galata è stato visitato da 830.000 persone (di cui 600.000 paganti) che, a partire dall’agosto del 2004, lo hanno reso la struttura museale più visitata di Genova e della Liguria e nella top ten dei musei italiani più innovativi e graditi al pubblico. Al suo sesto anno il Galata fa boom di presenze: da gennaio 2010 a oggi conta ben 140.000 paganti di cui più di l’80% includono la visita al sottomarino. Il dato è ancor più significativo in quanto in netta controtendenza rispetto al panorama culturale italiano, dove diverse ricerche elaborate dal ministero per i Beni culturali attestano che i visitatori dei musei italiani decrescono, con alcune eccezioni del territorio, a causa della crisi

In apertura, Mostra La Merica Galata Museo; in questa pagina, dall’alto, Ex equipaggio Sommergibile Nazario Sauro insieme al Direttore Pierangelo Campodonico; in basso, Sommergibile Nazario Sauro Galata Genova

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Visitando Genova

A destra, emigrazione dormitori Galata Museo

Foto Merlo

Il Museo del Mare

economica ma anche di un’offerta museale sempre meno capace di accontentare la domanda, mentre aumentano su tutto il territorio nazionale i visitatori non paganti. Se in Liguria, sempre secondo l’indagine riportata qualche tempo fa sulle cronache nazionali, sono ben più della metà (65%) i visitatori non paganti, il Galata Museo del Mare con oltre 2/3 dei biglietti venduti e con una costante crescita in termini di pubblico e di prodotto si conferma una vera eccellenza del territorio». Quali vantaggi porta la gestione integrata di Costa Edutainment? «La gestione e il marketing di Costa Edutainment ha garantito che il continuo rinnovo degli allestimenti e la trasformazione da polo museale a vero e proprio polo culturale dedicato al mare e alla navigazione, realizzati dal Mu.ma, portasse negli anni dati crescenti in termini di ingressi/visitatori e soprattutto il

Un soggiorno nella storia

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In una storica villa circondata da un bel giardino, a 200 metri dalla famosa passeggiata panoramica "Anita Garibaldi", vicino ai Parchi, ai Musei di Nervi e alla Galleria di Arte Moderna di Genova, l'Hotel Villa Bonera è una soluzione pratica e piacevole tra gli alberghi 2 stelle di Genova Nervi. Gli spazi dell'Hotel si trovano in una grande villa padronale del Cinquecento di Genova Nervi, che da metà dell'Ottocento è stata trasformata in albergo e conserva ancora affreschi, pavimenti e decorazioni originali. Circondato da un bel giardino con piante e fiori, l'hotel accoglie in spazi comodi e semplici tra reception, hall, bar, sala colazioni, saloni e sala lettura. Gli ospiti che arrivano in hotel a Genova Nervi in auto, hanno a disposizione il parcheggio all'aperto gratuito dell'Hotel Villa Bonera. L'albergo è in posizione ideale per raggiungere il centro storico di Genova, la Riviera di Levante con Portofino e le Cinque Terre.

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Foto Merlo

Qui sopra Armeria Museo del Mare

prestigioso riconoscimento insieme all’Acquario di Genova e la Città dei bambini e dei ragazzi da parte del Touring Club all’interno del “Dossier Musei 2009”. Il polo scientifico genovese è segnalato come l’elemento che fa di Genova la prima città in classifica per l’offerta di musei scientifici e non tradizionali. Questo polo è anche il risultato del sistema e dell’integrazione costruiti da Costa Edutainment tra tutte le

strutture gestite a Genova e proposte al pubblico attraverso l’AcquarioVillage. Il privato sociale è rappresentato dal fondamentale apporto dei protagonisti dello shipping che, caso forse unico in Italia, hanno deciso di investire in una struttura culturale e nel suo continuo rinnovamento attraverso l’associazione Onlus Promotori musei del mare. Anche singole imprese del mondo dello shipping hanno contribuito e contribuiscono a nuovi allestimenti o a mostre dedicate. Completa il quadro la Cooperativa Solidarietà e Lavoro, che fornisce il servizio di accoglienza e assistenza al pubblico». Quanto spazio è riservato all’attività di animazione e di gioco? «Va segnalata l’importante attività svolta dalla sezione didattica del Galata che, grazie alle diverse attività didattiche all’interno del Museo, rende facilmente fruibile al pubblico scolastico e quindi ai più giovani la cultura del mare in tutte le sue forme (oltre 15.000 gli studenti in visita per l’anno scolastico 2009- 2010). In questo

La tradizione, nella sua tipicità A Prà la famiglia Sacco coltiva il basilico dal 1831. Gianni, Alberto e Raimondo, figli del pioniere Giuseppe, con grande maestria e professionalità continuano questo lavoro. La filosofia dei Sacco è quella di mantenere la tradizione e di coniugarla con la modernità, nel pieno rispetto del ciclo di vita naturale della piantina. Così si ottiene un prodotto naturale trattato con delicatezza. Il basilico coltivato in serra è del tipo “genovese’’ dal colore verde tenue, dalla forma arrotondata e dal profumo intenso. Da questo tenero basilico, nasce il pesto, prodotto tipico della regione, rigorosamente artigianale e di altissima qualità.

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Foto CE-Studio Merlo

senso, anche il Galata Cafè, la caffetteria del Museo con una suggestiva terrazza che si affaccia sulla Darsena - gestita da Votre Chef contribuisce significativamente a coinvolgere un target di pubblico giovane e giovanile. Anche Sala Eventi e Mirador/MiraGenova sono luoghi molto apprezzati per eventi culturale e aziendali». La comunicazione passa attraverso campagne innovative e iniziative del tutto particolari, quali? «La comunicazione del Museo fa parte della gestione di Costa Edutainment che ha inserito il Galata nel circuito AcquarioVillage, proposta integrata e basata sull’offerta di esperienze edutainment in tutte le strutture da essa gestite.

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Più innovazione e interattività non solo per il prodotto ma anche attraverso una comunicazione capace di coinvolgere “a distanza”. Un esempio su tutti è l’ultima campagna di comunicazione in occasione del lancio del Nazario Sauro dove in un “percorso” iniziato con l’arrivo del sommergibile in Darsena il 26 settembre 2009, la comunicazione ha puntato sul coinvolgimento della città e del pubblico, attraverso la multimedialità e la multicanalità. Dall’evento d’inaugurazione organizzato il 28 maggio 2010, al sito internet espressamente dedicato al sommergibile con le curiosità, le immagini più belle e le testimonianze dei protagonisti che hanno vissuto a bordo».

Qui sopra Galea Museo del Mare

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IMPARARE DIVERTENDOSI di RENATA GUALTIERI

«Dalla cultura all’ambiente, dalla scienza alla natura, dalla tecnologia alla storia. L’Acquario di Genova è il cuore di questo mondo». Il direttore generale, Carla Sibilla, racconta di esperienze uniche e coinvolgenti

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Viaggio in Italia

Roma, potere senza tempo

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el 2009 l’Acquario di Genova ha tagliato il traguardo dei 20 milioni di visitatori. Un successo che secondo Carla Sibilla, direttore generale di Costa Edutainment, è attribuibile a diverse ragioni: il numero delle vasche, la varietà delle specie ospitate, le proposte turistiche, l’attenzione alle esigenze del visitatore per poter rispondere alla richiesta crescente di un uso qualitativo del tempo libero. Fondamentale è, inoltre, l’azione di “educazione” ambientale in linea con la missione della struttura, che è quella di «informare e sensibilizzare il pubblico alla conservazione, alla gestione e all’uso sostenibile degli ambienti acquatici per promuovere comportamenti positivi e responsabili».

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In apertura, Animali-StarPinguini, Costa Edutainment ph Merlofotografia; qui a fianco Carla Sibilla, direttore generale di Costa Edutainment

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Visitando Genova

L’AcquarioVillage

Che cosa è l’AcquarioVillage, quali ambientazioni spettacolari offre e quali esemplari straordinari di biodiversità? «AcquarioVillage è il risultato del sistema integrato che Costa Edutainment ha costruito attorno all’Acquario di Genova con l’obiettivo di coniugare in una proposta unica tutte le esperienze da vivere all’interno delle nostre strutture. Grazie all’ampia varietà e ricchezza di temi proposti, queste esperienze uniche e coinvolgenti si adattano alle diverse tipologie di visitatore: dalla cultura all’ambiente, dalla scienza alla natura, dalla tecnologia alla storia. L’Acquario di Genova, cuore di questo mondo, riproduce nelle sue vasche espositive ambienti acquatici di tutto il pianeta: dalle freddissime acque antartiche e subantartiche agli ambienti tropicali di acqua salata e dolce passando per il Mediterraneo e il Mare del Nord. Ogni vasca è una rappresentazione di una biodiversità importante da tutelare. Ci sono tuttavia animali particolarmente significativi da questo punto di vista: i pesci ghiaccio antartici, unica struttura in Europa a ospitarli in vasca espositiva, i lamantini, tutti i coloratissimi animali della barriera corallina compresi i coralli, diverse

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specie di rettili del Madagascar, gli squali, le foche comuni ambasciatrici di un messaggio di conservazione della foca monaca mediterranea». Cosa si propone alle famiglie, ai giovani, agli studenti? «Grazie al costante ascolto delle esigenze del pubblico, attraverso il monitoraggio della soddisfazione e il coinvolgimento in attività interattive, siamo in grado di sviluppare percorsi ed esperienze su misura. Lo stesso AcquarioVillage, fruibile in uno o più giorni grazie a un biglietto valido tutto l’anno, nasce come risposta alle esigenze delle famiglie di scegliere liberamente il momento più adatto per vivere il loro tempo libero, garantendo il massimo della flessibilità e un elevato standard di qualità. Per i più giovani, abbiamo la Notte con gli squali, l’esperienza di visita notturna riservata ai ragazzi dai 7 ai 13 anni, e i Campus estivi che consentono ai bambini e ai ragazzi di avvicinarsi alla scienza, alla natura, alla tecnologia e alla cultura in modo innovativo, divertente e proattivo. Per le famiglie, proponiamo percorsi dedicati quali CrocierAcquario, che consente di conoscere il

Qui sopra, personale al lavoro-EducazioneMedie, Costa Edutainment ph Merlofotografia; nella pagina seguente, dall’alto, Medusa Chrysaora melanaster, Costa Edutainment ph Merlofotografia; sotto, Laguna Madagascar con tartaruga Cuba, Costa Edutainment ph Merlofotografia

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Nel cuore della vecchia Genova Storiche atmosfere di un vero e proprio patrimonio enologico. Cinquemila etichette dei più svariati vini, liquori, champagne e whisky in commercio hanno reso la Bottiglieria-Enoteca Susto la storica custode dei “nettari” più ricercati. Nel cuore della vecchia Genova, dal 1870 insediata tra i locali di un palazzo quattrocentesco, l’Enoteca è il punto di incontro per chi, prima di sorseggiare il contenuto di un calice, si assicura della scelta. Vicine tra gli scaffali occupati da migliaia di bottiglie, le confezioni di salse, paté, confetture e sfiziosità gastronomiche accompagnano il programma di sedere in un’autentica buona tavola.

ENOTECA SUSTO Vico Casana, 24r - 16100 Genova Tel. e Fax 010 24.74.57 fattoria.nicodemi@tin.it

L’AcquarioVillage

mondo dei cetacei attraverso una gita di avvistamento in mare aperto nell’ambito del progetto di ricerca scientifica delfini metropolitani. Per il mondo della scuola, ci sono laboratori ad hoc e visite tematiche per ogni fascia scolare». In cosa consiste il format edutainment? «La parola edutainment sintetizza i due concetti cardine attorno ai quali costruiamo la nostra proposta al pubblico: educazione e intrattenimento. L’obiettivo della metodologia che caratterizza la nostra proposta al pubblico è coniugare informazioni sul tema trattato con il divertimento e il gioco rendendo più agile l’apprendimento e facendo in modo che i messaggi trasmessi siano assimilati grazie al maggior coinvolgimento da parte del target di riferimento. Questo modello di attività, basato sul concetto di esperienza unica e distintiva, focalizzata sull’emozione di imparare divertendosi, stimola la proattività del pubblico e contribuisce alla sensibilizzazione dei nostri visitatori. Il format edutainment, ideato da Costa Edutainment, comprende oltre la

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semplice visita, animazioni, approfondimenti, incontro a tu per tu con gli esperti, kit che consentono di proseguire l’esperienza anche a casa e speciali percorsi, laboratori e attività didattiche per le scuole di tutti i cicli scolari». Quale contributo dà l’Acquario allo sviluppo turistico della città e dell’intera regione? «Da una ricerca condotta da Praxi nel 2001, è risultato che l’indotto creato dall’Acquario di Genova per la città era pari a 37 milioni di euro all’anno. Secondo una più recente condotta da Cerist (2008), l’indotto creato è salito a 141,6. Il sistema integrato che ruota intorno all’Acquario è stato riconosciuto come una proposta di successo, oltre che dai risultati in termini di visitatori e di indotto sulla città, anche dal “Dossier Musei 2009” del Touring Club che ha segnalato il polo scientifico genovese, costituito insieme all’Acquario di Genova dalla Città dei bambini e dei ragazzi e dal Galata Museo del Mare, come l’elemento che fa di Genova la prima città in classifica per l’offerta di musei scientifici e non tradizionali».

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LA CITTÀ CHE NASCE DAL MARE

di RENATA GUALTIERI «Il porticciolo di Boccadasse, che sorge proprio là dove la città comincia a sciogliersi verso levante». È uno dei luoghi incontaminati e magici scelti da Tullio Solenghi per descrivere l’anima di Genova

A

rrivando a Genova vedrai una città imperiosa, coronata da aspre montagne, superba per uomini e per mura, signora del mare”. Questi i versi con cui Francesco Petrarca descriveva la città di Genova. Ancora oggi un genovese orgoglioso come Tullio Solenghi si lascia suggestionare dagli angoli ricchi di storia, tradizione e magia della sua terra natia e parla di una città superba, multietnica e magica. Crocevia di popoli e di culture, il capoluogo ligure con i suoi porti è emblema di un’antica mentalità commerciale. I sontuosi palazzi medioevali e rinascimentali delle vie del centro con arte mirabile narrano la storia della città. Ricordi innaffiati da vini sublimi che accompagnano ricchi piatti della cucina ligure da assaporare

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in antiche locande dove trascorrere serate dall’atmosfera incantata con il blu del mare che fa da sfondo. Quali sono stati i luoghi di Genova palcoscenico della sua infanzia? «Il mio paese natio S. Ilario, adagiato sulla collina che sovrasta Nervi. Dalla piazzetta della chiesa si domina un panorama mozzafiato che spazia dal monte di Portofino al porto di Genova. Nervi stessa è stata anch’essa teatro delle mie prime incursioni giovanili». Quale scorcio della città per la sua magia potrebbe fare da scenario ad una Sua immaginaria rappresentazione teatrale? «Di sicuro il porticciolo di Boccadasse, che

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sorge proprio là dove la città comincia a sciogliersi verso levante. Un angolo incontaminato dove a farla da padrone sono i gatti pigramente accoccolati sulle barche in secca dei pescatori». Se dovesse accompagnare un gruppo di curiosi in visita nella sua terra quali angoli insoliti gli farebbe scoprire? «Torno alla mia Nervi e al mio S. Ilario, della prima sceglierei la passeggiata Anita Garibaldi, del secondo il sentiero che dalla chiesa parrocchiale porta alla cappella di S. Rocco. La prima a lambire la costa, la seconda la montagna, entrambe con il blu profondo del mare a fare da cornice». Quali aggettivi sceglierebbe per

In apertura, Boccadasse; in basso, l’attore Tulio Solenghi; nella pagina seguente, la Cappella di S. Rocco, Sant’Ilario

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Tipici sapori liguri

RISTORANTE LA STALLA DEI FRATI Via G. Pino, 27 - 16038 Santa Margherita Ligure (GE) Tel. 0185 28.94.47 - Cell. 349 32.27.940 - 347 24.52.309

Felicità è anche un ristorante-villa con terrazzo panoramico sulle colline di Santa Margherita Ligure, una vista indimenticabile sul golfo del Tigullio, una cucina fatta con la testa per il piacere del palato, dei vini con pedigree e bouquet di tutto rispetto, e soprattutto la calda ospitalità di Cesare Frati, della figlia Lavinia e di tutto lo staff. Un piacevole aperitivo e poi lasciatevi consigliare i piatti locali o internazionali di Stefano, cuoco giovane dall’ottimo curriculum. Difficilmente dimenticherete la Stalla dei Frati dopo aver assaporato l'entrée di sarde fresche alla griglia o le zucchine fritte seguite dalle loro trenette al pesto delicato e deciso allo stesso tempo. Date loro pure carta bianca per i secondi e per i dolci. I Frati sono qui per farvi felici.

descrivere l’anima di Genova e perché? «Superba, secondo la sua antica fama di città dal centro storico costellato da palazzi sontuosi, multietnica, poche città come Genova riescono a far convivere etnie diverse, soprattutto nella zona popolare dell’angiporto. Magica, ogni scorcio, ogni fessura di sole, ogni carruggio che scende al porto, sono incredibili scenari di qualcosa di magicamente inafferrabile».

Tornando alla mia Sant’Ilario visiterei il sentiero che dalla chiesa parrocchiale porta alla Cappella di S. Rocco Tornando da una tournée teatrale in quale osteria o ristorante della Sua città si recherebbe volentieri e quale piatto della tradizione culinaria genoana vorrebbe assaporare? «La mia meta fissa è la trattoria delle Due Torri a due passi dalla casa di Colombo, piatti da non perdere: lasagne e minestrone al pesto, ma anche le acciughe impanate e fritte, una vera delizia». Con quale vino delle cantine liguri accompagnerebbe l’assaggio di questo piatto? «Il bianco delle Cinque Terre che ritengo sia tutt’ora uno dei vini liguri più prestigiosi».

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Viaggio in Italia

RESTYLING DEI MURETTI A SECCO Le arcaiche impalcature dei terrazzamenti liguri conquistano una fama intercontinentale. Per Roberto Vegnuti, portavoce del Consorzio turistico delle Cinque Terre, si compie il miracolo del glocalismo di PAOLA MARUZZI

S In alto, particolare dei muretti a secco; a destra, il borgo di Vernazza

ettemila chilometri di muretto a secco, in pratica la lunghezza della Grande Muraglia cinese. È la misura dell'opera millenaria che sorregge l'impalcatura geologica e culturale delle Cinque Terre. Gli autoctoni li chiamano semplicemente ciàn, i terrazzamenti appunto, reiterando un passato agricolo, che per sopravvivere ha dovuto rimpastare la verticalità del paesaggio. Così, scavando e livellando, è stato possibile addolcire il carattere aspro e accidentato delle Cinque Terre. Oggi le immagini degli scoscesi pendii solcati dalle fasce rimbalzano da una parte all'altra del globo. Non solo perché questa costa frastagliata è patrimonio dell'Unesco. A far circolare il fascino di una natura fortemente antropizzata sono i turisti. Le presenze annue si

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aggirano, infatti, intorno ai 2 milioni. Un segnale sorprendente che merita di essere approfondito assieme al consulente marketing del Consorzio Turistico delle Cinque Terre, Roberto Vegnuti. «Partiamo dai dati: contrariamente a quanto avviene nella maggior parte delle località italiane, qui il 70 per cento del turismo è di nazionalità straniera. Di questo una buona metà è intercontinentale. Gli Stati Uniti sono in testa, seguono Canada, Australia e Nuova Zelanda. Ultimamente si sta sviluppando anche il turismo scandinavo. Questa peculiarità comporta due aspetti. Primo: gli arrivi sono spalmati per buona parte dell’anno. Quindi non si registriamo picchi di presenza solo ad agosto. Ecco perché maggio, giugno e settembre sono considerate alta

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stagione. Secondo: il turista che viene a visitare le Cinque terre è itinerante, nel senso che ama camminare, andare in avanscoperta. Perché chi attraversa mezzo mondo non si accontenta di starsene sdraiato in spiaggia, seppure il mare sia bellissimo vuole godere appieno del paesaggio. Ecco allora che i sentieri, che si snodano da un borgo all’altro, diventano la spina dorsale dell’offerta turistica. Sono come le piste da sci per la Val Gardena, fanno da motore economico e culturale». Chi visita le Cinque terre è portato ad alzare lo sguardo verso le colline, a entrare in contatto con le realtà locali e con le tipicità gastronomiche. In un contesto in cui la fruizione del territorio è a tutto tondo, i “vecchi” terrazzamenti hanno riscoperto una doppia funzione: sono una testimonianza storica e rimettono in circolo i sapori di un tempo. «Se prima coltivare la terra era funzionale al sostentamento della popolazione del posto, oggi vignaioli e viticoltori si sono reinventati un mestiere

Tutto ciò che offre il mare Grazia e Renzo hanno preso in gestione il ristorante da Aristide nel 1964, e portano avanti la tradizione famigliare affiancati da Monica e Elena, rispettivamente figlia e nipote. La vocazione del Ristorante da Aristide è senza dubbio il mare, partendo dal pesce “nobile” fino al pescato locale. La cucina si propone di unire ciò che offre il mare con gli ingredienti tipici del territorio ligure e delle diverse stagioni. Ottimi gli antipasti, tra cui le acciughe sotto sale e al limone, preparate da Grazia, e i ravioli di pesce fatti in casa. I vini sono selezionati tra i produttori della zona delle Cinque Terre, con particolare attenzione alle produzioni dei giovani viticoltori di Manarola.

RISTORANTE DA ARISTIDE Via Discovolo, 290 - 19017 Manarola (SP) - Tel. 0187 92.00.00 - Fax 0187 76.08.91 aristide.manarola@gmail.com

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Cinque terre

I muretti a secco

Il sentiero VolastraCorniglia

puntando sulla qualità di prodotti di nicchia – continua Roberto Vegnuti –. Qui si producono prestigiosi vini Doc, che fanno gola soprattutto agli stranieri. Non è un caso che il 75 per cento del vino ligure venga consumato sul posto». Ecco spiegata la ragione di una recente normativa del Parco nazionale delle Cinque Terre, che obbliga i nuovi acquirenti di rustici a sobbarcarsi anche la terra che gli sta intorno. L’idea è quella di promuovere e al tempo stesso tutelare il patrimonio dei terrazzamenti, che pur sopravvivendo da millenni non è insensibile al tempo. «Senza manutenzione le Cinque Terre cadrebbero a picco. Lo potrebbe confermare qualsiasi geologo. Per fortuna l’opera di restyling è a uno stadio avanzato. Allargando il discorso, il Consorzio, capitanato dal presidente Rina Moggia, sta collaborando con la facoltà di Architettura di Genova affinché venga recuperata l’area sentieristica minore. In una prima fase il progetto prevede il rilevamento e il censimento delle emergenze. A conclusione si spera di riuscire a spalmare le fruizione turistica su un territorio più ampio,

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«I sentieri sono la spina dorsale delle Cinque Terre» evitando così quello che potremmo chiamare “effetto Venezia”». Le Cinque Terre, dunque, come brand eccezionalmente riuscito, il cui marketing territoriale fa leva sulla capacità di tessere un racconto autentico tra le realtà locali e la loro inevitabile trasformazione in chiave internazionale. «È il cosiddetto glocalismo: gomito a gomito convivono linguaggi misti. Da una parte si conserva la vena autentica di questi posti, dall’altro ci si apre a nuove forme di comunicazione». D’altronde mista è l’identità sociologica dei cinque borghi: Monterosso al Mare,Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. «Hanno una vocazione agromarina. Sono nati nell'entroterra e poi sono discesi verso il mare». E, dulcis in fundo, Vegnuti aggiunge: «Questi sono i borghi dei colori cangianti, dell’arancione e del giallo, perché la notte è nera, come la roccia su cui sono tenacemente aggrappati».

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AUTENTICITÀ SU PICCOLA SCALA Isolato e segretamente connesso al resto dei quattro borghi che compongono il patrimonio Unesco. Monterosso, sospeso tra la terra e il mare, evoca le passeggiate di montaliana memoria. Tra limoneti e vigneti

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ampare, gianchetti, carruggi, Sciachetrà, creuza: un concentrato di lessico autoctono e dialettale squaderna stili di vita e racconti tipicamente liguri. D’altronde il vocabolario cambia e si aggiorna in base alla geografia dello Stivale. Sotto la spinta di un linguaggio ancora fortemente presente, si arriva a Monterosso al Mare, il più grande e antico borgo delle Cinque Terre. Queste sono

Angelo Maria Betta, sindaco di Monterosso al Mare

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di PAOLA MARUZZI

appunto le latitudini della pesca notturna illuminata dalle piccole lampade, delle acciughe azzurre, dei vicoli che si snodano tra case alte e strette, del vino passito, dolce e liquoroso. Questa è la costa delle mulattiere che vanno verso il mare. Nel paesino che all’anagrafe conta poco più di mille abitanti, un mix di fattori - dal patrimonio paesaggistico al panorama enogastronomico ha reso relativo il concetto di alta stagione. Durante tutto l’anno, in un tour over continuo, si alternano viaggiatori di diverse nazionalità. Cercano la suggestione su piccola scala. Le spiagge assolate ma anche la fatica leggera dei sentieri collinari, tra limoneti e vigneti. «Monterosso è oggi un vetrina mondiale. È un angolo pittoresco senza essere forzatamente patinato» spiega il primo cittadino, Angelo Maria Betta. La centralità turistica di Monterosso mette radici in tempi decisamente “non sospetti”. «In effetti già prima degli anni Cinquanta arrivavano villeggianti da Milano e da Genova.

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Erano persone benestanti che trascorrevano da noi buona parte della stagione estiva. Una tipologia di turismo che in parte è sopravvissuta accanto alle formule “mordi e fuggi” di oggi. Nel 1997 Monterosso, assieme agli altri borghi delle Cinque Terre, diventano patrimonio Unesco. Un riconoscimento che conferisce un valore universale a questo lembo di Liguria. Il vero boom, quello del turismo dal respiro internazionale, si decreta con la nascita del Parco Nazionale delle Cinque Terre, nel 1999. Oggi il turismo rappresenta il motore dell'economia locale». Possiamo dire che accogliete un turismo di massa ma al tempo stesso discreto, non invasivo? «Monterosso è un piccolo paese, quindi è l’ideale per chi vuole staccare dai ritmi frenetici delle grandi città. Non è dunque appannaggio del turismo “selvaggio”.

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Nonostante la massiccia affluenza dei visitatori, qui il tempo si dilata e scopre una dimensione più umana, intima. Questo forse è dovuto anche al connaturato isolamento geografico, che nonostante il progresso continua a riflettersi sul carattere autentico del borgo. Questa “lontananza” dal caos dà quindi un valore aggiunto al soggiorno». Le tappe imperdibili? «A parte la visita al centro storico, che si snoda attraverso le casette colorate e gli stretti carrugi su cui si affacciano antichissimi portoni, non si può non salire al convento dei Cappuccini. Da qui si può ammirare un panorama mozzafiato. Caratteristica è poi la statua del Gigante, aggrappata a uno sperone di roccia. Risale al 1910 e raffigura un gigantesco Nettuno. Sovrasta l’omonima spiaggia, dove nelle vicinanze si trova la villa della famiglia Montale».

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Cinque Terre

Monterosso al Mare

Un tour che non si consuma in una giornata. «Ci vogliono almeno cinque giorni per esaurire le bellezze del posto. Per cogliere la tipicità di Monterosso bisogna avventurarsi per i sentieri che attraversano i limoneti e i vigneti. Molti non sono neanche battuti. Ci sono scorci e luoghi che, nella loro semplicità, sfuggono al turismo di massa. Diciamo che il fascino di Monterosso è nascosto. Bisogna quindi lasciarsi guidare anche un po’ dal caso. Certo, è necessario un minimo di riguardo e un'attrezzatura idonea». Monterosso affonda in un passato più agricolo o marittimo? «Oggi la risorsa economica principale è, naturalmente, il turismo. Ma questo non ha fatto altro che reinterpretare un'identità è mista, sospesa tra la terra e il mare. Basta un rapido sguardo per capirlo. Da una parte abbiamo i terrazzamenti che raccontano le grandi fatiche della maggior parte della popolazione che lavorava la terra; dall'altra la pesca, tradizionalmente legata alle acciughe.

«Monterosso è una vetrina mondiale. Sa “vendersi” ma non ha perso la sua autenticità»

Prelibate occasioni Il Ristorante “La Cambusa” è situato nel cuore del centro storico, nel caratteristico borgo marinaro di Monterosso, sotto le cui volte di mattoni del Milleduecento, si possono gustare le specialità di mare. Il ristorante è dotato di una veranda esterna e di sale interne che nel periodo estivo sono climatizzate. I primi, fra cui gli spaghetti “alla Cambusa”, le linguine all'onda marina, e il pesce freschissimo, sono un’occasione prelibata da non perdere. Tutte le ricette sono da accompagnare con i famosi vini D.O.C. delle Cinque Terre.

RISTORANTE LA CAMBUSA Via Roma, 6 - Monterosso al Mare (SP) - Tel. 0187 81.75.46 - Fax 0187 81.72.58 www.ristorantelacambusa.com - www.cinqueterre.it - lacambusa@cinqueterre.it

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Sulle tracce di Montale A ritroso nel tempo e nelle stagioni per inciampare in uno dei versi più celebri della letteratura italiana. «Qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l'odore dei limoni». Il “qui” è la Monterosso degli anni Trenta e degli Ossi di Seppia. L'odore senza tempo è, invece, quello che verosimilmente Montale avrà annusato girovagando per le Cinque Terre. Perché è qui che il poeta genovese andava in villeggiatura per alcuni mesi all'anno. Si può ancora ammirare la casa – la pagoda giallognola la chiamava il Nobel – con il suo stile liberty e le due palme quasi simmetriche. «Oggi appartiene a dei privati che non sono originari del posto – racconta il sindaco Angelo Maria Betta – ma è diventata meta di un silenzioso pellegrinaggio. Attorno al nostro borgo gravita un corollario di luoghi poetici: la casa dei doganieri, Punta Mesco. Poi c'è tutta l'unicità paesaggio, con la sua vegetazione, i suoi prodotti: le tamerici, le acciughe, il rumore del mare». Un itinerario visivo e olfattivo, apertamente celebrato o sottilmente evocato, che la penna di Montale ha assorbito come una spugna. La Liguria orientale, la terra della giovinezza e dei primi componimenti, rimane quindi come un tarlo a scavare nella

Passeggiando lungo il porto si sente ancora l’odore del pan du ma, il pane del mare, così venivano chiamati questi pesci. Il 29 giugno, la festa di San Pietro, viene rievocato quello che era il momento ottimale per le battute di pesca, che tuttora vengono effettuate con le lampare. Il tratto di mare che bagna le Cinque Terre è caratterizzato da una particolare salinità. Questo fa sì che le acciughe raggiungano il massimo valore per consistenza, sapore, gusto e contenuto di grassi». Oggi che fine hanno fatto i tradizionali prodotti dei campi e del mare? «Resistono e fanno gola a un mercato di nicchia, che apprezza le certificazioni e la qualità. I terrazzamenti, dopo aver subito una lungo abbandono, sono stati ripristinati. Oggi ci sono numerose aziende agricole che producono principalmente olio extravergine d'oliva e il vino bianco. Lo Sciachetrà è per antonomasia il nostro fiore all'occhiello. Ci

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memoria montaliana, soprattutto quando ne sarà lontano. Negli anni Sessanta ne torna a parlare e ne ricorda la bellezza «scarna, scabra, allucinante. Per istinto io tentai un verso che aderisse a ogni fibra di quel suolo». Anni dopo è la volta dei treni lumaca che passavano nelle piccole stazioncine per scaricare i turisti: «Avaro vi è lo spazio che non permette passeggiate se non a coloro che vogliono inerpicarsi come capre fra terrazze di vigneti digradanti verso il mare. Paesaggio roccioso e austero, asilo di pescatori e di contadini viventi a frusto a frusto su un lembo di spiaggia». Montale ha lasciato il segno e Monterosso gli ha restituito il Parco letterario: un percorso guidato, un invito a leggere tra le righe il “sottotesto”di una località attraversata dal turismo internazionale, ma che conserva una vena colloquiale.

rappresenta in tutto il mondo. I vigneti sono talmente fondanti che il loro ricordo si perde nella notte dei tempi. Ne parla persino Petrarca. Altrettanto riconosciuto è l'altro pezzo forte della nostra enogastronomia, le acciughe, buone in tutte le salse: sotto sale, fritte, al forno o semplicemente accompagnate da olio e origano».

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IL PARCO DEL TREKKING LEGGERO di PAOLA MARUZZI

Ossigeno e muscoli per risalire dolcemente l’interno delle Cinque Terre. I luoghi dell’agricoltura eroica, della biodiversità e dei fragili equilibri, che l’occhio vigile del Corpo forestale tiene sotto stretta sorveglianza. A colloquio con Silvia Olivari

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n buon paio di scarpe da trekking, una borraccia d’acqua, un po’ di frutta per rifocillarsi, una mantellina per ripararsi dalla pioggia e, per finire, un binocolo». Per Silvia Olivari, coordinatrice territoriale del Corpo forestale per il Parco nazionale delle Cinque Terre, il fascino di questi posti si scopre passo dopo passo, praticando un turismo slow, che prende e dà ossigeno. Zaino in spalla, si parte quindi alla scoperta della Liguria rocciosa e nascosta, quella che da una parte si affaccia a strapiombo sul mare e dall’altra si arrampica sulle colline terrazzate. Qualche manciata di chilometri, un paio d'ore di moto e la voglia di lasciarsi alle spalle il solito tram tram cittadino, sono più che sufficienti per conoscere la biodiversità del cosiddetto Parco dell’Uomo, il

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più piccolo e popoloso d’Italia, istituito nel 1999. All’interno dei 4.300 ettari si dirama una ragnatela di percorsi: è la straordinaria rete sentieristica che collega i borghi di Riomaggiore, Manarola, Corniglia,Vernazza e Monterosso al Mare. Silvia Olivari ne ripercorre il filo panoramico, doppiamente giocato tra la terra e il mare: «Qui si dischiudono panorami aperti alle isole di Corsica, Capraia, Gorgona, Elba. Scogliere battute dalle onde e agavi abbarbicate alla roccia e sospese sui flutti. Paesaggi agrari inseriti come mosaici nei boschi: uliveti, orti e soprattutto vigneti scompongono il verde dei versanti, coperti da boschi di leccio, di castagno, di querce e di pino marittimo. Borghi storici, le terre, racchiusi allo sbocco di valli, stretti tra il

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mare e le pendici dei monti, circondati da vigne e frutteti, indovinati e scoperti, prima ancora che visti. L’ascolto di suoni e di voci appartenenti ai luoghi: il vento, il mare, i ruscelli, le cesoie, la zappa. L’assenza di grida, di rumori di auto». La vegetazione è varia, perché il paesaggio è montuoso e articolato. Si passa dalla macchia mediterranea, lucida e profumata, ai vigneti e ai boschi di latifoglie e conifere. Ma, come sa chi vi lavora, questo patrimonio va tenuto sotto stretta sorveglianza. «Grazie al costante monitoraggio del territorio da parte degli uomini del Corpo forestale dello Stato, gli incendi sono stati annualmente ridotti, sia in numero che in estensione. Solo a settembre dell’anno scorso, dopo mesi e mesi di siccità, abbiamo dovuto affrontare contemporaneamente due emergenze, a Corniglia e a Riomaggiore. A questo si aggiunga un altra nota dolente: le pinete di Pino marittimo soffrono l’attacco di un

La Liguria rocciosa

Le Cinque Terre

parassita, la cocciniglia del pino, che ne provoca indirettamente il disseccamento e contro cui, purtroppo, non esistono antidoti. Introdotto negli anni Settanta con il trasporto di legname infetto, ha già attaccato le pinete della Liguria, della Toscana e del Lazio». Si tratta comunque di problematiche e “difetti” che sono ben lungi dall’intaccare la bellezza dell'area protetta.

Un panorama mozzafiato L’Hotel Suisse Bellevue è situato nel suggestivo golfo delle Cinque Terre, in zona collinare, a circa 1 Km da Monterosso al Mare. Una posizione panoramica incantevole: l’hotel sovrasta il mare e la spiaggia ed è immerso nella quiete e nel verde della pineta che lo circonda. Le camere sono tutte dotate di bagno o doccia, telefono diretto, phon, frigo bar, TV sat e aria condizionata. L'Hotel dispone di servizio bus navetta gratuito ed è convenzionato con i Bagni Eden. La struttura offre la possibilità, alla clientela dell'Hotel, di affittare cabine, lettini, ombrelloni e sdraio a prezzi ridotti.

HOTEL SUISSE BELLEVUE Loc. Minali - 19016 Monterosso al Mare (SP) - Tel. 0187 81.80.65 - Fax 0187 81.83.25 cigolini@hotelsuissebellevue.it - www.hotelsuissebellevue.it

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Foto SergioFregoso

Le Cinque Terre

Ma c’è ancora un aspetto che non va sottovalutato. Semplificare il discorso, chiamando tutto questo “spettacolo naturale” è scorretto. Il Parco non è un paradiso selvaggio e incontaminato. Le Cinque Terre sono al contrario il prodotto, millenario ed eroico, delle fatiche dell'uomo. «Tutto si regge su un fragile equilibrio – continua Silvia Olivari –. Mi riferisco ai terrazzamenti sorretti da circa settemila chilometri di muretti a secco. I nostri antenati hanno per necessità modellato il pendio naturale dei versanti, formando i gradoni dei terrazzamenti, e hanno sostituito la vegetazione spontanea con le coltivazioni». Oggi, nell’era post agricola, la minaccia dell’abbandono mette seriamente a rischio il sistema ingegneristico dei terrazzamenti. In ballo non c'è solo il rischio di perdere un’opera monumentale, ma anche il verificarsi di una serie di conseguenze idrogeologiche. «L’abbandono delle coltivazioni, quindi della manutenzione dei muri a secco e della regimazione idrica, induce al ritorno della

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situazione iniziale. Tra le conseguenze immediate ci sono frane e dissesti. Talvolta la vegetazione spontanea fa in tempo a ricoprire e a proteggere dall’erosione i terreni nudi abbandonati, ma in zone troppo ripide e prossime al mare, la gravità ha la meglio. Solo le zone più vocate all’agricoltura possono essere conservate, valorizzandone le produzioni». Sono queste, appunto, a fare da traino e da esempio. Pian piano si sta ricostruendo il mosaico dei vigneti. E lo Sciachetrà, il Doc delle Cinque Terre, è ormai un prodotto di lusso, apprezzato non solo in Liguria. Insomma, sono lontani i tempi in cui il vino liquoroso, «ottenuto dall’appassimento di uve bosco, albarola e vermentino, scelte tra le migliori della vendemmia e messe ad appassire per almeno due mesi in locali aerati, veniva riservato solo per le grandi occasioni. Oggi fa fruttare un bel giro d’affari e ha un prezzo di mercato elevatissimo. Per garantirne la qualità e contrastare le frodi il Corpo forestale dello Stato vigila e controlla tutta la produzione del vino Doc nelle Cinque Terre».

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LA VALLE DEI BORGHI ROTONDI di NIKE GURLANI

Tra percorsi immersi nella natura, i sapori, le tradizioni e gli affascinanti paesi, la scrittrice Barbarà Barnabo ci accompagna alla scoperta della Val di Vara, molto amata anche da Mario Soldati

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a Val di Vara si trova nell’entroterra ligure ed è la valle più grande della provincia della Spezia e di tutta la Liguria. «Chiusa da alte montagne e percorsa da torrenti che formano numerose valli secondarie punteggiate da centri storici con le tipiche case in pietra che Mario Soldati definì “meravigliosa varietà di piccole valli da una parte e dall’altra del Vara” il paesaggio è tutt’altro che monotono» mette in luce la scrittrice Barbara Barnabò che ha dedicato molti libri a questi suggestivi luoghi. «Il territorio è solcato da un gran numero di sentieri, retaggio di una viabilità secolare, per la maggior parte facilmente accessibili e alla portata anche degli escursionisti meno esperti». L’itinerario escursionistico principale è l’Alta Via dei Monti Liguri «che ricalca un antichissimo percorso che si snoda sullo spartiacque tra le valli del Vara e del Magra, percorribile a piedi, a cavallo o

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in mountain bike» conclude la scrittrice. Tipici di questa valle sono i borghi con la struttura rotonda medievale, quali quelli più suggestivi? «Il borgo rotondo più celebre della valle è quello Varese Ligure, fondato dai Fieschi alla fine del Duecento e così configurato sia per la conformazione del suolo, sia per scopi difensivi. Anche Brugnato ha un impianto sviluppatosi “a tenaglia” intorno all’antica cattedrale, con case a schiera disposte in linea continua. Due luoghi che, a vario titolo e per motivi diversi, hanno avuto rapporti con l’antica e potente famiglia Fieschi: è possibile che questa impronta urbanistica sia dovuta a maestranze che operavano su loro committenza, come ipotizzano i più recenti studi. Un’analoga tipologia si ritrova anche in centri più piccoli, quali Bozzolo, presso Brugnato, Groppo, oggi frazione di Sesta Godano e Ponzò, a Riccò del Golfo». Immagini di guidare un gruppo di

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turisti in questa Valle, quale, dal suo punto di vista, dovrebbe essere il punto di partenza e quello d’arrivo? «Partirei da Vezzano Ligure, punto di confluenza del fiume Vara nel Magra, fino a Varese e al Passo di Cento Croci, nei cui pressi il Vara nasce. Chi percorre la valle può apprezzarne le diverse anime: i modelli culturali lunigianesi e toscani sono tangibili nella parte bassa, nella media valle ha invece lasciato traccia la presenza del Vescovato di Bugnato mentre, inoltrandosi verso l’alta Vara, si incontra un ambiente più tipicamente genovese. Queste differenze, talora percepibili da paese a paese, riguardano il dialetto, la cucina, l’architettura e l’arte e le consuetudini. Una visita nella valle può seguire diversi itinerari tematici, per tutti i gusti: l’ambiente, i sentieri, i siti archeologici, i borghi medievali, i castelli, i santuari. A 150 anni dall’Unità d’Italia si potrebbe anche percorrere un itinerario sulle tracce degli eventi e dei personaggi risorgimentali». Quali le tappe imprescindibili? «Consiglio di visitare i castelli di Calice al Cornoviglio e Madrignano,Vezzano Ligure, Ceparana, Suvero e Varese Ligure che, persa la finalità difensiva, hanno assunto nel tempo le caratteristiche di palazzi residenziali. Per gli amanti dell’archeologia, molto interessanti sono anche i siti archeologici di Valle Lagorara, una cava di diaspro sfruttata dall’Età del Rame all’Età del Bronzo, della Pianaccia di Suvero - che testimonia il Neolitico e l’età del Bronzo medio - e i resti del villaggio ligure del castellaro di Zignago esposti in una Mostra Permanente. Chi percorre la Val di Vara non può fare a meno di notare la ricchezza dell’ambiente naturale, i

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caratteristici esempi di architettura rurale - sono tipiche le case in pietra con aia pensile e portico sottostante - e forme spontanee di arte che spesso costituiscono fenomeni di attardamento culturale, come nel caso delle “teste apotropaiche” concentrate soprattutto nel territorio di Carro. Per chi invece è appassionato degli antichi percorsi di pellegrinaggio consiglio di visitare la chiesa di San Martino di Durasca». C’è una veduta, in particolare, da dove poter ammirare tutta la Valle? «Una delle più belle vedute si gode dall’alto dei 1011 metri del Monte Dragnone, nello Zignago, che con il suo santuario mariano domina i crinali dello spartiacque tra la Val di Vara e lo Zerasco. Percorrendo l’Alta Via dei Monti Liguri si può raggiungere l’imponente Monte Gottero (1.639 m), ricoperto di castagni, cerri e faggi, che domina la parte centrale della valle ed è collegato al Passo di Cento Croci». Dal punto di vista enogastronomico

In apertura, la scrittrice Barbara Barnabò; sopra, una veduta di Varese Ligure; a seguire, Beverino

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“… è un luogo che la natura intorno nasconde: un porto segreto…. Straordinario, subito, è il senso di solitudine, il silenzio… Ma il Beverino che preferisco è questo, umile, antichissimo, dove pare che fermenti ancora, miracolosamente, la libertà e la dignità di artigiani e vignaioli liguri dell’ultimo Medioevo” (Mario Soldati, Regione Regina)

quali sono i piatti e i vini tipici? «La Val di Vara ha una grande varietà di piatti. Tipici sono a Varese i crosetti, dischetti di pasta con motivi floreali stampati da condire con crema di pinoli o salsa di noci, le tumaxelle, involtini di carne ed erbe aromatiche, e le crocchette di patate dette cucculetti. Molto utilizzata, inoltre, la farina di castagne per la preparazione del castagnaccio, delle frittelle, delle tagliatelle condite con la ricotta (taiette), delle cordelle da condire con pesto o salsa di noci e del pane (pan martin) ottenuto con farina di castagne, farina di grano e noci». C’è un ristorante, che lei consiglierebbe, dove si possono gustare questi piatti? «In tutta la valle, nei centri principali ma talora anche nelle frazioni, si possono trovare moltissimi locali tipici e agriturismi che propongono menu particolari, anche legati alle diverse opportunità dei prodotti di stagione. Molto spesso in questi locali, di impronta familiare e in posizioni ambientali favorevoli, ci si può immergere nella più verace cultura valdivarense».

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ALTA STAGIONE TUTTO L’ANNO Atmosfere natalizie e tintarella estiva, sapori di montagna e spiagge dorate, movida notturna e rievocazioni storiche di un passato ricco di suggestioni. Il presidente della Provincia di Savona, Angelo Vaccarezza, ci accompagna alla scoperta di una terra dai mille volti

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di MICHELA EVANGELISTI

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Savona

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vete già deciso dove trascorrere la magica notte del veglione? Il presidente Vaccarezza una proposta ce l’ha: alla Vecchia Darsena di Savona. Completamente ristrutturata dieci anni fa, a capodanno la animano musica, fuochi d’artificio e protagonisti dello spettacolo. Se poi riuscite a ritagliarvi qualche giorno in più di vacanza, nelle scuole e nelle sedi delle associazioni del territorio potrete immergervi nella pace dei presepi oppure fare una sosta a Loano, per ammirare le illuminazioni natalizie: i cittadini ci lavorano per mesi e rendono i caruggi ancora più suggestivi. Una pioggia di bandiere blu negli ultimi anni per Savona. Quali sono i pregi delle sue spiagge? «La provincia di Savona ha lavorato molto sulla depurazione, che non è l’unico fattore per ottenere le bandiere blu, ma è fortemente condizionante. A una politica ambientale a tutto campo si è aggiunta negli anni una grande attenzione all’accessibilità. I nostri stabilimenti balneari sono dotati di supporti che consentono anche a persone diversamente abili di godere delle spiagge e del bagno in mare. Questo impegno ha portato la provincia a raggiungere le dieci bandiere blu; grazie al nostro contributo la Liguria può vantare il primato di regione più blu d’Italia, con ben diciassette bandiere!». L’amministrazione pubblica da anni propone una stagione estiva ricca di eventi. Se dovesse consigliare un appuntamento da

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Dalle colline al mare

A sinistra, Angelo Vaccarezza, presidente della Provincia di Savona; in apertura, le rievocazioni medioevali a Finalborgo

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Savona

Dalle colline al mare

In alto, clima natalizio nei paesi della provincia

non perdere? «Le manifestazioni sono organizzate non solo da Provincia e Regione, ma anche da ogni singolo comune che si affaccia sul mare, sia nei momenti caldi del turismo che fuori stagione. Se proprio devo scegliere, suggerirei di non perdere le rievocazioni medioevali di Finalborgo». Savona non è solo mare e spiagge: quale passeggiata indicherebbe a un visitatore a caccia di arte e cultura? «Un percorso ricchissimo ma poco conosciuto, sulle tracce di vestigia napoleoniche. La campagna in Italia, cominciata nel 1796, ha avuto un antefatto nel 1795 e il fronte tagliava a metà la provincia di Savona. La presenza fissa dell’esercito sul territorio per quasi un anno ha lasciato sulle nostre colline i segni delle tende degli accampamenti e preziosi reperti, ancora per lo più ammassati nelle cantine. Ora, grazie anche ai finanziamenti della comunità europea, stiamo progettando la definizione di un percorso informativo e la fondazione di un museo». Il chinotto di Savona è uno dei presidi Italiani di Slow Food. Quali altri sapori locali non bisogna lasciarsi scappare?

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«Al di là degli importantissimi presidi Slow food, quello che mi sta a cuore è formare chi lavora nell’enogastronomia. La sconfitta di Savona si consuma quando un cameriere di un ristorante di buon livello al momento del dessert invece di proporre gli amaretti di Sassello offre una crema catalana. La ristorazione di qualità in provincia non manca: ultimamente ha riscoperto il prodotto del mare, annaffiato con una bottiglia di Pigato o di Vermentino. Un ottimo vino del territorio è anche la Granaccia di Quiliano, un rosso importante ma poco noto». Se dovesse accompagnare un amico in una gita in provincia, quali itinerari seguirebbe? «Lo porterei in alta Val Bormida, sulla strada che da Bardineto va a Calizzano, passa per Murialdo, scollina e arriva a Massimino, dove lo sguardo spazia su paesaggi paragonabili a quelli delle più belle dolomiti italiane. Con la differenza che distano pochi chilometri dalle spiagge. In soli 13 minuti cambiano il panorama e il clima, si passa dal pesce al cinghiale con funghi o patate. Un salto che solo la provincia di Savona può offrire».

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UN DEPOSITO DI EMOZIONI

Savona

di MICHELA EVANGELISTI

«Venite nel cuore di Savona a compiere, attraverso la magia del museo, un viaggio nel tempo e nell’arte d’Europa». Con queste parole la direttrice Eliana Mattiauda ci invita alla Pinacoteca Civica, non un semplice luogo di visita, ma un contenitore di incontri, sensazioni, riflessioni

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ar parlare le opere con il pubblico: è questa la missione di un museo secondo Eliana Mattiauda. «Di per sé le opere d’arte costituiscono testi muti per chi non ha conoscenze specifiche – spiega –, anche un capolavoro può, infatti, passare inosservato se non viene fornita una chiave di lettura. I musei tradizionali trasmettono un complesso di notizie che non consente di vivere le opere con l'emozione necessaria». Come fare allora per accendere il dialogo? Ad esempio si può trasformare la classica visita guidata in un percorso speciale, lungo il quale le opere d’arte - grazie a letture, performance teatrali, incontri con gli artisti - “recitano” poesie e testi, ricreando suggestioni che si legano al loro originario contesto di vita e che coinvolgono emotivamente il pubblico. Così la visita si trasfigura in un’occasione per compiere un viaggio in una dimensione interiore, per imparare a conoscerci e a rappresentarci attraverso le storie di altri. «Per me, e

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Pinacoteca Civica

La direttrice della Pinacoteca Civica di Savona, Eliana Mattiauda (a destra nella foto); nella pagina a fianco, particolare della Crocifissione di Donato de’ Bardi (1430-35)

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In alto, Vincenzo Foppa, Pala Fornari (1498); nella pagina a fianco, piatto reale in maiolica bianco-blu (secolo XVII)

vorrei lo diventasse sempre più anche per cittadini e turisti – aggiunge la direttrice –, il museo è un determinante deposito di emozioni». Immaginiamo di varcare la soglia della Pinacoteca: che percorso ci aspetta? «Un suggestivo viaggio nell'arte dall’antichità fino ai giorni nostri, tra tavole lignee del Trecento, monumentali polittici rinascimentali, pale d’altare del Sei e Settecento, dipinti dell’Ottocento, pregevoli sculture in legno e marmo, splendide ceramiche e capolavori dell’arte contemporanea. Le raccolte sono articolate su due piani, secondo un ordine cronologico che offre le tappe fondamentali della cultura figurativa a Savona e ne valorizza i frequenti rapporti sia con il resto d’Italia sia con l’estero».

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Quali sono le opere davanti alle quali ci si ferma incantati? «Una lunga sosta è d’obbligo al cospetto della sorprendente Crocifissione di Donato de' Bardi, un capolavoro assoluto nel panorama dell'arte rinascimentale italiana. Proprio a sottolinearne l’unicità, stiamo lavorando con entusiasmo in questi giorni per predisporre una sala interamente dedicata alla grande tela, in modo da favorire le riflessioni che l’opera non manca di suscitare. Intensa e suggestiva, impreziosita dalle lettere d’oro di un’invocazione al Cristo, è l’esempio di un linguaggio artistico fortemente innovativo, dove elementi fiamminghi si fondono con caratteri propriamente italiani». Grande attenzione merita anche la Pala Fornari, di Vincenzo Foppa. «È un’opera che testimonia la fioritura artistica locale tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Assai caratterizzante la bella figura del donatore della pala, Manfredo Fornari, ritratto inginocchiato davanti alla nicchia con la Vergine e il Bambino. La colonnina lignea di delimitazione dello scomparto, sovrapposta al personaggio, serve a Foppa per evidenziare in modo originale la nuova concezione di spazio unitario affermatasi dal Rinascimento». La Pinacoteca racchiude anche dipinti e sculture di grandi maestri del XX secolo. Quali i pezzi più prestigiosi? «Un dipinto che amo moltissimo è Attese, il sensuale e purissimo taglio di Fontana su fondo rosso, al cui fascino è difficile sottrarsi. “Un quadro che non è un quadro, perché va al di là delle sue dimensioni, nello spazio, nell’infinito”, così lo descrive la scrittrice Milena Milani, che vediamo ritratta nel bel dipinto di Pablo

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Savona

Picasso, il cui intervento, dovuto al suo grande amore per la città natale, ha alzato qualitativamente il livello del museo. La sezione contemporanea, infatti, di grandissima forza, è costituita da opere appartenenti alla Fondazione Museo di Arte Contemporanea, da lei voluta in onore di Carlo Cardazzo». Ha preso il via il progetto per la creazione di un polo della ceramica savonese. Che valore aggiunto rappresenterà per la Pinacoteca e cosa significherà per la tradizione locale? «Conosciuta a livello internazionale, presente nei maggiori musei del mondo, la maiolica savonese è l’espressione d’arte figurativa che nei secoli ha maggiormente caratterizzato il territorio, di cui rappresenta tuttora il bene culturale più qualificante e più strettamente legato alla realtà produttiva. La sua fama è prevalentemente associata alle maioliche con decorazioni in monocromia blu su fondo bianco, note appunto con il nome di “antico Savona”. Purtroppo questa attività non ha mai avuto alcun punto di riferimento in uno specifico centro espositivo. La creazione del polo della ceramica savonese rappresenta dunque un’opportunità storica, per realizzare un’opera di forte rilievo artistico e in grado di soddisfare le esigenze di sviluppo turistico e culturale del territorio. L'occasione viene offerta dalla Fondazione A. De Mari Cassa di Risparmio di Savona, mediante il collegamento di palazzo Gavotti con il palazzo

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del Monte di Pietà, di sua proprietà». Il museo è allestito in palazzo Gavotti, antico e prestigioso edificio del centro storico. Come si legano contenitore e contenuto e su quali criteri estetici e di utilità si basa il nuovo allestimento museale? «Nel 2003 la Pinacoteca di Savona è stata definitivamente allestita a palazzo Gavotti, nel cuore della città, a stretto contatto con le altre emergenze artistiche savonesi, e oggi il percorso lungo le sale offre l’occasione per cogliere l'atmosfera di un luogo dove si concentrano tanti secoli di storia. Gli spazi del museo sono stati creati con amore e passione e, soprattutto, mi ha guidato il desiderio e l’esigenza di “far parlare” le opere con il pubblico. La Pinacoteca è stata fornita di apparati didattici e di opportuni strumenti informativi, per rispondere ai diversi tipi di utenza, e il percorso è stato sviluppato secondo criteri museografici attentamente vagliati e studiati per ricomporre le articolate raccolte d'arte e anche per consentire un loro collegamento con il patrimonio artistico cittadino, dalla cattedrale, agli oratori, ai palazzi storici. Per la scelta dei materiali e degli arredi abbiamo tenuto conto dei toni della ceramica bianco-blu e alcune maioliche sono state inoltre distribuite lungo il percorso museale, al fine di sottolineare il costante rapporto che nel nostro territorio lega le diverse espressioni artistiche alla ceramica».

Pinacoteca Civica

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