NEAdic2008

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10 > LA COPERTINA DI NEA > Daniela Santanchè > Il coraggio di essere unica


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DANIELA, IL CORAGGIO DI ESSERE UNICA DA BAMBINA RIBELLE A DONNA VINCENTE. DECISA A CONQUISTARE IL POSTO CHE LE SPETTA NEL MONDO. ENTUSIASTA E DETERMINATA, NELLA VITA PRIVATA COME NEL LAVORO, DANIELA SANTANCHÈ HA BEN CHIARI I SUOI OBIETTIVI. E NON C’È OSTACOLO CHE TENGA. SOPRATTUTTO SE A SUPPORTARLA C’È IL GRANDE AMORE DELLA SUA VITA, IL FIGLIO LORENZO di Giusi Brega

Daniela Santanchè, imprenditrice e politica, ha recentemente fondato il Movimento per l’Italia


12 > LA COPERTINA DI NEA > Daniela Santanchè > Il coraggio di essere unica

entre le ragazzine fantasticano di diventare ballerine o attrici, lei sognava di fare il ministro del Tesoro. «Bambina ribelle», fortemente decisa a non accontentarsi di «essere solo un numero» si è rimboccata le maniche sin da giovanissima e si è messa all’opera. Prendendo la vita come una sfida continua. Guadagnando con fatica e impegno tutto quello che ha ottenuto. E ogni giorno è stato caratterizzato da una conquista. Ma chi è realmente Daniela Santanchè? È una donna “tosta”. Abile, capace. Tenace e forte come una leonessa. Tutta la sua vita, di imprenditrice, politica e madre, è contraddistinta da duro lavoro e scelte consapevoli. E un percorso professionale che non ha mai dato segni di cedimento. Una donna combattiva, una a cui le etichette stanno strette, che non scende mai a compromessi. Lei, prima donna nella storia della Repubblica italiana a essere candidata premier. Lei, prima donna a ricoprire il ruolo di relatrice della legge Finanziaria. Lei, prima donna in ogni situazione. Ma con le capacità e l’umiltà per esserlo.

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«Non ho mai creduto nell’unità delle donne contro l’uomo. È un argomento superato. Credo che ognuno di noi, uomo o donna che sia, rappresenti un’unità, una persona»

Se dovesse aprire il baule dei ricordi, quali oggetti, profumi, suoni e persone troverebbe? «Il profumo della mia terra d’origine, la dolcezza con cui mia nonna rispondeva ai miei mille perché. Poi c’è mio nonno Mario, che mi parlava di politica quando avevo appena cinque anni. Ricordo le lunghe chiacchierate piene di aneddoti per “farmi capire il mondo”, come diceva lui».

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Imprenditrice, politica, esperta di comunicazione. Chi è veramente Daniela Santanchè? «Una donna del mio tempo con tante passioni ma soprattutto con un grande compito: crescere bene mio figlio Lorenzo».


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14 > LA COPERTINA DI NEA > Daniela Santanchè > Il coraggio di essere unica

C’è un aspetto del suo essere che finora è rimasto nascosto e che, invece, lei vorrebbe vedere emergere e fare conoscere? «La mia capacità di ascoltare e seguire i consigli. Nella vita ho sempre lottato per far sì che la mia personalità potesse manifestarsi in tutte le sue sfumature, spesso anche pagandone a caro prezzo le conseguenze. Finora però nessuno ancora credo abbia mai messo in evidenza quanto tengo ad ascoltare i preziosi pareri e i consigli delle persone di cui mi fido».

LA POLITICA «Sono sempre stupita da chi fa politica sul territorio, spesso con più competenza e risultati di parlamentari di lungo corso. La delusione, invece, mi arriva da tutti quelli che continuano a parlare di massimi sistemi, si riempiono la bocca di politichese e poi nella vita non hanno mai lavorato un’ora; non si rendono conto che così facendo fanno allontanare sempre più i giovani dalla politica».

Dovesse indicare tre sue qualità e tre suoi difetti? «Questa è una domanda che dovrei fare io a lei. Spesso ciò che uno crede essere il proprio miglior pregio viene visto da altri come il peggior difetto. Sicuramente, però, considero la tenacia e la caparbietà qualità che mi appartengono. Invece quello che spesso si rivela un difetto, ma che io rivendico come un grande pregio, è la capacità di riuscire a buttarmi alle spalle senza rancore le storture e le critiche che mi rivolgono. Mi riprometto sempre di imparare a fare una specie di back up che fotografi la situazione almeno per tenerne memoria, invece niente! Sarà che sono un’inguaribile ottimista». C’è un minimo comune denominatore che rappresenta le donne di oggi? «Forse la consapevolezza che è arrivata l’ora che i propri meriti devono essere riconosciuti, ma ancora non è un argomento che accomuna tutte. Anche se guardandoci intorno ci sono molte donne a cui ci si può ispirare: Angela Merkel,


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lavoro e determinazione Forti, coraggiose, capaci. Ma perché in molti settori le donne non riescono ancora a raggiungere il vertice? «Di donne capaci ce ne sono, ma come dice Alberoni “Non sanno fare branco”. Quando riusciranno, come fanno gli uomini, a mettere in un qualsiasi posto chiave una cretina si può dire che qualche passo è stato fatto». Nella sua veste imprenditoriale, all’inizio ha trovato difficoltà a farsi ascoltare dagli uomini? «Certo, come chiunque, e per di più ero molto giovane. Ma ho imparato presto a farmi sentire dimostrando competenza e capacità. Nel business sono elementi indispensabili e nel mio campo in particolar modo». Rachida Dati, la stessa Hillary Clinton. Donne che hanno avuto la forza di portare avanti un loro progetto. Non ho mai creduto nell’unità delle donne contro l’uomo. È un argomento superato. Credo che ognuno di noi, uomo o donna che sia, rappresenti un’unità, una persona, con le sue azioni che costruiscono la sua personale storia, diversa da qualsiasi altra». Lei ha scritto il libro Le donne violate. Quali sono le battaglie basilari che oggi molte donne devono combattere e nelle quali devono essere sostenute? «Il mio primo libro è La donna negata, sulla condizione delle donne musulmane, Le donne violate è un’evoluzione che mi sono concessa dopo aver toccato con mano le terribili storie di molte di loro. Io penso che i veri nemici di ogni donna siano la vergogna e il senso di colpa, per questo tante non denunciano i soprusi e altre, più semplicemente, rinunciano a coltivare i propri talenti. La battaglia madre è dare a qualsiasi donna la consapevolezza di essere una persona e non una condizione».

Quali sono i luoghi comuni che bloccano le donne e tarpano loro le ali? «Credo siano quelli assorbiti fin da piccole, dalla famiglia, dalla scuola, dai media. Sono blocchi che restano dentro per anni. Però ci si può liberare, anche se per farlo ci vuole coraggio e fatica». Lei è stata una delle candidate premier alle scorse Politiche. Cosa le ha dato questa esperienza? «È stata un’esperienza irripetibile, eccezionale, che mi ha fatto sentire vicina la solidarietà, la fiducia, la speranza di tanti cittadini che hanno creduto in me. E io ce l’ho messa tutta per non deluderli, mi sono spesa in giro in tutta Italia perché volevo dare voce a tutte quelle persone che con semplicità mi chiedevano un cambiamento. E continuo a fare politica anche per onorare il patto di fiducia con loro». Alle donne in politica sono quasi sempre attribuiti ministeri e incarichi femminili. Quando vedremo un ministro donna all’Economia o alla Difesa?


16 > LA COPERTINA DI NEA > Daniela Santanchè > Il coraggio di essere donna

«Nella vita ho sempre lottato per far sì che la mia personalità potesse manifestarsi in tutte le sue sfumature, spesso anche pagandone a caro prezzo le conseguenze» «Non lo so, l’unica cosa certa è che il vero potere si conquista, non lo si attribuisce». La sua vita politica è sempre stata a destra. Prima con An, poi con La Destra e oggi con il Movimento per l’Italia che confluirà nel Pdl. Qual è il fil rouge che attraversa la sua carriera politica? «Valori e concretezza: Dio, patria e famiglia, ma anche asili nido aziendali e condominiali, mezzi pubblici funzionanti, strade sicure. E potrei continuare...». Cosa porterà il Movimento per l’Italia alla politica italiana? «Porterà l’entusiasmo e la determinazione di chi fa politica per passione, per fede civile, per orgoglio di appartenere a una comunità le cui radici sono la base della civiltà occidentale».

La sua linea politica è sempre stata vicina a quella del presidente Silvio Berlusconi. La piccola frattura ora è stata completamente arginata? «Silvio è sempre stato un amico anche nei momenti di scontro più duro, normali soprattutto in campagna elettorale, ma non abbiamo mai perso il rispetto l’uno dell’altra. Differenze di vedute ci saranno sempre, ed è un bene perché solo così una grande realtà come il Popolo delle Libertà potrà davvero modernizzare il Paese». Cosa sono oggi la destra e la sinistra per Daniela Santanchè? «Etichette sbiadite di un mondo che non esiste più. Per questo Berlusconi può dire a ragione che il suo è anche un governo di sinistra. La vera differenza oggi è tra chi considera la politica al servizio di un’idea e chi la considera al servizio del popolo». Qual è la critica che più l’ha ferita e il complimento che le ha fatto più piacere? «Grazie a Dio ho un buon carattere e dimentico, o cerco di dimenticare, tutto quello che mi ferisce. Mentre il complimento che mi inorgoglisce di più è quando mi dicono che sono una brava mamma».

Dentro il baule dei ricordi «Il profumo della mia terra d’origine, la dolcezza con cui mia nonna rispondeva ai miei mille perché. Poi c’è mio nonno Mario, che mi parlava di politica quando avevo appena cinque anni. Ricordo le lunghe chiacchierate piene di aneddoti per “farmi capire il mondo”, come diceva lui».

C’è qualcosa che l’ha delusa della politica italiana e qualcosa che, invece, l’ha stupita? «Sono sempre stupita da chi fa politica sul territorio, spesso con più competenza e risultati di parlamentari di lungo corso. La delusione, invece, mi arriva da tutti quelli che continuano a parlare di massimi sistemi, si riempiono la bocca di politichese e poi nella vita non hanno mai lavorato un’ora; non si rendono conto che così facendo fanno allontanare sempre più i giovani dalla politica. Il linguaggio oggi è totalmente cambiato che se si vogliono coinvolgere le nuove generazioni non bisogna restare arroccati dentro un circolo elitario parlando una lingua incomprensibile».



20 > RIFLESSIONI > Maria Giovanna Maglie > Giro del mondo in 5 leader

LA GENEALOGIA DEL POTERE DONNA Thatcher è stata un rompighiaccio. Rice si è costruita un personaggio, celando i propri lati di “dolcezza”. Merkel è protagonista anche se cerca di non esserlo. Sono queste le donne della politica mondiale. E in Italia? «Negli altri Paesi le donne possono concorrere. È tutto qui il segreto». Maria Giovanna Maglie dipinge il ritratto del potere al femminile DI

GINEVRA CARDINALI

Donne e politica. Un binomio difficile. In Italia più che altrove. Perché, come spiega Maria Giovanna Maglie, «la politica è un club per soli uomini e, il più delle volte, anche particolarmente cretini, i cui meccanismi impediscono l’elezione di un premier donna». Cosa che, al contrario, è accaduta nella avanzatisAngela Merkel e Rachida Dati alle americane sima Germania dove Angela Merkel si è aggiudicata Condoleezza Rice, e Sarah Palin, passando per il record di diventare la prima donna cancelliere ed Tzipi Livni e Ayaa Nirsi Ali. Quali altri nomi agè, forse, l’unica che possa cogliere l’eredità della giungerebbe? Thatcher. Ma quello di Berlino è un caso isolato. Il vero problema è che l’Europa è vecchia e «misogina» dice Maria Giovanna Maglie, anche se vi sono Paesi in cui, a differenza dell’Italia, «le donne possono concorrere. Da noi, invece, non tutti hanno la possibilità di diventare qualunque cosa vogliano». E se l’Europa è povera di donne al potere, gli Stati Uniti non sono da meno. Ma almeno oltreoceano una donna ha corso per la presidenza, anche se poi è stata sconfitta. «Se Hillary Clinton non fosse stata donna, e quel tipo di donna, immune da ansia di consenso – afferma Maglie – oggi probabilmente festeggerebbe la sua elezione». Il ministro Carfagna ha appena pubblicato un libro dedicato a otto grandi donne del conservatorismo: Margaret Thatcher, Yulia Tymoshenko,

Maria Giovanna Maglie, storico volto del giornalismo televisivo, è stata inviata di politica internazionale, ha lavorato per l’Unità, la Rai, Radio Radicale, Il Giornale e Il Foglio. Oggi è assessore alla Cultura alla Provincia di Trapani


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«Spregiudicatezza, coraggio e determinazione. Sono queste le qualità che hanno fatto grande Margareth Thatcher, una vera rompighiaccio» «Questo tipo di scelta è sempre arbitraria: inevitabile lasciar fuori qualche nome importante. Detto ciò, forse non avrei inserito Sarah Palin, che a mio parere deve ancora dar prova del proprio reale spessore. Mentre, andando oltre la cerchia del conservatorismo, sicuramente avrei incluso Benazir Bhutto, persona straordinaria, e Hillary Clinton. Per il resto, tra le figure del secolo passato spicca senz’altro la Thatcher. Una grandissima riformatrice». Che cosa ha reso la Thatcher il prototipo della donna al potere? «La spregiudicatezza, il coraggio e la determinazione. Bettino Craxi, la persona da cui ho imparato di più in politica, diceva, con un pizzico di cattiveria ma anche con molto acume, che Benazir Bhutto era figlia di suo padre e Corazon Aquino, presidente delle Filippine, era moglie di suo marito,

mentre Margaret Thatcher era l’unica figlia di se stessa. Aveva fatto tutto da sola, scalando un partito difficile, molto maschilista, in un Paese in cui, non dimentichiamolo, c’è ancora la Camera dei Lord. Lei ha dimostrato di non essere affatto malata dall’ansia di consenso che affligge molti esseri umani, in specie le donne, che crescono con il desiderio di non dire qualcosa di scomodo che possa non farle accettare». Come definirebbe, invece, lo stile del cancelliere Merkel? «Meno puntuto e determinato di quello della Thatcher che, non dimentichiamolo, è stata un rompighiaccio. Il segreto di Angela Merkel è il contrario: essere una vera democristiana, una mediatrice, una che tende a non essere protagonista, ma poi esserlo». Lei ha accennato anche a Benazir Bhutto. Qual è stata la sua lezione più profonda? «Una lezione di coraggio quasi etico. Con un che di spartano, nel suo correre verso la morte, in totale consapevolezza, con un senso dell’inevitabilità, come se non vi fosse altra soluzione. Una donna cresciuta nella sofferenza, del resto. Imprigionata come suo padre: un grande statista che in carcere è morto, lasciandole l’eredità di occuparsi del partito e del Paese senza timore, ma anzi con sprezzo della propria vita.


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22 > RIFLESSIONI > Maria Giovanna Maglie > Giro del mondo in 5 leader

Angela Merkel, cancelliere tedesco, è riuscita ad arrivare al vertice grazie a un segreto: «essere una vera democristiana, una mediatrice, una che tende a non essere protagonista. Ma alla fine è tutto questo

Il modo in cui ha accettato di rientrare, senza alcuna garanzia, il modo in cui ha trascorso quel brevissimo periodo in Pakistan sapendo e dicendo ogni giorno che sarebbe stata uccisa è davvero una testimonianza di coraggio politico e morale rarissimo». Capita che alcune leader vengano sopravvalutate, mentre altre rimangano nell’ombra. C’è a suo parere qualche figura che avrebbe potuto diventare grande e, per destino o per scelta, non l’ha fatto? «Il caso di Hillary Clinton sotto questo aspetto è paradigmatico. Se non fosse stata donna, e quel tipo di donna, del tutto immune da ansia di consenso, probabilmente oggi sarebbe presidente. Certo è che la sua stoffa è infinitamente superiore a quella di Obama». Un’altra grande figura della politica Usa è Condoleezza Rice, il simbolo dell’esecutivo Bush. Che però ha esultato per Obama. «Non credo sia vero. Credo, invece, che Rice si sia piegata all’ansia di consenso e alla moda nera nazionale, dicendo ciò che non pensava. È cresciuta in Alabama con un padre che le ha insegnato a ragionare da maggioranza, cioè a suonare il pianoforte, a studiare le lingue e a mettersi alla pari con gli altri. Quando è diventata professore, preside e poi rettore a Stanford, la prima cosa che ha detto è stata “nessun nero o ispanico venga a piagnucolare da me perché è minoranza, perché, una volta che siete qui,

conta solo il merito”. Tutta la sua mentalità politica è profondamente antitetica rispetto al linguaggio populista usato da Obama». Venendo alla situazione italiana, con le sue quattro ministre, il Governo Berlusconi ha dato un segnale di apertura al mondo femminile. A quando un premier donna? «Il governo ha dato un segnale ondivago. Ha nominato quattro donne ministro, le ha scelte nel suo entourage e le ha relegate in ruoli che, da sempre, sono a loro “riservati”. Ciò si spiega con la decadenza subita negli ultimi 15 anni dalla politica di professione. Con la fine della Prima Repubblica le possibilità delle donne, basse ma in crescita, di ricoprire posti importanti è andata a farsi benedire perciò la Seconda Repubblica è stata una specie di calata degli Unni. E Attila non aveva spazio per le donne. Togliendo, alla pur farraginosa politica italiana, la sua specificità e quel poco di autentica schermaglia di politica che c’era, la Seconda Repubblica ha segato le donne che non fossero “di corte”. Scegliere quelli o quelli più vicini e consoni. È questo il criterio». Un passaggio d’obbligo alla Francia. Da sfidante di Sarkozy, Ségolène Royal ha finito per trovarsi in minoranza nel partito socialista perché troppo moderata. Cosa pensa della leader socialista? «In Francia c’è una terribile crisi del centrosinistra, come accade quando si viene sbaragliati alle elezioni,


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Ségolène Royale che ha sfidato Nicholas Sarkozy alle ultime Presidenziali

Condoleezza Rice, ex segretario di Stato Usa insieme a George W. Bush. Ha lasciato il posto a Hillary Clinton.

quando tutta l’attenzione mediatica è dall’altra parte. Royal non può pensare a un ritorno se prima non si fa chiarezza nel partito. La sinistra francese deve darsi una svegliata, smettere di essere al caviale e cercare di trovare un programma. I Paesi in cui dominano i sindacati insieme ai salotti di sinistra sono rovinati. Clinton ha salvato gli Usa perché da democratico ha fatto fuori le union, licenziando 10 milioni di persone e facendone rientrare 22 con posti non garantiti. In Francia si può fare? Per ora no. E nemmeno in Italia. La conseguenza è che il centrosinistra, così visceralmente legato a queste realtà, deve ricorrere alla piazza. E se per fare politica si deve ricorrere alla piazza…». L’altra faccia della politica al femminile è rappresentata dalle first lady. Due figure rappresentative, anche se opposte, sono Rania di Giordania e la regina dell’understatement, Veronica Lario. Che sia questo il segreto per farsi sentire davvero: poche dichiarazioni, ma memorabili? «Il ruolo delle first lady deve essere quello di esserci.

Devono essere presenti nelle cerimonie importanti, avere un’attività parallela di beneficenza, charity e relazioni diplomatiche internazionali. Ci sono state prime donne particolarmente invadenti, come Nancy Reagan, e altre intelligentemente presenti, come Hillary Clinton. Laura Bush è stata sicuramente più nell’ombra, ma non c’è immagine ufficiale, pranzo, viaggio in cui non sia stata presente. L’Europa conosce meno questa tradizione. Esiste il principe consorte, ma non c’è la moglie o il marito, tornando al caso di Merkel. Credo che il fenomeno Rania di Giordania sia il massimo che una donna possa fare in un Paese arabo moderato: essere molto bella, molto elegante e andare in giro a fare beneficenza. Altrove si potrebbe fare di più. Poi ci sono matrimoni felici e altri meno felici. E questo conta. Ci sono vite condotte insieme e altre no. Questo attiene alla vita privata, ma poi conta nella presenza pubblica. Io sono, l’ho detto per la Voltolina e lo dico anche per la signora Berlusconi, contraria all’understatement perché se sei e resti la moglie di un leader politico, ti devi fare vedere con lui».

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«Il governo italiano ha dato un segnale ondivago. Ha nominato quattro donne ministro, le ha scelte nel suo entourage e le ha relegate in ruoli che, da sempre, sono a loro “riservati”»


24 > L’INCONTRO DI NEA > Giorgia Meloni > La mia visione del mondo

ATTENZIONE A CHI CONSIDERA LA POLITICA UN FINE Militante da quando aveva 15 anni. È contraria alle tematiche femminili. Guarda con interesse ai giovani che si battono per il proprio futuro, anche quando protestano. E ha intrapreso una lotta contro la gerontocrazia che affligge il nostro Paese. A tu per tu con Giorgia Meloni, ministro per la Gioventù DI LAURA PASOTTI La politica è impegno civile. «Per viverla come tale non si può prescindere dalla militanza». E deve essere uno strumento, «forse il migliore, per costruire una visione del mondo». E poi la battaglia contro la gerontocrazia e a favore delle donne. «Ma sono ideologicamente contraria alle tematiche femminili, per cui se sei proprio brava ti puoi occupare di cultura, altrimenti ti occupi di pari opportunità». Ma sempre con la paura di sbagliare. «Non tanto per fare una figuraccia, ma per non deludere le persone che mi hanno accompagnato fino a qui». “Qui”, per inciso, è il quarto Governo Berlusconi. E lei è la più giovane ministro della storia della Repubblica. Giorgia Meloni è una che va “di fretta”. A 15 anni si è iscritta al Fronte della gioventù, «anche se — ammette — non immaginavo che quel percorso politico mi avrebbe portato al governo». A 21 è diventata consigliere provinciale e poi è arrivato l’ingresso in Parlamento come vicepresidente della Camera dei deputati e a distanza di soli due anni la nomina a ministro. Una vita in controtendenza quella del ministro per la Gioventù rispetto a quella di molti giovani che a 31 anni “arrancano” per entrare nel mondo del lavoro e faticano a “scalzare” chi nelle posizioni di potere sembra aver messo radici. «Credo sia ora di combattere la gerontocrazia presente a tutti i livelli della nostra società — dice il ministro — a cominciare proprio dalla politica». In Italia c’è la sensazione che, per avere incarichi importanti, sia necessario essere almeno over 50. Soprattutto in politica. «C’è una vecchia battaglia che ho condiviso con il precedente ministro per le Politiche giovanili e che intendo portare a compimento. Mi riferisco alla

IL PROGETTO «La politica come mestiere o poltrona è la negazione del mio progetto. E, in effetti, non ho mai pensato alla politica come a un ruolo definitivo. La libertà di azione e di scelta è fondamentale. Se in futuro non ci saranno le condizioni per andare avanti, lascerò»

Giorgia Meloni, 31 anni, nata a Roma, è ministro per la Gioventù. Tra i suoi progetti c’è quello di realizzare una corrispondenza anagrafica tra elettorato passivo e attivo nelle elezioni di Camera e Senato


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«Il nostro è un sistema bloccato, che non favorisce il merito, che tutela chi è già tutelato e tiene fuori chi non ha grimaldelli per entrare»


mancata corrispondenza anagrafica tra elettorato attivo e passivo nelle elezioni di Camera e Senato. Se in base alla legge un giovane è ritenuto capace di scegliere tra le diverse opzioni politiche, allora deve essergli data la possibilità di venire scelto per rappresentare quelle stesse opzioni in Parlamento. Si tratta di una modifica costituzionale trasversalmente condivisa che mi piacerebbe vedere realizzata in questa legislatura». Sistema o giovani generazioni. Chi è il colpevole dello stato delle cose? «Il nostro è un sistema bloccato, che non favorisce il merito, che tutela chi è già tutelato e tiene fuori chi non ha grimaldelli per entrare. Oggi si parla molto di merito, ma io credo che restituire centralità alla meritocrazia significhi abbattere le barriere. Dal 68 in poi l’egualitarismo ideologico ha imposto che, pur partendo da situazioni diverse, tutti dovessero raggiungere lo stesso obiettivo. E il nostro è quello di rovesciare questo sistema per crearne uno in cui tutti abbiano le stesse opportunità alla partenza. Per riuscirci dobbiamo offrire a questa generazione la suggestione culturale di far parte di un destino comune e gli strumenti per realizzare un’esistenza degna». Lei è la dimostrazione che, invece, si può arrivare a ricoprire ruoli di primo piano pur essendo molto giovani. Quali caratteristiche deve avere un buon dirigente? «Se torno ai miei 15 anni, ho la certezza di non essermi iscritta al Fronte della gioventù per diventare deputato, ministro e nemmeno consigliere provinciale. E so che non avrei continuato se non fosse stato per la dimensione comunitaria che ho trovato nella politica. Dopo qualche anno condividevo una visione del mondo fatta di obiettivi, vittorie, sconfitte, scelte. Credo che questa sia la migliore garanzia a tutela del fatto che chi arriva a ricoprire un ruolo di grande responsabilità non dimentichi le ragioni, gli ideali, le idee che l’hanno portato a intraprendere quel percorso. È questa la differenza tra chi considera la politica uno strumento di acquisizione del potere e chi la considera uno strumento per costruire una visione del mondo».

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26 > L’INCONTRO DI NEA > Giorgia Meloni > La mia visione del mondo

Lei fa politica da quando aveva 15 anni. Un’esperienza che l’ha portata fino in Parlamento e ora al governo. Che differenze ci sono, soprattutto a livello di passione, tra fare politica nelle associazioni giovanili e farla nei centri di potere dello Stato? «Mi chiedo spesso per quali ragioni, oggi, le nuove generazioni si iscrivano a un’organizzazione giovanile di partito o scelgano l’attività politica come forma di impegno civile. Io parto sempre dal presupposto che l’attività politica sia una delle forme di impegno civile. C’è il volontariato, c’è l’associazionismo e c’è la politica. E proprio così va vissuta, come impegno civile. E per viverla come tale non si può, io credo, a prescindere dalla militanza. Mi spaventa molto quando qualcuno entra in un circolo di An o di Azione Giovani e mi chiede come si fa a diventare consigliere comunale perché, per come la vedo io, è la negazione della politica. L’essenziale è mantenere lo stesso livello di passione e lo stesso senso della missione a qualsiasi livello ci si trovi a fare politica». Lei ha una lunga esperienza nel movimento studentesco. Quali sono, a suo parere, le mancanze della protesta di oggi?


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LE MIE RADICI Non rappresento solo me stessa, ma ho la presunzione di rappresentare una storia e tutti quelli che hanno sacrificato qualcosa per consentirmi di essere dove sono e che non hanno chiesto nulla in cambio, semplicemente perché ci credevano e pensavano che io potessi essere il portatore di un loro modo di essere, di una visione del mondo. Quando sbaglio, sbagliano anche loro. Questo è il sentimento che provo verso le mie radici»

«Guardo sempre con interesse ai ragazzi che partecipano alla vita politica e si interessano del proprio futuro. Anche quando protestano. Ciò che spero è che, dopo la protesta, arrivi il tempo della proposta. E un contributo costruttivo alla riforma dell’Università. Mi chiedo, perché non li ho sentiti parlarne, quale sia il giudizio dei ragazzi che sono scesi in piazza sul decreto 180 varato dal governo, una norma che favorisce il diritto allo studio, premia il merito, lotta contro i potentati e i meccanismi di casta che hanno messo in ginocchio l’università italiana. Il mio augurio è che gli studenti si aprano al dialogo per aprire la strada a una riforma efficace e il più possibile condivisa». Quando arriverà, secondo lei, la parità politica tra uomini e donne e un ministro sarà tale, indipendentemente dal suo sesso? «Quando ero consigliere provinciale ho scoperto per la prima volta l’esistenza delle “commissioni delle elette” nelle quali le consigliere, in quanto donne, parlavano tra donne e di donne, mentre gli altri si occupano di soldi, lavori pubblici, edilizia. Non è una vittoria, ma una grave forma di discriminazione a cui le donne tendono a piegarsi. Penso che se le donne

«C’è il volontariato, c’è l’associazionismo e c’è la politica. E proprio così va vissuta, come impegno civile» rappresentano il 50% della società italiana, la politica debba interessare anche loro e sono ideologicamente contraria alle tematiche femminili per cui se sei proprio brava ti puoi occupare di cultura, altrimenti ti occupi di pari opportunità: una specie di baby parking in cui ci “parcheggiano” a parlare di noi e tra noi. Vinceremo la battaglia quando capiremo che non esistono tematiche femminili, ma una lettura femminile della politica, cioè la capacità di interpretare i provvedimenti della politica sapendo rispettare le diverse esigenze di cui questa società si compone». Che cosa sono per lei le radici? «Quando sono entrata in Parlamento la cosa che mi faceva più paura, e mi fa ancora paura ora che sono al governo, non era sbagliare e fare una figuraccia, ma sbagliare e deludere le persone che mi hanno accompagnato. Perché lì non rappresento solo me stessa, ma ho la presunzione di rappresentare una storia e tutti quelli che hanno sacrificato qualcosa per consentirmi di essere dove sono e che non hanno chiesto nulla in cambio, semplicemente perché ci credevano e pensavano che io potessi essere il portatore di un loro modo di essere, di una visione del mondo. Quando sbaglio, sbagliano anche loro. Questo è il sentimento che provo verso le mie radici». La politica come ruolo definitivo o ci sarà altro nel suo futuro? «La politica come mestiere o poltrona è la negazione del mio progetto. E, in effetti, non ho mai pensato alla politica come a un ruolo definitivo. La libertà di azione e di scelta è fondamentale. Se in futuro non ci saranno le condizioni per andare avanti, lascerò». Qual è il prossimo traguardo per una ragazza che a 31 anni è già ministro della Repubblica? «Ora penso solo a fare del mio meglio per essere all’altezza del mio compito e per la gioventù italiana».


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28 > POLITICA DI NEA > Craxi e Boniver > La nostra eredità socialista

A fianco, Bettino Craxi storico segretario del Psi. Sopra, Margherita Boniver e Stefania Craxi

icordo impolverato della storia della Repubblica oppure ideale ancora vivo che serpeggia, nonostante abbia perso il suo simbolo, nella politica di oggi? Dopo la diaspora scatenata da Tangentopoli, e le divisioni interne, il nome Psi è scomparso dalle Aule parlamentari il 13 aprile scorso. E questa volta per volontà popolare. «Hanno fatto la fine che meritavano – affonda Stefania Craxi –. Hanno asservito una grande idea e una grande tradizione a piccoli interessi di bottega, mostrandosi incapaci anche in questo mestiere. Finché c’era Craxi, erano tutti primi della classe; poi si sono mostrati persino incapaci di ripetere».

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Diversa è stata la sorte di coloro, tanti, che negli anni 90 scelsero di entrare nell’allora Forza Italia. Ne sono prova provata Maurizio Sacconi e Renato Brunetta, ex craxiani elevati alla carica ministeriale. Ma l’eredità socialista sopravvive solo nel prefisso ex? Pare proprio di no. La vera testimonianza del

Il Psi era in anticipo sul valore sociale della libertà. Una libertà di cui ancora oggi si avverte il bisogno, e non solo dal punto di vista individuale


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PETALI DI GAROFANO Cosa è rimasto oggi del socialismo? Non solo una folta schiera di ex eccellenti, a quanto pare. L’anima e gli ideali del partito fondato da Turati non hanno abbandonato la politica italiana. E sono rintracciabili nella libertà e nel riformismo. Come confermano Stefania Craxi e Margherita Boniver di Francesca Buonfiglioli

glorioso partito di Turati, secondo Margherita Boniver e Stefania Craxi, è infatti rappresentata dal riformismo, «l’anima più autentica del socialismo» dice il sottosegretario, e dalla libertà. L’EREDITÀ Il Psi era nettamente in anticipo sul valore sociale della libertà. «Lo stesso Turati, padre del riformismo – puntualizza Stefania Craxi – considerava la libertà un privilegio borghese e una semplice aspirazione per il proletariato. Invece Bettino Craxi ha visto nella libertà un motore per lo sviluppo individuale. Più spazi per la voglia di fare, più spazi per le attitudini. È riuscito a conciliare l’economia liberale con l’interesse di tutti, anche dell’operaio e dell’artigiano». Una libertà di cui ancora oggi si avverte bisogno. Non solo dal punto di vista individuale. È noto, in-

fatti, che l’Italia sia un Paese ingessato, migliaia di leggi, migliaia di regolamenti, ordini, corporazioni. «Vessazioni che riguardano tutti: l’impresa, il lavoro, i cittadini nelle loro esigenze. Per questo La libertà è un valore assoluto, non negoziabile». «All’interno del Pdl – conferma Boniver – è presente un filone politico craxiano importante pro-riforme, pro-occidente, e laico. Anche se non tutti gli ex socialisti all’interno del Pdl possono dirsi propriamente laici. È soprattutto la cifra della libertà e il rispetto dimostrato nei confronti delle nostre origini – continua convinta – che mi confermano di aver fatto la scelta giusta quando, a fine anni Novanta, sono entrata in Forza Italia dopo aver assistito alla fine definitiva del Psi». Stefania Craxi, circa la morte del socialismo, prende le distanze dalla collega. «Craxi, Gonzalez, Soares e poi Blair e i laburisti inglesi lo hanno


30 > POLITICA DI NEA > Craxi e Boniver > La nostra eredità socialista

1976 > Bettino Craxi è segretario 1985 > il Psi rimuove la falce

rinnovato all’insegna della libertà, e oggi ha davanti a sé ancora una lunga vita». E fu proprio Bettino Craxi a mettere a segno una vittoria nei confronti del nemico del riformismo. «Quel Sessantotto che al posto della libertà ha portato l’anarchia, al posto dell’ordine il disordine, al posto della realtà i sogni e le velleità». A più di vent’anni di distanza, però, la situazione non pare mutata. Scuola, giustizia, lavoro, e Costituzione: sono ancora tutti ambiti in cui occorre intervenire. «Ed è quello che il governo sta facendo» afferma. SOCIALISMO DI CENTRODESTRA Ovviamente da qui a definire il Pdl un partito socialista ce ne passa. «Il riformismo è un metodo, il socialismo un ideale – mette in chiaro Craxi –. E il motto dei socialisti nel Pdl e nel governo è: oggi le riforme, domani una società ispirata ai valori del socialismo liberale». Una sfida ancora lontana dall’essere vinta e costellata da paradossi. Nulla è

Margherita Boniver, nel 1979 venne eletta per la prima volta come senatrice con il Psi

L’impegno per il sociale Nel 1973 Margerita Boniver ha fondato la sezione italiana di Amnesty International, di cui ha mantenuto la presidenza fino al 1980. Nel 1993 è diventata presidente della Croce Rossa di Alessandria

come sembra. Se è vero che mentre un ministro di una coalizione di centrodestra come Maurizio Sacconi avanza proposte di matrice socialista «sollecitando il nuovo contratto nazionale con la contrattazione di secondo livello, per aprire la strada alla partecipazione del lavoro nel capitale d’impresa», dall’altra parte sta un sindacato, la Cgil, che dimostra di «non avere interesse a far progredire il lavoratore nella scala sociale e che è occupato solo a mantenere il suo potere». La stessa volontà rinnovatrice che caratterizza anche l’operato di Mariastella Gelmini, sicuramente promossa da Stefania Craxi, ma con riserva: «Sta facendo bene, anche se non arriveremo certo al modello di scuola sognato dai socialisti: una scuola dove il merito, debitamente aiutato, contribuisce ad annullare le differenze sociali. Una scuola fucina di una società dove tutti hanno uguali opportunità». Ed è proprio dalla famiglia e dalla scuola, «e non dall’Università, ma dalla scuola materna», che secondo Craxi è necessario ripartire per dare nuovo slancio al Paese. «Se i cattolici contano ancora molto in Italia è perché hanno in testa qualche altra cosa oltre l’edonismo – riflette –. Il mercato, o meglio il “mercatismo” come dice Tremonti, ha posto sugli altari il Dio denaro. Stiamo oggi vedendo tutti di che pasta è fatto questo Dio». La crisi è estesa e non interessa solo l’economia perché si riflette pienamente nel mondo politico. «Non è uscito niente di eccellente in sede culturale – è il j’accuse craxiano –. Stiamo ancora combattendo con gli intellettuali organici del Pci che continuano a scrivere la storia a modo loro senza trovare troppi contrasti. E la politica non poteva sfuggire alla mediocrità della vita del Paese». IERI E OGGI Del Psi, dunque, restano ideali e slanci. Tutti, secondo le due “eredi”, confluiti nell’alveo del Pdl. Mentre nel centrosinistra il vuoto. «Sono stati fatti fuori da Veltroni – taglia corto Margherita Boniver – di socialisti non ce n’è rimasto uno». E il passato è d’obbligo visto che anche il nipote dello storico esponente socialista Giacomo Mancini ha recentemente annunciato la sua migrazione verso il partito di Berlusconi. Ma dire Psi è anche dire Prima Repubblica. Era


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e il martello dal proprio simbolo 1994 > inizia la diaspora

l’epoca della politica fatta nelle sezioni di quartiere Stefania Craxi, ci dica qualcosa di socialista... dove si assisteva al rito del rinnovo delle tessere, quella che prendeva corpo nei dibattiti alle federazioni provinciali, e più su fino ai congressi nazionali. Tutto finito dopo Mani pulite. «C’era una democrazia vivida all’interno dei partiti, malgrado i tanti difetti – ricorda Margherita Boniver –. Un modo di fare politica che dava lo stesso diritto all’iscritto dell’ultimo minuto e al dirigente che era chiamato a rispondere agli elettori». Non c’è però spazio per la nostalgia nelle parole dell’onorevole Pdl, che guarda al futuro con ottimismo. «Al posto di tutto questo – conferma – oggi esistono forme di partecipazione altrettanto valide ma soprattutto innovative. Penso all’allestimento dei gazebo nelle

«La libertà prima dell’uguaglianza? Da ciascuno secondo i suoi meriti e a ciascuno secondo i suoi bisogni? Una scuola che faccia emergere le attitudini? La produzione di ricchezza prima della sua redistribuzione? Una giustizia né di classe né corporativa al servizio dei cittadini? Una tutela del lavoro che copra tutte le attività e non solo quelle privilegiate? Devo ancora continuare?»

DA MIO PADRE HO IMPARATO «Il coraggio della verità. Il suo esempio mi ha abituato a riflettere e poi a dire sinceramente ciò che penso. Qualcuno si sbaglia e mi accusa di avere un brutto carattere, ma è solo sincerità».

piazze: iniziative che permettono un contatto diretto non solo con i tuoi elettori ma anche con chi la pensa in modo diverso. Sono momenti di confronto, contestazione, discussione». L’analisi di Stefania Craxi è, invece, più severa. «La Seconda Repubblica – tuona – è finita il 13 aprile scorso. Con un sospiro di sollievo. Spero che la Terza sia migliore. Penso però che anche la nuova legislatura avrà carattere di transizione. C’è un enorme lavoro da fare e il cambiamento deve poi essere assimilato dalla società. Non credo che bastino cinque anni». Un ultimo cenno è dedicato al padre e alla sua lezione: la supremazia della politica su ogni altra attività. «Bettino Craxi – continua – sapeva che ogni decisione politica si riverbera sul cittadino e per questo aveva per la politica il rispetto che si ha per una religione». Una lezione che oggi pare essere stata, almeno in parte, se non dimenticata, sicuramente sottovalutata.


32 > NEL NOME DEL PADRE > Chiara Moroni > L’onestà intellettuale prima di tutto

Chiara Moroni, 34 anni, deputata del Pdl


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MANI PULITE? UNA FERITA APERTA Tangentopoli. Un momento controverso nella storia della Repubblica. Chiara Moroni, volto giovane di Montecitorio, ricorda la figura del padre Sergio. E riflette sul rapporto tra politica e magistratura di Lorenzo Berardi uello di mio padre è stato un autentico grido di dolore e, al tempo stesso, d’allarme rispetto a metodi di inchiesta che contraddicevano le garanzie minime di giustizia in uno Stato garantista, ma quel grido cadde purtroppo inascoltato». A sedici anni di distanza dalla scomparsa di Sergio Moroni, morto suicida dopo il suo coinvolgimento in un’inchiesta che lo vedeva responsabile di presunti finanziamenti irregolari al Psi, la figlia Chiara continua a mantenere vivo il suo messaggio. «Ogni giorno ricordo quanto sia importante il significato che volle dare al suo ultimo gesto. a guardare quel periodo storico in modo diverso. Quello che è successo a mio padre resta un moSi trattò di un attacco indiscriminato a un intero nito da tenere presente anche per evitare che si ri- sistema politico. Indubbiamente c’erano delle parti propongano situazioni del genere». corrotte, ma i magistrati si sono avvalsi di metodi La bufera giudiziaria, politica e mediatica che assolutamente inaccettabili che contraddicevano pose di fatto fine alla Prima Repubblica è termile tutele minime di uno Stato garantista». nata da tempo. Tuttavia gli strascichi di Tangentopoli, di quegli anni di inchieste che hanno A suo parere è tempo di avviare una riflessione colpito un’intera classe politica e dirigente del sulla stagione di Tangentopoli? Paese, sono visibili ancora oggi in un quadro in «Ci sono molti libri che finalmente hanno cocui i rapporti fra politica e magistratura restano minciato a trattare l’argomento sotto un diverso tesi. «Mi auguro che un periodo simile non si ripunto di vista. Ma ancora non siamo riusciti a presenti – dice decisa Moroni – ma finché non si farà un’analisi seria e non si avranno ben chiare le cause e le condizioni che hanno portato a quella situazione, il rischio che il passato ritorni si corre sempre».

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Lei è stata toccata personalmente in maniera dolorosa dagli anni di Mani Pulite. Crede che a distanza di tempo quella stagione sia oggi vista e giudicata in maniera diversa dall’opinione pubblica? «A distanza di sedici anni da Tangentopoli credo che ormai l’opinione pubblica abbia già imparato

sottrarre la discussione alla politica. Credo sia assolutamente necessario uscire da un periodo che ha influenzato direttamente e indirettamente quindici anni di vita politica italiana».


34 > NEL NOME DEL PADRE > Chiara Moroni > L’onestà intellettuale prima di tutto

Avverte ancora in Italia parte del clima che si respirava durante quegli anni? «No, per fortuna quei giorni sono lontani. Nel 92 Tangentopoli si era inserita in una profondissima crisi di rappresentanza dei partiti. È chiaro che esistevano alcune forme di corruzione isolate e che alcuni partiti dovessero riflettere sulla propria situazione interna, ma oggi il quadro è totalmente diverso. La più grave ripercussione di Tangentopoli è aver bloccato questo Paese per più di un decennio. Non solo politicamente, ma anche socialmente. Non è un caso che nel 1990 fossimo vent’anni avanti rispetto alla Spagna mentre oggi siamo indietro: non credo sia casuale». Come dovrebbe essere impostato il rapporto fra politica e magistratura? «In una reale e concreta autonomia d’indipendenza, sapendo che il primato spetta alla politica». Ritiene che all’interno della magistratura siano presenti correnti politiche? «Questo mi pare evidente e non sono certo io la prima a dirlo. Le componenti politiche ci sono ancora e restano molto attive. Ma non è tanto la politica che sceglie o è in grado di manipolare la magistratura. Il problema sta piuttosto nel fatto che una parte della magistratura italiana ha scelto di propria spontanea iniziativa di schierarsi faziosamente». Lei ha esordito sulla scena politica nazionale dopo la morte di suo padre. Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta verso questa strada? «Ho cominciato a interessarmi di politica a sedici anni nella giovanile socialista. Per me si è trattato di una scelta naturale. Sin da bambina, infatti, ho sempre frequentato le sezioni del Psi e i festival de l’Avanti. Non è stato quindi il suici-

dio di mio padre a spingermi in politica, perché la mia passione viene da prima. Il mio percorso politico è stato del tutto autonomo». Qual è un insegnamento di suo padre che porta con sé? «Ciò che mi sono sempre portata dietro, non solo nell’esperienza politica, ma anche nella vita, è la sua onesta intellettuale e integrità. Lo ricordo come un uomo profondamente innamorato della politica: sapeva mediare gli interessi particolari per farne interessi generali. Ed è esattamente quello che io tento di fare in aula».


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Il suo ingresso in Parlamento è stato accolto da alcune critiche.

© FOTOGRAMMA

«Quando ho deciso di schierarmi in politica al fianco di Berlusconi le critiche sono state molte e paradossalmente la maggior parte di esse proveniente dagli ex amici di mio padre che avevano scelto di passare col centrosinistra».

L’EPOCA DEGLI ESTREMI GESTI “Quando la parola è flebile non resta che il gesto”. Così scrisse Sergio Moroni nella lettera indirizzata all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano prima di mettere fine alla propria vita il 2 settembre del 1992 ad appena quarantacinque anni. Un messaggio ancora oggi, purtroppo, attuale. Deputato bresciano del Psi, ex consigliere e assessore regionale alla Sanità e ai Trasporti, all’epoca dei fatti Moroni era coinvolto in due inchieste per tangenti e sofferente da qualche mese per un tumore al rene. Il suo tragico gesto non restò isolato nella stagione di Tangentopoli. Prima di Moroni scelse la strada del suicidio l’ex segretario del Psi di Lodi, Renato Amorese, che si tolse la vita il 17 giugno 1992 dopo essere stato interrogato su una presunta tangente. Nel giro di soli 3 giorni del luglio 1993 si consumarono invece due drammi personali che suscitarono un grande clamore nell’opinione pubblica. Il 20 luglio l’ex presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari si suicidò nel carcere milanese di San Vittore, mentre il 22 a suicidarsi fu uno dei più noti imprenditori italiani, il ravennate Raul Gardini, legato allo scandalo tangenti Enimont. A più di quindici anni di distanza da quella stagione di estremi gesti, nuovi nomi si sono aggiunti alla lista dei sucidi legati a inchieste della magistratura. Nel 2004 è stata la volta di un funzionario di Parmalat, Alessandro Bassi, mentre ultimo in ordine di tempo, è l’ex assessore del Comune di Napoli, Giorgio Nugnes suicidatosi il 29 novembre scorso e coinvolto in un’inchiesta della procura partenopea sugli scontri avvenuti a gennaio nel quartiere napoletano di Pianura durante le manifestazioni antidiscarica.

All’interno del Pdl, e prima ancora in Forza Italia, la componente femminile ex socialista è particolarmente forte. Crede dunque che valori socialisti e liberali coincidano nel centrodestra italiano? «Oggi il vero riformista in Italia è Berlusconi. Il riformismo, infatti, non si misura con le parole che provengono dal centrosinistra, ma in concreto, con i fatti. E i fatti sono rappresentati dalla proposta politica e dalla capacità di governo che Silvio Berlusconi ha sempre dimostrato di avere, riuscendo a interpretare una politica che è autenticamente riformista. Per questo motivo molti socialisti italiani hanno scelto di schierarsi con lui».

«A distanza di sedici anni credo che l’opinione pubblica abbia imparato a guardare quel periodo storico in modo diverso» Negli ultimi anni sta gradualmente avvenendo il tanto auspicato rinnovamento della classe politica italiana. Non crede che senza la fine della Prima Repubblica determinata anche da Tangentopoli questo processo non sarebbe avvenuto? «Una cosa è il fatto che siano spariti i partiti del Dopoguerra perché la magistratura ha tentato di scioglierli nelle aule dei tribunali, un’altra è il ringiovanimento e il ricambio generazionale di un’intera classe politica. Questo fenomeno è stato indipendente da Tangentopoli e fa parte della politica. E negli ultimi tempi il Popolo della Libertà ha saputo interpretare il rinnovamento della classe politica meglio di altri».


36 > VOCI DI NEA > Laura Ravetto > Merito e carriera

ACCORCIAMO LE DISTANZE CON IL RESTO DEL MONDO Più meritocrazia. Anche in Italia. È questo l’appello di Laura Ravetto, che invita la politica a prendere esempio dal mondo del lavoro. Dove a contare sono soprattutto curriculum e capacità DI

MONICA ARMELI

Il vento della meritocrazia scatenato dal ministro Brunetta può aiutare le donne a fare breccia in una società italiana ingessata e poco incline ai cambiamenti? La risposta non è facile, troppe chiusure scontate, troppe discriminazioni di rito. Insomma il quadro della “politica in rosa” non è particolarmente roseo. Ma è ancora presto per considerare chiuso il capitolo donne e politica. Lo crede fermamente una delle nuove leve del Parlamento, l’onorevole Laura Ravetto, deputato del Pdl, membro della commissione Bilancio e presidente della delegazione italiana all’assemblea parlamentare dell’iniziativa centro europea. «È innegabile che l’Italia sia indietro perché la partecipazione delle donne in politica è storicamente limitata rispetto ad altri Paesi. Ma sono convinta che se si applicherà l’approccio meritocratico a qualunque ambiente si avrà la possibilità di emergere». Però oggi, nel mondo politico, la donna fa più fatica a emergere e, anche quando ci riesce, ha meno possibilità di arrivare in alto. «È un dato di fatto che attualmente il ruolo della donna in politica resta soltanto una possibilità ristretta. Un domani potremo avere più donne al

vertice, con ruoli politici importanti e non confinate soltanto ai soliti ministeri femminili. In Italia oggi si vive questa forte distorsione, mentre nella maggioranza degli altri Paesi europei e non solo questa fase è già stata affrontata e superata». Qualche riferimento in concreto? «Guardiamo allo staff dei presidenti americani dove c’è una forte presenza di donne. Sono donne con capacità notevoli e curricula forti, un bagaglio indispensabile per aspirare non solo a una progressione di carriera, ma anche a un’affermazione sociale. In molti Paesi europei il fatto di avere una donna premier non è una novità assoluta. L’Italia è indietro da questo punto di vista». Continuiamo a parlare del nostro Paese. Abbiamo 4 ministri donne. Le sembra un buon ri-


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Laura Ravetto, deputato del Pdl, membro della commissione Bilancio e presidente della delegazione italiana all’assemblea parlamentare dell’iniziativa centro europea


38 > VOCI DI NEA > Laura Ravetto > Merito e carriera

Gli Stati Uniti sono l’esempio da seguire

Difficile dare un significato al termine meritocrazia In ambito politico sono convinta che il merito consista in un mix tra parametri oggettivi e attitudini personali. L’individuazione dei criteri per stendere un sistema di valutazione è però più difficile

sultato? «Non è tanto una questione di numeri quanto una questione del modello femminile che l’Italia vuole proporre. Secondo me si deve ancora arrivare ad accettare un modello femminile che sia assolutamente distinto da quello maschile. E non soltanto per questioni di avvenenza e mentalità. Siamo ancora lontani dall’accettare una donna per quello che effettivamente è in grado di fare per la società».

© Riccardo Venturi / CONTRASTO

Guardiamo allo staff dei presidenti americani dove c’è una forte presenza di donne con capacità notevoli e curricula forti, un bagaglio indispensabile per aspirare non solo a una progressione di carriera, ma anche a un’affermazione sociale

Ma cos’è concretamente la meritocrazia? «Bisogna mettersi d’accordo sul suo significato. In ambito politico sono convinta che il merito consista in un mix tra parametri oggettivi e attitudini personali. L’individuazione dei criteri per stendere un sistema di valutazione è più difficile. È importante che le classi dirigenti siano composte da persone che effettivamente abbiano le dovute capacità e anni di esperienza alle spalle. E soprattutto ab-

«In Italia siamo ancora lontani dall’accettare una donna per quello che effettivamente è in grado di fare per la società»

Cosa può fare la politica per dare maggior importanza al ruolo della donna? «La strada da compiere è notevole. Per esempio la politica deve lavorare per adeguarsi a quella che è la realtà del mondo lavorativo dove le donne generalmente vengono valutate per il loro curriculum, per le loro esperienze professionali e le capacità manageriali. Se affrontiamo la questione su questo piano allora non ci sono handicap che tengano e molte donne hanno potenzialità assolutamente equiparabili a quelle maschili».

biano la capacità di dialogare con la società civile, con gli italiani che lavorano e operano nel mercato. Insomma, gli italiani hanno bisogno di interlocutori che parlino il loro stesso linguaggio». In quali altri modi si può riallacciare il rapporto tra mondo politico e mondo reale? «Nel nostro programma elettorale ci sono molti punti che consentono al Parlamento e al governo di riallacciarsi alle esigenze del Paese. È un pro-


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gramma che dà risposte alle numerose emergenze che viviamo. Sono convinta che la distanza tra i due mondi si ridurrà man mano che i punti del programma si faranno concreti. Nel precedente Governo Prodi c’era una totale autoreferenzialità, mancava un’apertura verso l’esterno, al dialogo. Questo governo e questo nuovo Parlamento si muovono invece ascoltando le esigenze reali. Non è un caso che l’attenzione ora sia puntata sui provvedimenti economici». E un’altra esigenza è la riforma della giustizia. Come avvocato, qual è il suo giudizio sull’operato del ministro Alfano? «È assolutamente necessario restituire dignità ed efficienza a questo settore istituzionale fondamentale per il funzionamento del Paese. Il ministro Alfano ha messo in campo iniziative di rilievo, ampiamente annunciate nel nostro programma elettorale. Ci sono resistenze, ci sono polemiche, ma questa riforma è sicuramente attesa dai cittadini. Senza toccare grandi temi nevralgici, basta pensare anche ad aspetti pratici come l’informatizzazione dei procedimenti. Negli Stati Uniti le firme elettroniche e l’abolizione del cartaceo sono una prassi ormai acquisita, noi siamo

VITA A MONTECITORIO Il lunedì, dalle 9 alle 18, mi dedico al territorio e quindi alle problematiche del mio collegio elettorale. Poi, la sera, prendo l’ultimo aereo per Roma e da martedì a giovedì mi occupo interamente delle iniziative parlamentari. Il venerdì mattina lo riservo all’attività della Bicamerale che si occupa dei rapporto con l’Europa dell’Est. Nel pomeriggio torno a casa. Sono convinta che il legame con il territorio non vada mai trascurato, la fiducia degli elettori occorre meritarsela.

fermi alle carte bollate. Un altro problema da affrontare seriamente, e che questo governo ha in cima alla lista delle cose da fare, è la velocità dei processi: è assolutamente inammissibile che un cittadino debba aspettare secoli per vedere tutelati i suoi diritti». Anche nella giustizia è necessaria un’iniezione di “meritocrazia”? «Penso di sì perché spesso non ci si rende conto che questi aspetti pesano non solo sui cittadini, ma sull’intero “sistema Italia” visto che un investitore estero tiene conto di questi ritardi, di queste inefficienze poco giustificabili e ci pensa due volte prima di farsi avanti. Anche la giustizia è un elemento di competitività rispetto agli altri Paesi». Aula parlamentare o di tribunale. Quale sceglie? «Tre anni fa, quando sono entrata in politica, ho deciso di mettermi in aspettativa. Ho fatto l’avvocato per molti anni ed ero dirigente nell’ufficio legale di una società. Ho deciso poi di licenziarmi per dedicarmi completamente all’attività parlamentare. La politica è stata per me una scelta totalizzante visto che non esercito esattamente da tre anni».


40 > ECONOMIA > Emma Marcegaglia > Le leader di Viale dell’Astronomia

La Lady d’acciaio indica la via

© Paolo Tre A3 / CONTRASTO

Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria da marzo 2008. È la prima e più giovane leader degli Industriali italiani


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La crisi che sta attraversando i mercati internazionali volgerà al termine. Per questo è necessario che ci sia volontà

APPUNTI PER LA RIPRESA Sostegno alle famiglie per risollevare la domanda interna. E alle imprese perché riprendano a produrre libere dai fardelli fiscali. È questa la via che Emma Marcegaglia indica per superare il momento di affanno che la finanza e l’economia mondiali stanno attraversando di Patrizia Derubertis isogna sostenere di più le famiglie e le imprese: per le prime è necessario un supporto vero, soprattutto per i cittadini con redditi più bassi, mentre per le società servono più ammortizzatori sociali, il taglio dell’Irap e sgravi fiscali per quelle che si ricapitalizzano». Non ha dubbi la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia sulla strada da intraprendere per affrontare questa tempesta finanziaria che sta facendo tremare il mondo dei capitali. Salita ai vertici di Viale dell’Astronomia a maggio scorso, l’imprenditrice, 43 anni a dicembre, laurea con lode alla Bocconi, sposata, una figlia, ha dovuto affrontare da subito una fase molto delicata, con la recessione in agguato e una crisi del credito che ha messo in ginocchio il sistema finanziario. Un piano congiunturale negativo che ha spinto Marcegaglia già agli inizi di ottobre a spiegare durante la tradizionale kermesse annuale dei Giovani Imprenditori a Capri che «in questo momento l’emergenza non è l’inflazione, ma l’economia». E che oggi «è più che mai necessario non far mancare il credito alle imprese» perché per far ripartire i motori «serve un forte taglio alla spesa pubblica improduttiva che continua a crescere e serve liberare risorse per investimenti pubblici». Concetti poi ribaditi dalla leader degli industriali in varie occasioni. «Siamo in un momento di grande

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42 > ECONOMIA > Emma Marcegaglia > Le leader di Viale dell’Astronomia

1910 > anno dello statuto fondativo di Confindustria 99% > la percentuale dei voti a favore della lady d’acciaio I vertici degli Industriali, a livello nazionale e regionale, si stanno tingendo di rosa

Diana Bracco Presidente di Assolombarda, vicepresidente di ricerca e Innovazione e di progetto Expo dal giugno 2006

Ilaria Vescovi Concreta e decisa. È la presidente degli Industriali del Trentino, contitolare dell’azienda Tecnoclima Spa, era già stata rappresentante dei Giovani Imprenditori locali

Antonella Mansi Del Gruppo Solmar di Grosseto, 34 anni. Dal gennaio 2008 è il nuovo presidente di Confindustria Toscana. Dal luglio 2007 è presidente dei Giovani Imprenditori regionali

difficoltà, di crisi di fiducia e di recessione. Se ne può uscire – ha dichiarato – ma è fondamentale il supporto alle imprese e alle famiglie». Marcegaglia è un’imprenditrice a tutto tondo che ha ben chiaro il significato del proprio ruolo e sa essere, se necessario, dura come l’acciaio che produce l’azienda di famiglia. Per questo sa come si deve collocare il Sistema Italia e come può e deve orientarsi l’industria del Belpaese di fronte a un mondo nel quale tutto cambia e nel quale vince chi per primo si attrezza per convivere con i grandi scenari del futuro. Lei, del resto, è abituata a bruciare le tappe e a essere la prima donna a salire al vertice dell’associazione: nel 1986, a soli 21 anni, era entrata a far parte dei Giovani di Confindustria, diventandone il primo presidente donna a 31 anni, per poi arrivare a sedere sulla poltrona più importante undici anni dopo, sempre come primo presidente in gonnella. Sono sempre di più le donne che rivestono nell’Associazione ruoli di potere. A parte Cristiana Coppola, vicepresidente per il Mezzogiorno, Diana Bracco, presidente del progetto speciale Ricerca e Innovazione ed Expo 2015 e Federica Guidi, presidente dei Giovani Imprenditori, non vanno dimenticate Antonella Mansi di Confindustria Toscana, Annamaria Artoni in Emilia Romagna e Ilaria Vescovi in Trentino. Quello di Marcegaglia è un curriculum vitae che consente di avere chiaro il quadro italiano e capire quali innovazioni andrebbero adottate al più presto: «È fondamentale che alle parole seguano i fatti e che quindi gli investimenti vengano spesi già nei prossimi mesi per aiutare la ripresa». La leader degli industriali ha già più volte chiesto al governo «un taglio all’Irap, perché la riduzione fiscale serve e deve essere consistente, e provvedimenti che supportino dal punto di vista fiscale le imprese che decidono, in un momento così difficile, di patrimonializzarsi e di fare investimenti». Le cifre valgono più delle parole. L’Italia non solo sconta da tempo un ritardo nella crescita rispetto all’Europa, costato negli anni 150 miliardi di euro, ma quest’anno chiuderà con un prodotto interno lordo ancora più negativo di quello prospettato il 18 settembre, quando il centro studi di Confindustria indicò un lieve calo per il 2008 a -0,1% con un’inversione di tendenza per la metà del 2009. Ma ora, dopo poco più di due mesi, durante il quale i tonfi delle Borse hanno risuonato in mezzo mondo e i fallimenti bancari hanno inghiottito quasi un punto di Pil, l’Istat conferma che l’Italia è in recessione con il Pil calato, nel terzo trimestre 2008, dello 0,5% rispetto al trimestre


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Marzo 2008 > Emma Marcegaglia è eletta alla presidenza 43 anni > l’altro record della presidente: è la leader più giovane precedente e dello 0,9% rispetto al terzo trimestre 2007. «Uno scenario difficile» ha spiegato la presidente di Confindustria intervenendo al convegno della Ceced a metà novembre. Speriamo nel 2010 di rivedere un piccolo livello di crescita, ricordando che l’Italia si presenta con «un debito al 105% del Pil» e il cui primo obiettivo «resta preservare l’equilibrio e non aumentare il debito». Per questo, dice a chiare lettere Marcegaglia, servono «richieste specifiche e mirate per dare sollievo all’economia». «Non si tratta di fare chiacchiere – ha detto senza giri di parole – ma di valutare con rispetto soluzioni adatte per migliorare la collaborazione in una situazione internazionale complessa nella quale abbiamo assistito, in brevissimo tempo, a una successione di eventi incredibile». Si è, infatti, passati dai fallimenti di Bear Stearns e Lehman Brothers ai salvataggi dei colossi assicurativi come AIG o delle agenzie di mutui Fannie Mae e Freddie Mac, per arrivare al piano di salvataggio da 300 miliardi di dollari stanziato dal governo statunitense per salvare Citigroup. La presidente di Confindustria non ha dubbi: «Sono stati costruiti fatti straordinari sotto gli occhi disattenti dei controllori e di una regulation da rivedere, castelli di carta di cui purtroppo dovremo pagare tutti le conseguenze». Il momento, precisa la leader degli industriali, è difficilissimo. «Oggi – spiega – abbiamo davanti scenari in cui la domanda è praticamente ferma e, dove c’è ancora la domanda, c’è un credit crunch molto pesante». Per la numero uno di Confindustria «serve un’operazione a supporto del capitale delle banche», adottando il sistema francese dell’emissione di bond senza ingerenza dello Stato nella gestione. Un’operazione, sottolinea, «che deve essere vincolata al fatto che aumentino gli impieghi sulle imprese». Seguendo queste strade Marcegaglia crede nella ripresa dell’economia e pensa che in fondo al tunnel si intraveda già la luce. «Questa situazione – rassicura – finirà e torneremo alla crescita. Certo è molto importante che ci sia la volontà». L’imprenditrice mantovana intanto continua a raccogliere consensi: il suo nome è nella classifica delle prime 50 donne al mondo che contano. È il Wall Street Journal ad averla inserita al 44° posto nella Top women to watch, con una motivazione che non lascia spazio ai commenti: “Sarà decisiva – si legge sulla prestigiosa testata – per riforme e liberalizzazioni in Italia, rappresentando un raro caso di donna tra i primi posti nell’economia italiana”. Ma la strada per le riforme è tutta in salita, visto che l’Italia è al 40° posto per competitività nel mondo e all’ultimo in Europa per regime fiscale, secondo il Rapporto di Business International.

Federica Guidi Dallo scorso aprile è presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria. È una figlia d'arte (suo padre è Guidalberto, per dieci anni storico vice di Confindustria. Ha iniziato la gavetta nel 1996 nell’azienda di famiglia, la Ducati Energia

Anna Maria Artoni «Io in azienda ci giocavo, volevo fare il direttore generale». Come Guidi figlia d’arte e vicepresidente di Artoni Trasporti. È a capo di Confindustria Emilia Romagna

Cristiana Coppola Vicepresidente con delega al Mezzogiorno. Rappresenta una new entry assoluta nella nomenklatura di Viale dell’Astronomia. È inoltre presidente di Mirabella SG Spa e ad di Marina di Castello Spa


44 > L’IMPRENDITRICE DI NEA > Catia Bastioli > Sviluppo sostenibile

Tutelare l’ambiente e insieme fare business? Se si vuole, è possibile

LA RIVOLUZIONE CULTURALE NASCE DAL MAIS di Laura Pasotti

Ha ottenuto la plastica da una pannocchia. Con gli shopper in Mater-Bi è entrata nei supermercati e con il progetto Life, sviluppato insieme a Bmw e Goodyear, sta per rivoluzionare il settore dell’automotive (con un importante contributo alla riduzione delle emissioni di CO2). Incontro con Catia Bastioli che ha fatto dell’innovazione il suo core business. E una strategia per affrontare il futuro ater-Bi. Un nome che ci riporta alla Madre Terra. Alla Natura da cui tutto nasce. Forse è questa la ragione per cui Catia Bastioli lo ha scelto per la sua plastica pulita che “ama” l’ambiente. Perché nasce da mais, grano e patate e si degrada come un alimento. Producendo un compost di alta qualità. Ma soprattutto non inquinando la terra. Ci voleva una sensibilità femminile per arrivare a produrre materiali che potessero, gradualmente, sostituire la “vecchia” plastica. Il progetto Novamont, però, risale al 1989 quando il gruppo Ferruzzi acquistò Montedison e Raoul Gardini ebbe l’idea di creare un centro di ricerca, alle dirette dipendenze della holding, che lavorasse per realizzare prodotti a basso impatto ambientale. Nacque così “Ferruzzi ricerca e tecnologie” di cui Bastioli fece parte fin dall’inizio a capo di un team che lavorava sui materiali. Il progetto rischiò di naufragare in seguito al “crollo” di Montedison, ma i risultati erano davvero interessanti e, grazie ad alcuni investitori (tra cui Intesa San Paolo, allora Comit, e Investitori

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associati, uno dei più grandi fondi di private equity in Italia) e alle idee vincenti di Catia Bastioli, è stato avviato un percorso indipendente. Da allora di strada ne è stata fatta parecchia. Basta pensare che Novamont ha chiuso il 2007 con un fatturato che ha raggiunto i 50 milioni di euro, destina circa il 10% del proprio volume d’affari e il 30% del proprio personale alla ricerca e dà vita a una filiera valutata a livello globale in circa 300 milioni di euro. Catia Bastioli, nel frattempo, è diventata ad dell’azienda piemontese, ha diversificato la produzione allungando la lista dei prodotti realizzati in Mater-Bi (oltre agli shopper oggi è possibile trovare piatti, posate e bicchieri, imballaggi alimentari, prodotti per l’igiene personale e giochi in materiale biodegradabile) ed è stata insignita del titolo Inventore Europeo dell’anno 2007, un prestigioso riconoscimento che ha premiato il coraggio di fare scelte innovative per la salvaguardia dell’ambiente.


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Una rivoluzione nel settore dell’automotive L’ultima novità targata Novamont è il biopneumatico. Il progetto, elaborato insieme a Bmw e a Goodyear, prevede l’adozione di una mescola a base di un biopolimero, derivato dall’amido di mais, che permette di eliminare il 50% dei vecchi ingredienti del filler (la componente che amalgama le fibre gommose), ovvero silice e nerofumo. Il biopolimero è rinnovabile e si calcola che servano circa 11 pannocchie per produrne un chilogrammo. Ipotizzando una sostituzione completa dei pneumatici circolanti in Italia, sarebbe sufficiente coltivare a mais una superficie pari a 20mila ettari per produrne la quantità necessaria.

Catia Bastioli, nata a Foligno, è in Novamont dal 1991. Oggi ricopre la carica di amministratore delegato del Gruppo piemontese


46 > L’IMPRENDITRICE DI NEA > Catia Bastioli > Sviluppo sostenibile

La ricerca in Italia na buona preparazione in un contesto particolarmente difficile». È questa la situazione dei ricercatori italiani secondo Catia Bastioli. Dove vanno cercate le ragioni? «Sicuramente nel fatto che nel nostro Paese prevale una logica di frammentazione che penalizza le visioni sistemiche indispensabili per raggiungere il successo». Uno dei settori maggiormente penalizzati è quello chimico. «L’immagine di questa figura professionale – spiega Bastioli – è stata fortemente indebolita negli ultimi due decenni. Ma – continua –, in generale, credo che manchi un processo di contaminazione positivo tra il sistema delle imprese innovative e il mondo accademico».

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Crescita economica e sostenibilità. È un binomio possibile? «La scarsità di risorse energetiche, i mutamenti climatici, i problemi dell’agricoltura sono fenomeni imputabili agli effetti di uno stile di vita dissipativo che ci spinge a bruciare le risorse del pianeta in tempi sempre più brevi e in quantità crescente, guardando al profitto a breve termine e disinteressandosi delle conseguenze catastrofiche che causiamo al pianeta su scala globale. I rischi di questo modello sono enormi e l’allarme sul conflitto tra biocarburanti e risorse agricole alimentari ne costituisce solo un esempio». Il Mater-Bi è il core product di Novamont. Di che cosa si tratta? «Oggi Mater-Bi definisce una famiglia di prodotti creati seguendo la logica del basso impatto ambientale. La filosofia alla base del Mater-Bi può essere riassunta in tre principi guida fondamentali: l’utilizzo, per quanto possibile, di materie prime rinnovabili, create attraverso processi produttivi eco-compatibili che conducano, grazie alla eliminazione della vecchia plastica, a una riconversione globale dei sistemi applicativi». Il Mater-Bi è economicamente conveniente rispetto ai tradizionali derivati del petrolio? «Il nodo del prezzo è fuorviante. Va premesso che l’economia di scala, e i volumi venduti, hanno abbassato moltissimo il costo del prodotto, ma non possiamo limitare l’analisi a questo aspetto. I prodotti che proponiamo vanno inseriti in un sistema innovativo che punta a considerare l’intera filiera dalla produzione al consumo, e al postconsumo. Oggi è fondamentale creare prodotti

sviluppati secondo una logica che tende a diminuire i costi “di contorno”, come lo smaltimento, mantenendo invece un uso e una versatilità uguale o addirittura migliori rispetto a quelli dei prodotti tradizionali». Ultimamente sta crescendo l’interesse della Gdo verso questi prodotti, quali evoluzioni prevede per il futuro? «Il futuro va in questa direzione, non ci sono altre vie d’uscita. Non c’è stato un cambio di direzione immediato, ma inizia a diffondersi un forte desiderio di comprendere e capire queste problematiche. E, di conseguenza, di cercare questi prodotti. È un cambiamento culturale e ha bisogno di tempo. Ma credo che ormai si sia imboccata la via giusta: i supermercati, un po’ in tutto il mondo, si stanno interessando a questi prodotti». L’entrata in vigore della normativa che prevede l’eliminazione degli shopper in polietilene è prevista per il 2010. A che punto è lo sviluppo della filiera nel settore? «La situazione, dal punto di vista normativo, non è ancora chiara. Stiamo sviluppando in modo organico l’intera filiera con un impegno eccezionale negli investimenti produttivi e organizzativi. Sarebbe utile, però, se territori e aree regionali decidessero di sperimentare approcci innovativi in grado di superare le logiche del divieto e sposare, invece, le iniziative virtuose che coinvolgono tutti gli attori. Un esempio? Adottare nuovi sistemi per l’asporto delle merci che prevedono sacchi a lunga vita riutilizzabili e shopper biodegradabili certificati».


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Viene naturale chiedersi, pertanto, se l’Italia è preparata per consentire a imprenditori dotati di talento innovativo di esprimere le proprie potenzialità o se li costringe ancora a emigrare verso altri Stati. Secondo l’ad di Novamont «molto dipende dal contesto» e aggiunge «dagli stakeholder che si ha la fortuna di incontrare». Manca, però, ancora un modello valido per tutto il Paese, un approccio simile a quello tedesco, ad esempio, che ha permesso alla Germania di sposare il fotovoltaico come obiettivo strategico e ha fatto nascere 10 centri di ricerca, 70 imprese e quasi 200mila posti di lavoro nel comparto della produzione di energia solare. Quali interventi sarebbero, quindi, necessari sul

sistema formativo italiano per renderlo, finalmente, competitivo a livello internazionale? «Penso a una contaminazione virtuosa tra impresa e Università – afferma Bastioli –. Nel nostro territorio, ad esempio, stiamo cercando di sviluppare un nuovo polo di innovazione che permetta di realizzare una rete concreta tra i centri di ricerca pubblici e privati presenti, in modo da evitare replicazione e puntare, invece, ad acquisire strumentazioni e competenze al servizio dei soggetti aderenti». Un modello a rete indubbiamente faticoso nella fase di costruzione, ma che «potrà dare un importante contributo alla formazione di professionalità di alto livello».

La via del riciclo Oltre agli shopper, ai contenitori per alimentari e ai sacchi per la raccolta differenziata, Novamont produce anche una vasta gamma di prodotti in Mater-Bi: piatti, posate e bicchieri, materiali per l’igiene personale, imballaggi e giochi. Perché l’uso di materie prime rinnovabili, tecnologie a basso impatto ambientale e una gestione integrata dei rifiuti possono essere applicabili a tutte le aree della nostra vita

Qual è, a suo parere, la sfida prioritaria per l’innovazione? «La ricerca di modelli di sviluppo in grado di conservare le risorse del pianeta, preservando e aumentando la qualità della vita dei suoi abitanti. Si tratta di favorire la transizione da un’economia di prodotto a una di sistema: un salto culturale verso una sostenibilità economica e ambientale che interessi l’intera società e parta dalla valorizzazione del territorio e dalla collaborazione di diversi interlocutori». Dopo il Premio Inventore Europeo dell’anno 2007, qual è il prossimo traguardo di Catia Bastioli? «Portare a compimento il sistema della bioraffineria integrata nel territorio, un modello su cui anche l’Ue ha puntato molto, anche se oggi sta rivedendo le scelte troppo orientate ai biocarburanti. E poi consolidare Novamont come incubatore di idee e impresa innovativa con una mission esplicitamente rivolta alla progettazione e alla realizzazione di sistemi a basso impatto ambientale».


48 > SFIDE DI NEA > Francesca Menarini > Una donna in zona Cesarini

CON IL SORRISO, DÒ UN CALCIO AI PREGIUDIZI C’è profumo di donna nel calcio italiano. Rosella Sensi non si sentirà più sola adesso che Francesca Menarini ha preso in mano le redini del Bologna Fc. Ora la domanda è questa. Cosa porterà questa ventata di femminilità nel mascolino mondo del pallone? Menarini risponde di Federico Massari

Ferma, gentile, ma anche pungente, quando serve. A Bologna, la stampa locale, preferisce chiamarla presidente, e non presidentessa. Fa più scena. Mentre i tifosi bolognesi, amichevolmente, la chiamano la “sdaura” (signora, ndr). Per la cronaca, la signora Menarini è il 25° presidente della storia rossoblù. Fino adesso le richieste di interviste nei suoi confronti si sono sprecate. Non solo sotto l’ombra delle Due Torri, ma in tutto il Paese. Da che mondo è mondo, una donna al vertice di una società di calcio farà sempre notizia. Con i suoi occhi azzurro cielo, la presidente cercherà in tutti i modi di far sentire la Menarini spiega senza troppi giri di parole, propria voce dentro le sale dei bottoni del calcio cosa significa salire sino allo zenit di una che conta. Se qualcuno le chiede come mai si è società di football. buttata a capofitto nel bel mezzo della selva oscura del pallone, risponde: «Sono sempre stata Qual era la sua attività prima di entrare nel tifosa rossoblù. Da quando mio padre assunse la mondo del pallone? vicepresidenza della società, non mi sono mai «Sono stata, e sono, tuttora, l’amministratore delepersa una partita. Ritengo che il Bologna sia un gato di Cogei, l’impresa di costruzioni fondata da imprescindibile patrimonio della città e come mio padre Renzo. Con me lavora anche mio fratello. tale deve essere gestito mediante capacità imPersonalmente mi occupo dell’area finanziaria». prenditoriali». Già, l’impresa. La signora Menarini è cresciuta, sia professionalmente, che Come mai suo padre, Renzo Menarini, ha scelto lei umanamente dentro l’impresa di famiglia: la come presidente del Bologna Fc 1909? Cogei. Azienda che detiene il cento per cento «Mio padre non mi ha scelto e non mi ha imposto delle quote della società Aktiva, che controlla a nulla. Questo ruolo mi è stato semplicemente prosua volta il 100 per cento del Bologna Fc 1909. posto. Come in tutte le scelte importanti portate Donne e motori gioie e dolori, si diceva una avanti dalla mia famiglia, ne abbiamo parlato involta. Donne e calcio? Chissà. Da seconda, o torno a un tavolo. In quel periodo ho riflettuto prima, voce gentile del calcio italiano, Francesca molto dentro di me. Alla fine ho accettato con


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Francesca Menarini, amministratore delegato della Cogei e da pochi mesi 25esimo presidente del Bologna Calcio

«Una peculiarità femminile è la capacità di sapersi relazionare meglio. Freschezza e sorrisi. Sono questi i valori aggiunti che le donne apportano in qualsiasi situazione» grande entusiasmo, perché ritengo che sia stata una manifestazione di fiducia di mio padre nei miei confronti».

Forse è ancora prematuro stendere un primo bilancio, ma è ancora soddisfatta del ruolo che ricopre? «Certamente. Sono più che soddisfatta. Sono sempre più coinvolta, entusiasta. Da quando sono entrata nel mondo del pallone ho capito che occorre una gran passione per svolgere al meglio il ruolo di presidente». Cosa la spaventa di più? «Non voglio iniziare il discorso dicendo che non sarò mai spaventata da nulla, perché passerei per quella che sentenzia solo frasi fatte. Però, posso dire


50 > SFIDE DI NEA > Francesca Menarini > Una donna in zona Cesarini

Curriculum Dall’imprenditoria al Dall’Ara. Francesca Menarini è amministratore delegato di Cogei, l’impresa di costruzioni fondata dal padre Renzo. Personalmente si occupa dell’area finanziaria

Tifosa della prima ora Sono rossoblù da quando mio padre assunse la vicepresidenza della società, non mi sono mai persa una partita. Ritengo che il Bologna sia un imprescindibile patrimonio della città e come tale deve essere gestito mediante capacità imprenditoriali

La scelta Non è stata un’imposizione. Alla fine ho accettato la proposta di mio padre con grande entusiasmo, perché ritengo che sia stata una sua manifestazione di fiducia nei miei confronti.

che l’idea di affrontare situazioni difficili, che già mi sono capitate in questi tre mesi di presidenza, non mi spaventano. Anzi, non ci spaventano. Parlo al plurale perché, come abbiamo sempre fatto, anche per quanto riguarda la Cogei, assieme alla famiglia e ai dirigenti, ci siamo sempre confrontati e non ci siamo mai fatti prendere dal panico. Fino adesso ci sembra di aver fatto le scelte giuste per il bene della società». Qual è stata la prima cosa che l’ha colpita del mondo del calcio? «Sono stata subito colpita dall’entusiasmo che si respira attorno a questo sport. Si tratta di un pathos emotivo che si avverte nell’aria. Un pathos che è rivolto unicamente


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«Sono stata subito colpita dall’entusiasmo che si respira attorno al calcio. Si tratta di un pathos emotivo che si avverte nell’aria. Un pathos che è rivolto unicamente verso il pallone. Nel mondo imprenditoriale questo non esiste. Nel calcio l’impatto mediatico è sicuramente più forte» verso il pallone. Nel mondo imprenditoriale questo non esiste. Nel calcio l’impatto mediatico è sicuramente più forte». Ha avvertito situazioni di maschilismo? «Sinceramente tutto questo maschilismo non l’ho visto. O meglio, forse non l’ho ancora visto. Adesso come adesso non l’ho avvertito. Se per maschilismo si intende donna, alias poca intelligenza no, non l’ho percepito. È chiaro che da parte di qualcuno un po’ di imbarazzo ci sarà. Però, a livello di dirigenza, a me non fa nessuna differenza confrontarmi con uomini. L’ho sempre fatto, visto che sono trent’anni che lavoro in azienda. Non è, e non sarà una novità». Quale plusvalore può dare una donna al calcio? «Secondo me una peculiarità prettamente femminile è la capacità di sapersi relazionare meglio. Freschezza e sorrisi. Sono questi i valori aggiunti che le donne riescono ad apportare in qualsiasi situazione. Rispetto agli uomini le donne possiedono una grinta diversa, tipicamente femminile. Non voglio peccare di presunzione, ma ci credo veramente. In Lega ho visto pochi sorrisi». Quando ha parlato con Rosella Sensi che cosa vi siete dette a proposito del connubio calcio-donne? «Prima di entrare nel mondo del calcio Rosella Sensi non l’avevo mai conosciuta. Ultimamente ci siamo sentite un paio di volte. Non ci siamo dette molto. Mi auguro in futuro di conoscerla meglio». Zamparini, Cellino, Preziosi, Corioni e Galliani. Personaggi che ne hanno viste di cotte e di crude. La spaventa il confronto in Lega? «Per quanto riguarda il discorso Lega, posso dire che credo da sempre e in maniera profonda nel gioco di squadra e nell’intervento di tutti. Finché ci sarà ancora qualcuno che opta per l’individualità, non si andrà da nessuna parte. Non esistono più i cosiddetti funamboli solitari. L’unico modello vincente è, e rimarrà sempre, il gioco di squadra». I tifosi bolognesi, nonostante un avvio difficile, vi hanno sempre sostenuti. Qual è il suo rapporto con la curva? «Il rapporto coi tifosi deve essere molto forte, molto stretto. Una delle prime persone che ho incontrato dopo il mio insediamento come presidente del Bologna, è stato il capo coordinatore della tifoseria rossoblù. Persona squisita a cui ho mostrato tutto il mio ringraziamento per gli incitamenti. Un grande grazie ai tifosi del Bologna, gente che si è innamorata della squadra a colpi di magone. Gente che ci ha sempre sostenuto anche nei momenti più bui. Speriamo di riuscire a regalare un po’ di gioia e di soddisfazione».


52 > FINANZA > Vittoria Giustiniani > Diritto societario e finanziario

LEGGI

Riflettendo sulla crisi dei mercati, molti commentatori hanno decretato la fine del liberismo. Ma così non è. Almeno, non del tutto

MERCATI FINANZA CRISI GLOBALIZZAZIONE BANCHE LIBERISMO

NIENTE EMOZIONI, è IL MERCATO La congiuntura globale va affrontata con lucidità. E leggi create sull’onda del momento potrebbero essere controproducenti. Invece, «ben vengano gli interventi dello Stato volti a ripristinare la correttezza degli attori». Ne è convinta Vittoria Giustiniani. Che analizza le cause della crisi e indica la possibile strada per uscirne di Emma Collina a bufera dei mercati, prevista ma inaspettata nelle sue dimensioni, ha avuto il merito, se di merito si può parlare, di aver aperto una riflessione seria sul modello economico e finanziario post-capitalista. Che ha mostrato tutta la sua debolezza. «Se si intende il liberismo quale opposto a un sistematico e strutturale intervento di pianificazione da parte dello Stato – mette in chiaro Vittoria Giustiniani, esperta in diritto societario e finanziario – la sua scomparsa sarebbe davvero grave. Tuttavia, è ormai chiaro che il mercato non è in grado di auto-regolamentarsi». Per questo da più parti si sottolinea la necessità di regole trasparenti e, soprattutto, globali. «Sono convinta – sostiene l’avvocato – che ci sia bisogno di recuperare legalità, cioè di assicurare la conformità dei comportamenti alle tante regole esistenti e un controllo attento su quelli devianti. Cioè assicurare la conformità dei comportamenti

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alle tante norme esistenti e un controllo attento su quelli devianti». Quindi il liberismo non sarebbe tout court la causa della crisi internazionale che stiamo attraversando. «Credo che il liberismo nell’economia, nella finanza e nella regolamentazione, fondato su errati presupposti, porti a distorsioni e abbia effetti nocivi. Ma questi effetti nocivi possono essere corretti, attraverso interventi normativi volti ad allineare maggiormente la realtà del mercato alla sua rappresentazione, su cui si fonda il liberismo. In sostanza,


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Vittoria Giustiniani, partner dello studio Bonelli Erede Pappalardo di Milano, è stata indicata una delle 30 donne piÚ potenti di Italia


54 > FINANZA > Vittoria Giustiniani > Diritto societario e finanziario

no al liberismo “selvaggio” e ben vengano interventi dello Stato volti a ripristinare la correttezza degli assiomi su cui il liberismo si fonda». Lo stesso discorso vale per la finanza cosiddetta creativa? «Sì. L’uso innovativo degli strumenti della finanza è stato, e continuerà a essere, utile. È il suo abuso a creare danni evidenti: così, nel caso dei subprime, la patologia non ha riguardato lo strumento della cartolarizzazione in sé, bensì la qualità dei crediti sottostanti e, semmai, le valutazioni operate nell’attribuire loro un rating. Il confronto tra i Cdo, Collateralized Debt Obligations, originati dai subprime e i nostri covered bond è particolarmente significativo: questi ultimi devono avere per legge attivi di particolare qualità, cioè mutui ipotecari con un determinato rapporto tra l’ammontare del finanziamento e il valore del bene oggetto di ipoteca, crediti vantati o garantiti da amministrazioni pubbliche e titoli emessi nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione di attivi simili a quelli appena menzionati. Inoltre, sempre nel caso dei covered bond, la banca emittente deve assicurare la parità tra l’ammontare per capitale e interessi da rimborsare ai portatori dei titoli e il valore di asset e interessi generati e segregati a garanzia. In sintesi, non si può condannare la finanza creativa, ma ancora una volta creare presidi volti a impedirne l’abuso». A parte l’abuso degli strumenti finanziari, quali sono le altre cause di questo financial meltdown? «La crisi finanziaria e le sue ripercussioni sulla crescita economica devono, innanzitutto, far riflettere. Di fatto, la situazione attuale è riconducibile soprattutto a un eccessivo ricorso alla leva finanziaria, a un livello di debito/credito che il nostro sistema non era più in grado di reggere, cosicché la “bolla della liquidità” è “scoppiata” quando è venuta meno la fiducia che sorreggeva questo gigante con i piedi di argilla. In un certo senso per una volta possiamo dire che le nostre responsabilità, e per nostre, intendo quelle del nostro Paese, sono limitate. Si tratta di una crisi che trae origine in una realtà da cui credo che l’Italia fosse ancora abbastanza lontana, grazie, secondo alcuni, all’“arretratezza” del sistema bancario e imprenditoriale. E infatti, dovendo necessariamente

schematizzare, le cause possono essere individuate, da un lato, in una eccessiva propensione alla spesa alimentata da un troppo facile ricorso al debito principalmente da parte dei consumatori americani, che rappresentano circa il 30% della domanda a livello mondiale; dall’altro lato, negli eccessi di certa sofisticata “ingegneria finanziaria”, eccessi che hanno permesso una sostanziale deresponsabilizzazione degli istituti finanziatori e hanno creato meccanismi di crescente incentivazione alla concessione di credito e un abbassamento dei requisiti necessari per l’accesso ad un prestito». È possibile arginare fenomeni di questo tipo? «Credo che una approfondita e attenta analisi delle cause e delle responsabilità aiuterà a prevenire l’insorgenza di nuove crisi derivanti dai medesimi fatti, se a questa analisi farà seguito l’adozione di adeguate misure. Pur nelle difficoltà congiunturali, è il momento adatto per sfruttare l’occasione di una riflessione profonda. In sostanza, questo deve essere un trauma positivo, che ci ricordi la lezione impartita dalla crisi del 29 negli Stati Uniti o anche solo dall’austerity degli anni 70 in Italia, lezione che temo sia stata troppo presto dimenticata». Quali sono le strategie imprenditoriali più azzeccate per superare il momento?

«Accanto al coraggio imprenditoriale, che può sempre essere vincente in ogni settore, attuerei una attenta strategia di monitoraggio e di contenimento dei costi» «In momenti come quello attuale, accanto al coraggio imprenditoriale, che a mio avviso può sempre essere vincente in ogni settore, attuerei una attenta strategia di monitoraggio e di contenimento dei costi, volta ad arginare gli effetti sui margini, derivanti dall’inevitabile calo della domanda che la crisi sta già generando e a contrastare la contrazione del fatturato. D’altra parte, accetterei di fare un sacrificio sui margini e punterei anche sulla qualità del prodotto, allo scopo di contrastare la concorrenza proveniente dall’Estremo Oriente, che immette sul nostro mercato prodotti a prezzi bassissimi ma anche di qualità molto scadente».


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Meglio una regola giusta che dieci mediocri A livello normativo sarebbero necessari maggiori regole e paletti? «Da più parti si levano voci che invocano interventi normativi volti ad assicurare maggiore trasparenza verso gli investitori, che consenta loro di meglio comprendere ciò in cui stanno investendo. Tutti interventi che dovrebbero essere coordinati e armonizzati a livello internazionale, in modo che le relative norme siano più comprensibili e applicabili e meno aggirabili. Va tuttavia detto che è meglio una regola giusta e ben fatta piuttosto che dieci regole mediocri. È importante reagire tempestivamente alle situazioni di crisi, ma è anche vero che una buona regola lo è nella misura in cui non sia originata solo da un’esigenza congiunturale, e quindi, in una certa misura, da una situazione “emozionale”. Deve restare attuale anche una volta che la contingenza critica sia stata superata.

Cadere negli estremismi è rischioso L’uso innovativo degli strumenti della finanza è stato, e continuerà a essere, utile. È il suo abuso a creare danni evidenti. È così nel caso dei subprime: la patologia non ha riguardato lo strumento della cartolarizzazione in sé, bensì la qualità dei crediti sottostanti e, semmai, le valutazioni

Insomma, una norma, per essere una buona norma, deve risultare tale anche a posteriori e deve essere idonea a scongiurare il ripetersi delle situazioni che hanno portato alla sua emanazione. Per fare una regola così ci vuole tempo. Altrimenti si rischia di realizzare frettolosi palliativi, spesso inefficaci e facilmente aggirabili. In sostanza, credo che, in questo momento, più che di nuove regole, ci sia bisogno di recuperare legalità, cioè di assicurare la conformità dei comportamenti alle tante regole esistenti e un controllo attento su quelli devianti».


56 > ECONOMIA > Cristina Rossello > Donna al vertice

L’ECCELLENZA IN CARRIERA

DI LORENZO

BERARDI

Nel 2008 il Corriere della Sera l’ha inserita fra le 50 donne più potenti d’Italia. I vertici di Mediobanca e i maggiori imprenditori italiani vedono in lei un’interlocutrice privilegiata. Tre studi fra Milano, Roma e Bruxelles. L’avvocato Cristina Rossello affianca alla professionalità, garbo e determinazione gire liberi da condizionamenti, là dove il campo d’azione è quello dell’impresa e della società, soprattutto della grande impresa azionaria, è una scelta da rispettare. Solida preparazione, principi rigorosi, tenacia, rapidità, versatilità sono i requisiti guida indispensabili che hanno consentito a Cristina Rossello di mantenere l’impegno, preso alla scomparsa del suo maestro, l’avvocato Ariberto Mignoli, di continuare l’attività nel cammino da lui tracciato. Il mondo dell’impresa è un campo altamente politico, al tempo stesso fronte comune e campo di battaglia. Il mondo degli affari è pieno di insidie, allettamenti e pericoli: potervi operare con indipendenza, riscuotendo il rispetto da tutte le parti, anche dal potere giudiziario, è un risultato importante. Quando poi la scelta di indipendenza culturale e di elevata preparazione sono riconosciute a una donna giovane e libera che, sola, conduce uno dei più brillanti studi di diritto commerciale italiano la curiosità cresce. Difficile non notarlo.

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L’impegno in Mediobanca Anche in questo 2008, come ormai da oltre dieci anni, all’Assemblea di Mediobanca chi godeva della fiducia incondizionata del Presidente Geronzi e di manager come Nagel, Pagliaro e Cereda era lei. Una donna stimata anche dagli imprenditori più significativi del Paese quali Pesenti, Tronchetti Provera, Ferrero, Cerutti, Gavio, Ligresti, Angelini, Fumagalli, Della Valle, nonché dai francesi Bernheim e Bollorè. Severa, attenta, diligente e vigile, prende appunti, snocciola dati, chiede la parola al Presidente e, appena lui gliela concede,

propone la delibera da mettere ai voti, incassando il massimo dei consensi. Ascolta, risponde solo quando è necessario con tecnica e prudenza, raccogliendo così anche il rispetto degli azionisti di minoranza, senza mai fare pesare la posizione di forza che rappresenta. Il suo garbo e disponibilità registrano così un altro successo facendo passare in secondo piano la concentrazione di potere che è passata nelle sue mani. “Il Corriere della Sera” in marzo la indica fra le 50 donne più potenti d’Italia. Una rosa di nomi in cui l’avvocato Cristina Rossello è la più giovane dei tre avvocati indicati. Versatilità in carriera Laureata in Giurisprudenza a Genova nell’86 e scoperta dal celebre professor Victor Uckmar, inizia a collaborare con Cesare Pedrazzi nel risanamento di importanti gruppi italiani. Esperienza fondamentale che, sommata a quella svolta col commercialista Francesco Ghiglione le consentirà di diventare apprezzata interprete di ogni problematica legale dei bilanci di società. L’avvocato Rossello collabora inoltre con Alberto Predieri negli studi sulle opportunità, sulle applicazioni e sui riflessi della privatizzazione della Borsa Italiana. Negli anni 90 Alberto Crespi apre su “Il Sole 24 Ore” una serie di studi di diritto dell’impresa sulle deleghe di funzione, e la introduce in alcuni dei più importanti gruppi industriali italiani, osservatorio privilegiato per i temi della governance dell’impresa. Dal 92 L’avvocato Cristina Rossello, nel suo studio milanese. Opera fra la città meneghina, Roma e Bruxelles


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Una donna al comando Cristina Rossello è stata insignita del Premio Regionale Liguria 2007 per l’eccellenza nelle professioni


58 > ECONOMIA > Cristina Rossello > Donna al vertice

Carla Zanelli: diritto bancario, assicurativo e contenzioso

Antonio Bova e Ida Lombi: M&A consulenza societaria, contenzioso societario, market abuse

Ariberto Mignoli la chiama a collaborare in esclusiva con lui, associandola nel 97 e lasciandole poi in legato nel 2003 la continuazione dell’attività del suo studio. Sotto la guida del professor Ariberto Mignoli, Cristina Rossello ha condotto numerose operazioni societarie relative ad aumenti di capitale, azioni proprie, prestiti obbligazionari, partecipazione a collocamenti di strumenti finanziari, fusioni scissioni, conferimenti di rami di azienda e cessioni di pacchetti di controllo. Con lui ha partecipato, come assistente e consulente, a Opa e Ops per aggregazioni bancarie e per imprese produttive. Un avvocato dal respiro internazionale Nello studio milanese ai mobili antichi nelle stanze silenziose, ai libri d’epoca, e al leggendario sottofondo musicale di Mozart, si sono ora aggiunti fiori freschi, candele profumate, banche dati, computer e collegamenti in rete. Uno studio che può contare su una squadra di giovani avvocati dall’età media di 35 anni, tutti poliglotti, preparatissimi, franchi, leali, efficienti e organizzati, che sfornano un lavoro di équipe, in collaborazione con i colleghi delle sedi di Roma e Bruxelles. La sede centrale, però resta a Milano, città che resta la più sensibile alle esigenze del mondo economico italiano. Una città privilegiata dalle istituzioni bancarie, creditizie, assicurative, commerciali, finanziarie e di borsa. Lo studio di Roma, aperto dal 2004, dedica la prevalente

Luca Salzano: contenzioso fallimentare, risanamento, riorganizzazione e ristrutturazione imprese

attenzione ai rapporti con le Istituzioni Pubbliche e con le authority, per poter seguire con le migliori condizioni, anche logistiche, i procedimenti speciali con Agcom, Agcm, Consob e Banca d’Italia. Nel 2006 apre invece la sede di Bruxelles, città indispensabile per l’attività di assistenza e di consulenza legale, amministrativa e aziendale alle imprese in ambito europeo. In questo scenario

Laura Zanchi, Monica Damiani e altri collaboratori del team che si occupa di disciplina dei rischi legali di impresa, temi legati al Dlgs 231 e al risk management in generale


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Patrizia Bertone: proprietà intellettuale, procedimenti speciali e cautelari e contrattualistica

Vivian Donath: contrattualistica internazionale, conciliazione e incoming company

Fabio Cassani e Pasqua Giangrande: contenzioso giudiziale, arbitrati e diritto sportivo

“Il Corriere della Sera” ha indicato Cristina Rossello fra le 35 donne italianea cui riservare posti di comando nelle società quotate in borsa internazionale, l’avvocato Rossello ha saputo avviare interessanti progetti di family office e la fornitura della necessaria attività per lo sviluppo e la tutela delle attività imprenditoriali. Fra impegni e riconoscimenti Nell’ultimo decennio l’attività di avvocato di società quotate e di rilevanti imprese familiari è ampliata da quella nel diritto dello sport, per associazioni e società sportive, per le quali svolge anche funzioni istituzionali, sotto la Presidenza di Franco Carraro prima e di Adriano Galliani poi, come Responsabile della Direzione Legale della Lega Calcio. L’esperienza lavorativa dà modo all’avvocato Rossello di interagire con i massimi esperti dei diritti televisivi italiani ed europei, come l’indimenticabile avvocato Aldo Bonomo. È relatore in convegni di diritto sportivo volti alla specializzazione per avvocati e in corsi di formazione superiore per laureati in diritto ed è docente al corso di perfezionamento in Diritto sportivo e Giustizia sportiva della Università Statale di Milano diretto dal professor Lucio Colantuoni. Quest’estate “Il Corriere della Sera” indicava Cristina Rossello fra le 35 “emergenti” esperte indipendenti cui riservare le famose “quote rosa” per eventuali posti di comando

nelle società quotate in borsa. Associata di NedCommunity, la brillante presidente Rosalba Casiraghi, la coinvolge nel gruppo di lavoro per il progetto di ricerca sul processo di attuazione del “modello di amministrazione e controllo dualistico”, che ha riunito giuristi come Carlo Marchetti, Francesco Denozza, Marco Venturuzzo e Gianfranco Negri-Clementi ed economisti quali Marina Brogi e Paola Schwizer in un confronto importante sulla corporate governance. Advisory Board della Divisione Governance di Key2People e membro del Comitato Scientifico dell’Aidaf, si è distinta per le problematiche delle aziende familiari in una lunga esperienza di lavoro con Alberto Falck, Mario Boselli, e ora con Maurizio Sella partecipando con Gioacchino Attanzio ai lavori preparatori di riforme legislative in materia di diritto civile, commerciale, societario nelle Commissioni di Camera e Senato. Da anni Niccolò Branca, eletto industriale del 2008 per la globalizzazione, ha scelto Cristina Rossello come avvocato del suo Gruppo e con la sua assistenza ha intrapreso le scelte di organizzazione e di sviluppo della multinazionale. Nel 2007, la regione natale dell’avvocato la insignisce del Premio Liguria per l’eccellenza nelle professioni.


60 > FINANZA > Patrizia Polliotto > Responsabilità ed effetto domino

COME DIFENDERSI DAL RISCHIO DI SOFIA SASSI

Le Pmi italiane pagano il crac finanziario globale. Fra le difficoltà occorse, vi è anche l’utilizzo distorto dei derivati finanziari. L’avvocato Patrizia Polliotto analizza il fenomeno al fallimento di Lehman Brothers in poi, il termine “derivati finanziari” è divenuto familiare a un vasto pubblico. Tuttavia, pochi fra i non addetti ai lavori conoscono il reale significato dell’espressione. I derivati sono strumenti proposti dalle banche il cui valore è direttamente proporzionale all’andamento del valore di una o più attività. Attività che possono essere di natura finanziaria o reale. Nel primo caso si intendono, dunque, titoli azionari, tassi di interesse e di cambio oltre agli indici di borsa. Nel secondo, l’andamento sul mercato globale di materie prime come caffè, oro o petrolio. Gli strumenti derivati sono utilizzati per proteggere il valore di una posizione da variazioni indesiderate dei prezzi di mercato (hedging) oltre che per finalità speculative e di arbitraggio. Il problema più complesso dei derivati resta quello della determinazione del loro valore. Ed è proprio su questo aspetto che si inseriscono le responsabilità degli istituti di credito nel recente crac finanziario globale. L’effetto domino scatenato dalla congiuntura è andato a colpire anche le Pmi italiane. «Negli ultimi anni numerose Pmi sono state costrette a rivedere piani di sviluppo, a licenziare e a chiudere le proprie sedi per colpa dei derivati – ricorda l’avvocato Patrizia Polliotto – perché si è fatto di questi ultimi un utilizzo sempre più distorto, spingendo le aziende che contraevano debiti con la banca a sottoscrivere Interest rate swap di natura più speculativa che protettiva».

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L’avvocato Patrizia Polliotto esercita presso il foro di Torino


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Come è stato possibile? «Perché all'interno del vasto mondo degli strumenti derivati vi sono moltissime variabili incomprensibili, tanto che perfino gli addetti ai lavori faticano a volte a capirci qualcosa, figuriamoci le tantissime Pmi che si sono fidate dei funzionari di banca e hanno firmato quelli che si stanno rivelando veri e propri “contratti capestro”». Perché nessuna legge ha tutelato le Pmi coinvolte? «La legge 108/96 tutela i cittadini dal reato di usura perpetrato dalle aziende operanti sul mercato del credito: il costo effettivo di un finanziamento, infatti, sia esso mutuo o apertura di credito, non coincide con il solo tasso nominale, ma con il tasso effettivo globale, comprensivo di tutte le remunerazioni connesse al finanziamento a qualsiasi titolo percepite dal creditore eccetto imposte e tasse. La disciplina di questa legge determina il “tasso soglia”, ovvero la misura matematica oltre la quale gli interessi sono sempre usurari. La normativa vigente estende, dunque, il concetto di interesse passivo a qualsiasi tipo di remunerazione percepita dall'istituto di credito al fine di evitare l'applicazione di un'usura “legalizzata”, ossia con tassi nominali apparentemente entro i limiti, ma con tassi effettivi notevolmente eccedenti i parametri fissati dalla legge». In questi casi, si può ipotizzare una violazione della normativa anti-usura per quanto riguarda gli strumenti finanziari derivati? «C’è da chiedersi se attraverso il sistema degli

strumenti finanziari derivati, quando essi sono contratti, ad esempio, a garanzia del mantenimento del tasso di un mutuo, non si determini un superamento del tasso soglia che aggiri indirettamente la normativa anti-usura. Un’indagine Consob 2004 mostra come l’attività in derivati delle Pmi italiane sia nata alla fine degli anni 90 sulla scia di diffuse aspettative di rialzo dei tassi di interesse. La congiuntura economica in Europa e negli Usa ha fatto sì che, almeno sino al 2005, tali aspettative si dimostrassero errate, generando flussi di cassa negativi per le imprese. Alcune aziende hanno mantenuto le posizioni in essere sino a quando la salita dei tassi ha prodotto flussi di cassa positivi. Altre, invece, hanno rinegoziato le posizioni in perdita mediante la stipula di nuovi contratti strutturati in modo tale da assorbire il valore negativo dei contratti precedenti. A fronte dell’assorbimento di tale perdita, i nuovi contratti hanno lasciato scarse probabilità alle imprese di ottenere flussi di cassa positivi negli anni a seguire. La domanda da porsi oggi è: nel caso dei derivati finanziari siamo di fronte a contratti legittimi oppure più approfondiamo la ricerca sulle modalità di funzionamento anche accessorie quali la rinegoziazione, più ci rendiamo conto di essere sempre al limite della legittimità?».


62 > ECONOMIA > Katia Bonsignore > Consulenze ad hoc

UNA MANO CONCRETA ALLE IMPRESE DI

MICHELE CAMERANI

Scogli burocratici. Aggiornamento legislativo. Scossoni finanziari globali. Tutte variabili da tenere presente per i piccoli e medi imprenditori italiani. L’avvocato Katia Bonsignore offre aiuto in materia orino, in un elegante palazzo liberty, lavorano cinque giovani avvocati. Alla loro guida, Katia Bonsignore. Un professionista con prestigiose esperienze professionali alle spalle presso affermati studi legali sia in Italia che all’estero e arbitrati internazionali svolti nelle maggiori capitali europee oltre a anni di collaborazione con l’Università di Torino. Lo Studio Legale Bonsignore garantisce oggi un affiancamento ad personam ai propri clienti che sono seguiti dagli avvocati in ogni aspetto, dalla stesura dei contratti sino al contenzioso. Un’attività concentrata sul diritto commerciale, bancario, societario e nel project financing.

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L’avvocato Katia Bonsignore consiglia determinazione, tenacia e un’esperienza lavorativa all’estero a tutte le donne che vogliano avvicinarsi alla carriera forense

e piccole e medie imprese rappresentano l’ossatura dell’economia italiana. Un sistema non sempre tutelato a dovere dalle istituzioni come meriterebbe. Una costellazione di aziende che deve fronteggiare le ripercussioni di una congiuntura economica sfavorevole e al tempo stesso destreggiarsi in una burocrazia opprimente. «L’assetto normativo è sempre più complesso e soggetto a continue modifiche – conferma l’avvocato Katia Bonsignore titolare dell’omonimo studio torinese – quindi è necessario monitorare costantemente le novità introdotte dalla legge nei vari settori». Non sempre una Pmi riesce a essere aggiornata su questi temi e diviene quindi indispensabili rivolgersi a professionisti esterni e specializzati, ma che conoscano da vicino la realtà aziendale. Uno studio qualificato al servizio della piccola e media impresa deve saper lavorare con commercialisti, notai e consulenti tecnici di alto livello e avvalersi di un network di professionisti per riuscire a garantire agli imprenditori una copertura totale. Occorre un approccio

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pragmatico, che vada alla ricerca di soluzioni. «Se un imprenditore arriva da noi – assicura Katia Bonsignore – lo affianchiamo passo dopo passo nella redazione e negoziazione di contratti che evitino grattacapi successivi. Sono convinta, infatti, che un bravo legale debba tutelare il cliente il più possibile evitando i contenziosi». Avvocato, quali sono i settori in cui l’assistenza del consulente legale è imprescindibile per una Pmi? «Sicuramente nel rapporto con le banche. Basti pensare al tema dell’accesso al credito, o alla spinosa questione degli strumenti finanziari derivati». La crisi finanziaria globale sta agendo anche sui rapporti che intercorrono fra banche e Pmi italiane. In che modo la sua assistenza legale si rivela preziosa dalla parte dell’impresa? «L’accesso al credito è da sempre la spina nel fianco delle Pmi e il problema andrà certamente inasprendosi nel prossimo futuro. Diviene,


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Riflessioni

quindi, di fondamentale importanza per l’impresa presentarsi agli istituti di credito con i parametri adeguati. Infatti, con l’introduzione di Basilea 2, il giudizio, detto rating, che la banca attribuisce al cliente rappresenta la condizione prima per ottenere credito a condizioni accessibili».

cliente ignaro. Altro settore nel quale negli ultimi anni ci è stata chiesta assistenza è quello dei derivati. Un vero e proprio dramma, con costi che stanno mettendo in ginocchio numerose realtà imprenditoriali».

E per quanto riguarda la situazione delle Pmi già avviate che si rivolgono al suo studio, su quali ambiti si è maggiormente indirizzata la sua consulenza negli ultimi anni? «Sempre più spesso si rivolgono al nostro studio imprenditori che hanno già un contratto di finanziamento in stato di default, situazione che, con le misure di Basilea 2, può verificarsi anche semplicemente per un ritardo nel pagamento di una rata protrattosi per un certo periodo. In casi come questo, siamo riusciti a evitare l’ingiunzione di pagamento o limitarne l’entità compensando il credito vantato dalla banca con i debiti che quest’ultima aveva nei confronti del

Qual è il tipico modus operandi del suo studio? «Se il cliente ha un problema cerchiamo sempre la soluzione transattiva e in tribunale ci si arriva solo quando è indispensabile. Tuttavia, ritengo più efficace la consulenza preventiva, che dovrebbe proprio avere lo scopo di evitare le cause. Un contratto ben negoziato in ogni suo aspetto consente di non sprecare risorse e finanze in lungaggini processuali. Negli ultimi tempi riscontriamo una maggiore richiesta di assistenza legale anche da parte di imprenditrici, donne che hanno deciso di mettersi in gioco nonostante le difficoltà di gestire il loro tempo tra famiglia e lavoro».


70 > MONDO DEL LAVORO > Polverini - Todini > La sindacalista e l’imprenditrice

IL CAPITALE UMANO MOLLA DI SVILUPPO Scarsa partecipazione di donne, giovani e over 55. È questa la situazione del mercato del lavoro in Italia. Un confronto tra Renata Polverini, segretario generale dell’Ugl, e Luisa Todini, presidente del gruppo Todini Costruzioni, per capire dove porterà la discussione in atto in questi mesi sul rinnovo dei modelli contrattuali di Laura Pasotti n tasso di occupazione nazionale del 58,7% (inferiore di quasi 7 punti percentuali alla media Ue, 65,4%, e ancora lontano dagli obiettivi di Lisbona) con evidenti disparità territoriali (al Sud il tasso di disoccupazione è pari all’11%, il doppio della media nazionale) e basse percentuali di occupati tra le donne (40%) e tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (25%). Sono i dati che emergono dal Rapporto Isfol 2008 presentato lo scorso novembre. Il quadro che si delinea è quello di un Paese che fatica ad affrancarsi dalla congiuntura

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A sinistra, Renata Polverini, nata a Roma, è segretario generale dell’Unione generale del lavoro dal febbraio 2006. Sopra, Luisa Todini, nata a Perugia, è presidente di Todini Finanziaria Spa, la holding del gruppo Todini Costruzioni, fondata dal padre Franco negli anni 50

internazionale negativa e in cui il crollo dei mercati finanziari e il contesto macroeconomico stagnante rischiano di avere ripercussioni pesanti sulle fasce più deboli della popolazione. Ciò nonostante nel 2007 i livelli occupazionali sono cresciuti fino a superare i 23 milioni di unità (il massimo storico dal 1992), anche se l’Ocse prevede un aumento del tasso di disoccupazione di almeno due punti percentuali entro il 2010. È in questo contesto che si inserisce la discussione sulla riforma dei contratti e del modello contrattuale che sta animando il freddo autunno italiano. La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha richiamato le parti politiche e le parti sociali alla coesione in un momento in cui «c’è bisogno di tutto tranne

che del conflitto» e ha indicato tra i pilastri fondamentali per la crescita del Paese anche l’investimento in capitale umano. E se da un lato Luisa Todini, presidente di Todini Finanziaria Spa, concorda sulla necessità di riformare la contrattazione collettiva perché «la situazione congiunturale è un’occasione per abbattere tutti gli steccati di protezionismo, ristabilendo i principi del merito e la mobilità sociale», dall’altra c’è chi considera la battaglia sui contratti, alla luce della crisi economica che ci affligge, un po’ anacronistica. Sono parole di Renata Polverini, segretario generale dell’Unione generale del lavoro (Ugl), che però precisa: «Si tratta di uno degli interventi necessari per arrivare a una maggiore


72 > MONDO DEL LAVORO > Polverini - Todini > La sindacalista e l’imprenditrice

produttività. Prima o poi – continua – andrà affrontato il problema della mancata corrispondenza tra modelli contrattuali e organizzazione delle imprese e del lavoro». Tutelare non tanto il posto di lavoro, quanto l’occupabilità, quindi. E garantire la mobilità all’interno del comparto occupazionale. È questo l’obiettivo a breve termine. E le proposte di Confindustria sembrano andare in questa direzione. «Tutelare il posto di lavoro in quanto tale non fa bene né all’azienda né al lavoratore – afferma Todini –. I privilegi acquisiti da alcuni

LA RIFORMA DEI CONTRATTI Una delle questioni su cui salta più all’occhio il conflitto tra la realtà del lavoro e la rappresentazione che ne danno i contratti è quella degli inquadramenti. «Un sistema flessibile – afferma Luisa Todini – deve essere attento alle potenzialità del lavoratore». Renata Polverini pone l’accento, invece, sulla questione lessicale, rispetto alla quale auspica una «razionalizzazione della materia» e sulla tutela delle specificità professionali acquisite nella vita lavorativa.

lavoratori sono un danno per l’azienda che colpisce anche gli altri». La questione, quindi, non è tanto trovare un compromesso tra la necessità di flessibilità delle imprese e la tutela dei lavoratori, ma piuttosto individuare un modello di sviluppo per l’azienda che tuteli anche i lavoratori. «Il più grande successo per un imprenditore – continua Todini – è vedere la propria azienda che cresce e occupa un numero sempre maggiore di lavoratori». Oggi, purtroppo, la congiuntura costringerà le aziende a rinunciare a molti posti di lavoro e, afferma Todini, «ci sarà un gran bisogno di ammortizzatori sociali». È anche per questa ragione che il sindacato, in un momento come quello che stiamo vivendo in questi mesi, ha un ruolo fondamentale. E non deve opporsi all’impresa, ma essere disponibile a sedersi a un tavolo congiunto. «I confederali sono consapevoli delle difficoltà che l’economia sta attraversando – dichiara Polverini – e, in


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generale, prevale il senso di responsabilità. Mi sembra, però, che da troppo tempo le ragioni di lavoratori e pensionati siano state poste in secondo piano dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni». Ma la battaglia deve essere comune, soprattutto su alcuni temi. «Penso al decreto sulle materie prime – spiega Todini –, che devasterà i bilanci delle imprese di costruzioni, la cui risposta non potrà che essere la diminuzione dei posti di lavoro. Con i sindacati c’è assoluta comprensione e la discussione in aula deve tenerne conto». È vero però che spesso i sindacati non rappresentano la forza lavoro più giovane e attiva e non hanno saputo adeguarsi all’evoluzione del mondo del lavoro, rimanendo in alcuni casi un vero e proprio “patronato pensionistico”, come lo definisce Luisa Todini. La difficoltà di “cavalcare” il cambiamento non è solo del sindacato, ma, come afferma Renata Polverini, «anche di altri attori sociali». Da

questo punto di vista, l’Ugl si è fatta interprete del cambiamento nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro (e la crescita in termini di voti al rinnovo delle rappresentanze sindacali lo ha dimostrato), cercando di dar voce ai giovani, alle donne, agli immigrati. Perché, spiega il segretario generale, «non ha mai dimenticato di essere espressione dei lavoratori e di dover garantire le migliori condizioni alle persone che rappresenta». Tra le questioni da risolvere c’è sicuramente quella degli inquadramenti, forse quella rispetto alla quale, afferma Todini «salta più all’occhio il conflitto tra la realtà del lavoro e la rappresentazione che ne danno i contratti». In Italia il sistema di classificazione dei lavoratori è ancora quello basato sui mansionari tradizionali, ma «un sistema flessibile – spiega ancora Todini – deve essere attento alle potenzialità e alle capacità di versatilità del lavoratore e puntare su concetti come polivalenza, polifunzionalità e formazione orizzontale». Solo così si può creare una maggiore flessibilità nell’inquadramento e attivare ruoli taylor made, ritagliati sull’individuo. Il focus va spostato sul lavoratore, e non più sulla norma. Da non dimenticare, poi, la tutela delle specificità professionali acquisite nel corso della vita lavorativa e la razionalizzazione della materia sotto il profilo lessicale. Due aspetti a cui Renata Polverini tiene molto. «Si potrebbe


74 > DIRITTO DEL LAVORO > Francesca Talamini > Flessibilità

UN CAMMINO ANCORA LUNGO DI

DANIELA ROCCA

Nonostante gli sforzi legislativi, lavorare al femminile spesso non si concilia con i giusti riconoscimenti professionali ed economici. Necessita un’azione culturale mirata a superare le differenze di genere. Una riflessione sul tema con l’avvocato Francesca Talamini

’Italia continua a essere maglia nera per l’occupazione femminile. Nella classifica del gender gap si colloca all’ottantaquattresimo posto: è il Paese europeo con il più basso indice di occupazione femminile, con differenze rilevanti tra il sud, il centro e il nord. Tanti passi avanti, seppur lenti, sono stati fatti, ma altrettanti restano ancora da fare. Quali discriminazioni incontrano le donne nella professione? L’avvocato Francesca Talamini, esperta di diritto del lavoro, fa il punto sul tema delicato e complicato delle discriminazioni per genere. La sua esperienza in azienda l’ha orientata verso le problematiche del diritto del lavoro, un ambito del diritto dinamico ma complesso dal punto di vista normativo. Infatti, con la Legge Biagi è stata posta in essere una riforma innovativa che mette al centro il tema dell’occupabilità e ha come obiettivo la crescita dell’occupazione in una specificata fascia sociale: il contratto di reinserimento per i disoccupati di lunga durata, il lavoro interinale, il part-time. «Il modo migliore per dare spessore alle competenze femminili spiega l’avvocato - è quello di coglierle e valorizzarle

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al meglio, indirizzandole verso forme contrattuali, attività o funzioni in cui possano espletarsi pienamente con grande vantaggio per l’azienda. Le forme di lavoro flessibili possono essere utili per la donna che spesso deve occuparsi anche della propria famiglia ma devono essere accompagnate da un’adeguata motivazione e dal riconoscimento delle capacità e delle peculiarità poste in campo». Oggi, troppo spesso, il lavoro femminile viene considerato meno “affidabile” di quello maschile perché soggetto a troppe “distrazioni”, (famiglia, maternità, figli). «Questa diffidenza “percepita” produce a sua volta demotivazione, quasi una sorta di rassegnazione, per la lavoratrice e genera un circolo vizioso che spesso porta ad una sotto-stima personale. Resta poi il nodo della maternità che, nonostante la maggiore tutela e l’estensione dei congedi parentali, genera ancora atteggiamenti che possono essere interpretati come discriminatori», prosegue Talamini.

Tanti passi avanti, seppur lenti, sono stati fatti, ma altrettanti restano ancora da fare Si dovrebbe riuscire a superare una serie di luoghi comuni pesanti ogni qualvolta non siano frutto di una scelta personale: ad esempio che una lavoratrice affermata, debba essere una moglie e una madre frettolosa o distratta; «il guaio – risponde l’avvocato - è che la donna riveste ancora molti ruoli a cui sono connesse grandi responsabilità seppure di livelli diversi. Essendo “insostituibile”, è portata a rinunciare alla propria soddisfazione personale e alla propria realizzazione, piuttosto che sottrarre tempo ai bisogni della famiglia».


75 la congiuntura costringerà le aziende a rinunciare a molti posti di lavoro prevedere una classificazione univoca delle categorie – afferma – in modo da evitare ciò che accade oggi con alcuni contratti collettivi che prevedono la prima categoria al livello più basso laddove altri la mettono a un livello più alto. Sarebbe più semplice per tutti, aziende e lavoratori». L’Italia si caratterizza anche per la scarsa partecipazione delle donne al mondo del lavoro con percentuali (46%) molto al di sotto dell’obiettivo imposto da Lisbona (60%). «Negli anni 80 erano 32 ogni 100 le donne al lavoro – conferma Todini –. Oggi siamo al 46%. Credo che in 28 anni si sarebbe potuto fare molto di più». Quali sono gli strumenti per favorire l’accesso o il permanere delle donne al lavoro?

«Conciliazione dei tempi di lavoro e famiglia, contratti part time e servizi adeguati, come asili nido, orari prolungati nelle scuole e flessibili per uffici pubblici e attività commerciali – chiarisce Polverini –. Occorre, però, rimuovere gli ostacoli culturali nei confronti della maternità che continua a essere vista come un elemento di discriminazione per la crescita professionale delle donne. Ma dove porterà la discussione in atto in questi mesi? Renata Polverini spera che «si colga l’occasione per rivedere non solo i meccanismi che regolano gli aspetti economici dei contratti, ma anche quelli che possono offrire una prospettiva nuova e diversa al rapporto capitale/lavoro, come ad esempio l’introduzione della partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle aziende». Un tema di grande attualità che oggi viene evocato, ad esempio, dal presidente francese Nicolas Sarkozy, che vuole i

Luisa Todini, presidente di Todini Finanziaria Spa «Il muro contro muro tra imprenditori e sindacati distrugge le tutele per i lavoratori – afferma Luisa Todini – . Sarà che io sono stata educata in questo modo da mio padre, un uomo che si è fatto da sé e che, all’inizio della sua carriera, dormiva in galleria con gli operai, ma per me l’azienda sono i lavoratori, gli operai e le maestranze».

rappresentanti dei lavoratori nel Fondo istituito da Parigi per aiutare le imprese in difficoltà, e persino da esponenti della sinistra “radicale” come Maurizio Zipponi (per anni segretario della Fiom di Brescia). Luisa Todini auspica, invece, che così com’è accaduto con i partiti politici, «anche i sindacati si fondano per avere una discussione più sintetica e costruttiva».


76 > FINANZA DI NEA > Anna Gervasoni > Private equity

SERVONO NUOVE REGOLE CHIARE E CONDIVISE Il sistema finanziario è globale. Per questo occorre sostenere le imprese più innovative, quelle in grado di fare da traino a tutte la Pmi. Un obiettivo raggiungibile anche incentivando il private equity. L’analisi di Anna Gervasoni di Stefano Russello Con la crisi economica tornano d’attualità concetti come venture capital e private equity. Si tratta di investimenti a medio e lungo termine, effettuati da operatori specializzati su attività non quotate in borsa. Strumenti di sostegno economico molto importanti, soprattutto per le piccole e medie imprese, che in questo modo possono avere accesso a capitali non troppo esigenti. Questi fondi, infatti, hanno il tempo di aspettare i risultati, e quindi sono i più adatti a sostenere le fasi di start up, così come i piani di sviluppo, le nuove strategie e, appunto, le fasi più critiche. Come quella attuale. In Italia il punto di riferimento del settore è Aifi, l’Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital, un’organizzazione composta da varie associazioni, enti, istituti di ricerca, studi professionali e società di revisione e consulenza. Tutti interessati allo sviluppo del mercato italiano del capitale di rischio. Alla cui guida c’è Anna Gervasoni, una delle personalità più note del panorama economico e finanziario nazionale la cui esperienza diventa preziosa per fare il punto sul difficile momento economico. Come esperta di economia e finanza, ritiene che la crisi si potesse evitare? «La situazione era difficilmente evitabile, anche se la crisi aveva dato segnali importanti già da parecchio tempo. Per un verso lo squilibrio è partito dall’indebitamento delle famiglie americane, con il collasso del loro modello di consumo. D’altra parte c’è stato un problema di finanza, sempre più staccata dall’economia reale. Tutti noi eravamo a conoscenza dei rischi, ma il mondo finan-

Dalla crisi dei mutui subprime al terremoto delle borse. Prevedibile ma non evitabile. La situazione era difficilmente evitabile. Per un verso lo squilibrio è partito dall’indebitamento delle famiglie americane, con il collasso del loro modello di consumo. D’altra parte c’è stato un problema di finanza, sempre più staccata dall’economia reale. Oggi le banche italiane sono tra le più sicure al mondo. Paradossalmente, abbiamo avuto il vantaggio di essere un po’ arretrati. Nei periodi di finanza facile, infatti, le nostre banche sono state per loro attitudine molto caute e conservative.

ziario ha accettato questo sistema». Che strategie deve fare proprie l’Europa per evitare in futuro simili emergenze? «La crisi è partita dagli Stati Uniti, con problemi legati strettamente a quella realtà. Ma oggi il sistema finanziario è globale, sono coinvolti i governi di tutti i Paesi ed è impossibile compiere una distinzione tra Europa e America. Per trovare un equilibrio occorrerebbe, da un lato, evitare il pericolo di un irrigidimento del mercato. Dall’al-


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Anna Gervasoni, dottore commercialista e direttore generale Aifi

tro bisognerebbe che i Paesi industrializzati riscrivessero nuove regole, ma chiare e condivise. Alcuni mercati, come quello italiano, vivono infatti un eccesso di normative, col rischio di perdere di vista le necessità fondamentali. Per questo servono interventi mirati». Determinati appuntamenti internazionali, quindi, diventano fondamentali. «Certo. A novembre si è riunito il G20, il primo grande incontro dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. È da riunioni come questa che possono saltare fuori nuove soluzioni per

fronteggiare la crisi, soprattutto con la ricerca di strumenti e metodi differenti rispetto al passato. Perché la realtà, nel bene o nel male, è molto cambiata». Il nostro sistema bancario sembra aver retto l’urto della crisi meglio di quello di altri Paesi europei. Come lo spiega? «In Italia, paradossalmente, abbiamo avuto il vantaggio di essere un po’ arretrati. Nei periodi di finanza facile, infatti, le nostre banche sono state per loro attitudine molto caute e conservative. Una strategia pianificata, che ha comportato


78 > FINANZA DI NEA > Anna Gervasoni > Private equity

molti svantaggi, ma che alla fine si è rivelata un paracadute fondamentale. E oggi le nostre banche sono tra le più sicure del mondo». Ormai si parla di recessione. Come si può superare questo momento, cercando di prevenire una crisi di dimensioni ancora maggiori? «Questa recessione è ciclica, stava già arrivando da tempo, e adesso colpirà l’Italia e l’Europa, rischiando di moltiplicare gli effetti del crack finanziario. Nel nostro Paese, però, viviamo essenzialmente una crisi di fiducia. C’è liquidità, ma tutti tengono i soldi sotto il materasso, e non investono più. Le imprese, di conseguenza, frenano, e la contrazione dei consumi si fa sentire. Si prevede un 2009 difficilissimo, perché al di là dei fattori economici e finanziari, siamo di fronte a un problema psicologico». Quali settori dell’economia e dell’impresa vanno maggiormente sostenuti? «Le imprese più in crisi sono quelle che vendono prodotti a largo consumo. Sostenere questi settori, quindi, significa sostenere la metà del nostro panorama imprenditoriale. Ma dobbiamo insistere soprattutto sulle imprese più innovative, quelle in grado di fare da traino per tutta la Pmi».

© Cosmelli Alessandro / CONTRASTO

Quanto possono essere utili le attività di private equity e venture capital in questa fase di rilan-

Il lavoro premia Anna Gervasoni è nata e cresciuta a Milano, laureata alla Bocconi, due figli. È un personaggio di primo piano dell’economia italiana. Ma lei preferisce minimizzare: «Mi stupisce essere considerata così importante, anche perché nella mia vita privata sono una madre di famiglia assolutamente normale. L’unico mio merito è stato quello di lavorare veramente tanto».

cio dell’economia reale? «Possono sicuramente dare un contributo molto importante, soprattutto per aiutare le imprese non quotate ad accedere al capitale necessario per i loro progetti di sviluppo. Queste attività, in un momento in cui nessuno pensa di quotarsi in borsa, sono in grado di selezionare le imprese più innovative che necessitano di capitali. Possono quindi andare a pescare i nostri campioni nascenti, fornendo loro i fondi necessari per crescere e contribuire così al rilancio del sistema. Occorre precisare, però, che private equity e venture capital sono realtà poco diffuse. Il loro lavoro è selettivo, si basano esclusivamente su 300 operazioni l’anno, tutte qualitativamente rilevanti. Dal punto di vista della quantità rappresentano un’attività di nicchia». Crede che investire su ricerca e innovazione, anche attraverso questi strumenti finanziari, possa aumentare la competitività del sistema? «Credo sia fondamentale. È un argomento di grande interesse, sollevato anche nelle commissioni ministeriali a cui partecipo. Nella mia carica di direttore generale di Aifi mi sento un po’ di parte, ma obiettivamente penso che questi strumenti possano essere davvero risolutivi. Un valore confermato dal forte interesse dimostrato anche da governo e Confindustria». Esiste un gap tra Italia e resto d’Europa? «Sì, c’è un divario. Non come volumi, che nel nostro Paese sono buoni, quanto piuttosto come numero di operazioni. Da noi, inoltre, il segmento dedicato alla piccola e media impresa non viene gestito adeguatamente, anche perché non c’è mai stata una seria politica industriale in questo senso. La speranza è che la politica mantenga le promesse. Occorre varare nuovi strumenti in sostegno del private equity, seguendo la strada imboccata dagli altri governi europei». Come vi impegnerete per ottenere più attenzione dalla politica? «Stiamo portando avanti l’attuazione del fondo per la finanza di impresa, varato d’intesa con il governo precedente. Attualmente dialoghiamo in modo molto costruttivo con il ministero dello Sviluppo economico, proprio per far sì che questa misura abbia la massima efficacia sul mercato».


© Lalo De Almeida / CONTRASTO

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Venendo alla sua esperienza personale, quali caratteristiche deve possedere una donna che lavora in ambiti ancora fortemente caratterizzati al maschile, come quello della finanza? «Sicuramente non deve preoccuparsi troppo di questo aspetto. Io ho sempre lavorato come un uomo, per qualità e quantità di lavoro. Alle ragazze giovani, durante le riunioni, dico sempre di non far caso alla predominanza maschile. Bisogna avere molta determinazione, darsi da fare più degli uomini per dimostrare la propria qualità. Sono convinta che anche in altri am-

Impegni Direttore dell’Aifi, professoressa associata all’Università Cattaneo di Castellanza, dove insegna finanza. Nella stessa università dirige un master in financial banking e ricopre la carica di direttore del centro di ricerca dei trasporti e delle infrastrutture. Ha anche altre cariche istituzionali, in Confindustria, al Senato e in alcuni ministeri

bienti funzioni allo stesso modo. Ho tante amiche giornaliste e spesso ci diciamo sempre la stessa cosa: dobbiamo lavorare come un uomo, e anche di più». Viene considerata da più parti una delle personalità più influenti dell’economia italiana. Qual è il suo segreto? «Sinceramente non ne ho. Mi stupisce essere considerata così importante, anche perché nella mia vita privata sono una madre di famiglia assolutamente normale. L’unico mio merito è stato quello di lavorare veramente tanto».


80 > L’INTERVENTO > Giulia Pusterla > Uscire dalla crisi

LA STRADA DA PERCORRERE SONO LE RIFORME Una voce autorevole. Di donna. E professionista affermata. Competente e concreta. Giulia Pusterla, commercialista, guarda ai problemi dell’Italia di ieri e di oggi. Indicando le sue soluzioni di Marilena Spataro

al primo gennaio 2008 è l’unica donna facente parte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, massimo organo della professione. Presidente dell’Ordine dei commercialisti di Como è specialista nella patologia d’impresa e nei piani di risanamento, nella consulenza societaria e fiscale. Attività alle quali si aggiungono quelle di commissario e liquidatore giudiziale e, in parecchi procedimenti, di consulente tecnico del giudice. Competenze, dunque, su materie di grande attualità e di vitale importanza per il nostro Paese, quali economia e fisco, imprenditorialità e finanza. E che permettono a Giulia Pusterla di spaziare anche su tematiche riguardanti la giustizia e la politica. In uno sguardo a tutto tondo. Ecco alcune delle sue proposte per modernizzare il sistema Italia.

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Che fare per consentire al nostro Paese di uscire dalla crisi che da troppo tempo lo sta attanagliando? «In primo luogo bisogna stabilire se oggi ci troviamo di fronte a una semplice recessione o piuttosto ad una vera e propria, nonché ben più grave, depressione. Credo che tutti concordino sul fatto che sia indispensabile mettere quanto prima mano ad una serie di interventi strutturali che permettano al nostro Paese di imboccare senza indugio la strada delle riforme. L’unica che permetta di avere a disposizione strumenti nuovi e più adeguati per superare la crisi. Cito alcuni

Cosa significa semplificare? «Individuare gli adempimenti che presentano un costo sociale per il contribuente più elevato dell’utilità che esso produce ai soggetti delegati al controllo, ed eliminarli. Molti interventi di semplificazione, inoltre, possono essere efficacemente effettuati senza oneri a carico dello Stato.

ambiti, dove servono riforme, e sono legati all’economia, alla giustizia, al fisco. Su quest’ultimo aspetto servono interventi urgenti volti alla semplificazione e razionalizzazione dell’intero sistema anche in previsione dell’avvio del federalismo fiscale. In tema di Giustizia, occorre valorizzare la conciliazione preventiva e la consulenza tecnica, quanto meno sul fronte del processo civile, per ottenere un effetto di disingolfamento. Occorre poi intervenire in tema di controlli societari e sulla informativa di bilancio e realizzare la riforma delle professioni». Quali gli interventi concreti che lei suggerisce in materia fiscale? «Serve innanzitutto semplificare e razionalizzare il sistema; ma non basta, perché la politica deve iniziare a rimuovere la percezione diffusa di irrazionalità e iniquità del prelievo fiscale.


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Cosa penso del federalismo? Oggi non credo che la discussione sia più federalismo sì o no, ma federalismo come

Giulia Pusterla è l’unica donna a far parte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Nata a Como, si è laureata alla Bocconi nel 1984. È revisore dei conti e iscritta all’Albo di Como dal 1985 dove ha ricoperto l’incarico di Consigliere, Segretario e Presidente, rieletta anche nel 2007


82 > L’INTERVENTO > Giulia Pusterla > Uscire dalla crisi

Serve comunque semplificare le regole di calcolo delle basi imponibili e delle relative imposte rimuovendo tutto ciò che ha portato il diritto tributario da corpo giuridico sistematico a inestricabile e inesplicabile groviglio. C’è poi il fronte della fiscalità della crisi, una leva importante in mano allo Stato, che deve urgentemente intervenire in senso anticiclico». Cosa vuol dire semplificare? «Significa individuare gli adempimenti che presentano un costo sociale per il contribuente più elevato dell’utilità che esso produce ai soggetti delegati al controllo, ed eliminarli. Molti interventi di semplificazione, inoltre, possono essere efficacemente effettuati senza oneri a carico dello Stato».

dei Paesi del mondo. Si è constatato come i controlli più efficaci non siano quelli contabili effettuati ex post, ma quelli societari di legittimità effettuati da un organo di controllo che possa partecipare ai consigli di amministrazione e che sia composto da professionisti indipendenti e tecnicamente competenti. In questo senso dobbiamo valorizzare adeguatamente l’esperienza italiana del collegio sindacale e farlo non soltanto entro i confini nazionali, bensì rendendoci una volta tanto esportatori di cultura giuridica ed economica di impresa. Per riuscire in questa operazione di sdoganamento, si potrebbe adottare una nuova terminologia e chiamare il nostro sindaco “amministratore indipendente».

Si parla molto di federalismo fiscale. Qual è la sua opinione in proposito? «Oggi non credo che la discussione sia più federalismo sì o no, ma federalismo come. Bisogna, innanzitutto capire se i vari organismi in cui si articola la struttura del nostro Paese, e cioè lo Stato centrale, le Regioni, e i vari Enti locali, si divideranno tra chi ci guadagna e chi non ci perde. Infatti, o si individueranno risparmi scaturenti da razionalizzazioni e da eliminazioni di sacche di improduttività oppure vi sarà il rischio concreto di un incremento della

Cosa chiedere al governo per aiutare la piccola e media impresa? «É urgentissimo e importante intervenire a favore delle piccole e medie imprese, senza contestualmente, però, dimenticare le famiglie. Anche perché la crisi finanziaria ha contagiato l’economia reale tramite la stretta creditizia, e ora la crisi dell’economia reale sta contagiando le famiglie, tramite la disoccupazione, che purtroppo è facile prevedere crescerà parecchio. Per quanto riguarda le imprese, e segnatamente le pmi, credo che lo Stato debba garantire loro di

Vanno semplificate le regole di calcolo delle basi imponibili e delle relative imposte rimuovendo ciò che ha portato il diritto tributario da corpo giuridico sistematico a inestricabile e inesplicabile groviglio pressione fiscale complessiva. Un altro rischio è quello di una “babele fiscale” in termini di ingovernabilità del prelievo complessivo se il federalismo fiscale porterà in dote una moltiplicazione dei tributi in corrispondenza di ciascuno dei livelli in cui lo Stato federale si articola». L’attuale crisi finanziaria ed economica ha evidenziato secondo lei la debolezza dei sistemi di controllo? «Sicuramente ha messo a nudo la debolezza degli attuali sistemi di controllo adottati quali standard internazionali nella grandissima parte

continuare ad avere un sufficiente accesso al credito, debba effettuare stanziamenti al fondo di garanzia, introdurre una fiscalità di crisi e realizzare importanti infrastrutture. Questi interventi sono assolutamente ineludibili». Passando al tema giustizia. Quale può essere il contributo concreto in materia dei dottori commercialisti? «Oggi la Giustizia non funziona a causa dell’incredibile mole di procedimenti pendenti e di un arretrato che continua a ingigantirsi. Occorre prima di tutto riscoprire e valorizzare l’etica nei comportamenti individuali, senza la quale non è


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Il primo passo è aiutare le Pmi pensabile possa esistere un sistema capace di produrre giustizia, ma soltanto un sistema che, con tempi e modi più o meno adeguati, produce sentenze. La nostra professione può dare un grande contributo al Paese, nell’ottica di una riduzione delle cause civili pendenti davanti ai Tribunali e di una velocizzazione delle tempistiche processuali. Infatti, attraverso l’introduzione dell’obbligo di esperire un preventivo tentativo di conciliazione, affidato a un professionista qualificato in ragione dell’oggetto del contendere, si può sicuramente ottenere un effetto deflattivo del contenzioso.

Inoltre noi commercialisti potremo assumere anche la veste di consulente tecnico del giudice, là dove il tentativo di conciliazione fallisca. Così si risolverebbero, già in fase conciliativa, numerose controversie civili e, laddove non possibile, si otterrebbe comunque una velocizzazione del processo. Un terreno possibile pare, ad esempio, quello delle cause di separazione e divorzio, larga parte delle quali verte su questioni che attengono l’accertamento delle posizioni economico-patrimoniali dei coniugi». Da anni si parla di riforma delle professioni. A che punto siamo? «É importante che la politica

E del sistema giustizia... Oggi non funziona a causa dell’incredibile mole di procedimenti pendenti e di un arretrato che continua a ingigantirsi

superi l’anacronistica visione del libero professionista come un cittadino privilegiato, da combattere o da blandire a seconda dei casi: il professionista è un lavoratore che concorre alla crescita culturale ed economica del Paese. Una riforma è senza dubbio necessaria ed è per questo che noi, dottori commercialisti ed esperti contabili, abbiamo accolto con favore la proposta del ministro Alfano di procedere ad una riforma delle professioni “per comparti” e noi insistiamo sul comparto giustizia. Speriamo che questa volta si riesca finalmente a superare le vischiosità che in passato hanno sempre paralizzato ogni sforzo riformista in questo campo».


84 > LAVORO > Elisabetta Filippis > Una sfida ancora aperta

LA PARTITA SI GIOCA SUL MERCATO DI

TIZIANO BISI

Il tessuto economico e produttivo crea distinzioni di genere? La parola a Elisabetta Filippis, una professionista da vent’anni a contatto con le imprese embra un paradosso eppure, anche in una situazione generalizzata di crisi e di paralisi economica, l'imprenditoria femminile continua a crescere. Ma i problemi per le donne che fanno impresa o che scelgono la libera professione, ovviamente, non mancano. «Soprattutto la difficoltà di accedere al credito per le imprenditrici – ci spiega la ragioniera commercialista Elisabetta Filippis – e quella di conciliare l’attività autonoma con quella familiare».

S

«Aumentano le donne che scelgono forme più evolute di imprenditoria e che ricoprono cariche amministrative piuttosto che il ruolo di semplici socie di capitali» In che modo una figura professionale come la sua può risultare d’aiuto in questi momenti di difficoltà? «La mia è un’attività di consulenza e come tale deve affiancare positivamente l’impresa in ogni sua fase. Una corretta analisi del problema e un rapporto di fiducia col cliente sono determinanti per guidarlo nella giusta direzione. Se l’impresa nasce per massimizzare i profitti, noi ci occupiamo di mettere a disposizione le nostre conoscenze perché possa riuscirvi al meglio». Qual è la percentuale di donne imprenditrici presente nel nostro tessuto economico? «A livello nazionale si attesta sul ventiquattro per cento, differenziandosi a seconda del settore. Punte più elevate, intorno al quarantotto per cento, si registrano negli ambiti professionali e di servizi alle persone e alle imprese. Purtroppo, la redditività risulta inferiore rispetto alle medesime imprese o professioni al maschile. Sono in notevole


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Nelle immagini Elisabetta Filippis con il figlio Alessandro e le sue collaboratrici dello studio di Casalecchio di Reno (BO)

Vent’anni di esperienza al servizio delle aziende Professionalità, competenza e continuo aggiornamento, investimenti in tecnologia e formazione, è questa la formula per la perfetta imprenditrice contemporanea. «Le donne che scelgono di fare impresa – spiega Elisabetta Filippis – sono determinate e spesso molto informate sulle varie opportunità a loro offerte. Per questo non hanno bisogno di un suggerimento personale da parte mia, hanno già scelto». Essenzialmente vogliono conferme, confrontare e valutare i costi, capire se ne vale veramente la pena. «Pretendono di essere trattate da imprenditrici – prosegue l’esperta – vogliono che io sia una professionista seria e preparata, che parli il loro linguaggio e che traduca la burocrazia e i fogli da compilare in un problema risolto o risolvibile». Dopotutto, le pari opportunità partono dall’atteggiamento di ognuno di noi, da come ci si presenta al mondo del lavoro. «Avremo raggiunto la parità – conclude Filippis – quando non vi sarà più bisogno di legiferare a favore delle donne, quando non avrà più senso condurre indagini statistiche in proposito e quando un imprenditore di successo non farà più notizia solamente in virtù dell’essere uomo o donna». .

incremento le attività al femminile che scelgono forme più evolute di imprenditoria, e di sicuro interesse è il dato che le vuole sempre più presenti in cariche amministrative piuttosto che in veste di semplici socie di capitali».

Elisabetta Filippis festeggia quest’anno il ventennale dell'iscrizione all'Ordine dei Dottori Commercialisti. Da sempre attenta alle evoluzioni del sistema economico, la ragioniera si confronta con un tessuto imprenditoriale, quello emilianoromagnolo, sempre più femminile

È vero che nella sua regione, l’Emilia Romagna, l’economia sta raggiungendo la parità dei sessi o è un falso mito? «In parte è vero anche se abbiamo eccellenti rivali. Ritengo comunque più corretto parlare di pari opportunità più che di parità dei sessi. Uomini e donne sono naturalmente caratterizzati da diverse peculiarità e bisognerebbe metterli entrambe in condizioni di esprimerle al meglio». Secondo lei la donna fatica ancora ad affermarsi sul mercato? «A mio parere la donna è costretta a faticare molto di più per dimostrare la sua professionalità, una dote che, invece, per un uomo sembra scontata. Occorre pertanto caparbietà, forte determinazione, capacità di sopportare ingenti carichi di lavoro e un notevole spirito di adattamento. A volte, ci si trova a dover mascherare con un sorriso qualche dura rinuncia».


86 > COMMERCIALISTE > Simonetta Faccini > Strategie vincenti

UNITE, PIÙ FORTI PIÙ COMPETITIVE

DI

TIZIANO BISI

Creare un’associazione capace di sostenere le donne professioniste di ogni settore. A proporlo è la dottoressa Simonetta Faccini, affermata commercialista veneta

e nel mondo dell’industria, finalmente, per le donne qualcosa è cambiato, e ne è una testimonianza evidente la presidenza affidata a Emma Marcegaglia, all’interno degli ordini professionali, purtroppo, continua a mancare un’adeguata rappresentanza femminile. «Proprio perché noi donne siamo numericamente minoritarie – interviene Simonetta Faccini, commercialista che opera nel Veronese – sarebbe allora quanto mai necessario unirsi in un’associazione interprofessionale». In effetti, le donne che si iscrivono ai vari ordini sono numerose, ma sono poi pochissime quelle capaci di resistere nella libera professione. Le cause sono note. «Presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti di Verona – continua Faccini – le professioniste attive sono solamente il venticinque per Simonetta Faccini, cento e questo è un indice dell’enorme difficoltà che noi dottore commercialista, donne abbiamo nel riuscire a mantenere una esercita la professione ad Affi, in provincia di collocazione in tale ambito». Per questo servirebbe, a Verona. Per informazioni: detta dell’esperta, una struttura associativa capace di www.studiofaccini.com info@studiofaccini.com riunire le dottoresse commercialiste, le ragioniere, le consulenti del lavoro, le avvocatesse, gli architetti ecc... Un organo in grado di intervenire in aiuto delle associate, offrendo loro un sostegno reciproco alle comuni e quotidiane difficoltà, potrebbe rappresentare una valida soluzione al problema. Anche nell’ambito del lavoro di tutti i giorni, poi, Simonetta Faccini è una sostenitrice convinta della cooperazione: «Lavoro sempre in stretta

S

«All’interno degli ordini professionali noi donne siamo numericamente minoritarie» collaborazione con altri colleghi “esterni” alla mia struttura, ma anche con professionisti di altri settori come avvocati, geometri e architetti». Il che le ha permesso di sviluppare una specializzazione e di trovare una propria collocazione attiva sul mercato del lavoro. Riuscendo, inoltre, a mantenere rapporti diretti con i clienti e a godere di una certa elasticità nella gestione del tempo. Una libertà che, per una donna, madre di famiglia, piena di impegni e preoccupazioni extralavorative, è decisamente preziosa.


> Marina Ferretti > Dalla parte dell’impresa

[

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RIGORE ED ELASTICITÀ? PARADOSSO VINCENTE DI ANDREA MOSCARIELLO

Le professioniste si riscattano costituendo la base di una realtà strategica e a sostegno delle imprese. La parola a Marina Ferretti, consulente del lavoro rovo la mia professione, quella di consulente del lavoro, tipicamente femminile». Questa l’opinione di Marina Ferretti, che da Genova si interfaccia con una delle realtà imprenditoriali maggiormente strategiche del Nord Italia. «L’elasticità mentale per adattarsi ai fenomeni, la predisposizione a contenere il contenzioso, la capacità di formulare osservazioni e proposte, il rigore e la pazienza sono doti che alle donne non mancano. E infatti il genere femminile rappresenta oltre il quaranta per cento degli iscritti all’Ordine, guidato in aggiunta da un presidente donna» precisa

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«Le donne rappresentano oltre il 40% degli iscritti all’Ordine»

Marina Ferretti è iscritta nel registro dei Consulenti Tecnici di tribunale per cui svolge attività peritali giudiziarie. Dal suo studio di via Invrea a Genova segue problematiche fiscali e previdenziali del cittadino nei confronti delle istituzioni. Inoltre svolge, presso enti riconosciuti, attività di docente nei corsi di formazione e aggiornamento per addetti al personale

Ferretti. «Le materie che mi ritrovo a trattare, che variano dai rapporti di lavoro alla contrattualistica fino allo sviluppo e alla formazione delle risorse umane, non possono essere gestite direttamente dall’imprenditore, il quale, specialmente nelle piccole e medie imprese, deve curarsi della crescita dell’azienda» spiega la consulente genovese. «Chi fa impresa deve sapere di avere le spalle coperte da seri professionisti. Per questo ho implementato e sviluppato un sistema di relazioni con altri esperti settoriali, operando in partnership con valide professioniste appartenenti ad altre discipline». Donne che collaborano quindi, creando una rete di sostegno per gli attori dell’economia locale in una fase di crisi e di cambiamento, in cui la pubblica amministrazione, passando dal cartaceo al telematico e stravolgendo repentinamente il corpo legislativo, ha messo in difficoltà molti dipendenti degli studi professionali. «Ma la mia squadra – conclude Ferretti – ha affrontato e superato il cambiamento senza grosse difficoltà incrementando le committenze».


88 > LAVORO > Luisella Fassino > Aspettando la svolta culturale

ALLONTANARSI DAL COMPROMESSO DI ALDO

MOSCA

Per le donne è, ancora oggi, necessario mostrare doti maschili per affermarsi in ambiti professionali e manageriali? Dal Piemonte, regione da sempre attenta al tema delle pari opportunità, l’opinione di Luisella Fassino, consulente del lavoro onostante il mercato delle professioni non sia più a schiacciante predominanza maschile, le donne sono ancora oggi fortemente penalizzate, sfavorite. Ad esempio, pochissime di loro possono permettersi una carriera nella libera professione. Al tempo stesso in ambito aziendale, nascono critiche accese su come le donne siano tutt’oggi scarsamente incentivate ad affermarsi in ruoli dirigenziali. «Sembra incredibile – interviene Luisella Fassino, Consulente del Lavoro di Torino – ma, per una donna, assecondare la propria vocazione professionale senza sottostare a pesanti compromessi a livello personale o familiare è tuttora piuttosto complicato».

N

Quali sono i problemi che affrontano le donne nel mondo del lavoro? «Il problema più grande che le riguarda è la conciliazione del loro ruolo “produttivo” con quello “riproduttivo”. Perché le dinamiche economiche e gli equilibri familiari, uniti all’assenza di politiche concrete per la famiglia, obbligano sempre più spesso la donna a sacrificare la carriera e la propria autosufficienza economica. Questo spiega perché il tasso di occupazione femminile del nostro Paese è il più basso d’Europa». Perché le più penalizzate sono le libere professioniste? «Le casse di previdenza delle libere professioni destinano al sostegno della famiglia risorse esigue e di recentissima istituzione. È del 2001 la legge che prevede l’introduzione per le professioniste di un supporto economico per il solo periodo di “maternità obbligatoria”, consistente in un’indennità commisurata all’ottanta per cento del reddito professionale, per un periodo di cinque mesi. Una legge del 2003 ha però fissato un tetto massimo nella determinazione di questa indennità, che non consente alla professionista di accollarsi il costo di un dipendente che possa affiancarla nei quotidiani compiti di studio, durante una legittima assenza per maternità».

Luisella Fassino, dal suo studio situato all’interno di Palazzo Saluzzo Paesana in via della Consolata a Torino, si occupa della gestione amministrativa delle risorse umane di piccole e medie imprese avvalendosi di uno staff interamente femminile composto da undici collaboratrici


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Oltre alle mancanze istituzionali, le donne hanno qualche responsabilità? «Personalmente critico la scarsa propensione della professionista ad affermarsi in ruoli decisionali. Se l’ambito professionale della consulenza del lavoro è pressoché equamente diviso fra uomini e donne, la rappresentanza non è altrettanto giustamente ripartita. L’analisi del contesto ci mostra una regione Piemonte nel suo complesso migliore della media nazionale; alla direzione degli otto consigli provinciali troviamo 43 uomini e 29 donne, ma una sola donna fra gli otto presidenti. Il contesto nazionale mostra una situazione peggio assortita, poiché è pur vero che la presidenza del massimo organo della categoria è affidata a una donna, ma nel consiglio da lei presieduto gli altri 17 membri sono uomini, con una rappresentanza al femminile molto lontana dagli ambiti prioritari espressi dalla Commissione europea, che sollecita gli stati membri a promuovere la pari partecipazione al processo decisionale». Quanto incidono economicamente le donne appartenenti al suo settore? «Le donne che esercitano la professione di consulente del lavoro nella regione Piemonte sono esattamente il cinquanta per cento degli iscritti. Lo studio del consulente del lavoro rappresenta un importante e stabile settore di impiego di personale femminile, grazie al grande capitale di conoscenza che ciascuna

In Piemonte il mercato del lavoro è rosa Al 31 dicembre del 2007 le donne che esercitano la professione di consulente del lavoro nella regione Piemonte costituiscono esattamente il 50% degli iscritti (624 su un totale di 1247) Ai vertici, però, la situazione cambia. Infatti, alla direzione degli otto consigli provinciali troviamo 43 uomini e 29 donne, ma una sola, fra queste, è stata eletta presidente

lavoratrice custodisce, un elemento importante a garanzia di quella auspicata stabilità occupazionale in tempi di precariato incontrollabile». Cosa spera per il futuro? «Il mio augurio per il futuro è che, anche in Italia, si affermi finalmente una cultura che premi l’affermazione attraverso la capacità e la competenza, abbandonando una volta per tutte i modelli che si ispirano ai distinguo di genere e all’ostinata difesa delle rendite di posizione».



NEA, INVITATA SPECIALE > Augusta Iannini e Bruno Vespa > Oggi si parla di...

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DIALOGO SULLA GIUSTIZIA E SUL GIORNALISMO Di cosa possono parlare, un pomeriggio qualsiasi, il capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e il direttore che ha portato la politica (e non solo) davanti alle telecamere? Augusta Iannini e Bruno Vespa hanno aperto la porta della loro abitazione romana. Presente l’occhio indiscreto di un invitato “molto” speciale A CURA DI FRANCESCA BUONFIGLIOLI E DANIELA PANOSETTI FOTO DI PAOLO CAPRIOLI

Nella foto, Augusta Iannini e il marito Bruno Vespa


96 > NEA, INVITATA SPECIALE > Augusta Iannini e Bruno Vespa > Oggi si parla di...

Augusta, allora come la vedi questa riforma della giustizia?

Bè, non è una domanda facile. Sai che sono in conflitto di interessi: come capo dell’ufficio legislativo non posso dare giudizi perché li darei su me stessa... Un bagno di umiltà, ogni tanto non ti farebbe male!

Comunque, a parte la battute, sulla riforma del diritto civile, mi pare abbiate fatto buone cose. Sul resto ti aspetto al varco...

...e speriamo che la riforma costituzionale della magistratura non resti nel dimenticatoio, compresa la separazione delle carriere!

Il nome “separazione” ti evoca qualche sogno nel cassetto?


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Il punto è un altro. Credo che i cittadini stiano perdendo fiducia nella giustizia italiana. E questo a causa di alcuni casi, purtroppo veri, di mala giustizia, amplificati dai media, e un rapporto non felice che ognuno di noi ha con le istituzioni giudiziarie nel loro complesso quando viene coinvolto in qualsiasi vicenda, anche modesta...

...e questo a causa di disfunzioni, disorganizzazione...

...caratterialitĂ .


98 > NEA, INVITATA SPECIALE > Augusta Iannini e Bruno Vespa > Oggi si parla di...

Ormai gli italiani pensano che la giustizia sia un’istituzione malata, una delle tante...

Ăˆ una polemica pericolosa, che non giova a nessuno. Si scambiano alcuni casi, isolati, con la regola, mentre il sistema nel suo complesso reggerebbe.


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Non che la situazione negli altri paesi sia molto diversa...

Non invidio affatto la giustizia degli altri paesi. Le nostre regole, anche dal punto di vista delle garanzie e della tutela dei diritti, sono le migliori! Il fatto è che la sovraesposizione mediatica di alcuni magistrati innesca la miccia!

Francamente credo sia meglio che i magistrati vengano in televisione a spiegare le loro posizioni piuttosto che lasciare ad altri di interpretarle.


100 > NEA, INVITATA SPECIALE > Augusta Iannini e Bruno Vespa > Oggi si parla di...

E che dire poi di Travaglio e di Di Pietro...sono tutte e due in malafede: ma Di Pietro è un politico e, forse, se lo può permettere. Travaglio mi pare solo una persona con dei problemi: i suoi non sono articoli, sono requisitorie di un accusatore da tribunale rivoluzionario. Perciò non perdo il mio tempo a leggerli.

Il seguito che hanno è dovuto al fatto che esprimono concetti poco raffinati, facili da comprendere, che sollecitano la parte peggiore di ognuno di noi: la pancia e non la testa.

Io penso che Di Pietro conduca con molta astuzia un gioco politico che gli giova. Travaglio è pericoloso: utilizza pezzi di notizie vere per costruire ritratti molto diversi dalla realtà.


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E per quanto riguarda le intercettazioni? Il diritto di cronaca è una cosa. Colpire le persone, pubblicando conversazioni che poco o nulla hanno a che fare con le indagini, è una barbarie.

Sono d’accordo. E poi le indagini andranno avanti lo stesso, anche se i giornalisti potranno pubblicare qualcosa di meno. A proposito di indagini: le intercettazioni sono uno dei tanti mezzi di ricerca della prova, ma la legge prevede che sia utilizzato solo quando è indispensabile. Non mi pare che questi requisiti siano stati rispettati in questi anni.

Inoltre, le persone che conoscono i contenuti delle conversazioni sono tante. Questo rende difficoltosissimo individuarle, sempre che ce ne sia la reale volontà.

A questo va aggiunto il fatto che sulla deontologia professionale prevale il desiderio di fare lo scoop. Uno scoop da miserabili, direi...


102 > NEA, INVITATA SPECIALE > Augusta Iannini e Bruno Vespa > Oggi si parla di...

Ognuno, nella vita, sia quella professionale che privata, dovrebbe immedesimarsi nella situazione degli altri e rispondere alla domanda: se fossi io al suo posto, come reagirei? E regolarsi di conseguenza. Il mondo andrebbe molto meglio...

...in fin dei conti, in Italia ogni volta che si parla di riformare la giustizia succede il finimondo. E questo perché la magistratura è forse l’unica, vera casta.

...una casta infrangibile.

A tutto questo va aggiunto il fatto che il mondo giornalistico, quando si occupa di giustizia, pecca di grande superficialità

E quello della giustizia di grande presunzione. Certi magistrati si credono al centro dell’universo.


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Bruno, oggi mi sorprendi! Solitamente ci troviamo in disaccordo quasi su tutto...

Bè cara, è noto il tuo innato spirito di contraddizione...

...se tu venissi ospite a Porta a Porta la prima domanda che ti farei è: “Perché sei così testarda?”...

Fine


104 > SIGNOR LEI > Mauro Floriani > Io e mia moglie Alessandra

AL SUO FIANCO IN OGNI BATTAGLIA Dietro la straripante carriera di una donna c’è sempre un “first gentleman” soddisfatto e solidale. Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini, spiega cosa significa vivere gomito a gomito con una compagna di successo MASSARI

© C. Scavolini / LAPRESSE

DI FEDERICO

Mauro Floriani, amministratore e direttore finanziario di Ferservizi e marito di Alessandra Mussolini


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Più che “principe consorte”, Mauro Floriani si dichiara fervente sostenitore e tifoso di sua moglie. Marito di Alessandra Mussolini, ex attrice e fotomodella, politica italiana e attuale presidente della Commissione parlamentare bicamerale per l’Infanzia, accetta volentieri l’idea di vivere con una donna super impegnata. Mauro e Alessandra si sono sposati nel lontano 1989, e sin da allora, lui ha sempre amato la donna, e non “l’onorevole Mussolini”. Dalla loro unione sono nati tre bambini: Caterina, Clarissa e Romano (chiamato così in onore del nonno materno). Il mondo in cui viviamo è un luogo difficile, e la rivalità fra coniugi in carriera esiste. La dissoluzione della struttura familiare porta spesso a ribaltamenti di ruoli, di funzioni e di compiti. Ciononostante, le alte cariche non hanno mai scalfito la vita privata in casa Floriani, o Mussolini, ma, soprattutto, non hanno mai portato i due a essere rivali. «Mia moglie — puntalizza Mauro Floriani — non ha mai fatto pesare a nessuno le sue origini e la sua situazione di donna politicamente impegnata». Cosa significa essere il marito di una donna famosa come l’onorevole Alessandra Mussolini? «Vuol dire essere consapevoli della necessità di sostenere sempre le esigenze che la popolarità le impone, prime fra tutte, la disponibilità incondizionata nei confronti dei cittadini e qualche piccola convenzione da rispettare».

Cosa penso della lite con Sgarbi in Tv? Che in quella circostanza si è lasciato trascinare e si è comportato da maleducato, ma siccome, egli è “carta conosciuta” al grande pubblico, bisogna perdonarlo

«Voglio soltanto che mia moglie resti felice com’è ora. Grazie alla famiglia che ha saputo costruire con me, curandola con amore quotidiano, e al lavoro che svolge con grande determinazione e competenza. Con o senza riflettori»

Sua moglie parla di politica a casa? «Sì, anche perché, indipendentemente dal suo impegno in prima persona, è consapevole che far parte di una comunità, significa discutere e progettare la propria vita su basi sociali e politiche. E anche secondo il mio parere, ognuno dei cittadini dovrebbe dedicare maggiore spazio all’impegno civile e politico». Vista in televisione, Alessandra Mussolini mostra un certo lato aggressivo. «Mia moglie non è assolutamente aggressiva. La verità è che si limita a interpretare al meglio le

regole del gioco e della comunicazione. Il moderatismo, soprattutto nella comunicazione politica, è falso poiché dà una immagine volutamente distorta della durezza dello scontro che nella realtà si consuma. Alessandra è determinata e lo afferma senza infingimenti, così nella attività politico parlamentare, così come a casa». Cosa avrebbe detto a Sgarbi dopo quella famosa lite televisiva? «Che in quella circostanza si è lasciato trascinare e si è comportato da maleducato, ma siccome, egli è “carta conosciuta” al grande pubblico, bisogna perdonarlo». Ha mai appoggiato in prima persona le campagne portate avanti da sua moglie? «Certamente. Quando una battaglia ha sani principi, e Alessandra ne ha portate avanti molte così, proprio per il fatto che è tua moglie a promuoverla, senti un ulteriore dovere civico nel sostenerla. Inoltre, essendo molto impegnata a favore dei diritti e della libertà,


© Fotogramma

106 > SIGNOR LEI > Mauro Floriani > Io e mia moglie Alessandra

«Quando una battaglia ha sani principi, e Alessandra ne ha portate avanti molte così, proprio per il fatto che è tua moglie a promuoverla, senti un ulteriore dovere civico nel sostenerla» penso sia importante esserle a fianco». Da marito di una parlamentare, che idea si è fatto dell’attuale situazione politica italiana? «Penso sia nelle regole della democrazia che la maggioranza politica uscita vittoriosa con tanto margine dalle elezioni porti avanti il programma elettorale sottoposto al vaglio del popolo italiano per poi rimettersi al suo giudizio dopo 5 anni. Attraverso la coerenza e la determinazione, e senza tante negoziazioni. Le polemiche e le contestazioni verso chi governa sono assolutamente fisiologiche ma, in democrazia, il rispetto del voto della maggioranza deve essere un valore assoluto». Sofia Loren è la zia di Alessandra Mussolini. Visto il passato televisivo di sua moglie, e la passione per il jazz di suo suocero Romano Mussolini, dentro casa si respira l’aria del mondo dello spettacolo?

«È indubbio che rispetto ad altri contesti familiari in casa nostra si vivano atmosfere non comuni. Tuttavia, una cosa è l’aria domestica, altro è l’ambito professionale con i suoi ritmi e le sue regole. Non c’è stata mai commistione tra i due mondi». Che personaggio è stato Romano Mussolini? «Un uomo semplice, per bene e un grandissimo artista. Molto più grande di quanto si possa immaginare». Ha mai parlato di suo padre Benito? «A mia moglie il padre Romano ha saputo raccontare la vera storia della famiglia Mussolini. Quella realmente vissuta e non quella scritta dai faziosi. E certamente moltissimi aspetti della complessa esistenza di Benito Mussolini, sia politici che familiari, restano un patrimonio vivo della nostra famiglia proprio grazie a quanto ha saputo trasmettere Romano ad Alessandra. Ho conosciuto mia moglie quando entrambi eravamo poco più che adolescenti e, quindi, la conoscenza e gli approfondimenti sulla figura del nonno sono stati da noi condivisi e vissuti interamente». Ogni tanto vorrebbe che sua moglie fosse meno sotto i riflettori? «Io desidero soltanto che mia moglie resti felice com’è in questo momento. Grazie alla famiglia che ha saputo costruire assieme a me, curandola con amore quotidiano, e al lavoro che svolge con grande determinazione e competenza. Con o senza riflettori».



108 > L’UOMO DI NEA > Giorgio Albertazzi > L’altra metà del mio cielo

DONNA, SEI TEATRO, SEI EROS

GIORGIO ALBERTAZZI Esistono ancora le muse? A sentire Giorgio Albertazzi ce n’è una: l’essenza femminile. La vera forza motrice della sua arte e il fulcro del teatro, luogo di slancio e di eros. E luogo di vita di Giulia Massini Più ti avvicini a lei, più lei si allontana. La donna può essere ineffabile, inafferrabile. Perché non è semplicemente una, ma tutte. In sé racchiude il concetto assoluto della bellezza dell’universo, l’eterno femminino. Potere femmina che soggioga, mistero e passione. È attraverso le forme della donna che spesso i grandi artisti hanno cercato di toccare la bellezza sublime del mondo. Come gli scultori greci che, anche quando ritraevano un Apollo, pensavano alla perfezione delle forme della donna. La bellezza di un corpo su cui Giorgio Albertazzi, «settant’anni passati a studiare le donne», sa ritrovare l’anima. Perché la donna non è solo fatalità, ma anche fragilità e carnalità, una madre che canta la domenica pomeriggio mentre stira con le braccia scoperte, un’amazzone nuda e bellissima che corre libera a cavallo. Capace di incantare l’uomo. E di essere musa del suo slancio creativo. Nel teatro come nella scrittura, l’universo in cui Albertazzi è maestro, l’innamoramento per la bellezza femminile è sempre stato uno stimolo. Anzi, dice lui: «Il teatro è la donna. La mia storia sulle scene passa tutta attraverso il femminile». Maestro, ma come si seduce una donna? «La penso con Borges: una donna ha l’intelligenza del corpo, è corporeità e bellezza. L’uomo può essere forza ed energia, come i Bronzi di Riace, ma non è mai quella leggerezza, quello stato ascensionale. La donna è come un cavallo, è un’amazzone. Per questo non si seduce: non si dominano mai veramente i cavalli, perché sottostanno ma non si sottomettono. Sono orgogliosi, fieri, pieni di seducenti curve, là dove il maschio è invece spigoloso e osseo. Se dovessi portare in un universo sconosciuto la mia idea della bellezza, porterei una donna nuda a cavallo».


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Giorgio Albertazzi, attore e regista


110 > L’UOMO DI NEA > Giorgio Albertazzi > L’altra metà del mio cielo

madre e un’etera. C’è la figura destinata a dare piacere, una Bocca Di Rosa che esiste dai tempi dell’antica Grecia. E c’è una crocerossina, che vuole salvare il suo uomo se è ubriaco, disperato, o isolato. In ogni donna c’è la madre». Se dovesse ripercorrere il romanzo delle donne della sua vita, quali sarebbero le principali protagoniste? «Con molte donne o fanciulle ho condiviso pezzi di vita, avventure, scoperte. Due sono state le compagne nel senso matrimoniale del termine: Bianca Toccafondi, la prima, un’attrice fiorentina, che ora è morta, e la mia attuale moglie, Pia Tolomei. Pia è una donna speciale, bellissima e avventurosa, una vera country-girl che vive nella campagna maremmana, fra i suoi cavalli e i suoi cani. Io sono estasiato dalla sua bellezza, ma dire questo non basta. Quando la guardo, infatti, provo la sensazione che nella bellezza ci sia la verità, un valore altrimenti inattingibile. Ci sono molte verità, non una. Però la bellezza le sintetizza un po’ tutte, perché è anche bontà».

«La donna è una finestra aperta. Non conosce i limiti dell’uomo. Anche perché il corpo femminile, contrariamente a quello maschile, da nudo si espande» Le piace la compagnia delle donne? «Sono molto triste quando devo fare qualcosa in cui non ci sia una donna, è come trovarsi in una stanza senza finestre. La donna, invece, è una finestra aperta. Non conosce i limiti dell’uomo. Anche perché il corpo femminile, contrariamente da quello maschile, da nudo si espande. Provate a scoprire la spalla di una donna e poi la spalla di un uomo, sia pure considerato bello, e vedrete che la spalla dell’uomo rimane lì, il suo limite non si scontorna. Invece la donna ha un corpo eterico, che “esce”. È vero, esistono donne che si limitano e si sacrificano per un uomo, ma questo è perché in ogni donna c’è sempre una

Cosa le piace condividere con sua moglie? «Il senso, se c’è, della vita. Non viviamo sempre insieme, ma solo in alcuni periodi dell’anno. Io sono continuamente attratto dal mito della mia arte. Lei, d’altra parte, è una ragazza di campagna, un’aristocratica della terra. Ma i nostri due mondi si integrano, perché io amo quello che lei ama. Tra noi c’è un destino, un’idea in comune: perché la rendo partecipe di qualsiasi cosa io faccia». Le è mai capitato di desiderare anche solo l’immaginario di una donna? «Io mi innamoro costantemente. Mi innamoro



112 > L’UOMO DI NEA > Giorgio Albertazzi > L’altra metà del mio cielo

«Raramente un’amicizia tra uomo e donna è autentica, se non viene dopo il sesso.» ragazza bellissima me lo aveva chiesto. Recitare su un palcoscenico con una donna per me è esplorazione e avventura. Ma specialmente tra le quinte, nel buio, il femminile ha una sua centralità. Poi si entra in scena, comincia la vita, ma prima c’è sempre qualcuno che dice a una donna: “Come stai? Come hai dormito? Come sei bella, stasera!”. Il teatro è eros». del suono di un violino sotto le dita di una donna, così erotico e armonioso. E allora penso a uno spettacolo in cui dialogo con questo strumento. Sono forme di amore. Le persone in genere non hanno il coraggio di dirlo, per paura di ferire, ma la vita è altro! La vita non è ristrettezza, non è frenare gli slanci. Se davvero ci fosse il karma, mi piacerebbe rinascere donna per vedere cosa si prova». Anche le donne vivono l’innamoramento come slancio ma, per paura di “tradire”, forse, se ne privano. «Ma com’è piccolo, però, questo fatto. Sì, lo so, c’è la società, c’è il mondo, ci sono le religioni di mezzo. Esiste l’autocastrazione, la rinuncia. Avrà una sua nobiltà, ma non si può vivere il desiderio come un castigo». Il teatro ha cambiato in qualche modo la sua idea della donna? «Il teatro per me è la donna. Perché la storia del mio arrivo al teatro passa tutta attraverso il femminile. Non sto parlando di rapporti sessuali. La dominante di questa mia affermazione è certamente estetica, perché io sono un eidetico, capisco guardando. Il mio arrivo al teatro è una vocazione, ho sempre avuto la voglia di raccontare la vita. E questa è la mia idea del teatro. Quando da bambino raccontavo ai coetanei le mie storie, però, lo facevo perché c’era una ragazzina che mi guardava. E quando mi iscrissi al Filodrammatico di Firenze, fu perché una

Può esistere l’amicizia tra uomo e donna? «Raramente un’amicizia tra uomo e donna è autentica, se non viene dopo il sesso. Qualcosa si raffredda e qualcosa si scalda, ma solo dopo. Perché il grande sottinteso tra uomo e donna riguarda l’eros, per il quale passa la vera conoscenza. Nel concreto, cos’era la Beatrice angelicata, per Dante? Niente. La vera donna è corpo e anima, è Francesca da Rimini». Che rapporto aveva con sua madre? «Mia madre era molto bella. Ho sempre con me una foto color seppia di lei a diciassette anni, minuta e graziosa. Lei era la grazia. Mi ricordo che è avvenuta con lei la scoperta della donna, lo dico senza implicazioni freudiane. Un pomeriggio che lei stirava con le braccia nude, cantando, io vidi per la prima volta la luminosità del corpo femminile, la stessa che turba Amleto quando la madre si spoglia per entrare nel letto dell’assassino». È difficile comprendere davvero nel profondo ciò che pensa e desidera una donna, secondo lei? «Impossibile. E c’è un certo fascino nell’impossibilità di capirlo: l’impressione di una scalata a Dio. Io trovo intrigante una caratteristica delle donne, la fragilità. Diceva Amleto, parlando di sua madre: “Fragilità, il tuo nome è donna!”. Ma se un uomo potesse ascoltare cosa una donna dice di lui rimarrebbe esterrefatto, si sentirebbe ridicolo. Dice Jung: “L’uomo cerca il corpo, la donna il resto”».



114 > SOCIETÀ > Donna e Islam > Un fenomeno da comprendere

COSA SI NASCONDE DIETRO IL VELO La condizione delle donne arabe in Italia non si può spiegare in modo univoco. Restano però zone d’ombra dentro e fuori le mura domestiche. La deputata Souad Sbai e la giornalista Marina Gersony fotografano lo stato dell’integrazione delle immigrate. Oltre gli stereotipi e i luoghi comuni di Francesca Druidi Velo. Burqa. Niqab. Simboli che evocano un’entità complessa, la donna araba, della quale si cerca di tracciare contorni netti e definiti quando, in realtà, sfugge a classificazioni univoche. «Il primo luogo comune da sfatare – commenta la giornalista e regista Marina Gersony – è che l’universo femminile arabo sia un blocco monolitico formato da individui uguali fra loro». Le donne arabe in Italia provengono, infatti, da Paesi dalle caratteristiche diverse dal punto di vista geografico, economico, politico, sociale e culturale. «I comportamenti e il livello di emancipazione – spiega la deputata del Pdl Souad Sbai, presidente dell’associazione Donne Marocchine in Italia Acmid-Donna Onlus – si differenziano molto a seconda della nazione di origine». Minimo comune denominatore resta l’appartenenza all’Islam, «un collante potentissimo – aggiunge Gersony – ma che non può oscurare il fatto che ogni persona sia il prodotto di molteplici fattori, tra cui INTEGRAZIONE la provenienza, la famiglia, lo stato economico e l’evoluzione personale. Come vedono gli italiani le donne arabe? Direi in A vivere la condizione peggiore sono modo ambivalente: come un’entità, da un lato, da accogliere, le donne, spesso analfabete, originarie dall’altro da respingere, dove il velo, indossato o “virtuale”, viene delle zone rurali che, arrivate in Italia, non vissuto come simbolo di divisione». A influire sono anche i mass hanno potuto beneficiare delle grandi media che, secondo Souad Sbai, «tendono talvolta a fornire riforme sociali attuate negli ultimi anni in un’immagine convenzionale e distorta della donna araba, Marocco, in Tunisia e in Algeria. sintetizzabile unicamente nei simboli del burqa o del velo. Per le interviste e i dibattiti televisivi vengono spesso selezionate donne di cultura islamica velate, evitando aprioristicamente di contattare quelle che vestono all’occidentale, quando invece circa il 90% delle donne arabe residente in Italia non indossa il velo». UN PERCORSO ACCIDENTATO Oltre al velo, il grande punto interrogativo che aleggia sulla condizione dell’universo arabo femminile è rappresentato dalle


© Davide Monteleone / Contrasto

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effettive dinamiche di integrazione. Come evidenzia Souad Sbai, il processo di inserimento, ancora in atto, che ha interessato la prima generazione di donne di cultura islamica giunta in Italia negli anni Ottanta è stato complesso e difficile. A pagarne le conseguenze sono state le donne, spesso analfabete, originarie delle zone rurali che, arrivate in Italia, non hanno potuto beneficiare delle grandi riforme sociali attuate negli ultimi anni in Marocco, in Tunisia e in Algeria. «Molte immigrate faticano tuttora a intraprendere un percorso di consapevolezza dei loro diritti. La maggior parte di loro è rimasta ai margini tanto della società italiana, quanto di quella dei loro Paesi d’origine». Ad aggravare la situazione sono il comportamento e il pensiero maschilista degli uomini delle loro famiglie, che spesso tendono a relegarle nei ristretti ambiti delle comunità, lontano dai contatti con il tessuto sociale italiano. «Se parliamo di donne poco istruite, condannate ai lavori più umili e sottomesse all’autorità maschile, il quadro non è roseo – afferma Marina Gersony – anche perché, in genere, sono donne che non abbandonano gli usi e i costumi del Paese di origine. Compresi quelli considerati aberranti da noi occidentali». Per le donne che non riescono a integrarsi, l’isolamento è il peggior nemico. «Molte rifiutano “lezioni” di comportamento occidentale – prosegue la giornalista– e si rifugiano nel loro mondo. Purtroppo, il fatto di compiere pochi sforzi per integrarsi e per apprendere la lingua,

le priva paradossalmente di quelle libertà di cui godono le loro connazionali in patria». Agli ostacoli di natura linguistico-culturale, si affianca spesso lo scoglio giuridico-amministrativo del permesso di soggiorno. «Le donne immigrate – sottolinea la deputata – non dovrebbero essere legate al permesso di soggiorno dei loro mariti». È, infatti, importante che la loro permanenza in Italia sia valutata separatamente da quella del coniuge, per non dipendere da ogni punto di vista dal marito. Il caso di Hina Saleem, la giovane uccisa dal padre in quanto rea di avere un ragazzo italiano e di vestirsi all’occidentale, è l’episodio più emblematico assurto alla ribalta mediatica, ma sono numerose le immigrate vittime di soprusi e di violenze psicofisiche. E, anche in questi casi, la discriminante più frequente e preoccupante è rappresentata dall’analfabestismo. «L’incapacità completa o parziale di saper leggere e scrivere nella propria lingua madre, dovuta per lo più a un’istruzione o a una pratica insufficiente è una condizione limitante per molte donne. Parallelamente, l’impossibilità di esprimersi oralmente in italiano costituisce un grave impedimento allo sviluppo normale della persona e a qualunque tipo di relazione sociale». Lo afferma Souad Sbai, anche alla luce del primo anno di vita del numero verde antiviolenza Mai più sola realizzato dall’associazione da lei presieduta, Acmid-Donna Onlus. Un progetto volto ad accogliere le richieste di aiuto


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delle donne immigrate di tutte le nazionalità, in particolare quelle di cultura islamica. «La storia di Hina per fortuna non è la norma – afferma Marina Gersony – esiste, tuttavia, un mondo di violenza, di arcaica religiosità e di arretratezza culturale, dove la donna è considerata meno di niente. Pensiamo soltanto al rito disumano delle mutilazioni genitali femminili». Le vie d’uscita? Per entrambe le interlocutrici sono fondamentali la scuola, intesa come crocevia di culture e di volano per l’integrazione, la conoscenza della lingua, della cultura italiana e dei diritti sanciti dalla Costituzione, ma anche il rispetto delle leggi e delle regole della società. «Tra gli interventi da intraprendere con urgenza – sostiene la politica impegnata nelle file del Pdl – mi auguro che si arrivi presto a un piano di alfabetizzazione e all’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne extracomunitarie che vivono in Italia, con l’attivazione su scala nazionale di centri di accoglienza e di case famiglia, destinati alle immigrate vittime di violenza e ai loro figli minorenni». Marina Gersony sottolinea l’importanza di promulgare leggi che salvaguardino realmente i diritti basilari di queste donne, tutelandole da quelle che definisce tradizioni barbare e ideologie liberticide. «Sono da deprecare – le fa eco Souad Sbai – quelle forme di buonismo e di multiculturalismo che giustificano la poligamia, l’infibulazione, il ripudio e la violenza in base all’origine etnica e che rischiano di minare gli ordinamenti giuridici occidentali, come purtroppo è accaduto in Gran Bretagna». Souad Sbai denuncia il manifestarsi di un’allarmante percentuale di casi di poligamia in Italia, emersa dalle telefonate arrivate al numero verde Mai più sola. In base alle testimonianze raccolte, sono numerosi i mariti che, dopo alcuni anni di matrimonio, esigono che la moglie legittima accetti di condividere il tetto coniugale con un’altra donna presa in sposa con rito islamico “orfi”, una sorta di matrimonio temporaneo contratto dinanzi a due testimoni. «Visto il dilagare silenzioso e pericoloso di questo fenomeno in Italia – denuncia la politica – come anche di alcuni casi inaccettabili di “ripudio”, ossia di legittime mogli ricondotte contro la loro volontà nei Paesi di provenienza per far posto alle

MAI PIÙ SOLA Realizzato grazie al contributo della Fondazione Nando Peretti, IL Numero Verde antiviolenza “Mai più Sola!” è stato inaugurato nel novembre 2007 a Roma presso la sede dell’Associazione promotrice del progetto, Acmid-Donna Onlus. IL Numero Verde accoglie le richieste di aiuto delle donne immigrate di tutte le nazionalità, in particolare quelle di cultura islamica, vittime di soprusi e violenze psicofisiche dentro e fuori le mura domestiche. Il progetto prevede un percorso completo di assistenza, dal primo soccorso, al sostegno psicologico, alla consulenza legale.

Le vie per l’integrazione sono la scuola, la conoscenza della lingua, della cultura italiana e dei diritti sanciti dalla Costituzione, ma anche il rispetto delle leggi e delle regole della società nuove consorti, bisognerà riempire alcuni gravi lacune del diritto, attraverso interventi giuridici mirati e sanzionare duramente chi si avvale di questa pratica». Si registra però una reazione in questo senso, che fa ben sperare per l’avvenire. «Va detto che tra le musulmane – evidenzia Marina Gersony – si segnalano sempre più specialiste nei diritti delle loro connazionali che si alleano con le forze laiche o religiose autoctone per combattere tali pratiche sommerse. Si tratta di segnali forti che ci si augura possano generare riflessi positivi sull’Islam diasporico». LE GENERAZIONI DEL FUTURO La condizione delle donne di cultura islamica non va letta soltanto attraverso le criticità, ma anche alla luce dei piccoli passi in avanti compiuti. «Le immigrate non sono tutte inevitabilmente deboli, vittime o rassegnate – afferma Marina Gersony – ci sono donne che hanno padronanza della lingua italiana, un’istruzione e un lavoro: oltre a essere mogli e madri, vantano professionalità specifiche e uno status sociale.


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Soprattutto le giovani di seconda e terza generazione che, rispetto alle loro madri, si sono emancipate e si sentono a pieno titolo italiane». Le donne arabe integrate si trovano, quindi, a fare gli stessi salti mortali compiuti dalle italiane alle prese con i giochi di equilibrio della quotidianità, scisse tra impegni di lavoro, gestione della casa e responsabilità familiari. «Con qualche pregiudizio aggiuntivo. Anche se non è poi così scontato che le loro aspirazioni riflettano a tutti i costi la libertà di cui godono le donne italiane». Anche per Souad Sbai le speranze sono riposte nelle giovani della seconda generazione cresciute nel nostro Paese. «Sono in tutto e per tutto italiane, ma spesso subiscono ancora il condizionamento del loro paese d’origine attraverso le famiglie. È su di loro che dobbiamo lavorare per costruire un vero processo di integrazione sociale e culturale,

CADERE NEGLI STEREOTIPI È FUORVIANTE

© Claudio Vignola

In alto, Souad Sbai, presidente dal 1997 dell’Associazione AcmidDonna Onlus (Associazione delle Donne Marocchine in Italia), deputata del Pdl, giornalista e caporedattore del mensile in lingua araba Al Maghrebiya. A fianco, Marina Gersony, giornalista, scrittrice e regista. Ha lavorato per il Tg3, L’Indipendente, Il Giornale, Aspenia, Elle, Panorama occupandosi di esteri e cultura. Ha pubblicato Ci siamo, con O. Bitjoka, un saggio sull’immigrazione; Europa Low Cost (Sperling & Kupfer) e Milano Etnica con E. Aguiari (Giunti).

vigilando affinché le menti di questi giovani non restino vittime di un pensiero fondamentalista e radicale, a causa dei possibili condizionamenti che potrebbero subire durante la fase adolescenziale. La scuola per questo identifica il vero banco di prova su cui investire per il domani». È però finito il tempo delle parole. Ora servono fatti concreti. «L’importante – conclude Marina Gersony – è che questi problemi non vengano affrontati con paternalismo e pietismo. Non renderebbe giustizia a nessuno».


© Alberto Cristofari / Contrasto

118 > OPINIONI DI NEA > Anselma Dell’Olio > In nome della meritocrazia

Anselma Dell’Olio Giornalista, autrice di cinema e teatro, scrittrice e traduttrice, è critica cinematografica e moglie di Giuliano Ferrara


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Nel mondo l’Italia è amata, così come sono amati gli italiani. Ma la nostra cultura ha un limite. «Siamo il Paese dove tutti cercano la raccomandazione e il posto fisso, preferibilmente sotto casa di mammà. Con poche eccezioni. Quelli con la voglia di fare se ne vanno all’estero.

LA MIA LEZIONE AMERICANA Conosce bene la realtà europea, così come quella a stelle e strisce. Anselma Dell’Olio, celebre giornalista ed esponente storica del movimento femminista, getta il suo sguardo provocatorio sulle differenze di genere che ancora separano l’Italia dalla più potente democrazia del mondo di Cristina Bandini

nata a Los Angeles, Anselma Dell’Olio, da padre pugliese e da madre ebrea americana di origine russa. A tredici anni conosce l’Italia e ne rimane folgorata, restandone inesorabilmente legata. «L’Italia è amatissima per la naturale dolcezza, l’apertura e l’accoglienza della gente, la straordinaria bellezza del paesaggio e il patrimonio artistico». Presentata spesso come la moglie di Giuliano Ferrara, molti forse non sanno che la giornalista e scrittrice italoamericana è stata una delle protagoniste delle battaglie per i diritti civili negli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta. Fondatrice del New York-NOW (The National Organization for Women) e del teatro femminista New-Free, Anselma Dell’Olio non ha paura di animare i dibattiti, prendendo se necessario posizioni scomode. E, quindi, nessuno meglio di lei può rendere conto delle dinamiche che stanno investendo oggi l’universo femminile nel Vecchio Continente dove, rispetto al Nuovo Mondo, si discute ancora di quote rosa e di donne che faticano a ottenere la tanto agognata parità. Ciò forse accade perché «la

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cultura maschilista è più forte e radicata in Europa» che non in America. O forse perché «in Italia ci siamo seduti sui nostri privilegi, mugugnando che il lavoro “garantito” è sottopagato, senza capire che è il primo aspetto a determinare il secondo». Che opinione hanno attualmente del nostro Paese negli Stati Uniti? «Degli italiani si dice che siano persone molto simpatiche, anche generose e ospitali, ma poco affidabili e anche un po’ imbroglione. È più facile che ti dicano quel che vuoi sentire, piuttosto che una sgradevole verità. Ma forse, più di tutto, sono apprezzate la dolcezza di vivere e la cucina. Da non dimenticare lo shopping: la moda italiana è sempre particolarmente ammirata». Tempo fa, Ian Fisher, corrispondente per il New York Times a Roma, ha però parlato in prima pagina del declino della cultura italiana. Abbiamo davvero perso la nostra gioia di


120 > OPINIONI DI NEA > Anselma Dell’Olio > In nome della meritocrazia

vivere e il nostro appeal? «Ian Fisher è un uomo intelligente. Credo che la sua percezione non sia del tutto infondata. Certo, a giudicare dalla cultura che produciamo, considerando teatro, cinema, letteratura e belle arti, siamo poco competitivi sulla scena internazionale, con qualche brillante eccezione. Penso al cinema italiano degli anni 40-50: eravamo la prima cinematografia al mondo. E non perché lo sosteniamo noi, ma in virtù dell’ammirazione che gli stranieri competenti nutrivano, e tuttora nutrono, per i film di allora. Forse sono processi ciclici: nel Dopoguerra è esplosa la creatività italiana, repressa dalla dittatura e dalla guerra. Oggi siamo tutti comodoni, pasciuti e poco disposti a sacrificarci e a competere con le nostre sole forze. Siamo il Paese dove tutti cercano “la raccomandazione” e il posto fisso, preferibilmente sotto casa di mammà. Con poche eccezioni. Quelli con la voglia di fare se ne vanno all’estero». Le politiche protettive europee nei confronti delle donne non ci hanno salvato dalla “crescita zero”. Qual è la causa? «Non è servito il protezionismo del congedo

Una vita a cavallo dell’oceano

Anselma Dell’Olio è nata a Los Angeles, da padre pugliese e da madre ebrea americana di origine russa. A tredici anni conosce l’Italia e ne rimane folgorata, restandone inesorabilmente legata.

«Il congedo maternità non credo sia servito. Manca l’ammirazione sociale per la famiglia numerosa e forse come Paese abbiamo preferito avere più comodità, più tempo libero e meno figli» maternità. A parte la fatica di educare figli, soprattutto per chi lavora fuori casa, credo che una possibile ragione sia la mancanza di ammirazione sociale per la famiglia numerosa. Forse come Paese abbiamo preferito avere più comodità, più tempo libero e meno figli. Ed è un impegno, quello di crescere i figli, che ricade pesantemente sulle spalle femminili, così come la cura degli anziani. Ma né gli asili nido né l’assistenzialismo risolveranno la questione». Le imprese europee quando si tratta di assumere preferiscono ancora gli uomini. Negli Usa, invece, le donne godono di minori tutele, ma sono più emancipate. E la loro cultura del lavoro è maggiormente competitiva rispetto alla nostra. Dove stiamo sbagliando? «Credo esista un nesso tra il grado di emancipazione e quello di tutela. Negli Stati Uniti vince la meritocrazia: ecco perché le donne stanno compiendo progressi superiori in questo Paese. Tutta la società statunitense approva la voglia di affermarsi, la lotta per eccellere. La mancanza di un posto fisso significa che la mediocrità non è tollerata. Eppure negli Usa si registrano più nascite che in Italia. Gli stimoli sono importanti, i traguardi pure». Dove vanno ricercate le cause della scarsa presenza delle donne in politica o nei posti di comando? «La cultura maschilista è più forte e radicata in Europa. L’America possiede tanti difetti, ma i suoi cittadini credono davvero nell’uguaglianza


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e s’impegnano nel lungo periodo per garantirla a tutti, nonostante storiche ingiustizie. La schiavitù è rimasta in vigore per quasi un secolo, ma oggi è stato eletto un presidente nero. Sono sempre poche le donne al congresso, ma rappresentano comunque il 6-7 per cento in più rispetto all’Italia».

© Fotogramma

Crede che l’esclusione di Hillary Clinton dalla corsa per le elezioni presidenziali sia dovuta al sessismo degli americani? «In un certo senso, sì. I maschi afroamericani hanno avuto il voto sessant’anni prima delle donne in generale. La discriminazione di genere è più dura da sradicare, perché appartiene a tutti. Ma nel caso specifico, Obama aveva non solo la storia dalla sua parte, ma anche l’età, la freschezza, l’abilità oratoria e lo charme. Appena è arrivato sulla scena, per Hillary era finita». Il caso di Hina Saleem ha puntato i riflettori sulle difficili condizioni molte donne, non solo in Italia. Qual è la situazione negli Stati Uniti, che hanno conosciuto prima di noi l’immigrazione da Paesi musulmani? «A differenza dell’Europa multiculturale, l’America è un melting pot, un crogiuolo in cui le diverse razze ed etnie sposano lo stesso sogno, la stessa filosofia libertaria e meritocratica dei padri pellegrini. Mantengono alcune tradizioni di origine, ma si sentono o ambiscono a essere pienamente americani in pochissimo tempo. La prima generazione tende a vivere negli stessi quartieri. Già la seconda si integra: sposa chi vuole e vive dove crede e conviene».


122 > L’INTERVISTA NEA > Elisabetta Sgarbi > Direttore, regista, scrittrice...

LO SPECCHIO DI BETTY Ha ideato la Milanesiana, ha portato in Italia Paulo Coelho, Michel Houellebecq e Michael Cunningham. Ha firmato corti e lungometraggi con uno stile che è stato definito di volta in volta estremo e pittorico, viscerale ma strutturato. Dialogo con Elisabetta Sgarbi. Tra parole, immagini e una grande fiducia nella vitalità della cultura italiana di Daniela Panosetti Betty Wrong. Un nome, anzi un nomignolo, che è insieme una strizzata d’occhio e calembour raffinato, che sa di fumetti anni 30, pop art e swinging London. E invece, come spesso accade, la cosa è molto più semplice. Betty Wrong è “solo” la versione british di Elisabetta Sgarbi, il suo also known as. La sua parte “sbagliata”, ha detto una volta, giocando con la giusta ironia su quella scintilla di schizofrenia creativa che ogni artista possiede. E da cui, inevitabilmente, è posseduto. Come Alice quando attraversa lo specchio. “Je suis un autre”, scriveva Rimbaud. Ma “un altro”, per Elisabetta Sgarbi, sembra non bastare. Regista, produttrice, e soprattutto direttore editoriale della Bompiani, per cui ha portato in Italia alcuni dei più fortunati casi letterari degli ultimi anni. Un nome per tutti, Paulo Coelho, di cui, quest’anno, ha anche prodotto il lungometraggio. La mia Transiberiana. Ma ha anche dato spazio, e continua a darlo, a molti aspiranti scrittori. Senza negare consigli e reprimende. Perché per ogni autore che negli ultimi anni ha abbracciato il successo, ricorda, «se ne potrebbero citare una quantità che non si sono imposti e lo avrebbero meritato». E perché senza idee, la cultura rimane monca, o perlomeno fiaccata dai cliché. «Ma si deve sperare nell’impossibile, per ottenere il possibile», esorta Elisabetta Sgarbi. Che infatti fa parte, a pieno diritto, di quella sparuta rappresentanza di intellettuali italiani persuasi che si possa e si debba gareggiare ad armi pari con il gotha della cultura europea (e non solo). E che l’editoria nostrana meriti di essere guardata «con l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione». Perché risvegliare il lettore medio dal suo torpore si può. E lo dimostra non solo il successo dei festival letterari, a partire dalla Milanesiana, da lei ideata nel 2000, ma soprattutto l’essenza della lettura. Che, ricorda Sgarbi, «non va mai vissuta come un’imposizione, ma come fonte di piacere. Qualcosa che dà ebbrezza e moltiplica la vita. Qualcosa che, come diceva Valentino Bompiani, fa “vivere due volte”».

Seguendo l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione Il successo della Milanesiana «Penso che la gente, quale che sia il livello di istruzione, sensibilità e intelligenza, abbia davvero bisogno di essere coinvolta nei processi che rendono la cultura una realtà viva, non accademica o semplicemente “scolastica”» Un corto sull’attualità «In realtà l’ho già girato: si intitola La palazzina dell’Alfa rubata al cinema ed è la cronaca filmata della distruzione della sede storica dell’Alfa Romeo, immortalata nel film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e distrutta, appunto, per fare spazio a un tunnel» Il ruolo dell’intellettuale «Max Weber pone con forza la natura di missione, laica e democratica, del lavoro intellettuale nella sua globalità. Mai come oggi questo messaggio di straordinaria levatura morale si è dimostrato e si sta dimostrando attuale e valido, a tutto campo»


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elisabetta sgarbi, direttore editoriale di Bompiani, regista e direttore artistico della Milanesiana


124 > L’INTERVISTA NEA > Elisabetta Sgarbi > Direttore, regista, scrittrice...

1990 > fonda la rivista Panta 1994 > pubblica Ladro di sguardi

La sensazione è che oggi in Italia la cultura sia diventata un accessorio o, peggio, un qualcosa di nicchia. È così? «Non credo che sia così, francamente. Il punto è che l’apertura alle masse dei fenomeni culturali ha creato anche degli effetti perversi, a volte diciamo pure una banalizzazione dei valori, a ogni livello. Ma è un rischio che bisogna correre. Altrimenti la cultura tende davvero a ridursi a un fatto di nicchia, cosa che per fortuna accade solo, a mio parere, in alcuni contesti di intellettualismo fine a se stesso. Il rinato interesse, ad esempio, per il sapere filosofico, merito anche delle iniziative del professor Giovanni Reale, per quanto riguarda la Bompiani, dimostra che quella apertura di massa ha un suo senso preciso». Eppure l’Italia ha “prodotto”, fino agli anni 70, grandi intelligenze. Cosa è successo nel frattempo? «Come dicevo, non sono

pessimista. Già Pasolini e Calvino, fra gli anni sessanta e settanta, denunciavano il pericolo dell’omologazione. Diverso è il fenomeno della fuga all’estero delle intelligenze, e qui si passa dalla letteratura alla scienza. È una concreta programmazione statale che in tal caso deve sanare la situazione. Ma si aprono qui altri problemi, che presuppongono altre competenze specifiche». Lei ha creato la Milanesiana. I festival culturali si stanno moltiplicando, raccogliendo un ottimo successo di pubblico. Significa che c’è una richiesta di “cultura” maggiore dell’offerta? O sottovalutata? «Io penso che la gente, quale che sia il livello di istruzione, sensibilità e intelligenza, abbia davvero bisogno di essere coinvolta nei processi che rendono la cultura una realtà viva, non accademica o semplicemente “scolastica”. La gente vuole partecipare, e un festival come la Milanesiana, forte dei suoi 500 ospiti internazionali e di un’affluenza di 250mila persone, può dare una risposta a questo bisogno. Trucchi non ce ne sono: solo un palco e un pubblico che si confronta direttamente con chi ha accettato di dialogare con esso. E questo non è poco, mi sembra. Certo, è necessario che l’offerta sia adeguata alla domanda, e qui la parola deve essere innanzi tutto girata alle istituzioni, che peraltro cominciano ad acquisire sempre più una specifica consapevolezza in tal senso». Eventi come questi possono davvero contribuire a un rilancio della letteratura “dal


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2000 > prima edizione della Milanesiana 2004> dirige Notte senza fine

Sul comodino? La Disputa sul Santissimo Sacramento basso” o rischiano di trasformarsi in vetrine sociali per scrittori e artisti? «Credo che chi vuole soltanto mettersi in vetrina scelga altre soluzioni, più facili. La decisione di confrontarsi col pubblico in manifestazioni libere e aperte va esattamente nella direzione opposta, e mi fa pensare che una crescita “dal basso” sia veramente possibile, oggi più di ieri». Oggi l’intellettuale sembra in via di estinzione. Quali sono le nuove “missioni”, se ne esistono ancora, di questa figura? «Be’, abbiamo appena pubblicato una nuova traduzione di La scienza come professione, del grande sociologo Max Weber, che pone con forza la natura di “missione”, laica e democratica, del lavoro intellettuale nella sua globalità. Mai come oggi questo messaggio di straordinaria levatura morale si è dimostrato e

«La lettura non va mai vissuta come un’imposizione, ma come fonte di piacere. Qualcosa che dà ebbrezza e moltiplica la vita. Qualcosa che, come diceva Valentino Bompiani, fa “vivere due volte”»

si sta dimostrando attuale e valido, a tutto campo. Basta solo crederci sul serio, e agire di conseguenza, a vari livelli, compreso quello editoriale. Cosa difficile a farsi, non lo nego. Ma si deve sperare nell’impossibile, per così dire, per ottenere il possibile». L’Italia ha ancora grandi letterati in grado di portare la nostra bandiera culturale nel mondo? «Potrei cavarmela facilmente facendo il nome di Umberto Eco. Credo, in generale, che una certa figura di intellettuale-vate non esista più, ma nemmeno debba ancora esistere. Il problema reale, oggi, direi la scommessa di fondo, è la comunicazione. La stessa letteratura è una sua forma, e saperla gestire presuppone molta umiltà e metodo».

Betty Wrong, uno pseudonimo che sa di fumetti anni 30, pop art e swinging London

Il gioco della torre secondo Sgarbi sono da salvare Umberto Eco, Montaigne, l’istinto, il bello, il bello del buono, l’ottimismo. Da buttare: l’ipocrisia

Molti autori non anglofoni scelgono di scrivere in inglese per avere più chance di essere pubblicati a livello europeo. Quanto penalizza il fatto di operare su un mercato linguisticamente limitato come quello italiano? «Pubblicare in italiano è perlopiù penalizzante per le traduzioni all’estero. Ma è innegabile che in Italia si pubblicano molti esordienti, e


126 > L’INTERVISTA NEA > Elisabetta Sgarbi > Direttore, regista, scrittrice...

«La lettura non va mai vissuta come un’imposizione, ma come fonte di piacere. Qualcosa che dà ebbrezza e moltiplica la vita. Qualcosa che, come diceva Valentino Bompiani, fa “vivere due volte”» questo è un vantaggio per le nuove voci». Lei è anche regista. Dovesse girare un corto sul periodo che stiamo vivendo, con quale inquadratura comincerebbe? «In realtà l’ho già girato: si intitola La palazzina dell’Alfa rubata al cinema ed è la cronaca filmata della distruzione della sede storica dell’Alfa Romeo, immortalata nel film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e distrutta, appunto, per fare spazio a un tunnel». Regista, autrice, attrice, direttore editoriale. C’è un fil rouge che unisce queste sue diverse esperienze? «Sono tutte facce della stessa medaglia. Ci si

Tutte le anime di Elisabetta Sgarbi Regista, autrice, attrice, direttore editoriale «Sono tutte facce della stessa medaglia. Ci si scompone in vari “io” non equivalenti ma complementari, all’insegna di un filo, appunto, che li ricollega tutti in unità. Un’unità non già data, ma da inseguire costantemente»

scompone in vari “io” non equivalenti ma complementari, all’insegna di un filo, appunto, che li ricollega tutti in unità. Un’unità non già data, ma da inseguire costantemente». Segno che la cultura e l’arte oggi non possono più essere settoriali ma vissute come un unicum? «Cultura e arte non sono mai state settoriali. La settorialità ce la siamo inventata noi, ed è l’altra faccia della burocratizzazione del mondo». In un ipotetico gioco della torre: istinto o tecnicismo? Ottimismo o pessimismo? Italia o estero? Richard Yates o Alessandro Baricco? Ritorno al passato o entusiasmo per il futuro? «Istinto, sempre, perché la tecnica in se stessa è sempre cieca. Ottimismo, per le ragioni già chiarite. Italia, ma solo se “vissuta” da un punto di vista internazionale, cosmopolita. Comprensione del passato, senza la quale non c’è futuro. E per gli autori, a ognuno il suo gusto». Che libro, o libri, ha sul comodino in questo momento e non per lavoro? «La Disputa sul Santissimo Sacramento, monografia di Giovanni Reale su uno degli affreschi delle Stanze di Raffaello in Vaticano». Quando pensa a un grande, chi le viene in mente? «Montaigne». Cos’è nella quotidianità che la fa più arrabbiare? «L’ipocrisia». E cosa, invece, la continua a sorprendere? «Il bello. E il bello del buono».



128 > DA LUI HO IMPARATO > Andrea Jonasson > Il mio Strehler

È CALATO IL SIPARIO MA LO SPETTACOLO CONTINUA Strehler, il grande Maestro del teatro italiano. Geniale, coraggioso, appassionato. Conosciuto. Andrea Jonasson, sua compagna sul palcoscenico e nella vita, regala però un ritratto inedito del suo Giorgio di Daniela Panosetti a voce è un sussurro musicale, modulato. Ricco di emozioni, di ricordi discreti. Ma anche di passioni presenti e vivissime. Una voce plasmata dall’ascolto di mille platee, da serate e serate di teatro vivo. “Tu sei il Teatro, Andrea”, le scriveva il Maestro Strehler. E lei, Andrea Jonasson, lo racconta oggi, dieci anni dopo la sua morte, con la stessa voce di sempre. Capace di passare dall’entusiasmo alla tenerezza come solo gli attori, quelli “grandi”, riescono a fare. Ma anche di accendersi, lasciarsi sorprendere da un fremito diverso quando pronuncia quel nome, “Giorgio”. Quando racconta ciò che lui le ha insegnato. «L’umiltà, prima di tutto, e il rispetto per il mestiere,

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«L’umiltà, prima di tutto, e il rispetto per il mestiere, per i grandi autori Ma anche la capacità di «volare sul palcoscenico». E soprattutto i ricord «meravigliosi, davvero». I suoi «urli da bambino felice», quando in barc passavano di caletta in caletta, «e lui saltava in mare, facendo capriole gioiose nell’acqua» per i grandi autori». Ma anche la capacità di «volare sul palcoscenico». E soprattutto i ricordi, «meravigliosi, davvero». I suoi «urli da bambino felice», quando in barca passavano di caletta in caletta, «e lui saltava in mare, facendo capriole gioiose nell’acqua». Ed è qui che si fa titubante, il sussurro. Si ritrae quasi quando, ondeggiando tra i mille insegnamenti che il maestro le


Foto Azzurra Primavera

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Andrea Jonasson, attrice teatrale e ultima compagna di Giorgio Strehler


130 > DA LUI HO IMPARATO > Andrea Jonasson > Il mio Strehler

ha lasciato, si sente chiedere quale sia quello che invece lei, Andrea Jonasson, ha lasciato a lui. E da un «Io? Ma no, io nulla», quasi fosse assurdo, o inopportuno pensare che i ruoli si possano invertire, emerge a poco a poco qualcosa. «La gioia di uscire al sole, di lasciare il buio tiranno del teatro, che era la sua passione, ma anche la sua maledizione. Forse è questo ciò che ho insegnato a Giorgio – racconta –. Con la mia voglia di luce e di aria e di mare e di boschi, a un certo punto ha riscoperto la vita». E si comprende che è ben più di una musa quello che Strehler aveva trovato in lei.

Per tutti Strehler era il grande maestro del teatro italiano. Ma se dovesse scegliere una sua immagine inedita? «C’erano tante cose bellissime di Giorgio che gli altri neppure immaginavano. Quando scappavamo

Foto Norberth

Giorgio Strehler se ne è andato il 25 dicembre del 1997. Cosa ha perso la cultura italiana quel giorno? «Molte cose. Credo che nessuno come lui abbia dato così tanto al teatro e alla cultura italiana. Perché era poetico, era politico, di un’umanità così completa che mi è difficile raccontarla. Anche perché, come diceva lui stesso, non si può raccontare il teatro. Bisogna vederlo, e viverlo. E chi ha visto il suo teatro sa che Giorgio ha lasciato un grande vuoto. Enorme. Perché la sua era un’arte così alta, ma anche così comprensibile. Capace di parlare a tutti, dalla gente semplice agli intellettuali. I suoi spettacoli erano magia, anche se è una parola che non amo più, troppo usata. Proprio come “geniale”, anche se lui lo era davvero. Nel suo teatro c’era la testa e il cuore, le viscere e lo stomaco. Era eroico, ma intelligente. Stavi laggiù a guardare i suoi spettacoli ed era un continuo stupore».

E poi l’umiltà verso questo mestiere, così difficile. A noi attori ripeteva che anche col più grande talento, bisogna restare sempre fedeli ai grandi autori: Brecht, Cechov, Pirandello, rispettandone i testi, senza stravolgerli. Diceva, Giorgio, di voler essere come un bravo falegname, che di un pezzo di legno fa un bellissimo mobile».

«Credo che nessuno come lui abbia dato così tanto al teatro e alla cultura italiana. Perché era poetico, era politico, di un’umanità così completa che mi è difficile raccontarla»

Qual è il più grande insegnamento che le ha lasciato? «Usa la fantasia, apri il cuore. E sii fedele alla tua passione, al teatro, senza farti corrompere da proposte di poca importanza. Questo mi diceva.

in barca, e lui diventava come un bambino felice. Si divertiva a mangiare spicchi d’aglio, cosa che quando lavorava in teatro non si permetteva mai di fare. Ricordo poi che guidava la barca con una mano, tenendo l’altro braccio alzato, ed era bellissimo lassù sul ponte della sua barchina, con i capelli bianchi al vento, e tutte le barche di passaggio che lo salutavano. Ma quando gli chiesi come mai scegliesse quella posizione, lui rispose con


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candore, quasi fosse cosa ovvia, che semplicemente non gli piaceva rimanere pallido sotto le ascelle. In quei momenti, davvero, era divertentissimo».

Foto Ciminaghi

Cos’altro ricorda di quei viaggi in mare? «Buttavamo l’ancora in una caletta, lui apriva uno champagne e mettevamo su Mozart, il suo compositore preferito. E allora gli capitava di fermarsi a guardare un tramonto, e il suo viso era illuminato dal sole dorato e all’improvviso gli scendevano le lacrime. Perché la bellezza del mare, il sole che moriva in acqua, la musica di Mozart lo commuovevano. Attimi indimenticabili».

Qualcosa, invece, che neppure lei si aspettava o immaginava di lui? «Giorgio non credeva in Dio, pensava fosse qualcosa di troppo astratto, che non riusciva a immaginare. Un giorno però, eravamo in piscina, d’estate, e a un tratto gli chiesi cosa fosse per lui. C’era una libellula, sul filo dell’acqua, che stava per annegare. Allora Giorgio prese un bastoncino dal prato e la sollevò, mettendola sul bordo piscina, al sole, dove era bello caldo. Finché pian piano, asciugate le ali, la libellula fu di nuovo capace di volare via. E lui mi disse: “Vedi, lei ora va dalla moglie e gli dice cara oggi ho capito cos’è Dio. Stavo in un grande mare, sul punto di annegare, e poi una specie di ombra sopra di me mi ha sollevato e mi ha salvato”. E questa, per lui,

era la risposta alla mia domanda». Da quel giorno di Natale sono passati più di dieci anni. Come è cambiata la sua vita da allora? «È cambiato tutto. Con lui se ne è andata la vera vita, l’avventura. Perché questo era fare teatro con lui: rischio e coraggio, e la gioia di creare qualcosa insieme. Ecco questa gioia,

Una fiaba per bambini, con i bambini “Ma soprattutto, cari bambini, questo spettacolo è fatto e pensato, oggi più di quella prima, lontana volta, per voi. Siete voi gli spettatori di domani, i grandi che verranno dopo di noi. A voi affidiamo il nostro bagaglio di sogni, che, forse non siamo riusciti a realizzare e la nostra tenerezza”. Con queste parole, nel 94, Giorgio Strehler introduceva la nuova edizione del suo La storia della bambola abbandonata, portata in scena la prima volta nel 76. Ed è lo stesso testo che oggi Andrea Jonasson, per il secondo anno, sta portando sui palcoscenici d’Italia. Una “fiaba per i bambini, con i bambini”, che coinvolge in ogni città nuovi piccoli attori, sul palcoscenico per la prima volta. «Un lavoro bellissimo – racconta Jonasson – a cui Giorgio teneva molto, ma che richiede moltissimi sacrifici, perché in ogni città bisogna ricominciare da zero. Sacrifici ripagati però dalla gioia che provo quando alla fine i bambini corrono ad abbracciarmi, come grappoli, in lacrime perché una bellissima avventura è finita. Dicendo che il teatro è entrato nelle loro vite e non lo dimenticheranno mai».

quest’avventura, non le sento più. È come se un meteorite fosse caduto sulla terra dove abitavo lasciando un cratere immenso. E su ciò che è rimasto, sulla lava, cerco di far ricrescere qualcosa, anche in nome suo. Credo in qualcosa di meraviglioso nell’aldilà, dove spero di ritrovarlo, di continuare a lavorare insieme. E voglio fare cose in questo mondo, oggi, anche per farlo felice. Perché dall’altro mi dica “brava Andrea, vai avanti così, perché ciò che fai con onestà, con sincerità ti rende onore. È questo che mi fa andare avanti».


132 > PROTAGONISTE DI NEA > Zaha Hadid > Architettura

A destra, l’architetto Zaha Hadid (Bagdad, 1950). Nell’immagine grande, il suo progetto per il Kartal-Pendik masterplan, a Istanbul


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FEMMINILE SINUOSO E MUTEVOLE Direttrici spezzate che si rincorrono e si intersecano. Contrapposizioni di concavo e convesso. Linee vibranti che paiono prendere vita. é lo spazio secondo Zaha Hadid. Il cui tocco sta segnando la storia dell’architettura contemporanea di Sarah Sagripanti

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Quali sono secondo lei i segni distintivi della sua architettura? «La fluidità e il dinamismo del disegno a mano libera sono una scelta fedele per la nostra architettura, che viene guidata dai nuovi sviluppi del design digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere. Nel seguire un’attività progettuale, non ci interessa solo la forma di un edificio, ma il modo in cui può essere realizzata

una nuova organizzazione della vita di quell’edificio. Per questo, non prendiamo semplicemente indicazioni, ma cerchiamo di interpretare le intenzioni della committenza». Come è cambiato, negli anni, il suo approccio alla progettazione? «La complessità e i progressi tecnologici dei software di grafica digitale e delle tecniche costruttive ci hanno consentito di sviluppare

© Foto di Steve Double

on sono tante le donne che spiccano ai più alti livelli nel panorama dell’architettura mondiale. Ma le poche che vi si trovano, brillano sicuramente più di molti professionisti uomini. Di origini irachene, ma londinese di adozione, Zaha Hadid è l’unica donna che, quattro anni fa, ha vinto il prestigioso premio Pritzker per l’architettura. I suoi progetti hanno cambiato il modo di percepire lo spazio urbano: non più una serie ordinata di edifici razionali, ma un organismo leggero e fluttuante. Sono necessari «spazi dove le cose possano contrarsi ed espandersi» ha detto l’architetto. Nel suo studio londinese, guida con piglio deciso decine di collaboratori che si celano tutti in quel “noi” che usa quando risponde ai giornalisti.


134 > PROTAGONISTE DI NEA > Zaha Hadid > Architettura

linguaggi architettonici moderni, nuovi ed eccitanti, ai quali credo di aver dato un forte contributo. Il computer ha semplificato le cose e allo stesso tempo ha permesso di raggiungere un alto livello di complessità nel lavoro. Ma ciò che mi manca del periodo precedente all’era informatica è la vastità delle possibilità offerte dai materiali: i modelli fisici offrivano qualcosa di diverso dalle prospettive disegnate, che a loro volta erano differenti rispetto alle piante o ai dipinti. Ora c’è una sostanziale uguaglianza e poche sorprese. Non ci sono strati da scoprire». Negli anni ha progettato edifici, infrastrutture, piani urbanistici, scenografie e anche mobili. Cos’altro le piacerebbe ideare? «Non posso proprio dire cosa sarà la prossima cosa che progetterò, perché non so cosa mi commissioneranno. Credo che tra ciò che abbiamo sviluppato in questi ultimi trent’anni, manchino esempi di progetti basati su una scala molto ampia, e non intendo solo su scala urbanistica, ma anche a livello di zone urbane e grandi aree. Quello che mi interessa è il modo in cui si può effettivamente lasciare il segno, agendo su una scala più ampia: e non intendo solo con un unico edificio di grandi dimensioni, ma con una serie di edifici». In quale Paese del mondo lavora meglio? «La Germania è un Paese fantastico, perché c’è un sistema di lavori pubblici che funziona molto bene, come in Austria. La Francia è stata un ottimo posto in cui lavorare, ma ora sta vivendo una fase di immobilismo. Poi c’è la Spagna, che attraversa una fase di grande vivacità». Dove le piacerebbe realizzare il suo prossimo progetto? «Sono innamorata della complessità di Istanbul. Non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo, la città è formata da tanti strati diversi e pieni di ricchezza. Non mi stanco mai di andarci perché è piena di tesori inattesi».

L’Italia? Ancora incerta tra la storia e la modernità Molti suoi progetti infiniti. «Ci sono momenti in cui mi sento decisamente giù, ma il mio scoraggiamento non dura mai molto a lungo. Sono fondamentalmente un’ottimista e so che alla fine si uscirà dalla situazione di stallo» Un Paese di contraddizioni. «Usare la tradizione come un limite per la nuova architettura è solo un alibi. Nonostante ciò, per noi architetti è bellissimo lavorare nel vostro Paese, perché c’è un grande equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve»


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Tre render del progetto per il Maxxi di Roma. Sotto, un dipinto realizzato dall’architetto Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects

E l’Italia? «Qui ogni cosa è molto lenta e bisogna avere pazienza. Ogni progetto ha una sua particolare situazione di stallo. Credo dipenda dal fatto che non è accaduto niente per tanto tempo, per anni abbiamo assistito solo a operazioni commerciali e l’architettura non era contemplata tra le questioni di interesse pubblico. Adesso, invece, c’è un ritorno di interesse ed è positivo che l’input provenga dall’alto, ma ovviamente dobbiamo fare i conti con un rodaggio lento e faticoso». Le peculiarità del nostro Paese riguardano anche il fatto di avere spazi urbani fortemente caratterizzati da storia e tradizione. Come si possono conciliare la complessità della storia e le nuove esigenze dell’architettura contemporanea? «Sarebbe un peccato perdere la storia. Ma non credo che le città debbano essere considerate tutte come Venezia, senza crescere né cambiare per niente. È importante intervenire con un approccio contemporaneo, ma farlo in maniera precisa. Ed è quello che abbiamo provato a fare noi con i nostri progetti urbani. Nelle città, c’è bisogno di spazi dove le cose possano contrarsi ed espandersi, ma occorre lasciar fuori qualcosa, per permettere una crescita organica». In questo senso, quale tra i suoi progetti italiani è più rappresentativo? «Un buon esempio è il Maxxi di Roma. Una cosa interessante a proposito di questo museo è che non si tratta più di un oggetto, ma piuttosto di un “campo”, un “centro”. Abbiamo tessuto una densa trama di spazi interni ed esterni: una

«Il computer ha semplificato le cose e ha permesso di raggiungere un alto livello di complessità nel lavoro. Ma mi manca la vastità e le possibilità offerte dai materiali che si usavano prima: i modelli fisici, le prospettive disegnate, le piante o i dipinti. Ora c’è una sostanziale uguaglianza e sono poche le sorprese» mescolanza di gallerie per mostre permanenti, temporanee e commerciali, che irrigano un vasto campo urbano con superfici espositive lineari; ci sono tanti edifici non allineati, ma intrecciati o sovrapposti l’uno con l’altro. Ciò significa che, attraverso il diagramma organizzativo, si possono tessere programmi museali nel concetto complessivo degli spazi, fare collegamenti tra architettura e arte, perché i ponti possono collegarle e proporle in un’unica esposizione. In questo modo si può avere un’esposizione che si estende da una parte all’altra del sito, attraverso un intero segmento della città».


136 > IL DESIGN DI NEA > Silvia Gavina > VIA.gg.IO

IL FAVOLOSO (E SOFISTICATO) MONDO DI SILVIA TESTO RACCOLTO DA ISELLA

MARZOCCHI

Il design nel dna, una community internazionale, una linea di beauty care evoluta. Il lavoro di Silvia Gavina, figlia di uno dei nomi più illustri e sovversivi del design contemporaneo

VIA gg IO

il percorso della nostra vita abbreviazione di giorni le mie potenzialità, le mie scelte

VIA.gg.IO nasce da qui, dalla scelta di una parola che esprime lo spostamento ma racconta di una precisa dimensione emotiva in cui libertà, sintesi, flessibilità, cultura e design convivono, rispondendo concretamente all’esigenza di gesti quotidiani comuni a donne e uomini.

cegliere. Il mondo di Silvia Gavina si origina, in un’architettura di forme semplici, da qui, dal ruolo imprescindibile che quest’azione semplice e, oggi, complicatissima, riveste. «C’è un principio estetico preciso che guida tutta la mia visione della vita, in cui stile e design sono elementi integranti. Studio e ricerca sono vitali per alimentarne il continuo rinnovamento» dice. Pioniera da sempre del “meno” a favore del “meglio”, nella vita come nella professione, allergica alla

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staticità e una passione profonda per ciò che rende contemporaneo il vivere di ogni giorno, Silvia Gavina si occupa, dopo una lunga esperienza come creativa nel mondo dei prodotti di lusso, di design. Come? Con la coerenza che le è propria, applicando alle richieste di una clientela evoluta e cosmopolita una trasformazione estetica e concettuale di prodotti, brand, progetti, attraverso un’analisi attenta e una visione sofisticata. Nei primi anni Duemila decide di diventare cliente di se stessa e inizia l’avventura di VIA.gg.IO, progetto personale che sviluppa nell’ambito della propria attività di consulenza. «Dopo un’esperienza in tanti tipi di prodotti di lusso avevo il desiderio di crearne uno che si ispirasse al mio modo di vivere. Consumare meno e meglio, quindi, senza dimenticare cultura e poesia, chiavi di accesso al lusso contemporaneo. Ma anche produrre in modo diverso, concentrando l’attenzione sulla qualità del prodotto, su un packaging che combinasse i plus tecnologici a un’estetica precisa, azzerando ogni possibile elemento superfluo». «VIA.gg.IO nasce come linea di beauty care evoluta per formulazione, design, utilizzo, dopo anni di ricerche in tutto il mondo per selezionare i migliori principi attivi naturali, ma armonizza anche texture, dose, colore e fragranza – racconta Silvia Gavina –. Suggerisce un uso contemporaneo della

La linea dei prodotti e i suoi valori La linea VIA.gg.IO è un insieme di prodotti di cura viso e corpo, per uomo e donna, concepiti per essere la sintesi di valori per noi fondamentali: qualità, ricerca, essenzialità. I principi guida di VIA.gg.IO sono: qualità nel rispetto delle funzioni biorestitutive naturali della pelle, unione sinergica di preziosi principi attivi d’origine vegetale con i vantaggi delle tecnologie cosmetiche avanzate, packaging innovativo che preserva al meglio l’integrità del prodotto, il miglior utilizzo e dosaggio.


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«Non nascondo che creare attraverso VIA.gg.IO una community di contatti evoluti internazionali è tra i nostri obiettivi»

Nella pagina a fianco beauty case della linea VIA.gg.IO disponibili in versione uomo e donna.. A sinistra serie di prodotti cosmetici VIA.gg.IO. a destra l’architetto Silvia Gavina, designer e creatrice di questa innovativa linea di prodotti cosmetici

cosmetica, portandola oltre i confini dei luoghi deputati tradizionalmente alla cura del sé. Esprime un life concept globale e nasce per soddisfare una community attenta con 19 prodotti che coprono tutte le esigenze di cura per il viso e il corpo uomo/donna». Al debutto, nel 2004, attira subito l’attenzione del mondo cosmetico e del design internazionale, prima al Cosmeeting di Parigi con il Beauty Challenger Award e nel 2006 con la selezione per il Wallpaper Design Award e fa il suo ingresso nei concept store italiani più all’avanguardia. Oggi VIA.gg.IO (www.via-ggio.com), selezionato tra tutti i migliori marchi di nicchia del mondo, approda nello speciale corner

che La Rinascente di Piazza Duomo a Milano dedica ai trenta migliori brand sul mercato internazionale, affrontando per la prima volta l’avventura del department store. Ci sono altri brand che condividono spirito e filosofia di VIA.gg.IO? «Sì, e in questi anni molti ci si sono avvicinati – spiega Gavina –. Consideriamo il cobranding una forma contemporanea di condivisione di ideali. La sintonia a tutti i livelli è un valore per noi molto forte. Non nascondo che creare attraverso VIA.gg.IO una community di contatti evoluti internazionali è tra i nostri obiettivi».


140 > ARCHITETTURA > Diletta Evangelisti > Progetti e stili

LA FELICE CONVIVENZA DI ANTICO E MODERNO

DI JESSIKA

PINI

Urbanista e architetto designer. Cresciuta tra gli eredi del razionalismo italiano. Diletta Evangelisti ha sviluppato un pensiero progettuale legato al contesto. Attraverso architetture che sanno mettere in perfetta correlazione e armonia ambienti e stili storici diversi

’importanza di avere una visione d’insieme, di un pensiero architettonico che tenga conto della cultura, delle arti e dell’economia di una società. La capacità di gettare uno sguardo complessivo sul contesto urbano, Diletta Evangelisti l’ha appresa dall’incontro con la generazione di architetti urbanisti, figli del razionalismo italiano, Gabriele Bonfiglioli, Sergio Vacchi e il padre Roberto Evangelisti, quando andava a bottega da loro. Da questa premessa nasce la sua concezione dell’architettura urbana, i suoi progetti, in cui l’elemento moderno si inserisce in modo armonioso in un centro antico attraverso un uso sensibile dei colori e dei materiali, sono sempre improntati a uno stile elegante e mai

L

Diletta Evangelisti è un architetto di Bologna. Sono sue molte prestigiose opere di restauro di antichi edifici storici di Ravenna. In questa foto è ritratta accanto a un reperto della sede arcivesvovile di Ravenna da lei restaurato

provocatorio. Agli anni di “apprendistato” risalgono progetti come il palazzo per uffici della Italiana Oli e Risi a Ravenna, un edificio in ferro e vetro che contiene una chiesa bizantina, la sede Antalgil di Bologna, ma anche progetti per l’estero come il Barbarons Beach Hotel di Mahè, nelle Seychelles, il Marriott Hotel di Huston. Recentemente, l’architetto bolognese ha sviluppato un progetto di recupero dell’intera area del complesso di Palazzo Maioli, in centro a


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Ravenna, nel parco della Basilica di San Vitale. Oltre al restauro ha previsto la realizzazione di un nuovo edificio all’interno di un quadrilatero con palazzi signorili del XIV secolo e le cosiddette Casette di San Vitale del XII secolo, contestualizzandolo attraverso l’impiego di materiali e colori che si combinino con quelli delle costruzioni esistenti. La sua sensibilità le ha permesso di portare a termine progetti di restauro di edifici inseriti in contesti archeologici sui quali le Soprintendenze sono molto restie a rilasciare le autorizzazioni d’intervento. «Considerando la ricchezza architettonica del nostro Paese mi domando perché spesso aprendo le nostre finestre ci troviamo di fronte a prospetti squallidi» si chiede Evangelisti, alludendo alle brutture architettoniche nei centri urbani e al degrado di certi siti storici. Che attualmente è impegnata nella realizzazione del progetto di restauro e di arredo del Museo Arcivescovile, ubicato nell’antica sede dell’Episcopio dei Vescovi

Queoaka, un progetto innovativo per cibi prêt-à-porter

Queoaka food prêt-à-porter è un progetto nato a Bologna, per la produzione e distribuzione di piatti freschi di alta qualità. Il menu sarà preparato su ricette dello chef Marco Fadiga. Pani farciti, sandwich, insalate sexy, centrifugati di verdura, smooties e sushi saranno presentati in contenitori appositamente disegnati da Evangelisti, diversi a seconda delle esigenze e delle occasioni: in porzioni singole o per più persone, per un pranzo in ufficio o adatti per allestire un party a casa.

«Il moderno si inserisce in modo armonioso in un centro antico attraverso un uso sensibile dei colori e dei materiali» a Ravenna. Il complesso, costituito da più edifici risalenti a epoche differenti, comprende il Vivarium in laterizio, la torre Salustra, l’acquedotto romano del II secolo d.C. le murature medievali interne e alcune parti risalenti al XVIII secolo. In questo progetto i colori avranno un ruolo determinante: «Ho fatto uno studio molto approfondito sui toni cromatici. I colori si connoteranno di una valenza sia estetica che simbolica, per questo ho scelto una scala cromatica che passa dal tono neutro dei beige delle terre, ai rosati e ai verdi in una gamma estremamente delicata che si rifà all’iconografia cristiana» spiega l’architetto. Ogni sala è trattata come se fosse essa stessa una vetrina espositiva. Nell’ambito del design, Diletta Evangelisti, ha realizzato progetti d’interni per alberghi e residenze private. L’architettura per interni è stata la prima attività cui si è dedicata, disegnando i

Il bookshop del Museo nazionale e Basilica di San Vitale a Ravenna

prototipi degli oggetti più svariati, dagli accessori alle maniglie, dalle poltrone ai divani. Contemporaneamente si è sperimentata nell’utilizzo di tessuti e metalli, per realizzare lampade, scale e mobili, materiali che caratterizzano tutt’oggi il suo modo di fare design. Le sue creazioni sono presenti negli allestimenti di molti musei. Suoi sono gli allestimenti dei bookshop del Museo Nazionale e Basilica di San Vitale, della Basilica di Sant’Apollinare, del Museo di Teodorico a Ravenna, della casa Romei a Ferrara e dell’Abazia di Pomposa nel ferrarese.


142 > ARCHITETTURA > Paola Pinnavaia > Il primato della creatività

UNO STUDIO DA CULT DI

MARILENA SPATARO

L’avventura di OnDesign prende forma nel 1994 dall’intuizione di Paola Pinnavaia. E col tempo si trasforma in una realtà aziendale di respiro internazionale a creatività che si coniuga alla progettualità del fare. Lo studio OnDesign, con sede a Roma, si connota fin dai suoi esordi come un laboratorio creativo interdisciplinare che spazia dal design alla comunicazione, trovando la sua massima applicazione nel campo dell’elettronica di consumo.

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Quali sono i punti di forza dello studio? «Sviluppare il design come fattore strategico in sinergia con altre competenze è uno dei nostri maggiori punti di forza. Il design, infatti, viene sempre integrato nel processo che va dalla concettualizzazione, all’ingegnerizzazione fino al lancio del prodotto. Prendere coscienza di questo significa elaborare da subito un’idea orchestrata nel contesto di più competenze».

Il mercato è sempre più competitivo. Come siete riusciti ad affermarvi? «Innanzitutto vivendo il lavoro come una sfida da affrontare con passione e coinvolgimento emotivo. E allo stesso tempo considerando come obiettivo principale nel nostro processo di ideazione l’utente finale. La capacità di restituire un prodotto complementare a tutte le esigenze e trasversale a più target è un altro dei motivi della nostra affermazione in campo internazionale. Essere riusciti a imporre un oggetto come One Touch Easy, che è andato nella mani di oltre diecimilioni di persone in tutto il mondo, è un forte stimolo per la nostra attività, e ci spinge ad andare avanti su questa strada». Chi sono oggi i vostri maggiori partner?

I risultati

«Soprattutto i partner asiatici, a dimostrazione della nostra vocazione a essere un vero e proprio network di scambio inserito in un mercato globale in cui il design italiano rappresenta un valore di eccellenza irrinunciabile».

Paola Pinnavaia è fondatrice e socia di OnDesign. L’azienda romana ha acquisito grande notorietà a livello internazionale grazie anche alle creazioni: One Touch Easy by Alcatel, oggetto culto di fine anni 90 entrato a far parte della storia dei cellulari e i termoarredo Rio e Foglia per Cordivari, i protagonisti dell’arredo domestico ispirati alle forme della natura www.ondesign.it

Quali i progetti per il futuro? «ABmedica, un’apparecchiatura elettromedicale. Le nostre competenze si stanno ampliando in questo campo. Per il quale il nostro impegno è garantire un design di qualità che sia al contempo al servizio della salute».


> Antonella Bertelli > L’arte dell’accoglienza

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E CON PERSONALITÀ LO SPAZIO PRENDE VITA

DI JESSIKA

PINI

Un tocco caldo e discreto per rendere accoglienti tutti i luoghi del vivere e che si distingue per la sua semplicità. Una visione architettonica femminile che sta alla base delle opere di Antonella Bertelli mbiziose, capaci, appassionate. Donne al lavoro. Ma prima di tutto e sempre donne. Nel bene e nel male, pronte a lottare per affermarsi e consapevoli di poter apportare in ciò che fanno un quid in più. Per la parte rosa del cielo la strada del successo continua a essere doppiamente faticosa, e lo sa bene Antonella Bertelli: «Bisogna essere un po’ uomo, rapportarsi con il resto del mondo da uomo, disponibili a ogni orario, totalmente orientate al lavoro e in più, dimostrare, ogni volta, di essere veramente competenti». Soprattutto in settori orientati al maschile, come l’architettura. «In Italia persiste ancora una concezione antica dei ruoli: l’uomo è il cavaliere, mentre la donna rappresenta la figura amorevole che lo aspetta e lo accoglie, perciò fatica a guadagnarsi incarichi di responsabilità» prosegue l’architetto Bertelli. Che per imporsi, andando contro questo pregiudizio non ha mai esitato a “sporcarsi abiti e mani”nei cantieri e lo ha fatto sempre con grande disinvoltura e alla pari con i colleghi uomini. «Quello di cui sono fermamente convinta è che, in genere, poiché la donna fa questo mestiere per scelta, e se lo suda faticosamente, porta con sé tutta l’energia, la passione e l’attenzione femminili che danno, spesso, un valore aggiunto e garantiscono un migliore risultato finale» afferma orgogliosa la professionista genovese. «Diversi anni fa – ricorda per ribadire le differenze di trattamento che esistono tra

A


144 > ARCHITETTURA > Antonella Bertelli > L’arte dell’accoglienza

Il maggiore intervento di restauro Riportare l’edificio o il monumento all’antico splendore senza intaccarne la struttura originaria. Seguendo questo principio è stato recuperato lo Stadio del Nuoto di Genova. Un complesso, edificato negli anni 30, formato da 500 mq di area verde, 5 piscine regolamentari, un edificio storico di 400 mq destinato a centro di benessere, riabilitazione e palestra. Nelle vecchie gradinate in muratura che si affacciano sulle vasche esterne, sono stati ricavati spazi per piccole attività commerciali, ma l’atmosfera che si respira si è fermata a 60 anni fa. L’unico intervento di nuova costruzione, progettato dallo Studio Architettura Bertelli, è una palazzina nuova, che ben si integra con l’architettura del complesso e che sarà destinata a centro di servizi medico-sportivi. L’impegno assolutamente stimolante era di riportare all’utilizzo pubblico un insediamento edilizio così complesso adeguandolo alle norme tecniche vigenti, ma che rimanesse nel suo involucro storico, come previsto dalla Soprintendenza dei Beni architettonici.

«La buona architettura deve aiutare la gente a vivere meglio. E l’architetto deve donare calore agli ambienti giocando con i materiali e i colori» uomini e donne – ero in competizione per un lavoro di costruzione di alcuni edifici, ma vedevo che non c’era speranza, quando finalmente un amico mi dice chiaramente che se non mi fossi associata con un uomo non me lo avrebbero mai assegnato; così ho fatto e ho avuto l’incarico». Quanto al suo lavoro d’architetto, Bertelli tiene a sottolineare come lei cerchi sempre di donare a qualsiasi ambiente un senso di calore, giocando con i materiali e i colori. Per renderlo vitale. Sia esso un’abitazione o la nuova sede di una società. Come general manager dello studio associato in cui lavora, Antonella Bertelli vive, infatti, ogni progetto come una sfida che si considera vinta quando si riesce a valorizzare e migliorare la qualità di uno spazio. «I progetti più stimolanti riguardano la valorizzazione di luoghi


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Nella pagina accanto uffici della nuova sede Confindustria Liguria. Accantouffici realizzati a Genova

abitualmente anonimi e freddi, come gli uffici, di cui si considerano sempre le funzionalità tecniche e quasi mai si presta attenzione all’aspetto umano, cioè alla sensazione di accoglienza che dovrebbero trasmettere alle persone che vi trascorrono gran parte della loro vita» spiega l’architetto. E aggiunge: «Quando i clienti ci danno fiducia e carta bianca, riusciamo, in genere, a realizzare interventi con soluzioni veramente stimolanti». La filosofia che viene perseguita è, secondo Bertelli, anche abbastanza semplice, sebbene sia capace di produrre ottimi risultati. «Si tratta – afferma – di fare capire che la migliore opportunità, visto il costo del mattone e della mano d’opera, è di realizzare interventi che migliorino e valorizzino la qualità: un concetto semplice ma spesso ancora non compreso». Diverso è invece l’approccio quando si tratta di lavori di restauro, in questo caso al contrario l’apporto dell’architetto deve essere molto discreto. «Quando abbiamo riconsegnato alla

città di Genova lo Stadio di Nuoto, un complesso edificato negli anni Trenta e rimasto inagibile per molto tempo per le sue pessime condizioni, il complimento più bello che ho ricevuto è stato sentirmi dire che non era cambiato niente e che sembrava ritornato com’era 60 anni fa» ricorda soddisfatta. Oggi la struttura è dotata di impianti moderni ed è stata messa a norma di sicurezza per poter ospitare competizioni internazionali. Gli spazi verdi invece sono ritornati a essere un piccolo parco per i cittadini. In ogni caso prende le distanze dalle provocazioni architettoniche fine a se stesse che hanno solo l’obiettivo di stupire: «La buona architettura non si dovrebbe far notare troppo, non deve obbligatoriamente lasciare il segno, questo è più un compito dell’arte. L’arte può stupire, colpire, stimolare, rasserenare. L’architettura invece, soprattutto nelle nostre città, nei centri ormai iperurbanizzati deve aiutare la gente a vivere meglio comunicando armonia e grazia e del resto – conclude – come scriveva Baudelaire: la semplicità assoluta è il miglior modo per distinguersi».


148 > MODA > Giusi Ferrè > Il mio sguardo sul fashion

PER FILO E PER SOGNO Parlare di moda vuol dire parlare di noi stessi e della società in cui viviamo. Discutere sui continui rimandi a due mondi apparentemente lontani eppure così vicini. Analizzare la crisi che sta vivendo la moda italiana. Gli errori commessi e quelli da non ripetere. Ne è convinta Giusi Ferrè, giornalista per formazione e critica per professione di Concetta S. Gaggiano

a moda, come è noto, si sottrae a qualunque classificazione o definizione. È un argomento multiforme, raffinatamente futile e rigorosamente serio. La moda è anche globalizzazione. Un oggetto griffato, nel deserto africano, in una terra di fame, o nella grande metropoli, acquista senso perché appare in una vetrina, sullo schermo o su una rivista, sempre e solo come desiderio di essere. Come i corpi in primo piano: svelati, nascosti, costruiti come architetture. E di avere. Gli abiti tatuaggio, i veli evanescenti, i capi come strutture architettoniche. Le stampe ispirate a Gauguin, Kandinsky, Picasso. Conoscere la moda, in sostanza, vuol dire anche conoscere meglio noi stessi e la realtà che ci circonda, poiché la moda è, in altre parole, lo specchio, uno specchio, della società. «Tutte le espressioni artistiche risentono dell’influenza della moda – afferma Giusi Ferrè, giornalista e critica di moda e costume – ed essa stessa risente del periodo storico che vive. Oggi, per esempio, la sobrietà che gli stilisti esprimono in passerella è figlia dei nostri tempi. Magari tra non molto la moda riprenderà a correre sulle ali leggere della fantasia, ma per ora mi sembra molto più di buon senso». A dimostrazione dello stretto legame tra moda e società, il passato testimonia quanto essa abbia interagito, e continui a farlo, con la realtà circostante. Nel primo Novecento il francese Poiret, “le Magnifique”, cambiò totalmente la silhouette delle signore, regalando loro agilità e reinterpetando la tavolozza dei colori sui tessuti. A Coco Chanel va il merito di aver emancipato la moda femminile unendo il sogno alla praticità. Nel secondo Dopoguerra Christian Dior coglie il desiderio di rinascita della società proponendo colori pastello, vita stretta e lusso per dimenticare le privazioni

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Foto di Roberto Ponti / GRAZIA NERI

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Giusi Ferrè, giornalista ed esperta di moda


150 > MODA > Giusi Ferrè > Il mio sguardo sul fashion

1921 > Coco Chanel crea l’intramontabile profumo Chanel n°5 1978 > Gianni Versace presenta la prima collezione donna

© Fotogramma

della guerra. Negli anni 80 con Versace trionfa il lusso, la mania delle spalle grosse e dei corpi perfetti. Passando per gli anni 90 fino ad arrivare al ventunesimo secolo abbiamo assistito a un revival ciclico delle tendenze passate. «Ritengo che negli anni Ottanta la moda aveva un’immagine fortissima mentre adesso è molto meno incisiva – aggiunge –. Intanto è diventata non più vezzo per pochi ma consuetudine per tutti e questo ha fatto sì che perdesse l’invenzione, la creatività e forse anche l’eccentricità. Nello stesso tempo porta un concetto di abbigliamento che prima non esisteva: quello dell’abbinare un capo firmato a uno senza griffe». Un settore che nell’ultimo decennio ha avuto forse lo scossone più grosso dall’avvento del prèt-à-porter a basso costo che ha posto una questione: esclusività o diffusione? I grandi colossi della moda a basso costo offrono il

sogno delle passerelle a tutti. Abiti fatti a immagine e somiglianza delle grandi firme ma dalla qualità più bassa. «L’arrivo delle firme “low cost” ha costretto gli stilisti a lavorare di più sull’immagine. A mio avviso si è allargata la base del mercato, ma è anche vero che l'ha resa un po’ più banale. Evidentemente il diffondersi di questi supermercati della moda va a colmare una grande richiesta di abiti di tendenza ma anche accessibili ai più». Il rischio è quello di rimpiangere la Milano degli anni Ottanta, quella nota a tutti come la Milano da bere e del glamour. Di quel fascino mediatico che sotto l’ombra del Duomo ha visto nascere il prêt-àporter di Giorgio Armani; il genio di Gianni Versace; il duo Dolce & Gabbana, allora giovani promesse della moda. Oggi rimane indubbiamente la capitale della moda italiana ma in termini di business. «È vero, dal punto di vista della creatività la città non vive anni felici – spiega la giornalista –. A Milano si fanno solo gli affari, a questo servono le settimane della moda». Basta il confronto con gli eterni rivali, i francesi. L’industria della moda italiana, di cui Milano rappresenta il cuore e il luogo simbolico di riferimento, non è più espressione di creatività, ne è prova il fatto l’incapacità di riconoscere nuovi talenti e la mancanza di scelte coraggiose. Certo non c’è maison che non abbia una sede a Milano ma questo non basta per competere con le altre capitali. La caduta d’appeal sta provocando qualche disagio e la città inizia a soffrire della sindrome di abbandono. I fuggitivi ci sono e anche eccellenti. «È sorprendente che molto spesso i creativi italiani


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1947 > trionfa il new look promosso da Christian Dior 1980 > Richard Gere in American Gigolo impone lo Stile Armani Moda, disciplina della contemporaneità raggiungono il successo all'estero, ne sono uno splendido esempio Riccardo Tisci, talentuoso direttore artistico di Givenchy, Antonio Marras che disegna la donna Kenzo, Italo Zucchelli direttore creativo della linea uomo di Calvin Klein. La nostra immagine è quella di un Paese che ha avuto un successo straordinario alla fine degli

A sinistra, Giusi Ferrè

Moda, un argomento multiforme, raffinatamente futile e rigorosamente serio. Ma moda è anche mercato e globalizzazione

anni Settanta, dopodiché si è fermato tutto». E come se non bastasse, è sparita l’alta moda romana. Non tanto come manifestazione ma come espressione di creatività. Le manifestazioni romane si sono ridotte a semplice passerella per signore d’alto borgo che non attirano ormai né la stampa internazionale né tantomeno i compratori. In Francia invece, sfilano le maison più apprezzate e gli italiani che hanno abbandonato la nostra capitale. Armani, Versace, Giambattista Valli, bravo stilista della nuova generazione che ha scelto Parigi, e lo stesso ha fatto Antonio Berardi. Stilisti italianissimi che hanno preferito lo sfarzo parigino alle modeste passerelle romane. «La presenza dei cinque instancabili romantici che sfilano a Roma servirebbe se inserita in un parterre di giovani, perché potrebbe simboleggiare la tradizione e l’esperienza della manifattura italiana rispetto alla freschezza dei giovani designer, ma purtroppo non è così». Insomma, chi per un motivo chi per un altro, per avere un richiamo mediatico più internazionale spesso e volentieri va oltreconfine, in città con una vocazione più internazionale di Milano e Roma. A Parigi, che negli ultimi anni ha recuperato visibilità, arte, cultura e moda si sono saldati in un intreccio virtuoso tra privato e pubblico. «La moda va vista come una disciplina della contemporaneità, in sintonia con altri mondi come quello dell’arte, della cultura, ma manca un pensiero forte, una strategia, il che non aiuta neanche le nuove generazioni di creativi a emergere», conclude la giornalista. Già, lanciare un talento ha un costo enorme per cui è difficile trovare chi è disposto a farsi carico di costi e rischi. Più un settore diventa economicamente importante e meno è disposto a rischiare. Fatto sta che il nuovo si ispira e si combina sempre con un desiderio sociale profondo di cambiamento.


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152 > FASHION > Patrizia Pepe > Essere e apparire

riflessa è quella che vorrei, mi sento elegante

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GESTIONE CREATIVA E ATTENZIONE AL MERCATO Un inizio lontano dalla sua passione, poi l’inversione di rotta e l’incontro con la moda. Un marchio portato al successo grazie anche all’appoggio del marito. L’espressione della creatività di una donna che disegna per le donne moderne che vivono pienamente la propria vita. Patrizia Bambi racconta l’emozione degli inizi, la concretezza del presente e i sogni futuri di Concetta S. Gaggiano l successo è partito sicuramente dall’appeal, dallo stile frizzante delle proposte che hanno definito già dall’inizio una forte identità, creando fin da subito “lo stile Patrizia Pepe”. Un marchio da sempre apprezzato per essere un vero prêt-à-porter. Che si distingue per la vestibilità, le linee, l’assenza di eccessi, lo stile metropolitano. Da indossare facilmente in ogni occasione. Patrizia Bambi, in arte Pepe, mente creativa ma amministratrice accorta, lavora con grande attenzione al business, senza colpi di testa. La creatività è business, se guidata da uno spirito dinamico che al lavoro di ricerca associa la conformità al mercato. E seguendo questo logica non vuole testimonial famosi perché siano le consumatrici le migliori ambasciatrici del brand:

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donne contemporanee e vivaci che incarnano al meglio i valori di Casa Pepe. Con gli anni arrivano le collezioni uomo, bambina, la linea di profumi. L’obiettivo è andare oltre il prodotto moda attraverso la creazione di un mondo Patrizia Pepe in cui chi sceglie il marchio possa sentirsi parte di esso. «Vorrei che questo marchio diventasse uno stile di vita», dice accettando di parlare degli inizi, delle sue aspirazioni, dei sogni e del suo modo di vedere la sua grande passione.


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È un dualismo imperfetto quello dell’essere e dell’apparire nel mondo della moda, forse inutile, poiché si sovrappongono le forme e i contenuti, che sono inscindibili le une dagli altri


154 > FASHION > Patrizia Pepe > Essere e apparire

La moda è più essere o apparire? «Parlando di moda non si può escludere l’apparenza ma credo che la cosa importante sia l’essere, alla fine quello che conta è ritenere l’acquisto valido nel tempo. È un dualismo imperfetto quello dell’essere e dell’apparire nella moda, forse inutile, poiché si sovrappongono le forme e i contenuti, che sono inscindibili gli uni dagli altri». Cos’è oggi l’eleganza? «Non credo che il concetto di eleganza sia cambiato nel tempo. Oggi come ieri l’eleganza sta nella scelta del particolare, nella ricerca del dettaglio, nella scelta degli accessori sugli abiti e nella scelta dell’abito giusto al momento opportuno». E lei, quando si sente elegante? «Sono sempre convinta di quello che indosso quando esco di casa, non scelgo mai a caso. Pertanto tutte le volte che mi guardo allo specchio e mi accorgo che l’immagine riflessa è quella che vorrei, mi sento elegante». Cosa l’ha ispirata nel corso della sua carriera? «La musica rock è quella che mi appartiene, che influenza la mia creatività e l’umore e che ha un

Quale momento della sua carriera ricorda con maggior nostalgia, e quale invece il momento più critico? «Ricordo gli inizi con un po’ di malinconia perché è la mia avventura è partita quasi per gioco per cui non ho mai pensato a quali potessero essere le conseguenze ed è stato molto bello. Poi ho capito che ciò che piaceva a me alla fine aveva successo, e continuo ad avere conferme tutt’ora. Quando mi confronto con il mercato, invece, è sempre un momento critico. Sono costretta a tenere conto del fatto che una cosa che a mi piace non viene capita perché il momento non è ancora maturo, e lì provo un po’ di delusione. Perché mi accordo che la mia emozione si scontra con le regole razionali del mercato». Quindi non è vero che gli stilisti lavorano solo seguendo l’istinto creativo? «Non sempre ci si può permettere voli pindarici, soprattutto oggi bisogna calarsi nella realtà. Purtroppo credo che non ci siano stilisti che possono disegnare tenendo conto solo della creatività. La poesia da sola, soprattutto in questo momento non paga. È necessario guardare al mercato». Appunto. Ormai si parla solo di crisi ma qual è l’andamento del settore moda? «La moda sente e vive di riflesso questa crisi. Credo, però, che le continue iniezioni di negatività non

«Oggi come ieri l’eleganza sta nella scelta del particolare, nella ricerca del dettaglio, nella scelta degli accessori sugli abiti e nella scelta dell’abito giusto al momento opportuno» forte ascendente sull’immagine sia della donna che dell’uomo Patrizia Pepe. Sono convinta che la musica e il momento storico camminano sempre insieme. Dalla musica e dai movimenti musicali riesco sempre ad attingere idee per il mio lavoro». Lei è una donna di successo. Voltandosi indietro ha qualche rimpianto? «Non ho rimpianti né nel mio lavoro né nella vita privata. Ho sempre fatto ciò che mi andava di fare senza rimuginare troppo sulle conseguenze, altrimenti non sarei riuscita a fare nulla di quello che ho fatto. Professionalmente, all’inizio ho intrapreso una strada diversa dalla mia passione ma poi sono riuscita a risalire sul treno giusto».

servano a nessuno. La crisi così come ce la dipingono non è così reale, c’è un eccesso di ansia che porta la gente a non comprare i prodotti che non ritiene indispensabili». La qualità italiana e il made in Italy possono rappresentare ancore di salvezza per la nostra economia? «Sì, quando il made in Italy esprime qualcosa di veramente esclusivo, però credo che l’apertura e l’integrazione con i mercati esteri siano la soluzione. Vorrei che si facesse in Italia quello che veramente ci viene bene, ma ostinarsi a produrre qui se poi non si riesce a reggere la concorrenza non ha senso. Credo che invece si dovrebbe investire, oltre che nella


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Tutte le volte che mi guardo allo specchio e mi accorgo che l’immagine riflessa è quella che vorrei, mi sento elegante

moda, nel territorio, nell’arte, nel turismo. Abbiamo un territorio bellissimo, un bene inesauribile che tutti ci invidiano che è poco sfruttato». Crede che questo momento di profonda difficoltà che però pare preludere a una rifondazione del sistema potrà avere la forza di cambiare anche i canoni di bellezza? «È probabile che altri canoni di bellezza possano influenzare e modificare quelli attuali. Ma questa è solo ricchezza, non sono assolutamente spaventata dal futuro. Anzi, ben venga tutto ciò che è nuovo». Cosa sognano le donne che scelgono Patrizia Pepe? «La donna Patrizia Pepe è moderna, una donna che vive il suo tempo, che lavora, partecipa all’arte, alla cultura e che sogna magari un futuro in cui il suo coraggio venga apprezzato e riconosciuto». Come vede le donne oggi? «Forti e intelligenti. Credo che noi donne abbiamo un grosso potenziale basta esserne convinte e tirarlo fuori al momento giusto, senza paure o insicurezze.

Non voglio addentrarmi in discorsi femministi, ma le donne hanno una marcia in più, sono il futuro». Sempre più in carriera, sempre più single, sempre più simili agli uomini. È davvero così, o sotto sotto ci sono caratteristiche che restano sempre le stesse? «Al di là di alcune donne che scelgono solo la carriera, la maggior parte delle donne non è così. La donna dentro di sé ha sempre avuto la forza e la capacità di gestione ma non ne è mai stata convinta. Certo alcune cercano, sbagliando, di imitare gli uomini, ma quando tornano a casa diventano mamme e mogli. Questa duttilità è la vera forza della donna. Vivere la realtà sotto diversi punti di vista, la ammorbidiscono, e la rendono più sicura». Come ha interpretato la donna del 2009? «Ho disegnato ancora una volta una donna colorata, ironica, che ha voglia di giocare. Però noto che lentamente il nero, che rappresenta la paura, l’incertezza, sta avanzando. Io per ora resisto e ho disegnato una ballerina che diventa quasi una funambola».


156 > CREATIVITÀ > Simona Rosato > La magia di linee e colori

L’ELEGANZA È FARSI RICORDARE La creatività è espressione di una laboriosa ricerca di nuovi materiali e linee sempre attuali e alla moda, per rispondere alle richieste più esigenti. L’intervista a Simona Rosato, fondatrice e amministratore delegato di Rosato Gioielli di Concetta S. Gaggiano Il gioiello artigianale ha il fascino dell’oggetto unico e personale. La qualità dei materiali utilizzati, la cura dei particolari, la ricerca del dettaglio fanno di questi gioielli oggetti esclusivi. Belli non da vedere, ma da ammirare: il pregio di un vero gioiello fatto a mano è di saper suscitare in chi lo guarda emozioni, a prescindere dal valore dei materiali di cui è composto. Doveva avere in mente tutto questo Simona Rosato quando ha iniziato la sua avventura nella gioielleria made in Italy. L’occasione arriva dall’Estremo Oriente, dove la giovane ragazza di Lenola inizia il suo percorso nel settore orafo come assistente commerciale di un’azienda toscana. negli ultimi decenni hanno cambiato l’attitudine Lo scintillio delle pietre preziose e dell’oro la incanta all’acquisto e la concezione di gioiello, diventato non e proprio la via dell’oro sarà quella che Simona Ropiù o non solo “bene durevole” da conservare o regasato non lascerà più. Torna nella sua città d’adozione, lare in determinate occasioni. Nonostante ciò credo Arezzo, cogliendo la sfida di un’azienda propria con che la magia e il sogno che da sempre lo caratterizaltri giovani imprenditori. Da lì il passo verso una zano siano immutate. Anzi, credo che il cambiamaison tutta sua è breve, e insieme al marito si fa ar- mento della donna, da colei che tradizionalmente tefice di quel rischio imprenditoriale che nel nostro riceve il gioiello a colei che lo sceglie e lo acquista, Paese manca a molti. Da quel momento, grazie a non faccia che aumentare il fascino e l’allure del preestro creativo e impulsività nascono ori, smalti, piezioso stesso». tre preziose ammirate e acquistate in tutto il mondo e Simona Rosato entra di diritto nelle classifiche Come descriverebbe il rapporto tra lusso ed eledegli imprenditori di talento. A testimoniarlo anche ganza? la “Mela d’oro” per la sezione creatività, ricevuta in «Direi che è un rapporto di simbiosi. Il lusso per me occasione della ventesima edizione del Premio Belli- è la possibilità di scegliere una cosa che sento mia, sario, conferito ogni anno a professioniste e talenti al che mi appartiene ed esprime qualcosa di me. Credo femminile che hanno conquistato ruoli di vertice a che i miei gioielli esprimano il lusso di far sentire livello internazionale. La creatività, il lavoro di squaogni donna femminile e versatile. L’eleganza trae dra, i materiali preziosi e le sfide del mercato raccon- spunto da qui, non si tratta di qualcosa di classico o tati da Simona Rosato. statico ma di energia e fascino derivanti dal sentirsi bene con se stessi, con gioielli che esprimano la proCosa è rimasto nell’immaginario femminile del pria vitalità». prezioso? «È risaputo che i cambiamenti sociologici avvenuti Qual è la nuova concezione del gioiello?


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Simona Rosato, fondatrice e amministratore delegato di Rosato Gioielli


158 > CREATIVITÀ > Simona Rosato > La magia di linee e colori

«Una volta si dava valore al materiale, oggi diamo importanza alle forme e ai volumi. Sono importantissimi il colore e l’accostamento dei metalli preziosi. L’acquisto di un gioiello o di un altro oggetto di lusso è un impulso, frutto di un meccanismo di seduzione che l’acquisto esercita sul proprio modo di essere. Un gioiello può essere abbinato a ciò che si indossa oppure essere il simbolo stesso del carattere di una donna. La gioielleria, o almeno una parte di essa, sta cercando di avvicinarsi sempre più al mondo della moda con i colori, i mood, le tendenze che cambiano rapidamente stagione dopo stagione». Come nasce una creazione Rosato? «Tutto inizia dall’ispirazione, dal sogno. Poi il sogno deve tradursi in realtà e qui subentra lo staff creativo che cerca di riprodurre la mia idea prestando attenzione alle forme e alle proporzioni. Il nostro è un lavoro di squadra, fatto di cura maniacale per il dettaglio e di ricerca della perfezione». Arte orafa e nuove tecnologie. Qual è l’equilibrio in casa Rosato? «Ogni passaggio, ogni singolo attimo della lavorazione è fondamentale, per questo abbiamo cercato di mantenere un giusto mix di esperienza artigianale e innovazione. Utilizziamo tecniche antiche come la

fusione a cera persa ma anche tecnologie avanzate come la saldatura a laser». Anelli da mille e una notte ma anche ciondoli in cui lo smalto pare giocare con l’oro. Un po’ principessa e un po’ eterna bambina. Qual è la donna a cui pensa mentre crea? «Sono tante, a dire il vero. Ho scelto Elizabeth Hurley come testimonial della nostra ultima campagna pubblicitaria perché è modella, stilista, attrice, produttrice cinematografica. È donna, moglie e madre. Insomma è una e tante donne insieme. Volevo mostrare come i gioielli Rosato possano essere simpatici e colorati ma anche sexy e trendy, sofisticati ed eleganti. Le nuove immagini mostrano queste nuove realtà in maniera superba». Parlando di mercato, qual è l’andamento del settore? «Il settore orafo attraversa un momento di grandi cambiamenti. Da una parte soffre un po’ di problemi oggettivi legati al rincaro del prezzo dell’oro, ai mutamenti sociologici, economici e attitudinali relativi all’acquisto del “bene gioiello”. Dall’altra parte vi sono tendenze estremamente interessanti quali l’avvicinamento della gioielleria alla moda, il crearsi di una nuova tipologia di gioielli interpretati come accessori del proprio stile personale che, pur mantenendo il valore intrinseco dell’oro, diventano più accessibili e soprattutto versatili». Come è possibile conquistare nuove fasce di clienti? «Continuando a studiare i cambiamenti di gusto, le tendenze, prestando grande attenzione alle nuove realtà che si affacciano sul mercato. La parola chiave è modernità. Il mondo dell’oro deve migliorare in questo, senza tradire la sua grande tradizione e il rispetto del made in Italy ma cercando di essere più veloce e attento alla realtà». Le vostre collezioni sono diversificate. Quale strategia di marketing sottende a questa scelta? «La nostra strategia è mostrare come i nostri gioielli possano essere perfetti per tante donne. Dalla ragazza giovane che vuole qualcosa di carino e versatile alla donna sexy e intraprendente, a quella elegante e raffinata».



160 > GRIFFE DI NEA > Simonetta Ravizza > Mettersi in gioco

LA MIA DONNA non sogna. SI REALIZZA Eleganza e stile autentici. Non apparire ma essere. Mettersi in gioco. Sempre. Questo l’ABC di Simonetta Ravizza. Firma incontrastata della pellicceria made in Italy DI VALERIA

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Accantonate le remore degli anni Novanta e le aspre battaglie animaliste di allora, la pelliccia è stata nuovamente eletta oggetto del desiderio femminile: una redemption siglata della potente direttrice di Vogue America, Anne Wintour, che dopo decenni di “astinenza”, indossandola, ne ha decretato una volta per tutte l’assoluto ritorno in auge. Sdoganata, dunque, da un esercito di stilisti di grido che l’hanno riproposta in mille versioni, la pelliccia è oggi uno status symbol, un piacere da possedere e da esibire, oltre che un irresistibile capo di punta delle collezioni invernali. E quando si parla di pellicce, non si può non parlare di Simonetta Ravizza, l’imprenditrice stilista che, insieme ai fratelli Ruggero e Riccardo, regge le redini della maison Annabella, la storica griffe di Pavia che ha introdotto in Italia il prêtà-porter della pellicceria. Simonetta, ogni giorno, coordina un’equipe di stilisti con una caparbietà manageriale fuori dal comune e allo stesso tempo esprime tutta la sua femminilità e tutta la creatività firmando una collezione che porta il suo nome: una griffe nella griffe in grado di donare linee attuali, portabili e leggere a questo magnifico capo. L’entusiasmo, l’impegno, la determinazione e la consapevolezza di doversi sempre mettere in gioco sono i tratti distintivi di

Simonetta Ravizza, l’imprenditrice stilista che, insieme ai fratelli Ruggero e Riccardo, regge le redini della maison Annabella


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«Eleganza è saper scegliere ciò che è giusto per sé, senza cadere negli eccessi, ma con personalità e buon gusto. Più che un vestito è un atteggiamento, che, dunque, non si può acquistare» questa eclettica creatrice di moda che trova ispirazione ovunque: nella vita di tutti i giorni, nella «normalità-creativa» dei giovani, così come nel guardaroba della figlia. Figlia d’arte cresciuta a pane e moda, Ravizza non può che raccontare lo scintillante mondo del fashion. Un universo per antonomasia vicino alle donne, eppure composto in buona parte da uomini: da Armani a Valentino, passando per John Galliano, Marras e Ralph Lauren. Secondo lei perché il mondo della moda è popolato da così tante firme maschili? «Molti stilisti, non lo si può negare, hanno una profonda sensibilità femminile. A volte anche più spiccata di quella delle stesse donne. Ed è proprio questo perfetto mix a renderli sapienti interpreti dei desideri femminili in fatto di moda. Per me non c’è una poetica maschile e una femminile nel “fare” moda. C’è una poetica e basta, che gioca sul bisogno di autogratificazione della donna e sull’esigenza, sempre viva nell’universo femminile, di piacere agli uomini». Venendo alla sua carriera, quale è stato il momento più difficile? «Questo non è certo un momento facile: è un periodo di scelte complicate, da affrontare con la consapevolezza che il mondo dei consumi sta profondamente cambiando. Ma non mi spaventa, perché ho dalla mia l’ottimismo


162 > GRIFFE DI NEA > Simonetta Ravizza > Mettersi in gioco

Simonetta Ravizza, regina del mondo della pelliccia made in Italy Non esiste una poetica maschile e una femminile nel “fare” moda. C’è una poetica e basta, che gioca sul bisogno di autogratificazione della donna e sull’esigenza, sempre viva nell’universo femminile, di piacere agli uomini.

per lei una musa? «Non vorrei peccare di presunzione, ma non ce ne è una in particolare, o meglio: sono io. Nel senso che quando disegno penso sempre a ciò che mi piacerebbe indossare e a ciò che vorrei abbinare. Creo, insomma, ciò che piacerebbe indossare a me».

dell’entusiasmo». E quello più fulgido? «Cinque anni fa, quando ho iniziato a pensare che la mia collezione sarebbe stata apprezzata anche all’estero. Così abbiamo dato il via a un ambizioso progetto di distribuzione del brand “Simonetta Ravizza”: l’accoglienza che ci ha riservato il mercato e l’entusiasmo degli addetti ai lavori sono stati di gran lunga superiori alle aspettative». Da dove trae ispirazione per le sue collezioni? «Dalla vita di tutti i giorni e dalla “normalitàcreativa” dei giovani. Quando vedo mia figlia rovistare nei miei armadi e quando mi scopro incuriosita dalle scelte che fa in fatto di moda, penso che non esista una differenza generazionale». C’è una donna in particolare che rappresenta

E cosa sogna la donna che sceglie Ravizza? «La mia non è una donna che sogna, ma una donna che si realizza! La donna che ho in mente quando penso le mie collezioni non vuole essere o apparire ma “è”. Chi veste Ravizza non è una fashion-victim desiderosa di esibire una griffe alla moda, ma una donna consapevole della propria femminilità e della propria eleganza». E cos’è l’eleganza per lei? «Nella moda l’eleganza è saper scegliere ciò che è giusto per sé, senza cadere negli eccessi, ma con personalità e buon gusto. È fondamentale, però, ricordare che l’eleganza più che un vestito è un atteggiamento, che, dunque, non si può acquistare». Quale capo non può mai mancare nel suo guardaroba? «Oggi potrei dire un gilet, ovviamente in pelliccia! L’ho lanciato quest’anno e ne sono la prima testimonial e sostenitrice: sopra un pullover, un abito da sera o addirittura sopra o sotto un cappotto. Insomma il gilet è un vero passpartout da non lasciarsi sfuggire».



164 > LA MODA DI NEA > Cristina Ferrari > La qualità in un marchio

VI SPIEGO PERCHÉ SERVE AVERE FISICO Ha portato il prêt-à-porter sulle spiagge. Ha introdotto il concetto di fashion nell’abbigliamento da mare. I suoi costumi scintillano sulle sabbie bianche di Porto Cervo e nelle notti della Versilia. È una first mover. Perché ha saputo conquistare una delle poche nicchie rimaste ancora libere nella moda italiana. Incontro con Cristina Ferrari e il suo Fisico DI

LAURA PASOTTI

Talitha Getty. Forse non sono molti coloro che la ricordano oggi. Ma fu una delle icone della Swinging London, la “rivoluzione culturale” che attraversò la Gran Bretagna alla fine degli anni 60 e coinvolse musica, moda, fotografia, cinema e arte e i cui simboli riconosciuti a livello mondiale furono i Beatles e la minigonna. Le atmosfere e la filosofia di quegli anni, ispirati da ottimismo ed edonismo, rivivono oggi nella collezione 2009 di Cristina Ferrari, ideatrice di Fisico. Forse non una rivoluzione culturale come quella inglese di quasi quarant’anni fa, ma certo un vero e proprio cambiamento nel “costume”. Le virgolette sono d’obbligo visto che di moda da mare stiamo parlando. Anche se è vero che Fisico ha rivoluzionato gli schemi della moda, portando il prêt-à-porter sulle spiagge. E in questo Cristina Ferrari è stata senz’altro una absolute beginner, come l’avrebbero chiamata negli anni 60 richiamandosi alla famosa pellicola di Julian Temple, o una first mover, come invece diremmo oggi. Sua è, infatti, l’idea che l’estate si compone di diversi momenti e sua la scelta di «realizzare costumi non solo per chi li usa per fare il bagno — spiega — ma anche per coloro che possono esibirli su spiagge esclusive e yacht». Se prima il costume era solo un complemento a cui veniva prestata scarsa attenzione e che serviva solo per andare in spiaggia, fare il bagno e niente più, con l’ingresso di Fisico, creato da Cristina Ferrari e dal marito Mario Bergamini (ad della società Crisfer che gestisce il marchio), il concetto di “moda mare”

è completamente cambiato. L’idea vincente? Cristina Ferrari non ha dubbi: «Constatare la totale mancanza in tale ambito di un prodotto esclusivo,

Cristina Ferrari. Negli anni 90 un viaggio in Brasile le ha ispirato l’idea di creare il marchio di beachwear Fisico. Crisfer, la società che gestisce il marchio e di cui è ad il marito Mario Bergamini, è una partecipata (al 50%) della Burani Designers Holding


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Cosa si nasconde dietro Fisico

© SETTIMIO BENEDUSI

Vestibilità dei capi, qualità dei materiali, attenzione al particolare, innovazione e costante attività di ricerca

Perché scegliere uno dei suoi costumi? Per assecondare il desiderio di sentirsi a proprio agio, anche in spiaggia

Le fonti di ispirazione Viaggiare e scoprire posti nuovi. Il Brasile è sicuramente una delle fonti per eccellenza delle mie collezioni. Ma anche l’Upper East Side di New York e le bellezze italiane: le spiagge di Capri, Portofino, Panarea, Porto Cervo e Forte dei Marmi

Il futuro di Cristina Ferrari Voglio creare un profumo. Una fragranza che rappresenti il corpo e il Fisico. E poi una linea di cosmetici per il mare

elegante e di alta qualità che rispondesse alle esigenze della fascia più alta della clientela e conquistare questa “nicchia” di mercato». È nato così il bikini interamente realizzato da una rete di cristalli Swarovski diventato un vero e proprio must sulle spiagge più esclusive che «di giorno abbinato a poncho, caftani o parei, mentre di notte, risplende sotto una giacca o una camicetta». Qual è la filosofia che si nasconde dietro il marchio Fisico? «Vestibilità dei capi, qualità dei materiali, attenzione al particolare, innovazione e costante attività di ricerca. E soprattutto valorizzazione del made in Italy». Eleganza. Qualità. Stile. Sono alcune caratteristiche che contraddistinguono i costumi Fisico. Perché una donna dovrebbe comprarne uno? «Il desiderio di sentirsi a proprio agio, anche in spiaggia».

Quale crede debba essere, nella moda, l’equilibrio fra tradizione e innovazione? «Nella moda si è vincenti se si innova. Sempre. Nei materiali, negli accessori e nei dettagli fashion più che nello stile. Occorre, infatti, rimanere fedeli alla propria tradizione stilistica. È questa che rende riconoscibile il prodotto e fidelizza la clientela». Le sue collezioni di beach-couture riflettono la sensualità, i colori e la magia del Brasile. Il nome dato al marchio esprime la fisicità tipica di quel Paese. Che cosa l’ha conquistata di quella terra? «La forza e i mille colori. E poi la capacità delle donne brasiliane, conosciute in tutto il mondo per il loro fisico perfetto, di mostrare il proprio corpo con grande sensualità e allegria, senza mai sconfinare nella volgarità». Quali sono le altre fonti di ispirazione per le sue creazioni?


166 > FASHION > Sirena Styling > Dalla tradizione il futuro

COSTUMI D’AMARE

DI

CONCETTA S. GAGGIANO

Sabrina e Sandra Montanari sono a capo di Sirena Styling, un’azienda che miscela passato e innovazione, artigianalità nella lavorazione e creatività nelle collezioni «I punti di forza delle nostre creazioni sono la qualità e la cura delle rifiniture»

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La tradizione, le tendenze, la qualità Insieme hanno creato un’azienda attenta alle esigenze delle donne che lavorano senza rinunciare a essere mamme

Sabrina e Sandra Montanari nel loro stand a Londra alla fiera Viva Italia Show

dei materiali, la cura delle rifiniture e naturalmente un'attenta valutazione delle tendenze moda, che collocano il nostro prodotto in un target medio alto del mercato» spiega Sandra Montanari, responsabile dell’area creativa, produttiva e amministrativa di Sirena Styling. Il marchio propone due linee, Lady e Young, pensate per donne e ragazze che amano la cura del particolare, seguendo il trend del momento senza dimenticare la qualità e la vestibilità dei tessuti, distribuite anche in Francia, Russia e Slovenia. Inoltre, è in fase di avvio il progetto di vendere i costumi da bagno anche attraverso il sito Internet. «Siamo quasi tutte donne che cercano di conciliare lavoro e famiglia. Per questo dal 2001 abbiamo adottato un orario di lavoro part-time continuato, che meglio si adatta alle esigenze di chi, tra noi, ha figli. Iniziativa – conclude Sabrina Montanari – che è stata premiata da Confartigianato e Cna di Rimini».

© SETTIMIO BENEDUSI

irigere al femminile un'azienda dovrebbe essere probabilmente differente dal dirigerla al maschile. Per Sabrina e Sandra Montanari guidare l’azienda di famiglia vuol dire farlo con le abilità che le donne hanno sviluppato ancestralmente. Grazie a un modo d’essere più sensibile, intuitivo e creativo. Che riesce a mediare nei conflitti, collaborare piuttosto che competere. Abilità che si esprimono nella comunicazione e nelle relazioni personali. Con il passaggio di consegne, le due sorelle hanno ereditato l’azienda del padre Giovanni, fondata agli inizi degli anni Sessanta. Nasce così nel 1991 Sirena Styling, che, attraverso il marchio Olymare beachwear, produce costumi da bagno e corsetteria con marchio Sirena. «Nel solco della tradizione italiana, i punti di forza delle nostre creazioni sono la modellistica, la qualità


© SETTIMIO BENEDUSI

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«Ho scelto di realizzare costumi non solo per chi li usa per fare il bagno ma anche per coloro che possono esibirli su spiagge esclusive e yacht» «Viaggiare e scoprire posti nuovi mi dà ispirazione. Il Brasile, dove torno due volte l’anno, è sicuramente una delle fonti per eccellenza delle mie collezioni. Per la collezione P/E09 mi sono ispirata, invece, alle donne raffinate dell’Upper East Side di New York e ho creato abiti lunghi che trattengono grandi balze scivolate e caftani in georgette nera indossati su bikini gioiello. Il punto fermo delle mie creazioni rimangono, però, le bellezze italiane: le spiagge di Capri, Portofino, Panarea, Porto Cervo e Forte dei Marmi. Ognuna di esse mi dà le emozioni giuste per creare qualcosa di davvero chic. E poi c’è l’arte. Il suo legame con la moda è davvero fortissimo». Il costume è sicuramente un simbolo per la donna. Terrore per chi è in sovrappeso, occasione di mostrarsi per chi, invece, vanta una linea invidiabile. Com’è possibile soddisfare entrambe? «Le mie collezioni sono pensate per una donna reale e per valorizzare la sua fisicità. Sono stata la prima a utilizzare per il beachwear materiali morbidi, elasticizzati e di grande vestibilità, come la microfibra, e a eliminare lacci ed elastici che erano la maggiore fonte di inestetismi e di insoddisfazione femminile. Non voglio mortificare la donna, ma valorizzare le sue forme e renderla più sicura. La donna che veste Fisico deve sentirsi

più bella, più sensuale e, soprattutto, a suo agio in costume. È questa la mia ambizione». Oggi anche altri grandi marchi della moda hanno fatto il loro ingresso in questo settore. Lei riesce, comunque, a mantenerne la leadership. Come ci riesce? «Puntando su innovazione, qualità, total look e jogging couture. Fisico è stato il precursore di due innovazioni in seguito adottate dalle più grandi griffe, uso di materiali morbidi e del “bicolore” per creare un costume reversibile e indossabile in due colori opposti. La qualità si riscontra, oltre che nei materiali, anche nella lavorazione che viene arricchita da paillettes, guarnizioni metalliche in smalti colorati e cristalli Swarovski. Stiamo ampliando la linea con capi di abbigliamento e capi spalla destrutturati, con accessori curati da artigiani italiani e aprendo al “tempo libero”, un segmento di mercato interessante in cui proponiamo capi preziosi e curati con dettagli couture». Dopo aver portato il prêt-à-porter in spiaggia, quale sarà la prossima sfida di Cristina Ferrari? «Voglio creare un profumo. Una fragranza che rappresenti il corpo e il Fisico. E poi una linea di cosmetici per il mare».


168 > ABITI DA SPOSA > Laura Pieralisi > La mia qualità esclusiva

CONFEZIONIAMO UN SOGNO DI

CAMILLA BIANCHI

Ogni sposa desidera l’abito giusto, che la faccia sentire bellissima. Per Laura Pieralisi non importa se lungo o corto, bianco o colorato, elegante o vivace, quello che importa è che ognuna lo senta proprio iovane stilista romana d’alta moda, per Laura Pieralisi, l’amore per le stoffe e l’artigianalità è una questione di famiglia. Ereditata dalla nonna Teodolinda prima e dalla madre Miryam poi, la sua è una tradizione che dura da sessant’anni e che adesso come allora è rimasta uguale. «Ci dedichiamo alla ricerca del particolare che, nell’eleganza e sobrietà, ci contraddistingue da sempre. Adesso come allora mettiamo nel nostro lavoro lo stesso entusiasmo, la stessa serietà, dedizione e disponibilità» spiega la giovane stilista romana. Gli abiti da sposa confezionati nell’atelier sono frutto di una lavorazione artigianale accurata grazie alla continua ricerca della giusta armonia tra innovazione e tradizione e a uno studio attento sulla qualità e sui materiali. Laura Pieralisi ha fatto dell’abito da sogno per eccellenza, un capo sobrio e raffinato, coniugando l’alta sartorialità ai costi contenuti. «Per offrire l’occasione a tutte le spose, qualsiasi sia la loro disponibilità economica, di indossare un abito esclusivo e di grande qualità».

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Quali sono i tessuti maggiormente utilizzati per confezionare gli abiti? «Collaborando da sempre con le più importanti industrie tessili italiane, siamo riuscite a creare tessuti di altissima qualità che incontrano perfettamente le esigenze delle nostre spose». Cosa chiedono le future spose entrando nel vostro atelier? «A noi si rivolgono le donne che amano le linee pulite, squisitamente sartoriali, e i tessuti pregiati, consapevoli di poterli personalizzare secondo le proprie esigenze e i propri gusti». Qual è il vostro rapporto con le clienti? «Di fiducia assoluta. Quando entra nell’atelier la sposa si sente come a casa propria, consigliata al meglio e seguita dall’inizio alla fine»

Sopra, la stilista romana Laura Pieralisi. A sinistra, un abito da sposa dallo stile classico e romantico


MATRIMONI > Fiori d’arancio > Tendenze e prezzi

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DAL BOUQUET AL PORTAFOGLIO Da sempre considerato il “giorno più bello”, specialmente per la sposa, il rituale del matrimonio inizia molto prima della cerimonia. A cominciare dalla lista degli invitati, il catering, la scelta degli anelli, i fiori, fino a giungere alla scelta dell’abito di Concetta S. Gaggiano

el 2007 hanno detto “Sì” 242.200 coppie, in calo rispetto all’anno precedente. Ci si sposa sempre meno, sempre più tardi e sempre più spesso in comune. Gli sposi alle prime nozze hanno un’età media di 32 anni, quattro in più rispetto ai loro genitori. Ci si sposa molto di più al Sud e nelle Isole che al Nord. Sono in netta crescita i matrimoni civili, le seconde nozze e i matrimoni misti. È la fotografia dell’istituzione matrimonio all’italiana. Quella sillaba pronunciata a voce alta o titubante, resta un momento fatidico, ma è un consenso sempre più costoso: oggi un matrimonio senza esagerazioni, costa non meno di 27mila euro. Ma, per chi non si accontenta e punta a nozze hollywoodiane, si può arrivare a spendere fino a un massimo di 48milaeuro. Ma chi non ha mai desiderato un matrimonio perfetto? Recentemente abbiamo visto lo sfarzo del matrimonio di Elisabetta Gregoraci e Flavio Briatore. Ma volgendo lo sguardo al passato resta indimenticabile il giorno in cui Grace Kelly sposò il principe Ranieri di Monaco trasformando la realtà in fiaba e accendendo fantasie e sogni. E come dimenticare il 29 luglio 1981, giorno delle nozze di Lady Diana Spencer con il Principe Carlo d’Inghilterra, seguite in mondovisione da milioni di persone. Negli anni Novanta l’abito non ha più uno stile preciso, ma rispetta la personalità della sposa,

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Stranezze da un matrimonio Conosciamo bene le usanze Italiane, ma nel resto del mondo, come ci si sposa? A Las Vegas ci si sposa in qualsiasi momento in meno di un minuto e per pochi dollari. Nelle Hawaii sono le ghirlande di fiori le protagoniste indispensabili, sia per gli sposi che per gli invitati. Nella Corea del Sud la cerimonia nuziale si tiene nei parchi cittadini, lo sposo e il suo corteo arrivano a cavallo, la sposa in una carrozza chiusa per nasconderla dagli sguardi indiscreti. In Afghanistan uomini e donne partecipano alla cerimonia e ai ricevimenti separati. I regali li danno gli sposi agli invitati: mandorle per gli uomini, simboli del lavoro domestico per le donne. In Iran la parte culminante della cerimonia è quando i due sposi si specchiano, per la prima volta dopo il Sì davanti a un grande specchio. In Russia la cerimonia è molto simile alla nostra ma l’abito da sposa è blu, gli sposi tengono in mano delle candele e mentre si apprestano al fatidico Sì e a scambiarsi gli anelli, la sposa può tirare il bouquet alle amiche fidanzate. In Cina durante tutto il giorno delle nozze la sposa non può parlare e deve rimanere a digiuno.


170 > MATRIMONI > Fiori d’arancio > Tendenze e prezzi

Sopra, un banchetto imbandito. Sotto, la fede in oro giallo con cinque diamanti D. Side, codesigned Damiani and Brad Pitt. Nella pagina accanto, Tiziana Rocca

l’età e lo stile di vita e ne soddisfa il crescente desiderio di romanticismo. E oggi? «Oggi si tende a fare cerimonie sicuramente più brevi, soprattutto nel Centro e nel Nord Italia – spiega Tiziana Rocca, primadonna nell’organizzazione degli eventi e nelle pubbliche relazioni e wedding planner per pochi e selezionati fortunati –. Si è capito che il matrimonio non deve annoiare ma può essere anche una festa divertente, il trend di questo periodo è buffet con meno portate e cerimonia disinvolta». I fiori d’arancio sono uno degli

appuntamenti più importanti, quando un uomo e una donna decidono di fare un passo fondamentale verso il futuro. Negli ultimi anni, è cresciuta la tendenza ad affidare a un professionista la cura di questo particolare evento. Dalla location del ricevimento all’abito da sposa, dalla torta nuziale ai fiori più adatti per la chiesa, sono molte le decisioni da prendere, tutte importanti al fine della perfetta riuscita del matrimonio. È in questa situazione che la figura del wedding planner diventa fondamentale. Un mestiere difficile, che insieme alla competenza e al gusto, unisce un tocco di spettacolarità, senza trascurare la qualità più importante, la capacità di risolvere sempre, e in ogni situazione, qualsiasi tipo di problema. Si


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Il trend di questo periodo è buffet con meno portate e cerimonia disinvolta

tratta di colui che organizza tutto (ma proprio tutto) quello che serve per fare un matrimonio coi fiocchi. La sua figura è esplosa negli ultimi cinque anni, tanto che oggi è diventato di routine nelle cerimonie più chic. Si occupa di ogni dettaglio: dall’abito della sposa ai viaggi degli invitati; dalle bomboniere all’intrattenimento musicale. «Il primo passo – prosegue Tiziana Rocca – è quello di decidere con gli sposi il tema del matrimonio e la location. Non ci sono limiti a quello che può essere realizzato, dalle più sofisticate ricostruzioni storiche alle ambientazioni più moderne e dinamiche. Sogni e fantasie che diventano realtà, grazie ad allestimenti grandiosi, location inusuali, cura e ricerca fino all’ultimo dettaglio. L’obiettivo è stupire, sorprendere e divertire gli sposi e i loro ospiti in tutti i momenti della giornata». Ma andiamo con ordine. Il menu: che sia un cocktail con aperitivo e rinfresco, un buffet, un pranzo o una cena al tavolo, la parola d’ordine è qualità. Sushi, multietnico o vegetariano sono le ultime tendenze per il banchetto di nozze oltre agli evergreen come caviale, carne pregiata, ostriche e piatti elaborati. A seguire l’abito da sposa, senza dubbio il protagonista di tutta la cerimonia. La sposa del 2009 sarà volubile e sofisticata, elegante ma sfacciata, intraprendente ma eternamente legata al romanticismo. Una scelta vincente sono le sfumature dell’oro e dell’argento, stoffe rosate o sfocianti nel lilla, i colori del mare o il rosso. Addio all’eterno abito da sposa bianco, simbolo di una tradizione ormai superata, che lascerà il posto a una moda fresca per donne dinamiche e all’avanguardia.

Ritorna lo stile impero rivisitato in chiave moderna e il pizzo macramè. E poi i gioielli, una parte fondamentale dell’abbigliamento di ogni sposa e di ogni sposo. Per lei diamanti, oro bianco e platino. Per lui un orologio all’altezza della situazione. Per le fedi nuziale, oro giallo, come vuole tradizione ma anche l’oro bianco e quello rosa possono essere delle valide soluzioni. Per il bouquet gli estremi sembrano prendere il sopravvento: grandi fasci di calle o rose a gambo lungo, e di orchidee giganti si

«Dalla location del ricevimento all’abito da sposa, dalla torta nuziale ai fiori più adatti per la chiesa, sono molte le decisioni da prendere, tutte importanti al fine della perfetta riuscita del matrimonio» alternano a bouquet minimal, di sola nebbiolina chiusa in una scatola trasparente o composti da un solo fiore portato nel palmo di una mano. Di sicuro effetto il bouquet sposa monocromo su abiti bianchi, e resiste il classico tondo composto da rose bianche-avorio. Infine, riflettori puntati sulla torta nuziale, ideata e disegnata in linea con lo stile del matrimonio, che rappresenta il momento finale e di grande festa intorno agli sposi. Un bell’investimento che gli sposi, e le famiglie, affrontano spesso facendo dei sacrifici. Ma lo fanno volentieri convinti, almeno al momento del Sì, che la prima volta sarà anche l’ultima.«Ormai tutti vogliono spendere il giusto. I tempi sono cambiati, bisogna risparmiare e fare ugualmente tutto quello che si deve fare», conclude Tiziana Rocca.


172 > L’INCONTRO NEA > Benedetta Barzini > Ex modella, opinionista, docente...

LA BELLEZZA è UN’INVENZIONE «La mia esperienza nel settore mi ha insegnato che attraverso gli abiti si può leggere il mondo». Benedetta Barzini è una lucida testimone di mezzo secolo di moda. Modella prima, spettatrice poi. Da scrittrice e giornalista ne ha indagato luci e ombre. Prediligendo le seconde

«L’Italia è un mondo a parte, qui la moda è marcia. In America, in Inghilterra e in Francia la moda è un argomento culturalmente portante, in Italia è ben diverso. Non abbiamo ancora capito che parlare di moda significa parlare di economia, di politica, di antropologia, di sociologia e di argomenti che non hanno nulla a che vedere con le ultime collezioni». Benedetta Barzini, sessantaquattro anni, modella famosa negli anni Sessanta, non critica. Colpisce. E lo fa senza pietà. E il suo j'accuse è duro. Perché la Barzini è radicale, va alle origini della questione. «Le modelle oggi sono merce in vendita, il sistema se ne serve per rendere più appetibile il prodotto». Lei, però, ha fatto parte del mondo del sistema. «Allora era diverso, noi dovevamo stare immobili, truccate e pettinate, anche per 15 minuti in attesa che i tecnici finissero di sistemare le luci. Le modelle non avevano voce in capitolo. Eseguivano e basta, senza lamentarci né fare capricci» dice con una punta d’orgoglio, seduta nel suo studio di Livorno privo di computer. Sulla scrivania solo una macchina da scrivere, meccanica. E poi libri, stampe, disegni, fotografie, ricordi e quadri. Ha fatto della sua vita un’eterna battaglia contro l’immagine svalorizzata della donna nel fashion system e nel mondo. In quarant'anni com'è cambiato l'ambiente? «Allora la diva era l’attrice, non la modella. L’indossatrice doveva mostrare il vestito, non se stessa. Inoltre, il mercato era ristretto; oggi approssimativamente è quintuplicato, vige la massificazione, la velocizzazione dei ritmi, a scapito della qualità. Poi denaro e fama identificano le ragazze: l’aspirante, la quasi top, la top model, la regina delle top, tutto questo non fa altro che esasperare il sistema».

© FOTOGRAMMA

di Concetta S. Gaggiano


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Quali emozioni le ha dato la passerella? «Le poche volte che sono salita su una passerella l’ho fatto perché volevo mostrare l’abito che stavo indossando: la forma, la consistenza, i volumi. Sfilavo in funzione dell’abito. Quei trenta secondi che ogni modella ha a disposizione sono importantissimi, perché in quella frazione deve trovare il modo di dare senso a ciò che indossa». E l’obiettivo della macchina fotografica? «Mi terrorizzava. Era come giocare alla preda e il cacciatore. Sei inchiodata su una scenografia e il fotografo ti “spara”. Non è un caso che in inglese il termine si traduca con to shoot, sparare. E basta guardare la faccia delle modelle per capire». In quegli anni ha frequentato anche la New York delle avanguardie artistiche. Ha notato paralleli tra arte e moda? «Non vedo nessun rapporto tra arte e moda. La moda è un sistema. L’arte è un linguaggio di gruppo. Penso alla Parigi negli anni Venti o alla Bauhaus. Sono cose molte diverse per come nascono e si sviluppano. Se penso alla moda da un lato vedo l’alto artigianato quando è l’espressione di un vero creativo, e dall’altro un prodotto che si vende nei negozi e si definisce “trendy”. Se poi penso all’utilizzo dell’abito come linguaggio creativo ci sono voci solitarie come Missoni e John Galliano e il primo Gianni Versace che attraverso l’alta sartorialità esprimono una loro poetica». Cos’è l’eleganza per Benedetta Barzini? «L’eleganza è il silenzio, l’autenticità. Una persona è elegante quando non si trasforma, non

Lo stile, la bellezza, la moda. Ma, soprattutto, le idee Una persona è elegante quando non si trasforma, non cerca di essere uguale a un’altra, non vive nell’ossessione di scrollarsi gli anni dalle spalle


174 > L’INCONTRO NEA > Benedetta Barzini > Ex modella, opinionista, docente...

cerca di essere uguale a qualcun altro, non vive nell’ossessione di scrollarsi gli anni dalle spalle. L’eleganza vera è sentirsi concretamente liberi dal considerare un abito parlante, dal bisogno di acquistare le ultime novità della passerella». Restando sull’argomento, è corretto dire che il nome sta a una persona come un vestito al corpo? «Sì, dovremmo tutti indossare abiti che parlino di noi e non per noi. Purtroppo succede esattamente il contrario. Oggi indossiamo ciò che può fare di noi una persona che conta. Siamo convinti che indossando una giacca Armani ci prenderanno sul serio, abbiamo trasformato le griffe in amuleti portafortuna, convinti che la vita ci sorriderà se ce ne andiamo in giro con una borsa Louis Vuitton». Ha fatto del suo non voler fermare il tempo che passa una bandiera di indipendenza. Come definirebbe la bellezza?

Quando si sente bella? «Mai. Ho smesso di guardarmi allo specchio. Credo che nessuno possa avere dei meriti per essere nato bello. Anzi, la mia convinzione è che la bellezza sia un handicap. Naomi Campbell, per esempio, non saprà mai se il suo successo con gli uomini è dovuto alla sua estrema bellezza o alla sua personalità. L’essere brutti, invece, dà sicurezza e permette di vivere meglio con se stessi. Se qualcuno si mostra interessato non lo fa certamente per l’aspetto fisico, quindi il rapporto diventa più sincero». Quali sono le tre caratteristiche della femminilità? «I retaggi del passato ci insegnano che la femminilità sta nella devozione, nella pazienza e nell’attenzione. Ma sapremo mai definirla? Oggi è fatta di tacchi a spillo, corpi da pubblicizzare e trasparenze. Nessuna donna, guardandosi allo specchio, riesce a individuare una forma di femminilità che non sia questa. Io credo che il nostro lavoro in quanto donne sia ricostruire il nostro essere come soggetto portante e non preda. Dovremmo essere capaci di decodificare il reale, lontane dai modelli che vengono imposti, poi le risposte verranno dalle generazioni future». Cosa avrebbe voluto fare e non ha fatto?

«Il tempo toglie l’apparenza, la giovinezza ma regala l’intelligenza e la maturità, valori infinitamente superiori all’aspetto esteriore» «La bellezza è un’invenzione fatta a tavolino, non esiste. Io trovo bellissime tutte le persone che incontro al mercato, che camminano per strada, quelle che si sentono perdenti rispetto alle Barbie che vediamo in televisione. Per me la bellezza non sta nella torre d’avorio, ma nella sorpresa che c’è dietro l’angolo». E il tempo? «Il tempo toglie l’apparenza, la giovinezza ma regala l’intelligenza e la maturità, valori infinitamente superiori all’aspetto esteriore».

«Studiare. La mia vita è stata interrotta dal lavoro di modella e questa cosa l’ho pagata cara perché dopo non ce n’è stato più il tempo. Il periodo dello studio è sacro, poi è difficile rincorrere quel treno». C’è qualcuno a cui sente di dover chiedere scusa? «Dal punto di vista professionale, ho sempre dato il massimo poi ognuno di noi ha dei limiti, per cui non posso chiedere scusa per essere limitata. Personalmente potrei chiedere scusa all’altro sesso per aver messo da parte tutti gli uomini che ho amato, per la mia incapacità di convergere con la loro mentalità».



176 > GIUSTIZIA > Michelina Grillo > Valori e ideali

IL MIO SGUARDO SULLA RIFORMA Prima di trovare il rimedio per risanare la situazione di sfascio in cui versa la giustizia italiana occorre capire a chi fanno capo le maggiori responsabilità. A tal fine, e per individuare soluzioni efficaci e durature, è auspicabile una seria collaborazione tra la politica e le varie categorie che operano in campo giudiziario. Un obiettivo da sempre perseguito da Michelina Grillo di Marilena Spataro L’avvocatura sta progressivamente colorandosi di rosa, come attestano i dati che vedono in costante crescita la componente femminile. Malgrado ciò, a livello di vertice e di responsabilità di gestione, è un universo ancora prevalentemente maschile, nel quale non è facile affermarsi. Ma come in ogni campo anche in questo, esiste l’eccezione che conferma la regola. A rappresentarla, appunto, è Michelina Grillo, avvocato bolognese, per 5 anni presidente dell’Oua, l’organismo unitario dell’avvocatura cui il Congresso, massima assise dell’avvocatura italiana, conferisce la rappresentanza politica e il compito di attuare i deliberati congressuali, assumendo iniziative, promuovendo e curando attività di studio, informazione, comunicazione, divulgazione e intervento presso istituzioni pubbliche e organismi politici. «La principale difficoltà per me non è stata tanto quella di raggiungere la presidenza dell’Oua quanto di ottenere il Non si può negare che la rispetto e la considerazione dei colleghi e degli interlocutori magistratura abbia grandi esterni» spiega la presidente. Che svela come il segreto per la responsabilità. donna che voglia fare carriera non è assumere comportamenti maschili, ma piuttosto valorizzare al massimo le doti proprie Anche se oggi appare pervasa da forti che il femminile possiede: semplicità, concretezza, chiarezza, pulsioni interne nella direzione di un dialogo, rispetto per l’interlocutore, non disponibilità al drastico rinnovamento compromesso, linearità delle condotte. Anche se, confessa Grillo: «Riconosco che un grandissimo aiuto mi è venuto da tutti i colleghi che con me hanno collaborato e condiviso le responsabilità. A loro debbo davvero molto del mio successo». In 15 anni d’impegno “pubblico” a favore dell’avvocatura, Michelina Grillo ha diretto la sua azione al fine far emergere e apprezzare all’esterno il vero volto dell’avvocatura italiana «il volto – dice – di chi coltiva ancora i grandi ideali e i valori della giustizia». «In questa direzione – continua – ho sempre improntato ogni mio intervento, anche nelle occasioni in cui


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Michelina Grillo, avvocato bolognese e presidente dell’Oua, si batte da sempre per una riforma organica del sistema giudiziario che garantisca la certezza del diritto tutelando cittadini e imprese nelle loro legittime aspettative di giustizia

l’Oua ha rappresentato la posizione dell’avvocatura italiana in consessi esteri e dinanzi le istituzioni europee». L’apprezzamento ricevuto in questi anni di mandato e i risultati ottenuti sono un incoraggiamento a proseguire su questa strada «per restituire al Paese un sistema giustizia degno di tale nome, delle nostre tradizioni e della nostra storia». Quali sono i veri mali della crisi della giustizia italiana? «Oggi esiste una situazione di illegalità diffusa, di mancanza di tutele, di incertezza dei rapporti, che nuoce non solo alla democrazia e alla società, ma rappresenta un potentissimo freno alla crescita dell’economia e allo sviluppo dei rapporti interni e internazionali. Tempi oramai inaccettabili della giustizia, costi economici, disfunzioni in ogni comparto, sostanziale ineffettività della maggior parte dei giudicati mettono a dura prova la credibilità stessa del sistema, ma, fatto ancor più grave, allontanano in particolare i più deboli, parte rilevante della società, dall’accesso effettivo alla giustizia e alla tutela dei propri diritti. Un sistema che di fatto vanifica i principi dello Stato di diritto, che non rende più credibile l’architettura delle tutele, che ha perso ogni e qualsiasi coerente fisionomia, per effetto dei tanti, troppi interventi disorganici, a tampone, emergenziali. L’avvocatura oramai da anni denuncia con forza l’incapacità della politica di affrontare e risolvere

con chiarezza di principi e obiettivi, efficacia e lucidità problemi vecchi e sempre attuali. Oggi più che in passato, si afferma l’esigenza non già di interventi parziali, settoriali e di corto respiro, ma di quell’organica riflessione sul sistema che, sola, può consentire di conoscere a fondo la “realtà della Giustizia”, di individuare le migliori soluzioni, forse anche rivoluzionando impianti che si sono rivelati polverosi e inadeguati, di forzare i timori e le resistenze che sempre si accompagnano ogni mutamento che, investendo uno “statu quo” consolidato lascia aperti margini di incertezza». Perché in Italia non si riesce a varare una riforma organica della Giustizia? «Il problema sta principalmente nella incapacità della politica di affrontare il problema del riassetto complessivo dell’amministrazione della giustizia in un’ottica non ideologica, ponendo al centro le esigenze e i diritti della persona e delle imprese, e quindi di lasciar prevalere l’esigenza di restituire dignità e credibilità al sistema al di là e al di sopra di logiche di schieramento e di contrapposizione, che sempre più spesso hanno invece prevalso. È mancata per troppo tempo una seria ed approfondita analisi su come riorganizzare il servizio-giustizia, su quali innovazioni fossero necessarie per accompagnare e favorire il recupero di efficienza del sistema, sulle necessarie riforme degli statuti di avvocati, magistrati e personale amministrativo, per i loro


178 > GIUSTIZIA > Michelina Grillo > Valori e ideali

«L’avvocatura oramai da anni denuncia con forza l’incapacità della politica di affrontare e risolvere con chiarezza di principi e obiettivi, efficacia e lucidità, problemi vecchi e sempre attuali» diretti riflessi sul funzionamento del sistema. Su tutto ha poi pesantemente inciso l’insufficienza delle risorse». Dove, secondo lei, si concentrano le maggiori resistenze? «Non si può negare che la magistratura abbia grandi responsabilità. Anche se oggi appare pervasa da forti pulsioni interne nella direzione di un drastico rinnovamento, che faccia venir meno i numerosi difetti del correntismo e del sistema di autogoverno. Si deve sottolineare come in più occasioni interventi utili, tra i quali un consistente aumento degli organici e il venir meno degli incarichi extragiudiziari, siano stati osteggiati per mantenere posizioni di privilegio. L’arroccamento della magistratura in difesa delle proprie prerogative ha poi determinato il progressivo affermarsi di una filosofia processuale che ha sistematicamente affievolito il livello di fiducia nelle parti e nei loro difensori, per accentrare sempre più le attività processuali, anche quelle più insignificanti, nelle mani del magistrato, senza tener conto della insufficienza delle risorse umane: di lì un sistema che, soprattutto nel processo civile, si sviluppa attraverso rinvii interminabili, nella conclamata impossibilità, sia per assenza di volontà che per obiettiva difficoltà materiale, di imporre termini perentori anche all’attività del magistrato e non solo a quella delle parti. Nel rapporto tra garanzie del giusto processo ed efficienza, si è infine determinato uno squilibrio in favore della seconda, a scapito della effettiva tutela dei diritti». Quali sono i campi dove serve intervenire con urgenza? «Certamente il processo civile, spesso considerato una cenerentola del sistema, è il terreno sul quale deve misurarsi un intervento indifferibile ed urgente. La giustizia civile versa, infatti, in una situazione di degrado intollerabile che lede profondamente i diritti costituzionalmente riconosciuti a tutti i

cittadini, in primis quello sancito dall’articolo 24 della Carta Costituzionale, e, inoltre, finisce per incidere in maniera pesantemente negativa sullo stesso sviluppo economico, che oggi, sembra essere il principio guida cui si ispira ogni intervento normativo. É, infatti, evidente che chi deve effettuare investimenti nel nostro Paese venga scoraggiato dalla assoluta inefficienza del nostro sistema giudiziario. Mentre le aziende già presenti sono rese meno competitive dalla incertezza sul quando e come riusciranno a conseguire il soddisfacimento delle proprie ragioni creditorie o d’altro tipo. Occorrono una drastica semplificazione e unificazione dei troppi riti processuali, l’adozione di modelli processuali il più possibile unitari e semplificati, che, nel pieno rispetto della garanzia della difesa, consentano di addivenire a pronunce sul merito e non già sul rito, l’individuazione di soluzioni alternative al processo propriamente contenzioso ed anche soluzioni alternative alla giurisdizione statale, purché di stampo pubblico. Occorre, infine, investire in risorse economiche ed umane, monitorando accuratamente come tali risorse vengono impiegate, onde evitare gli innumerevoli sprechi, che anche nel settore della giustizia si verificano, e aggravano inammissibilmente una situazione già al collasso». Ritiene che la volontà espressa dal nuovo esecutivo di governo di arrivare a una riforma organica della giustizia porterà a dei risultati concreti entro questa legislatura? «I risultati possono venire conseguiti se si avrà la volontà di affiancare a interventi urgenti, pure necessari, una riflessione non condizionata da preconcetti e posizioni precostituite su di un vero e proprio piano Giustizia a medio e lungo termine, che attui un riassetto complessivo e organico del sistema, incidendo con decisione e sulla base di studi di fattibilità realistici e attendibili sui veri snodi critici, evitando interventi puramente


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emergenziali o di facciata. Le dichiarazioni del ministro Alfano hanno lasciato intravvedere la possibilità di dare il via a un percorso di tal fatta, con concorso dei soggetti della giurisdizione e con il contributo di tutti gli operatori del settore. L’attuale maggioranza è stabile e ha di fronte a sé un lasso di tempo più che sufficiente per adottare i necessari provvedimenti. Quello che l’avvocatura chiede, pur lasciando alla politica il compito di adottare le scelte che le è proprio, è di avviare una fase che abbiamo definito “costituente per la giustizia”, che possa consentire una disamina a tutto campo, nel più ampio confronto, e l’individuazione delle migliori soluzioni». Quanto l’attività della vostra organizzazione ha contribuito a promuovere il dibattito sulla giustizia in Italia e quanto a far crescere una maggiore consapevolezza sui bisogni della giustizia tra la classe forense?

«L’affermarsi della concezione della giustizia come servizio non poteva non determinare un impegno fattivo degli operatori, e tra essi degli avvocati. In tal senso va interpretata la determinazione di dare vita a un organismo che, forte della rappresentatività che gli deriva dall’essere espressione democratica dell’intera categoria, potesse seguire stabilmente la politica adottata dal governo e dal Parlamento nel settore della giustizia e nel settore professionale, per esprimere il proprio pensiero sulla giustizia, sulle leggi e sul sistema in generale, così dando voce diretta ai diritti dei cittadini. Attraverso i Congressi e le Conferenze periodiche che sono state promosse, e che hanno registrato sempre la significativa attenzione delle massime istituzioni, si è certamente diffusa nella politica l’attenzione alla voce della difesa, e nell’avvocatura la responsabilità di dover concorrere in ogni modo, con il pensiero e con l’attività quotidiana, alla soluzione dei numerosi problemi che da troppo tempo sono sotto gli occhi di tutti: ogni avvocato oggi è perfettamente conscio di non poter limitare la propria azione soltanto all’interno del proprio studio, ma di doversi attivare nell’interesse della collettività».


184 > STORIE PROFESSIONALI > Anna Chiusano > Eredità familiare

LA MIA STRADA NELL’AVVOCATURA

DI FRANCESCA

DRUIDI

Quello del penalista è un lavoro per molti aspetti ancora maschile. Il legale Anna Chiusano è determinata a ritagliarsi un suo spazio. Figlia d’arte, tratteggia obiettivi e rinunce della sua scelta professionale

n cognome impegnativo, Chiusano, che rappresenta molto per la città di Torino. E non solo. Un cognome divenuto nel tempo sinonimo di qualità nel mondo legale. Lo sa bene l’avvocato Anna Chiusano, che dal padre Vittorio, celebre penalista e presidente della squadra di calcio della Juventus, ha ereditato la passione per le aule di tribunale e la conduzione dello studio di famiglia. Non si nasconde dietro a un dito Anna Chiusano: «Mentirei se dicessi di non aver ricevuto facilitazioni dal mio cognome. Esserne all’altezza è tuttavia una sfida quotidiana. Un’ulteriore responsabilità. Perché non basta far bene il proprio lavoro e assistere al meglio i clienti. Bisogna inseguire l’eccellenza al fine di rispettare questa sorta di marchio che è diventato lo Studio Chiusano». Certo non è facile. Qualsiasi ruolo professionale impone oggi alle donne funambolici giochi di equilibrio tra casa e lavoro. Per un avvocato penalista, reperibile 24 ore su 24, il cerchio dei doveri si complica inevitabilmente.

U

Quanto è complicato conciliare la vita professionale con quella privata? «Il campo penale è particolarmente assorbente, anche per le responsabilità che comporta: l’assistito

Gli uomini della mia vita? Mio padre. Mio marito. I miei associati rischia non solo a livello patrimoniale, ma anche e soprattutto a livello personale. Per questo motivo, necessita di un’assistenza pressoché totale. Trovare un equilibrio tra le esigenze della professione e quelle della famiglia è, quindi, veramente complesso. Ho la fortuna di avere, da un lato, un marito più che comprensivo che mi appoggia e, dall’altro, la collaborazione di uno studio pronto a sostituirmi quando non posso essere disponibile. Il mio segreto è l’organizzazione. Va da sé che, nel caso salti un tassello di questo programma, le cose si complicano e gli sforzi si moltiplicano. Mia figlia ha tre anni. Cerco di dedicarmi totalmente a lei il sabato, la domenica e in ogni momento libero. Tento il più possibile di far valere il concetto che la qualità alla fine prevale sulla quantità. Mi faccio forte di questa convinzione e spero di non sbagliare».

«Il rapporto con i miei colleghi è sempre orientato al dialogo. Bisogna avere l’umiltà di approcciare i problemi, sviscerandoli sotto tutti i profili»


?

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Nata a Torino il 16 ottobre 1968, Anna Vittoria Chiusano segue le orme paterne e s’iscrive alla facoltà di

giurisprudenza a Torino. Svolge la pratica legale presso lo studio

dell’avvocato Franzo Grande Stevens e ottiene l’abilitazione alla

professione nella sua città natale. Vive un’importante e formativa

esperienza presso lo studio

dell’avvocato Franco Coppi a Roma, che oggi annovera fra i

suoi due maestri, al fianco del padre Vittorio. Risale al 2001 l’apertura della sede

romana dello studio

Avvocato

Chiusano, che

Umiltà, dedizione, sacrificio Ma anche fantasia e autoironia

«Nella vita è giusto prendere tutto seriamente, ma con un po’ di fantasia e di apertura al mondo, per non cadere ostaggi di se stessi. Mai pensare di essere i migliori, conta mettersi alla prova»

mantiene inalterata la sua sede principale Torino. Alla scomparsa di Vittorio Chiusano, avvenuta nel 2003, è lei a ricoprire l’incarico di titolare dello studio, fondato nel 1964, e riconosciuto come un vero e proprio punto di riferimento nello scenario legale torinese per la formazione e la pratica professionale. L’affiancano nel compito gli associati Luigi Chiappero, Luigi Giuliano, Cristiano Burdese, Oliviero de Carolis e Massimo Strumia.


186 > STORIE PROFESSIONALI > Anna Chiusano > Eredità familiare

Il modello l rapporto di Anna Chiusano con suo padre Vittorio può essere definito a 360 gradi. «Ha lasciato una grossa impronta nella mia vita – racconta l’avvocato – sia nell’ambito privato che in quello professionale. Fin da bambina, lo sentivo preparare le arringhe e sono rimasta affascinata della dialettica di questo mestiere, che poi ho scelto di intraprendere. Mio padre è stato un avvocato capace di influenzare lo scenario legale. Innanzitutto per il grandissimo carisma e poi per l’umanità e la fiducia che esprimeva nei confronti dei giovani. Quando entrava in udienza, si avvertiva in maniera

I

evidente il cambiamento di atmosfera». Traspare in Anna Chiusano una malinconica e al contempo profonda riconoscenza per averlo avuto accanto. Come padre e come maestro, anche se per periodo limitato. «I momenti più belli che ricordo di aver vissuto al fianco di mio padre, oltre ai primi processi che abbiamo seguito insieme indossando entrambi la toga, erano quelli in cui camminavo con lui per i corridoi del tribunale, quando si fermava a parlare con i pubblici ministeri. Lui credeva molto nel dialogo tra le parti, nell’interazione tra avvocato e pubblico ministero, difendendo le proprie

posizioni ma senza opporre una netta chiusura. Io penso, come mio padre, che questo aspetto sia fondamentale nell’avvocatura». L’effettivo passaggio di consegne tra padre e figlia avviene nel 2003 quando, mancato il grande legale, Anna assume dal padre la difesa di Antonio Giraudo nel processo sul doping di Torino.

«Mio padre ha lasciato una grossa impronta nella mia vita in ambito privato e professionale»

Anna Chiusano e la Signora. «Per ogni vittoria della Juventus, il pensiero corre a mio padre». Vittorio Chiusano è stato infatti presidente della società bianconera per oltre un decennio. «Sono tifosa, il calcio mi diverte. Quando sarà ultimato il nuovo stadio, al cui interno sarà allestito uno spazio per i bambini, ci porterò mia figlia come faceva mio padre con me e i miei fratelli»

Esistono ancora discriminazioni di genere nella sua professione? «In parte sì. Ancora oggi un cliente, se deve scegliere tra un avvocato uomo e un legale donna, istintivamente opta per il primo. Poi il problema si supera, poiché subentrano la preparazione, la professionalità e la fiducia, che costituisce un elemento fondamentale. Inoltre, questo è un mestiere, come ho già avuto modo di dire, che non conosce orari o vacanze, devi sempre essere disponibile proprio perché hai una persona che si affida a te. Ora, un uomo riesce, di fatto, a gestirlo e a organizzarsi in maniera più semplice rispetto a una donna. Non è un caso che vi siano più donne che optano per la magistratura oppure donne che scelgono il ramo civile rispetto a quello penale. E tra queste ultime, molte professioniste che conosco non hanno formato una famiglia e sono dedite

completamente al lavoro. In tutti i casi, in questa professione pesa in maniera notevole la consapevolezza della responsabilità che rivesti. Perciò non riesci mai a staccare veramente la spina. Questo vale per qualsiasi avvocato penalista, uomo o donna che sia». Si può parlare di un approccio femminile all’avvocatura? «Certamente sì. A mio avviso le donne hanno delle carte in più da giocare. Il genere femminile è maggiormente scrupoloso e dotato di una sensibilità superiore rispetto a quello maschile. Poi la donna è tendenzialmente più analitica, proprio perché deve essere capace di organizzarsi, di gestire più situazioni su molteplici fronti e difficilmente va in panico. Sono confortata in questo mio pensiero dalla famosa affermazione del diplomatico francese


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Percorrere la propria strada. A prescindere dagli ostacoli Talleyrand, il quale soleva ripetere che nelle faccende delicate bisogna far intervenire le donne». Nella sua formazione la figura di suo padre avrà esercitato una grande influenza. «Sicuramente sì. Dovessi indicare quali sono gli uomini della mia vita, direi mio marito e mio padre. Ma anche gli associati del mio studio, con i quali ho iniziato un percorso professionale quindici anni fa, alcuni dei quali furono collaboratori storici di mio padre e oggi mi affiancano, guidandomi e proteggendomi come angeli custodi in virtù di quell’esperienza e di quel background che io mi sto costruendo. Sono contenta di avere la loro stima e di confrontarmi con loro quotidianamente». Un rapporto stimolante e di crescita. «Senza dubbio, il rapporto con i miei colleghi è sempre orientato al dialogo. Sono convinta che l’approccio giusto ad un quesito giuridico sia quello di sviscerarlo sotto tutti i profili e in tal senso il confronto non può che dare un eccellente risultato

Nella foto, l’avvocato Anna Chiusano nello studio di Torino, la stessa ha avviato nel 2001 anche un’altra sede nella capitale dove il legale ha avuto modo di esercitare per diversi anni

nell’interesse del cliente». Se dovesse indicare i fattori del suo successo? «Mi auguro di diventare una persona di successo. Questo sarà il tempo a stabilirlo. Nel momento in cui si è convinti di un obiettivo e ci si dedica a raggiunerlo, ritengo che l’umiltà, la dedizione, lo spirito di sacrificio e un pizzico di autoironia possano condurti a tagliare i traguardi prefissati».


188 > CONSIGLI > Cristina Santi > Infortunistica

COSA SI DEVE FARE IN CASO DI INCIDENTE DI

GINEVRA CARDINALI

Le regole da seguire e le cose da fare (e quelle da non fare) in caso di incidente stradale. I consigli dell’avvocato Cristina Santi «In caso di dubbi sulla dinamica dell’incidente è sempre meglio far intervenire le autorità» osa fare in caso di coinvolgimento in un incidente stradale? Come si denuncia un sinistro? Quali sono i tempi di liquidazione del danno? Ne parliamo con Cristina Santi, avvocato di Parma esperta in infortunistica, che dice, «la prima regola è non spostare i mezzi dalla carreggiata, se ciò non intralcia il traffico, o fotografare lo stato dei luoghi e prendere nomi e recapiti degli eventuali testimoni. Se vi sono feriti è indispensabile chiamare le Autorità per i rilievi necessari».

C

A cosa serve la constatazione amichevole? «È un documento indispensabile per denunciare l’incidente alla Compagnia di assicurazione. Se la Constatazione è firmata da entrambe le parti, la normativa stabilisce che la liquidazione del danno debba avvenire entro 30 giorni. In caso di una sola firma, questo termine raddoppia». Quali sono le cose da evitare e quelle che invece sono indispensabili? «Evitare di modificare lo stato dei luoghi al momento del sinistro per consentire alle Autorità di effettuare la ricostruzione della dinamica dell’incidente e stabilire le responsabilità. Indispensabile rivolgersi al Pronto soccorso o al medico curante per l’accertamento delle lesioni, fotografare i danni subiti dall’autovettura, sincerarsi che il danno sia riparabile e non superi il valore economico del mezzo e mettere l’auto a disposizione del perito nominato dall’assicurazione». Come si avvia la procedura di risarcimento presso l’assicurazione? «Consegnando al proprio assicuratore la Constatazione amichevole. La nuova normativa stabilisce che, in caso di sinistro con due veicoli coinvolti e lesioni che non superano i nove punti percentuali di invalidità, l’indennizzo deve essere diretto e va risarcito dalla Compagnia di assicurazione

I quattro passi da non dimenticare Scegliere un’assicurazione di fiducia che consenta di personalizzare la polizza sulla base delle proprie esigenze. In caso di incidente stradale, compilare il modulo di Constatazione amichevole di incidente. Meglio se firmato da entrambe le parti. Rivolgersi al Pronto soccorso o al proprio medico curante per far accertare le lesioni. Tutta la documentazione sarà poi passata al medico legale che valuterà il danno e l’eventuale invalidità. Avviare la procedura di risarcimento consegnando la Constatazione amichevole alla Compagnia di assicurazione. Il danno sarà poi liquidato in base alle tabelle stabilite dalla legge che monetizzano i punti di invalidità o danno indicate dal medico legale


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La constatazione amichevole non ha valore vincolante ai fini dell’accertamento delle responsabilità Nelle foto, Cristina Santi, avvocato di Parma, è specializzata in Infortunistica

del danneggiato. In questo caso, le spese di assistenza del legale non vengono più pagate, come avveniva in precedenza, né per il danno dell’autovettura, né per il risarcimento delle lesioni del conducente». Danni alle persone e danni alle cose. In che modo vengono valutati i danni? «Il danno alle cose è di competenza del carrozziere che conosce i costi di riparazione e si adopera per ottenere quanto gli spetta. Il danno alle persone deve, invece, essere accertato con una serie di esami diagnostici presso medici competenti, in modo che, una volta terminate le cure, si arrivi a una guarigione totale o con postumi da valutare tramite visita da parte del medico legale». Qual è il compito del medico legale? «Valutare la documentazione, accertare il danno alla persona e stabilire l’eventuale grado di invalidità sulla base di tabelle previste dalla legge. Ad esempio, in caso di lesione da colpo di frusta semplice il punteggio va da 0 a 2 punti, mentre se il colpo di frusta è complesso con problemi neurologici il punteggio va da 2 a 4 punti». Chi paga la visita del medico legale? «Il soggetto che ha subito il danno. Queste spese, oltre

a quelle di visite specialistiche, esami, accertamenti e cure, saranno rimborsate dalla Compagnia di assicurazione». In base a quali criteri viene liquidato il danno? «Sulla base di tabelle che monetizzano il punteggio dato dal medico legale e stabiliscono il valore economico del punto in proporzione all’età, ad esempio, a 10 anni un punto di invalidità vale 688,00 euro a 50 anni lo stesso punto vale 550,00 euro, e dell’entità, ad esempio, a 10 anni otto punti valgono 11.563,00 euro, mentre a 50 anni valgono 9.250,00 euro. Le tabelle che vengono utilizzate per il risarcimento di lesioni di lieve entità ossia quelle che non superano i nove punti percentuali, sono state varate con un decreto legislativo, mentre per le lesioni di grave entità ovvero quelle comprese tra i 10 e i 100 punti, gli importi sono stabiliti dai Tribunali di competenza». Quali sono i tempi normali di liquidazione di un danno? «La nuova normativa ha abbreviato i tempi di liquidazione. Purtroppo, nella realtà, spesso non è così perché il sistema si trascina errori di gestione dovuti all’inesperienza degli addetti o a problemi tecnici».


194 > BATTAGLIE > Paola Balducci > Un’uguaglianza ancora lontana

DOBBIAMO CONQUISTARE IL NOSTRO SPAZIO DI ADRIANA

ZUCCARO

La deficitaria presenza femminile nel tessuto produttivo e governativo del nostro Paese è una costante da invertire. L’avvocato Paola Balducci esemplifica la cultura del merito di cui le donne sono intrise ssidue e mutevoli proposte di intervento politico su tutti i livelli del sociale chiamano in causa personalità audaci perché presenti in campo, sempre e nonostante tutto. Cultura endemica, proponimenti mirati ed esperienze proficue al raggiungimento di una posizione individuale nel collettivo costituiscono ricercate peculiarità di chi mira al soddisfacimento di sogni propri e altrui. Giungervi non è però di certo semplice. A dispetto dell’incessante sviluppo umano e scientifico, tenendo conto del progressivo allontanamento da posizioni misogine, essere una donna rappresenta ancora oggi una condizione di inevitabile ed evidente disparità. Esempio di una brillante contropartita in rosa e testimone di incongruenze socioculturali a scapito dell’universo femminile, l’avvocato e professoressa Paola Balducci alla conduzione di uno studio legale con sede a Roma coordina l’esposizione di lezioni cattedratiche di procedura penale presso la facoltà di giurisprudenza all’università degli studi di Lecce. Grata ai noti giuristi, Giovanni Conso e Giuliano Vassalli, che le hanno dato forza e determinazione per affrontare già quegli anni Ottanta per cui un penalista donna veniva guardata con diffidenza, la professoressa Balducci ritorna ai suoi mentori per rimarcare poi l’esperienza susseguitasi alla laurea presso la Sapienza di Roma. «La mia ostinata vocazione per l’ambito giuridico mi ha condotto a vivere per più di due anni in Germania – racconta con nostalgica fierezza l’avvocato – per studiare al Max Planck Institut e approfondire la ricerca di procedura penale attraverso il tentativo di creare un linguaggio comune tra i massimi esperti internazionali». L’attuale impegno d’insegnamento giuridico e il ruolo direzionale

A

nell’attività forense non hanno impedito all’avvocato Balducci di accettare prima l’incarico di assessore alla regione Puglia propostole dal presidente Vendola, poi quello di deputato e capogruppo dei Verdi in commissione giustizia, mandato conclusosi solo pochi mesi fa. Non sono state solo le discriminazioni in genere a catturare l’impegno della rappresentante di via Salandra cosicché «nel percorso europeo verso le pari opportunità – inizia così testualmente un comunicato dell’onorevole Balducci – tutte noi abbiamo il compito di lavorare in modo costruttivo e sinergico per il raggiungimento di una vera uguaglianza fra i cittadini e l’eliminazione delle intollerabili forme di differenziazione tuttora rinvenibili nella società italiana». Con toni di ottimistico incoraggiamento alla cooperazione, con piena coscienza di portavoce e con l’esperienza conoscitiva di ogni forma di diritto, l’avvocato Balducci ha posto più volte l’accento sulla tortuosità dei percorsi lungo i quali si snoda la realizzazione dei diritti e sulle cause di oggettiva resistenza da parte dei centri di potere maschili. «Abbiamo così poche donne nelle posizioni apicali all’interno delle aziende – incalza con schiette constatazioni l’ex deputato – e una rappresentanza femminile nelle istituzioni tanto deficitaria da condurre al paradosso ogni riferimento al sistema italiano: a fronte dell’ancoraggio costituzionale della parità uomo donna (art.3), dei pari diritti nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive e del formale riconoscimento delle pari opportunità (art.51) – riferisce l’avvocato Balducci – le statistiche finiscono per tracciare un Paese che nella realtà si profila diversamente dal sistema evoluto che


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L’avvocato Paola Balducci esercita la professione forense a Roma. È docente di procedura penale all’università di Lecce. Politicamente attiva, ha di recente concluso il mandato di deputato per il gruppo dei Verdi. www.studiolegalebalducci.it


196 > BATTAGLIE > Paola Balducci > Un’uguaglianza ancora lontana

Il potere femminile prescinde dal prestigio personale a favore di un sistema meritocratico La crescita numerica di donne ai vertici della società arranca contro ostacoli e pregiudizi socioculturali Le disparità tra uomo e donna è raccontata da resoconti statistici che necessitano un’inversione di marcia verso un autentico rispetto dei diritti e delle regole

aspirerebbe a essere». Prendendo atto della decrescente presenza femminile al Parlamento che dal 24 per cento dell’esecutivo Prodi oggi conta uno scarso 19 per cento, l’avvocato Balducci tende a riporre l’attenzione al cinquantanovesimo posto occupato dall’Italia nella graduatoria mondiale per rappresentanza media femminile. «Se si considera che durante il mandato che mi era stato affidato, il consiglio regionale della regione Puglia contava una sola donna – l’avvocato riconsidera l’esperienza con tono d’auspicio – solo quando una donna sarà “eletta” governatrice della Banca di Italia allora potremo credere che i termini meritocratici e la parità dei diritti saranno stati applicati». Sebbene poi le donne dimostrino capacità, competenze professionali, forza e determinazione imprenditoriale, sono ancora innumerevoli i settori produttivi in cui la loro integrazione non è di certo favorita né quantomeno effettivamente registrata. «L’Italia

persevera in una gestione governativa principalmente maschile perché – secondo l’attenta opinione della professoressa – la diffidenza verso il competitor femminile viene spesso traslata per così rendere il monopolio maschile inscalfibile». Circostanziare l’universo delle donne negli tradizionali ruoli di madre e mogli è una tendenza normalmente diffusa ma, con l’eccezione del paradosso, la natura materna racchiude la sicurezza di affidabilità, valore e rigoroso sacrificio che occorrerebbe sempre tener presente e rilanciare anche nelle istituzioni. «Le donne che riescono a perseguire con successo la carriera prefissata – commenta l’avvocato Balducci forse ripensando alla sua esperienza personale – hanno dovuto confrontarsi con ostacoli per un uomo inimmaginabili e se impongono la loro presenza ai vertici della società, lo fanno in virtù della cultura del merito e del fare di cui sono intrise».



202 > PROTAGONISTE DI NEA > Giulia Clarizio > Consigliere nazionale del notariato

IL VALORE IN UN SIGILLO Comunicare i valori della professione notarile. Per farla comprendere ai consumatori e alla società civile. È questo l’impegno del notaio Giulia Clarizio DI ANNALISA

ROSSI

a sicurezza giuridica è un bene prezioso. Di cui non ci rendiamo conto, però, perché come accade per molte altre ricchezze, siamo abituati ad averla». C’è una cosa che appare subito chiara, sentendo parlare Giulia Clarizio, consigliere nazionale del notariato. Al di là delle parole scelte e dell’interlocutore che di volta in volta ha davanti, ciò che davvero le preme ricordare è un messaggio semplice ed essenziale: il ruolo del notariato rappresenta un valore importante per la collettività. E una delle sfide della categoria, nell’era dei servizi telematici e dell’informazione diffusa, è riuscire a comunicarlo. Al cittadino prima di tutto, che al notaio mette in mano «somme importanti, segreti intimi, aspetti della vita vera». E un po’ anche a se stessi.

L

Il notariato è una professione complessa, ma anche poco conosciuta. Quali sono le linee guida per comunicarne le caratteristiche in modo efficace? «Quando si tratta di una professione molto tecnica come la nostra, è fondamentale parlare un linguaggio chiaro, il più semplice possibile, che riesca a raggiungere il maggior numero di persone». In che modo concretamente viene perseguito questo obiettivo? «Innanzitutto, attraverso rapporti frequenti con tutti i media, ma anche con l’instaurazione di tavoli di confronto

Una professione a misura di donna «Trent’anni fa, il notaio presso cui facevo pratica mi disse che il notariato è una professione nella quale la componente femminile era destinata a crescere e affermarsi. All’epoca eravamo poche e lo guardai stupita, ma in realtà è verissimo», racconta Giulia Clarizio. Le ragioni di questa affinità elettiva? Prima di tutto l’accesso democratico, tanto che ormai le donne rappresentano la metà di coloro che superano il concorso. Ma anche l’indipendenza nell’organizzazione del lavoro e il tipo di attività, fondata sulla mediazione. Requisito particolarmente congeniale alla capacità “femminile” di comporre interessi diversi, lavorare su più fronti.


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204 > PROTAGONISTE DI NEA > Giulia Clarizio > Consigliere nazionale del notariato

«Ci possono essere differenze tra le grandi realtà urbane e i piccoli centri, dove il notaio è davvero una figura di fiducia. Ma ovunque è apprezzato come un professionista affidabile, preparato per il ruolo che ricopre e imparziale». con i nostri diversi interlocutori, i consumatori in primis, che hanno portato negli ultimi anni a una conoscenza reciproca e, soprattutto, alla stesura di una serie di “Guide pratiche per il cittadino”. Per esempio, di recente, abbiamo presentato alla stampa la versione aggiornata della guida “Mutuo informato”, con le novità introdotte dalla legge Bersani e dalla Finanziaria 2008 in materia di portabilità dei mutui, e nel 2007 quella sul “Prezzo valore”, che spiega la

disciplina sulla trasparenza fiscale nell’acquisto della casa. Sul territorio, infine, questo impegno si è tradotto in una nutrita serie di iniziative presso i consigli locali, che ha coinvolto sinora una trentina di città italiane e almeno un migliaio di notai». Sul ruolo del notaio gravano molti luoghi comuni, positivi e negativi. Quali sono i più ingiusti?


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UN IMPEGNO SUL CAMPO Romana di nascita, vicentina d’adozione. Giulia Clarizio esercita in Veneto, ma a Roma torna spesso come consigliere nazionale del notariato, ruolo che ricopre dal 2004. Ma oltre agli aspetti strettamente professionali e istituzionali, il profilo di Giulia Clarizio rivela una serie di lati personali inediti, tra i quali spicca l’impegno come infermiera volontaria per la Croce Rossa, che l’ha portata anche in Kosovo, nel 1999. «Un’esperienza fortissima, della quale conservo un grande e appassionato ricordo, per l’impegno civile che vi ho profuso», precisa con garbata fermezza. Ma confessa: «Fino a poco prima di iscrivermi a giurisprudenza, pensavo che avrei fatto il medico. Quando poi ho deciso di diventare notaio, ho capito che il desiderio alla base era simile: aiutare le persone, partecipare alla loro vita». E conclude: «Certo la salute è più importante della sicurezza giuridica. Ma i presupposti della loro tutela sono gli stessi».

«Il più diffuso rimane quello secondo il quale i notai sarebbero prevalentemente figli di notai. Ma non è affatto così. La stragrande maggioranza dei notai non sono “figli d’arte”. E poi non credo esista ordine professionale con un accesso più democratico. Perché notai si diventa con un concorso, gestito peraltro direttamente dal ministero della Giustizia e non dalla categoria. Un concorso che chiunque può vincere. Grazie a una rigida garanzia di serietà e una selezione basata davvero solo sul merito. Io, ad esempio, non sono figlia di notaio, come non lo è il presidente Paolo Piccoli. E così anche l’82,5% dei colleghi». Qual è invece l’aspetto per il quale apparite più

vicini all’opinione pubblica? «Ci possono essere differenze tra le grandi realtà urbane e i piccoli centri, dove il notaio è davvero una figura di fiducia, quasi di famiglia. Ma ovunque il notaio è apprezzato come un professionista affidabile, preparato per il ruolo che ricopre e imparziale». Da cosa deriva, a suo parere, la specialità del ruolo del notaio? «Probabilmente dal suo essere da un lato “un pezzetto di Stato”, un pubblico ufficiale, e dall’altro, allo stesso tempo, un libero professionista, dunque una figura molto duttile. Ma questo è anche il fascino di questa professione, che ti permette di cercare e trovare, insieme al cliente, la soluzione giusta, che deve essere la più aderente alla volontà delle parti, ma anche quella più conforme alle leggi» È appena uscito il romanzo Stanno uccidendo i notai, firmato da Remo Bassetti, in cui il protagonista registra con rigore esemplare i crimini della malavita prima che vengano commessi. Per fare chiarezza sul ruolo del notariato, meglio l’ironia o l’informazione essenziale? «Direi entrambi, a seconda del pubblico con cui ci si relaziona. Certo, col racconto di Bassetti, che peraltro a me è piaciuto molto, siamo nell’ambito del paradosso, un messaggio che richiede un forte senso ironico. In altre situazioni, come per le guide o per la consulenza diretta sul territorio, meglio un linguaggio semplice, per quanto specifico. L’importante è che emerga questo messaggio: la sicurezza giuridica è una ricchezza, che in Italia, nonostante tutto esiste, e protegge da molti rischi drammaticamente presenti altrove. E che essere abituati a questo valore, che talora ci pare scontato, non lo rende meno prezioso».


206 > NOTAI > Monica Cioffi > Fuori dal coro

I FALSI MITI VANNO DISSOLTI DI

DANIELA PANOSETTI

Notaio, donna, giovane: una combinazione ancora rara, purtroppo. Ma per Monica Cioffi è solo uno dei pregiudizi da sfatare na professione radicata nelle tradizioni più remote del nostro Paese. Ma la storia che la figura del notaio porta con sé non deve ingannare. «Il notariato è, oggi, una realtà più che mai moderna e attuale. A maggior ragione in questo momento di crisi economica globale, di fronte al quale il suo ruolo super partes si conferma come la migliore tutela per cittadini e imprese». A parlare è Monica Cioffi, giovane notaio di Bologna. Che con l’entusiasmo di chi ha percorso fino alla fine, senza cedimenti, una strada accidentata come quella del notariato traccia il profilo di una professione sempre più aperta al mondo. A partire dalla valorizzazione delle donne, che rappresentano ormai il 27% della categoria. Non è solo questione di numeri, tuttavia. È innegabile, infatti, sottolinea Cioffi, «che le donne svolgono ormai i molti compiti professionali con una serietà e una competenza pari a quella riconosciuta da sempre agli uomini. Ma forse – suggerisce con un sorriso – con un tocco di sensibilità in più».

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Il notaio Monica Cioffi esercita nel distretto di Bologna


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Tra professione e vita privata Il pregiudizio di genere, quando si parla di notariato, è uno dei più resistenti. Ma non è l’unico. Quali sono gli altri? «Uno dei più duri a morire è, senza dubbio, che l’unica strada di accesso sia quella familiare, che vede il notariato come un “tesoro” da trasmettere di padre in figlio. La realtà non potrebbe essere più lontana. L’unica strada di accesso è il concorso, uno dei più difficili del nostro Paese. A differenza di quanto si crede, quindi, tutto quello che serve è uno studio costante, assiduo e approfondito. Occorre insomma impegno, perseveranza e un alto livello di specializzazione». Come si concilia l’universo femminile con una professione così austera? «L’apparenza inganna. Quella del notaio non è affatto una figura austera e distante. Ogni giorno siamo a contatto con le persone, con i problemi di tutti: la famiglia, il lavoro, le finanze. Ma questo è anche il bello di questo lavoro. Ed è anche ciò che lo rende, a mio parere, particolarmente adatto a una donna». Resta però il problema di conciliare professione e famiglia. «In realtà, in base alla mia esperienza il problema non è poi così pressante. Pur essendo un pubblico ufficiale, infatti, il notaio è un libero professionista. Ciò consente alle donne di programmare le giornate lavorative in modo da non sacrificare troppo il ruolo di moglie o di madre, e più in generale la propria vita privata».

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Ha superato il concorso nazionale grazie alla passione per il diritto. «È lì che ho trovato l’energia necessaria» «Nella mia famiglia non ci sono notai tranne un antenato del 500 emerso dall’archivio di stato grazie ad alcune ricerche» «Personalmente, sono sempre riuscita trovare tempo per entrambi gli aspetti, professione e vita privata».

professionalità responsabilità».

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un’altrettanto

grande

Cosa differenzia soprattutto il notariato di tradizione latina dal notary anglosassone? «In America nelle transazioni non interviene il notaio, dunque non esiste un pubblico ufficiale incaricato di controllare in modo imparziale. Ne consegue che i cittadini sono costretti a stipulare, a proprie spese, delle assicurazioni contro il rischio, ad esempio, di perdere la propria abitazione. E infatti il contenzioso nelle transazioni immobiliari, da noi quasi inesistente, lì è altissimo. Se tale sistema è entrato in crisi, quindi, è forse anche a causa di

Il nepotismo? Un falso luogo comune L’opinione comune, tuttavia, spesso considera eccessivi i compensi percepiti dai notai. «È un altro luogo comune di cui occorre assolutamente sbarazzarsi. Il compenso medio del notaio non è più elevato di quello percepito dagli altri professionisti e include la consulenza specializzata, la redazione dell’atto e le formalità successive. È che al notaio si versano anche e soprattutto le imposte dovute allo Stato. È da qui che nasce la percezione che il notaio “costi troppo”. Inoltre, la nostra attività è coperta da un’assicurazione nazionale di categoria, pagata proprio dal notaio, che si conferma così come una figura in grado di conciliare una grande

queste pecche». Quanto è diffuso, attualmente, il notariato latino? «Contrariamente a quanto si pensa, è presente in un gran numero di Stati e persino la Cina ha deciso recentemente di adottare un sistema simile, come evidenziato dal segretario generale della China notary association durante un recente convegno organizzato a Bologna dal Comitato regionale del Consiglio notarile dell’Emilia Romagna. È uno dei tanti motivi per cui essere italiani è una fortuna. Anche sotto questo aspetto, come per molti altri, non abbiamo da invidiare nulla a nessuno».


208 > NOTAI > Angela Caputo > Super partes, con impegno e passione

RAGIONE E SENTIMENTO DIETRO OGNI FIRMA DI AGATA

BANDINI

«Il sigillo notarile è molto più di un dettaglio burocratico». La parola al notaio Angela Caputo, alla sua esperienza di donna e professionista. Con imparzialità e discrezione. E una tenacia tutta femminile eterminazione, costanza ed entusiasmo. Ma anche una grande dose di serietà e di onestà». È questa, secondo il notaio Angela Caputo, la via da percorrere per chi voglia dedicarsi a una delle professioni più ambite e impegnative del panorama italiano. Una strada in salita, che lei stessa ha voluto intraprendere e percorrere fino in fondo. Il tutto basandosi solo su passione e impegno. Certo non per quel presunto “diritto di successione” che troppo spesso viene chiamato in causa, quando si parla di notai. La storia personale di Caputo, del resto, smentisce questo e altri pregiudizi. «Mio padre, pediatra, avrebbe voluto che seguissi le sue orme – racconta –. Ma fin da bambina, frequentando la casa di una cara amica, figlia appunto di un notaio, ero rimasta affascinata da questa figura». Una fascinazione che ha certo contribuito ad affrontare un esame difficilissimo, come quello notarile. «Volevo farcela con le mie forze, e così è stato. Naturalmente a costo di grandi sacrifici e rinunce – precisa –. Ho trascorso la mia gioventù sui libri. Ricordo che dalla mia scrivania, di fronte a una finestra affacciata sul mare, alzavo ogni tanto lo sguardo per scorgere in lontananza l’isola di Capri». Studiare con determinazione, quindi. Specializzarsi e aggiornarsi costantemente: questo insegna, prima di tutto, l’esperienza di Caputo. «E poi crederci sempre – aggiunge – anche nei momenti difficili, senza perdere mai l’entusiasmo e l’ottimismo».

D

La strada per diventare notaio è una delle più ardue, non c’è dubbio. Ma quali sono i maggiori ostacoli? «Prima di tutto, bisogna sgombrare il campo dal luogo comune per cui i notai sarebbero sempre e soltanto “figli d’arte”. È una credenza smentita dai fatti, e io ne sono un esempio. Dati reali attestano

che soltanto il 17 % di notai ha una familiare che esercita la stessa attività, la percentuale più bassa di tutte le professioni. Questo dipende da una selezione molto severa, garantita da un concorso pubblico per esami, gestito dal ministero della Giustizia, tra i più difficili d’Italia, a cui partecipano migliaia di candidati per 200-300 posti e che richiede una preparazione giuridicofiscale di altissimo livello». Quali sono i requisiti necessari per accedere al concorso? «Oltre alla laurea in giurisprudenza, naturalmente, è necessario un periodo di pratica presso uno studio notarile, oggi ridotto da 24 a 18 mesi, con la possibilità di frequentare i primi sei mesi durante l’ultimo anno di università. Prima il concorso, che consiste in tre prove scritte teorico-pratiche e una prova orale, si teneva ogni due anni, ma da quando

Pensando al suo futuro professionale, quale desiderio vorrebbe vedere realizzato?

«Uno studio in associazione con altri colleghi»

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Qual è, attualmente, la percentuale di donne notaio in Italia? Crede che aumenterà?

«Circa il 27%. Ma la strada da fare è ancora lunga»

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Qual è il segreto per conciliare vita privata e impegni legati al notariato?

«Grandi sacrifici. Come per tutte le donne che lavorano»


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è stata introdotta la preselezione informatica si va verso la cadenza annuale». E le doti e le competenze che sono più importanti per essere un buon notaio? «Il nostro compito è tutelare l’interesse di tutte le parti coinvolte e assicurare il rispetto della legge,

enorme, interessante e stimolante. Ogni caso che si presenta è diverso dall'altro. Le problematiche da affrontare cambiano continuamente, così come le normative, nazionali e regionali, che rendono necessario un costante aggiornamento». Eppure spesso, per la gente comune, il notaio è

Il notaio Angela Caputo esercita a Volta Mantovana, in provincia di Mantova.

nonché accertare e recepire la volontà delle parti attribuendole una veste giuridica. Per fare questo occorre essere innanzitutto imparziali, molto preparati e sopratutto disponibili, anche a lavorare senza orari. Serietà e discrezione sono poi doti indispensabili. Più il notaio fa bene il suo lavoro, tanto meno si rischia che l’atto sia fonte di cause e che quindi si debba ricorrere al giudice». Quali sono i campi principali in cui si trova a operare? «Oltre alle successioni, di cui forse siamo i maggiori esperti, l’impegno di un notaio è volto soprattutto alla circolazione dei beni immobili e ai passaggi più rilevanti dell’attività societaria. Oltre al diritto civile e societario, quindi, bisogna essere preparati anche in materia fiscale e tributaria. È un’attività ricchissima di spunti, un panorama

«È un’attività ricchissima di spunti, un panorama enorme, interessante e stimolante. Ogni caso che si presenta è diverso dall’altro» semplicemente “colui che firma gli atti”. «La verità, ovviamente, è molto più complessa. Il notaio è un pubblico ufficiale, delegato dallo Stato per garantire la sicurezza delle operazioni economiche dei cittadini e delle imprese e per garantire affidabilità e certezza ai pubblici registri. Garantisce la veridicità e la legalità degli atti, e ciò con responsabilità civili, penali, fiscali e disciplinari molto forti. Risponde in prima persona del proprio operato. Altro che una semplice firma. Pensiamo alla crisi che ha colpito gli Stati Uniti, dove la mancanza di controlli, in un


210 > I NOTAI > Angela Caputo > Super partes, con impegno e passione

Uno studio al femminile

ata a Napoli, dove ha conseguito brillantemente la laurea in Giurisprudenza presso l’università “Federico II”, Angela Caputo ottiene in breve tempo l’abilitazione forense e, subito dopo, il diploma di specializzazione in diritto civile, collaborando nello stesso periodo con la cattedra di Diritto privato

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sistema che non prevede la figura del notaio, ha causato un boom di frodi ipotecarie. Situazioni che lasciano sconcertati, perché davvero fondate sulla falsità. Ciò che è accaduto in Michigan è esemplare: 20 milioni di dollari sono stati trasferiti da una società finta per darli a un mutuatario che non esisteva, con la garanzia offerta da una casa che non esisteva». Come riesce un notaio donna a conciliare lavoro e famiglia? «Come fanno tutte le donne che lavorano: con grandi sacrifici. Negli ultimi vent’anni la percentuale di donne notaio è passata dal 13% al 27%, ma la strada da fare è ancora lunga. Troppo spesso infatti, ancora oggi, il cliente che entra in studio rimane sorpreso quando dietro la scrivania trova una donna». Cosa ama di questa professione? E cosa invece vorrebbe cambiare, se potesse? «L’aspetto più bello è senza dubbio il contatto quotidiano con le persone. Per comprendere il

avanzato presso l’ateneo partenopeo “Suor Orsola Benincasa”. Un impegno che si traduce, tra l’altro, in una serie di pubblicazioni accademiche, tra cui gli articoli “La novazione” e “La remissione del debito”, pubblicati quest’anno all’interno del volume Le obbligazioni, edito da Giuffrè. Ma la vera vocazione era il notariato, per Caputo, che dopo aver superato l’esame, a 29 anni, sceglie di esercitare nel distretto di Mantova, nel tranquillo paese di Volta Mantovana, sulle colline Moreniche, a pochi passi dal Lago di Garda. Uno studio “tutto al femminile”, quello gestito dal notaio Caputo. E soprattutto, giovane. «Le mie collaboratrici – spiega – ognuna incaricata di una mansione ben precisa, hanno al massimo trent’anni e l’intesa professionale è tale da farci sentire come una famiglia, fondata su stima e rispetto reciproco». E soprattutto, sulla disponibilità, requisito fondamentale quando agli impegni professionali si uniscono quelli familiari, non meno importanti. «Ho due figli – spiega Caputo – di cui uno ancora molto piccolo. E tuttavia, nonostante le difficoltà, cerco di dedicare alla famiglia più tempo possibile. Sono un notaio, certo, ma non dimentico mai di essere anche e soprattutto moglie e madre».

problema di un cliente, occorre spesso conoscere molti particolari privati, se non segreti. Si finisce con il crescere con il cliente, maturare con lui. Un rapporto che richiede grande saggezza da parte del notaio, da cui del resto la gente si aspetta risposte concrete, soluzioni chiare. Quello che più mi dispiace, invece, è il dover constatare che nella maggior parte dei casi il cliente non percepisce il lavoro, l’impegno e anche la partecipazione, professionale e personale, che c’è dietro ogni stipula». Qual è l’episodio che più l’ha toccata? «Uno degli episodi più toccanti è stato quando, alcuni mesi fa, sono stata chiamata in ospedale al capezzale di un anziano per redigere il suo testamento. Pochi giorni dopo ho appreso la notizia della sua morte. Un incontro di cui conserverò sempre il ricordo. Sapere che la persona che hai di fronte ti sta affidando le sue ultime volontà è una grande responsabilità, fonte di una grande tensione ma anche di una grande emozione».



212 > NOTAI > Donatella Tedeschi > Sfide professionali

UNA VISIONE FONDATA SULLA FIDUCIA DI PAOLO

NOBILIO

Abituate a districarsi su più fronti, capaci di ascoltare e di lavorare in team. Le donne, nel notariato, sembrano avere una chance in più. Anche quando si tratta di affiancare le imprese, in un mondo in continuo mutamento. La testimonianza appassionata del notaio Donatella Tedeschi

enacia siciliana, rigore genovese. È il delicato equilibrio tra questi due aspetti a caratterizzare la visione professionale e personale di Donatella Tedeschi. Una visione fatta di sfide continue. Dal superamento, a soli 28 anni, del concorso notarile, in un momento in cui la percentuale di donne nella categoria era appena del 10%, fino alla decisione, nel 1998, di associarsi con il collega Gianluca Bozzo. Una scelta che nasce dalla condivisione di alcuni imprescindibili principi deontologici. «Cura personale del cliente, prima di tutto – spiega Tedeschi – soprattutto per i soggetti economicamente più deboli. Ma anche costante attenzione alla consulenza, attraverso un dialogo personalizzato che inizia dal momento in cui viene impostata la pratica per concludersi con la stipula. E infine correttezza, trasparenza e

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Il notaio Donatella Tedeschi, titolare di uno studio associato a Genova

disponibilità, per instaurare un rapporto di fiducia che si consolidi negli anni e attraverso le generazioni». Secondo Tedeschi, del resto, le esigenze di semplificazione, prioritarie in una società globalizzata come la nostra, non devono far dimenticare l’importanza di un sistema di regole e di soggetti che ne garantiscano l’applicazione. «Oggi più che mai – precisa – di fronte agli effetti perversi di un liberismo spinto all’eccesso, l’indipendenza e l’attività certificatrice del notaio costituiscono un’insostituibile garanzia contro frodi e abusi, che creano allarme sociale e contenzioso, che è altamente dispendioso per le parti». Inevitabile pensare alla celebre massima di Francesco Carnelutti: “Più notaio, meno giudice”.


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Un percorso coerente, un obiettivo ambizioso Prima di diventare notaio, Donatella Tedeschi ha otteMa come nota Tedeschi è soprattutto nuto l’abilitazione forense e collaborato per diversi anni con nell’assistenza al cliente che si manifesta la l’università. «Tappe importanti di un unico percorso – funzione sociale del notaio. «Ridurre le spiega – che mi ha portato ad affrontare con la giusta asimmetrie informative, spiegando al cliente il preparazione quello che fin dalla laurea ritenevo l’obiettivo più ambizioso: superare il concorso più difficile, per significato delle clausole di un contratto e esercitare una professione di prestigio, con un’alta valenza coinvolgendolo come partner nella produzione sociale e una solida e qualificata preparazione giuridica». dell’atto: è a questo che dovrebbe ispirarsi oggi la nostra filosofia professionale». Solo così, continua, si può «ricostituire nel pubblico la percezione dell’utilità del notariato, che col decentramento istituzionale e il federalismo fiscale vedrà aprirsi nuovi spazi, amplificando il proprio ruolo di garante delle relazioni contrattuali e della certezza delle transazioni economiche». Un ruolo tanto più importante quando il cliente è un’impresa, che il notaio è in grado di affiancare dalla nascita attraverso tutte le fasi successive. «Da quando l’omologazione degli atti societari non spetta più alla magistratura – spiega Tedeschi – per iscrivere una nuova società al registro delle imprese basta un giorno, a fronte dei tempi molto lunghi necessari in precedenza». Ma il ruolo del Situazioni molto complesse, da un punto di vista notaio nella vita d’impresa va ben oltre. «Può giuridico, di fronte alle quali occorre essere determinante, ad esempio, nella un’approfondita conoscenza del diritto liquidazione delle imposte indirette sugli atti societario, campo di cui Tedeschi si occupa con societari, materia particolarmente delicata, che se particolare intensità, smentendo una volta di più ben gestita può portare notevoli risparmi alle l’opinione, tanto falsa quanto diffusa, che si tratti di una specializzazione “poco femminile”. «Fortunatamente – assicura – nel mondo delle professioni, in particolare legali, questo pregiudizio negli ultimi 15 anni si è ormai dissolto. Sempre più colleghe si specializzano in questo campo e posso affermare che oggi nel notariato non esistono settori a vocazione “maschile” o “femminile”». Vero è, tuttavia, che alcuni tratti dell’attività notarile la rendono particolarmente adatta alle donne, «per natura portate all’ascolto e all’attenzione nei confronti delle persone e dotate di capacità di applicazione imprese». Senza contare tutte le operazioni di e di approfondimento delle problematiche. Non fusione, leveraged buy out e finanziamento con solo: sanno lavorare in team, senza prevaricazioni pool di banche, ormai fondamentali per e con notevoli abilità gestionali, abituate come conservare competitività. Così come il ricambio sono ad affrontare problemi contemporagenerazionale. «Un passaggio cruciale – chiarisce neamente e su più fronti, famiglia e professione». Tedeschi – in cui sempre più spesso si ricorre alla Mondi diversi, certo, ma non inconciliabili, come normativa dei patti di famiglia, che tutela dimostra l’esperienza di Donatella Tedeschi. Che l’impresa considerata come bene produttivo dal con un sorriso assicura: «Accogliere le sfide rischio di disgregazione che può derivare professionali senza rinunciare alle gratificazioni personali e familiari si può». dall’apertura della successione del titolare».

«Oggi più che mai, l’indipendenza e l’attività certificatrice del notaio costituisce un’insostituibile garanzia contro frodi e abusi»


214 > GIUSTIZIA E MEDIA > Graziana Campanato > Ciò che preoccupa è il dopo

IL DOVERE DI OFFRIRE UNA seconda CHANCE Processi in aula di tribunale e processi nei salotti televisivi. Un’anomalia, forse non solo italiana, che va ridimensionata. Il magistrato Graziana Campanato richiama i media, e i colleghi, a una maggiore riservatezza. Soprattutto quando si tratta di minori DI SARAH SAGRIPANTI

Il diritto minorile è una tematica che forse per natura tocca più da vicino le corde della sensibilità femminile, rispetto a quella maschile. E in effetti in questi ultimi anni stiamo assistendo a un continuo aumento di magistrati donne nei tribunali del settore». Con la consapevolezza di chi per anni ha seguito da vicino tematiche difficili e delicate, Graziana Campanato, oggi che è consi- pore, perché l’opinione diffusa è quella che un adolegliere presso la Corte di Cassazione, lancia un scente non possa mai essere crudele, mentre non appello a ridimensionare l’attenzione mediatica sui sempre le cose stanno così. Quando poi il reato viene processi penali, soprattutto quelli che vedono coincompiuto, è forte la richiesta di una maggiore sevevolti i minorenni. Magistrata e psicologa, Camparità, a non essere indulgenti perché, appunto, si nato di processi mediatici ne sa qualcosa. Ha tenuto tratta di un minore. Come se questa possa impedire la presidenza di processi contro Autonomia Operaia, in futuro la commissione di reati da parte di altri la mala del Brenta, primo processo per mafia nel Veneto, o l’assalto al campanile di Venezia Graziana Campanato, entrata in magistratura nel da parte dei Serenissimi: processi di cui 1967, da sempre è impegnata nel campo dei disi è parlato per anni sui media. Ma ritti civili e sociali. quando si tratta di minorenni, l’attenMembro per vari anni del Comitato per le pari opzione a non superare il limite deve esportunità presso il Consiglio Superiore della sere ancora maggiore. «Perché un Magistratura, attualgiovane che ha ancora tutta la vita damente presiede l’Associazione italiana donne vanti, ha bisogno di tornare nell’anonimagistrato mato e provare a ricostruirsi il proprio futuro». I casi in cui un minore compie un reato suscitano sempre molto interesse da parte dell’opinione pubblica. Sicuramente un’attenzione rispetto a quelli commessi da un adulto. «Credo che ci sia prima di tutto stu


© STEFANO G.PAVESI / CONTRASTO

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soggetti o di quel soggetto stesso». Invece non è così? «Abbiamo verificato che dove vige la pena di morte non c’è minore criminalità, anzi. L’Italia è uno dei Paesi nel mondo, insieme alla Spagna, dove si registrano meno reati da parte dei minori. I reati gravi come l’omicidio, poi, sono pochi, ma se ne parla talmente tanto che sembrano infinitamente di più. E quando questi casi clamorosi suscitano l’attenzione da parte dei media, la gente ha paura e chiede condanne più severe, accusando un sistema giudiziario che a loro dire è troppo mite. E in effetti lo è, ma solo perché si pone l’obiettivo di recuperare il minore. La strada che il nostro Paese ha scelto è quella di crescita, aiuto e sostegno per attuare

«Il processo penale ha le sue regole e non sempre si arriva alla verità e alla giusta sentenza. Ma questo purtroppo è un concetto difficile da comprendere per l’opinione pubblica» una giusta prevenzione». Quali sono le caratteristiche peculiari della giustizia minorile italiana? «Nella legge italiana esistono norme che favoriscono, per piccoli reati, la fuoriuscita dal processo penale del minore, a patto che questo si impegni in un percorso di recupero studiato dai servizi sociali e appro-


216 > GIUSTIZIA E MEDIA > Graziana Campanato > Ciò che preoccupa è il dopo

L’Italia è uno dei Paesi nel mondo, insieme alla Spagna, dove si registrano meno reati da parte dei minori. I reati gravi come l’omicidio, poi, sono pochi, ma se ne parla talmente tanto che sembrano infinitamente di più

Un forte impatto mediatico influisce in qualsiasi tipo di processo. Anche se il giudice è abituato a superare i condizionamenti, in un processo a un minore si trova più stretto nelle maglie della spettacolarizzazione. Anche dal punto di vista dell’imputato, questa attenzione certo non aiuta.

vato dal giudice. Si tratta di un percorso difficile, che prevede attività di volontariato e lavoro in comunità, oltre allo studio, e non tutti sono in grado di affrontarlo. Anche il processo vero e proprio, poi, pur avendo le stesse regole processuali di quello ordinario, prevede pene più mitigate, come ad esempio il limite dei trent’anni e non l’ergastolo». In un processo in cui è imputato un minore, sono molto maggiori anche le implicazioni psicologiche sulla personalità e lo sviluppo della persona. «Proprio per questa peculiarità, la stessa composizione del collegio giudicante un minorenne è particolare: due giudici togati e due psichiatri, psicologi o pediatri infantili. Il diritto dei minori è l’unico ambito in cui sia prevista per legge la valutazione della personalità, mentre nel campo ordinario si utilizza una perizia psichiatrica esterna o si usano categorie di pensiero non prettamente psicologiche». Ma secondo lei in che modo una visibilità mediatica troppo spinta interferisce sull’esito del processo e sulla stessa personalità del minore? «Un forte impatto mediatico influisce in qualsiasi tipo di processo. Anche se il giudice è abituato a superare i condizionamenti, in un processo a un minore si trova più stretto nelle maglie della spettacolarizzazione. Anche dal punto di vista dell’imputato, questa attenzione certo non aiuta. Purtroppo quando si parla di processi mediatici,

tutti sono sempre pronti a giudicare. Ma nessuno si ferma a riflettere su un semplice fatto: se si trattasse del proprio figlio, e non del figlio degli altri, vorrebbe che fosse messo alla gogna?». Qual è secondo lei il problema maggiore dei processi mediatici? «Il processo penale ha le sue regole e non sempre si arriva alla verità e alla giusta sentenza. Ma questo purtroppo è un concetto difficile da comprendere per l’opinione pubblica. Per mia esperienza, però, so che le stesse persone che per strada o nei salotti televisivi invocano la pena di morte, quando si trovano ad esempio a essere giudici popolari in una Corte d’Assise, sono restii a pronunciarsi per pene severe. La differenza sta nel parlare con cognizione di causa, o farlo tanto per fare. Ma di certo non possiamo imbavagliare chi porta la discussione sul processo nelle aule televisive». Ci vorrebbero regole più severe? «Un po’ di serietà maggiore e di riservatezza servirebbero, da parte dei media ma anche da parte dei giudici. I commenti dovrebbero essere pochi e sicuramente non essere espressi con il processo ancora in corso. Ma il problema oggi è che i processi durano dieci anni e nessuno vuole aspettare tanto per poterne parlare, perché allora non interesserebbe più nessuno».


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PER LE DONNE MAGISTRATO Graziana Campanato, entrata in magistratura nel 1967, da sempre è impegnata nel campo dei diritti civili e sociali. Membro per vari anni del Comitato per le pari opportunità presso il Consiglio Superiore della Magistratura, attualmente presiede l’Associazione italiana donne magistrato. Prima di diventare consigliere presso la Corte di Cassazione, dal 1999 al 2005 è stata presidente del tribunale per i minorenni di Venezia

Infatti se ne parla tanto nella fase delle indagini processuali, poi, una volta arrivata la condanna, o forse anche prima, l’interesse cala. «Questo forse è un bene. Perché un minore che sta scontando, o ha scontato, la propria pena, ha soprattutto bisogno di tranquillità per riprendersi la propria vita. Quando la persona esce dal carcere, meno forte è l’attenzione, meglio è. Perché purtroppo una condanna resta sempre una macchia e la persona deve fare i conti con la propria coscienza. È una necessità importante, soprattutto per le persone ancora giovani, che sta alla base dell’idea stessa della pena come percorso di recupero e reinserimento del minore». In che modo viene affrontato questo percorso? «Quando si tratta di minori, una parte della pena viene scontata in comunità o nell’istituto. Queste strutture si pongono l’obiettivo di fare in modo che il ragazzo non abbia tempi vuoti, ma sia continuamente impegnato in attività di studio o lavoro, e so-

prattutto riceva un sostegno psicologico, così che una volta uscito potrà fare conto su delle risorse. Questo percorso di reinserimento a volte viene visto come una forma di espiazione troppo leggera, mentre posso dire per esperienza che la perdita della libertà per un giovane è già di per sé molto pesante, e porta spesso verso l’abbandono e l’apatia. Sembra paradossale, ma per certi casi molto difficili riguardanti ragazzi che non appartengono a un ambiente che li possa aiutare, trovarsi all’interno di un carcere può essere addirittura d’aiuto. In certi casi limite di contesti familiari e sociali difficili, la pena detentiva può essere una benedizione che rompe il legame con una vita sbagliata e dà avvio a una risalita». Ma le strutture italiane sono adatte per accompagnare questo percorso? «Le strutture esistono, ma ovviamente se il numero dei carcerati aumenta, e con l’ingresso degli stranieri hanno iniziato ad affollarsi anche le strutture minorili, la situazione si fa difficili. Considerarli meravigliosi collegi è sbagliato, ma sono comunque luoghi in cui giovani che magari prima vivevano per strada o in ambienti disagiati, trovano il punto di riferimento di un adulto che li può riaccompagnare verso la vita».


220 > TESTIMONIANZE > Adriana Boscagli > Il segreto è sapere ascoltare

L’avvocato Adriana Boscagli. Il suo studio legale ha sede a Roma e a Milano


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LA PROFESSIONE PIÙ BELLA La quotidiana sfida per un avvocato è «imparare ogni giorno ad ascoltare il proprio assistito con la testa, il cuore e la pancia». Mediando i conflitti nel reale interesse delle parti in causa. Adriana Boscagli svela come ama la sua professione DI

CRISTINA BANDINI

a professione di avvocato era considerata solo trent’anni anni fa quasi un’esclusiva degli uomini. Quando Adriana Boscagli ha mosso i primi passi, erano ancora poche le donne laureate in legge che decidevano di intraprendere la libera professione. «Sono stata fortunata ad avere due genitori speciali, due eccellenti maestri, un marito che ha compreso e a volte sopportato, una figlia straordinariamente in gamba». Guardandola traspare ancora l’entusiasmo del primo giorno, il convincimento che la sua sia “la professione più bella che ci sia”, come afferma con grande convinzione. «Una professione che ti accompagna a vivere meglio la vita, imparando ogni giorno ad ascoltare il cliente con la testa, il cuore e la pancia. È una grande responsabilità e anche un onore, avere in consegna quello che può essere considerato il problema della vita. Ti inorgoglisce risolverlo e ti gratifica il ringraziamento di chi ti si affida». Fa bene trascorrere con lei una giornata nella stanza del suo studio. Le questioni si accavallano continuamente, ma lei è sempre accogliente e infaticabile. E non mancano piccoli e grandi riconoscimenti: una poesia dedicata da un cliente incorniciata in un quadro. L’opera di una pittrice che rappresenta il coraggio di alzarsi per uscire dall’incubo. La piccola scultura nera di una donna che si raccoglie in se stessa, il disegno con un melograno portafortuna regalatole da un cliente speciale. È l’espressione della gratitudine provata da persone che hanno trovato, insieme al diritto, comprensione, solidarietà e soprattutto passione per il lavoro, serietà, professionalità e magari si sono divertiti anche a sentire il telefono che squilla all’impazzata, la figlia che chiede l’analisi logica, l’amica che vuole il consiglio

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222 > TESTIMONIANZE > Adriana Boscagli > Il segreto è sapere ascoltare

urgente su cosa dire al partner e la divorziata chiusa fuori casa che l’aspetta per sfondare la porta. Per non parlare del consiglio di classe, perché Adriana Boscagli non si fa mancare niente: è anche la rappresentante. Lettere di bambini e di adulti. Parole di ringraziamento per risultati conseguiti da chi va fino in fondo, aspettando i tempi di una giustizia sempre troppo lunga per concludere un dolore o una preoccupazione. Le dodici ore al giorno dedicate al lavoro nello studio sono compatibili con il ruolo di madre? Dalla foto sorridente di una splendida adolescente, che fa capolino sulla scrivania, sembrerebbe proprio di si. «Avere una figlia – prosegue l’avvocato – è la cosa più bella che possa capitare nella vita. Mi sono innamorata di lei da quando ho scoperto di aspettarla e da allora è sempre stato un crescendo. Fortunatamente, è una bambina molto intelligente e buona, comprende che la mia presenza fisica sia soprattutto nel week end. Del resto, ci sentiamo spesso durante il giorno con ogni mezzo. Usiamo skype, sms, facebook e anche il telefono. Ci divertiamo con il latino, la matematica, la bicicletta, il tennis e lo sci, ma anche con le crêpes che lei è molto più brava di me a preparare. Mi prende in giro quando piango davanti a un film o mentre lei, nascondendo le sue lacrime, legge La capanna dello zio Tom. Fin da piccola, ha preferito addormentarsi con i racconti dei miei casi giudiziari e

oggi si diverte a risolverli con gli amici». Il confronto con l’avvocatura al maschile è stato inevitabile nel percorso professionale di Adriana Boscagli. «Quando ho iniziato questo lavoro, ero consapevole che, se fino a quel momento, era stato un mondo prettamente ad appannaggio degli uomini, poteva essere condiviso anche con le donne». Dalla maggioranza dei colleghi uomini, riconosce di aver trovato accoglienza, condivisione, rispetto e simpatia. «Non si fa l’avvocato, lo si è». La passione per la giurisprudenza matura durante il liceo e nasce da una serie di elementi: il rispetto per il prossimo e delle regole, il desiderio di essere utile, l'interesse di conoscere la legge con la elle maiuscola. «L’affermazione non è facile. Rispetto a un collega uomo, diciamolo, per affermarci dobbiamo essere brave il doppio e qualche volta chi ascolta ti guarda come fossi la bella addormentata. Ma che importa, si va avanti perché avvocato si nasce e non si diventa. Spesso capita di non comprendersi e, a volte, quando si è trascinati dalla voglia di vincere, non si lascia un simpatico ricordo di noi all’avversario. Ma questo accade indistintamente con legali uomini e donne». Anche il confronto con il magistrato è assolutamente scevro da qualsivoglia pregiudizio. Spesso anche gradevol-


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«Quando ho iniziato questo lavoro, ero consapevole che, se fino a quel momento, era stato un mondo prettamente ad appannaggio degli uomini, poteva essere condiviso anche con le donne»

mente garbato. «L’aspetto che conta è sempre ciò che dice il diritto, ciò che recita la procedura. Studiare per trovare la migliore applicazione è l’aspetto più creativo. Rapportarsi con il Giudicante è sempre un esame, un banco di prova che ogni giorno rende elettrizzanti le proprie azioni. Il diritto civile non è noioso, è vita!» La stesura di un contratto, la costituzione di un’azienda, la protezione di un marchio, i diritti di un autore, la protezione di una famiglia e dei bambini, fino al rispetto di volontà che valicano l’esistenza terrena. Tutto questo è vita. L’avvocato Boscagli si è dedicata in prevalenza alle specializzazioni del diritto di famiglia e alla proprietà intellettuale. Con una particolare attenzione al bene della persona, all'interesse più stretto dell'individuo. In questo senso c'è tanto da cambiare, adeguare, ma un avvocato può fare molto. «Un approccio diverso, la scelta di una strategia, la prudenza o la grinta al momento giusto, tutto questo identifica la differenza tra un avvocato e un altro. Ma non solo. È fondamentale tener presente la personalità del proprio assistito e non tradirla mai, cercando di digerirla ogni volta, per riuscire ad essere solo la sua longa manu». Soprattutto nel diritto di famiglia, dove l’avvocato riveste una funzione speciale. Perché la sua missione è contenere il dolore, la rabbia. Limitare e non accentuare, evitando di alimentare i conflitti. «Ma è meno facile di quanto non possa sembrare e quando si as-

siste a scempi o a profonde ingiustizie, la voglia di combattere per proteggere i più deboli è tale da far restare in piedi per intere nottate». Adriana Boscagli ricorda con piacere le battaglie combattute con le multinazionali per riconoscere un marchio o per dismetterne l’impiego abusivo. Materia non meno affascinante è il diritto di famiglia. «Affrontando numerose cause di separazione e divorzio, non ho mai riscontrato due situazioni uguali. Se penso agli ultimi vent’anni, particolarmente significativa è la storia di una “donna coraggio” che ha saputo reagire ai soprusi, a un paese ancora legato a vecchi sistemi, ad antiche tradizioni e pregiudizi difficili da sradicare. Insieme siamo riuscite a far riconoscere il figlio avuto da un compagno che si era “dimenticato” di essere padre». Ma poi ci sono anche uomini che ce la mettono tutta per recuperare il proprio matrimonio o mantenere in piedi il rapporto con una donna che ormai è andata via. «Ricordo un cliente che, appena finito di ascoltare la discussione della sua causa e in attesa di conoscere la sentenza, mi si avvicinò per dire: “avvocato comunque vada voglio che sappia che mi sento un uomo fortunato ad aver trovato sul mio cammino un legale che mi ha difeso come lei». Esiste un motto per Adriana Boscagli? «La vita è bella e vale sempre la pena di lottare per viverla al meglio. Arrendersi mai! Eppoi ha più fantasia di noi, basta saperla interpretare».


224 > LEGGE E MINORI > Simonetta Matone > Se l’impegno è donna

LA SENSIBILITÀ FA LA DIFFERENZA Adolescenti, bambini, donne. Sono spesso queste le categorie da tutelare e proteggere con più attenzione. Simonetta Matone, capo del gabinetto del ministero per le Pari Opportunità, racconta la sua esperienza di giudice minorile. E spiega gli obiettivi che ora è chiamata a raggiungere DI PAOLO

COLA

Una sensibilità più accentuata verso le problematiche dei più giovani. È questo per Simonetta Matone il valore aggiunto che una donna può portare nella professione di magistrato. Soprattutto quando le aule che si frequentano sono quelle del tribunale dei miniori. Matone, che è stata tra le altre cose giudice presso il tribunale di Lecco, magistrato di sorveglianza del carcere di Rebibbia, capo della segreteria del ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e, dal 1991 fino a pochi mesi fa, sostituto procuratore presso il tribunale dei minori di Roma, ora ricopre l’incarico di capo del gabinetto del ministero per le Pari Opportunità. Un ruolo che l’ha vista promuovere quattro disegni di legge tutti incentrati sulla tutela e difesa della donna e delle categorie più deboli: bambini e adolescenti. Per diciassette anni lei è stata sostituto procuratore presso il Tribunale dei minori di Roma. Quanto l’ha aiutata, nello svolgimento delle sue funzioni, il suo essere donna? «Molto più di quanto non si possa credere. Attenzione: naturalmente non attribuisco alcun valore allo stereotipo per il quale una donna magistrato debba restare in ambito, per così dire, domestico. Semplicemente, sono convinta che le donne abbiano una sensibilità maggiore verso le problematiche individuali dei minorenni; e, va da sé, questo è di enorme aiuto». Sebbene le occasioni di continuare a fare carriera in altri settori della giustizia o istituzionali non le siano certo mancate, cosa l’ha spinta a optare per il campo minorile? «È stata proprio la mia esperienza politica presso il ministero della Giustizia a dirottarmi verso il tribunale dei minori. Per quattro anni, dal 1987 al 1991, ho lavorato come capo della Segreteria dell’allora guardasigilli, il professor Vassalli. Tra le mie varie funzioni vi era anche quella di leggere le lettere dei cittadini indirizzate al ministro, e mi resi rapidamente conto che la stragrande maggioranza di quella corrispondenza conteneva fattispecie


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età infantile o adolescenziale. Sono convinta che, se esiste un settore giuridico senza punti di discontinuità tra civile e penale, è proprio quello minorile. I processi aperti a difesa del minore, in caso di insuccesso, rischiano di trasformarsi, qualche tempo dopo, in processi contro il medesimo minore. Infatti, parecchi dei ragazzi che abbiamo processato ci erano già noti, perché apparsi tempo prima in tribunale per fattispecie civili. E, ahimè, non era certo una coincidenza». Come, e a quale livello, si devono muovere società e istituzioni per porre un freno a questa situazione drammatica? «Si deve assolutamente investire nel sociale. È necessario fornire ai ragazzi in difficoltà servizi degni di questo nome, con personale adeguatamente for-

Simonetta Matone, per 17 anni è stata sostituto procuratore presso il tribunale dei minori di Roma. Ora è capo di gabinetto del ministero per le Pari Opportunità

© Tania A3 / CONTRASTO

di pertinenza del tribunale dei minori. Fu la consapevolezza della contingenza del problema, e la volontà di dare una mano, a spingermi, al termine del mio incarico al governo, verso quella nuova fase della mia carriera». Sulla base della sua esperienza, che analisi si sente di fare dei tanti fatti criminosi che sempre più frequentemente si consumano tra le pareti domestiche e che vedono i minori vittime di efferati delitti, ma a volte anche spietati autori di questi? «Purtroppo non si può negare che esista una relazione inscindibile tra violenza subita e quella perpetrata ai danni di altri. Chi ha alle spalle un background di degrado, trascuratezza e maltrattamenti con ogni probabilità finirà per rendersi colpevole delle medesime cose di cui è stato vittima in


226 > LEGGE E MINORI > Simonetta Matone > Se l’impegno è donna

LE TAPPE DELLA CARRIERA Dopo aver vinto il concorso in magistratura, Simonetta Matone è giudice presso il tribunale di Lecco e dal 1983 al 1986 è magistrato di sorveglianza a Roma. Dal 1987 al 1991 è capo della Segreteria del ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, per diventare nel 1991 sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Roma, con il grado di Consigliere di Cassazione

Le donne e la Giustizia mato per captare i segnali di disagio provenienti dal mondo giovanile, per segnalarli e soprattutto per intervenire in maniera efficace». Sono convinta che le donne abbiano una senParlando delle cause che scatenano la violenza minosibilità maggiore verso le rile, uno dei principali imputati è la famiglia, capoproblematiche individuali dei minorenni; e, va da sé, saldo antico della nostra società e che ora sembra questo è di enorme aiuto essere entrata in una fase di crisi irreversibile. Lei, che è moglie e madre di tre figli, in che misura attribuisce la responsabilità di tutto questo al mutamento sociale del ruolo della donna? «Che l’istituzione-famiglia sia in crisi è fuori di dubbio, ma non è giusto appioppare la colpa solamente al cambiamento del ruolo della donna. Anzi, forse è stato più determinante il mutamento verificatosi nella parte maschile della famiglia. Negli ultimi trenta-quarant’anni le donne si sono riposizionate all’interno della società grazie alla spinta femminile e femminista, e questo è indubbiamente un aspetto positivo. Gli uomini, viceversa, non sono ancora riusciti a ridisegnarsi. È il ruolo del padre a essere in discussione: spesso assente, a volte violento, quasi mai autorevole. Molti dei ragazzi da me processati avevano un comun denominatore: il disprezzo della figura paterna. E, anche qui, non può essere un caso». In una società moderna esistono ancora valori della tradizione che vanno recuperati all’interno della famiglia e che al contempo non mettano in discussione le conquiste e la posizione che le donne si sono guadagnate all’interno del mondo del lavoro e della società in genere? «Certamente. È possibile costruire una famiglia fondata sul rispetto, sull’amore e sul valore forte dell’esempio sul lavoro. Tradizione che, al contempo, nulla toglie al ruolo che la donna si è conquistata nella società». Donne, violenza, politica. In merito quali sono gli input e i provvedimenti che state mettendo a punto al ministero per le Pari Opportunità? «Abbiamo già presentato quattro disegni di legge che hanno a che fare con il tema della violenza e della famiglia. Innanzitutto quello sul reato di stalking, ovvero quel tipo di atteggiamento persecutorio che generalmente si riserva all’ex-compagno o compagna dopo l’interruzione della relazione. In secondo luogo abbiamo presentato il disegno di legge contro la violenza sessuale, con aggravanti che puniscono e sanzionano severamente questo tipo di reato. Ancora, il disegno di legge che istituisce il garante nazionale per l’infanzia e per l’adolescenza: con questa nuova figura si intende tutelare al massimo i minori vittime di violenze. Infine, le misure contro la prostituzione, intese a difendere la vita e la dignità delle schiave del sesso minorenni. Quattro disegni-legge, insomma, tutti incentrati sul sociale». A proposito delle misure sulla prostituzione, da più parti, compresa una fetta del


© Tania / CONTRASTO

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«Si deve assolutamente investire nel sociale. È necessario fornire ai ragazzi in difficoltà servizi degni di questo nome, con personale formato per captare i segnali di disagio»

mondo cattolico, si sono sollevate delle proteste. Qual è la sua opinione in merito? «Alt. Ci sono state critiche, è vero, ma alla fine il Vaticano ha approvato il disegno di legge. E l’Associazione “Giovanni XXIII”, da sempre in prima linea nel recupero delle prostitute, idem. Personalmente, ritengo che la normativa sia buona e abbastanza esaustiva. Il principio ispiratore è quello di combattere la prostituzione, non di regolamentarla. Abbiamo introdotto un nuovo reato: l’associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. Per la prima volta il cliente è messo sullo stesso piano della prostituta. E, soprattutto, abbiamo introdotto una norma volta a favorire il rimpatrio assistito delle prostitute minorenni». Le sue frequenti partecipazioni a trasmissioni televisive l’hanno fatta conoscere al grande pubblico. Che idea si è fatta, attraverso questa esperienza, del ruolo che i media giocano in riferimento ai comportamenti sociali? «I media svolgono una funzione fondamentale per la democrazia, che è quella di informare i cittadini. Certo, è innegabile che abbiano un certo potere d’influenza, talvolta deleteria, e che in generale, soprattutto per quanto riguarda la televisione, sarebbe meglio proporre una programmazione più innovativa e qualitativa; ma non credo che questo si possa automaticamente tradurre in una sentenza di colpevolezza».


228 > FAMIGLIA > Patrizia Fabris > Separazioni, un fenomeno che cambia

LASCIARSI A QUARANT’ANNI DI ADRIANA

ZUCCARO

Il boom dei divorzi è sintomo di un disorientamento della morale? L’avvocato Patrizia Fabris Pea riflette sui problemi della nuova generazione on bastano gli appelli e le campagne pro famiglia per cambiare in Italia le attuali statistiche. Sensibilizzare le coppie alla piena comprensione e condivisione di un progetto come il matrimonio, privo di scadenza, non basta. Se per alcuni sacrificare l’indipendenza appare come una minaccia individuale, per altri è una semplice scelta, un’esperienza inedita da collaudare e, in caso di

N

protagonisti di una separazione venivano emarginati perché, in minoranza, dimostravano il crudo coraggio di estirpare un legame considerato inscindibile. E i figli dei separati si sentivano delle mosche bianche, quando

«Occorre riformare le normative sul divorzio. Se i figli sono gli unici a essere tutelati in pieno dalla legge, l’equità fra uomo e donna non è del tutto applicata» mancata riuscita, da cancellare. Ma questo atteggiamento è irresponsabile, afferma l’avvocato Patrizia Fabris Pea. Il matrimonio fonda la nostra società. L’incoscienza decisionale mista a casi di reale fallimento coniugale fa sì che, mentre il numero dei matrimoni scende a picco, quello dei divorzi si impenna. Lo sa bene l’avvocato Fabris che dopo anni di esercizio forense e l’accumulo di un’esperienza specifica nell’ambito del diritto di famiglia descrive le cause e gli effetti che determinano lo smembramento di molti nuclei familiari. «Fino a quindici anni fa – ricorda l’avvocato – le coppie adulte decidevano di separarsi ma, per svariate ragioni tra le quali il convinto rispetto dei precetti religiosi, quando fallivano il tentativo di conciliazione, spesso non giungevano al divorzio». Oggi il divorzio è al 99,9 per cento dei casi una diretta conseguenza della separazione. Sono concretamente cambiati gli ingranaggi del meccanismo sociale all’interno del quale tutto era riposto e supportato dall’importanza della famiglia, solida e indivisibile. «Una volta i

invece oggi rappresentano la maggioranza». Il trapasso generazionale ha comportato un forte aumento dei divorzi e l’abbassamento della fascia d’età delle coppie che portano a termine i tre anni di separazione previsti dalla legge per poi decretare il definitivo divorzio. «Se prima i divorziati appartenevano alla fascia d’età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni – continua l’esperta civilista – oggi invece rientrano nei quaranta». È cambiata la percezione morale, è cambiata l’educazione che si impartisce ai figli fin dall’infanzia, è cambiato il concetto di divorzio, non più scandaloso e incomprensibile ma, nel caso in cui la scelta matrimoniale cada in errore, chiaro e risolutivo. «Chi è cresciuto guardando “Rin Tin Tin” e “Torna a casa Lessie” – osserva l’avvocato Fabris Pea – vede nella famiglia un imprescindibile punto fermo su cui ruota tutto il resto di una vita vera; la generazione cresciuta con “Dallas” e “Beautiful” non assimila la separazione come un evento traumatico, perché filtra dalle immagini in tv l’accettazione di divorzi necessari, di matrimoni collezionati e di


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I motivi della separazione L’attenta rappresentante del foro veneziano, Patrizia Fabris Pea, considera il divorzio alla stregua di un fenomeno contagioso, ne condanna la normalizzazione che attualmente se ne evince dalle statistiche e ne valuta i costi considerandoli un lusso cui ben pochi potrebbero in realtà permettersi. La maggior parte dei separati è convinta che la separazione sia la pietra tombale del matrimonio. Per questo chiede di velocizzare gli esiti, rinuncia a combattere per guadagnare la possibilità di una

Sopra l’ Avvocato Patrizia Fabris Pea

riconciliazione, con l’unico obiettivo di sciogliere legalmente il legame matrimoniale e ricominciare una nuova vita. Tuttavia se da un lato le condizioni con cui si affronta la separazione gettano le basi per un vero e definitivo strappo coniugale, dall’altro vincolano le linee direttive di una vita futura. Che coinvolgono, necessariamente, la vita dei minori. A maggior ragione una scelta di responsabilità. È per questo che il diritto di famiglia ha un’importanza decisiva nella

società. Poiché affrontare un divorzio non è solo un momento che condiziona lo svolgimento della vita di ogni individuo. È anche un passo decisivo per le sorti della famiglia, il nucleo fondante della nostra società.

A dispetto della normalizzazione sociale che circoscrive il divorzio, lo scioglimento di un matrimonio deve essere una scelta sofferta.

famiglie allargate che rasentano l’inverosimile». Occorre tener presente la mancanza di normative a tutela della donna che, in caso sia sprovvista di un lavoro regolarmente retribuito, si ritrova a confrontarsi con le enormi falle presenti nella legge sulla comunione dei beni in relazione soprattutto alle tempistiche di applicazione e all’evanescente significato legittimo che ne consegue. «Credo sia opportuno riformare il sistema legislativo sul divorzio, rendere utilizzabili le norme nate a tutela delle donne e –incalza l’avvocato Fabris Pea – con prioritaria importanza, rendere le normative più eque tra uomo e donna, non di certo per rendere la separazione indolore. Lo scioglimento di un matrimonio deve essere una scelta sofferta. Il mio compito non è rendere l’esperienza del divorzio meno traumatica ma ascoltare con lucidità, capire e fare del vissuto psicologico del mio cliente la chiave d’accesso alla soluzione più idonea per il proseguimento della propria esistenza».


230 > SEPARAZIONI > Aurora Lusardi > Le facce della professione

LA COMPRENSIONE OLTRE LE PAROLE DI

GIULIA MASSINI

Separazioni e divorzi non sono semplici pratiche burocratiche, sono questioni umane, profonde e complesse. L’avvocato Aurora Lusardi riflette sulla famiglia

a ragazza, come tante, voleva diventare scrittrice, e i primi racconti, si sa, sono storie d’amore. Oggi di cuori – e di denari e di picche – si occupa ancora, ma le sue pagine sono di carta bollata e le storie in mezzo alle quali vive raccontano più disamori che amori. Perché Aurora Lusardi, parmigiana, è uno dei più apprezzati e battaglieri avvocati matrimonialisti, impegnata nelle aule dei tribunali, dove le leggi approdano per essere applicate, e in quelle dove nascono, protagonista per idee e progetti in sedi istituzionali e politiche. Occhi grigi dai lampi

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«Intelligenza, esperienza, onestà, astuzia e fantasia sono le doti che si richiedono a un buon avvocato, ma un buon matrimonialista deve possedere qualcosa in più: intuito e sensibilità» verdi – o viceversa? – e tipiche passioni al femminile nei ritagli di una professione che è responsabile impegno d’ogni giorno. Poco amante dei salotti, suo unico vero svago sono i weekend in Versilia e in Cadore, o in campagna sulle colline parmigiane. Per il resto, casa e ufficio: che vuol dire famiglia, nei panni di un marito di lungo corso, e nel senso di diritto di famiglia. Dopo cena – e dopo dodici ore di lavoro - si divide fra un Sudoku, il più difficile possibile, e una fiction televisiva, la più stupida possibile. «Che ha, comunque, sempre qualcosa da insegnare – commenta – perché i modelli di comportamento, anche quelli che riguardano le dinamiche familiari, si formano sempre più spesso lì, sui teleschermi nazionalpopolari, traggono lì ispirazione. Anche se poi, immancabilmente, è la vita – quella vera – che ci aggiunge del suo, ed è allora che ogni storia diventa unica e irripetibile». Come quelle che ogni giorno approdano nel suo studio. «Intelligenza, preparazione, esperienza, onestà, astuzia e fantasia sono le doti che si richiedono a un buon avvocato – spiega Aurora Lusardi, che svolge la professione da oltre trent’anni – ma un buon matrimonialista deve possedere qualcosa in più: l’intuito, la sensibilità, la capacità di comprendere ciò che il cliente e la controparte davvero vogliono, anche al di là delle loro stesse parole. Perché nelle carte di una separazione non ci sono solo articoli, commi e cifre, ma sentimenti e carne, e l’avvocato deve saper essere anche un sottile psicologo». Cosa segna davvero la fine di un’unione? «Il venir meno della complicità fra due persone. Finché questa esiste possono anche volare i piatti e gli insulti: l’intesa di fondo resta. Se la complicità scompare, non c’è più nulla di autentico che regga, nulla più da salvare».

Maria Rosaria Carfagna detta Mara, 32 anni, nata a Salerno, è ministro per le Pari Opportunità


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E quando qualcosa da salvare c’è ancora? «Mi è capitato più volte di sconsigliare a un cliente di separarsi, rendendomi conto che i motivi non erano davvero fondati: quando parlo di onestà professionale, parlo anche di questo. Come credo sia professionalmente onesto occuparsi solo di ciò di cui si è competenti per preparazione e esperienza. L’avvocato non può saper fare, e fare tutto, come certi vecchi medici di famiglia. Non può e non deve, come invece accade troppo spesso in questi tempi di concorrenza sfrenata. Il diritto è una scienza ogni giorno più complessa e richiede precise specializzazioni - formali o di fatto - come qualsiasi altra materia vasta e impegnativa». Separazioni, divorzi, alimenti, ma il diritto di famiglia vuol dire anche minori. «Per anni ho fatto parte dell’osservatorio nazionale per l’Infanzia, mi sono battuta e ancora mi batto

«La separazione oggi è più diffusa, perché non è più vissuta come un fallimento esistenziale» Cos’è l’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia? Un centro che svolge promozione di politiche per l’infanzia e l’adolescenza.

Perché i divorzi sono in aumento?

L’idea stessa della separazione è cambiata. Qual è un comportamento legale onesto?

Ammettere di non sapere tutto, specializzarsi.

perché tutte le garanzie processuali valgano anche per il diritto minorile. In particolare nel campo dell’affidamento dei minori, dove sono ancora numerosi i casi di bambini che vengono letteralmente strappati alle famiglie senza una reale tutela dei più fondamentali e ragionevoli interessi di entrambi. Bambini destinati a finire in qualche istituto e ad alimentare un vasto giro di interessi economici». Perché ci si separa sempre più spesso? Lei si occupa di diritto di famiglia da una trentina d’anni: cos’è cambiato nel tempo? «Il matrimonio, sotto il profilo civilistico, è un patto: un patto di solidarietà fra due persone che decidono di dar vita a quella società naturale che si chiama famiglia. È anche un impegno, quindi, e come tale dovrebbe essere sentito, ciò che accade sempre meno fin dall’inizio di un’unione. D’altra parte la separazione non è più vissuta come un fallimento esistenziale, tantomeno come una vergogna – ciò che un tempo teneva “artificialmente” in vita unioni del tutto fallite – ma piuttosto come una tappa da cui ripartire per una nuova vita». Felici e contenti? La ruota gira ancora.


232 > UNIONI > Angela Racanicchi > Sciogliere il vincolo

IL MATRIMONIO CHE (NON) FU DI

GIULIA MASSINI

Angela Racanicchi, avvocato della Sacra Rota, spiega condizioni e vantaggi dell’annullamento del vincolo davanti ai Tribunali Ecclesiastici L’annullamento del matrimonio davanti alla Sacra Rota è più che altro un fatto di coscienza. Per divorziati e conviventi che vogliono accedere ai sacramenti, secondo le necessità della propria morale religiosa, questa procedura è un passaggio indispensabile. C’è ancora troppa disinformazione, però, in merito alla possibilità di giungere all’annullamento del matrimonio secondo tale iter. Angela Racanicchi che nel 1986 fu la prima donna in Vaticano a esercitare la funzione di commissario deputato alla difesa del vincolo, fa il punto sulla situazione. Poiché i capi di nullità del matrimonio, che rendono il legame nullo, tamquam non esset, in quanto sorto invalidamente, sono ben ventiquattro.

«Una sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio stabilisce che il matrimonio è tamquam non esset, cioè come se mai fosse stato celebrato e con la delibazione può avere efficacia anche nello Stato italiano»

Avvocato, quali sono questi capi di nullità? «I più frequenti sono i vizi del consenso, fra i quali, ad esempio, la riserva mentale di uno o entrambi i nubenti di ricorrere alla separazione o al divorzio in caso di esito infelice o fallimentare del matrimonio. Inoltre, la riserva di non generare figli e l’esclusione della fedeltà coniugale. Altro vizio è l’errore circa una qualità dell’altra parte ritenuta fondamentale, o l’errore doloso circa una qualità che può perturbare gravemente il consorzio coniugale. Si pensi, ad esempio, a colui che tace il fatto di avere una grave malattia o di essere sterile, di avere riportato condanne penali, di aver mentito riguardo ai propri titoli di studio e competenze professionali, di avere gravi trascorsi di tossicodipendenza o di prostituzione. C’è poi il caso dell’incapacità psichica, dell’immaturità di giudizio, del timore e molti altri». Come funziona il procedimento che porta a questa sentenza? «Una causa di nullità è costituita da due gradi di giudizio, cioè devono intervenire due sentenze conformi che dichiarino nullo il matrimonio, secondo il principio della doppia sentenza conforme.


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«Il matrimonio può essere impugnato e dichiarato nullo anche dopo la morte di uno o entrambi i coniugi, ad esempio, per l’estinzione dei diritti ereditari»

Il primo grado di giudizio, nel corso del quale viene svolta l’istruttoria mediante l’acquisizione delle deposizioni delle parti e dei testimoni indicati, nonché di eventuali documenti, si conclude con la sentenza di primo grado, che, se dichiarativa della nullità, viene inviata d’ufficio al tribunale di appello. Se la sentenza di secondo grado conferma quella precedente, il matrimonio è definitivamente nullo e il procedimento si conclude». Data la necessità di risolvere comunque le questioni economiche in sede civile, quali sono i vantaggi effettivi dell’annullamento? «Nella maggior parte dei casi, coloro che intraprendono il giudizio ecclesiastico lo fanno per ragioni di natura morale e religiosa. Una sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio stabilisce che il matrimonio è tamquam non esset, cioè come se mai fosse stato celebrato e può conseguire anche gli effetti civili in forza dell’Accordo di Modifica del Concordato Lateranense del 1984 e relativo protocollo addizionale, cioè può avere efficacia anche nell’ordinamento italiano attraverso un procedimento di delibazione presso la Corte di Appello, superando così la procedura di

Quando ricorrere alla Sacra Rota Alcuni capi di nullità sono: la riserva di ricorrere al divorzio in caso di esito fallimentare dell’unione, l’esclusione di generare figli o della fedeltà, le condizioni poste al matrimonio, l’immaturità di giudizio, il dolo, il timore, i disturbi psichici, l’impotenza, e molti altri


234 > UNIONI > Angela Racanicchi > Sciogliere il vincolo

ZOOM L’avvocato Angela Racanicchi si occupa di cause per la dichiarazione di nullità e delle relative problematiche di diritto di famiglia. E’ consulente di sacerdoti ed ordini religiosi per le più svariate esigenze di natura contrattuale, amministrativa e giudiziale. E’ titolare di uno studio legale a Roma nel cuore del quartiere Prati, che si occupa,con i suoi qualificati collaboratori avvocati, di diritto

«I diritti dei figli restano impregiudicati, sia per quanto riguarda il loro status di figli legittimi che per quanto concerne il loro mantenimento da parte dei genitori» internazionale privato, diritto civile e penale. L’avvocato Angela Racanicchi, ha conseguito il dottorato in diritto canonico con la massima lode, il titolo di avvocato rotale (gli avvocati rotali iscritti all’albo sono appena 200 in tutto il mondo!) e ben tre specializzazioni. Nel 1986 è stata la prima donna in Vaticano ad essere nominata commissario deputato alla difesa del vincolo ossia pubblico ministero.

divorzio, alla quale dovrebbero necessariamente ricorrere coloro che, dopo tre anni di separazione legale, intendessero sciogliere il vincolo matrimoniale. La delibazione della sentenza canonica fa sì che anche per lo Stato italiano il matrimonio sia nullo, facendo venir meno ogni obbligo di solidarietà e di mantenimento fra gli ex coniugi. In tutto ciò i diritti dei figli eventualmente nati restano impregiudicati, sia per quanto riguarda il loro status di figli legittimi che per quanto concerne il loro mantenimento da parte dei genitori». Che tempi ci sono e quali costi? «La durata media di una causa ecclesiastica per la


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dichiarazione di nullità è di circa due anni e mezzo. Riguardo ai costi, è importante sottolineare il fatto che chiunque può intraprendere una causa di nullità matrimoniale. Infatti, coloro che non ne hanno le possibilità economiche, esibendo idonea documentazione, possono richiedere al tribunale ecclesiastico regionale competente la concessione del gratuito patrocinio e l’esonero o la riduzione delle spese processuali. Negli altri casi, è opportuno sapere che i costi da sostenere per le spese e l’onorario dell’avvocato di fiducia non sono determinabili in senso astratto ed è necessario l’approfondimento di ogni singolo caso per poterli quantificare». Come è vissuto dai clienti, soprattutto dalle donne, il fallimento del matrimonio? «Sicuramente il fallimento di un matrimonio è e resta sempre una pietra miliare nel ricordo dei protagonisti. Probabilmente le donne, rispetto agli uomini, riescono prima e meglio a metabolizzare la sconfitta. Certamente, molto

dipende dalle ragioni che hanno determinato il fallimento dell’unione. Se la donna ha dovuto subire gravi umiliazioni, crudeltà e violenze, è chiaro che la ripresa sarà più lenta e si libererà dal dolore di ciò che ha vissuto con maggiore difficoltà e sofferenza». Ritiene che la sensibilità femminile sia uno strumento capace di agevolare il trattamento di casi così delicati, in cui è in ballo la coscienza e l’intimità profonda delle persone coinvolte? «Di ciò sono fermamente convinta. Infatti, secondo la mia esperienza posso dire che non soltanto le donne si affidano più volentieri a un avvocato donna, ma anche gli uomini, i quali ricercano, strano a dirsi, forza e determinazione proprio nell’avvocato al femminile. Penso che la donna avvocato abbia, con la peculiare sensibilità che la distingue, la possibilità di trovare più agevolmente la chiave di lettura della vicenda di cui la persona che ha davanti è stata protagonista».


242 > DONNE E VIOLENZA > Cinzia Tani > Per vendetta e per esasperazione

IL LATO OSCURO Dialogo con Cinzia Tani, per una riflessione sulla fisionomia del “delitto al femminile”. Ricordando alcuni casi di assassine italiane, la scrittrice e giornalista fa il quadro di una situazione profondamente cambiata dopo l’emancipazione DI GIULIA MASSINI egli ultimi trent’anni i moventi e le metodologie del delitto al femminile hanno cambiato faccia» dichiara Cinzia Tani. Perché la donna si è emancipata. Prima, infatti, era coinvolta esclusivamente nel delitto di tipo passionale. Uccideva solo in casa e solamente parenti, o eventualmente l’amante: il padre tiranno, il marito traditore che l’aveva abbandonata. Si pensi al caso della contessa Bellentani, al caso Rina Fort e a numerosi altri in Italia. Di solito, l’omicidio avveniva in modo subdolo, con il veleno, difficilmente con armi o per strangolamento. La donna, cioè, non affrontava mai la vittima faccia a faccia. «Da quando è diventata indipendente, da quando non sono più i suoi genitori a scegliere per lei l’uomo da sposare, la donna si comporta diversamente. Innanzitutto, può divorziare, lasciando così una situazione infelice prima che questa giunga all’esasperazione. Inoltre, può lasciare il marito se si innamora di un altro». La parità dei sessi ha portato anche a una parità di moventi. Anche la donna oggi uccide per gli stessi motivi dell’uomo: rabbia, raptus, ambizione, vendetta, soldi. Solo la motivazione sessuale non porta mai la donna all’omicidio.

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Specularmente questa parità dei sessi ha portato l’uomo a uccidere con gli stessi moventi della donna? Cioè, l’universo passionale muove anche l’uomo al delitto, oggi? «Esattamente così. E questo fenomeno rappresenta un segno del grande cambiamento sociale che è avvenuto negli ultimi trent’anni. Oggi è l’uomo a uccidere la donna che lo lascia o che si innamora di un altro, o che si porta via i figli. Insomma il

cambiamento non sta tanto nel fatto che l’uomo compia delitti “al femminile”, ma che dimostri di essere spiazzato, privato del ruolo di padrone». L’eros o il sesso sono moventi nel delitto compiuto da una donna? «No, le pulsioni sessuali femminili sono fisiologicamente diverse da quelle maschili. Anche quando la donna uccide per perversione sessuale all’interno, mettiamo, di una coppia killer, è sempre l’uomo il maniaco sessuale. Se una donna si innamora di un uomo del genere, può essere portata a compiere delitti sessuali anche solo per compiacerlo». A proposito di coppie, qual è la sua opinione su Rosa Bazzi e sul suo rapporto con Olindo? «È una storia che rappresenta una novità unica. Ogni coppia assassina, in genere, è formata da un leader e da una persona succube. Di solito il leader è l’uomo. Inoltre, la coppia, qualora venga arrestata e subisca un processo, generalmente si divide. La donna si pente, cerca nuovamente i sentimenti originari e la famiglia. Ma il caso di Rosa e Olindo sembra smentire questa idea. Insieme i due hanno formato un legame morboso e simbiotico, unito contro il nemico, rappresentato dalla realtà esterna al loro guscio protetto. Essendo due persone dalla vita squallida e dalla situazione economica precaria, senza la possibilità di avere figli, hanno dato al loro legame un significato particolare, organizzando la vita in modo regolato e perfetto. Chiunque si azzardava a molestare questa armonia rappresentava una minaccia. Dopo essere stati arrestati, il loro rapporto è rimasto invariato. Anzi, si sono uniti ancora di più.


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Cinzia Tani, giornalista, scrittrice e autrice televisiva


244 > DONNE E VIOLENZA > l'opinione > la sofferenza come movente

L’omicidio senza genere

di Loretta Micheloni*

Ho incontrato pochi casi di reati violenti commessi da donne. Credo che la donna sia più spesso vittima di crimini che autrice di violenza. Qualora commetta un reato violento, lo fa perché si trova in uno stato di grande sofferenza emotiva, non più sostenibile. La delinquenza come fenomeno femminile è stata tradizionalmente poco considerata, vista in un’ottica maschilista. Fino alla metà del secolo scorso, il problema della criminalità femminile è stato accantonato se non “mortificato”, data la sua scarsa rilevanza statistica dei crimini che dava adito a interpretazioni dei reati in questione secondo cause biologiche e psicologiche imputabili alle singole donne coinvolte. La donna attuale è sicuramente più emancipata di un tempo. Questo avrebbe dovuto comportare un progressivo aumento dei reati commessi dalle donne, ma personalmente ritengo che ciò abbia influito in modo minimo sulla mole e qualità dei reati commessi dal “gentil sesso”, ancora numericamente inferiori rispetto a quelli commessi da uomini. La donna criminale, la donna assassina, è una rarità. E in generale commette meno reati dell’uomo, concentrati nel furto, nell’emissione d’assegni a vuoto, nell’appropriazione indebita. E credo, in ogni caso, che non si possa definire alcun reato come tipicamente femminile. Se qualche elemento può sicuramente aiutarci a comprendere l’incidenza di particolari eventi criminosi, di certo non è l’appartenenza al genere femminile. Decisamente più interessante da questo punto di vista è la considerazione delle condizioni economiche, sociali e culturali del reo. Per quanto riguarda in particolare i reati violenti, posso sicuramente concordare sul fatto che, se c’è un legame emotivamente significativo tra autore e vittima, allora aumenta l’incidenza della responsabilità femminile del reato. Questo dato sembra essere ulteriormente confermato dal costante aumento di figlicidi imputabili, secondo la mia modesta opinione, a situazioni di profonda instabilità psicologica della donna-madre, magari in prossimità del parto. Ma anche qui occorre fare dei distinguo, poiché spesso gli omicidi sono travisati dall’ottica che ne danno i media, più interessati allo spettacolo che all’informazione. È inoltre particolarmente appassionante l’idea, ampiamente diffusa, secondo la quale la scarsa presenza femminile nelle carceri vada attribuita anche al presunto sentimento “cavalleresco” con cui opinione pubblica e giudici valuterebbero il fatto criminoso compiuto dalla donna. Ma che alla donna si riservi un trattamento di favore è un fatto che, per etica professionale, non prendo nemmeno in considerazione. Contesto comunque qualsiasi preconcetto di questo tipo possa insorgere in seno ai giudici. Considero in definitiva il fenomeno dei reati in genere difficilmente inquadrabile in una bipartizione basata sul genere considerando di massima attendibili, anche in ordine alla mia esperienza professionale, le statistiche *Avvocato matrimonialista prodotte in ambito nazionale. in Verona

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La donna criminale, la donna assassina, è una rarità. Più spesso è vittima e in generale commette meno reati rispetto all’uomo

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E anche questa è una novità». Cosa spinge una madre a uccidere un figlio? È malata, invidiosa, depressa, oppure considera il figlio di sua proprietà e si sente libera di decidere del suo destino? «Questi moventi sono tutti validi. Solo dopo Cogne se ne è parlato in maniera diffusa, ma la donna ha sempre ucciso i propri figli, se non poteva confessare al mondo di averli concepiti, per esempio, o se voleva vendicarsi del marito violento e traditore, o se soffriva di gelosia o depressione, e cioè guardava al mondo con un tale odio che si sentiva spinta a togliere dal mondo la sua creatura. Una madre uccide un figlio anche quando non lo crede sano, sentendo il gesto come una forma estrema di altruismo. Donne crudeli o donne esauste che devono curare da sole i figli possono cadere vittime di un raptus, ascoltando il pianto esasperante del loro piccolo. E così, dopo che la rabbia ha fatto perdere loro la lucidità, è capitato che alcune donne prendessero il figlio per sbatterlo contro un muro come un pupazzo, cadendo un momento dopo nell’orrore e nella disperazione per averlo ucciso». Cos’è esattamente il raptus? «Il raptus è un momento di rabbia. Può prendere ciascuno di noi. Sto scrivendo un libro sulla rabbia, poiché questo sentimento invade le nostre vite e si trasforma in bullismo, tifo allo stadio, liti condominiali che sconfinano nella denuncia. Il raptus è un concentrato di rabbia». C’è un caso di donna serial killer che le viene in

mente in Italia? «Le donne serial killer sono una percentuale veramente piccola rispetto agli uomini. In Italia ricordo Leonarda Cianciulli, che agiva per superstizione, perché pensava di avere una maledizione e cercava di esorcizzarla attraverso il sacrificio di vittime. Oppure l’infermiera Sonya Caleffi, che uccise dando la morte a pazienti anziani o in fin di vita, con farmaci per fleboclisi». Un marito uccide la moglie e i figli e poi si suicida. Anche le donne lo fanno? «Ho recentemente scoperto che quando un uomo uccide la compagna e i figli e poi si suicida riesce sempre nel suicidio. Nel piano delittuoso di un uomo disperato rientrano tutte le persone che ama, compreso se stesso. Ogni volta che una donna uccide e poi tenta il suicidio, in genere, non ci riesce. Credo che la donna abbia un fortissimo senso pratico che all’uomo manca. L’uomo viene preso dal raptus, la donna mantiene sempre un minimo di lucidità, invece. E questo è il motivo per cui durante un litigio l’uomo scaglia qualsiasi cosa si trovi tra le mani, mentre la donna ha la lucidità di scegliere l’oggetto meno costoso da scagliare». Qual è il delitto italiano compiuto da una donna che l’ha colpita in modo particolare? «Penso agli anni del Dopoguerra, ce ne furono almeno tre particolarmente violenti: il caso Bellentani, che uccise l’amante che l’aveva tradita, la terribile storia di Rina Forte che uccise la moglie del suo amante e i suoi tre bambini, di cui uno nel seggiolone, massacrandoli da sola, e poi la nostra prima serial killer, Leonarda Cianciulli, la “saponificatrice”, che uccise tre donne e ne fece saponette, dopo averne frantumato le ossa. Ma se pensiamo a tempi più attuali, quello che più mi sconvolge sono i delitti compiuti da ragazze, come le due giovani promettenti studentesse che hanno ucciso Nadia Rocca, impiccandola. “Bande” al femminile. Segno del fatto che non solo oggi la donna uccide per moventi diversi, ma uccide anche quando è giovane e le sue aspettative sono al massimo e apparentemente senza motivo».


246 > MAGISTRATI > Lucia Musti > Credere nella giustizia

LE EMOZIONI? LE LASCIO FUORI DAL TRIBUNALE Certi reati metterebbero chiunque a dura prova. Ma un magistrato deve continuare a lavorare con uguale intensità e convinzione, anche di fronte alle efferatezze più atroci. Il pm Lucia Musti si “confessa”. Dal suo rapporto con la giustizia alle difficoltà quotidiane in aula DI STEFANO

RUSSELLO

© Vincenzo Coraggio / LAPRESSE

Il pm bolognese Lucia Musti


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Lasciare da parte il ruolo di madre, e calarsi ogni giorno nella routine giudiziaria. Trattando casi violenti e toccando con mano il dolore e il male. Essere un magistrato, di questi tempi, non è semplice. A volte sembra che la giustizia non ci sia più. Invece bisogna crederci e lottare, far capire ai propri figli che ognuno deve fare la sua parte. Sono queste le basi dell’impegno civile di Lucia Musti, il magistrato bolognese noto al grande pubblico per aver partecipato ad alcuni processi “eccellenti” come quello sui “bambini di satana”, o il caso del piccolo Tommaso Onofri. Quali sono le responsabilità maggiori connesse al suo ruolo di magistrato? «Il momento più importante è quando privi qualcuno della libertà personale, specialmente quando chiedi condanne rilevanti. Nel momento in cui pronunci la requisitoria per un ergastolo, per esempio, è difficile riuscire a tenere la voce ferma. Un pm deve essere sempre consapevole dell’importanza della pena, anche davanti al peggiore delinquente». Ritiene che una donna pm abbia una sensibilità maggiore rispetto ai suoi colleghi uomini? «Io non credo a una differenza di sensibilità. Al massimo ci può essere una particolare attitudine a comprendere meglio determinate situazioni. Certo, se interrogo una donna stuprata, saprò sicuramente capire meglio certe dinamiche, legate soprattutto alla psicologia e alla fisicità. Ma spesso si sente dire che una donna sia più adatta a fare la pediatra, o il giudice minorile. Ecco, io rifuggo da questo tipo di distinzioni e sono convinta che la sensibilità non sia affatto legata al sesso».

ridici. Così il cittadino percepisce un senso di disagio, ma la colpa è da attribuire all’insieme delle cose». È corretto sostenere che nel nostro Paese l’andamento ambiguo di molti casi giudiziari non aiuta la percezione generale di una giustizia certa? «Io capisco lo sconcerto dei non addetti ai lavori. Però sono convinta che occorra sempre avere fiducia, anche quando lo Stato non funziona come dovrebbe. La comunanza e il lavorare tutti come una squadra: sono questi i valori che dobbiamo insegnare ai nostri figli. Far capire loro che dobbiamo credere, lottare, e che ognuno di noi deve fare la sua parte. Per me non c’è alternativa».

Che idea ha della giustizia? «Ci ho sempre creduto, fin da piccola. Sono consapevole che la giustizia non possa vincere in ogni caso, però dobbiamo continuare a crederci. Ho sempre pensato che una società civile e ben organizzata abbia il dovere di assicurare la giustizia ai propri cittadini».

Recentemente ha dichiarato di aver sognato a lungo il sequestro del piccolo Tommaso. Per una madre quanto è difficile tenere separato il lavoro dalla sfera personale? «Non è difficile. Quando lavoro cerco di staccarmi dalle mie emozioni, di comportarmi da tecnico del diritto. Sicuramente certi reati, come le violenze sui minori, ti mettono a dura prova, perché dentro di te scatta un meccanismo di rabbia forte. Ma poi devi controllarti, e lavorare come se si trattasse di un furto nel supermercato. Non è la stessa cosa, ovvio, ma ci deve essere lo stesso atteggiamento professionale. Di solito, comunque, lascio i commenti e le emozioni fuori dall’orario di lavoro».

Cosa accade se la società perde questa fiducia? «Precisiamo alcuni concetti. Quando non si fa giustizia per colpe precise, allora si è in presenza di una grave responsabilità. È l’esempio del poliziotto che non controlla le prove, oppure del magistrato che non fa il proprio dovere. In questi casi si può parlare di patologie del sistema. Molte volte, però, le disfunzioni nascono dalla complessità dei meccanismi giu

Qual è stato il momento più difficile della sua carriera? «Non c’è un momento preciso. In generale considero difficile svolgere al meglio il mio compito di magistrato anche quando sto male. Puoi attraversare il momento più problematico della tua vita privata, ma in ogni caso il dovere ti impone di andare avanti e di dare il massimo. Ho dovuto affrontare tanti mo-


248 > MAGISTRATI > Lucia Musti > Credere nella giustizia

Com’è percepita la magistratura? Non siamo tanto amati. Paghiamo sicuramente l’atteggiamento di certi colleghi, troppo esposti al vento dei media. Noi magistrati, invece, dobbiamo evitare trasmissioni Tv di un certo tipo, e prestare maggior attenzione alle nostre dichiarazioni

I CASI ECCELLENTI Tra i casi eccellenti seguiti da Lucia Musti il processo ai bambini di Satana e per l’omicidio del piccolo Tommaso Onofri. «Sono andata dai genitori di Tommaso con il cuore in mano – racconterà la Pm – per comunicare loro quella tragica verità che purtroppo i media avevano già diffuso. Durante i trenta giorni delle indagini tutte le notti avevo incubi, sognavo il sequestro di Tommaso, se oggi mi facessero un esame del sangue ci troverebbero quella vicenda».

menti di questo tipo e ce l’ho fatta con le mie forze, fisiche e morali. Non mi considero una superdonna, ma sono convinta che tutti noi abbiamo il dovere di fare il nostro dovere. Anche quando tuo padre sta morendo, o quando tua figlia è caduta dal motorino ed è in ospedale, e tu non ti puoi muovere». Quali caratteristiche servono a un giovane magistrato per riuscire nella professione? «Occorrono tante qualità. La prima è la modestia, quella vera, insieme alla consapevolezza di lavorare tutti per il bene comune. Poi viene la cordialità, che impone un buon modo di porsi. Perché l’immagine che portiamo all’esterno è importantissima, nella relazione con i cittadini, ma anche nei confronti di polizia giudiziaria, avvocati e personale amministrativo. Credo che noi magistrati dovremmo sempre dare l’idea di persone equilibrate, serene e modeste. Pronte, quando serve, a prendere lezioni, ma anche a darle. Senza avere paura dei pericoli, né dei potenti». Crede che a qualche suo collega manchino ancora queste qualità? «Credo di sì. In questo periodo non rappresentiamo una categoria professionale molto apprezzata, e la cosa mi fa soffrire. Non che desideri sentirmi amata, però non voglio neanche diventare il parafulmine della generale disfunzione della giustizia. Quello che servirebbe ai magistrati è la capacità di far comprendere ai cittadini che noi siamo lavoratori come tutti gli altri. Certe volte ci manca la modestia, ci sentiamo superiori, e di conseguenza non ci mostriamo come persone normali. E in questo modo un magistrato si allontana dalle esigenze dell’uomo della strada». Come definirebbe il rapporto tra cittadini e magistratura?

«Ripeto, non siamo tanto amati. Paghiamo sicuramente l’atteggiamento di certi colleghi, troppo esposti al vento dei media. Noi magistrati, invece, dobbiamo evitare trasmissioni Tv di un certo tipo, e prestare maggior attenzione alle nostre dichiarazioni. Per questo, nei momenti di difficoltà, abbiamo bisogno di rispolverare le vittime illustri, da Falcone a Borsellino, ben voluti perché uccisi nell’adempimento del dovere. Abbiamo in mano la vita delle persone e se sbagliamo attiriamo su di noi molte antipatie. Ma il problema più grosso della giustizia è nei mezzi insufficienti, paghiamo colpe che non sono nostre, ecco perché non siamo apprezzati». Quali momenti di gratificazione, invece, le riserva la sua professione? «Per quanto mi riguarda, un punto d’arrivo è sicuramente la stima da parte del proprio ufficio e dei cittadini. La gratificazione arriva quando qualcuno mi ferma per strada dicendomi “brava dottoressa, continui così”, come è successo qualche mese fa. Per questo è importante fare il proprio dovere, avere un grande senso dello stato ed essere sempre disponibili». Quand’è stata l’ultima volta che ha pensato “ce l’ho fatta”? «È successo poco tempo fa, per fortuna. Un giudice mi ha dato ragione in primo grado con una sentenza di condanna, riconoscendo la qualità del mio lavoro: una vera soddisfazione. Non mi sento uno sceriffo, ma quando il mio impegno viene premiato sono davvero contenta. Quando il giudice autorizza un’intercettazione telefonica complicata, oppure quando ottieni una misura cautelare nella quale credi. In qui momenti dici “ce l’ho fatta”. Perché è il riconoscimento della tua enorme fatica».


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> Anna Santi > Lucidità apparente

UNA LINEA D’OMBRA DI

GIANNI LOTTO

La psichiatria forense ha a che fare con casi in cui il confine tra lucidità e follia si fa spesso sottile. Un campo giuridico di grande responsabilità. Parla l’avvocato Anna Santi «A mio parere non esiste una particolare fisionomia di delitto al femminile. Tra un delitto commesso da un uomo e quello commesso da una donna non esiste differenza. Come psichiatra forense ritengo che ogni soggetto che commette un crimine presenti, comunque, una situazione psichica compromessa». A parlare è l’avvocato Anna Santi del Foro di Roma, allieva del Professor Franco Cuttica, noto penalista italiano, e specializzata in Criminologia Clinica e Psichiatria Forense. Tale materia ha spesso a che fare con casi di soggetti che vengono giudicati incapaci di “intendere” (ossia di comprendere se i propri atti possono contrastare con le prescrizioni di legge) e di “volere” (ovvero di decidere se mettere in atto un comportamento antigiuridico o antisociale). «Il concetto di capacità di “intendere e volere” – spiega l’avvocato Santi – investe la psichiatria forense quando il giudice, attraverso l’ausilio di una perizia, vuole accertare la capacità mentale di chi ha commesso il delitto». La capacità mentale, ovverosia la capacità di intendere e di volere, pone il soggetto in condizione di regolare consapevolmente e liberamente la propria azione, e rappresenta il presupposto naturale dell’imputabilità, poiché, secondo l’art. 85 del Codice Penale, “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se al momento del fatto non era imputabile”. «Le cause per le quali un soggetto può essere dichiarato “incapace di intendere e volere”, possono essere cause fisiologiche, come la minore età, o patologiche, come l’infermità, come il disturbo della personalità, o come nel caso degli stati tossici acuti» specifica l’avvocato. Ma in quali casi si sottopone qualcuno a un trattamento sanitario obbligatorio? «Il trattamento sanitario obbligatorio nasce con la Legge 180/78 meglio conosciuta come Legge Basaglia. Consente di

L’avvocato Anna Santi, 55 anni, si è laureata presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, discutendo la tesi sulla Riforma Carceraria

sottoporre ad accertamenti e terapie, in maniera impositiva, un soggetto con elevato disagio psichico che può essere trattato solo in ambiente ospedaliero e che non è in grado di esprimere il proprio consenso al trattamento». È molto importante che il limite tra patologia psichica e lucidità sia definito in modo preciso, poiché un soggetto affetto da una patologia psichica, come può essere il disturbo antisociale di personalità o il disturbo bipolare, può presentarsi anche “lucido”. «Anzi – aggiunge la Santi – “lucidissimo”, capace di manipolare la realtà con finalità altamente criminale per ottenere i suoi scopi». Oggi l’avvocato Santi, che ha fatto tesoro della sua competenza, si dedica soprattutto ai problemi legati alla famiglia alla difesa dei minori.


250 > STORIE DI NEA > Giovanna Riccipetitoni > Una passione diventata lavoro

NACQUI CON LE MANI A FORBICE Da più di un anno dirige la chirurgia Pediatrica dell’Ospedale Infantile Buzzi di Milano. E fin da bambina sognava la sala operatoria. Giovanna Riccipetitoni ripercorre il cammino che l’ha portata al vertice DI FEDERICO

MASSARI

li ambienti medici sono da sempre considerati scenari dominati da uomini. A sfatare questo dibattuto tabù, in questi anni, ci ha pensato Giovanna Riccipetitoni, chirurgo pediatra all’ospedale Buzzi, prima donna del BelPaese a riuscire a diventare primario a conferma che nel difficile universo della medicina si riconoscono e si valorizzano anche le competenze femminili. Denominata la donna chirurgo dei record, cui va il merito di avere sfondato il tetto di cristallo delle sale operatorie italiane, Riccipetitoni può vantare due straordinari primati. Infatti, oltre a essere stata la prima donna italiana a diventare primario di chirurgia pediatrica, è tuttora la prima donna a essere giunta sino ai vertici dell’Associazione dei chirurghi ospedalieri (Acoi) che rappresenta oltre cinquemila medici. La sua è la storia di una pediatra che si batte da sempre contro i luoghi comuni della medicina, che vorrebbero che le donne siano sì buoni medici, ma non dei chirurghi di prim’ordine. Una convinzione che sembra ancora molto radicata nella mente di molti colleghi maschi. Addirittura c’è chi ha sparso la voce che la chirurgia

G

Giovanna Riccipetitoni, chirurgo pediatra all’Ospedale Buzzi di Milano e vicepresidente dell’Associazione dei chirurghi ospedalieri


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deve essere una palestra composta da soli uomini perché richiede resistenza fisica e lunghe ore di duro lavoro. Mentre le dottoresse avrebbero uno “spiccato” talento per la diagnosi e il colloquio con l’assistito. Lei è una delle poche donne a essere primario. E anche la prima a raggiungere i vertici della Associazione chirurghi ospedalieri italiani della quale è vicepresidente. Cosa si prova a detenere questi record? «Si tratta di una condizione che rende orgogliosi, sempre con tutte le responsabilità del caso. Al tempo stesso però si prova anche molta preoccupazione. Ci si interroga: riuscirò a essere all’altezza della situazione?».

Quando ha cominciato la carriera se li sarebbe aspettati questi traguardi? «Non me lo sarei mai aspettato. Anche se sono stata sempre mossa da un’ambizione positiva. La voglia di ottenere dei risultati è una molla che scatta dentro le persone. Adesso che ho raggiunto tutto ciò che mi ero prefissata, sono sempre alla ricerca di nuovi obiettivi. Che non sono solo obiettivi personali, ma anche sociali». Quali erano le sue aspirazioni quando ha incominciato a intraprendere la carriera di chirurgo? «Quando ho iniziato, le mie ambizioni erano completamente diverse rispetto ai ruoli che mi trovo a occupare in questo momento. La mia principale preoccupazione era se sarei mai stata


252 > STORIE DI NEA > Giovanna Riccipetitoni > Una passione diventata lavoro

Essere una delle pochissime donne primo primario «Si tratta di una condizione che rende orgogliosi, sempre con tutte le responsabilità del caso. Al tempo stesso però si prova anche molta preoccupazione. Ci si interroga: riuscirò a essere all’altezza della situazione?»

Le donne e la professione. «Ritengo che le donne siano più abituate a gestire e a vivere la sofferenza. Stare a contatto con i piccoli degenti, per una donna, non rappresenta un elemento di difficoltà, anzi fa parte della nostra cultura».

Gli ostacoli per arrivare in alto. «Per raggiungere questi risultati, quando ero giovane, ho dovuto sacrificare tutti i fine settimana»

Rapporto con i colleghi uomini «Non ho mai avuto nessuna difficoltà a imporre una mia leadership, che proviene da criteri di competenza. Però, con una battuta, direi che bisognerebbe chiederlo a loro»

capace di fare il chirurgo e, soprattutto, se sarei mai stata capace di farlo bene, risolvendo i problemi dei pazienti». Quanto è stato difficile allora e quanto è difficile al giorno d’oggi fare carriera in ambito medico per una donna? «In generale è più difficile che per un uomo. Nel senso che il numero di donne che raggiungono carriere direttive, a parità di qualificazione, è decisamente inferiore a quello degli uomini. Al giorno d’oggi però devo dire che, per quanto riguarda la chirurgia, le donne stanno ricoprendo un ruolo importante. Nelle facoltà di medicina, la maggior parte degli iscritti sono donne. Le donne poi rappresentano oltre il 50 per cento dei medici attualmente iscritti alle federazioni nazionali. Questa grande massa. che sta entrando prepotentemente a far parte del mondo della medicina, porterà a un aumento vertiginoso del numero di

donne che faranno parte dei vertici». Quali sono stati gli ostacoli che ha incontrato all’inizio della sua carriera? «Per raggiungere questi risultati, quando ero giovane, ho dovuto sacrificare tutti i fine settimana». E quali sono i luoghi comuni che si sentirebbe di sfatare? «Ci sono dei luoghi comuni che non hanno molto senso. Quelli secondo i quali le donne non possono essere portate per il lavoro di chirurgo. Donne che hanno intrapreso questa difficile carriera, come la professoressa Montesani a Roma, ordinario alla Sapienza, e Maria Rosa Pelizzo, ordinario all’Università di Padova, sono esempi di donne che sono riuscite a raggiungere ruoli importanti nel campo della chirurgia. Donne che possono esercitare tranquillamente il ruolo che ricoprono come e quanto gli uomini». Donne e medicina. La chirurgia pediatrica è un ambito in cui si è costantemente a contatto con il dolore e la sofferenza dei piccoli degenti. Esiste un approccio femminile nella professione, oppure è solo una questione di sensibilità che va oltre i generi? «Ritengo che le donne siano più abituate a gestire e a vivere la sofferenza. Stare a contatto con i piccoli degenti, per una donna, non rappresenta un elemento di difficoltà, anzi fa parte della sua cultura. Inoltre le donne sono più sensibili al dolore. Per questo, negli ospedali dei bambini, in alcuni settori come in quello dell’anestesia e quello della chirurgia, hanno maggiori ruoli direttivi». Come è il rapporto con i colleghi uomini a lei sottoposti? «Per quanto mi riguarda il rapporto con i colleghi uomini è sempre stato buono. Non ho mai avuto nessuna difficoltà a imporre una mia leadership, che proviene da criteri di competenza. Però, con una battuta, direi che bisogna chiederlo anche a loro». Solitamente da bambini si sogna quello che si


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«Sono nata con le mani a forbice. L’ostetrica si disse sicura che avrei fatto la sarta come mia madre. In effetti ha avuto ragione. Ma ho scelto di fare un altro tipo di sartoria. Il chirurgo per certi aspetti manuali ricorda i gesti del sarto»

farà da grandi. Lei cosa sognava? «Ho sempre sognato di fare il chirurgo. A tal proposito mi piace raccontare questa storia. Sono nata a Bagnara di Romagna, in provincia di Ravenna, in casa dei miei genitori. L’ostetrica era un’amica di mia madre. Nel momento in cui ho visto la luce sono uscita con le mani a forbice. Vedendo ciò, l’ostetrica si disse sicura che avrei fatto la sarta come mia madre. In effetti ha avuto ragione. Ma ho scelto di fare un altro tipo di sartoria. Il chirurgo per certi aspetti manuali ricorda i gesti del sarto. Ho scelto di fare medicina per fare il chirurgo».

Ultima domanda: E qual è il suo sogno attuale e futuro? «Il mio sogno attuale è quello di poter lavorare per far crescere la chirurgia pediatrica e tutto ciò che ha a che fare con le scienze pediatriche a Milano. La Regione Lombardia vuole creare una sorta di grande polo pediatrico materno infantile nel capoluogo lombardo: un children hospital. Questo è uno dei miei sogni prima di andare in pensione. L’altro sogno, e non sto scherzando, è quello di fare l’agricoltore. Mi piacerebbe creare altre forme di vita, che in questo caso non sono i bambini, ma le piante».


254 > L’ESPERTA DI NEA > Chantal Sciuto > Terapie antiaging

COME DOMARE IL TEMPO TIRANNO Per molte donne l’invecchiamento è un nemico. Oggi grazie alla scienza è possibile se non sconfiggerlo, attenuarne gli effetti. Chantal Sciuto, nota dermatologa, spiega i progressi compiuti in questa battaglia DI SIMONA VELLA


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Chantal Sciuto, dermatologa


256 > L’ESPERTA DI NEA > Chantal Sciuto > Terapie antiaging

a Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, e un possesso per tutta l’eternità” scriveva Oscar Wilde. Ma mentre la bellezza appartiene alla sfera dell’umano, l’eternità no. Sfugge all’uomo. E l’uomo, pur essendone consapevole, la rincorre con affanno quasi dimenticandosi che si tratta di una corsa inutile. Gli sforzi si sono concentrati allora a mantenere viva la bellezza per il tempo più lungo possibile. E in questa battaglia, la scienza si è dimostrata un fedele alleato. Tanto che la corsa contro l’invecchiamento è sempre più un must dovuto all’esigenza di piacersi oltre che di piacere. «Credo che la carta vincente di una donna – spiega Chantal Sciuto, nota dermatologa –, inutile dire bugie, sia la bellezza come per l’uomo lo è il potere. Quindi la donna bella, soprattutto se è stata bella, non accetta di non esserlo più. Non ha paura dell’invecchiamento. Quello che non accetta è il fatto di non riuscire a mantenere il suo primato. L’aiuto del medico è fondamentale perché deve cercare di farle accettare almeno le rughe visto che alcune di loro sono simbolo del proprio vissuto. A volte ci sono abitudini di vita ben peggiori rispetto ad una ruga o una macchia. Sono tutte cose che vengono registrate sulla pelle».

della pelle».

In questa battaglia contro il tempo, quali sono le ultime novità? «Può sembrare banale ma non lo è. Si tratta di progressi effettuati nel settore diagnostico attraverso l’uso di dispositivi specifici come la macchina “truevue” per capire quanto una persona può essere adatta ad affrontare una terapia antiaging e quando iniziare a farla. “Truevue” riproduce cinque immagini del volto con una diversa tipologia di luce. Questo permette di effettuare una analisi qualitativa e quantitativa

In base ai risultati ottenuti dall’esame diagnostico, con quali terapie si può intervenire? «I risultati della “truevue” si formalizzano in un grafico che ci dice a che punto sono le rughe. Non si tratta di uno strumento fondamentale ma di un aiuto in più soprattutto per mostrare al cliente dove è opportuno intervenire per correggere. Cosa fare dipende. Io tendo a migliorare la qualità della pelle con interventi di laser e peeling, tutte sostanze che compattano la pelle, levano le macchie e rendono la pelle più omogenea per

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Come funzionano? «La prima foto viene effettuata in modo classico con la luce esterna di una giornata normale. La seconda viene scannerizzata per studiare la diffusione di vari, rossori o eritemi. La terza fa vedere la consistenza e la luminosità della pelle, quindi i pori dilatati nel tempo e le prime rughette. La quarta è una foto scattata in fluorescenza con la quale si misura l’elasticità della pelle mentre l’ultima viene effettuata con la fluorescenza blu per vedere il fotodanneg-

giamento, quindi la presenza di lentiggini e l’eventuale situazione delle fibre di collagene, vale a dire il vero e proprio invecchiamento. In questo modo ci rendiamo conto se si tratta di un invecchiamento naturale connaturato all’età o precoce».


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colore e struttura. A questo si aggiungono, dove è necessario, le correzioni, per rendere meno profonda una ruga, ammorbidire una cicatrice, creare volume laddove il paziente lo richiede, come mettere un mento dove non c’è, sistemare un naso, dare più turgore alle labbra, sistemare uno zigomo. Tutto questo nel rispetto del proprio corpo e della nostra struttura. E’ fondamentale non stravolgere il nostro profilo».

«Purtroppo capita. Dico purtroppo per due motivi. Intanto perché perdo il paziente, poi perché quando si rifiuta un trattamento che il paziente ha deciso di fare, poi il paziente lo ottiene da altri».

Recentemente si è assistito al boom del Botox. Lei cosa ne pensa? «Si tratta di una tossina che se utilizzata da mani esperte nella maniera e nelle indicazioni giuste Quanto è importante curare anche l’aspetto non dà assolutamente effetti collaterali. Come per psicologico? tutte le tipologie di trattamento occorre capire se «Tanto. Il fabbisogno del paziente, ad esempio, quel paziente è adatto o meno a effettuare non è sempre correlato a quello che la persona ci interventi con il suo utilizzo. Ma COSA CHIEDONO LE PAZIENTI questo è l’abc di un medico. Purtroppo oggi, spesso, non si fa perché il tempo è «I trattamenti richiesti maggiormente sono quelli di sostegno tiranno e molti medici si improvvisano alla pelle. Il passare del tempo crea dei cedimenti strutturali. in queste pratiche. Il botulino è una Senza scendere in ambito prettamente chirurgico è possibile tossina eccezionale usata da molti anni dare una maggiore consistenza alla pelle attraverso l’utilizzo di prodotti che stimolano la produzione di collagene come in America come terapia medica nei infiltrazioni di acido prolattico o di alcuni tipi di vitamine. Al casi di strabismo e in neurologia. Si loro uso può essere associato l’azione di laser frazionati per trova negli ospedali e questo dovrebbe sostenere e dare turgore alla cute oppure di termage, radiofrequenze che agiscono in profondità e regalano una tranquillizzare coloro che intendono maggiore compattezza. Si tratta di interventi da effettuare farlo». negli stadi iniziali di cedimento». Con quale periodicità si possono effettuare? «Basta ripeterli una volta all’anno».

dice. Il paziente viene da noi con una idea, come quella di togliere una macchia o ammorbidire una ruga, mentre invece ci sono cose più importanti. La cosa fondamentale è ascoltare e dare consigli giusti altrimenti la nostra esperienza non vale nulla. Invito sempre i miei pazienti a passare dal mio studio anche solo per un caffè non necessariamente per una visita di controllo perché voglio che si sentano affiancati nel loro processo naturale di invecchiamento». Anche educare a stili di vita corretti è fondamentale. «Certo. È importante far capire a un paziente che il corpo negli anni si modifica e ha bisogno di altre cose. Quindi bisogna adattarsi». Si è trovata a dire no a una paziente?

Com’è possibile evitare spiacevoli conseguenze? «Sarebbe meglio rivolgersi sicuramente a specialisti, che possono essere presenti anche al momento del bisogno e non soltanto durante il trattamento». A quale età è importante iniziare i trattamenti antiaging? «Dopo i trenta anni si verificano i primi cedimenti di collagene. A quel punto sarebbe necessario intervenire per supportare l’invecchiamento iniziale. L’invecchiamento è una serie di stati infiammatori soprattutto a livello del tessuto connettivo da trattare a livello globale. La bellezza esteriore è un insieme di fattori, di cure e trattamenti che vengono fatti. Dall’altra parte deve esserci anche una predisposizione da parte del paziente a capire quello che può ottenere o dove vuole arrivare».


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