>il volto etico dell’estetica
foto Leonardo Céndamo
Una leggenda. Che ha attraversato mezzo secolo di fermenti culturali e sociali. Un intellettuale che ha segnato la storia dell’architettura contemporanea. Progettando università, centri culturali, teatri, stadi, quartieri e città in tutto il mondo. La firma di Vittorio Gregotti è impressa su opere collocate in 22 Paesi a testimonianza della grande tradizione dell’architettura made in Italy di Marilena Spataro
Un aristocratico sabaudo, dalle maniere schiette e leali. È questa l’impressione che Vittorio Gregotti, nato a Novara nel 1927, dà di sé al primo impatto. Ed è l’impressione giusta. Sintetico, essenziale. Dal giudizio impietoso, ma sempre garbatamente ironico. Senza mai ridondanze. Nella professione come nel linguaggio. Intelligenza sottile e sguardo acuto. Che sanno indagare dentro le cose, interpretandole con efficacia e profondità, sia che si tratti di territori o spazi da cui trarre ele-
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menti e criteri creativi per elaborare progetti architettonici o urbanistici, sia che si tratti dei vissuti storici e culturali della società. Alla base del lavoro intellettuale del professionista piemontese, uno dei migliori e più innovativi talenti dell’architettura e del design attuali a livello internazionale, c’è il rigore. «Il compito dell’architettura – ha sempre affermato – è di produrre ordine e non di evitare il caso, le virtù del progetto sono semplicità, organicità e precisione». Principi, questi, che lo hanno guidato, e
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A sinistra, Vittorio Gregotti. In questa pagina, dall’alto, l’architetto con Luca Ronconi alla Biennale di Venezia nel 1976; uno studio di fattibilità per l’Esposizione Universale di Parigi del 1989; Gregotti, Aldo Rosii, Umberto Eco e Mario Spinella alla libreria Feltrinelli di Milano per la presentazione del libro “Territorio dell’Architettura” nel 1967
MENTRE NEGLI ANNI ’70 E ALL’INIZIO DEGLI ANNI ‘80 LA DISCUSSIONE TRA I DIVERSI ARCHITETTI RISPETTO ALLE POSIZIONI DELL’ARCHITETTURA ERA MOLTO VIVA, SUCCESSIVAMENTE C’È STATA UNA FRAMMENTAZIONE DELLA TEORIA E CIASCUNO HA COMINCIATO A MUOVERSI PER CONTO PROPRIO continuano a guidarlo, nella sua attività d’architetto, docente universitario, teorico e saggista. E che caratterizzano la sua personalità e la sua figura d’intellettuale. Vittorio Gregotti traccia così le linee del suo percorso professionale, inscrivendole all’interno dei fermenti sociali e culturali di ieri e di oggi, a partire dagli anni della sua formazione giovanile, quando ebbe l’opportunità di confrontarsi e dialogare con la più qualificata intellighenzia del Novecento, non solo italiana, ma di mezzo mondo. E lo fa col medesimo tratto abile e inimitabile con cui la sua mano traccia le linee dei suoi disegni. Lei è stato tra i protagonisti degli anni più importanti e innovativi dell’architettura e del design. Come li ricorda? I fermenti innovativi sono stati diversi a secondo del periodo di riferimento. Io mi sono laureato nel ‘52 al Politecnico di Milano, e negli anni ’50 ho vissuto due tipi di esperienze: una era quella della ricostruzione dell’Italia nel Dopoguerra, animato dal fermento dell’edilizia popolare, l’altra riguardava il rapporto con la storia e con il contesto sociale. Insieme ad
(foto Elinord Studio - Milano)
altri architetti di quella generazione abbiamo cominciato a riflettere su quali fossero le relazioni da mettere in campo, senza per questo dover tradire la modernità, ma tenendo conto del clima storico e dei contesti specifici. In quello stesso periodo ho avuto la fortuna di viaggiare. Per un lungo periodo ho vissuto in Francia e Inghilterra e attraversato tutta l’Europa e gli Stati Uniti. In Italia sono tornato con un bagaglio di esperienze che mi hanno avvantaggiato rispetto ai miei coetanei. Negli anni ’60, poi, ho vissuto un’avventura culturale estremamente importante, entrando a far parte, come unico architetto, del Gruppo 63. Quel periodo fu interessato alla relazione tra poesia, pittura, musica, filosofia. Il filosofo Enzo Paci è stato uno dei miei grandi maestri, i suoi allievi avevano più o meno la mia stessa età. Gli anni ’70, furono invece caratterizzati dall’interesse per il disegno urbano, della città, del territorio, della grande scala. Fu allora che progettai i miei primi lavori interessanti: l’Università della Calabria e quella di Palermo. Quanto queste esperienze sono state determinanti successivamente nell’influenzare il modo di fare archi-
tettura sia a livello collettivo che suo personale? Questo periodo ha influenzato parecchio la mia visione dell’architettura e del mondo. Dagli anni ’70 agli ’80 ho lavorato molto in Europa: Francia, Spagna, Portogallo, Germania; ho così avuto la possibilità di coltivare e consolidare una serie di relazioni che si erano già costruite precedentemente. Queste frequentazioni, nella loro ricchezza di posizioni spesso diverse l’una dall’altra, hanno contribuito a vivacizzare il clima culturale e la discussione in un proficuo scambio di opinioni. I problemi sorti negli anni successivi sono in molti casi la conseguenza della perdita di questo rapporto tra teoria e prassi. C’è stata una frammentazione della teoria, per cui ciascuno cominciò a muoversi per conto proprio, mentre fino a tutti gli anni ’70 e i primi anni ’80 la discussione tra i diversi architetti rispetto alle posizioni dell’architettura, era molto viva. Per quanto riguarda il mio percorso personale, la maturazione professionale è arrivata tra gli anni ’60-’70. Il problema per me è sempre stato quello di dare ordine alle cose, un ordine che sappiamo benissimo essere tem-
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foto Donato Di Bello
In basso a sinistra, trasformazione delle aree Pirelli alla Bicocca di Milano, 2007. In questa foto, Grand Théatre de Provence, Aix-en-Provence, 2003-2007
poraneo, ma al quale non possiamo sottrarci. Il disordine non è un metodo con cui l’architettura può procedere. Anche le forme più bizzarre racchiudono un ordine, in un modo o nell’altro, e questo è il destino degli architetti. Cosa pensa di quei suoi colleghi che
hanno atteggiamenti da star? Faccio l’architetto da oltre quaranta anni e ho visto passare e tramontare molte mode. Penso che le nuove generazioni siano un po’ stanche di questa situazione, dove la creatività è pensata come una bizzarria, dove i monumenti sono immagini che de-
vono comunicare un messaggio consumistico o di mercato e nulla più. Penso che un’architettura civile non debba richiedere l’applauso. Penso che molti architetti non abbiano più attitudine critica e si pongano nei confronti dell’attuale società come se fosse la migliore possibile. Mentre
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foto Mimmo Jodice
LA MAGGIORE COINCIDENZA TRA TEORIA E PRASSI SI CONCRETIZZA NEL CENTRO CULTURALE DI BELÈM DI LISBONA. MI FA MOLTO PIACERE PENSARE CHE SIA UN LUOGO DI AGGREGAZIONE SOCIALE l’arte si è sempre caratterizzata per avere uno spirito critico, pensando a quello che non c’è ancora. Il suo obiettivo non è certo quello di fare il ritratto di ciò che già esiste. L’arte deve saper mantenere la distanza dalla società, per essere in grado di anticiparla. Esiste quindi una valenza etica, oltre
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che estetica, nella progettazione? Oggi è molto difficile avere rapporti con la società perché essa stessa è in crisi, non sa più cosa vuole. Da un lato non è mai contenta, dall’altro lo è sempre, ha opinioni che diventano subito credenze e che poi improvvisamente cambiano. Per la società di oggi solo l’economia, la finanza, il
consumo e il denaro hanno valore, e questo non coincide esattamente con i valori con cui gli architetti si devono confrontare. Esistono problemi oggettivi che riguardano il servizio alla società in generale e che sono sempre connessi all’attività di un architetto. Riuscire o meno a superarli dipende dalla qualità del lavoro che poi si riesce a fare. Milano si prepara all’Expo 2015. Questo appuntamento può trasformarsi in un’opportunità per ripro-
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foto Ferdinando Rollando
Nella pagina accanto, dall’alto in senso orario, Alvaro Siza Vieira in occasione della consegna a Gregotti del “Premio alla carriera Trienal Millennium” nell’ambito della prima Triennale Internazionale di Architettura di Lisbona, edizione 2007; lo stadio Olimpico di Barcellona; il Centro culturale di Belém, Lisbona. A destra, Torre della Ricerca a Padova. Sotto, nuova città di Pujiang, Shanghai
grammare l’aspetto urbano del capoluogo lombardo? Ci sono molti modi di approfittare di queste occasioni, innanzitutto ragionando sul lungo termine. E soprattutto sottraendosi alle sirene dei grandi immobiliaristi che naturalmente cercano di impadronirsi di queste occasioni per fare quattrini. In questo tipo di appuntamenti ci sono state città come Barcellona che hanno saputo utilizzare le facilitazioni burocratiche e l’arrivo di fi-
nanziamenti per il proprio futuro; altre, invece, come Siviglia o Osaka, non ce l’hanno fatta. Gli edifici costruiti sono ora in rovina. Su Milano sono molto prudente, ma è troppo presto ancora per esprimere un giudizio. Al momento non vedo una chiarezza di prospettive, può ancora accadere che si riesca a mettere insieme un programma utile per la città in futuro. C’è qualche opera che rappresenta meglio i suoi valori o la sua estetica?
Quanto ai valori, il grande centro culturale polivalente di Belèm a Lisbona. Per l’aspetto estetico, invece, il teatro di Aix-en-Provence dove si tiene uno dei più interessanti festival di musica contemporanea. A cosa sta lavorando ora? A parte i nostri lavori in Cina, dove stiamo progettando anche una città per centomila abitanti, stiamo lavorando in Marocco, in Portogallo, e ultimando un progetto di una torre a Padova per la ricerca scientifica.
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