Il lavoro e la letteratura

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Il lavoro e la letteratura LA TRAIETTORIA DI UN TEMA NEL NOVECENTO ITALIANO

ASSOCIAZIONE FORMALIT 2016/2017


Indice Pagina

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Introduzione Il primo Novecento

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Svevo. La coscienza di Zeno Lugi Pirandello. Si gira

Il secondo Novecento 5 6 7

Meneghello. Libera nos a Malo Bianciardi. La vita agra Primo Levi. La chiave a stella

L’età contemporanea 9 10

Rea. La dismissione Lagioia. La ferocia

Dal presente al passato 12

Falco. La gemella H

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Glossario

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Note bio-bibliografiche Altri percorsi

17 19 19 20 20

a) b) c) d) e)

Poesia e lavoro: Sereni, Pagliarani, Fortini Pasolini e gli oggetti della mutazione Lotte e diritti per un lavoro piĂš umano Il mondo della finanza La faccia oscura del lavoro: le morti bianche


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Il lavoro e la letteratura

Introduzione Il lavoro è una costante antropologica, che riguarda tutta la storia dell’uomo. Proprio per questo esso registra però anche scosse, fratture e mutamenti che ne cambiano le fisionomia. Il lavoro è stato ed è tutt’oggi: servile, subordinato, direttivo, manuale, intellettuale, sicuro, garantito, precario, alienato, mortale. Molti altri aggettivi si potrebbero aggiungere, a indicare una realtà che è cambiata nel tempo tanto quanto è rimasta ambivalente in ogni sua fase. Nella ricerca antropologica, l’attività lavorativa è stata considerata un tratto essenziale dell’uomo, fondato sulla coordinazione fra mano e cervello e capace di differenziarlo dalle altre specie animali. Aspetti positivi del lavoro sono: la capacità di provvedere alle necessità materiali, garantendo la vita propria e degli altri; il piacere associato alla trasformazione della materia in opera (un prodotto nel quale riponiamo una parte di noi stessi) e all’impiego creativo del proprio ingegno; la risposta che il lavoro offre al problema della morte e della mancanza di senso, permettendo all’uomo di frapporre qualcosa fra sé e i limiti della natura. Aspetti negativi sono invece: lo sfruttamento del lavoro altrui, la schiavitù e gli altri modi in cui le persone sono spogliate del frutto dei propri sforzi; la pericolosità del lavoro e il rischio di morte che talvolta gli si accompagna; i modi in cui esso può diventare un’attività ripetitiva, vuota e priva di intelligenza, capace di schiacciare l’uomo su un’esistenza costituita soltanto di bisogno e fatica. Abbiamo scelto questo tema perché siamo convinti che guardando al lavoro sia più facile comprendere il rapporto complesso che la letteratura intrattiene con la realtà storico-sociale che le fa da sfondo. Le opere letterarie possono infatti restituire nella loro formalizzazione la ricchezza di strati di senso che caratterizza il reale. Da un lato rappresentano un modo alternativo di prendere coscienza dei fatti storici, lontano dall’impersonalità dei dati storiografici e attento piuttosto alle sfumature soggettive ed emotive che i grandi eventi sempre comportano. Dall’altro lato esse, quando hanno valore, non esprimono giudizi univoci ma lasciano invece aperte una serie di domande e di risposte intorno a ciò che tematizzano. Ci mostrano qualcosa di piccolo e sottile, che non vedremmo senza il loro aiuto, e ce lo mostrano lasciando aperta la possibilità di un dubbio, senza imporci il loro significato ma chiamando noi lettori a una cooperazione attiva e responsabile. Così, nella visione del passato che i testi ci offrono, possiamo porre alcune domande alle nostre vite, sfruttando la letteratura come spazio interrogativo e riserva di sensi possibili. Con questa dispensa, vogliamo proporvi un approfondimento tematico rispetto al programma d’italiano: l’oggetto scelto è un tema, il lavoro, mentre il campo d’indagine è la letteratura italiana, lungo un intervallo temporale che va dal primo Novecento al presente. La lettura del dossier da parte vostra si configura in realtà come la prima parte di un percorso articolato in due fasi; la dispensa è infatti il supporto su cui innesteremo insieme un momento di dialogo, nella forma di un dibattito condotto all’interno di piccoli gruppi. A partire da questa finalità, si spiega la struttura delle pagine che seguono. Esse sono ripartite in tre sezioni corrispondenti a tre diversi periodi. Ciascuna di esse ospita poi al suo interno: un’introduzione storica sugli aspetti del lavoro propri del periodo considerato; alcuni estratti romanzeschi, corredati da una proposta di riflessione (Per riflettere sui testi). Quest’ultima ha una forma mista: in parte commenta i brani riportati, in parte stimola il pensiero con alcune domande mirate. Questo particolare “commento-questionario” permette di incanalare la riflessione attorno a certi quesiti-guida, alcuni dei quali saranno poi ripresi in sede di dibattito; in questo modo creiamo una base comune su cui poter pensare insieme il tema del lavoro a partire dai testi forniti. Chiudono il dossier un glossario di concetti-chiave (quelli che nel testo compaiono in grassetto), un indice degli autori e delle opere e alcune proposte di approfondimento, facoltative e utili fra l’altro come spunti per le tesine di maturità.

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Il primo Novecento Le forme del lavoro nel primo Novecento subiscono, a livello mondiale, un brusco mutamento. Già da metà Ottocento la ricerca scientifica viene indirizzata con decisione verso nuove tecnologie, destinate a cambiare drasticamente luoghi e modi di vita: in questo periodo si diffondono industria siderurgica, motore a scoppio, elettricità; nascono la radio e il cinema, la grafica pubblicitaria e l’editoria subiscono un’impennata. Il lavoro si modifica di conseguenza: da una produzione ancora artigianale, verso la metà dell’Ottocento si passa alla produzione in serie, e con essa all’organizzazione di grandi masse d’uomini all’interno delle neonate fabbriche, le quali presto si struttureranno secondo i principi fordisti; sorgono, al loro interno, i moderni movimenti operai. Gli intellettuali in questo periodo perdono molti privilegi; centinaia di migliaia di italiani – impiegati, burocrati, commercianti, maestri: figure cruciali nell’organizzazione della moderna società industriale – realizzano se stessi identificandosi non in valori artistici o in ideali ma nel lavoro. Nasce in questa situazione la figura dell’inetto, dell’inadatto alla vita. Proprio nell’incapacità al lavoro, che in sé costruisce identità ed è fonte d’orgoglio per la nuova piccola borghesia, sta uno dei caratteri fondanti di questo fortunato personaggio del modernismo europeo. La coscienza di Zeno costituisce uno dei capolavori del modernismo italiano. Il protagonista, Zeno Cosini, in una delle sezioni più interessanti del libro, si impegna in un’impresa commerciale col cognato, Guido. Tale situazione dà luogo a una serie di considerazioni sulla società in cui vive, nella quale il lavoro è fonte non solo di profitto ma anche di riconoscimento e prestigio. Osserva come nelle proprie riflessioni Svevo inserisca interessanti metafore e figure.

Mi parve [...] avesse portato alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow1 che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe un esaurimento ed è invece poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro e un’estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro ch’esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall’altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abbietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch’esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la rattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta così, col gozzo ad uno dei suoi capi e l’edema dall’altro, e non c’è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assolutamente manca.

Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso. Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini. Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d’acqua, obbligando così la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate. È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l’Olivi2 fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover muovere le gambe. La nostra posizione dava bensì un risultato differente, ma ora so con certezza

1 Il morbo di Basedow è una malattia che colpisce la tiroide. Fra i sintomi conta nervosismo, irritabilità, insonnia, ipercinesia. 2 Si tratta dell’avvocato che tutela il patrimonio di Zeno, affidatogli dal padre incerto sulle capacità del figlio.

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ch’esso non legittimava né un biasimo né una lode. Insomma dipende dal caso se si viene attaccati a una ruota mobile o immobile. Staccarsene è sempre difficile. (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Garzanti, Milano 2000, pp 308 e 316-7) Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore Pirandello affronta gli esordi del cinema. La cinepresa, in quanto macchina, ingoia l’esistenza; non solo come strumento di un’arte che strappa l’immagine e il moto al presente e li rende riproducibili potenzialmente all’infinito, ma anche quale macchina in sé. In questo essa è figlia della rivoluzione industriale, in cui «masse di operai addensate nelle fabbriche[...] vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina» (Marx, Engels, Il manifesto).

Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco dalla rampa del cancello, inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto Fotografico o del Positivo. [...] Qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine. Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che allucinano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telaj. Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra vita possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso. Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una mostruosa gestazione meccanica. E quante mani nell’ombra vi lavorano! C’è qui un intero esercito d’uomini e di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri macchinarii, ai prosciugatoj, all’imbibizione, ai viraggi, alla coloritura, alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi3. Basta ch’io entri qui, in quest’oscurità appestata dal fiato delle macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo 4svapori. Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch’esso di macchina, può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che a queste mani può servire. E a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone, di diventare anch’io una mano e nient’altro. Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il pasto la mia macchinetta. Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d'impassibilità. Anzi, ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano. (Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Garzanti, Milano 1999, pp. 57-9)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

I brani che hai appena letto si riferiscono a un mondo che, per la prima volta, entra in contatto con innovazioni tecniche e con nuovi modi di vita e di lavoro. Negli estratti proposti, gli autori ricorrono a figure come la metafora o l’allegoria per parlare della propria situazione. A quale immaginario rimandano? È contemporaneo o precedente alla situazione storica in cui sono collocate le opere? Si possono individuare alcune motivazioni?

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Sono fasi dello sviluppo della pellicola cinematografica. Per Serafino Gubbio il superfluo è quel qualcosa che impedisce all’uomo di essere soddisfatto: ansie, paure, inquietudini. Tale superfluo spinge l’uomo alla ricerca di senso, e lo distingue dall’animale. Il dedicarsi al proprio lavoro permette a Gubbio di spogliarsi del suo superfluo, divenendo solo una mano che gira una manovella.

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La figura dell’inetto, come sai, non è legata solo al lavoro: essa si riferisce piuttosto un disagio che investe svariati campi della vita umana. Secondo te, esiste un legame fra il cambiamento dei metodi e delle tecniche di produzione e l’emersione di questa figura letteraria? Quale legame si istituiva nel primo Novecento fra il lavoro e l’identità della persona agli occhi della società? Esiste oggi un legame simile a quello di allora? Uno dei temi portanti della Coscienza di Zeno è l’idea dell’umanità come malattia, come parassita del pianeta terra. Che cosa, a tuo parere, spinge l’autore a simili considerazioni pessimistiche? Ricordi altri punti di vista implicitamente o esplicitamente simili?

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Il secondo Novecento All’uscita dalla seconda guerra mondiale l’Italia è un paese in ritardo sui processi di modernizzazione. Essi si presentano quindi in modo rapido e traumatico dando vita al cosiddetto boom o miracolo economico (1956-63): un breve intervallo di tempo durante il quale l’economia cambia e si sviluppa enormemente. Nelle grandi fabbriche i massicci investimenti tecnologici introducono la linea e il flusso continuo (fordismo). La classe operaia muta profondamente: l’operaio di mestiere viene soppiantato dalla diffusione dell’operaio-massa5 (ex contadino o immigrato meridionale). Gli anni del boom coincidono con quelli della mutazione antropologica6: esplode il consumo di massa, si sviluppa enormemente la motorizzazione privata, si diffonde la televisione e viene introdotta la scolarizzazione di massa. Tra il 1951 e il 1961 il reddito degli italiani raddoppia, il Sud si spopola e le campagne vengono abbandonate; i lavoratori dell’industria passano dal 30 al 40 %, quelli dell’agricoltura dal 45 al 29 %. La svolta determina anche profonde trasformazioni nell’organizzazione della cultura. Nasce in Italia la moderna industria culturale che opera un massiccio reclutamento degli intellettuali. L’intellettuale diviene intellettuale-tecnico: un lavoratore salariato disponibile per qualsiasi uso. Ai livelli più alti questo significa possibilità di accesso ai ruoli di direzione nell’industria della cultura, mentre ai livelli più bassi comporta: l’insegnamento nelle scuole; il lavoro “nero” come collaboratore esterno delle case editrici, della RAI-TV, del cinema; i rischi del precariato e della disoccupazione. Compare così la figura dell’intellettuale-massa, secondo un processo in parte simile a quello che segna la trasformazione del lavoro operaio. Libera nos a Malo, di Luigi Meneghello, è un testo ibrido che oscilla tra autobiografia, documento, saggio e narrazione. Il libro esce nel 1963, nella fase terminale del boom italiano e quando ormai anche la piccola Malo sta mutando. L’adulto 7

espatriato (Meneghello si trasferirà a Reading in Inghilterra) ritorna con la memoria all’infanzia e al paese natale: l’ambiente, i valori e i lavori del passato vengono illuminati dal presente, e a loro volta lo interrogano.

Le virtù vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio. […] Di gran lunga la maggior parte delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro. Per i più la vita era estremamente dura: duro lavoro nei campi, nelle officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone dei criteri di oggi. 5

L’operaio di mestiere è quell’operaio a cui è richiesto un certo livello di professionalità e capacità tecniche. Con l’introduzione del fordismo e la conseguente semplificazione e divisione del lavoro, nasce l’operaio-massa che lavora alla catena di montaggio e a cui non sono più richieste particolari capacità. Pochi giorni sono sufficienti per imparare a svolgere la propria mansione. 6 L’espressione è dell’intellettuale e scrittore Pier Paolo Pasolini (1922-1975), e sta a indicare un mutamento profondo intervenuto in tutti gli aspetti della vita degli italiani. Rimandiamo al punto b) alla sezione conclusiva Altri percorsi, dal titolo Pasolini e gli oggetti della mutazione, per la comprensione approfondita di questo concetto. 7 L’aggettivo ibrido rimanda al sostantivo ibridazione: quando si parla di letteratura, con questa parola si indicano quei testi in cui l’autore mescola tra loro diversi generi letterari. Un testo ibrido è un oggetto misto, dove convivono elementi diversi, ad esempio del romanzo e dell’autobiografia, del romanzo e del saggio, della prosa e della poesia.

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[…] Non ricordo se ne parli la Arendt8, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio”, e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di work), l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice. Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale. […] Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’altro, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano qui. […] Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte). (Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Mondadori, Milano 2006, in Id., Opere scelte, pp. 119-25)

La vita agra, di Luciano Bianciardi è un altro testo ibrido, in cui l’autore mescola il romanzo all’autobiografia per indagare i cambiamenti causati dal miracolo economico. Il protagonista emigra dalla provincia alla Milano del boom, e l’impatto traumatico con la nuova realtà lo porta a mettere in evidenza diversi tipi di mutazione: nel contesto urbano, nel lavoro, e persino nei corpi delle persone. Il brano ci mostra una precoce forma di precariato intellettuale: quella del traduttore – il protagonista stesso – che lavora “a cottimo”, pagato un tanto a pagina.

C’è una crisi di stanchezza verso la decima cartella9, mi fanno un po’ male i muscoli sopra le clavicole, i cosiddetti omoioidei: non sembra, ma si traduce con quelli, ogni colpo sui tasti della macchina si scarica lassù, per verificarlo basta lavorare un momento con una mano sola, la destra, e poggiare la sinistra sulla spalla, e si sente il gran lavoro che fanno gli omoioidei. Se però riesci a vincere questa crisi della decima cartella, dopo vai avanti senza nemmeno accorgertene, ed è l’ora migliore per lavorare, fra l’uno e mezzo e le due e mezzo, perché è proprio quando i tafanatori10 vanno in tavola, e non gli passa certo per il capo l’idea di telefonarti. Fra l’uno e

8 Hannah Arendt (1906-1975), filosofa tedesca di origine ebraica, è menzionata nel testo di Meneghello come autrice del saggio Vita activa. La condizione umana (1958); in esso ha grande importanza il tema del lavoro umano. La voce narrante di Libera nos a Malo vi ritrova quindi dei concetti utili a definire con più precisione la realtà del lavoro nel suo paese d’origine. 9 Cartella è un termine tecnico, oggi entrato nell’uso comune (dove indica qualsiasi foglio stampato o scritto), che nel linguaggio dell’industria editoriale designava il singolo foglio di un testo (articolo giornalistico o altro) scritto, di solito a macchina, su una facciata sola e destinato alla tipografia. Il protagonista sta descrivendo nei dettagli una giornata ordinaria del proprio lavoro di traduttore. 10 Tafanatore è un’altra parola di ascendenza toscana, che deriva dal verbo tafanare e designa colui che tormenta o perseguita un altro. Qui si riferisce a tutti quegli sconosciuti, divenuti una vera e propria ossessione per l’io narrante, che telefonano al protagonista per sollecitare la riscossione di un credito loro dovuto o proponendo un acquisto.

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mezzo e le tre, superata la crisi delle dieci cartelle, puoi lavorare filato e indisturbato, raggiungere tranquillo le diciassette, diciotto cartelle, addirittura le venti, cioè la razione quotidiana. A questo punto puoi staccare, hai messo insieme le mille lire dell’affitto, la quasi tremila per Mara11, le altre mille fra luce gas telefono e tasse comunali, le duemila del vitto giornaliero, le altre mille per incerti, spettacoli, vestiario e varie, le cinquecento delle spesette tue a borsellino, caffè insomma, sigarette e qualche cinema dei paraggi. […] A pensarci bene, a far bene i conti, io ho un lavoro privilegiato, con cinque ore al giorno me la cavo, mentre altri debbono farsi le loro otto quotidiane di ufficio, più un’altra ora di tram, da casa al posto di lavoro, e hanno gli orari comandati, la macchinetta che punzona all’ingresso, oppure l’usciere apposito che segretamente marca e poi riferisce al capo del personale, e hanno i rapporti umani a cui stare dietro, gli attriti aziendali, tanta fatica per guardarsi le spalle dalle manovre delle segretarie, e dei dirigenti in ascesa. Io no, io debbo soltanto lavorare cinque ore al giorno, anche la domenica, s’intende – e fanno trentacinque ore settimanali, una media da sindacato americano – ma poi sono libero, e non ho attriti aziendali, né umane relazioni, non ho insomma necessità di vedere gente. […] Bisognerebbe non vedere mai nessuno: dopo le cinque ore quotidiane alla macchina, bisognerebbe soltanto allentarsi e dormire. Fare ogni pomeriggio il sonnellino ristoratore. Anna mi ha rimesso il letto in ordine […]. Leggo ancora un po’ il giornale, sorseggio il bicchierino, fumo un altro paio di sigarette, poi spengo e cerco di lasciarmi andare alla stanchezza e alla sonnolenza della digestione. E invece non sono mai riuscito a riposarmi davvero. La prima mezz’ora pare che tutto funzioni: sento i polpacci che mi si fanno di piombo, le spalle che si allentano, gli omoioidei che si decontraggono, la testa che si svuota, sento che il sonno arriva come una piega di velluto nero. Ma dura poco […] sono i tafanatori col telefono, arriva improvviso lo squillo alto e rovente, come un termocauterio applicato sui lombi, e il cuore comincia a battermi più forte. Ci pensa Anna a rispondere, lo so, ma io comincio a rimuginare chi sarà stato, che cosa vorranno, e poi mi torna alla mente che alla razione mancano ancora tre pagine, che se mi addormento troppo poi non ce la faccio entro l’ora di cena, a finire. […] Se mi addormento troppo, come recupero, poi? Dove trovo un’ora di calma e forma piena, per portare avanti le tre cartelle residue? Perché poi viene l’ora di cena, e dopo cena non si lavora bene, vengono i periodi stracchi, quegli improvvisi cali di forma, che poi in casa editrice qualcuno rileva, e fa notare alla direzione letteraria. Discontinuo, dicono, stanco. Gruppi di pagine che filano benissimo e poi un cedimento, e lì bisogna rimetterci le mani. Certo, sarà stanco, il prossimo lavoro sarà meglio darlo a persona più fresca, meno affannata, meno carica di preoccupazioni e di fretta. Rimandare a domani non si può, perché le tre cartelle vanno a sommarsi alla razione quotidiana, che è già alta, e io ho calcolato che un ritmo di venti cartelle al giorno si può reggerlo, ma se ci metti sopra uno sgobbo in più, ti disunisci nello sforzo, e la fatica va a sommarsi geometricamente, e poi la sconti con una super-stanchezza che non è facile smaltire. Se poi mi capitasse la sventura di ammalarmi, non so, un peggioramento della bronchite, qualche giorno di letto, come farei? (Luciano Bianciardi, La vita agra, Bompiani, Milano 2011, pp. 181-6)

La chiave a stella di Primo Levi ha per protagonisti due figure in dialogo tra loro: Libertino Faussone, un operaio specializzato, e un chimico-scrittore, che rappresenta la voce dell’autore. Il testo ha per tema il lavoro, inteso positivamente come attività fondamentale per l’essere umano: esso fornisce all’individuo un’identità sociale, facendosi strumento di realizzazione personale e di libertà nel mondo degli uomini. Ascoltiamo, in ordine, la voce di Faussone e quella del suo interlocutore mentre esprimono, ciascuno con il proprio linguaggio, la fiducia da loro riposta nel lavoro.

Sa, non è per il padrone. A me del padrone non me ne fa mica tanto12, basta che mi paghi quello ch’è giusto, e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera. No, è per via del lavoro: mettere su una 11

Mara è la moglie del protagonista, rimasta in provincia e ignara del fatto che il marito convive con un’altra donna, la Anna delle righe successive. 12 La frase, apparentemente sgrammaticata, vuole in realtà imitare il registro molto vicino all’oralità con cui si esprime Faussone. Il tono colloquiale dell’operaio spicca ancora di più se messo a confronto con quello sobrio ed elegante del chimico.

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macchina come quella, lavorarci dietro con le mani e con la testa per dei giorni, vederla crescere così, alta e dritta, forte e sottile come un albero, e che poi non cammini, è una pena: è come una donna incinta che le nasca un figlio storto o deficiente, non so se rendo l’idea». La rendeva, l’idea. Nell’ascoltare Faussone, si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al lettore: il termine «libertà» ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo. (Primo Levi, La chiave a stella, edizione speciale per l’Espresso, Roma 2009, pp. 1073-4)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

Nel primo estratto, Meneghello mette in gioco due temporalità diverse: il passato, in cui gli uomini sapevano produrre “opere” reali, grazie alla loro capacità di fare; il presente, dove nuove industrie «scendono dall’alto» e il saper fare non diviene nient’altro che un hobby. A queste due temporalità corrispondono due tipi diversi di società: una rurale e una più avanzata. Basandoti sul ragionamento dell’autore, cerca di delineare i tratti fondamentali del primo tipo di società e della figura del «bravo operaio» ad essa legata.

Nel testo di Bianciardi compare, per la prima volta in questa dispensa, il lavoro intellettuale autonomo, svolto per delle aziende senza un vero contratto di assunzione. Come ti sembra che venga rappresentata questa nuova figura di lavoratore? Trovi qualche legame tra le preoccupazioni del protagonista, il moto dei suoi pensieri e l’uso della lingua, della sintassi e in generale della costruzione stilistica?

Nel terzo brano Faussone parla del lavoro come strumento di realizzazione personale. Prova a confrontare questa figura, competente nel proprio lavoro e quindi libera, con l’artigiano fedele all’idea del «bisogno» di Meneghello, e il lavoro «privilegiato» di traduttore rappresentato da Bianciardi.

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L’età contemporanea I cambiamenti del lavoro in Occidente, negli ultimi decenni, ruotano attorno a tre grandi fenomeni: la fine della centralità della fabbrica; il passaggio del baricentro economico dalla produzione di merci alla produzione di servizi (postfordismo); il dominio della finanza rispetto alla produzione. Secondo i principi della dottrina economica del neoliberismo la produzione degli oggetti è spostata in paesi più convenienti, dove cioè la manodopera costa meno; l’enorme incremento degli scambi di persone, merci e soprattutto informazioni ha facilitato la nascita di nuovi mestieri, legati in generale al mondo informatico multimediale e alla sua integrazione con il marketing. Tra le caratteristiche del lavoro nell’età postmoderna spicca il grado di istruzione mediamente alto dei lavoratori, unito però a duri livelli di precarietà economica (contratti brevi, incertezze retributive) e quindi esistenziale (isolamento, difficoltà a creare rapporti affettivi stabili, dispersione geografica, emigrazione). Il lavoro, pure quando è manifatturiero, non genera quei fenomeni di unità che hanno caratterizzato il Novecento, dando luogo piuttosto a individualismo e competizione. L’isolamento del lavoratore nella società contemporanea, oltre a sfavorire le condizioni retributive, provoca il crollo delle grandi identità (fra tutte la classe operaia) che attorno al concetto stesso di lavoro si erano formate nel XX secolo. Non più l’orgoglio del proprio mestiere fra pari dunque, quanto la competizione fra precari. La dismissione è un romanzo-inchiesta dedicato alla chiusura dell’acciaieria Ilva di Bagnoli (Napoli), avvenuta tra il 1992 e il 2001. L’estratto riportato si colloca subito la decisione, presa dai vertici aziendali, di utilizzare la dinamite per demolire gli edifici più imponenti della fabbrica. Il primo edificio a dover subire la detonazione è la torre piezometrica (un enorme serbatoio d’acqua) e il protagonista Vincenzo Buonocore, un tecnico addetto al settore delle colate continue, assisterà al crollo da sopra un’alta terrazza.

Fu una vigilia molto movimentata. A Bagnoli il nervosismo si recitava come in un teatro. Alcuni giorni prima dell’esplosione furono affissi manifesti per invitare la popolazione alla calma, avvertendola del giorno e dell’ora esatta in cui ci sarebbe stato il boato. Io pensai che fosse mio dovere fotografare la torre piezometrica, anche se per la verità si trattava di un manufatto che non aveva mai suscitato dentro di me particolari emozioni, un corpo sgraziato tutto testa e niente fusto, disegnato chissà da chi, comunque da uno di quegli ingegneri o architetti convinti che in fabbrica non c’è posto per l’immaginazione. La torre, da mille tonnellate, era alta cinquantadue metri e larga, al cappello, circa vento (di diametro). Un grande fungo, di quelli che si ergono malefici e solitari su certe radure, evitati da tutti. Fotografandola, pensai alla sua vita scorbutica, separata, benché fosse stata costruita in funzione di un altoforno, per rifornirlo di acqua da raffreddamento. Insomma non era altro che un serbatoio aereo: ma chiuso in una sua malinconica e sdegnata solitudine, guardato con sospetto dalle strutture più o meno circostanti, come uno di quei vicini di casa che non salutano mai, forse per spocchia forse per eccesso di distrazione. L’esplosione fu fissata alle 15,30 del 25 febbraio. Avrebbero assistito all’evento autorità, giornalisti, politici e anche alcuni vulcanologi che, a quanto mi era stato riferito, avevano collocato nelle case più prossime in linea d’aria alla torre piezometrica dei sismografi per misurare l’onda d’urto. Quel giorno saltai il pasto. Non faceva bel tempo: il cielo aveva il mio stesso umore, era grigio, gonfio, pesante, velato da una specie di calda caligine nonostante l’inverno. Rammento con grande precisione quella mollezza dell’aria, il silenzioso scirocco che sembrava unguento spalmato sopra una ferita, lo stabilimento addormentato dentro al vasto torpore umidiccio. […] Una volta chiarito il fatto che io ero uno sporco reazionario e lui un indistruttibile nostalgico13, ci lasciammo attrarre anche noi dalla danza del falchetto sopra le nostre teste. Era al centro dell’attenzione generale, qualche ragazza gorgheggiava intimorita ogni volta che il rapace accennava alla 13 Nel passaggio non riportato, Buonocore è nel frattempo salito sulla terrazza da cui assisterà al crollo della torre. Tra i molti altri membri del personale lì presenti, soprattutto dirigenti, vi è anche un altro tecnico, Gennaro Danubio, militante comunista di vecchia data: egli rispetta Buonocore sul piano professionale, a patto però di ricordargli la distanza che li separa sul piano politico – così gli spiega la battuta che gli rivolge.

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picchiata come l’istinto gli suggeriva ma l’esperienza gli sconsigliava. E allora eccolo che si drizzava di nuovo verso la bruma e lo scirocco, teso come una saetta fino a scomparire d’incanto dalla nostra vista. Quel falchetto era ormai di casa, all’Ilva: si era fatto da tempo il nido in qualche anfratto, penso tra le macerie dell’altoforno 4, invenduto, anzi destinato a restare per sempre al suo posto, monumento di se stesso. Mi trovai a guardare fisso la torre piezometrica: in un certo senso il conto alla rovescia era già cominciato; tempo una ventina di minuti, si sarebbe trasformata in una grande nuvola di frammenti cementizi. Chissà che cifra era costata a suo tempo: soldi, fatica, calcoli, progetti. E poiché Danubio mi lesse nello sguardo, io fui costretto ad ammettere che sì, mi sentivo un po’ disperato, ma perché la circostanza metteva a dura prova la mia natura conservatrice, la mia radice di povero per il quale ogni distruzione era un delitto, soprattutto nel caso di strutture ancora efficienti, di impianti che erano costati un’enormità. Pensai che il crollo a cui stavamo per assistere non era diverso da altri spettacoli di morte, le persone e le cose possono assomigliarsi oltre ogni immaginazione: mi vennero in mente le scene di un film che mostrava un uomo sulla sedia elettrica, il boia accanto, il pubblico dietro a uno schermo di vetro, ansioso di vedere com’è che si contrae una faccia nel momento di massimo dolore, di addio alla vita. La torre mi guardava? No, ero io che guardavo fisso la torre: “lei” se ne stava lì, fiera, eretta, dignitosa, con il suo immenso cappello in testa, in attesa del suo destino. Osservai la vasta area di rispetto che le era stata creata intorno, con tanti operai, dirigenti, persone accorse dal quartiere e dalla città, illustri professionisti, autorità, semplici curiosi: tutti in prossimità delle transenne, ora in ordine sparso, ora a gruppi, ora in addolorata solitudine. (Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002, pp. 330-9) Lo stesso tema (la chiusura delle grandi fabbriche come parte di una più generale fine del lavoro industriale) ritorna in un passaggio de Il secolo breve dello storico inglese Eric Hobsbawm. Lo riportiamo come strumento utile a interpretare le righe che precedono.

Le vecchie industrie dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento decaddero e questo declino fu particolarmente impressionante proprio per la visibilità che quelle industrie avevano avuto in passato, quando erano state i simboli dell’«industria» nel suo complesso. I minatori, che una volta si contavano a centinaia di migliaia e in Gran Bretagna perfino a milioni, divennero meno frequenti dei laureati. L’industria dell’acciaio statunitense dava ormai lavoro a meno addetti di quelli impiegati nei ristoranti McDonalds. Anche quando queste industrie tradizionali non scomparvero, esse si spostarono dai vecchi paesi industriali a quelli nuovi. (Eric Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995) Riportiamo due estratti da un romanzo molto recente, La ferocia, dello scrittore Nicola Lagioia. Il punto di vista che emerge dall’estratto è quello di Vittorio Salvemini, imprenditore edile barese di 75 anni. Dalla sua prospettiva di uomo ormai anziano vediamo descritti, con un po’ di incredulità, i cambiamenti che hanno condotto a un nuovo assetto economico. Due in particolare sono i temi affrontati: la globalizzazione degli scambi e dei processi produttivi, con la riduzione delle distanze spazio-temporali come suo risvolto nella percezione umana; la smaterializzazione delle materie prime e dei beni di consumo, che non sono più oggetti ma immagini, pensieri, desideri.

Spalancò le ante della finestra. Ricevette la fresca carezza della notte primaverile. Il cielo rischiarato dalla luna gli diede la sensazione di poter leggere per paradosso le lontananze terrene, come se al posto del nulla siderale ci fossero il Brasile, gli Stati Uniti, la Cina… La costellazione di Los Angeles. L’insonne nebulosa di Tokyo. Mentre aspettava di conoscere il destino di Clara14, su Phuket il sole batteva già da 14 Siamo all’inizio della narrazione. Vittorio è sveglio nel cuore della notte e aspetta di sapere se i suoi uomini di fiducia hanno notizie della figlia, Clara, di circa trentacinque anni, scomparsa in circostanze incerte quella sera stessa. Nonostante la forte tensione del momento, il personaggio non smette di seguire con il pensiero la propria ossessione personale: gli affari. Così egli riproduce nella propria mente il ritmo continuo e ininterrotto delle attività economiche in cui è coinvolto.

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quattro ore. Questo significava che un esercito di ruspe si affaccendava intorno alla piccola struttura alberghiera che stava costruendo coi suoi soci di laggiù. Quando in Thailandia avrebbero smesso di lavorare, in Turchia, dove stava terminando una spa, sarebbero state le tre del pomeriggio. In Italia avrebbe telefonato ai direttori dei cantieri con la luna già alta sul Bosforo, lasciando sguarnito il tratto tra le dieci e le undici di sera. Era l’unico momento durante il quale la macchina del suo piccolo impero sarebbe stata ferma ovunque. Vittorio arrivava a immaginarsela come una falla pericolosa. […] a settantacinque anni, Vittorio non poteva più fumare. A tennis non avrebbe superato il primo set, e la memoria aveva smesso di essere quel prodigio che i coetanei gli avevano invidiato a lungo. Per non parlare di come era cambiato il mondo. Avrebbe scommesso cento volte contro l’Argentina15 ma non avrebbe immaginato come pensieri, sfoghi e confidenze di milioni di adolescenti sbattuti davanti allo schermo di un computer potessero gonfiare il portafogli del più furbo di loro. Un tempo erano sufficienti le confidenze di un sindacalista – una soffiata sui quadri Fiat pronti a scendere in piazza contro i metalmeccanici – e lui comprava un po’ di azioni. Adesso sulle reti viaggiavano algoritmi che emettevano enormi ordini di acquisto, li cancellavano una frazione prima che diventassero operativi ed emettevano all’istante nuovi ordini in modo da lucrare sulle variazioni da essi stessi generate. Certe notti osservava il cielo stellato – la linea del mondo stava di nuovo ruotando su se stessa, e lui temeva che lo spettacolo si consumasse fuori dal suo punto di vista. Sugli schermi della sala d’attesa – quattro Samsung agganciati a una sbarra di metallo – passavano le sequenze di un cartone animato sponsorizzato da una ditta farmaceutica. Un gatto veniva lasciato solo a casa. Inseguiva una mosca nel soggiorno. Quando il padrone tornava, trovava la casa mezza distrutta e il gatto che si rotolava sul tappeto dell’ingresso. Vittorio si chiese in che modo quelle immagini potessero aiutare un malato di cancro16. Faceva parte del nuovo mondo. Telefonini. Pupazzetti. Fenomeni infantili che nascevano su internet e pochi mesi dopo valevano milioni. Un tempo si costruivano automobili. Televisori, tostapane, calcolatori elettronici. Ma adesso si produceva roba che neanche esisteva. Potevi pensarla, al limite vederla. Grandi costellazioni ruotavano nel cielo della notte, svincolate dal fenomeno fisico che le aveva generate. Tutto questo generava denaro. Generava futuro. (Nicola Lagioia, La ferocia, Einaudi, Torino 2014, pp. 29-30; 352)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

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I personaggi di Vincenzo Buonocore e Vittorio Salvemini a prima vista appaiono molto diversi tra loro. Il primo è stato operaio prima di essere tecnico, è entrato in fabbrica nel 1969, ricorda le lotte intraprese per i diritti dei lavoratori e porta con sé un’etica del lavoro fondata sulla responsabilità. Il secondo è una figura più moderna di imprenditore, che si è arricchito speculando e corrompendo fin dove lo spingeva la sua voglia di profitto. Nonostante questo, vi sono delle affinità più profonde tra i personaggi? Cosa li accomuna? Allargando lo sguardo, sia La dismissione che La ferocia raccontano in qualche modo la stessa trasformazione epocale: in che cosa differisce la prospettiva alla base dei testi? Su quali parti della realtà economica e lavorativa ci si concentra in uno e nell’altro? In entrambi gli estratti compaiono alcune immagini attinte dal mondo naturale. In particolare, nei brani tratti da La ferocia, in più punti vengono nominati il cielo e le stelle: di quale dei temi affrontati fino a ora essi possono farsi allegoria, e quali funzioni svolgono nei passaggi testuali riportati?

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Il personaggio si riferisce alla crisi economica argentina, un episodio che risale, nella fase acuta, agli anni 1999-2002. Vittorio si trova nella sala d’attesa dell’Istituto oncologico del Mediterraneo: deve parlare con il vice-direttore, il figlio Ruggero, riguardo a un episodio di corruzione che dovrebbe favorire la famiglia Salvemini. Non è malato, ma si sottopone a una serie di controlli per avere l’occasione di discutere d’affari. La vista dei monitor diventa l’occasione per riflettere sul nuovo mercato delle merci immaginarie. Mentre il romanzo si avvicina alla propria conclusione, le considerazioni ricollegano, per la loro somiglianza, questo passaggio all’estratto precedente, lungo una sorta di disegno circolare. 16

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Per finire: dal presente al passato La gemella H (2014) è l’ultimo romanzo di Giorgio Falco. Nel brano che segue Hilde, una delle gemelle della famiglia Hinner nonché protagonista del libro, si trova a Milano durante i primi anni del boom economico e ha appena deciso di abbandonare la scuola per trovarsi un lavoro. Alla Rinascente, uno dei primi grandi magazzini italiani, cercano personale femminile e Hilde si candida, ottenendo un posto come commessa

Noi candidate entriamo nella stanza, una piccola aula magna aziendale, che conserva qualcosa di scolastico, il rumore di tram fuori e denaro dentro. Ci sediamo abbastanza distanti le une dalle altre, non dobbiamo sbirciare dai fogli vicini, per essere sicure ci difendiamo con i gomiti, a protezione dei segreti. Domande di cultura generale, in fondo vengo da due anni di liceo alla Scuola Svizzera di Milano, le scuole elementari e medie dalle suore di Merano, e l’esordio durante il Terzo Reich17. Ci fanno una prova di grafia, non perché dobbiamo scrivere, per capire qualcosa del carattere. È facile essere assunta in Rinascente. Passo la visita medica senza problemi. Offro le risposte giuste e il necessario malinteso della giovinezza. Sono minorenne, bionda, alta centosettanta centimetri, uno in più di mia sorella. Peso cinquantaquattro chili. Porto la terza di reggiseno. Se applicassero le teorie di alcuni medici italiani sarei una via di mezzo tra la razza alpina e la razza adriatica, benché sia bavarese. La circonferenza dei fianchi è di novantaquattro centimetri, l’ampiezza della schiena è di trentasette. Sembrano le spalle di una nuotatrice dilettante. E tuttavia, anche se fossi davvero bella, non dovrei sentirmi tale. Perfino la giovinezza è bene che sia dissimulata, in Rinascente. La mia gradevole normalità è un fenomeno naturale, dotato di un’energia immemore. La Rinascente educa alla cura di me stessa con moderazione, sebbene il corpo sia costretto alla divisa, che tuttavia non ha nulla di militare, ricorda semmai la collegiale, il colletto sempre bianco, il grazioso grembiule non troppo attillato. Potrei essere la figlia, la sorella, la cugina, la nipote, la bambinaia di molte clienti, potrei essere la fidanzata, la compagna di banco, la giovane amante di molti clienti. Sono una commessa della Rinascente, la somma potenziale di tutto, e in verità niente di tutto questo. [...] La Rinascente è la nuova grande madre. Dice di lavare i denti con lo spazzolino, dopo pranzo potremmo avere un sorriso rovinato dalla pausa in trattoria; dice di curare la pulizia delle unghie, di usare uno smalto scarlatto o rosso angelico per ravvivare la merce stessa che tocchiamo. L’azienda organizza corsi di dizione, le mie colleghe sono ex contadine, cameriere, casalinghe, indossatrici, operaie, studentesse felici di lavorare alla Rinascente. Arrivano da ogni parte d’Italia, vedono alla Rinascente il prestigio di un lavoro pulito, rispettato da tutti grazie all’immediatezza del marchio, al design dei luoghi moderni. [...] Lavoriamo circondate da cose, non guadagniamo abbastanza soldi per comprarne quante vorremmo, eppure tutto ciò non è frustrante, anzi, ci educa al denaro. Non c’è padrone, solo piccoli capi più di te, di seconda mano, il grande magazzino arriva a tutti, fagocita ogni dialetto, dobbiamo imparare un italiano sorridente e radiofonico. [...] Per lenire l’imbarazzo, sorridiamo. Quanto sorridiamo alla Rinascente! Stiriamo la bocca, inarchiamo le labbra per mostrare un accenno dei denti, gli occhi si rimpiccioliscono, i muscoli del viso si contraggono sul punto di esplodere, ma tutto è trattenuto, non devo ridere davvero, lasciarmi andare. Bisogna sorridere per sembrare allegre. Se non sorridiamo la gente può credere che siamo depresse. Nessuno vuole comprare qualcosa da una persona depressa, tantomeno da una giovane donna depressa. Per questo la merce deve sempre sorridere, anche se esposta inerte. Tocca a noi vivificarla. Sorridiamo. [...] Il sorriso è l’elemento unificatore tra l’intimità del consumo personale, l’abitudine del corpo e la produzione in serie. E’ il piano di sviluppo industriale, la fisicità del fenomeno, di chi riesce a immaginare un abito per molti, quasi per tutti, eppure il sorriso non si rivolge mai alla folla generica,

17 L’esordio durante il Terzo Reich: la famiglia di Hilde è originaria della Baviera, poi trasferitisi a Merano e successivamente a Milano. La protagonista in questo caso si riferisce alla particolare educazione che le è stata impartita in Germania, durante gli anni della dittatura nazional-socialista.

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al pubblico anonimo, ma sempre a quel potenziale cliente che – trasportato rigido sulla scala mobilesi trova isolato dentro la folla. [...] Qui lavorano le più belle ragazze della città. L’azienda ci manda dal parrucchiere una volta alla settimana – a diciassette anni sono pettinata come una signora – e ci cura le unghie. Siamo tutte giovani, alcune di noi non cercano solo clienti, tastano gli oggetti per assumerne il medesimo splendore: sorridono, un sorriso spinto a tal punto da essere in competizione con la merce, la fotosintesi, il movimento dei pianeti. [...] E insieme ancora fuori, lo spirito di corpo aziendale. La Rinascente organizza attività dopolavoristiche, le stesse iniziate durante il fascismo e pervenute intatte in questi anni italiani: gite domenicali, concerti, spettacoli teatrali, serate danzanti. Consumo un paio di scarpe ogni tre mesi per ballare, mi sorprendo nel dire frasi come: vado a ballare con le mie colleghe. [....] Vogliamo divertirci soprattutto il sabato, tanto non abbiamo ancora figli, e anche se li avessimo, la Rinascente pensa a tutto, anche alle colonie estive per i bimbi. Molti dicono, che noia, uno Stato, un partito, un’azienda che pensa a tutto, così non c’è più libertà di scelta. Ma tra una cosa che pensa a tutto, e una cosa che non pensa a niente, non è meglio la prima? (Giorgio Falco, La gemella H, Torino, Einaudi, 2014, pp. 178- 86)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

Con uno sguardo retrospettivo, Falco tenta qui di rappresentare le origini dell’odierna società dei consumi di massa, emblematicamente raffigurata dal primo grande magazzino (La Rinascente) e dalla nuova figura lavorativa che ad esso si accompagna: la commessa. Quali sono gli elementi che maggiormente contraddistinguono questa figura e come vengono rappresentati? Quale rapporto intercorre tra il lavoro e la merce?

Questo brano ha un carattere inedito rispetto ai testi che hai letto in precedenza, data l’ampia distanza tra il piano temporale in cui scrive l’autore (nei nostri giorni) e quello in cui la vicenda è ambientata (durante gli anni Cinquanta). Il libro sembra quindi proiettarsi nel passato con gli occhi del presente. Esistono degli elementi di continuità, rilevabili nel testo, tra una commessa contemporanea e una degli anni Cinquanta? Con quali differenze?

Hilde è nata negli anni Trenta in Germania ed è vissuta per un po’ di tempo sotto il regime nazista. In alcune parti di questo estratto la logica aziendalistica sembra avvicinarsi pericolosamente, anche se con le dovute differenze, a una logica di regime (pensa, per esempio, all’immagine della Rinascente come «grande madre» che “educa” i suoi dipendenti). Prova a individuarle.

Il sorriso delle commesse della Rinascente, «un sorriso che non deve lasciarsi andare», può forse simboleggiare i diversi atteggiamenti che hanno caratterizzato la specie homo sapiens sapiens nel suo rapporto col lavoro: euforici, disforici, ambivalenti. Prova a catalogarli ripensando a quell’immagine.

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Glossario Boom economico Periodo della storia d’Italia che va dagli anni cinquanta agli anni sessanta, contraddistinto da una forte crescita economica e da un’accelerazione nel processo di sviluppo tecnologico con fortissime ricadute sul piano sociale. Aumentano le migrazioni dal sud al nord, viene quasi raggiunta la piena occupazione, aumentano i salari e con essi la disponibilità degli italiani a subire il fascino della nuova e ampia offerta di merci (televisori, automobili, frigoriferi…). Tuttavia alla diffusione dei beni di lusso, elevati a feticci della quotidianità privata, non corrispose un adeguato sviluppo delle opere pubbliche quali strade, scuole, ospedali, trasporti mentre l’espansione dei tessuti urbani e delle strutture alberghiere nelle zone turistiche, in assenza di piani regolatori e criteri minimi di controllo, determinò disastri ambientali e distruzione selvaggia del paesaggio italiano.

Fordismo Si intende per F. un fortunatissimo modello di organizzazione del lavoro, introdotto da Ford nelle sue fabbriche di automobili statunitensi negli anni ’10 del Novecento. Il F. prevede la produzione in serie automatizzata dei beni di consumo attraverso un nuovo elemento ordinatore del ciclo produttivo: la catena di montaggio. Precedentemente l’operaio lavorava attorno al pezzo da produrre, compiendo tutti i passaggi necessari alla sua realizzazione. Con il F. è il prodotto a muoversi, passando da un operaio all’altro; ogni operatore compie gesti minimi ed esattamente definiti: non è necessaria alcuna specializzazione, l’operatore non ha idea della globalità del processo di produzione. Il F. permette rilevantissime diminuzioni dei tempi di lavorazione dei prodotti, introducendo però noia e meccanicità nel lavoro.

Industria culturale Con I. si intende la moderna organizzazione della cultura che dalla fase di produzione artistica a quella del consumo passa sotto la supervisione di grandi corporations (case editrici, discografiche ecc.) o multinazionali. L'I. è centrata sulla trasformazione di ogni oggetto culturale in prodotto di consumo: l'opera d'arte viene inserita in un circuito commerciale e pubblicitario che svilisce l'integrità estetica e cognitiva del prodotto culturale riducendone l'essenza al valore di scambio, ossia alla valutazione secondo la sola legge del profitto. Le indagini sociologiche che hanno avuto come oggetto, fin dagli anni '50, l' I. - spesso definita industria del divertimento hanno sottolineato le ambiguità ad essa connaturate: la presunta democratizzazione della cultura promessa dall'I. si realizzerebbe in sostanza nella standardizzazione a ribasso dei prodotti; l'allargamento esorbitante dei cataloghi letterari e filmici non corrisponderebbe a una differenziazione dei gusti del pubblico, ma ne costituirebbe semmai un'omologazione velata e coatta.

Postfordismo Si tratta della riorganizzazione dei processi industriali e di consumo avvenuta su ampia scala dagli anni Ottanta. Secondo i principi del postfordismo la produzione viene delocalizzata e deve poter cambiare ritmo in base alle richieste del mercato: ciò è possibile solo utilizzando manodopera estremamente precaria, assumendo e licenziando in base ai mutamenti di mercato. Nei paesi occidentali, la figura dell’operaio, conseguentemente alla delocalizzazione dei processi produttivi, viene progressivamente sostituita dal lavoratore del terziario, dei servizi o delle telecomunicazioni, dando luogo alla cosiddetta società postindustriale in cui oggi viviamo.

Postmoderno «Quando gli uomini si trovano di fronte a qualcosa di nuovo che li coglie impreparati, si affannano a cercare le parole per dare un nome all’ignoto, anche quando non possono definirlo né comprenderlo. Nel terzo quarto del [XX] secolo possiamo vedere questo processo in atto tra gli intellettuali occidentali. La parola chiave fu la breve preposizione «dopo», generalmente usata nella forma latina “post”» , usata davanti a termini chiave della riflessione precedente sulla realtà. Forse il più fortunato fra i nuovi termini fu P.: con esso si intende un periodo storico, cominciato con la fine del moderno (l’età dell’acciaio, dell’elettricità e del motore a scoppio; delle grandi ideologie – fra tutti il marxismo – e delle opere d’arte che vogliono avere un valore universale), datata fra anni ’50 e ’80. Le sue caratteristiche: - sul piano economico, egemonia di neoliberismo e postfordismo; - nuove correnti artistiche che privilegiano un rapporto con il passato non nelle forme canoniche di continuità o rottura, ma di ripresa ironica e leggera; l’indistinzione fra arti alte e di consumo; la prevalenza dell’immagine e dell’audiovisivo sulla parola scritta; la commistione e l’ibridazione fra forme e generi. 18

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Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 2014, p. 339.

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- tendenze filosofiche orientate sull’individuo e sulla sua realizzazione personale, in contrapposizione alle grandi teorizzazioni della collettività Otto e Novecentesche.

Precariato Per P. in senso stretto si intende una condizione nella quale l’incertezza è la caratteristica dominante delle relazioni lavorative, unita generalmente alla limitatezza delle retribuzioni. Tale condizione ha generalmente gravi risvolti sul piano esistenziale, imponendo instabilità economica, familiare, geografica. In Italia la disoccupazione e l'erosione dei diritti dei lavoratori, cominciata nel ’97 con la legge Treu e mai arrestata, hanno determinato una condizione di P. diffuso che ha intaccato soprattutto le fasce giovanili e ha fatto ripartire imponenti flussi migratori.

Neoliberismo Il N. è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio. Il ruolo dello stato è quello di creare e preservare una struttura idonea a queste pratiche. Lo stato deve [...] predisporre le strutture e le funzioni militari, difensive, poliziesche e legali necessarie per garantire il diritto alla proprietà privata e assicurare, ove necessario con la forza, il corretto funzionamento dei mercati. Inoltre, laddove i mercati non esistono, (in settori come l’amministrazione del territorio, le risorse idriche, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la sicurezza sociale o l’inquinamento ambientale), devono essere creati, se necessario tramite l’intervento dello stato. Al di là di questi compiti, lo stato non dovrebbe avventurarsi. Gli interventi statali nei mercati (una volta creati) devono mantenersi sempre a un livello minimo. […] La conversione al N. ha comportato tuttavia una ingente «distruzione creativa», non solo di poteri e strutture istituzionali preesistenti (tanto da minacciare le forme tradizionali di sovranità statale) ma anche nell’ambito della divisione del lavoro, delle relazioni sociali, del welfare, degli assetti tecnologici, degli stili di vita e di pensiero, delle attività riproduttive, dell’attaccamento alla propria terra e degli atteggiamenti affettivi. [Il N.]sostiene che il bene sociale può essere massimizzato

intensificando la portata e la frequenza delle transazioni commerciali, e tenta di ricondurre tutte le azioni umane nell’ambito del mercato. Questo richiede tecnologie per la creazione di informazione e per l’accumulazione, l’immagazzinamento, il trasferimento, l’analisi e l’utilizzo di enormi database necessari per orientare le decisioni nel mercato globale. Di qui il profondo interesse del N. per le tecnologie dell’informazione […] . 19

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David Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007, pp. 10-12.

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Note bio-bibliografiche Luigi Meneghello (1922-2007): nato a Malo (VI), è stato un partigiano, accademico e scrittore italiano. Emigrato nel 1947 nel Regno Unito, ha insegnato per molti anni all’Università di Reading in Inghilterra. Le sue opere principali sono Libera nos a Malo (1963), I piccoli maestri (1964), Pomo pero (1974), Fiori Italiani (1976). Libera nos a Malo prende le mosse dal ritorno dell’autore al paese natale, Malo, e dal suo arrivo, in una sera di temporale, all’interno di una casa contadina. La voce narrante si tuffa allora nella memoria infantile per compiere una ricerca etnologica e antropologica dall’andamento semi-narrativo. Il libro si compone di una moltitudine di aneddoti e la narrazione ha il dinamismo dell’associazione d’idee, tesa al recupero delle molteplici esperienze del passato. Italiano, dialetto e inglese (per l’espatriato Meneghello la lingua dell’attività intellettuale) operano una liberazione linguistica dell’esperienza, in grado di riscoprire, mettendoli in combustione, il presente e il passato. Luciano Bianciardi (1922-1971): è stato uno scrittore, giornalista, traduttore italiano. Tra le sue opere sono da ricordare almeno: Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), La vita agra (1962). La vita agra, tra racconto autobiografico e romanzo, racconta le vicende di un uomo che lascia la provincia, la moglie e il figlioletto per andare a Milano a vendicare i minatori morti in un incidente causato dalla scarsa sicurezza sul lavoro. Il protagonista, però, subisce l’impatto traumatico della Milano del boom: solitudine, disillusione e amarezza. L’intellettuale viene assorbito dal nuovo sistema economico e diviene un lavoratore precario del terziario; i suoi intenti anarchico-rivoluzionari sono vanificati dalla nuova civiltà di massa fondata sui miti del progresso, del profitto e dei nuovi consumi. Primo Levi (1919-1987): chimico e scrittore celebre in tutto il mondo come autore-testimone dei campi di annientamento nazista; su questo aspetto ricordiamo le opere Se questo è un uomo (1947), La tregua (1963), La chiave a stella (1978), I sommersi e i salvati (1986). La chiave a stella è un romanzo dedicato al lavoro tecnico qualificato e ha una struttura dialogica: il narratore ascolta e discute i racconti delle avventure lavorative di Libertino Faussone. Quest’ultimo è un personaggio singolare che ha viaggiato per tutto il mondo come perito tecnico e abile montatore di gru, ponti, trivelle. Il libro è stato scritto nella seconda metà degli anni Settanta, quando l’eco dei movimenti studenteschi e operai di contestazione e di lotta nati nel 1968 si faceva ancora sentire. In quegli anni il dibattito sul lavoro verteva sui temi dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale e dell’alienazione dell’operaio. Con questo libro Levi prende posizione e, in controtendenza, afferma la centralità del lavoro per l’uomo: mezzo per la costruzione di un’identità sociale, sfida alla natura e risposta laica alla morte. Ermanno Rea è nato a Napoli nel 1927. Ha esordito come giornalista e solo in tarda età è approdato alla pubblicazione di romanzi. Il mestiere di giornalista ha consentito a Rea di avvicinarsi alla realtà non solo con la curiosità del cronista, ma soprattutto con la concretezza di chi parte dal caso specifico umano, documentato. I suoi libri sono prevalentemente inchieste su casi personali che permettono di raccontare la realtà circostante: la militante comunista Francesca Spada, suicida, in Mistero napoletano (1995), il docente di economia Federico Caffè, scomparso misteriosamente, in L’ultima lezione (1992). La dismissione (2002) è il testo narrativo con cui Rea racconta la fine dell’Italsider di Bagnoli (quartiere di Napoli). Agli esordi del nuovo millennio, dopo che l’impianto è stato realmente dismesso e smantellato negli anni precedenti, Rea traspone letterariamente questo evento che segna non solo le sorti dei tanti lavoratori dell’Ilva ma dell’intera città: per farlo sceglie di dare la parola all’operaio specializzato Vincenzo Buonocore che intesse una narrazione in forma di monologo con lui. Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Oltre all’attività di scrittore dirige la collana Nichel, per la casa editrice Minimum Fax, ed è una delle voci di Pagina3, la rassegna stampa culturale di Radio 3. Ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009). Nella sua ultima opera, La ferocia (2014), sotto la superficie di una trama noir assistiamo a un complesso dramma famigliare e sociale. Il romanzo si apre con la morte in circostanze misteriose di una giovane donna barese, Clara, figlia dell'anziano imprenditore edile Vittorio Salvemini. Da quel momento più fili si intrecciano: il fratello Michele, con un passato di disturbi psichici, indaga sulla morte della sorella, riportando alla luce la sostanza aspra e corrotta di un mondo dominato dalle leggi, ormai divenute animali, dell'economia. La ferocia diviene quindi indagine e requisitoria contro una realtà, la nostra, abitata da un profondo impoverimento culturale. Giorgio Falco è nato ad Abbiategrasso nel 1967. Ha pubblicato il suo primo libro dal titolo Pausa caffè nel 2004, scrivendo successivamente una raccolta di racconti dal titolo L’ubicazione del bene (2009) e il romanzo La gemella H (2014). Quest’ultimo racconta la storia di tre generazioni della famiglia Hinner, dalla Germania di Hitler, passando per l’Italia del boom economico, arrivando infine ai giorni nostri. Il nucleo familiare è composto dal padre Hans, dalla cagnolina Blondi e dalle due gemelle, Helga e Hilde. Proprio sul racconto di quest’ultima si innesta la narrazione della storia famigliare, contraddistinta da molte ombre (l’appoggio senza riserve e di convenienza al nazismo da parte del padre; la speculazione immobiliare) e motivata sempre da due ragioni di fondo: l’accumulazione sfrenata di denaro e oggetti, e il desiderio di scalata sociale. La famiglia Hinner da semplice caso particolare diventa così espressione ed emblema di un nuovo mondo, all’ «ombra dei grandi magazzini».

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Altri percorsi All’interno di questa ultima sezione, vogliamo incoraggiare alcuni percorsi facoltativi e supplementari intorno al tema del lavoro, proponendovi alcuni spunti non solamente letterari. Dopo aver costruito insieme attraverso la dispensa una prima ossatura di concetti e contenuti, ci interessa infatti darvi una doppia possibilità: approfondire alcuni aspetti delle questioni generali che abbiamo affrontato, calandovi nel concreto dei problemi e degli interrogativi; trasformare i discorsi fatti in esperienze attraverso una loro messa in pratica che sia attenta agli interessi individuali: ciascuno di voi sceglierà solo ciò che davvero lo incuriosisce e potrà approfondirlo da sé, a partire da questa prima occasione. I primi due itinerari che proponiamo riguardano due generi letterari diversi rispetto alla narrativa (la poesia, il saggio), mentre i restanti hanno come nucleo un tema e lo avvicinano utilizzando linguaggi artistici diversi, come quello del cinema. Tutti gli spunti sono pensati anche come risorse eventuali per una tesina dell’Esame di Stato.

a) Poesia e lavoro: Sereni, Pagliarani, Fortini É soprattutto a partire dagli anni sessanta che la poesia italiana si avvicina al tema del lavoro, fino a quel momento escluso dai motivi tipici della nostra tradizione. Di fronte alle trasformazioni del boom economico, a cui si accompagnano nuovi conflitti sociali, alcuni poeti più sensibili a una vocazione di tipo civile prendono la parola. Si potrebbe dire che il discorso poetico si fa inclusivo: si allarga a comprendere porzioni più ampie di realtà, confrontandosi con maggiore impegno con il reale. Proponiamo tre casi. Vittorio Sereni (1913-1983), autore lombardo, dopo un esordio fedele a una poesia delle emozioni private, per certi versi consona, anche se con maggiore sobrietà, ai valori dell’ermetismo (Frontiera, 1939), apre i propri versi alla materia storica e sociale: oltre alla seconda guerra mondiale, con l’olocausto e la resistenza che divengono vere e proprie ossessioni, anche il tema del lavoro entra di prepotenza nella sua terza e più matura raccolta, Gli strumenti umani (1965). Essa ospita in particolare il poemetto Una visita in fabbrica, un testo lungo e diviso in sezioni, uscito sul numero della rivista il Menabò dedicato a Letteratura e industria (1961). Come recita il titolo, l’io lirico è protagonista di una visita in un grande stabilimento industriale. Il soggetto osserva dalla sua posizione particolare e defilata il fervore di attività che impegna ogni settore dell’impianto, ma il suo sguardo e la sua voce si concentrano su ciò che la trasformazione industriale lascia indietro. Questa attenzione posta sui residui, gli scarti, gli angoli bui e polverosi della fabbrica, ci parla allora forse del prezzo nascosto della modernizzazione: di quella parte di mondo umano, costituito di gesti, idee, valori, scomparso di fronte all’incalzare della moderna società dei consumi. Il testo affronta inoltre il rapporto problematico tra intellettuali e lavoro manuale: un misto di distanza, incomprensione e curiosità attenta. Riportiamo un breve estratto dalla terza sezione. Negli angoli morti. Dove il giorno sonnecchia. Dove s’ammucchiano gli scarti, fermentano i rifiuti e più resiste il pattume alla pala. Dove più dice i suoi anni la fabbrica. Qui ritorni in famiglia. Di vite trascorse qui la brezza è loquace per te? Quello che precipitò

nel pozzo d’infortunio e d’oblio: quella che tra scali e depositi in sé accolse e in sé crebbe il germe d’amore e tra scali e depositi lo sperse: l’altro che prematuro dileguò nel fuoco dell’oppressore… Lavorarono qui, qui penarono. E oggi il tuo pianto, il più facile, sulla fine comune. Ma anche di costoro che ne sappiamo tu e io […] (III, vv. 1-19)

Mentre Sereni si confronta con il tema del lavoro industriale, negli stessi anni tra cinquanta e sessanta scrittori e intellettuali assistono all’esplosione del settore terziario. Bianciardi, di cui ricordiamo il ritratto della dattilografa ne La vita agra, non è però l’unico a reagire. Elio Pagliarani (1927-2012), poeta dotato di forte vena sperimentale, pubblica nel 1960 un poemetto dal titolo La ragazza Carla, la cui protagonista è per l’appunto una giovane dattilografa milanese, Carla Dondi. La figura e il punto di vista della protagonista si alternano alle voci di numerosi altri personaggi, provenienti dall’ambiente famigliare e lavorativo della ragazza (la Transocean Limited, grande ditta di import-export). Ai tanti personaggi presenti nel testo corrisponde l’uso di diversi linguaggi, nel tentativo di fornire un ritratto fedele e oggettivo della mutazione italiana, calandosi come “in presa diretta” al suo interno. Dallo sfondo emerge poi, di tanto in tanto, la voce dell’autore, alla quale è affidata la funzione di riunire e commentare i diversi frammenti di realtà rappresentata. Ma vediamo, dall’incipit, come ci viene presentata la protagonista e assieme a essa Milano, la metropoli del miracolo.

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Carla Dondi fu Ambrogio di anni diciassette primo impiego stenodattilo all’ombra del Duomo

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sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro sia svelta, sorrida e impari le lingue le lingue qui dentro le lingue oggigiorno capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED qui tutto il mondo... è certo che sarà orgogliosa. 21

Signorina, noi siamo abbonati alle Pulizie Generali, due volte la settimana, ma il Signor Praték è molto esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente – così nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino sarà sua prima cura la mattina. […] All’ombra del Duomo, di un fianco del Duomo i segni colorati dei semafori le polveri idriz elettriche mobili sulle facciate del vecchio casermone d’angolo fra l’infelice corso Vittorio Emanuele e Camposanto, Santa Radegonga, Odeon bar cinema e teatro un casermone sinistrato e cadente che sarà la Rinascente cento targhe d’ottone come quella TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY le nove di mattina al 3 febbraio. 22

(II, i, vv. 1-15; ii, 1-9)

Il terzo testo che proponiamo è Sul primo numero di «Quaderni Rossi», di Franco Fortini (1917-1994), poeta e intellettuale fiorentino poi stabilitosi a Milano, fra i maggiori saggisti del Novecento italiano. Da sempre su posizioni di sinistra radicale, ma mai organico ad alcun partito o altra formazione politica, Fortini torna in questa poesia, contenuta nella sua quinta raccolta Paesaggio con serpente (1984), ad omaggiare la figura di un amico precocemente scomparso: Raniero Panzieri. Ecco il testo. Molte ore così delle poche ore che l’ordine degli uccisori e il disordine non avevano ancora spezzate

imprecisi, ridenti! Acuminati quei cirri che le frese schizzano e gli incupiti olii convogliano

lesse di strutture aziendali, contratti collettivi, controlli dei tempi. E che pensieri immensi nell’aria dei suoi giorni,

a lui nei sonni erano figura di seme morto e di erba futura.

I «Quaderni rossi» del titolo sono stati una rivista pubblicata dal 1961 e diretta da Panzieri, il destinatario e protagonista della poesia, morto in giovane età dopo soli tre anni dalla fondazione del periodico. Lo stesso Panzieri va ricordato come fondatore della riflessione marxista sull'operaismo, e cioè sulla centralità della fabbrica e dell'operaio nella lotta politica e nella vita della nazione. Nel testo compare un solo attore, i cui gesti e pensieri sono descritti dall’esterno, in terza persona: l’animatore dei Quaderni è un lavoratore culturale, come testimoniano le azioni del leggere e del pensare; è però anche un intellettuale, un pensatore politico, fedele a una forma non ortodossa di marxismo: la «figura» e il sonno dell’ultima strofa lo dipingono come un sognatore, con un’immagine che allude alla tensione utopica del suo pensiero. La poesia di Fortini si sviluppa come un continuo dialogo fra singolare e collettivo, lavoro intellettuale e lavoro manuale, vita privata e vita pubblica. Inoltre, è possibile leggerla come una progressione, su più livelli e in diversi sensi. Vi è un primo movimento progressivo che va dal particolare al generale: dalla sua condizione individuale di addetto all’industria della cultura (prima strofa) all’insieme di tutte le attività lavorative del suo tempo (seconda strofa). Un secondo movimento riguarda invece le 20

Stenodattilo: stenodattilografa. Sono le parole che il capufficio rivolge a Carla, in cui si esprime tutta la pedagogia impiegatizia: diligenza, efficienza, attaccamento al lavoro e alla ditta. 22 All’ombra del Duomo... la Rinascente: il centro storico di Milano, definito dai nomi di alcune sue vie e zone (corso Vittorio Emanuele, via Santa Radegonda, Camposanto..) è il cuore commerciale della città, caratterizzato dalle luci dei semafori che regolano il traffico e da quelle delle insegne pubblicitarie; in particolare sulla facciata di un vecchio grosso edificio sinistrato – al cui posto sorgerà il grande magazzino della Rinascente – si accendono le lettere mobili che reclamizzano una noto prodotto per rendere l’acqua frizzante (polveri idriz). 21

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figure retoriche attive nella poesia: mentre nella prima strofa il linguaggio è diretto e comprensibile, nella seconda compaiono delle metafore, nella terza una densa allegoria. Una terza progressione si svolge sull’asse del tempo: dalla prigionia terrena all’utopia di un futuro radicalmente diverso, nei due versi finali.

b) Pasolini e gli oggetti della mutazione A Pier Paolo Pasolini (1922-1975) si deve forse la più nota diagnosi del cambiamento profondo che il boom economico aveva prodotto nei costumi e nella mentalità degli italiani. Non a caso Pasolini, intellettuale poliedrico, si serve, in alcuni suoi brevi e fulminanti saggi critici , di un termine attinto dalla genetica: mutazione. La parola, che in Pasolini è di solito seguita dall’aggettivo antropologica, è poi entrata nell’uso, con lo stesso senso metaforico, a indicare diversi fenomeni di mutamento relativi alla vita sociale. Per il nostro autore, l’impatto della società dei consumi sulla popolazione italiana ha prodotto una cesura epocale, separando di fatto fra loro due civiltà: da una parte, ormai perduta, l’antica società contadina (che coinvolge in parte anche le città del primo Novecento) con i suoi riti, i suoi valori, le sue forme di vita associata; dall’altra il frenetico mondo del consumismo, dominato da una nuova serie di desideri indotti e da un generale impoverimento culturale. Fra gli ultimi saggi di Pasolini spiccano le Lettere luterane (1976). Esse consistono in una sorta di trattato pedagogico incompiuto in forma epistolare: il saggista racchiude le sue riflessioni in lettere che indirizza a un immaginario ragazzo napoletano, Gennariello. Nel breve estratto che riportiamo, il tema del lavoro compare implicitamente all’interno di un discorso che riguarda le cose . Per Pasolini, gli oggetti materiali recano in sé modificazioni profonde che sono da imputare alla vera e propria «fine del mondo» rappresentata dall’avvento della società consumistica. Un abisso separa i prodotti dell’artigianato, unici e a volte imperfetti ma proprio per questo riconducibili alle mani che li hanno realizzati, dagli oggetti usciti dalla produzione di massa. Pasolini denuncia inoltre la debolezza del proprio progetto pedagogico: le cose, per quanto mute, costituiscono con la loro presenza silenziosa un insegnamento costante nella vita di chiunque; esse plasmano l’immaginario, e si oppongono all’intellettuale nel suo tentativo di istituire un ponte fra il suo mondo e quello delle giovani generazioni. 23

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«L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporalmente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. […] Il punto è questo: la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in atteggiamento critico rispetto alle “cose” moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto. Io potrò cercare di scalfire, o almeno di mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose. […] Su questo siamo due estranei. Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. […] Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. “O munno cagna”. È vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. Le cose erano ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu. Non c’è soluzione di continuità ormai, ai miei occhi, tra quelle tazzine e un vasetto». (P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 35-43)

c) Lotte e diritti per un lavoro più umano Questo percorso vuole essere un’occasione per approfondire un pezzo di storia italiana ormai quasi dimenticato: lo sviluppo industriale, che comportò un profondo mutamento del paesaggio (svuotamento delle campagne a favore del tessuto urbano; creazione di grandi poli industriali e di quartieri dormitorio nelle città) e una vasta migrazione all’interno del paese. Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottieri, è un romanzo che rappresenta i fatti seguiti alla creazione di un impianto industriale nel Sud Italia. Il protagonista e narratore è un tecnico del Nord giunto al Sud per lavorare nell’ufficio personale, dove si occupa principalmente delle assunzioni, servendosi della psicotecnica, ovvero di test psicologici e attitudinali per selezionare i candidati. Il romanzo racconta la frattura tra le speranze generate da una nuova fabbrica e le migliaia di disoccupati in cerca di un impiego. Da questa situazione deriva una serie di tensioni e conflitti, personificati fra tutti da Donnarumma, disoccupato in cerca di lavoro pronto anche alla violenza pur di farsi assumere. Il secondo romanzo che

23 Un buon numero di questi testi, usciti in forma di articolo sul «Corriere della Sera» nei primi anni Settanta, è stato poi raccolto nel volume degli Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990. 24 Potete confrontare queste riflessioni con l’estratto da Libera a nos di Meneghello riportato nelle pagine precedenti, dove si affronta lo stesso tema del rapporto tra lavoro e realtà materiale.

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proponiamo è Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini. Il protagonista incarna la condizione dell’operaio-massa, immigrato senza qualifiche che dal Sud giunge prima a Milano, dove accetta i lavori più disparati, per poi trasferirsi a Torino a lavorare alla Fiat. Qui, dove immaginava di trovare un lavoro sicuro e ben pagato, incontra invece l’inferno della catena di montaggio. Tuttavia, la fabbrica è anche l’occasione per riscoprire la propria identità e l’appartenenza a una nuova società. Ben presto l’operaio viene a contatto con gli studenti e gli operai che organizzano assemblee e scioperi. Si unisce a essi e partecipa quindi alle lotte che dalla Fiat si propagano a tutta Torino per culminare il 3 luglio 1969 in una vera e propria battaglia tra proletariato urbano e polizia. Su questi stessi temi segnaliamo infine il film La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, una delle prime pellicole italiane a confrontarsi integralmente coi problemi del lavoro di fabbrica, compresi i rapporti tra uomo e macchina, sfruttamento e contestazione.

d) Il mondo della finanza: nuove figure sociali tra luci e ombre Dagli anni Ottanta in poi, nuove figure invadono il mondo del lavoro e da lì quello della rappresentazione artistica: il manager, l’operatore di borsa e gli altri protagonisti della nuova economia finanziaria e virtuale colonizzano il campo economico e l’immaginario . Se da un lato essi ci affascinano veicolando immagini di successo e realizzazione personale, dall’altro è lecito presupporli circondati da un alone d’instabilità come anche dubitare del loro senso etico. Proponiamo un percorso tematico con l’obiettivo di investigare quali significati e valori siano loro attribuiti dalla letteratura e dal cinema italiani. Nel suo romanzo Il dipendente (1995), Sebastiano Nata si addentra nella vita dell’advertising manager26 di una multinazionale finanziaria specializzata in carte di credito, evidenziandone insieme l’euforia e la solitudine. Francesco Pecoraro invece, nel suo La vita in tempo di pace (2013), mette in scena il conflitto tra due categorie lavorative all’interno della stessa multinazionale (la Megatecton, specializzata nella costruzione di grandi infrastrutture): un top manager spregiudicato, Nico De Klerk, e il protagonista Ivo Brandani, ingegnere, tecnico di livello intermedio. Già Goffredo Parise, ne Il padrone (1965) aveva inscenato una simile guerra di posizione fra un subordinato e un dirigente di stampo ormai manageriale. Il film Il gioiellino (2011),di Andrea Molaioli, parla indirettamente del caso Parmalat. Il protagonista è un ragioniere, Ernesto Botta, che si occupa di far quadrare i bilanci delle grandi aziende. La famiglia Rastelli, proprietaria dell’azienda agroalimentare Leda, a causa della gestione folle del patrimonio si indebita fino a rischiare il fallimento. Botta decide quindi di gonfiare i bilanci aziendali e inventarsi letteralmente il denaro. Il manager-presidente, inetto, convive con il personaggio del contabile che, in modo del tutto affine all’operatore finanziario standard, crea spregiudicatamente un patrimonio virtuale e, a conti fatti, inesistente. Sullo stesso tema, ne Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì, tra i personaggi principali figura un broker, Giovanni Bernaschi, fautore di un'ideologia della "vittoria per forza" che permea ogni attimo della sua vita: dalle operazioni di borsa alle partite di tennis fino al premio scolastico a cui partecipa il figlio. 25

e) La faccia oscura del lavoro: il dramma delle morti bianche Un aspetto spesso al centro delle narrazioni dedicate al lavoro è quelle delle cosiddette “morti bianche”, una categoria che include sia gli incidenti mortali, tipici del settore industriale, sia le morti professionali derivate, in molti casi a distanza di anni, dall’aver svolto attività dannose per la propria salute. A confrontarsi con questa zona d’ombra, nella letteratura ma anche nel cinema, sono spesso forme appartenenti all’ambito della cosiddetta non fiction: l’inchiesta, il reportage, il documentario scelgono di rappresentare la realtà sociale senza ricorrere al filtro dell’invenzione immaginativa, proprio della letteratura. Il costo della vita (2013), di Angelo Ferracuti, è un reportage che ricostruisce le circostanze che nel 1987 condussero alla morte di 13 operai nei cantieri Mecnavi di Ravenna a causa di un incendio. Il regista Daniele Segre realizza invece con il suo documentario Morire di lavoro (2008) un racconto plurale, dove attraverso il ricorso a molte voci diverse (lavoratori e famigliari di vittime del lavoro) indaga la realtà del settore italiano delle costruzioni. Tra i romanzi, proponiamo La fabbrica del panico (2014) di Paolo Valenti e Ternitti (2012) di Marco Desiati, incentrati entrambi sul dramma degli operai rimasti vittime dell’esposizione all’amianto. In ultimo, vanno segnalate una raccolta di racconti, Lavoro da morire (2009), con testi, fra gli altri, di Falco, Lagioia, Murgia, Pascale e Trevi, tutti giovani scrittori, e una poesia dell’autore romano Valerio Magrelli dal titolo Thyssen: per i senza parola, inclusa nel suo ultimo libro Il sangue amaro (2014) e dedicata ai sette operai morti a Torino nel 2007 per una fuoriuscita di olio bollente.

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Con il termine immaginario si intende una particolare sfera o ambito della realtà: quella che riguarda la facoltà umana dell’immaginazione, e che si può riconoscere osservando attentamente i prodotti dell’arte e della cultura. Il “pensare per immagini”, nella tradizione, abita il mito e la letteratura, mentre nel presente è possibile rintracciarlo soprattutto nel cinema e nella pubblicità, televisiva e non. 26 L’advertising manager è una particolare figura di dirigente addetto, nelle aziende, all’ideazione e alla progettazione delle campagne pubblicitarie.

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