Sfogliare il Veneto PERCORSI LETTERARI, DESTINI E PERSONAGGI DI UN TERRITORIO
ASSOCIAZIONE FORMALIT 2017/2018
Sommario Introduzione ............................................................................................................... 1 Campagna .................................................................................................................... 4 Sconfinamenti .......................................................................................................... 4 Confronti.................................................................................................................. 6 Legami ..................................................................................................................... 8
Montagna ...................................................................................................................10 Scoperte ................................................................................................................. 11 Sconfinamenti ........................................................................................................ 12 Sradicamenti .......................................................................................................... 14
CittĂ .............................................................................................................................16 Trapassi .................................................................................................................. 17 Progetti ................................................................................................................... 18 Voci ........................................................................................................................ 20 Destini .................................................................................................................... 21
Mare ...........................................................................................................................22 Mutamenti.............................................................................................................. 22 Conclusioni ............................................................................................................ 24 Assenze .................................................................................................................. 25
Glossario .................................................................................................................... 26 Note bio-bibliografiche ........................................................................................... 28
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Introduzione Attraversando il Veneto da nord a sud, da est a ovest, dalle coste dell’Adriatico fino alle Prealpi, dalle cime montuose alla pianura urbanizzata, incontriamo una grande varietà di ambienti naturali, i colli, i fiumi e i campi coltivati, ma anche la laguna, i capannoni, le città. La presente dispensa vuole essere, allora, solo uno dei tanti possibili percorsi di attraversamento di questa complessa regione, e si propone come un atlante, una raccolta di mappe con cui iniziare ad orientarsi al suo interno. Tuttavia, per raccontare i quattro ambienti principali che caratterizzano questo territorio, e che costruiscono anche la struttura interna di questa raccolta, ovvero la campagna, la montagna, la città, il mare, non abbiamo scelto di partire dalle fotografie storiche o dalle cartoline turistiche, e nemmeno dalle pagine dei quotidiani o dalle carte geografiche: abbiamo, invece, scelto di intraprendere il nostro viaggio a partire dalle pagine di quegli scrittori che, nati e/o vissuti in Veneto, hanno scelto di lasciarne un ritratto a volte intimo e personale, altre volte storico-sociale. Le nostre sono mappe letterarie di una regione che sfugge ad una visione unitaria, alle interpretazioni univoche. Le sue contraddizioni sono parte di un’identità territoriale forte e distinta, ma anche frutto di dinamiche più ampiamente italiane, da leggere su scala nazionale se non addirittura globale. Prima di calarci all’interno dei singoli ambienti per conoscerne, nelle diverse sezioni, più da vicino le peculiarità, i modi di vita, ma anche le costanti antropologiche che valicano i confini di un’apparente divisione tra città e montagna, tra mare e campagna, è forse opportuno osservare questa regione dall’alto, attraversandola a volo d’uccello con le parole di uno dei suoi scrittori più noti, Goffredo Parise. Ecco, allora, come si presenta il paesaggio veneto agli occhi dello scrittore vicentino che lo guarda dall’alto di un colle, lo sguardo guidato dal vento: A pochi passi da Monte Bella Guardia, simile ad esso, ma più modesto di proporzioni, quasi a formare una appendice del vulcano già minuscolo per questo grande nome, si stende a termine e radice uno sperone di tufo, terra e roccia, chiamato “Colle dei sette venti”: è lì, su quel dorsale di erbe nane, mentuccia, medica, basilico, che si incrociano i venti di due valli opposte e diverse, la vasta pianura veneta che porta al mare rilucente nel fondo dell’orizzonte, e l’altra valle ondulata di colline ora dolci e appuntite, via via più alte e rocciose, che raggiungono i monti in vasto giro sino al Garda. Essi vi passano nelle ore più inconsuete, improvviso si ode il sibilo veloce vento del Friuli sorgente dalle gole a Nord oltre il Grappa, freddo e secco d’estate, forte irruente e rabbioso d’inverno; oppure il vento dell’Est che viene dalla campagna e porta aromi, o ancora un caldo vento da Oriente, pregno di salso e degli odori forse di Venezia e di Chioggia, che ristagna e gira lento e a tratti pesante, pigro e quasi inanimato, sino a quando non giunge a spazzarlo e trascinarlo, con sé i vortici aerei sulle montagne quello friulano. O ancora il vento che sorge dal Garda e porta cicloni estivi e grandine e poi tutto impregna, campagne e colline e monti e piante di denso ozono dal cielo. (Goffredo Parise, Il colle dei sette venti, in Gli americani a Vicenza e altri racconti, Mondadori, Milano, 1987, pp. 107-124, a pp. 109-10)
Ciascuno di questi ambienti merita una propria osservazione precisa: il lettore del Veneto necessita la conoscenza delle valli più profonde e delle cime più alte come delle insenature e delle isole più remote della laguna, ma deve anche esplorare i canali che irrigano i campi o essere capace di guidare in fretta per le tangenziali che si attorcigliano attorno alle città. Per leggere questo territorio, però, non ci si può limitare all’osservazione degli spazi, ma è necessario comprendere anche la storia, le dinamiche sociali, antropologiche, conoscere le persone che abitano quegli spazi e che li hanno modificati nel tempo. Non è possibile, allora, comprendere il Veneto senza tenere conto di quei grandi cambiamenti che hanno interessato il nostro paese nel corso del Novecento, senza conoscere le grandi 1
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trasformazioni della modernizzazione italiana. Allo stesso tempo, risulta necessario partire da una scala minore, e osservare con attenzione una regione come il Veneto, che nel corso degli anni ha alimentato una grandissima auto-narrazione, nel tentativo forse di recuperare un’identità percepita come incerta a causa dei grandi cambiamenti storico-antropologici avvenuti. Il Veneto, quindi, apparirà tra le pagine di questa dispensa da un lato come una regione unica, singolare, nella lingua come nei paesaggi, ma anche come un punto di partenza per tracciare una mappa più ampia, che esce dai confini veneti per riprendere i processi che hanno attraversato non solo l’Italia, ma il mondo intero nel corso dell’ultimo secolo. Tra le pagine di questa dispensa, come nel territorio Veneto, particolare e generale, locale e globale si incrociano, incontrano, e talvolta scontrano l’uno con l’altro, senza soluzione di continuità. Qual è, dunque, la storia recente del Veneto? La regione, prima del boom economico, è prevalentemente contadina e solo in alcune zone, in particolare nel vicentino, nascono lentamente alcune fabbriche che conservano, tuttavia, un profilo che potremmo definire “proto-industriale”. Il Veneto è dunque perlopiù lavoro agricolo, duro e faticoso, particolarmente nelle zone montane. Al suo interno si distinguono solo alcune città di piccola o media dimensione, Venezia, Padova, Vicenza, Verona; ma in questo policentrismo manca un vero e proprio polo urbano, che sia al pari di altri grandi centri italiani, come per esempio Milano, Roma, Torino, Napoli. Si tratta di una terra di fatiche contadine, teatro di grandi migrazioni – sia in altre zone d’Italia sia all’estero – che offrono mano d’opera a basso prezzo. Eppure, è anche una regione che cova forze propulsive, legate spesso a un vivace artigianato locale, che esploderanno nel secondo dopoguerra e in particolare durante il boom economico, dando vita a una vera e propria mutazione antropologica. Arriva quindi l’industrializzazione del Veneto, di tutta la macro-regione del Nord-est, che trasforma i contadini in operai e gli artigiani in imprenditori, le stalle e le officine diventano capannoni, le montagne si trasfigurano per ospitare masse di turisti invernali che poi lasciano la scia del proprio passaggio sui versanti per spostarsi, in estate, ad invadere le coste dell’Adriatico. Il capannone è diventato, nel tempo, prima il luogo simbolo dell’espansione produttiva della piccola imprenditoria veneta, al punto che, scrive Luigi Meneghello, «qualche decennio fa, non c’era un conoscente che non facesse o non avesse un capannone»; poi è divenuto l’oggetto architettonico simbolo della cementificazione del territorio, della violazione del paesaggio; sino a diventare, oggi, la traccia visibile sul territorio della crisi economica degli anni Duemila, con i capannoni abbandonati, davanti a cui si avvicendano le manifestazioni dei lavoratori costretti alla cassa integrazione e si appendono i cartelli con scritto “vendesi”. Con l’industrializzazione quindi la ricchezza si fa strada nella povertà, e il Veneto diviene una delle regioni più produttive d’Italia. Il sistema industriale della regione non si compatta attorno alle poche realtà urbane già esistenti, ma si sviluppa nei vari paesi, grandi e piccoli, spesso unificandoli in un unicum urbanistico-industriale. Nascono così i distretti industriali, che generano ricchezza ed esigono mano d’opera, che consentono non soltanto ai veneti di restare in regione, ma cominciano, con gli anni, ad attirare a loro volta nuovi migranti. La popolazione aumenta, così si costruiscono strade che tagliano in lungo e in largo tutto il territorio, mentre l’uso dell’automobile cresce e con esso anche il modello urbano della città diffusa. Lo sviluppo del Veneto è tra i più rapidi d’Italia, ma, come in ogni accelerazione, non mancano gli strappi e i colpi di coda. “Progresso” è la parola data comunemente a questo processo, ma il poeta Andrea Zanzotto riesce, in un aforisma di tre versi, a coglierne le intrinseche contraddizioni:
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In questo progresso scorsoio non so se vengo ingoiato o se ingoio.
Tale contraddizione è presente pure nei diversi miti e narrazioni che i veneti hanno prodotto per raccontarsi. Da un lato la narrazione di abitanti di una regione povera che hanno saputo sollevarsi da soli e costruire la loro ricchezza fa emergere, nelle diverse sezioni, nei diversi ambienti, il tema del lavoro. Dall’altro, vittime di un’industrializzazione e urbanizzazione che hanno distrutto la bellezza del paesaggio, rotto i legami umani e stravolto il carattere degli abitanti, gli scrittori veneti raccontano la deriva violenta e aggressiva di una regione vittima, più di altre, di una crisi economica globale. Si produce così un mito della purezza originaria ormai perduta, raccontato ma anche messo in crisi dagli stessi scrittori veneti. A tal proposito, cosi si è espresso Zanzotto: nel Nordest malato di ricchezza, tutto ciò si è connotato come una «sindrome da perdita dell’innocenza». È come se fosse stato stipulato un patto faustiano: soldi, e tanti, in cambio dell’anima… Infatti l’antica laboriosità e ingegnosità (già negli anni Sessanta i veneti venivano chiamati i «giapponesi d’Italia») si è trasformata in impulsi caotici e violenti, per cui ogni regola è vissuta come un’insopportabile camicia di forza, da respingere. (Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Garzanti, Milano, 2009, p. 35)
Il Veneto è cresciuto, è mutato, nell’immaginario come nel paesaggio, dietro a queste spinte endogene, sue proprie e peculiari, ed esogene, nate su altre scale, in Italia, nel mondo. Di fronte a questo il rischio è da un lato quello della perdita dell’identità, della lingua, delle tradizioni, dall’altro quello della chiusura, del radicamento autonomista, dell’esclusione e della segregazione: La memoria è minacciata non solo dalle spinte globali, per cui si fanno sparire migliaia di piante e migliaia di lingue minori o dialetti, ma anche dalla falsa difesa delle radici, dell’identità che è basata sul fraintendimento e dall’ignoranza che generano per contrapposizione i fondamentalismi localistici. (Andrea Zanzotto, In questo progresso corsoio, cit., p. 35)
Come ti chiediamo di immaginare, tra le pagine, di valicare i confini del Veneto per leggere tra le righe i collegamenti con la realtà nazionale e globale, vorremmo allo stesso modo suggerirti quanto siano labili i confini tra le diverse sezioni dedicate ai diversi ambienti: un certo modo di pensare il lavoro, un certo senso di perdita per la bellezza del paesaggio, un peculiare legame con il territorio tradotto attraverso il recupero della memoria, un qualche riferimento a valori, puntualmente traditi, dimenticati, mitizzati e bistrattati, penetrano in maniera trasversale gli sguardi degli autori veneti, sia che essi si trovino davanti alle acque del mare o ai profili montuosi, sia che siano immersi nel caos cittadino o in ciò che rimane della campagna urbanizzata. Per orientarti non possiamo allora far altro che suggerirti di provare a rintracciare, a partire dai testi letterari, punti di contatto e differenze più ampie: nel tempo e nello spazio, tra un ambiente e l’altro, tentando di disegnare la mappa mobile di un territorio complesso.
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Campagna Per campagna solitamente si intende un’estesa superfice di terreno aperto, fuori del centro urbano. Il termine si usa per riferirsi a territori di pianura o bassa collina occupati da colture, pascoli o boscaglia, con case sparse o comunque priva di grandi concentrazioni urbane. Campagna e città sono spesso concetti in contrapposizione, l’uno inizia dove finisce l’altro. In Veneto, campagna è talvolta sinonimo di periferia o provincia, altre volte indica un passato scomparso: la campagna non c’è più, erosa da uno sviluppo urbano e industriale che ha fagocitato gran parte del territorio libero. Il Veneto agricolo dei campi e dei contadini è un ricordo confuso nella memoria collettiva, oscilla tra l’orrore per la povertà e il mito di una perduta purezza originaria. Il Veneto nel periodo che intercorre tra l’unificazione d’Italia (1861) e l’inizio del boom economico, ad eccezione di una manciata di città, è totalmente agricolo, attraversato da una lunga e lenta incubazione protoindustriale. Si tratta di una terra povera - ormai da lungo tempo orfana degli splendori di Venezia: tra il 1870 e il 1970 è la regione d’Italia con il più alto tasso d’emigrazione. I veneti sono contadini o mano d’opera a basso prezzo per altre regioni d’Italia e del mondo. La vita in campagna è dura e si riproduce con un lavoro faticoso e infinito, è costituita di povertà e violenza; ma è anche sorretta da legami umani saldi capaci di creare rapporti intensi e, perfino, comunitari. La campagna veneta è cattolica e ignorante; la campagna è purezza e vita comunitaria. Luci e ombre convivono oltre le semplici mitizzazioni. Infine, la campagna cova quelle forze che tra gli anni ’50 e ’70 esploderanno in una delle industrializzazioni più imponenti del Novecento. I veneti, migranti e braccianti, saranno in questo periodo chiamati i “giapponesi d’Italia”. La campagna allora muta forma, i campi diventano distretti industriali; il contadino bigotto diventa piccolo imprenditore; la stalla diviene capannone. Ancora altre contraddizioni: da un lato sviluppo, progresso e ricchezza; dall’altro fine dei rapporti comunitari, distruzione del paesaggio e aumento dell’aggressività. Per capire i diversi aspetti della campagna e della sua evoluzione percorreremo questa sezione attraverso tre paragrafi: sconfinamenti, con cui attraverseremo i confini e ci immergeremo nel paesaggio della campagna; confronti, due voci diverse sullo stesso argomento: industrializzazione e urbanizzazione oscillano sempre tra il progresso e l’imbarbarimento, tra il guadagno e la perdita; legami, con cui cecheremo di avere uno sguardo disincantato sul passato contadino, sempre sospeso tra il regno della necessità e la libertà, tra la solitudine della fatica e la forza dei rapporti umani.
Sconfinamenti Libera nos a malo, di Luigi Meneghello, è un testo ibrido 1 che oscilla tra autobiografia, documento, saggio e narrazione. Il libro esce nel 1963, nella fase terminale del boom italiano e quando ormai anche la piccola Malo sta mutando. L’adulto espatriato (Meneghello si trasferirà a Reading in Inghilterra) ritorna con la memoria all’infanzia e al paese natale: l’ambiente,
L’aggettivo ibrido rimanda al sostantivo ibridazione: quando si parla di letteratura, con questa parola si indicano quei testi in cui l’autore mescola tra loro diversi generi letterari. Un testo ibrido è un oggetto misto, dove convivono elementi diversi, ad esempio del romanzo e dell’autobiografia, del romanzo e del saggio, della prosa e della poesia. 1
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i valori e i lavori del passato vengono illuminati dal presente, e a loro volta lo interrogano. Libera nos a malo riesce ad essere una delle rappresentazioni più convincenti della provincia vicentina, e italiana, di quegli anni.
Il paese è attraversato da sud a nord dalla strada che va da Vicenza a Schio e al passo della Streva; ora c’è un nuovo raccordo che taglia fuori l’abitato. Con questa s’incrocia la strada che venendo dalle pianure di Thiene continua poi verso Priabona e la Val di Là. Lo stradone di Vicenza era già “spalto”2, quello di Schio lo divenne ai miei tempi; a Priabona e a Thiene s’andava su una superficie di terra battuta già rovinata dal traffico. Le strade minori erano una parte importante del mondo del paese; lo sono ancora, ma assai meno ora che si viaggia con le cose a motore, e si ha più spiccato il senso di voler solo spostarsi in modo pratico e insipido da qui a là. Erano fatte principalmente per camminarci, passarci coi carri e con le bestie, al massimo in bicicletta. Serpeggiavano per i campi, o lungo il piede dei colli, erano strettine, con un buon fondo di terra e ghiaietta chiara e compatta, non ancora sciupata dalle rare automobili. C’erano inoltre le caviàgne, o stradicciole rurali, che non vanno in un paese, ma quasi in visita ai casolari e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafoglio3, ai margini di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con la bicicletta appoggiata a un moraro4, e improvvisamente si sentono le voci di milioni e milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto, il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza, e per un po’ non si sa più cosa pensare. La Proa ci separava da questa landa: come quando si arriva a un confine, e di là è Belgio, Olanda; così dalla stradella che comincia vicino a casa nostra, raggiunto in un minuto il vasto greto interrato e sterposo e sassoso, subito di là cominciava la no-man’s land che s’estende verso i paesi a oriente, la campagna fitta, fuori dalla geografia e della storia. Proseguendo per le stradicciole che non si fermano in mezzo ai campi, e che non pare siano dirette in alcun luogo in particolare (ce n’è), si sentiva crescere il senso dell’ignoto; nell’estate piena occorreva quasi una forma di coraggio per avventurarsi avanti e avanti tra i sorghi, aspettando come esploratori che un argine camuffato tra le acacie ci scoprisse all’improvviso la grande corrente di sassi della Jólgora, che sega la campagna ed è bianca, immobile, fatta di ciottoli e pietre smussate […]. I dossi dietro al Castello erano tutta una rete di sentierini-stròsi5, e stròso è avventura. Stròso rimonta contrafforte, scala gobbetta, adduce a pino in cresta; penetra, infrasca disinfransca; punge con rùsse6, consola con primule. Da stròso si rubano pere pome ùe7. Chi ze che ròba la ùa spinèla? La ùa-mericàna, la brombola idropica, l’àmolo acido, il pèrsego che dà nel verdastro e sente di màndola, l’armellino che allega? Stròso da còrnole, còrnole garbe; stròso da dùdole. Nosèlle appena fatte8, e nello spiàccico verde le tenere nóse nuove, e le more. Quale vùto, quele rosse o quele negre? 2
Asfalto. Trifoglio. 4 L’albero delle more, il gelso. 5 Il termine stròso a Malo indica un sentiero. 6 Cespugli spinati. 7 Pere, mele, uva. 8 Fatte qui indica mature. 3
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Quel che vien vien! Quel che vien vien! Per questi viottoli si ruba, si esplora; viottolo turba, eccita, se ne sbuca correndo a mezzogiorno, si rivede dall’alto il paese, ridendo, con la faccia tutta impiastricciata di more. (Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 99-102)
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Com’era il Veneto prima della motorizzazione e dell’industrializzazione? Il narratore nell’estratto osserva il paesaggio degli anni Sessanta e con la memoria ritorna indietro di 20 o 30 anni, al tempo della sua infanzia. È solo l’età bambina a consentire al protagonista l’esperienza dell’avventura percettiva? Oppure è il paesaggio a consentire lo spaesamento e l’incontro con l’ignoto, quasi che uscire dal paese per avventurarsi nella campagna fosse l’equivalente odierno di compiere un viaggio in un paradiso naturale?
Confronti Veneto barbaro di muschi e nebbie di Goffredo Parise è stato pubblicato come articolo per il Corriere della sera (1/7/1983), confluito poi nelle Opere complete (Mondadori). Il testo è stato ripreso all’interno di un interessante reportage – a cui dà il titolo: una sorta di postumo omaggio visivo ai luoghi, alle vicende e alla vita dell’autore, costruito attraverso il montaggio di immagini fotografiche di Lorenzo Capellini e dei testi dello stesso Parise. Ne fuoriesce un’appartenenza problematica ad una terra che a tratti esprime la sua forza barbarica e vitale, a tratti sembra segnata dall’imbarbarimento.
La guerra soprattutto, e attimi potenti di emozioni: il grigio funerale di gennaio sul grigio delle colonne di un capo della Brigata Nera, undici fucilati accanto a un ponte tra cui un ragazzo con le dita bruciate di nicotina, i bombardamenti, la potente solidarietà umana tra i disgraziati (lo eravamo tutti), la povertà, la fame, il primo carro armato americano con stella e il dopo, il lungo dopo che si protrae ancora oggi. L’inutile sarabanda del dopo. Riflettevo: alla sublime bellezza di Capri, all’emozionante vita a New York, alla dolce Parigi, alla cupa Mosca, alla polverosa e immensa Pechino, alla bellezza del Mediterraneo con il suo mare e coste su cui scorre la voce delle sirene e mi chiedevo, non senza turbamento: che cosa mi inchiodava sempre più spesso a quell’albero di more, a quelle nebbie, al fiume Piave, alle montagne vicine? Forse il Veneto, la «madre terra» come diceva Moravia o invece il suono delle rane, il picchio e l’enorme gufo che entrò dal camino portando con sé una diabolica nube di fuliggine e due occhi invece innocenti, gialli ed enormi? La civiltà veneta, a parte la bizzarra e fantastica espressione veneziana e le tante «forme» nelle altre città, come Vicenza, Verona e Padova, non c’era. La «madre terra», lì dove stavo io, era barbara e brutale, ancora un rimasuglio, un resto genetico e somatico delle invasioni nordiche, con facce di unni, di finni, di mongoli, in un impasto talora quasi picassiano di genetiche composite e degenerate o rigenerate dal tempo, dai secoli, dai millenni. Ricordavo la mia Vicenza neoclassica, la bellissima Verona romana e romanica, la Padova di Galileo, le città della cultura con alla testa Venezia. Ma qui, sul Piave ero circondato da una cultura assai precedente: la «tabula rasa» dell’erba e il suo profumo al tempo dello sfalcio, le rane, la luce riflessa dalla laguna non lontana, il limpido fiume-torrente dalla cui corsa lasciarsi trascinare d’estate in un gorgoglio di acque dal sapore e dall’odore di torrente, rane, chiù 6
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e cuculi e d’inverno le grandi distese di neve sulle montagne di Cortina, dove gli sci scricchiolano sul manto fresco e i camosci sorpresi e scattanti di muscoli fuggono come volando sulle rocce affioranti tra i pini e gli abeti. Se il Mediterraneo nasconde nelle sue profondità arte e cultura come i bronzi di Riace […], in questa zona di terra veneta vivevano però con i loro elfi e coboldi le culture nordiche e barbariche, non più mediterranee ma boschive, fungacee, muschiose, gelate e nebbiose della fantasia di Andersen e dei Grimm, della steppa e delle sinagoghe russe […]. Mi chiedevo quale cultura potesse legare la solenne bellezza delle colonne palladiane, dei mattoni e dei portici padovani, dei ponti veronesi, della scintillante Venezia con il suo ricciolo di ferro sulla punta delle gondole e i suoi pittori alla enorme quantità di piccole e grandi fabbriche del Veneto e non ne trovavo nessuna salvo una e una sola: la forza barbarica della terra, che ha prodotto lavoro dei campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche. Ma era forza barbarica, a cui la mia stessa arte si nutriva, e non cultura latina e mediterranea. In certo qual modo un’altra invasione, di lavoro industriale anziché agricolo. In fondo il Veneto ha avuto il suo riscatto, e la sua cultura popolare, dal mondo moderno, il mondo della produzione e del consumo. Altro che Veneto bianco, cattolico, bigotto eccetera, i luoghi comuni della politica! Il Veneto era, ed è forte, barbaro, e dunque produttivo e dunque industriale. La sua arte nasce senza alcun dubbio dalla cultura (non c’è arte senza cultura) affonda tuttavia anch’essa dentro la terra, nelle sue radici, nei suoi minerali, nel suo silenzio di fuoco […]. Io stesso, se penso a come sono stato condotto al paese dove abito, con le sue fontane di acqua sulfurea e quasi simbolica, mi perdo in un procedimento prelogico, per non dire preistorico. Se odo e se parlo il dialetto tronco di queste parti (come lo odo e lo parlo), sento la durezza delle recenti origini industriali, cioè della prima vera cultura popolare (quella cattolica non si può certo chiamare cultura popolare) di questi luoghi. Personalmente la amo alle sue origini, alle sue fonti: cioè la terra, le nebbie, la flora, la fauna, le nevi, la guerra. Ma si sa, basta quest’ultima parola per indicare la mia età, il mio tempo e il tempo che passa, il salto tra la vecchia cultura e la nuova. L’Italia del Nord era agricola un tempo, oggi è industriale. Il Veneto è la sua mano d’opera. Si torna ai coboldi e agli elfi, anche se meccanici. Oppure ai suoi muschi e ai suoi minerali anche se poetici. (Goffredo Parise e Lorenzo Cappellini, Veneto barbaro di muschi e nebbie, pp. 109-11, Minerva Edizioni, Bologna, 2009)
In questo progresso scorsoio (2009) è un libro-intervista diviso per sezioni tematiche (dal paesaggio, al linguaggio, passando per la storia e l’eros), in cui il giornalista e saggista Marzio Breda intervista Andrea Zanzotto. Il poeta si esprime su questioni poetiche e linguistiche, ma anche di politica contemporanea. Ne emerge una critica all’evoluzione della contemporaneità che oscilla tra la paura e la rabbia per un progresso percepito come autodistruzione.
L’aspetto più urtante, almeno visualmente, di come è cambiato il Veneto è proprio l’aggressione al paesaggio. Alla scomparsa del mondo agricolo ha corrisposto una proliferazione edilizia inconsulta e casuale, che ha dato luogo a una specie di città-giardino (ma sempre meno giardino e sempre più periferia di città), con un’erosione anche fisica del territorio attraverso diverse forme di degradazione macroscopica dell’ambiente. Ora, tutta questa bruttezza che sembra quasi calata dall’esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato, «sottile» sia nella sua parte più selvatica come le Dolomiti, sia in quella più pettinata dall’agricoltura, non può non creare devastazioni nell’ambito sociologico e psicologico. Vivere in mezzo alla bruttezza non può non intaccare un certo tipo di sensibilità, ricca e 7
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vibrante, che ha caratterizzato la tradizione veneta, alimentando impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio mentale. Per esempio, aggressività, umori rancorosi, intolleranze e spietatezza mai viste, secondo la logica di sbrogliare la crisi sociale – che si fa sempre più acuta – etnicizzandola. E così è successo perché, in realtà, quell’orrenda proliferazione è scaturita appunto dall’affievolirsi di antiche virtù. (Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Garzanti, Milano, 2009, p. 28)
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Nei testi che hai letto i due autori riflettono sullo sviluppo del Veneto. Parise ragiona sulle differenze, ma anche sui legami, tra città e campagna. Quali sono? Poi si interroga sullo sviluppo industriale del Veneto: sembra ricercare elementi di continuità tra il passato e il presente, trovandoli forse in una sorta di dispiegamento delle forze popolari e barbariche dei veneti. Sei d’accordo con l’autore? Zanzotto, invece, critica l’abbruttimento del paesaggio a causa dello sviluppo industriale, e traccia una connessione tra paesaggio e psiche. Per uno degli autori l’industrializzazione è frutto di forze propulsive, per l’altro deriva dall’affievolirsi di virtù antiche e ormai perdute. Ma quanto sono veramente in contraddizione queste due posizioni?
Legami Nel brando seguente Meneghello racconta il rapporto tra uomo e fatica nella Malo precedente il boom economico, ma più in generale riflette su come il regno della necessità generi dei valori, o meglio descrive la cultura contadina e paesana con i suoi codici di comportamento e i suoi modelli di relazione umana.
Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano – nel modificare questo codice di condotta – la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione. In ciò che concerne l’intaresse, lo stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladroncelli notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece “l’arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai. Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni della croce, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiàro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dall’agente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano 8
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permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto né disonesto, è un ladro […]. Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati. Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, la necessità della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposto, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese. (Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 125-28)
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Nel brano di Meneghello come viene rappresentata la civiltà contadina? Si tratta di una sospensione incantata per un passato ormai scomparso? Oppure del rifiuto per una vita costantemente attraversata da miserie e difficoltà? Inoltre, come si costituisce il rapporto con gli altri? Attraverso competizione e rivalità? Immergendosi in favolosi legami comunitari? Infine, che rapporto si intravede tra la sfera della necessità e quella della libertà?
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Montagna Come abbiamo già avuto modo di capire, i diversi territori che compongono il Veneto, ed in generale il Nord-est, portano con sé caratteristiche culturali e sociali differenti. Fra gli spazi che compongono la regione c’è anche quello montano: la catena montuosa delle Alpi attraversa una consistente parte del Veneto, disegnandone i contorni a nord e a nord-ovest. Sono molti i tipi di montagna che possiamo incontrare nella regione: è possibile passeggiare all’ombra dei castagni nelle Prealpi veronesi e vicentine, sfidare i primi pendii delle cinte montuose che circondano il feltrino o la valle di Belluno; ma è possibile anche risalire la corrente del Piave arrivando alle sue sorgenti nel bel mezzo delle alte Dolomiti bellunesi. Nessuna montagna è uguale all’altra: bassa, alta, rocciosa, boscosa, abitata, deserta, coltivata, selvatica; questo tipo di spazio ha sempre dato vita a sentimenti contrastanti negli occhi e nella mente di chi l’ha vissuto o semplicemente percepito. Il terrore provato dai primi abitanti di questa terra (ma anche dai suoi primi visitatori occasionali) per le alte cime e per le sterili rocce è stato solo in tempi relativamente recenti sostituito dal piacere provato nei confronti della bellezza di forma e colore delle montagne. È proprio alla ricerca di questo piacere che nella nostra contemporaneità, soprattutto durante l’inverno, folle di persone salgono dalla pianura per passare del tempo lontane dai propri spazi quotidiani. La montagna è percepita come un piacevole altrove in cui diventa semplice staccarsi dai pensieri e problemi di ogni giorno, e andare alla ricerca di un ambiente naturale dove la mano dell’uomo è meno visibile. Ma la montagna di cui parleremo qui non è solo un mite paesaggio che fa da sfondo a una cartolina turistica; la montagna veneta infatti è composta da una costellazione di luoghi in cui in tempi antichi, sfidandone le difficoltà, l’uomo ha deciso di abitare in maniera stabile. Affrontando i problemi legati alla più semplice sopravvivenza, molte persone hanno a lungo lottato per vivere nelle terre alte, adottando svariate strategie per riuscire nel loro intento. Vedremo per esempio come, in tempi passati ma anche nella contemporaneità, una delle caratteristiche dell’ambiente montano sia la mobilità dei suoi abitanti, una modalità che dà luogo a un dialogo continuo con la pianura e la città. Se infatti la prima idea che viene alla mente quando si pensa alla montagna è quella di un ambiente isolato e chiuso, scopriremo come in realtà i suoi abitanti conoscano molto bene l’attitudine dell’andare e del tornare. Abitare in montagna non è mai stato semplice, ma i modi con cui le donne e gli uomini hanno deciso di farlo ci mostrano un riflesso di quell’Italia che nelle diverse fasi del secolo scorso ha dovuto muoversi fra le stesse difficoltà, fra emigrazione e ritorno. Ma, ancora, la montagna di cui parleremo qui non è solo la montagna dei suoi abitanti, ma è anche una montagna che durante tutto il Novecento si è fatta protagonista di alcuni momenti importanti e forti per il nostro paese, accogliendo persone da tutta l’Italia, e da tutto il mondo. Perché la montagna, oltre ad essere ristoro per i turisti e sfida per i suoi abitanti, è anche uno scrigno in cui si conservano le memorie di una storia passata e visibile, da recuperare. Consegnandoci le tracce materiali e immateriali di quello che è stato, questi luoghi ci invitano a non dimenticare che proprio sulle montagne si è combattuta la Prima guerra mondiale, e che proprio fra paesi, cime e boschi si è combattuta la Resistenza per la liberazione del Paese durante la Seconda guerra mondiale. E tutti questi momenti fondamentali per la nostra storia sono ancora perfettamente leggibili nelle montagne, basta saperli leggere con attenzione; chi meglio degli scrittori che hanno dedicato le proprie parole alla montagna può guidarci in questa lettura peculiare? I testi che ci traghetteranno nell’esplorazione di questo ambiente ci aiuteranno a capire le relazioni strettissime che la montagna da sempre intreccia con gli altri ambienti, ma ci aiuteranno anche a capire come leggere le montagne, insieme a tutti gli altri luoghi 10
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che compongono il Veneto sia un modo per comprendere, su una diversa scala, quelle che sono state le tappe del nostro paese, e quelle che adesso sono le difficoltà che accomunano, da nord a sud, i suoi abitanti. Come le altre, questa sezione si divide paragrafi. Il primo, scoperte, si sofferma proprio sul ruolo della montagna come scrigno vivo della memoria, e ci porta a riflettere su ciò che è stato, ma anche sul ruolo della parola nel restituirci il rapporto forte che l’uomo instaura con la propria terra. Il secondo, Sconfinamenti, ci aiuta a comprendere la mobilità delle genti venete come il prodotto di forze contraddittorie. Le migrazioni hanno caratterizzato a lungo il Veneto, a partire dalle migrazioni di massa, e da quella che viene definita la grande emigrazione fino alle diverse migrazioni temporanee come quella del baliatico e dei seggiolai. Le varie strade dalla montagna alla pianura (verso sud o verso nord) erano traiettorie abituali attraverso le quali tracciare i sentieri della propria esperienza, per poi tornare a casa portando nel luogo d’origine nuove culture, nuove usanze. La montagna ha sempre tratto grandi benefici da questi continui sconfinamenti che hanno da sempre determinato un arricchimento di chi si è trovato a viverli. Il terzo paragrafo, sradicamenti, affronta una tematica che abbiamo già in parte intravisto con i testi di Zanzott: che cosa significa radicarsi? Che cos’è l’identità di un territorio?
Scoperte Sull’Altopiano dei Sette Comuni (anche detto semplicemente l’Altopiano), in provincia di Vicenza, fra il maggio 1916 e il novembre 1918 l’esercito italiano e quello dell’Impero austro-ungarico si scontrano a lungo, e duramente. È la Prima guerra mondiale, e la montagna veneta è teatro di vere e proprie carneficine nel nome della “patria” e in difesa dei confini territoriali. Nel maggio del 1916, tutti gli abitanti dell’Altopiano vengono costretti a lasciare le proprie case e a fuggire da profughi nella pianura veneta, come pure in quella lombarda e piemontese . L’anno della vittoria (1985) è un romanzo ambientato proprio alla fine della Prima guerra mondiale (nel 1918). Il suo protagonista è Matteo, un ragazzo giovane che ritorna alla propria terra e assiste piano piano alla ripresa della vita quotidiana da parte degli abitanti, che insieme a lui cercano di ricostruire il loro appartenere all’Altopiano.
Oggi, finalmente, Matteo poteva andare a vedere di persona. Il sole aveva fatto sciogliere le nebbie sui fianchi delle montagne e non sembrava novembre ma un ottobre chiaro e luminoso; saliva per le scorciatoie che univano l’un l’altro i tornanti e quando ansimante e accaldato giunse ai Campigoli della Spitzsbain venne fermato da un capitano dell’artiglieria pesante campale che poco lontano aveva ancora in postazione i mortai da 210. «I civili» gli disse con fare autoritario, «e tanto meno i ragazzi, non possono andare dove fino a poche ora prima si è combattuto per liberare il sacro suolo della patria! Ci sono tanti morti da seppellire, bombe inesplose, armi d’ogni genere e, forse, ancora feriti da raccogliere. Ritorna là da dove sei partito!» «Ma io sono scappato da questi monti nel maggio del Sedici, e ora che la guerra è finita vado a vedere la mia casa.» «Non devi mai dire la parola scappato!» s’infuriò il capitano, «Gli austriaci scappano!» Poi chiamò un sergente mingherlino che stava sorvegliando il caricamento di un camion e gli ordinò di buttare su anche il ragazzo e di rispedirlo nelle retrovie. Il camion, ora che i cannoni avevano saziato la loro fame di bombe, era stato caricato di casse contenenti sacchetti di cordite per riportarli nelle polveriere e scendeva lento e con precauzione verso Granezza; fu qui che Matteo con un balzo scese a terra e si inoltrò nel bosco dove negli autunni 11
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piovigginosi e pacifici accompagnava il nonno a cacciare le beccacce. Il loro bosco era irriconoscibile perché anche nella foresta più cupa e più fitta le grosse bombe da 380 austriache che cercavano di colpire le batterie italiane avevano aperto grandi radure dove i tronchi schiantati e denudati biancheggiavano come ossa spezzate; il terreno era sconvolto da strade, mulattiere, sbancamenti per far posto alle baracche e scavi per i ricoveri; talmente era cambiato il paesaggio che sul principio fece anche fatica ad orientarsi. Poi tra gli squarci del bosco vide le montagne che stavano alte alle spalle della sua casa e scese verso il bivio della Bassaston. Senza saperlo giunse nelle retrovie delle prime linee tenute dalla 48° Divisione del Corpo britannico. I camminamenti scavati seguendo gli strati e i corsi della roccia si addentravano nei boschi come profonde ferite rossastre, sembrava una vita nascosta, protetta dagli alberi e dalle rocce continuasse misteriosa nel sottosuolo, in un silenzio nuovo che ancora non aveva trovato il modo di manifestarsi all’aperto del cielo. Proseguì con timore. […] Ma quando giunse sulle alture della Klama rimase impietrito: niente più era rimasto di quanto aveva nel ricordo e aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell’anima: non erba, non prati, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi dietro la sua casa, e il monte lassù era tutto giallo e bianco. L’insieme sembrava la nudità della terra dilaniata, lo scheletro frantumato. (M. Rigoni Stern, L’anno della vittoria, Mondadori, Milano, 2003, in Id., Storie dall’Altipiano, pp. 112–115)
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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In Veneto ci sono state diverse mutazioni che hanno influito in maniera sostanziale sul paesaggio, e di conseguenza sulle persone. Nel testo che abbiamo appena visto si parla di un’altra mutazione del paesaggio: quale? Che tipo di reazione ha il protagonista nei confronti di questa mutazione? Perché secondo te Mario Rigoni Stern decide di raccontare di questo particolare periodo, e dei suoi effetti sulla sua terra? Che tipo di figura retorica usa l’autore per consegnarci la narrazione del paesaggio percepito da Matteo? Ci sono elementi che sono in contrasto in questa narrazione? Inoltre, come puoi vedere, nel testo ci sono molti nomi di luogo: che funzione hanno all’interno della narrazione? Partendo dal testo, prova a pensare a che cosa servono i nomi di luogo, e che ruolo hanno nella costruzione del rapporto fra uomo e luoghi. Recentemente è stato pubblicato un libro da uno storico tedesco, Carl Schlӧgel, che si intitola Leggere il tempo nello spazio. Secondo te che cosa significa questo titolo? E come puoi metterlo in relazione con il testo che abbiamo appena letto, e con il paesaggio veneto in generale?
Sconfinamenti Storia di Tönle è un altro romanzo di Mario Rigoni Stern, pubblicato nel 1978 e ambientato tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 (la narrazione finisce con l’ultimo anno della Prima guerra mondiale, proprio lì dove inizia L’anno della vittoria). Questo romanzo narra la vita del contrabbandiere Tönle, e attraverso la sua vita ci mostra la situazione della montagna altopianese tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. All’inizio della narrazione, Tönle viene arrestato dai gendarmi a causa del contrabbando di farina e altri generi alimentari tra l’Italia e il Regno asburgico, ma riesce a fuggire, divenendo così un ricercato che continua ad andare e tornare dall’Altopiano come emigrante stagionale per sostentare la propria famiglia.
Quando le calandre9 incominciarono a cantare sopra i solivi terrazzati lasciò ancora una volta la sua casa e ripassò il confine. Non poté, questa volta, riprendere da solo, come aveva pensato, la vendita 9
La calandra è un tipo di uccello, molto simile a un passero.
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di stampe per i territori dell’Impero asburgico: il suo amico valsuganotto 10 quell’inverno non era ritornato a casa e chissà dove si era fermato, forse a Cracovia o a Kiev, e a lui, non essendo suddito di Francesco Giuseppe, negarono il permesso del commercio ambulante anche se fece vedere all’I.R. commissario di Borgo 11 il foglio di congedo del reggimento Landwehr. Non aveva nemmeno passaporto, né ingaggio di lavoro aggiornato; gli fecero un timbro su una vecchia carta di lavoro e che andasse con Dio. Un po’ lavorando nei boschi della Carinzia a scortecciare legname e un poco lavorando con i contadini della Stiria, passarono i primi mesi della primavera: i più duri; e quando ebbe un piccolo gruzzolo attraversò il Burgenland ed arrivò in Ungheria, dove finalmente fece un contratto fino a dicembre con un allevatore di cavalli per l’esercito.
Il tempo passava e un anno si venne a trovare a Praga, e lì si ricordò d’aver sentito che un suo conterraneo, Andrea Ranconat, figlio della sua parente Catina Puna, era diventato ufficiale dell’imperatrice Maria Anna Carolina, moglie di Ferdinando d’Austria già re del Lombardo-Veneto […] In città chiese notizie ai gendarmi, e giacché l’Andrea Ranconat aveva sposato la figlia primogenita del podestà Sabotka, non gli fu difficile trovare il palazzo dove abitava. Ebbe una grande e buona accoglienza, e il conterraneo che dal 1866 non era più ritornato nella nostra piccola patria, e notizie le aveva avute solamente per posta o lette sui giornali, volle sapere tante cose riguardanti i parenti, gli amici, i vicini di casa, le pubbliche amministrazioni e il governo, i maggiorenti del paese. Lo volle anche a cena, al suo tavolo con la consorte e i figli, e pure dopo tanti anni questo ufficiale dimostrava commozione e nostalgia al parlare la vecchia lingua e a sentire termini e nomi che credeva di aver dimenticato per sempre. […] Fu così che questo nostro compaesano e suo lontano parente gli procurò un buon lavoro come giardiniere nel castello di Hradcany12, nella Malà Strana13. Avrebbe potuto starsene lì a tempo pieno e in pianta stabile, si direbbe oggi, ma quando sui giardini e sui tetti di Praga scese la prima neve sentì impellente il bisogno di ritornare a casa. E una grande nostalgia lo colse; la nostalgia di quel magro ciliegio selvatico sopra il tetto e di quello che era raccolto sotto i quattro spioventi di paglia: come c’erano delle forze che lo spingevano ad andare in primavera, così c’erano quelle che lo facevano ritornare alla fine dell’autunno: forze superiori ad ogni volontà come l’avvicendarsi delle stagioni, le migrazioni degli uccelli, il sorgere e il calare del sole, le fasi della luna. (M. Rigoni Stern, Storia di Tönle, Mondadori, Milano, 2003, in Id., Storie dall’Altipiano, pp. 29-33)
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Tutta la storia del Veneto è fatta di andate e di ritorni, o di arrivi e partenze. Perché, secondo te, Tönle ad un certo punto dell’anno sente il bisogno di ritornare a casa? E perché dopo un po’ sente il bisogno di andare via di casa? Prova a riflettere sul significato dell’andare e il tornare: ti viene in mente qualche altra situazione contemporanea in
Ovvero proveniente dalla Valsugana, la valle montana che cinge l’Altopiano a nord. Borgo Valsugana è un paesino della Valsugana. 12 Questo è, ancora attualmente, uno dei quartieri che compongono la città di Praga. 13 Il quartiere adiacente a Hradcany. 10 11
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cui le persone sono costrette, o vogliono, lasciare la propria terra? Quali sono le conseguenze di questo andare e tornare per i luoghi che vengono abbandonati e per i luoghi che vengono raggiunti? In seguito all’industrializzazione del Veneto, e il conseguente bisogno di manodopera, gli abitanti non hanno più dovuto lasciare la regione; anzi, grazie all’offerta di lavoro il Veneto è divenuto un polo di attrazione per lavoratori provenienti dall’esterno della regione. Come Tönle, gli emigranti arrivano con grande speranza in cerca di lavoro, portando le proprie conoscenze e la propria competenza. Che cosa è cambiato in Veneto a partire da questa transizione fra mobilità e stabilità? Quali sono i vantaggi della mobilità? E gli svantaggi?
Sradicamenti Matteo Melchiorre è uno scrittore contemporaneo; poco più che ventenne, nel 2004, pubblica il suo primo libro intitolato Requiem per un albero, e racconta la storia della caduta nel suo paese di un albero molto vecchio (l’Alberón) e della gente che vi si riunisce intorno per ricordarlo. Melchiorre abita vicino a Feltre, in provincia di Belluno, e ha deciso di narrare la montagna contemporanea prendendola come spunto per riflessioni più ampie sul legame fra uomo e territorio. In Storia di alberi e della loro terra riprende in parte la sua prima narrazione sull’Alberón, ma decide di raccontare anche la sua esperienza di narratore, gli alberi che ha incontrato e che incontra sul proprio cammino e la funzione che questi alberi assumono per la costruzione delle relazioni sociali fra uomini; infine, proprio attraverso la figura dell’albero, il narratore riflette a lungo sul significato di radicamento e sul significato di sradicamento. La montagna, ancora una volta, ci dà l’occasione per spaziare al di là dei suoi confini, verso una riflessione che parte dal rapporto fra uomo e monte, arrivando al rapporto fra uomo e luoghi, fino a rapporto fra uomini.
Arrivo a casa aveva dato la parola a ciò che la caduta dell’Alberón mi aveva rivelato, ossia 14
quel che significhi sentirsi a casa in un posto e non in un altro. Non parlo in alcun modo di sentimenti patri: dico casa, che è un’idea assai più intima, individuale, raccolta. Ma questa scoperta della “casa” fu l’inizio di un assillo destinato a durare molto tempo. Proprio allora, infatti, mi stavo rendendo conto di come il mondo richiedesse tutt’altro rispetto al radicamento in un luogo familiare. Il futuro, così mi veniva detto da più parti, il futuro, per una persona istruita e al passo con i tempi, non può stare in un luogo nella periferia del creato. Altro che Tomo e Hölderlin, e alberi e vallate fiorenti: il futuro, mi veniva ripetuto, è sradicamento. Mi trovai a vivere, perciò, in questa biforcazione irrisolvibile: da un lato l’Alberón, che significava radicamento; dall’altro il futuro, che significava sradicamento. […] Scritta la storia dell’Alberón, in parole povere, tra radicamento e sradicamento, non sapevo più da che parte andare. […] Proprio quando tentai di cercare un sentiero nel raggio dei miei luoghi, nei prati intorno a Tomo e nei boschi del Tomatico, l’Alberón mi indirizzò da tutt’altra parte. La sua storia, infatti, cominciò ad essere letta assai lontano, e venni invitato in giro per paesi e città per raccontarla. Non capivo. L’altrove veniva in cerca dell’Alberón, e non viceversa. Andai di qua e di là. Più andavo in giro, come uno stornello, a raccontare di Tomo e del suo olmo, e meno capivo per quale motivo numerosi sconosciuti mi chiedessero notizie sul luogo in cui vivevo, su come vi vivevo, su che genere di persone vi abitassero. Mi chiesero a Bologna: “Quanto veloce corre il tempo, a Tomo?”. Dissi di non pensare che corra più veloce o più lento che altrove. A Padova: “Cosa si prova a vivere in un paese immerso nel È una poesia che l’autore cita all’inizio del capitolo, e che parla della serenità ma anche della costrizione di sentirsi a casa in un luogo. 14
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verde?”. Cosa si prova? A volte il verde è troppo verde. A Mestre: “Come sono i silenzi di Tomo?”. I silenzi? C’è del silenzio, è vero; ma ho un vicino che nel fine settimana attacca la radio nel garage e la lascia andare a manetta non stop dalla mattina alla sera. A Milano: “E il cielo? Il cielo di Tomo? Com’è?”. Il cielo di Tomo? Azzurro, ma ci sono settimane che sembra il cielo dell’Iraq: sfrecciano roboanti caccia militari della United States Air Force di stanza ad Aviano, con fischi strepitosi, ed elicotteri da guerra con pale micidiali. Cercavo di spiegare, insomma, che abitavo a Tomo, non nelle foreste, e men che meno tra i deserti. Confessavo che a Tomo siamo come tutti gli altri, che non v’è nulla di straordinario. Volevo, come dire, negare la specificità dei luoghi dell’Alberón; e volevo negarla non tanto agli altri ma a me stesso, allo scopo di scongiurare il rischio atroce del radicamento. E poi una sera, a Firenze, in via dei Neri, mi domandai cosa mai facessimo, a Firenze, io e l’Alberón. Mi guardai i piedi. Verificai che erano piedi, non radici. Pensai allora che i miei dubbi su radicamento e sradicamento erano privi di consistenza, poiché l’uomo non è fatto per radicarsi. Ma questo, come in seguito ebbi modo di apprendere, era un pensiero di abissale mediocrità. (M. Melchiorre, Storia di alberi e della loro terra, Marsilio, Venezia, 2017, pp. 94-97)
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Perché l’idea di casa suscita nell’autore un grande dibattito interno destinato a durare a lungo? Che cosa significa radicarsi? E che cosa significa sradicarsi? Vi sono somiglianze fra la storia di Tönle e quella di Melchiorre, seppure a cento anni di distanza? E differenze? Alla luce anche del testo di Zanzotto che puoi trovare nell’introduzione, prova a spiegare perché Melchiorre parla di «rischio atroce del radicamento»? Qual è la decisione finale dell’autore in merito al radicamento/sradicamento?
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Città Parlare di città, in Veneto, e in generale nella macroregione del Nord-est, non significa tracciare semplicemente una linea storica e geografica che disegni, o forse cancelli, i confini che un tempo dividevano città e campagna, e che oggi sono ormai invisibili. Parlare di città in Veneto significa raccontare anche, necessariamente, un’antropologia, raccogliere le voci e le storie dei diversi abitanti del territorio, i loro interessi, spesso contrastanti, i progetti che guidano le loro azioni e, infine, i loro destini. Le pagine dei quotidiani, nei tempi della crisi, ci hanno restituito la tragica fine di molte parabole disegnate da imprenditori e industriali, figli del “modello veneto”, trainati dalla locomotiva del Nordest sino a conclusioni tragiche, schiantati senza freni contro il fallimento di uno sviluppo economico insostenibile che affonda le sue radici storiche nel boom economico del secondo dopoguerra. La “città diffusa” è allora la forma che ha assunto, nel paesaggio e nell’organizzazione del territorio, un preciso modello non soltanto economico-imprenditoriale, ma anche mentale: così, la devozione alla religione del lavoro, al culto del denaro e del profitto si manifesta dal punto di vista spaziale in quel processo che Vitaliano Trevisan – scrittore vicentino aspramente critico nei confronti del modello veneto – definisce non solo come uno «sfruttamento del territorio, abuso del territorio», ma come una vera e propria «sodomizzazione del territorio!». Anche, e forse soprattutto, la terra è fonte di reddito, terreno da cui trarre profitto prima con la coltivazione e, poi, con la vendita, la speculazione edilizia, la cementificazione. Da decenni geografi, architetti, urbanisti, ma anche scrittori, poeti, filosofi e sociologi si interrogano, senza trovare definizioni convincenti – come se le parole stesse non potessero “contenere”, descrivendolo, ciò che si diffonde, incontenibile, sul territorio – sul significato e sulle forme di quella conformazione urbana che, avendo perso i propri confini di contenimento, viene detta “città diffusa”. Si parla, allora, di un modello urbano policentrico, ovvero privo di centri urbani dominanti, fatto di tante città di piccola o media dimensione, ugualmente significative (o insignificanti) all’interno di una rete urbana dalle maglie larghe e in cui la rete stradale funge da vero elemento connettore, unificante. Muovendosi lungo queste strade da est a ovest lungo la A4, da Venezia a Verona, oppure da nord a sud, dai piedi delle Prealpi attraverso la provincia di Treviso fino a quella di Rovigo, quello che si osserva è un paesaggio caratterizzato da una compenetrazione tra ambiente rurale, fatto di campi e case sparse, e territorio urbano, segnato da strade, centri commerciali, svincoli, capannoni e villette a schiera. Caratteristica fondamentale della città diffusa è quindi il processo di rurbanizzazione, ovvero la perdita dei confini tra città e campagna: un tempo visibili, netti nel paesaggio come nei modi di vita degli abitanti, questi confini sono ormai appannati, confusi, soffocati da un continuum urbanistico che costituisce la megalopoli padana. Per cogliere le diverse sfaccettature, ambientali e antropologiche, urbanistico-architettoniche e socio-economiche della dimensione urbana del Veneto contemporaneo, ma anche le ragioni che ci hanno condotti alla sua diffusione, questa sezione dedicata alla città è suddivisa a sua volta in quattro paragrafi intitolati, rispettivamente: trapassi, progetti, voci e destini. Il primo, Trapassi, ricorda simbolicamente la fine di un modello, racconta la storia del passaggio storico-geografico e antropologico dalla campagna alla città, dalla dimensione contadina a quella prevalentemente urbana, industriale, a partire dal secondo dopoguerra. Il secondo, Progetti, racconta le progettualità che stanno alla base di questa grande mutazione, le logiche speculative hanno condotto alla perdita del rispetto dell’ambiente in nome della cementificazione. Il terzo, Voci, raccoglie soprattutto racconti di dissenso, la voce, soffocata dietro al rumore delle ruspe e dei clacson, di coloro che ancora vedono nella città diffusa le 16
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tracce di un paesaggio naturale e storico, da tutelare e rispettare. Infine, l’ultimo paragrafo è dedicato ad una riflessione sui Destini dei protagonisti non soltanto dei romanzi di Francesco Maino, Romolo Bugaro e Vitaliano Trevisan, ma di tutti coloro che quotidianamente abitano la città diffusa, fino a coinvolgere, in senso più in generale, il destino di questo territorio.
Trapassi Il romanzo Cartongesso (2015) di Francesco Maino è un’invettiva non soltanto contro il modello di sviluppo e sfruttamento Veneto, ma contro l’Italia intera, e contro le logiche di speculazione, profitto e sfruttamento che guidano le azioni dei personaggi del romanzo, così come della nostra società, del nostro paese. Il protagonista, Michele Tessari, avvocato ex necroforo, osserva con tragico cinismo la storia di un territorio e il suo presente, e la restituisce attraverso un monologo interiore denso, serrato, furioso, talvolta mimetico, spesso spezzato e ostinatamente frastagliato, come la terra di cui parla.
Sono orgogliosamente heneto e osservo i veneti cogli occhi dell’angelo annunciatore. Ma annuncio loro una disgrazia, a loro che si sono venduti l’anema e, nel contempo, bevuto il cervello. Hanno lasciato perdere gli zoccoli per mettersi i mocassini, è la storia. Erano i ruvidi magistri nella coltivazione della terra, sapevano arare i campazzi a braccio, seminare, raccoglierne i frutti, hanno bonificato le paludi con le gengive, hanno badilato come bestie, munto a dodici (12) anni, battuto la Storia a tressette: hanno tolto le vacche dalle stalle, i porsei, i tacchini, al loro posto ci stanno i telai industriali, le presse, i torni e mille altre sofisticatissime automazioni per far cose che non servono più a nessuno; le stalle a un certo punto hanno cambiato sesso, son spuntati i cojoni, si sono fatte capannoni le stalle. Qualcuno è diventato il Signor Benetton, il Signor Stefanel, il Signor De’ Longhi, il Signor Riello, il Signor Rana, qualcun altro no, comunque sia moltissimi sono arrivati al successo, quello monetario. Chapeau! Io non sono in grado di dire se sia stato un bene annientare per sempre la classe dei contadini, qui nell’heneto, tanto meno sono in grado di dire se sia stato giusto creare una classe di finti imprenditori, di finti dirigenti, di finti cittadini, finti parrocchiani, finti puitici al loro posto o al posto della cultura antica: sul punto ho qualche riserva mentale. Quello che abbiamo costruito è una classe di medagliati sgobbatori con la loro corte di cicisbei, unicamente attenta allo sbattimento metodico, a profitto e autoreferenza. Questa condizione un po’ psicologica, un po’ culturale, porta inevitabilmente all’acquisto da parte di questi cristiani di un qualche bunker che si usa chiamare porzione di quadrivilla fuori città, nella nuova zona residenziale, quella senza la città attorno, vale a dire senza la comunità attorno, la polis.
Il mio mondo territorialmente delimitato dalle foci della Livenza e della Piave dove tutta la vita dei locali si è esaurita in volontà edificatorie e copulative, e precisamente nella costruzione, con attivismo da formicai, di ghetti residenziali dai nomi buffoneschi tipo il villaggio delle rose, contrada dei tulipani, corte delle betulle, tentando una speculazione commercial-cementizia, accumulando infinitesimali ricchezze in breve attimo, insomma in poche parole quel mondo obeso di buone forchette e intolleranti avvinazzati, di strisciante fascismo cristiano, ha disintegrato tutto e non si è mai chiesto di che pasta siano fatte le mie viscere, insomma un mondo automatico, impersonale, egoista, bueo e 17
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vanesio: mondoveneto, mondopaleoveneto, mondomesoveneto, concavo senza fertilità alcuna, o dotato di una fertilità incosciente, che non si cura più del Signoreiddio, della Madonnadellegrazie, o meglio lo ha fatto a parole, lo fa a parole, non si è curato degli uomini, non si è curato di me, non si è curato della verità, non si è curato del decoro, non si è curato della bellezza, della terra, non si è curato di nulla. E invece schiaccia e consuma, rutta e sgasa, fischia, mischia, movimenta, sferraglia, fonde, sgranaglia, accelera, stampa, evacua, disperde, monta, smonta, smaltisce, distribuisce, vanifica, riversa, pianifica, progetta, calcola, mescola, accende, spegne, carteggia, tinteggia, maneggia, erige, taglia, fornisce, fracassa, incassa, ammortizza, rateizza, posa, carica e scarica, fattura e storna, evade, emette, disfa, assembla, rantola, copula, suda, mastica, bestemmia e soprattutto odia. (Francesco Maino, Cartongesso, Einaudi, Torino, 2014, pp. 25-26 e pp. 178-179)
PER RIFLETTERE SUL TESTO • Come si caratterizza lo stile narrativo di Maino? Riesci ad individuare delle figure retoriche, delle scelte formali che ricorrono in entrambi i brani estratti da Cartongesso? • Nonostante i brani raccontino di un trapasso, ovvero di un mondo, quello contadino, che è scomparso quasi completamente per lasciare spazio al nuovo modello di vita urbano, riesci a individuare degli elementi di continuità nei modi di vita, negli atteggiamenti e nei valori degli abitanti del “mondoveneto” raccontato da Maino?
Progetti All’interno del romanzo I quindicimila passi. Un resoconto (2002) di Vitaliano Trevisan, l’architetto Lazzaron, con la sua smania di costruire verso l’alto, è la personificazione della speculazione edilizia che ha divorato il paesaggio veneto.
Dobbiamo costruire in altezza […]. Costruire in larghezza non si può più, disse quella sera, dunque dobbiamo costruire verso l’alto; la gente deve capire che non c’è più lo spazio perché tutti abbiano la propria casetta il proprio giardino e così via. Verso l’alto, in altezza, ripeteva mangiando il tiramisù, su su verso il cielo. […] Il nostro compito di amministratori – l’architetto era anche assessore all’urbanistica e sarebbe poi divenuto sindaco –, diceva l’architetto Lazzaron, è di gestire l’inevitabile sviluppo edilizio già in atto nel nostro territorio. Non possiamo perdere questa occasione, diceva, dobbiamo coglierla invece, e gestirla nel modo migliore possibile. La città chiede territorio. Cercare di resistere sarebbe un atteggiamento oltremodo stupido; bisogna rendersi conto della situazione e cercare di trarne il massimo vantaggio. (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi. Un resoconto, Torino, Einaudi, 2002, pp. 76-80)
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Franco Rampazzo, costruttore edile, e Furio Colombo, il suo stretto ma infido collaboratore, sono tra i protagonisti del romanzo Effetto domino di Romolo Bugaro (2015). Oscillando tra i due poli della pianificazione utopica di paradisi residenziali e la smania di profitto, Rampazzo e Colombo immaginano di costruire, e vendere, intere città di condomini ipertecnologici tra le province di Vicenza e Treviso; ma non sono gli unici speculatori che abitano il territorio raccontato da Bugaro. Così, finiranno presto vittime di banche e finanziatori che, seguendo le logiche del mercato, non ascoltano le storie personali, ma rispondono soltanto alla voce degli utili aziendali.
Il plastico era costato diecimila euro, un’enormità. Però era venuto una meraviglia. Le torri dei palazzi, simili a grandi viti autofilettanti proiettate verso il cielo, sorgevano in mezzo a prati di polistirolo e boschetti di resina eccezionalmente realistici. Franco Rampazzo aveva piazzato il capolavoro in miniatura nel centro della sala riunioni, sotto le grandi fotografie dei lavori di Rem Koolhaas, Marc Mimram e altri, regalate dallo studio d’architettura che curava il progetto Sidax. Lui non aveva mai sentito nominare questi Koolhaas o Mimram, però erano gente brava. Le fotografie riproducevano torri avveniristiche piene di spigoli sporgenti, ponti sormontati da arcate semicurve, grandi casamenti simili ad astronavi. Ventidue condomini nuovi di zecca, con design d’avanguardia e finiture d’eccellenza. Una rete di piccoli laghi disseminati intorno alle costruzioni, per fare dell’acqua l’elemento caratterizzante del paesaggio e creare un sistema fusionale di solidi e liquidi (questi l’avevano scritto gli architetti sulla brochure). Un polo integrato commerciale e direzionale al servizio dell’area, con supermercati, negozi, banca, piscina coperta e scoperta, centro polivalente. E poi piste ciclabili, aree verdi, parcheggi di superficie e parcheggi sotterranei, sistemi di vigilanza e videosorveglianza, una piccola arena per spettacoli all’aperto. […] Ventidue condomini nuovi di zecca che si specchiavano sull’acqua. Gli architetti avevano lavorato sei mesi su disegni, tavole e planimetrie. Nel progetto avevano considerato ogni dettaglio, per esempio era stato previsto che una ditta specializzata nella gestione delle piscine biologiche si occupasse dell’equilibrio faunistico dei laghetti, immettendovi periodicamente dei tritoni, i quali divorano le larve di zanzara, e provvedendo alla diffusione di un batterio naturale, il Bacillus thuringiensis israelensis, in grado di ostacolare lo sviluppo delle larve sfuggite ai tritoni. […] Le unità erano destinate a una clientela di fascia alta: imprenditori, dirigenti e professionisti. Gente stanca di vivere in mezzo al degrado delle città. Un’isola di sicurezza, bellezza, salute ed ecosostenibilità che avrebbe richiamato acquirenti da tutto il Nordest. Se le cose fossero andate secondo le attese, il progetto avrebbe potuto essere replicato in Emilia, in Lombardia, dappertutto, diventando un vero e proprio brand. (Romolo Bugaro, Effetto domino, Einaudi, Torino, 2015, pp. 28-29)
PER RIFLETTERE SUL TESTO • Che cosa condividono l’architetto Lazzaron, Rampazzo e Colombo? • Si potrebbe pensare al plastico, così come appare nel brano estratto da Cartongesso, come ad una città in miniatura, che racconta, in una versione su scala ridotta, un intero modello urbanistico ed uno stile di vita ad esso collegato. Riesci a riconoscere alcune caratteristiche di questo “modello di vita”?
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Voci Thomas, il protagonista del romanzo I quindicimila passi. Un resoconto di Vitaliano Trevisan, è un flâneur contemporaneo, un passeggiatore solitario, un uomo trasfigurato in un lupo mannaro che abita un territorio anch’esso trasfigurato. Camminando osserva, pensa, racconta le mutazioni del paesaggio veneto riconoscendo tra i capannoni e le strade asfaltate, le tracce della natura, di un antico paesaggio naturale ormai sommerso.
Tutti i dintorni di Vicenza non erano un tempo che boschi e paludi, pensavo. Boschi tagliati e paludi bonificate. Eppure, malgrado i boschi siano stati annientati ed effettivamente fatti fuori, nonostante le zone paludose siano state prosciugate e definitivamente bonificate, pensavo mentre camminavo, Vicenza e i dintorni di Vicenza restano luoghi malsani e insicuri, insidiosi, pericolosi e spesso letali. Proprio come un tempo, pensavo, percorrendo il bosco di roveri, a ogni piè sospinto si può incontrare un animale feroce, continuamente si corrono rischi mortali. Dietro ogni albero può essere nascosta la nostra fine. Eppure alberi non ce ne sono più, pensavo. Roveri non ce ne sono più, castagni non ce ne sono più, noci non ce ne sono più e cedri ce ne sono ormai pochissimi. Una volta, pensavo per la Marosticana, c’erano le risaie e ora le risaie posso solo immaginarmele, così come mi immagino di camminare per un bosco mentre non cammino affatto per un bosco. Mi immagino di correre il lungo e in largo per il bosco, proprio come un lupo, ululando come un lupo. A volte esco anche di notte […]. Di notte i rumori si sentono molto meglio. Se si tende l’orecchio durante il giorno, si rischia di impazzire per il frastuono. Solo durante la notte si riesce a sentire veramente bene, anzi solo alle tre o alle quattro del mattino, solo dopo che tutti o quasi sono tornati a casa. Solo dopo che tutti i locali hanno chiuso i battenti. Solo dopo che le ultime macchine sono state riposte nei garage o parcheggiate davanti casa. Solo allora, e per pochissimo tempo, si può sperare che non passi più nessuna macchina, che nessuno debba più andare da un posto all’altro. Finalmente c’è un po’ di spazio per i rumori, un po’ di spazio per i gatti e per i topi, per uccelli notturni e per me. Allora, pensavo, alle tre o alle quattro del mattino, esco e mi metto a correre per il bosco. Corro in lungo e in largo, corro in ogni direzione, traverso le strade senza guardare, scavalco le recinzioni che mi viene voglia di scavalcare. I lupi, lo so, non si arrampicano sugli alberi, ma io mi arrampico anche sugli alberi, pensavo camminando per la Marosticana. Scavalco tutte quelle assurde recinzioni, mi introduco silenzioso in tutti questi ridicoli giardini recintati. Giro intorno a tutte queste case di cattivo gusto, pesto sotto i piedi nudi gli ortaggi che crescono in questi orti recintati del cazzo, e urlo come un vero lupo in un vero bosco. Io non sono un lupo, pensai. Questo non è un bosco. Questa è in tutto e per tutto una palude, pensavo lungo la Marosticana. L’aria è l’aria malsana delle paludi. (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi. Un resoconto, Einaudi, Torino, 2002, pp. 57-59)
PER RIFLETTERE SUL TESTO •
•
Nel brano di Trevisan il paesaggio urbano non compare se non per la sua costante negazione. Riesci a individuare i passaggi nei quali si capisce che il protagonista sta attraversando un paesaggio urbanizzato e non completamente naturale, come vorrebbe credere? Abbiamo già visto come sia possibile legare la categoria temporale allo spazio, e leggere quindi i segni del passare del tempo proprio nel paesaggio. Ma secondo te, alla luce della lettura di questo brano, è ancora possibile ritrovare,
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riconoscere delle tracce di tempo passato nel paesaggio in cui Thomas cammina? In che modo il protagonista riesce a ricostruire la sua riflessione al negativo sul paesaggio che un tempo c’era e che ora non esiste più?
Destini Come Icaro, Franco Rampazzo, il vero protagonista dell’Effetto domino di Bugaro, ha spinto il proprio volo troppo in alto e, abbandonato dalle banche e dai suoi collaboratori, ha finito per essere tradito dallo stesso modello di cui credeva di poter scrivere le regole. Dopo il tragico suicidio di Angelo Beltrame, suo fornitore di materiali, la sua credibilità e la sua immagine pubblica sono ormai distrutte, e non gli resterà allora che battere in ritirata, passando gli ultimi anni della sua vita sulla riva del mare, per osservare la città e la pianura da lontano.
Silvana aveva annuito, senza dire altro. Lui l’aveva fissata, e aveva percepito il rumore dei suoi pensieri. La fine di Angelo Beltrame rappresentava l’ultima goccia, il colpo di grazia. Le voci sempre più insistenti sulle difficoltà della Rampazzo Costruzioni spa, con stipendi in ritardo e sindacati sul piede di guerra, avevano gettato una prima ombra. Dopo il suicidio di quel povero disgraziato, lei non era più la moglie dell’imprenditore pieno di talento che aveva costruito un impero nel campo dell’edilizia, ma la moglie del truffatore cinico e senza scrupoli arricchitosi sulla pelle dei poveracci. Vederla così abbattuta era difficile da sopportare. Per fortuna l’aria incazzata aiutava un po’. […] Tanti anni prima aveva visto alla televisione un documentario sul suicidio. Intervistavano medici e psicologi e gente che ci aveva provato. Gli era rimasta impressa la testimonianza di un americano sui trent’anni, biondo e lentigginoso e sorridente, che sembrava l’ultimo uomo al mondo con trascorsi di cicatrici sui polsi e lavande gastriche. Il suicidio è l’ultimo gradino di una scala lunghissima, che cominci a salire molte anni prima, diceva l’americano biondo con quel sorriso del tutto incongruo. Lo fai quando non farlo sarebbe insopportabile, diceva. La morte è acqua da bere, aria da respirare, un bisogno assoluto impossibile da rinviare un istante di più. Probabile che avesse ragione. Che fosse esattamente così. Franco Rampazzo l’aveva pensato allora e lo pensava anche adesso. […] La giostra delle telefonate era cominciata verso mezzogiorno. ‘Mattino’, ‘Gazzettino’, ‘Corriere del Veneto’, televisioni locali. Tutti volevano un incontro, un’intervista. Conosceva Angelo Beltrame? Era vero che gli doveva trecentomila euro? Era vero che la Sidax aveva centinaia di fornitori in sofferenza? Pensava di pagarli oppure no? (Romolo Bugaro, Effetto domino, Einaudi, Torino, 2015, pp. 28-29)
PER RIFLETTERE SUL TESTO • In questo brano, Bugaro tocca uno degli effetti più visibili e tragici della crisi economica: il “suicido per crisi”, come è stato definito dalle testate giornalistiche. Prova, insieme ai tuoi compagni, a partire dal testo e da ciò che hai sentito alla radio, in televisione, o letto sui giornali, a riflettere sugli effetti etici, morali e psicologici, oltre che economici, della crisi del modello di sviluppo occidentale, di cui quello veneto non è che una delle manifestazioni contemporanee.
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Mare Il mare è un elemento fisico molto forte, che, al pari delle montagne, sembra condurre una vita propria, completamente distaccata dalla storia degli uomini. Distaccato dalla storia degli uomini non è però il rapporto che questi instaurano con il mare. Molteplici sono infatti le relazioni che l’uomo può costruire con questo elemento, e tanti i significati (personali, culturali, economici) che gli può attribuire. In questo senso gli oltre 150 chilometri di costa che affacciano il Veneto sull’Adriatico, con le sue specificità naturali (spiagge sabbiose, lagune, il delta del Po…) e antropiche (edilizia turistica, porti, cantieri navali, Venezia…) costituiscono differenti paesaggi vissuti in vari modi: costituiscono diversi mari. Il mare ha sentito fortemente le influenze della storia sociale e culturale veneta; la mutazione antropologica infatti non ha risparmiato nella sua azione trasformatrice il mare e il rapporto che con questo gli uomini istituiscono. Lo sviluppo dei porti e delle industrie che su questi fondano la possibilità di spostare le merci prodotte; il turismo di massa, grande conquista del benessere italiano degli anni Sessanta, e l’edilizia che nasce su questa esigenza; la fine di un modo di vivere sulle coste del mediterraneo che, non di molto mutato, durava da secoli. Come per il resto della penisola e della vita che su questa si viveva, il boom economico ha lasciato i suoi segni; ambigui, sia positivi che negativi. Fra le tante visioni marine che la letteratura di ogni tempo ha raccontato scegliamo di presentare tre mari veneti fra di loro molto diversi, per atmosfera, per ambientazione, per rapporto che i personaggi instaurano con il mare, sperando di rendere, almeno un poco, quella complessità di sguardi che hanno dipinto e dipingono questo elemento naturale apparentemente neutro e sempre uguale.
Mutamenti Il seguente frammento è tratto da Gente di Mare (1966) di Giovanni Comisso, ed è il resoconto del viaggio compiuto dall’autore nell’estate del 1922 a bordo di un veliero chioggiotto, lungo le coste dell’Adriatico. Al centro dell’opera c’è la vita animata dei pescatori, le loro condizioni economiche, la presenza silenziosa ma fondamentale nel mare. In La ricchezza di Mario, il capitolo da cui è tratto questo frammento, si racconta la storia di un personaggio che da questa vita è riuscito ad allontanarsi.
Nella piccola città di pescatori la vita aveva le stesse vicende del mare. Se in mare si susseguivano giorni addolciti da brezze che davano una buona pesca, i negozi si affollavano di gente che comperava e le osterie di altra, che beveva e giocava. E alle tempeste di scirocco e di tramontana, con il mare deserto e i velieri stretti nel canale, corrispondevano giorni di miseria, di desolazione, con gli abitanti rintanati nelle loro case accanto al fuoco a sbocconcellare polenta e patate. La vita andava tra questi due estremi di abbondanza e di miseria e gli animi erano sempre disposti ad abbattersi nell’avvilimento, come a rialzarsi nel più forte entusiasmo, a seconda del vento che spirava. Vi si viveva in rapporto al vento, una vita precaria, precaria di secoli e così queste alternative erano diventate naturali. Anche la vita della madre di Mario era come il mare, con il suo alternarsi di bonacce e tempeste: abbandonata dal primo marito, che l’aveva lasciata con parecchi figli, andando via per il mondo, si era sistemata con un vedovo che faceva l’oste e gli occorreva una donna che l’aiutasse per la cucina, ed era nato Mario. L’osteria lavorava quando la pesca era buona e rimaneva deserta quando i velieri rimanevano fermi nel canale. Povertà e benessere, bonaccia e tempesta, questa era la legge della piccola città dei pescatori. 22
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Mario che già aiutava sua madre nell’osteria sapeva di essere povero, ma era sicuro che non lo sarebbe stato per tutta la vita; almeno per una stagione, pensava, avrebbe dovuto conoscere la ricchezza, una stagione, come una serie di buone giornate di pesca. E i suoi occhi di ragazzo erano avidi di attesa. Le giovinette della sua stessa età sedute fuori dalle loro case su piccole sedie, curve sui telai a ricavare merletti pagati con poche lire al metro, anch’esse aspettavano la loro stagione di ricchezza e se passava qualche forestiero subito si mettevano a cantare, spiando di sbieco se si volgeva a guardare, e se andava oltre sempre qualcuna sospirava addolorata: «Almeno venisse qualcuno a portarmi via». Mario fu più fortunato: un giorno nella sua osteria venne un signore a mangiare e come lo vide, svelto e premuroso nel servire, gli chiese se voleva andare a servizio da lui. Sua madre che aveva inteso esclamò subito: «Volesse Iddio che dicesse da vero. Se lo prenda, glielo do anche per niente». Questo signore aveva una villa e gli occorreva un ragazzo che attendesse al giardino, all’orto, che pulisse l’automobile e che servisse anche in tavola. Mario fu preso da un’agitazione di occhi e di cuore, rideva e piangeva, corse a mettersi il suo vestito da festa e la sera stessa partì. Presso questo signore si trovò subito bene, ebbe altri vestiti e due paia di scarpe, una bella stanza per dormire, ebbe la sua paga che consumava quasi tutta in sigarette e dolciumi e quando venivano altri signori ospiti del padrone aveva sempre vantaggiose mance. Il suo lavoro non era gravoso e aveva sempre molte ore del giorno che poteva passare senza fare nulla, sdraiato sul letto o a correre in bicicletta. Dopo qualche tempo imparò anche a guidare l’automobile e quando il padrone andava a fare qualche gita e non aveva voglia di guidare, gli passava il volante. Guidare la macchina, lo convinceva di aver raggiunto più di quello che si era fino a allora aspettato. Gli sembrava di essere il padrone e dietro di sé lasciava con la polvere i miserevoli ricordi d’infanzia. Qualche volta il suo padrone lo mandava in permesso al suo padrone e allora vestito elegante si godeva della situazione raffrontandola con quella dei suoi compagni rimasti scalzi e stracciati e senza denaro ad attende l’arrivo del vaporetto per portare qualche valigia. Ma sua madre non era contenta di lui. «Io ti ò allevato» diceva «e mi sono consumata per darti da mangiare. Tu vedi come mi tocca lavorare ancora, vecchia come sono, ma come è che non mi mandi mai qualche cosa che mi possa comperare anch’io un paio di scarpe nuove?» Mario si turbava di queste parole di sua madre e soprattutto perché si accorgeva che la sua ricchezza non era che apparente. In verità non era riuscito a mettere da parte qualcosa, aveva tutto quello che gli occorreva, ma non denari alla banca come il suo padrone. Si accorgeva si essere appena un servitore ben pagato e ben vestito, ma un servitore e tutto questo non era: la ricchezza. Così quella che fin ad allora gli sembrava la più invidiabile delle posizioni cominciò a venirgli a noia. (G. Comisso, La ricchezza di Mario in Gente di mare, Mondadori, Milano, 2002, pp. 109-111)
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
Che tipo di mare viene rappresentato in questo frammento? Qual è il rapporto degli abitanti della piccola città di pescatori con il mare? Qual è invece il rapporto di Mario con questo e come cambia? Com’è strutturata la vicenda? Secondo te che significato ha una simile disposizione degli elementi? La trasformazione della vita di Mario sembra in piccolo la trasformazione che abbiamo mutazione antropologica, perché?
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Conclusioni Questo frammento è tratto dalle pagine conclusive di Effetto domino di Romolo Bugaro. Franco Rampazzo, il protagonista della vicenda di collasso economico, decide di ritirarsi in una zona balneare.
Svegliarsi presto e uscire nell’azzurro delle mattine di marzo, col vento teso che fa vorticare le foglie nei giardini delle villette sprangate per l’inverno. Camminare lungo strade spopolate di gente verso la spiaggia, dove stabilimenti chiusi e moli deserti liberano da ogni lato la prospettiva del mare e del cielo. A volte prendeva la bicicletta e faceva lunghi giri. Andava verso Eraclea, dove qualche negozio restava aperto tutto l’anno, oppure verso Caorle, un po’ troppo affollata per i suoi gusti. Aveva compiuto sessant’anni. Ritirarsi a Duna Verde sembrava il capitolo finale. Continuava a pensare a se stesso come a un uomo che ha dedicato la propria vita al lavoro, all’azienda, ma non sapeva più con esattezza chi era. […] Adesso raggiungeva la valle San Gaetano e camminava sulla sommità dell’argine. Guardava l’acqua verde e quasi ferma del braccio di laguna. Ogni tanto cefali e latterini guizzavano in superficie. Oltre i canneti si vedeva la distesa dei campi bordati da siepi e filari di alberi e, molto più indietro, il profilo delle Alpi ancora imbiancate. Il cielo azzurro e trasparente era così alto da sembrare senza profondità. Sedeva sul pontile di legno, nella solitudine della valle. L’aria fredda di marzo passava attraverso il tessuto del giaccone. In venticinque anni di attività lui aveva costruito tanto. Case, palazzi, centri commerciali. Tutti conoscevano la sua impresa, tutti la rispettavano. Il passato era una torre circondata dal niente, sospesa nella distanza. Sembrava abbandonata, eppure nessuno avrebbe potuto abbatterla. Guardava l’acqua verde e quasi ferma del braccio di laguna. Si sentiva abbastanza bene, abbastanza in grado di andare avanti. Se il mercato avesse ripreso quota, diceva a se stesso, poteva anche ricominciare. (R. Bugaro, Effetto domino, Einaudi, Torino, 2015, pp. 227-228)
PER RIFLETTERE SUI TESTI • •
Quale visione del mare racconta Bugaro? Che tipo di atmosfera produce l’ambientazione marina? Come è costruita a livello narrativo questa ambientazione e che rapporto si instaura tra questa e il personaggio? Mare, conclusione del libro, conclusione della vita, conclusione di una parabola narrativa. Tutto questo è strettamente legato, per quali ragioni secondo te?
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Assenze Parlando di mare in Veneto non si può non passare da Venezia. Decidiamo però di staccarci da una città che è stata rappresentata innumerevoli volte nella sua bellezza e complessità e citarla, per così dire, di traverso. Questo testo è tratto dal romanzo Qualcosa brucia di Gianfranco Bettin (1989), nel quale si racconta in prima persona la formazione di un giovane veneziano negli anni Ottanta, Maurizio.
L’altra faccia di Venezia è una città vasta e senza bellezza, sparsa alla rinfusa in terraferma, in grandi quartieri, come un fitto frastagliato arcipelago di pietra. Era lì che Carta abitava. Scendemmo dall’autobus in una piazzetta, dopo un breve viaggio. Era buio e c’era nebbia e l’aria sapeva di cenere. La notte incombeva, fosca, su vecchi palazzoni dai colori stinti e su tozzi caseggiati, all’apparenza più moderni, ordinati in lunghe file posti a diga de cielo. Più in là, poco distante, l’orizzonte era un velo nebbioso e ribollente, squarciato da fiamme di lampi. «Guarda» mi disse Carta, indicando il cielo sopra le Fabbriche, «sfiatano tutto, ogni briciola, ogni atomo.» Non l’avevo mai visto, da dentro, il quartiere. Sapevo che stava incastrato su un margine della cintura urbana, tra il sistema di autostrade e tangenziali e il grande complesso portuale industriale di Porto Marghera. L’avevo sfiorato, e intravisto qualche volta, qualche volta, in treno o in autobus, ma come se fosse stato un qualsiasi altro punto del pianeta – o, addirittura, un altro pianeta. Figurette magre di anonimi alberelli ornamentali costeggiavano le vie, mentre profili più robusti e slanciati di platani e pioppi sbucavano da povere aiuole o da zone incolte, minuscole selve di sterpi, cespugli e rifiuti. Accanto alle case e ai bordi della strada, ovunque spuntano sagome basse e regolari di garage in lamiera e, attorno e sopra il marciapiede, sostano decine e decine di automobili e di moto (molte delle quali incatenate agli alberi). Sopra le nostre teste s’intravedevano sospese le corde che reggevano lunghe file di panni, smossi appena da una corrente fiacca e fredda, e più in altro ancora, a perdersi nella notte, i grossi cavi d’acciaio dell’alta tensione, spioventi da tralicci poderosi e fitti come in una foresta di bizzarri, elettrici totem. E su tutto, su questo panorama fin dove era visibile il buio, un enorme ombra rossa proiettava il bagliore immenso, mai spento dei forni e dei camini industriali. «È orrido», dissi, «orrido e affascinante.» Visto da Venezia, Porto Marghera era solo un orizzonte immerso in strane e sporche foschie, in sinistre vampate: una linea di oltremare irta di camini e di strutture metalliche ignote e lontane. «Impressionante, davvero» «È merda», disse Carta. «Solo merda», ripeté. (G. Bettin, Qualcosa brucia, Milano, Baldini&Castoldi, 1995, pp. 127-128)
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
Dov’è il mare? È presente o assente? Il frammento citato è una descrizione. Che tipo di sguardo racconta questo panorama marino? Come si dispone questa descrizione? Quale rapporto c’è tra Venezia e Porto Marghera?
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Glossario Alpi Le A. sono una catena montuosa che attraversa, da est ad ovest, tutto il nord dell’Italia. Non a caso i confini del paese sono tracciati proprio su questo elemento così importante della geografia fisica: i versanti e le cime della catena montuosa più importante d’Europa separano l’Italia dai suoi paesi confinanti. Nonostante però i confini traccino separazioni, gli stati distribuiti sui versanti montuosi delle A. (la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Germania, il Liechtenstein e la Slovenia) condividono, al di là delle diversità, un patrimonio culturale comune che possiamo definire “cultura alpina”. Questa cultura si basa su modelli economici simili (basta pensare al ruolo dell’agricoltura e allevamento di montagna, e all’industria turistica) ma anche su tradizioni condivise, come per esempio quella del carnevale, che presenta tratti simili in tutto l’arco alpino.
Baliatico Il b. fu un tipo di emigrazione interna italiana temporanea. Questa migrazione interessava madri di famiglia che, poco dopo aver partorito il proprio figlio, partivano verso le principali città italiane (per esempio Milano) per allattare i figli della borghesia e dell’aristocrazia, in cambio di un adeguato compenso. Le madri dell’aristocrazia e della borghesia preferivano infatti non dare il latte del proprio seno ai propri figli, per non interrompere la vita mondana e per non rovinare il proprio corpo. Il fenomeno del baliatico ha avuto una grandissima diffusione nella provincia di Belluno, soprattutto nella zona delle Prealpi del feltrino e soprattutto durante l’età fascista. In questo periodo infatti le frontiere vennero chiuse e la migrazione stagionale maschile verso l’estero ebbe una drastica riduzione, lasciando le famiglie in grande miseria. Lasciare il proprio figlio era sempre estremamente doloroso, perché il bambino appena nato, cambiando la propria alimentazione con il latte di mucca o di capra poteva anche incorrere in malattie intestinali mortali. La balia stabiliva con il proprio “figlio da latte” (in città) un rapporto molto stretto, che molto spesso continuava a distanza anche dopo la crescita del bambino. Nonostante tutto il dolore che questo fenomeno ha portato con sé, attraverso il proprio mestiere le balie da latte avevano la possibilità di emanciparsi, soprattutto grazie alla consistente paga ricevuta e alla possibilità di acculturarsi durante la propria esperienza.
Boom economico Periodo della storia d’Italia che va dagli anni cinquanta agli anni sessanta, contraddistinto da una forte crescita economica e da un’accelerazione nel processo di sviluppo tecnologico con fortissime ricadute sul piano sociale. Aumentano le migrazioni dal sud al nord, viene quasi raggiunta la piena occupazione, aumentano i salari e con essi la disponibilità degli italiani a subire il fascino della nuova e ampia offerta di merci (televisori, automobili, frigoriferi…). Tuttavia alla diffusione dei beni di lusso, elevati a feticci della quotidianità privata, non corrispose un adeguato sviluppo delle opere pubbliche quali strade, scuole, ospedali, trasporti mentre l’espansione dei tessuti urbani e delle strutture alberghiere nelle zone turistiche, in assenza di piani regolatori e criteri minimi di controllo, determinò disastri ambientali e distruzione selvaggia del paesaggio italiano.
Città diffusa / periferia diffusa Architetti, urbanisti e sociologi definiscono c.d. il continuum urbano che si estende da Trieste verso Milano e Torino lungo l’asse autostradale A4 Milano -Venezia. Questa particolare forma urbana si definisce “diffusa” proprio perché si propaga senza soluzione di continuità sul territorio, cancellando i tradizionali confini tra città e campagna, omologando il paesaggio in un alternarsi di capannoni, centri abitati, villette, strade asfaltate, campi, piccole cittadine, raccordi e tangenziali. La città diffusa si differenzia dalla metropoli e dalla megalopoli non tanto per la sua estensione, quanto per l’assenza di un nucleo urbano centrale e riconoscibile: piuttosto che irradiarsi da un singolo centro abitato, la città diffusa si allarga sul territorio come una rete fatta di piccoli e medi centri urbani, collegati tra loro da un intreccio di strade. Per sottolineare l’assenza di punti di riferimento riconoscibili, nei caratteri del paesaggio, l’appiattimento degli stili di vita, lo scrittore Vitaliano Trevisan ha parlato con tragica ironia di “periferia diffusa”, piuttosto che di città diffusa, riferendosi alla condizione del Nord-est.
Dolomiti Le D. (il loro nome deriva dal nome del geologo francese che nel 1791 scoprì la formazione della loro roccia, Déodat de Dolomieu) sono delle famose formazioni montuose di roccia calcarea che si contraddistinguono per le forme quasi sovrannaturali e altissime e per il loro colore caratteristico grazie al quale vengono leggendariamente anche chiamate “i Monti Pallidi”. Le D. venete si possono trovare nella provincia di Belluno, ma non si esauriscono in questa zona: le possiamo trovare anche in Friuli-Venezia Giulia e in Trentino-Alto Adige. Con la loro particolare formazione geologica, le D. hanno
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da sempre dato vita a innumerevoli narrazioni leggendarie, ed a sentimenti contrastanti di paura e di piacere; attualmente, sono il fulcro dello sviluppo turistico della zona montana bellunese.
Grande emigrazione Con g.e. italiana si intendono tutti quei movimenti migratori di massa che presero il via intorno alla seconda metà del 1800 da tante fra le più povere zone d’Italia, e inizialmente soprattutto dal nord del paese. Le traiettorie della g.e. portarono gli emigranti soprattutto in America del Nord e in America del Sud, paesi in cui era molto forte il bisogno di manodopera. Guidate dalla disperazione legata alla miseria della propria condizione, milioni di persone si imbarcarono su battelli a vapore (che potevano impiegare anche quasi 40 giorni per raggiungere la meta) verso mondi per loro completamente ignoti. La g.e. fu solo la prima e colossale forma di emigrazione che vide la popolazione italiana proveniente dalle zone più povere mettersi in gioco per cercare lavoro in luoghi completamente altri rispetto alla terra d’origine.
Metropoli / Megalopoli padana Con il termine “metropoli” (dal greco μήτηρ /méter “ madre” e πόλις /pólis “ città” ) si indicava anticamente la “ città madre”, ovvero il centro abitato principale di una regione o di uno stato. In senso più ampio si definisce oggi metropoli ogni città di grandi dimensioni che svolga un ruolo centrale dal punto di vista culturale, economico, politico. Anche attraverso la sua raffigurazione letteraria, la metropoli è divenuta vero e proprio luogo simbolo dell’età moderna. Dalla città industriale inglese del romanzo Tempi difficili (1854) di Charles Dickens, alla Parigi di metà Ottocento delle poesie della raccolta I fiori del male (1857) di Charles Baudelaire; dalle riflessioni del filosofo, critico e scrittore Walter Benjamin, fino alla New York del romanzo Manhattan Transfer (1925) di John Dos Passos; la metropoli offre non solo l’ambientazione alle vicende dei personaggi letterari, ma diviene essa stessa protagonista, insieme euforica e disforica, della narrazione. “Megalopoli” (dall’aggettivo greco μεγαλόπολις/megalòpolis “che costituisce una grande città”) è il termine con cui ci si riferisce alle forme degenerate, eccessivamente espanse della metropoli contemporanea. In Italia si parla di “megalopoli padana” per indicare lo stesso territorio della “città diffusa” che si estende da Trieste a Torino.
Nordest / Nord-Est Questo concetto, che dal punto di vista geografico comprende un’area che abbraccia l’Italia nord-orientale, e dunque le regioni dell’Emilia-Romagna, del Friuli-Venezia-Giulia, del Trentino-Alto Adige e del Veneto, secondo il Vocabolario Treccani nel linguaggio giornalistico indica quell’area industriale che comprende il Veneto, il Friuli e il Trentino, caratterizzata dalla presenza di medie e piccole aziende e agitata da fermenti autonomistici. Una caratterizzazione dal punto di vista dello sviluppo economico e industriale, dunque, molto rapido al punto che si è parlato del Nordest come “locomotiva d’Italia”, così come dal punto di vista politico. Dal punto di vista letterario il “nordest” è tornato da più di un decennio al centro delle narrazioni di molti autori contemporanei, il cui racconto, spesso cinico e disincantato, ma anche capace di una grande volontà di “resistenza”, è quasi sempre attento ai temi del lavoro e dell’alienazione, della tutela del paesaggio, dello sfruttamento del territorio, ma anche dell’abitare, della migrazione, del rapporto tra lingua e dialetto, della dialettica tra modello economico e suo contraltare sociale.
Prealpi Il termine P. viene utilizzato per parlare di tutta quella parte di territorio montuoso che sta alle pendici delle Alpi. Ciò che contraddistingue le P. come zona montuosa sono le altitudini più modeste e il clima più mite. Le P. fungono di fatto da cerniera di collegamento (e di passaggio) fra la pianura e la montagna.
Rurbanizzazione In geografia, ma anche nel linguaggio dell’architettura e della pianificazione, si usa il termine r. per indicare quella commistione tra dimensione urbana e rurale che ha caratterizzato il territorio italiano, e in particolare quello del Nordest, a partire dal secondo dopoguerra. La r. si riconosce per la diffusione dei connotati propri dello spazio urbano al di fuori dei tradizionali confini della città, per la contaminazione delle campagne e delle forme di organizzazione rurale del territorio con edifici, strutture e stili di vita propri delle città. Il termine racconta la fusione dell’urbano e del rurale, e la risultante difficoltà a tracciare una linea netta che separi, nel territorio come nel paesaggio, la città e la campagna.
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Seggiolai La migrazione dei s. è un altro tipo di migrazione temporanea che ha interessato sempre la provincia di Belluno, soprattutto la zona dell’Agordino, a nord della provincia. I seggiolai erano degli uomini esperti impagliatori di sedie che giravano tutta l’Italia fermandosi nei vari paesi dove ci fosse la necessità di avere seggiole. Un particolare interessante dei seggiolai fu che, per comunicare fra di loro mantenendo la segretezza anche in mezzo alla gente, inventarono una vera e propria lingua, lo
scapelament dei conthe.
Note bio-bibliografiche Gianfranco Bettin (1955): saggista e narratore nato a Marghera nel 1955; ha insegnato e lavorato a lungo nel campo della ricerca sociale. È tra i fondatori dei Verdi italiani, alla fine degli anni Settanta, partito per il quale è stato consigliere regionale del Veneto e parlamentare. Collabora a diversi quotidiani e riviste, tra cui Il manifesto, i giornali locali del gruppo Repubblica-Espresso. Ha pubblicato romanzi, tra i quali Qualcosa che brucia (Garzanti, 1981), Sarajevo Maybe (Feltrinelli, 1994) e Nemmeno il destino (Feltrinelli, 1997) e alcuni volumi di saggi. Romolo Bugaro (1962): avvocato e scrittore, nato a Padova nel 1962. Al racconto del Nordest ha dedicato alcuni dei suoi più recenti lavori, da Ragazze del nordest, con Marco Franzoso (2010) a Bea vita! Crudo Nordest (2010) per la collana Contromano di Laterza, dedicata proprio a racconti di luoghi, regioni, paesaggi e città affidati a scrittori contemporanei, fino al romanzo Effetto domino (2015). Qui si riconoscono non soltanto i tratti della Provincia di Padova, ma anche di Treviso, di Vicenza, fino alle coste dell’Adriatico, ma soprattutto i tratti caratteristici degli abitanti di questa regione. Imprenditori, costruttori, avvocati e fornitori, tutti rincorrono il profitto o propri obiettivi personali, che in pochi, però, riescono a raggiungere. Così, in Effetto domino, il modello del nordest si lascia alle spalle una scia di fallimenti, di ingiunzioni, di sangue che macchia le mani degli speculatori, ma anche il territorio che ospita i loro avveniristici progetti. Giovanni Comisso (1895-1964): scrittore nato a Treviso nel 1895. Partecipa come volontario alla Prima guerra mondiale, al termine della quale segue Gabriele D’annunzio nell’impresa di Fiume. Collaboratore di molti giornali, fra i quali il Corriere della Sera, inviato per questi in Europa e in oriente. Comisso è fortemente integrato nella cultura fascista (sia da un punto di vista letterario che politico) e anche per questo non troverà molto spazio nel secondo dopoguerra. Fra i testi che si possono ricordare nella vastissima opera fatta di romanzi, saggi, racconti, reportage, articoli di giornale e poesie, citiamo Giorni di guerra (1930), La mia casa di campagna (1958) e Il porto dell’amore (1924). Francesco Maino (1972): scrittore nato nel 1972 a Motta di Livenza, in Provincia di Treviso. Oggi abita a San Donà di Piave. Avvocato penalista a Venezia, si rispecchia, almeno in parte, nel protagonista del suo romanzo d’esordio, Cartongesso (Einaudi 2014): Michele Tessari è infatti anche lui avvocato, fine conoscitore dei diversi tipi umani che abitano il territorio veneto e osservatore cinico e disincantato delle loro traiettorie di vita. Strutturato come un lungo, incessante, rabbioso monologo interiore, il romanzo di Maino registra senza alcun filtro la realtà del Veneto contemporaneo, travolgendo il lettore attraverso una lettura talvolta affannosa, spesso faticosa, verso un destino che non lascia alcuna via di scampo, nessuno spazio per le illusioni o un lieto fine. Matteo Melchiorre (1981) è nato nella provincia di Belluno, nello specifico a Feltre. Dopo un periodo vissuto a Rasai (un piccolo paese del feltrino), l’autore si trasferisce con la famiglia nel vicino paese di Tomo. Proprio in questo paese, in seguito alla caduta di un vecchio olmo definito dalla popolazione “l’Alberón”, il giovane autore compone la sua prima opera narrativa, Requiem per un albero (2004), un’opera che ha una grande fortuna di pubblico e che nel 2017 viene ri-pubblicata dalla casa editrice Marsilio in versione espansa e con il titolo Storia di alberi e della loro terra. Dopo aver studiato storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Melchiorre è stato ricercatore presso l’Università di Udine, e a Venezia presso Ca’ Foscari e presso lo IUAV. Ha vinto recentemente (2017) il premio letterario Mario Rigoni Stern con il proprio libro La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi, un libro a metà strada tra narrazione e saggio storico che ci parla di una strada di collegamento fra il feltrino e la valle di Primiero a partire dal XV secolo, aiutandoci a riflettere sulla relazione fra tempo e spazio nella costruzione dei rapporti economici e sociali.
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Luigi Meneghello (1922-2007): nato a Malo (VI), è stato un partigiano, accademico e scrittore italiano. Emigrato nel 1947 nel Regno Unito, ha insegnato per molti anni all’Università di Reading in Inghilterra. Le sue opere principali sono Libera nos a malo (1963), I piccoli maestri (1964), Pomo pero (1974), Fiori Italiani (1976). Libera nos a malo prende le mosse dal ritorno dell’autore al paese natale, Malo, e dal suo arrivo, in una sera di temporale, all’interno di una casa contadina. La voce narrante si tuffa allora nella memoria infantile per compiere una ricerca etnologica e antropologica dall’andamento semi-narrativo. Il libro si compone di una moltitudine di aneddoti e la narrazione ha il dinamismo dell’associazione d’idee, tesa al recupero delle molteplici esperienze del passato. Italiano, dialetto e inglese (per l’espatriato Meneghello la lingua dell’attività intellettuale) operano una liberazione linguistica dell’esperienza, in grado di riscoprire, mettendoli in combustione, il presente e il passato. Goffredo Parise (1929-1986): vicentino, è stato uno scrittore e giornalista italiano, autore anche di sceneggiature. L’esordio letterario avviene nel 1951 con il romanzo Il ragazzo morto e le Comete. Nel 1954 inizia la sua attività di giornalista, dalla sua attività di inviato nasceranno interessanti reportage su momenti cruciali della storia del Novecento (i più celebri sono quelli su: Cina, Vietnam e Giappone). Verrà riconosciuto come un romanziere importante grazie a tre opere (Il prete bello; Il Fidanzamento; Atti impuri) comunemente nominate come la trilogia veneta: caratterizzata da una vena realistica e dissacratoria nel raccontare il mondo della provincia. Possiamo dire che Parise si caratterizzi per il nitore della prosa, precisa e capace di rendere la realtà quotidiana, ma anche capace di deformazioni e di lucide penetrazioni psicologiche. I risultati più maturi della sua scrittura si hanno alcune raccolte di racconti: Gli americani a Vicenza e altri racconti (1952-65); Sillabario n. 1 e Sillabario n. 2 (1972 e 1982). Mario Rigoni Stern (1921-2008): nasce ad Asiago, sull’Altopiano dei Sette Comuni in provincia di Vicenza, nel 1921. La sua appartenenza alla montagna veneta lascia un’impronta fondamentale sulla sua vita, e soprattutto sul suo essere scrittore: l’Altopiano sarà infatti uno dei fulcri di tutta la sua narrativa. Da giovanissimo si arruola nel corpo degli alpini sciatori rocciatori, con la speranza di poter sfuggire alla miseria del paese. Ma il suo ruolo all’interno del corpo militare lo porterà a combattere su tutti i fronti della Seconda Guerra Mondiale, e a partecipare alla disastrosa ritirata di Russia, con la grande fortuna di sopravvivere. L’esperienza tragica della ritirata diventa per Rigoni Stern il motivo per farsi scrittore: salvare la memoria e far riflettere le generazioni presenti e future sull’assurdità della guerra e la forza dell’unione umana diventano missioni fondamentali per l’autore altopianese. È così che pubblica il suo primo e più famoso libro: Il sergente nella neve (1953). Dopo la guerra, Rigoni Stern decide di rimanere per sempre sull’Altopiano, lavorando presso il catasto comunale e continuando a scrivere. La sua narrativa si struttura fondamentalmente lungo due direzioni: l’esperienza della guerra, mai dimenticata e mai da dimenticare (ne sono testimonianza i libri Quota Albania, 1981 e L’ultima partita a carte, 2002), e il canto alla propria terra, la sua natura e la sua storia (di cui sono testimonianza alcuni romanzi e moltissime raccolte di racconti). Vitaliano Trevisan (1960): scrittore nato a Vicenza nel 1960. È un autore noto per la sua sensibilità nell’osservare i cambiamenti che hanno sconvolto il territorio del Veneto negli ultimi decenni. L’esplosione della “città diffusa”, così come l’irrazionale devastazione urbanistico-architettonica del paesaggio secondo la sola logica della speculazione edilizia sono infatti temi centrali del suo romanzo I quindicimila passi. Un resoconto (2002). Qui, nella cornice di un noir psicologico che troverà tragica conclusione proprio nei disturbi della psiche del protagonista, si racconta la storia di un uomo che giorno dopo giorno percorre le strade della città diffusa veneta alla volta di Vicenza per cercare di risolvere il caso dell’assassinio di sua sorella. Vitaliano Trevisan è anche attore, regista e sceneggiatore teatrale. Per la sua produzione saggistica, inoltre, si ricorda Tristissimi giardini (2010), una raccolta di saggi che riflettono sul valore, perduto, della bellezza estetica del paesaggio dell’Italia del nord-est, un territorio ormai divorato dalla mostruosa espansione della “periferia diffusa”. Andrea Zanzotto (1921-2011): nato a Pieve di Soligo, tra le colline a nord di Treviso, sotto le Prealpi è stata una delle voci poetiche più interessanti del Novecento. A parte gli anni giovanili, ha trascorso tutta la sua vita nel trevigiano come insegnante nelle scuole medie e nei licei. Buona parte del suo itinerario poetico è costruito proprio attorno a questo lembo di terra veneta che in un breve lasso di tempo ha visto il tramonto della civiltà contadina-artigianale e uno sviluppo di iniziative industriali tanto potente quanto caotico e convulso. L’impatto di tutto ciò è stato avvertito dal poeta anche nei termini di un’alterazione della limpidezza e dell’armonia nel paesaggio e nei tessuti umani. L’opera poetica di Zanzotto, ancorata a un vissuto individuale - anche in termini linguistici (il dialetto alto-trevigiano) – ha ripercorso la metamorfosi dei tempi proiettata nell’ambiente, configurandosi come espressione di allarme e difesa contro l’irruzione di alcuni fenomeni dello sviluppo tecnico-scientifico ed economico.
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