Viaggio e alterità
ASSOCIAZIONE FORMALIT 2017/2018
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Viaggio e Alterità
Indice
2 Introduzione 3 Cartografie Il Medioevo 6 7 8
Marco Polo, Il Milione Dante, Inferno Cronaca dei Fratelli Vivaldi
L’età delle scoperte geografiche 10 12 13 14
A. CA da Mosto, A Usodimare, Le navigazioni atlantiche Torquato Tasso, La Gerusalemme liberata Cristoforo Colombo, Giornale di bordo; La lettera della scoperta
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William Shakespeare, La tempesta Daniel Defoe, Robinson Crusoe
Racconti aztechi della conquista
I capostipiti della letteratura coloniale
Illuminismo e straniamento 19
Montesquieu, Lettere persiane
Il peso dell’imperialismo 21 23 24
Herman Melville, Moby Dick Joseph Conrad, Cuore di tenebra Louis Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte
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Aldous Huxley, Il mondo nuovo
Distopie Strumenti metodologici 28 28 29
Orientalismo Magia e razionalità Straniamento
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Introduzione Se dovessimo porvi a bruciapelo la domanda: «cosa rappresenta per voi il viaggio?», le risposte sarebbero le più variegate e probabilmente pure contradditorie. Ognuno ha la sua concezione di viaggio, ognuno elabora e muta negli anni il suo modo di viaggiare. Non è possibile dare una definizione univoca a un termine tanto vasto, così legato all’esperienza del singolo, al tipo di società a cui questi appartiene e all’epoca a cui si fa riferimento; l’unico modo è appoggiarsi alla neutralità di un vocabolario, che ne circoscriva un significato asettico. Pare però possibile intercettare nella propensione al viaggio una caratteristica tipicamente umana. L’uomo sin dalle origini del mondo e per i più differenti motivi ha sentito l’esigenza di spostarsi: indelebile è la figura letteraria di Ulisse che, agli albori della letteratura, solca mari e terre, accumulando esperienze verso il ritorno a Itaca. Andremo a indagare quali viaggi si sono salvati nella memoria attraverso la custodia della pagina scritta: documenti, diari di bordo, carte geografiche o opere letterarie ci accompagneranno nel constatare cosa muta e cosa permane del concetto di viaggio fra le epoche; ma anche come si possa rivoluzionare, a seguito del viaggio, la percezione della realtà e di se stessi. A partire dal Medioevo, conosciamo la compresenza di una interpretazione allegorica di viaggio (in Dante il viaggio è quello della conoscenza, che deve mantenersi entro certi limiti, non deve superare le “colonne d’Ercole” rappresentate dalla Verità Rivelata della teologia), e una invece più pragmatica, come quella di Marco Polo in Oriente, mossa da motivazioni commerciali frammiste a fascino e curiosità. Fra il Quattrocento e il Cinquecento i navigatori e i marinai diventano i protagonisti del periodo delle scoperte; cui segue, come si può notare dal mutare delle carte geografiche, una radicale e in certi casi drammatica ristrutturazione della conoscenza del mondo: nuove terre, nuove popolazioni e abitudini inedite mettono in discussione un ordine della realtà che si era creduto assoluto e immutabile. Il potere e il dominio sono il motore dei viaggi dal Seicento all’inizio del Novecento, condotti dalle grandi nazioni europee in vista della costruzione dei propri imperi coloniali: America Latina, Africa e svariate zone dell’Oriente sono percorse da esponenti di Compagnie Commerciali, che penetrano nei territori e ne prendono possesso, impiantano insediamenti, tracciano confini, disboscano intere foreste per impiantare le monoculture necessarie a rifornire di materie prime le industrie europee. Per circoscrivere il campo della nostra indagine abbiamo deciso di collegare a quello del viaggio il tema dell’Alterità. I viaggi che abbiamo preso in considerazione, infatti, prevedono sempre l’incontro (come vedremo più o meno riuscito) con il ‘diverso’: il musulmano nel Medioevo; le popolazioni amerinde a seguito della scoperta del Nuovo Continente; i popoli assoggettati di quasi mezzo mondo al culmine dell’imperialismo europeo. Entrare in relazione con l’Altro è un tratto caratteristico dell’esperienza del viaggiare. Di fronte alla diversità le reazioni possono essere plurime e compresenti: si va dal fascino, all’empatia, all’estraneità, fino a un senso di profonda inquietudine. Ciò che è radicalmente altro da noi sembra infatti voler mettere in discussione la nostra stessa identità, e le categorie attraverso le quali ci rapportiamo al mondo. Una reazione tipica di fronte all’alterità è l’assunzione di comportamenti autoprotettivi, la tendenza all’eliminazione del corpo estraneo; oppure il tentativo di conformarlo ai propri canoni: l’operazione di ricondurre ciò che non si riconosce all’interno di schemi abituali, anche a costo di semplificazioni estreme, è un comportamento tipico dell’uomo. Accettare un confronto reale con la diversità è difficile, non tanto per gli ostacoli di comprensione o di interpretazione, quanto perché 2
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l’alterità ci si pone davanti come uno specchio, ci obbliga a volgere lo sguardo verso noi stessi. Nell’immagine che ci viene agli occhi, i nostri confini risultano meno definiti di quel che avremmo immaginato, oggetto di una ridiscussione generale: arriviamo così alla verità difficile, secondo la quale l’io si costruisce solo in rapporto all’Altro. La letteratura ci fornisce un ampio spettro di queste relazioni e delle loro compresenze.
Con la dispensa, vogliamo proporvi un approfondimento tematico rispetto al programma d’italiano: il tema è quello del Viaggio e dell’Alterità. La lettura del dossier da parte vostra si configura come la prima parte di un percorso articolato in due fasi; la dispensa è infatti il supporto su cui innesteremo insieme un momento di dialogo, nella forma di un dibattito condotto all’interno di piccoli gruppi. A partire da questa finalità, si spiega la struttura delle pagine che seguono. Esse sono ripartite in varie sezioni corrispondenti a diversi periodi. Ciascuna di esse ospita poi al suo interno: un’introduzione storica; alcuni estratti da opere letterarie o da altre fonti, corredati da una proposta di riflessione (Per riflettere sui testi). Quest’ultima ha una forma mista: in parte commenta i brani riportati, in parte stimola il pensiero con alcune domande mirate. Questo particolare “commento-questionario” permette di incanalare la riflessione attorno a certi quesiti-guida, alcuni dei quali saranno poi ripresi in sede di dibattito; in questo modo creiamo una base comune su cui poter pensare insieme i temi del viaggio e dell’alterità a partire dai testi forniti. Chiudono il dossier alcune pagine dedicate a Strumenti metodologici (riflessioni su Orientalismo, Magia e razionalità e Straniamento) che possono risultare utili per approfondire la riflessione sul tema.
Cartografie Queste sono mappe molto antiche: sono le cosiddette mappae mundi e cercano di rappresentare il globo terrestre nella sua interezza. Sono tutte datate tra il XIV e il XVI ed esprimono la visione del mondo dell’Occidente. Sono mappe estremamente eloquenti: esibiscono una conoscenza geografica più limitata della nostra, ma anche molto diversa: i punti cardinali non sempre si trovano dove li conosciamo, le forme dei continenti sono abbozzate e imprecise, o appena accennate quando si tratta di terre conosciute da poco. 3
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La carta di Mercatore è, di queste, la più completa: mancano solo l’Oceania e terre ancora non esplorate del continente americano. È stata a lungo la mappa di riferimento per gli atlanti moderni ed è praticamente onnipresente, usata persino da GPS e Google Maps. Non si tratta tuttavia di una mappa definitiva: le forme sono molto realistiche, ma non le proporzioni tra le dimensioni dei continenti. Molte altre mappe hanno tentato di offrire un modello migliore, come quella di Peters, che mantiene inalterate le dimensioni dei continenti, restituendo la reale importanza geografica di terre economicamente marginali, come l’Africa. Ad ogni modo, essendo matematicamente impossibile mettere su carta una superficie sferica, nessuna mappa piana sarà mai perfetta: la rappresentazione geografica che abbiamo del mondo è sempre un prodotto della visione parziale che abbiamo di esso.
Il mappamondo cosiddetto di Fra Mauro, conservato alla biblioteca Marciana di Venezia, riporta le conoscenze geografiche in possesso dei veneziani attorno alla metà del XIV secolo. Di grandi dimensioni (circa 2 metri per 2), rappresenta uno ‘stato dell’arte’ all’alba delle grandi navigazioni oceaniche. Oltre all’ovvia mancanza di Americhe e Australia, e alla rappresentazione vaga del sud dell’Africa, salta subito all’occhio l’inversione dei punti cardinali.
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Il planisfero di Martin Waldseemüller, del 1507, è già molto più simile alle attuali rappresentazioni cartografiche. Compare qui per la prima volta il nome del nuovo continente, America, in onore di Amerigo Vespucci. Mezzo secolo più tardi, il planisfero di Mercatore fornisce la rappresentazione facilmente utilizzabile che costituisce la base della cartografia moderna.
La carta di Peters, invece, elaborata nei primi anni Settanta, rappresenta il mondo secondo le effettive estensioni dei diversi continenti, a discapito delle forme delle terre agli estremi nord e sud. La rappresentazione di un oggetto sferico su un piano, infatti, incontra inevitabili limiti fisici, ai quali è necessario sacrificare qualcosa.
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Il medioevo La geografia del Medioevo è una geografia fluida: non è precisa, non si fonda su criteri scientifici e non è nemmeno una disciplina autonoma. Serviva infatti come strumento per le navigazioni e aveva una funzione prevalentemente commerciale: stabilire la posizione dei porti, la forma delle isole e dei mari navigabili, le rotte principali. Si tratta insomma di una geografia che non ha pretese di totalità, ma che considera e raffigura su mappa solamente ciò che già conosce e che considera rilevante. È inoltre una disciplina che risente di molti limiti tecnici, che oggi sono stati largamente superati: per noi è infatti possibile sia navigare senza visibilità, di notte o in mare aperto, sia vedere la terra dall’alto con aerei o satelliti, ma il Medioevo non conosceva nulla di tutto ciò. Non era possibile avere una visuale aerea della terra, se non da montagne particolarmente alte; né era possibile navigare allontanandosi dalla costa, perché mancavano i mezzi tecnici (la bussola o, più modernamente, il GPS) per potersi avventurare in mare aperto senza punti di riferimento visibili. Così limitata, era una geografia “prudente” e centrata sul mondo già conosciuto. Si pensava per esempio che le zone a sud dell’equatore fossero insostenibilmente calde, tanto da incendiare le navi che vi si fossero inoltrate, e si credeva che oltre le colonne d’Ercole (cioè lo stretto di Gibilterra), non vi fosse nulla se non oceano... Confini ovviamente non reali, ma giustificati dal fatto che nessuno vi si era mai avventurato, e che quindi venivano dati per buoni. Si vede come questa geografia non abbia nessun criterio moderno di osservazione e di studio (in una parola: non è scientifica), ma si basi soprattutto su conoscenze pregresse, provenienti dal mondo classico o da quello biblico, le quali vengono date per buone e difficilmente vengono messe in discussione. Il prossimo testo è un esempio tipico di questa difficoltà.
In questo primo brano è riportato un passo dal Milione di Marco Polo, un mercante ed esploratore veneziano che intraprese con il padre e lo zio un viaggio verso oriente, partendo nel 1271. Arrivato in Cina, incontrò Kubilai Khan, e ne divenne ambasciatore e consigliere. Marco Polo ritornò a Venezia solo dopo 17 anni; catturato e imprigionato dai genovesi durante una battaglia, dettò il racconto del suo incredibile viaggio al compagno di cella, Rustichello da Pisa, che scrisse Il Milione in francese, lingua d’uso a quei tempi. In questo episodio Marco Polo si trova a Giava, in Indonesia, e descrive gli animali che vede per la prima volta in vita sua.
Ora v’ho contato di Ferbet, ora vi conterò di Basma. Lo reame di Basma, ch’è all’uscita di Ferbet è reame per sé, e loro linguaggio proprio: e’ non hanno niuna legge, sono come bestie: eglino si richiamano per lo Gran Cane, ma non gli fanno niuno trebuto, perché sono sie alla lunga1, che la gente del Gran Cane non vi potrebbe andare; ma alcuna volta lo presentono d’alcuna cara cosa. Egli [gli abitanti dell’isola di Giava] hanno leonfanti2 assai salvatichi, e unicorni, che non son guari3 minori che leonfanti, e son di pelo di bufali e piedi come leonfanti; nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso. E dicovi che non fanno male con quel corno, ma co’ la lingua, che l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi; lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso terra, ed istà molto volentieri tra li buoi.4 Ella è molto laida5 bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella6, ma è ‘l contradio. [...] (pp. 73-74)
Marco Polo, Il Milione, a cura di Ranieri Allulli, Mondadori, Milano, 1964
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Alla lunga: lontano. leonfanti: elefanti. 3 guari: molto. 4 Il traduttore ha scambiato il fango per «buoi». 5 laida: brutta, sozza, deforme. 6 che si lasci prendere a la pulcella: che si lasci cavalcare da ragazza o che le sia affine. 2
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PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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L’unicorno è un animale fantastico tipico dell’immaginazione medievale, spesso rappresentato in libri e racconti popolari. Nel suo viaggio in Asia, Marco Polo vede per la prima volta un animale che non conosce, e lo collega istintivamente all’unicorno di cui parlano le leggende. Eppure non è come si dice: è un animale brutto, sta nel fango, e non si fa certo cavalcare da giovani ragazze. Che animale ha visto in realtà Marco Polo? Marco Polo si rende conto che gli unicorni non sono come immaginava. Il suo viaggio allora è anche una scoperta e una lezione: non sempre tutto è come si immagina da casa propria. Che effetto potrà aver avuto, secondo te, il viaggio in Asia su Marco Polo e sulle sue idee?
Dante Alighieri, di soli 11 anni più giovane, è praticamente contemporaneo di Marco Polo. Anche la Divina Commedia, fra le altre cose, è una relazione di un viaggio molto particolare, quelli dell’anima e della conoscenza; al suo interno, inoltre, sono presenti alcune figure di viaggiatori, fra le quali domina quella di Ulisse. Metà del XXVI canto dell’Inferno è dedicato all’ultima navigazione dell’eroe omerico. Il signore di Itaca è collocato nella bolgia dei fraudolenti come orditore di frode: la sua colpa sta nell’inganno del cavallo, cui tuttavia qui non si fa mai cenno. Tutto il suo discorso è incentrato sull’ultimo viaggio, sull’«ardore/ch’i ebbi a divenir del mondo esperto».
85 Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica;
88 indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando
91 mi diparti' da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,
94 né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né 'l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta,
97 vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;
100 ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.
103 L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi, e l'altre che quel mare intorno bagna.
106 Io e ' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov' Ercule segnò li suoi riguardi
109 acciò che l'uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l'altra già m'avea lasciata Setta.
112 "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia
115 d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente.
118 Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza".
121 Li miei compagni fec' io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;
124 e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
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127 Tutte le stelle già de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo.
130 Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
133 quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.
136 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto.
139 Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com' altrui piacque,
142 infin che 'l mar fu sovra noi richiuso». Inferno, XXVI Le edizioni commentate della Divina Commedia forniscono, per il ventiseiesimo dell’Inferno, un ampio riscontro delle fonti da cui Dante trae materiale, ma anche di quelle che ignora. A fine ‘200, in Europa, non era conosciuta l’Odissea, la cui tradizione era perduta; sembra inotlre che Dante, al contrario invece di molti suoi contemporanei, non conoscesse di prima mano nemmeno le numerose riscritture ‘romanzesche’ provenienti dalla latinità. Aveva presente invece i riferimenti ad Ulisse di alcuni autori romani: i primi nomi sono quelli di Cicerone ed Orazio, di cui è facile individuare una eco . 7
Oggi il lettore conosce il poema omerico, e immagina un Ulisse tornato a casa; lo vede solo in un secondo momento, spinto da un’immensa brama di conoscenza, abbandonare la propria famiglia, riunire i compagni e riprendere la navigazione. Tuttavia, leggendo bene, nel canto della Commedia Ulisse non torna a Itaca: Dante non conosceva Omero, non sapeva come andava a finire la navigazione, ipotizza così un altro finale. La fantasia del poeta nell’immaginare la navigazione oceanica di Ulisse si intreccia al dato storico: alla fine del XIII secolo, infatti, lo stretto di Gibilterra – le Colonne d’Ercole – non rappresenta più un limite ultimo, da non oltrepassare. I contatti con le Canarie sono avviati, e le flotte di galee europee muovono alcuni timidi passi lungo la costa occidentale dell’Africa. Fra gli altri, un fatto sembra echeggiare nella narrazione dantesca: la spedizione dei fratelli Vivaldi, partita da Genova nel 1291 con due navi e trecento marinai. Così riportano le cronache dell’epoca:
Nello stesso anno 1291 Tedisio Doria, Ugolino Vivaldi ed il fratello con alcuni altri cittadini genovesi vollero compiere alcuni viaggi da niun altro prima di loro tentati. Furono a questo fine armate due galere e provviste di acqua, di vettovaglie e di altre cose necessarie, e nel mese di viaggio veleggiarono verso lo stretto di Conta (Gibilterra) donde navigando per l'Oceano doveano condursi nell'India per 7
Orazio, Epistole, I 2, 17: «Di ciò che possano fare la virtù e la sapienza / Ulisse ci offrì un utile esempio».
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stabilirvi proficui commerci. — Salirono nelle navi i due fratelli Vivaldi in persona […] e due frati minori. Ciò che destò grande ammirazione negli spettatori non solo, ma anche fra coloro che ne udirono il racconto. — Dopo che le navi passarono la località detta Gozora non se ne ebbe più novella. La partenza delle due navi dei Vivaldi suscitò una grande aspettativa fra i contemporanei, che non poteva essere ignorata da Dante. Tuttavia, delle navi non si sa più nulla: dopo aver oltrepassato Gibilterra, le tracce della navigazione si perdono, inghiottite da mari sconosciuti. Probabilmente, avranno pensato i contemporanei, in prossimità di uno dei tanti promontori, capo Bojador o Capo Bianco, pericolosissimi da oltrepassare a causa delle forti correnti. Nell’immaginario dantesco, la sorte sconosciuta ma certo tragica toccata all’equipaggio e ai due fratelli, spinti dalla curiosità – e, soprattutto, dalla promessa di guadagni – oltre quanto fosse lecito, è di ispirazione per il folle volo di Ulisse, e si riflette nel XXVI dell’Inferno. Da questo naufragio nasce, inventata da Dante, la figura moderna dell’esploratore.
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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«Seguir virtute e canoscenza»: sono fra le parole più celebri della Divina commedia, e a ragione. Che cosa doveva pensare l’uomo medievale, chiuso nel Mediterraneo, della possibilità – fino ad allora intentata, o fallita – di esplorare l’Atlantico? A cosa equivale, secondo te, la «virtute» dantesca? Quali ragioni invece muovono i fratelli Vivaldi? Possono le due cose sovrapporsi? L’Ulisse di Dante è un personaggio sfaccettato, che per la sua forte tensione ha affascinato generazioni di lettori. Quale ti sembra la postura di Dante verso il personaggio di Ulisse? È univoca la sua posizione, o è diversificata? Per quale motivo secondo te alla fine la nave dell’eroe omerico fa naufragio, «com’altrui piacque», ossia secondo il volere divino?
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L’età delle scoperte geografiche Fra XV e XVI secolo, nel giro di 150 anni, l’orizzonte dell’Europa si allarga, a est e soprattutto ovest. Le scoperte geografiche portano, in un paio di secoli, a una prima globalizzazione: estremamente modesta, dal nostro punto di vista, ma sconvolgente per chi si trovò a viverla. Tra Cinquecento e Ottocento, le nazioni europee giunsero a colonizzare la maggior parte delle terre emerse; l’imperialismo economico e culturale, tuttavia, non restò senza conseguenze per quanto riguarda l’identità degli europei, che si trovò messa alla prova dal confronto con l’altro. Alterità: «il carattere di ciò che è o si presenta come “altro”, cioè come diverso, come non identico» [Treccani]. L’orizzonte stabile della cultura occidentale e cristiana viene sconvolto dall’incontro col diverso, che da qui in poi si farà carico, volta per volta, di affascinare, incutere timore, evocare una dimensione di purezza, rappresentare l’eresia: in questo modo però obbligando ogni volta gli europei a una ridefinizione, per confronto o per rifiuto, della propria identità. La sorte dei fratelli Vivaldi, che abbiamo visto nello scorso paragrafo, inaspettatamente non era segnata. Il viaggio continuò, non si sa esattamente per quali rotte; nel mezzo dello Zimbawe, nell’Africa sud-occidentale, a inizio Novecento venne ritrovata un’iscrizione: VV AD 1294, le iniziali di Vadino Vivaldi, e una data che parla di un viaggio di almeno tre anni. L’altra testimonianza è invece di metà Quattrocento, e ci viene da una lettera di Antoniotto Usodimare.
[…] Ma in tutto ne restavano leghe 300 di terra per giungere alla terra del Prete Gianni8, non dico alla sua persona, ma sì al principio del territorio di lui; […] ; ed ivi trovai uno della nostra nazione, credo di quelli della galea Vivaldi, la quale si perdette or sono 170 anni, il quale mi disse come afferma questo segretario, che della stirpe di lui non restava che egli solo, il quale mi parlò degli elefanti, degli unicorni, del zibetto e di altre cose stranissime e d’uomini con la coda che mangiavano i figlioli. A. da Mosto, A. Usodimare, N. da Recco, Le navigazioni atlantiche, Istituto editoriale italiano, 1956, p. 64. L’autore della lettera fa parte della seconda spedizione di Alvise Ca’ da Mosto, un veneziano che fra 1455 e 1456, al servizio del principe portoghese Enrico il Navigatore, contribuì all’esplorazione della costa Africana, seguendo per primo il corso del fiume Gambia e scoprendo le Isole di Capo Verde, a ovest del Senegal. Al di là delle scoperte, l’importanza di Alvise Ca’ da Mosto è un’altra: l’esploratore è infatti l’autore della prima relazione ampia e divulgata sulle nuove scoperte geografiche, destinata ad avere un buon successo di pubblico (fu stampata una prima volta nel 1506, una seconda nel 1550). L’importanza delle prime relazioni di viaggio è enorme, moltiplicata dalla diffusione della stampa, che proprio fra ‘400 e ‘500 si affermava quale primo vero mezzo di comunicazione di massa. Diari e resoconti di viaggio forniscono agli europei le prime categorie per interpretare l’altro, il diverso, destinate a durare e a stratificarsi in tópoi e pregiudizi. Rispetto alle isole della costa africana, e in particolare alle Canarie, Alvise Ca’ da Mosto fa diversi rilievi, destinati a dare forma all’immaginario.
Produce cera e mele, ma non in quantità: vi nascono vini assai bonissimi, secondo l’abitazion nuova; e sono tanti, che bastano per quelli dell’isola, e se ne navigano ancora fuori assai. Fra le viti il detto signor fece metter piante, ovvero rasoli, di malvasie, che mandò a torre in Candia, le quali riuscirono molto bene, e per esser il paese tanto grasso e buono, le viti producono quasi più uva, che foglie: e li raspi sono grandissimi, di lunghezza di due palmi e di tre, e ardisco a dire anco di quattro; ch’è la più bella cosa del mondo da vedere. Sonovi eziandio uve nere di pergola senza ciollo, in tutta perfezione. E fansi 8
Quella del prete Gianni è una leggenda medievale dotata di grandissima diffusione. Il P.G. sarebbe un monarca cristiano di un regno posto oltre i domini mussulmani, e quindi un possibile alleato per gli stati occidentali. Se negli anni delle crociate si tende a immaginarlo in Asia, con la circumnavigazione dell’Africa il regno del P.G. viene a coincidere col regno cristiano d’Etiopia – come in questo caso.
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in detta isola archi di nasso bellissimi e buoni, e navigansene in ponente; e anco bellissimi fusti da balestra e fusti da teniere. Truovansi in quella pavoni selvatici, fra li quali ve ne sono di bianchi; e pernici: né altre selvaticine hanno, salvo quaglie, e copia di porci selvatichi alle montagne. […] In questa isola hanno fra loro nove signori, chiamati duchi: non sono signori per natura, che succeda il figliuolo al padre; ma chi più può è signore. E fanno alle volte fra loro guerre, ammazzandosi come bestie. Non hanno altre armi, che pietre, e mazze a modo di dardi, e alla punta mettono un corno aguzzo in luogo di ferro: le altre che non hanno corno sono abbruciate nella punta, e fassi quel legno duro come ferro; e con quello offendono. Vanno sempre nudi; salvochè alcuni pur si mettono certe pelli di capra, una davanti, l’altra didietro: e ungonsi la carne di sevo di vecco composto con sugo d’alcune loro erbe, che ingrossa la pelle, e difende dal freddo; benché poco freddo regni in quelle parti, per essere verso l’ostro. Non hanno case di muro né di paglia: stanno in grotte, ossia in caverne di montagne, vivono d’orzo e di carne, e latte di capra, di che ne hanno abbondanza; e di alcuni frutti, spezialmente di fichi. E per esser il paese molto caldo, raccolgono le sue biade nel mese di Riquadro dedicato ad Alvise Ca’ da Mosto al Palazzo marzo e d’aprile. Ducale, Venezia Non hanno fede; ma adorano, alcuni il sole, altri la luna e altri pianeti; e hanno nuove fantasia d’idolatria. Le femmine sue non sono comuni; ma a ciascuno è lecito pigliarne quante ne vuole: non torriano femmine vergini, se prima non dormissero col signor suo una notte; e questo reputano grande onore. A. da Mosto, A. Usodimare, N. da Recco, Le navigazioni atlantiche, Istituto editoriale italiano, 1956, p. 178.
Nel mezzo di una vegetazione lussureggiante, in grado di rifornire l’uomo di tutto il desiderabile, senza fatica, si aggirano indigeni nudi e forti: essi non conoscono le categorie morali occidentali e, agli occhi dei primi navigatori, sembrano dominati dagli istinti. Le Canarie erano storicamente abitate dal popolo dei Guanci, soggiogato dagli europei nel corso del XV secolo; erano inoltre al centro di una serie di leggende. Probabilmente conosciute fin dall’età classico-romana, nel medioevo esse risultavano irraggiungibili, ‘perdute’: venivano fatte coincidere con le Isole Fortunate, o addirittura con il paradiso terrestre. Dall’ibridazione della tradizione con i resoconti di viaggio probabilmente attinse Torquato Tasso per la descrizione del Giardino di Armida, nella Gerusalemme liberata. Tasso è un autore fortemente condizionato dalla Controriforma, che impose una stretta di rigore morale al cattolicesimo. Nella sua opera, i valori del corpo, della fisicità, del piacere e dell’eros non appartengono mai agli eroi cristiani: in quanto negativi appartengono al campo avverso, ai mussulmani con cui i cristiani combattono per la conquista di Gerusalemme. Le descrizioni che il poeta ne fornisce, tuttavia, rivelano una segreta attrazione, che culmina nel ‘Giardino di Armida’. Carlo e Ubaldo, cavalieri cristiani, sono inviati a liberare Rinaldo, prigioniero sulle Isole Fortunate degli incantesimi e delle delizie della maga musulmana Armida. Essi sono sottoposti a diverse seduzioni, che devono superare per riscattare il paladino. L’attrazione che le Isole Fortunate e più in generale l’altrove esercitano deve essere sconfitta dall’europeo per far trionfare la civiltà.
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Canto XV 57 «Ecco il fonte del riso, ed ecco il rio che mortali perigli in sé contiene. Or qui tener a fren nostro desio ed esser cauti molto a noi conviene: chiudiam l’orecchie al dolce canto e rio di queste del piacer false sirene, cosí n’andrem fin dove il fiume vago si spande in maggior letto e forma un lago.»
13 Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari ed ha purpureo il rostro, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sí ch’assembra il sermon nostro. Questi ivi allor continovò con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro. Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti.
58 Quivi de’ cibi preziosa e cara apprestata è una mensa in su le rive, e scherzando se ‘n van per l’acqua chiara due donzellette garrule e lascive, ch’or si spruzzano il volto, or fanno a gara chi prima a un segno destinato arrive. Si tuffano talor, e ‘l capo e ‘l dorso scoprono alfin dopo il celato corso.
14 «Deh mira» egli cantò «spuntar la rosa dal verde suo modesta e verginella, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è piú bella. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega; ecco poi langue e non par quella, quella non par che desiata inanti fu da mille donzelle e mille amanti.
59 Mosser le natatrici ignude e belle de’ duo guerrieri alquanto i duri petti, sí che fermàrsi a riguardarle; ed elle seguian pur i lor giochi e i lor diletti. Una intanto drizzossi, e le mammelle e tutto ciò che piú la vista alletti mostrò dal seno in suso, aperto al cielo; e ‘l lago a l’altre membra era un bel velo.
15 Cosí trapassa al trapassar d’un giorno de la vita mortale il fiore e ‘l verde; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde. Cogliam la rosa in su ‘l mattino adorno di questo dí, che tosto il seren perde; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando.»
Canto XVI 9 Poi che lasciàr gli aviluppati calli, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: acque stagnanti, mobili cristalli, fior vari e varie piante, erbe diverse, apriche collinette, ombrose valli, selve e spelonche in una vista offerse; e quel che ‘l bello e ‘l caro accresce a l’opre, l’arte, che tutto fa, nulla si scopre.
16 Tacque, e concorde de gli augelli il coro, quasi approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian le colombe i baci loro, ogni animal d’amar si riconsiglia; par che la dura quercia e ‘l casto alloro e tutta la frondosa ampia famiglia, par che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi d’amor sensi e sospiri.
Torquato Tasso, Gerusalemme liberata
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PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
Quali sono i tratti che, della descrizione delle Canarie, si sono depositati nelle ottave della Gerusalemme liberata? Secondo te come mai tali caratteri colpirono a tal punto i viaggiatori e gli autori europei? Rifletti sulle ottave di Tasso: quale ti sembra la posizione del poeta rispetto al Giardino di Armida? Come dovremmo porla in relazione con la sua posizione ideologica, cattolico all’interno dell’austera controriforma? A parlare, nelle ottave di Tasso, è un pappagallo, il «mirabil mostro» Che cosa rappresenta? Qual è il senso del suo discorso?
È la scoperta dell’America a segnare la svolta radicale rispetto alla concezione dell’altro. Quando Cristoforo Colombo, nel 1492, giunge a San Salvador, è convinto di essere arrivato in Asia; con lui ha una copia del Milione di Marco Polo. Dalle pagine di diario dei primi giorni nel nuovo continente emergono nuovamente i tratti che caratterizzeranno la rappresentazione europea del selvaggio: gli uomini sono ingenui, placidi, nudi, imbelli. Tuttavia, in questo momento, la situazione degli europei non è davvero differente: c’è un gap tecnologico, per quanto riguarda armamenti e navi, ma dal punto di vista della comprensione nemmeno Colombo si rende conto di chi si trova davanti. In questo e nei viaggi successivi si spende in inutili sforzi per identificare il Cipango e il Catai, per capire le gerarchie di una società dai criteri altri, per evangelizzare gli indigeni.
[...] Ed essi poi venivano a nuoto alle scialuppe delle navi dove noi eravamo, e ci portavano pappagalli e filo di cotone in gomitoli e zagaglie9 e molte altre cose, e le scambiavano con altre che noi davamo loro, come perline di vetro e sonagli. Insomma, prendevano tutto e davano di cuore quello che avevano; ma mi parve che fosse gente molto povera di tutto. Vanno tutti nudi come la madre li ha fatti, e anche le donne [...], erano giovani, giacché non vidi alcuno di età superiore a XXX anni, molto ben proporzionato, bellissimi di corpo e dal volto assai gradevole, i capelli spessi quasi come crini di coda di cavallo e corti. Portano i capelli tagliati sulle sopracciglia, salvo un ciuffo che portano lungo dietro, che non tagliano mai. Certi si dipingono di scuro, e sono del colore degli abitanti delle Canarie, né neri né bianchi, altri si dipingono di bianco e altri di rosso e altri di quello che trovano; e certi si dipingono il volto, e altri tutto il corpo, e altri solo gli occhi o solo il naso. […] Essi devono essere buoni servitori e di buon ingegno, perché vedo che ripetono subito tutto ciò che dico loro. E credo che facilmente possono farsi cristiani, perché mi è parso che non avessero alcuna religione. Piacendo a Nostro Signore, al momento della partenza ne porterò con me sei alle Vostre Altezze, perché apprendano a parlare. [...] questa gente non ha alcuna religione, né sono idolatri, anzi molto miti e non sanno cosa sia il male né uccidere altri uomini né catturarli, e senza armi e così timorosi che cento di loro fuggono davanti a uno dei nostri, anche se facciamo per scherzo, e creduli e sanno che c’è Dio in cielo, e convinti che noi siamo venuti dal cielo, e molto ricettivi a qualsiasi preghiera diciamo loro di dire e fanno il segno della croce. Cristoforo Colombo, Giornale di bordo del primo viaggio, BUR, Milano, 1997, pp. 68-71, 107.
[...] Il trentatreesimo giorno dopo la mia partenza da Cadice, sono giunto nell’oceano Indiano, dove ho trovato moltissime isole abitate da gente innumerevole, e di tutte ho preso possesso in nome del nostro felicissimo re con pubblico proclama e con la bandiera spiegata, senza incontrare opposizione
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zagaglia: arma da urto e anche da lancio, simile alla lancia ma di dimensioni più ridotte.
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alcuna; e alla prima ho imposto il nome di quel Santo Salvatore nel cui aiuto confidando siamo giunti sia a quest’isola, sia a tutte le altre: gli Indiani, invero, la chiamano «Guanahanì». (p. 147) A tutti dimostrano inequivocabilmente grandissimo amore, offrendo grandi doni in cambio di piccoli, accontentandosi anche di una piccolissima cosa o di niente; cionondimeno, io ho vietato che si dessero loro cose tanto piccole o di nessun valore, come, ad esempio, dei frammenti di scodelle, di piatti e di vetro, o anche dei chiodi e delle stringhe, sebbene quando potevano giungere a tanto, a loro sembrasse di possedere i più bei gioielli del mondo. È infatti accaduto che in cambio di una stringa un marinaio ricevesse tanto oro quanto solo tre soldi d’oro, e lo stesso è accaduto ad altri per altre cose di minor valore [...]. Cristoforo Colombo, La lettera della scoperta. Febbraio-Marzo 1493, Liguori, 1992, p. 153.
Venticinque anni dopo la situazione è completamente differente. Gli spagnoli hanno assunto il controllo stabile su Cuba, sanno che non si trovano in Asia ma in un continente del quale non era prevista l’esistenza, e hanno iniziato a conoscere la mentalità indigena. Quando Hérnan Cortés, con 608 uomini, affronterà l’impero azteco forte di una popolazione di 20 milioni di individui, non saranno i pochi cavalli o le armi da fuoco a garantire la vittoria: è la comprensione dell’altro a giocare il ruolo fondamentale. Cortés conosce l’organizzazione statale, le divisioni interne e le credenze delle popolazioni mesoamericane, ed è in grado di sfruttarle; gli aztechi, viceversa, non comprendono natura e intenzioni degli invasori, credendo di trovarsi davanti al ritorno di Quetzalcoatl, divinità dalla forma di serpente piumato, di cui parlano le leggende. Di conseguenza, gli strumenti con i quali interagire con gli spagnoli sono il rito e la magia. La mancata comprensione di natura e intenzioni del nemico condanna alla sconfitta. Di seguito, riportiamo uno stralcio del Codice fiorentino, che contiene testimonianze azteche sulla conquista raccolte negli anni ’40 del XVI secolo da alcuni missionari.
Subito, in quello stesso momento, Motecuhzoma inviò messaggeri, inviò ogni sorta di non-uomini: indovini, maghi; inviò capitani, forti, intrepidi; ad essi affidò il compito di soddisfarne ogni bisogno. Dovevano rifornirli di ogni bene: di tacchine, di uova, di focacce bianche di mais, e di tutto quanto essi potessero desiderare; e ordinò loro di prendersi cura di ciò con cui, allora, il loro cuore si sarebbe appagato; ed inviò prigionieri di guerra, pronti ad essere uccisi nel caso ne bevessero il sangue. E così hanno fatto i messaggeri. Ma, quando gli Spagnoli hanno veduto ciò, hanno provato grande disgusto; hanno sputato, si sono sfregati gli occhi, li hanno sgranati; sbigottiti, hanno scosso il capo. Il cibo, di sangue l’avevano lordato i messaggeri, di sangue lo avevano asperso. Di ciò gli Spagnoli hanno provato grande disgusto, molto li ha repugnati e così hanno trovato il sangue intollerabilmente fetido. Ed egli aveva agito in tal guisa, lui, Motecuhzoma, perché li teneva per dèi, per dèi li aveva scambiati. Per questo, erano detti: gli «dèi-venuti-dal-cielo»; e gli uomini neri furono detti gli «dèi-sporchi».
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Subito, hanno mangiato focacce bianche di mais, mais in grani, uova di tacchina, tacchine, ed ogni sorta di frutta […]. Ed ecco perché Motecuhzoma ha inviato i maghi, gli indovini: perché appurassero quale fosse la natura dei nuovi venuti e se fosse possibile operare incantesimi contro di loro, praticar sortilegi, soffiar su di loro, ammaliarli; o ancora, farli bersaglio di un lancio di pietre; o se con parole di uomini-gufo, potessero dar loro la morte, o ancora, farli recedere, tornare di dove eran venuti. Ma costoro hanno fatto quanto richiesto, hanno usato le loro magie contro i nuovi venuti; soltanto, in quel momento, avevano perduto ogni potere, nulla gli è riuscito di fare.
Illustrazioni tratte dal Codice Fiorentino
Subito, allora, si sono affrettati a tornare, sono venuti a riferire a Motecuhzoma qual fosse la loro natura, e quanto grande il loro potere: «Noi non siamo della loro natura, è come se non fossimo nulla». Tratto dal Codice fiorentino, Libro XII, capitolo VIII
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
Che cosa ti colpisce dell’estratto di Colombo? Qual è il suo rapporto con gli indigeni, cosa capisce di loro? Quali sono le caratteristiche su cui, nella sua relazione, si sofferma?
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Contro che cosa si scontrano gli inviati dell’imperatore azteco Montezuma? Quali sono le strategie che mettono in atto per comunicare e per contrastare gli invasori? Quale è il loro giudizio sui nuovi arrivati?
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I capostipiti della letteratura coloniale Ci sono due opere che, a distanza di un centinaio di anni l’una dall’altra, inaugurano il racconto del rapporto “io – altro” nella letteratura moderna occidentale: The Tempest di Shakespeare e Robinson Crusoe di Defoe. La successiva letteratura coloniale continuerà infatti a confrontarsi con questi due modelli originari, con il loro modo di rappresentare la diversità e con le strategie di dominio sull’Alterità che prospettano. Sia Prospero, protagonista del testo teatrale shakespeariano, sia Robinson, approdano su un’isola a seguito di un naufragio. Il viaggio, deviato dal potere del caso, li abbandona naufraghi di fronte allo sconosciuto. I protagonisti, ad ogni modo, non si lasciano andare alla deriva (psicologica e morale: la pazzia e la perdita della misura), non si fanno contagiare dal mondo barbaro, ma trovano gli strumenti per dominarlo, imponendo in tal modo la propria superiorità pratica e morale sul contesto. Quando entrano in contatto con il selvaggio, rappresentato nei rispettivi testi dai personaggi di Caliban e Venerdì, sono in grado di piegarlo ai valori e alla mentalità europea. L’imposizione del punto di vista occidentale sulla diversità viene letta quindi in luce decisamente positiva. È interessante però notare la differenza fra le tipologie di dominio prospettate nelle rispettive opere, segno del periodo storico-culturale differente in cui furono scritte. Shakespeare, che si colloca fra il Cinquecento e il Seicento, mentre ancora si deve diffondere la rivoluzione scientifica e il pensiero razionale alla base del progresso, usa la magia come elemento ordinatore del caos della diversità: Prospero è un mago e i suoi incantesimi tengono in scacco l’isola e i suoi abitanti. I sortilegi sono formulati grazie all’uso della parola, che i selvaggi non conoscono. Shakespeare parla quindi di una superiorità principalmente culturale, rappresentata nel testo dalla funzione della parola, che giustifica il potere dell’uomo bianco rispetto all’Altro. Defoe, invece, centodieci anni dopo, ci narra di un dominio reso possibile in primo luogo dalla tecnica: le armi che terrorizzano gli indigeni, le recinzioni che gli permettono di allevare animali e sopravvivere, l’abilità manuale nel costruire oggetti… Ad ogni modo, sia in The Tempest che in Robinson Crusoe il punto di vista coloniale pare affermarsi pienamente, senza i dubbi e i sensi di colpa che caratterizzeranno invece i testi del tardo imperialismo. Eppure, a ben guardare, le prime ombre e ambiguità del rapporto che l’Europa ha stabilito con il diverso da sé, si potrebbero già intravedere all’interno di queste pagine.
La tempesta è forse l’ultima opera di Shakespeare. In un’atmosfera magica e malinconica, in bilico fra sensibilità rinascimentale e barocca, narra la storia di Prospero, duca di Milano spodestato dal fratello Antonio, esiliato su un’isola assieme alla figlia Miranda. Al loro sbarco i due trovano il selvaggio Caliban, figlio di una strega mussulmana (come Armida in Tasso): dopo un tentativo di europeizzazione, cui segue una ribellione, il ‘selvaggio’ viene soggiogato dal nobile, in grado di dominare la magia e gli elementi. Queste abilità gli consentono anche di evocare una tempesta, causando il naufragio del fratello assieme al duca di Napoli, Alfonso. Scatta così il meccanismo narrativo che porterà alla riconciliazione di Prospero con Antonio, nonché allo sposalizio di Miranda col figlio del re di Napoli, dunque alla riappacificazione dei due regni.
CALIBAN Addosso a tutti e due cadano gocce Di brina maligna come quella Che mia madre da una palude marcia Con penna di corvo coglieva! Che un vento di scirocco possa soffiare su di voi E riempirvi di piaghe! PROSPERO Per questo, ti assicuro, stanotte Avrai crampi e fitte nei fianchi Da toglierti il fiato. Spiriti malvagi In forma di porcospini verranno Nella vastità della notte a tormentarti, Ti copriranno di buchi più fitti
Delle celle di un alveare. E ogni puntura Sarà più dolorosa di quella delle api. CALIBAN Prima devo mangiare. Quest’isola è mia. Mi venne Da Sycorax, mia madre. E tu me l’hai presa. Appena arrivato mi accarezzavi E mi tenevi nel cuore, Mi davi acqua con dentro i mirtilli E mi insegnavi a nominare La luce più grande e quella più piccola Che bruciano di giorno e di notte – Allora ti amavo, e ti mostravo 16
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Tutte le qualità dell’isola, Le sorgenti d’acqua dolce, I fossi d’acqua salata, I luoghi sterili e quelli fertili… Maledetto me per averlo fatto! Che tutti gli incantesimi di Sycorax, Rospi, scarafaggi, pipistrelli, Vi cadano addosso! Perché ora Io sono tutti i sudditi che avete, Io che prima ero il mio proprio re. E voi mi stipate In questa dura roccia. Da tutto il resto dell’isola Mi avete escluso. PROSPERO Tu, schiavo bugiardo, Che solo la frusta commuove, Mai la dolcezza! Io ti ho trattato, letame che sei, Con cura umana. Ti ho dato una casa Nella mia stessa grotta Finché un giorno hai tentato di violare L’onore di mia figlia!
MIRANDA Odioso schiavo, su cui nessuna Impronta di bontà potrà fermarsi: Solamente di male sei capace. Io ho avuto pietà di te. Mi sono sforzata di farti parlare E ogni ora ti insegnavo Una cosa o l’altra. Quando tu, selvaggio, Non conoscevi ciò che pensavi Ma balbettavi come un bruto, Io ho dato alle tue intenzioni Parole che te le fecero conoscere. Ma la tua razza abbietta, anche se imparavi, Aveva in sé qualcosa che le nature buone Non possono tollerare. E perciò giustamente Sei stato confinato in questa roccia, Tu che meritavi assai più di una prigione. CALIBAN Mi avete insegnato A parlare come voi: e quel che ho guadagnato È questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa Per avermi insegnato la vostra lingua!
CALIBAN Oh! Magari l’avessi fatto. Tu me l’hai impedito, Avrei popolato quest’isola Di tanti Calibani. Shakespeare, La tempesta, Garzanti 2007, pp. 39-43.
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
Quali sono le paure profonde rispetto all’altro che troviamo in questo testo? Rifletti anche sul nome stesso di Caliban. Qual è lo strumento che sembra in grado di tenerle a bada? Le intenzioni di Miranda e di Prospero sembrano essere positive: hanno tentato di educare il selvaggio, di fornirgli gli strumenti per stare alla pari con loro. Cosa hanno chiesto in cambio? Perché hanno fallito? Caliban ha imparato a usare il linguaggio, lo strumento che Prospero e Miranda gli hanno fornito, contro loro stessi. Che cosa significa questo? Che cosa vuol dire avere il controllo delle parole, saper nominare le cose?
Daniel Defoe fu un commerciante e giornalista londinese vissuto fra il 1660 e il 1731. Nel 1719 abbandonò la professione di giornalista per dedicarsi alla scrittura di romanzi. Protagonisti delle sue opere sono uomini e donne della classe borghese, dei quali vengono messe in risalto le doti di intraprendenza e operosità. Il suo romanzo più celebre è La vita e le strane avventure di Robinson Crusoe (1719). Robinson, a soli 19 anni, si imbarca su una nave per cercare fortuna nel Nuovo Mondo; dopo una serie di disavventure, riesce a fondare una piantagione in Brasile. Tuttavia, durante una traversata verso
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la Guinea, dove è diretto per comprare schiavi per la sua piantagione, la sua nave fa naufragio e lui approda, unico superstite, su un’isola deserta. Il suo ingegno e gli strumenti recuperati dal relitto della nave gli permettono di ricostruire, nella selva, le basi materiali della civiltà e di sopravvivere in totale solitudine per venticinque anni. Incontrerà poi un selvaggio, Venerdì, che diverrà suo fedele schiavo e amico, al punto che al suo ritorno a Londra lo porterà con sé.
Alla fine, appoggiò la fronte a terra, vicino al mio piede e si pose l’altro mio piede sul capo, come aveva fatto prima; e, dopo di questo, fece tutti gli atti immaginabili di sottomissione, per farmi capire che mi avrebbe servito per tutta la vita; lo compresi in gran parte e gli feci capire che ero molto contento di lui; poco dopo, cominciai a parlargli e gli dissi che il suo nome sarebbe stato Venerdì, che era il giorno in cui gli avevo salvato la vita […] poi gli insegnai a dire “padrone” e gli spiegai che quello era il mio nome […]. Rimasi lì con lui tutta la notte; ma, appena spuntò il giorno gli accennai di venire con me e gli feci capire che gli avrei dato dei vestiti, e di ciò parve contento, perché era nudo bruco. […] Il giorno dopo che ero tornato alla mia casina con lui, cominciai a pensare dove lo avrei alloggiato; e, per trattarlo bene, pur rimanendo perfettamente tranquillo, gli feci una piccola tenda nello spazio fra le mie due fortificazioni, al di qua della seconda e al di là della prima; e siccome c’era una porta di ingresso alla grotta, feci un’intelaiatura con la cornice per una porta, e una porta di assi e la adattai nella galleria, un po’ all’interno dell’ingresso; feci in modo che la porta si aprisse verso l’interno e la notte la sbarravo e ritiravo le mie scalette; in modo che Venerdì non poteva in nessun modo venire da me al di qua del mio muro interno, senza fare, nello scavalcarlo, un tal rumore che mi avrebbe svegliato per forza. […] Ma nessuna di queste precauzione era necessaria, perché mai uomo ebbe un servitore più fedele, sincero e affezionato di Venerdì […]. Questo mi dette occasione di notare, e con meraviglia, che, sebbene sia piaciuto a Dio, nella sua Provvidenza e nel governare l’opera delle sue mani, togliere a una così gran parte delle Sue creature l’uso migliore delle facoltà e capacità dell’anima, nondimeno, Egli ha elargito loro le stesse capacità, la stessa ragione, gli stessi affetti, gli stessi sentimenti di benevolenza e di gratitudine, le stesse passioni e gli stessi risentimenti dei torti, lo stesso senso di riconoscenza, di sincerità, si fedeltà, e tutta la capacità di fare il bene e di ricevere il bene, che ha dato a noi; e quando Egli si degna di offrire loro l’occasione di esercitare queste virtù, essi sono altrettanto pronti, anzi più pronti di noi ad usarle ai giusti dini per i quali tali occasioni ci vengono concesse. Qualche volta, ero preso da una gran melanconia, riflettendo al cattivo uso che noi facciamo delle occasioni che si presentano, malgrado che le nostre facoltà siano illuminate dalla lampada dell’istruzione, dallo spirito di Dio e dalla conoscenza della Sua parola, oltre che dalla nostra stessa intelligenza; e mi domandavo perché fosse piaciuto a Dio nascondere la stessa conoscenza salvatrice a milioni di anime, le quali, a quanto potevo giudicare da quel povero selvaggio, ne avrebbero fatto un uso assai migliore di noi. Daniel Defoe, Robinson Crusoe, Milano, Rizzoli 1984.
PER RIFLETTERE SUI TESTI • •
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Chi ha il dono della parola in questo testo e che ruolo gioca essa? Cosa significa poter nominare cose e persone? Dal testo capisci quali elementi della tecnica occidentale Robinson ha trapiantato nel nuovo contesto? Che tipo di spazio si è costruito Robinson? Comunica con l’esterno, con l’Altro da sé? Che ruolo ha la porta che lui costruisce dopo aver accolto Venerdì? In quale punto del testo noti una sfumatura di dubbio sulla legittimità del dominio europeo sui selvaggi? Quale riflessione sulla civiltà europea stimola il confronto con il diverso?
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Illuminismo e straniamento Le Lettere persiane divengono, fin dalla pubblicazione nel 1721, un caso editoriale di rilievo europeo. La finzione alla base è semplice: Montesquieu immagina che due persiani arrivino, dalla lontana Isfahan, nella Persia centrale (oggi Iran) in Europa; e riporta gli scambi di lettere con i compatrioti, nei quali è descritta la società occidentale – soprattutto francese – attraverso gli occhi dei due persiani. Nell’opera, si possono ritrovare alcuni dei tratti tipici della letteratura illuminista. Le lettere tracciano una forte critica, sarcastica, alla società dell’ancien régime, mettendone in luce le ingiustizie e gli aspetti irrazionali e contraddittori; tale denuncia è possibile attraverso uno straniamento, mostrando al lettore il quotidiano (la vita a Parigi nei primi anni del XVIII secolo) da una prospettiva inedita – lo sguardo e le categorie culturali dei due persiani, Usbeck e Rica. La critica dell’opera, tuttavia, non è rivolta solamente contro la società occidentale. Lo stratagemma del punto di vista, che permette all’autore di porre una serie di critiche verso l’orizzonte europeo, consente di inserire anche alcuni elementi propri dell’orientalismo; i cui tratti – l’irrazionalità, che qui vediamo, ma anche la sottomissione della donna, la gelosia – risultano anch’essi oggetto di feroce critica.
XXIV – Rica a Ibben Forse non lo crederai: è da un mese che sono qui, e non ho ancora visto nessuno camminare. Non c’è nessuno al mondo che meglio dei francesi sappia sfruttare le risorse del proprio corpo: corrono, volano. Le lente vetture d’Asia, il passo cadenzato dei nostri cammelli, li farebbero addormentare. Quanto a me, che non sono affatto incline a questo modo di muoversi, e vado spesso a piedi senza cambiare andatura, a volte mi infurio come un cristiano […]. Il re di Francia è il principe più potente d’Europa. Non ha miniere d’oro come il re di Spagna, suo vicino, ma possiede più ricchezze di lui perché le riceve dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribili delle miniere. Lo si è visto intraprendere o sostenere grandi guerre senza altri fondi che titoli nobiliari da vendere, e per un prodigio dell’orgoglio umano le sue truppe erano pagate, le piazzeforti munite, le flotte equipaggiate. Del resto questo re è un gran mago: esercita il suo potere sulla mente stessa dei sudditi, li fa pensare come vuole lui. Se nel suo tesoro ha un milione di scudi, e gliene servono due, deve solo convincerli che uno scudo ne vale due, e quelli ci credono. Se ha una guerra difficile da sostenere e non ha denaro, non deve far altro che mettere loro in testa che un pezzo di carta è denaro, e quelli ne sono convinti. Arriva al punto di far credere loro che può guarirli da ogni male toccandoli, tale è la forza e il potere che ha sulle loro menti. XXIX – Rica a Ibben […] C’è un numero infinito di dottori, in maggioranza dervisci, che sollevano tra loro mille nuove questioni sulla religione: li si lascia disputare a lungo, e la guerra dura finché una decisione non le pone termine. E così posso assicurarti che non c’è mai stato regno in cui si siano combattute tante guerre civili come nel regno di Cristo. Coloro che avanzano qualche nuova tesi, vengono subito definiti eretici. Ogni eresia ha il proprio nome che è, per chi la segue, una parola d’ordine. […] Quanto ti dico vale per la Francia e la Germania, perché ho sentito dire che in Spagna e Portogallo ci sono certi dervisci che non sentono ragioni e fanno bruciare un uomo come se fosse paglia. Quando si cade nelle mani di quella gente, fortunato chi ha sempre pregato Dio con in mano dei piccoli grani 19
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di legno, che ha portato sempre su di sé due pezzetti di stoffa attaccati a due nastri, e che è stato qualche volta in una provincia che si chiama Galizia! Senza tutto questo, un povero diavolo si trova davvero nei guai. Se anche giurasse come un pagano di essere ortodosso, si potrebbe non accordarsi sulle sue qualità, e bruciarlo come eretico: non ci sarebbe distinzione che tenga, e sarebbe in cenere prima ancora che si fosse solo pensato di ascoltarlo. Gli altri giudici presumono che un accusato sia innocente; questi lo presumono colpevole. Nel dubbio si attengono alla regola di decidere secondo rigore, evidentemente perché sono convinti che gli uomini siano malvagi. Ma, d’altra parte, ne hanno una così buona opinione che non li ritengono mai capaci di mentire, e per questo raccolgono le testimonianze dei nemici mortali, delle donne di malaffare, di chi esercita professioni infami. Nelle loro sentenze riservano qualche complimento ai condannati che indossano una camicia di zolfo, dicendo loro di essere molto dispiaciuti di vederli conciati in quel modo, che loro sono miti, che aborrono il sangue, e non si danno pace per averli condannati; poi, per consolarsi, confiscano a loro profitto i beni di quei disgraziati. Felice la terra che è abitata dai figli dei profeti! Questi tristi spettacoli vi sono sconosciuti. Montesquieu, Lettere persiane, Garzanti 2012, pp. 34-5, 43.
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Fra i due persiani Rica è il più giovane e inesperto. Ragiona sul primo estratto: di che cosa si sta parlando? Pensi che il personaggio sia in grado di uscire dal proprio orizzonte? Quali sono i tratti orientali che gli sono attribuiti? Qual è il suo rapporto con la magia? Il secondo estratto affronta un problema caro all’Illuminismo del ‘700, quello della tolleranza religiosa. L’obbiettivo di Montesquieu è quello di sottolineare l’ingiustizia delle pratiche dell’Inquisizione, ancora attiva negli stati Iberici. Che cosa emerge dalla lettera? Come valuti questa sconfessione dell’intolleranza, da parte di un musulmano del ‘700? L’ingenuità di Rica ha nei due estratti funzioni diverse: la prima volta la spiegazione magica ne mostra i limiti; la seconda, consente di vedere più a fondo nella realtà. Ragiona sull’efficacia dei meccanismi di straniamento. Come cambia la direzione in cui Montesquieu dirige il proprio sarcasmo? Secondo te, qual è l’obiettivo della polemica nei due casi?
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Il peso dell’imperialismo Il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento allo scoppio della Prima Guerra Mondiale è caratterizzato dall’apice dell’imperialismo europeo: paesi come l’Inghilterra, il Belgio, la Francia, la Germania (e in misura minore l’Italia e la Spagna, in quanto economicamente e politicamente più deboli rispetto agli altri stati) costruiscono in questi decenni i propri grandi imperi coloniali in Africa e in Oriente. Se fino ad ora i contatti con queste terre erano stati soprattutto di carattere commerciale, si intensifica a partire da questo momento la penetrazione politica e militare dell’uomo bianco al loro interno. Il viaggio dell’europeo non ha come fine la scoperta o la conoscenza, bensì la conquista spregiudicata di risorse, ricchezze e mercati. Mentre al suo interno la civilizzata e avanzata Europa proclama i diritti di nazionalità e autodeterminazione, impedisce alle culture non europee di disporre liberamente delle proprie risorse, nascondendo dietro la facciata di una spinta civilizzatrice le esigenze reali di un’economia capitalistica, che necessita per crescere di nuovi mercati e materie prime. L’uomo bianco agisce giustificato da un preconcetto di superiorità, che gli permette di percepirsi padrone e redentore di terre primordiali e arretrate, abitate da uomini che vivono al limite della bestialità. Con l’Altro inferiore l’europeo superiore non ha alcun contatto: il viaggio, la penetrazione nel cuore dell’Africa o dell’India, non porta con sé l’incontro e lo scambio di culture; ma il sospetto, la paura, il tentativo di annullamento dell’Alterità, la quale spaventa e attrae al contempo: quindi la devastazione del territorio e lo sterminio del “selvaggio”. Questa visione eurocentrica del mondo genera, a proposito dell’Altro extraeuropeo, narrazioni stereotipate, che fomentano i pregiudizi: la vegetazione è lussureggiante; i selvaggi sono cannibali; i costumi sessuali sono liberi ecc.. Si alimentano in questo periodo l’esotismo e l’orientalismo, che altro non sono se non modi di guardare al diverso senza vederlo veramente, appiattendolo sulle proprie categorie interpretative. Ma contemporaneamente la brutalità del processo coloniale, il peso di questo incontro negato con l’Altro, cominceranno a filtrare nelle opere letterarie, sotto forma di dubbi, di inquietanti accostamenti fra “noi” e “loro”, di riflessi che il mondo sfruttato rimanda, più o meno consciamente, di quello dominatore. La migliore letteratura di questi decenni ci insinua il dubbio che l’idea di un Occidente superiore e civilizzante debba tramontare.
Moby Dick (1851) è un capolavoro della letteratura americana, e racconta la lotta del capitano Achab e della sua ciurma per catturare la leggendaria balena bianca Moby Dick. Ma non si tratta di un libro comune: dentro troviamo sia un romanzo, sia un trattato di baleneria, sia dense riflessioni filosofiche sulla natura dell’uomo e del male, sia la forza del mito classico. Questo romanzo non può essere considerato un diretto rappresentante della letteratura coloniale, ma nel narrare l’ambiguità del rapporto con il Diverso, è probabilmente influenzato dai processi del nascente imperialismo europeo. Nel brano seguente, il protagonista deve passare la notte in una locanda, ma l’ultima stanza libera è da condividere con un personaggio tremendo: un selvaggio dei Mari del Sud, trafficante di teste umane e forse pure cannibale.
[...] quand’ebbe finito si volse e allora, numi del cielo, che spettacolo! Una faccia! Era d’un colore fosco, rossastro, gialliccio, tutta stampata qua e là di larghi riquadri nerastri. Ecco, è proprio com’io pensavo, un compagno terribile, ha preso parte a una rissa, ha toccato ferite spaventose, e ora vien qua, arriva adesso dal chirurgo. Ma in quel momento l’altro capitò a voltare la faccia verso la luce, in modo che vidi benissimo che i riquadri scuri non potevano assolutamente essere cerotti. Erano macchie quelle, di qualunque genere fossero. Da principio non seppi che cosa pensare, ma subito mi si affacciò un sospetto della verità. Ricordai la storia di un bianco, baleniere anche lui, che capitando tra i cannibali, era stato tatuato. Ne conclusi che al mio ramponiere nel corso dei suoi viaggi lontani doveva essere toccata un’avventura simile. E cosa importa, pensai, dopo tutto? È soltanto il suo esteriore: un uomo può essere onesto sotto qualunque pelle. [...] Poi si tolse il cappello, un cappello nuovo di castoro, e io fui lì lì per gridare alla novella sorpresa. Sulla testa, quell’uomo non aveva capelli, o almeno, capelli che valga la pena di parlarne; nulla, tranne un piccolo ciuffo sul cocuzzolo, attorcigliato verso la fronte. La 21
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testa calva e rossastra appariva ora in tutto simile a un teschio ammuffito. Se il forestiero non fosse stato tra me e la porta, me ne sarei buttato fuori più in fretta che non abbia mai buttato giù un pranzo. Così stando le cose, pensai un momento a saltar giù dalla finestra, ma si trattava del secondo piano. Io non sono un vigliacco, ma che cosa pensare di questo purpureo furfante venditore di teste era un problema che superava interamente le mie facoltà. L’ignoranza è madre della paura e, essendo io del tutto stupefatto e imbarazzato a proposito dello straniero, vi confesso che provavo ora di lui tanto terrore quanto se mi fosse trovato in camera nel cuore della notte il diavolo in persona. L’istante dopo la luce era spenta e il selvaggio cannibale, con l’accetta tra i denti, mi saltava nel letto. Io strillai, non potei farne a meno, e quello, dando un improvviso grugnito di stupore, cominciò a tastarmi. Balbettando qualcosa, non sapevo che cosa, rotolai via da lui verso il muro e poi lo scongiurai, chiunque o qualunque cosa lui fosse, di stare tranquillo e lasciarmi levare e riaccendere la candela. Ma le sue risposte gutturali mi convinsero subito ch’egli non comprendeva che male le mie parole. [...] Ma, grazie a Dio, in quel momento arrivò il padrone col lume in mano, e io balzando dal letto gli corsi incontro. – Adesso non abbiate paura – disse quello sogghignando di nuovo. – Quiqueg qui presente non vi torcerebbe un capello. – Piantatela di ridere, – strillai io – e perché non mi avete detto che quel ramponiere d’inferno era un cannibale? – Credevo che lo sapeste; non vi ho forse detto che stava a vendere teste per la città? Ma date un altro colpo di coda e tornate a letto. Quiqueg, badate, voi capir me, io capir voi: quest’uomo dorme voi: voi capir me? – Me capir tutto – grugnì Quiqueg, pipando e sedendosi nel letto. – Voi entrate – aggiunse accennandomi con l’accetta e gettando gli abiti da una parte. Fece questo in un modo non soltanto cortese, ma veramente garbato e benevolo. Io rimasi a guardarlo un momento. Tutti i tatuaggi considerati, quello era nell’insieme uno schietto e piacente cannibale. Che cos’è tutto questo baccano che ho fatto? pensavo tra me e me: costui è una creatura umana, proprio come sono io, e ha proprio altrettanto motivo di temere me, com’io ho di temer lui. Meglio dormire con un cannibale saggio che con un cristiano ubriaco. [...] Mi misi a letto, e non dormii mai meglio in vita mia. (pp. 57-60) Herman Melville, Moby Dick o la Balena, traduzione di C. Pavese, Adelphi, Milano, 2014
PER RIFLETTERE SUI TESTI • •
Quiqueg ha un aspetto inquietante: ha la pelle bruciata dal sole e ricoperta completamente da tatuaggi, tipici della sua cultura. Il protagonista ne è spaventato, ma anche colpito e affascinato. Da cosa nasce questa ambivalenza? I due personaggi sono molto diversi, ma infine riescono a conoscersi e a condividere il letto. Perché il contatto tra i due tarda ad avvenire, e come mai il protagonista cambia infine idea sul suo compagno?
Conrad nacque nel 1857 in Ucraina da una famiglia polacca, ma emigrò presto con il padre in Inghilterra, dove divenne ufficiale di Marina. Ebbe modo di accumulare durante i suoi viaggi per mare una serie di esperienze che alimenteranno la sua attività di scrittore. Cuore di tenebra è il suo capolavoro letterario, scritto nel 1899: è la storia di un viaggio lungo il fiume Congo in Africa, compiuto da un capitano di nome Marlowe, assunto da una compagnia coloniale belga per sostituire un collega deceduto. Il viaggio si trasforma in un incubo: l’annientamento degli indigeni a cui Marlowe assiste, la febbre, il caldo, i sospetti fra gli europei; e quella foresta impenetrabile e silenziosa che calamita verso di sé le zone più oscure della coscienza. L’Altro è l’inquietudine che trova spazio dentro di sé.
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Penetravamo sempre più a fondo nel cuore delle tenebre. C’era un gran silenzio laggiù. Di notte a volte il rullo dei tamburi dietro la cortina degli alberi correva lungo il fiume e restava debolmente sospeso a mezz’aria, quasi che aleggiasse sulle nostre teste, fino ai primi chiarori del giorno. Impossibile stabilire se significasse guerra, pace o preghiera. Le albe erano preannunciate dal calare di una rigida quiete; i taglialegna dormivano, i loro fuochi bruciavano piano; bastava il rumore di un ramoscello spezzato a farci trasalire. Eravamo dei nomadi su una terra preistorica, una terra che aveva l’aria di un pianeta inesplorato. Avremmo potuto immaginarci come i primi uomini a prendere possesso di un’eredità maledetta, che occorreva conquistare a costo di profonda angoscia e sforzi estenuanti. D’un tratto però, superando a fatica un’ansa, scorgevamo appena pareti di frasche, qualche tetto appuntito fatto d’erba, uno scoppio di grida, un balenare confuso di membra nere, un gran numero di mani che battevano, di piedi che pestavano, di corpi ondeggianti, occhi roteanti, sotto l’immobile e greve cascata di foglie. Il vapore arrancava lentamente ai margini di una nera frenesia imperscrutabile. L’uomo preistorico ci inviava le sue maledizioni, ci invocava, ci dava il benvenuto – chi poteva dirlo? Eravamo tagliati fuori dalla possibilità di comprendere quanto ci stava intorno; scivolavamo oltre come fantasmi, pieni di stupore e di segreto spavento, come dei sani di mente di fronte a un’esplosione di euforia in un manicomio. Non potevamo capire perché eravamo troppo lontani per ricordare perché viaggiavamo nella notte dell’era primordiale, di epoche ormai scomparse, lasciando appena una traccia – e nessun ricordo. La terra non aveva nulla di terrestre. Siamo abituati a guardare il mostro vinto e in catene, ma lì – lì quel che si vedeva era il mostruoso in piena libertà. Non aveva nulla di terrestre, e gli uomini erano… No, non erano disumani. E, sapete, proprio questo era il peggio – il sospetto che non fossero disumani. Era qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità – pari alla nostra – il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato. Brutt’affare. Brutt’affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste dovuto confessare a voi stessi l’esistenza di un’eco, magari debolissima, alla tremenda franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi – pur così lontani dalla notte dei primordi, potevamo comprendere. La mente umana è capace di qualsiasi cosa – poiché racchiude in sé ogni cosa, tutto il passato e tutto il futuro. Che cosa avevamo davanti dopotutto? Gioia, paura, dolore, devozione, coraggio, ira – chi lo sa? – ma la verità – verità libera dal manto del tempo. Stupore e raccapriccio lasciateli agli sciocchi – chi è uomo sa, e riesce a guardare senza battere ciglio. Certo è necessario essere uomo almeno quanto quelli sulla riva. J. Conrad, Cuore di tenebra, trad. di Rossella Bernascone, Milano, Mondadori 2016, pp. 109-113.
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • • • •
Quale senso predomina nella descrizione iniziale? Che effetto dà al testo, quali sensazioni trasmette al lettore? Perché il narratore insiste tanto sull’impossibilità di comunicare? Quali sono gli effetti che questo ostacolo provoca nei confronti del Diverso? Nel testo letto riconosci segni di un senso di superiorità dell’europeo di fronte al mondo selvaggio? Qual è infine l’impressione che Marlowe esprime a proposito degli uomini selvaggi? Che rapporto nuovo intuisce fra “io” e l’Altro? Quale stato d’animo accompagna tale intuizione? Marlowe sul suo vapore viaggia verso il cuore della foresta. Cosa rappresenta questa foresta secondo te?
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Louis Ferdinand Céline è uno scrittore, saggista e medico francese nato nel 1894 e morto nel 1961. Viaggio al termine della notte rappresenta il suo capolavoro letterario; esce nel 1932, imponendosi immediatamente quale successo mondiale. Attraverso uno sguardo di lucido delirio, seguendo le avventure del protagonista Ferdinand Bardamu, Céline affronta e denuncia la notte dell’uomo: dagli orrori della Grande Guerra, alla brutalità dell’esperienza coloniale in Africa; dalla New York della “folla solitaria” e della fabbrica alienante, fino ad approdare alle periferie più desolate di Parigi, dove, ricoprendo il ruolo di medico dei poveri, il protagonista dipinge un panorama di miseria morale prima ancora che materiale. Nell’estratto che andremo a leggere, Bardamu si trova nel cuore del Congo, inviato dal direttore della Compagnia coloniale presso cui lavora, a sostituire un agente commerciale, tale Robinson, accusato di non fare gli interessi della Compagnia. Il protagonista, a seguito della fuga di Robinson, si trova solo nel mondo selvaggio, il quale progressivamete lo contagia, senza che lui riesca ad opporre ad esso alcuna forma di resistenza, alcun ordine o superiorità morale. Del resto, fuori dalla foresta, gli europei si stanno annientando in una guerra feroce che coinvolge tutti i continenti e da cui Bardamu è fuggito. Di quale superiorità stiamo parlando?
I tramonti di quell’inferno africano si rivelavano straordinari. Non te li toglieva nessuno. Ogni volta tragici come mostruosi assassinii del sole. Un immenso bluff. Soltanto che c’era troppo da ammirare per un uomo solo. Il cielo per un’ora si pavoneggiava tutto spruzzato da un capo all’altro di uno scarlatto delirante, e poi il verde scoppiava in mezzo agli alberi e s’innalzava dal suolo a strisce tremanti fino alle prime stelle. Dopo di che il grigio riprendeva tutto l’orizzonte e poi di nuovo il rosso, ma allora stanco il rosso e non per molto. Finiva così. Tutti i colori ricadevano a brandelli, afflosciati sulla foresta come vecchi stracci alla centesima replica. Ogni giorno verso le sei era esattamente così che andava. E la notte con tutti i suoi mostri entrava allora in ballo tra mille e mille rumori di gole di rospo. La foresta aspetta solo il loro segnale per mettersi a tremare, fischiare, muggire da tutte le sue profondità. Un’enorme stazione amorosa e senza luce, piena da schiattare. Alberi interi gonfi di scorpacciate viventi, d’erezioni mutilate, d’orrore. Si finiva per non sentirci più tra noi nella capanna. Dovevo gridare a mia volta sopra la tavola come un barbagianni perché il compagno mi capisse. Ero servito, io che non amavo la campagna. “Com’è che si chiama lei? Non è Robinson che mi ha detto?” gli chiesi io. Era intento a ripetermi l’amico, che gli indigeni dei paraggi soffrivano sino all’apatia di tutte le malattie che si potevano prendere e proprio non erano in grado i poveracci di dedicarsi a qualsiasi commercio. Mentre parlavamo dei negri, mosche e insetti, grossi così, che non li potevi contare, vennero ad abbattersi sulla lanterna, a raffiche così dense che si dovette spegnere.
Robinson aveva all’incirca rubato tutto di quel che aveva contenuto quel fragile insediamento e chi mi crederebbe se andavo a dirlo? Scriverlo? A che serve? A chi? Al padrone? Ogni sera verso le cinque, battevo i denti dalla febbre a mia volta, e di quella vivace, al punto che il mio letto cigolante ne tremava come quello di un vero segaiolo. Dei negri del villaggio s’erano impadroniti senza complimenti del servizio e della capanna; io non li avevo chiesti, ma rimandarli era già troppo sforzo. S’accapigliavano intorno a quel che restava della fattoria, smanacciando i barili di tabacco, provando gli ultimi perizomi, valutandoli, togliendoseli, contribuendo ancora se fosse possibile allo sfacelo generale della mia installazione. Il caucciù tutto per terra, strascicato, mescolava il suo sugo ai meloni di savana, a quelle papaye dolciastre dal gusto di pere all’orina, il cui ricordo, quindici anni dopo, tante ne ho mangiate al posto dei fagiolini, ancora mi nausea. 24
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Cercavo di calcolare a quale livello d’impotenza ero caduto ma non ci riuscivo. “Rubano tutti!” mi aveva ripetuto per tre volte Robinson prima di sparire. Era anche il parere dell’Agente generale. Nella febbre, quelle parole mi tormentavano. “Bisogna che ti arrangi!”… mi aveva detto lui ancora. Cercavo di alzarmi. Non ci riuscivo proprio. Per l’acqua che bisognava bere, lui aveva ragione, fango era, peggio, un fondo di pitale. Dei negroni mi portavano un sacco di banane, di quelle grosse, di quelle piccole e sanguigne, e sempre di quelle papaye, ma mi faceva talmente male alla pancia tutto quello e quant’altro! Avrei vomitato la terra intera. Luis Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Il Corbaccio, 2012, pp. 190, 195-6.
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Céline sembra voler dialogare direttamente con Cuore di tenebra: anche qui siamo in Congo e anche qui il protagonista viaggia verso il cuore della foresta: ma come cambia il tono della narrazione? Quale diverso punto di vista sulla realtà rivela? Che differenza noti fra le tipiche narrazioni della natura lussureggiante (pensa al giardino di Armida in Tasso, ma anche allo stesso Conrad) e la descrizione che ne viene fatta invece nel primo estratto? Cosa rappresenta la notte? Quale differenza noti fra l’atteggiamento di un Robinson Crusoe o di un Prospero e quello di Bardamu all’interno della sfera selvaggia? Cosa rappresenta la stessa febbre, la malattia, da cui sia Bardamu che Marlowe vengono debilitati?
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Distopie Una distopia è una costruzione di un futuro immaginario particolarmente inquietante o spaventoso, in particolar modo per i suoi aspetti sociali. Se l’utopia è la proiezione nel futuro di un mondo ideale, la distopia ne è quindi il rovesciamento. Molti sono gli autori che vi si sono dedicati nell’arco del Novecento, da Orwell, con 1984, a Dick, con La svastica sul sole. Le immaginazioni di questi futuri possibili ruotano spesso attorno alla presenza di stati totalitari o a forme di dominio oppressive, che comportano nuovi scenari geopolitici e nuove ristrutturazioni dell’ordine dei continenti. La concezione del “diverso” subisce così ulteriori trasformazioni: l’Altro diventa in queste opere il dissidente, il ribelle, l’escluso; la sua condizione è spesso ai margini della società, ma talvolta ai margini del mondo.
Il mondo nuovo (Brave New World) è un romanzo dello scrittore britannico Aldous Huxley (1894-1963). Pubblicato nel 1932, è una narrazione distopica che immagina gli sviluppi tecnologici e sociali del mondo occidentale, in un futuro in cui dominano l’eugenetica, il controllo mentale della popolazione e il soddisfacimento artificiale dei bisogni umani. A questo modello di società divisa in caste, che ha oscurato il dolore e la morte, si contrappone il “mondo selvaggio”, escluso dalla civilizzazione e dal progresso tecnologico e dunque ancora “umano”, non artificializzato. In questo brano, due abitanti del mondo nuovo si recano a visitare i selvaggi: proprio loro, che non sanno più cosa sia la vecchiaia, incontrano con sorpresa un vecchio.
[...] La sporcizia, tanto per cominciare, i cumuli d’immondizie, la polvere, i cani, le mosche. La sua faccia si deformò in una smorfia di disgusto. Essa portò il fazzoletto al naso. «Ma come possono vivere così?» proruppe con una voce d’incredulità sdegnata. (Non era possibile.) Bernard alzò filosoficamente le spalle. «In ogni modo,» rispose «vivono da cinque o seimila anni. Motivo per cui suppongo che ci siano ormai abituati.» «Ma la pulizia viene col tempo di Ford10» insistette lei. «Già, e la civiltà è sterilizzazione» continuò Bernard, concludendo su un tono d’ironia la seconda lezione ipnopedica d’igiene elementare. «Ma questa gente non ha mai sentito parlare del Nostro Ford e non è civilizzata. Dunque non c’è ragione di...» «Oh!» gli si aggrappò al braccio. «Guardate!» Un indiano quasi nudo scendeva lentamente la scala del terrazzo del primo piano d’una casa vicina, gradino per gradino, con la cautela tremebonda dell’estrema vecchiezza. La sua faccia era segnata da rughe profonde, e nera come una maschera silicea. La bocca sdentata era infossata. Agli angoli delle labbra e a ciascun lato del mento pochi lunghi peli quasi bianchi luccicavano sulla pelle scura. I lunghi capelli non intrecciati gli ricadevano in ciocche grigie attorno al viso. Il suo corpo era curvo e tutt’ossa, quasi scarnito. Scendeva lentamente, soffermandosi ad ogni passo prima di avventurarsi a farne un altro. «Che cos’ha?» chiese Lenina. I suoi occhi erano spalancati per l’orrore e per lo stupore. «È vecchio, quest’è quanto» rispose Bernard con tutta l’indifferenza di cui era capace. Anche lui era turbato; ma fece uno sforzo per non apparire colpito. «Vecchio?» ripeté lei. «Ma anche il Direttore è vecchio, tante altre persone son vecchie; ma non sono così.» «Perché non permettiamo loro di diventare così. Li preserviamo dalle malattie. Manteniamo bilanciate artificialmente le loro secrezioni interne, nell’equilibrio della giovinezza. Non permettiamo che la loro dose di magnesio e di calcio discenda al di sotto di ciò che era a trent’anni. Li sottoponiamo a trasfusioni 10
Dal momento dell’introduzione della catena di montaggio nelle fabbriche Ford, che segna per Il mondo nuovo l’Anno Zero a partire dal quale la civilizzazione ha toccato il punto di non ritorno, inaugurando l’Era contemporanea.
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di sangue giovane. Manteniamo il loro metabolismo frequentemente stimolato. Così, naturalmente, non hanno questo aspetto. In parte» aggiunse «perché la maggioranza d’essi muoiono molto tempo prima di aver raggiunta l’età di questo vecchio. La gioventù quasi intatta fino a sessant’anni, e poi, crack! la fine.» Ma Lenina non ascoltava. Osservava il vecchio. Lentamente, lentamente, egli scendeva. I suoi piedi toccarono il suolo. Egli si voltò. Nelle orbite profondamente incavate, i suoi occhi erano ancora straordinariamente vivi. Si fissarono su di lei per un certo tempo, senza espressione, senza sorpresa, come se non ci fosse affatto. Poi lentamente, con la schiena curva, il vecchio passò loro davanti zoppicando e scomparve. «Ma è terribile» sussurrò Lenina. «È spaventoso. Non avremmo dovuto venir qui.» (pp. 89-90) Aldous Huxley, Il mondo nuovo, traduzione di L. Gigli e L. Bianciardi, Mondadori, 2013, pp. 89-90-
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Il titolo inglese del romanzo è Brave New World, ed è tratto da La tempesta di Shakespeare: «Com'è bello il genere umano! Oh mirabile e ignoto mondo che possiedi abitanti così piacevoli!» Che significato ha questo riferimento? Il mondo nuovo è davvero eccellente o si tratta di una definizione ironica, e per certi versi tragica? Lenina è spaventata dalla vecchiaia, ma in realtà si potrebbe dire che è spaventata da qualcosa che non riconosce: la sua idea di vecchiaia non corrisponde a quella che vede nel selvaggio. Da dove proviene il suo spavento? Il viaggio di Lenina e Bernard non è solo nello spazio, ma anche nel tempo: si spostano dal loro futuro avanzato al passato, al mondo “com’era prima”. L’uomo del futuro incontra così l’uomo del passato, e due mondi diversi vengono a contatto. Che differenze si notano? Come è cambiata l’idea di uomo nel futuro immaginato dall’autore? Il brano mostra anche modelli di vita diversi, uno benestante e ambizioso, l’altro povero e più umile. Pensi che il secondo rischi di scomparire, schiacciato dal progresso del primo? O è piuttosto il primo che si sente minacciato dal secondo? Cosa significano gli occhi “ancora straordinariamente vivi” del selvaggio? Perché, tuttavia, Lenina e Bernard vengono ignorati?
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Strumenti metodologici Orientalismo Il concetto di O. nasce in Occidente nel corso del XVIII secolo, ed è in stretta relazione con la colonizzazione europea di Asia, Africa e Americhe. Si tratta, prima dell’oggetto di una branca di studi, di un atteggiamento che tende a vedere l’Oriente come l’assolutamente altro, il distante, il diverso. Ciò può dar luogo a repulsione – Oriente come opposto, o come contestazione di morale e pensiero europei – o ammirazione – Oriente come luogo di abbandono, di ispirazione artistica, di ritorno alle origini; in entrambi i casi, tuttavia, l’O. non prevede una reale conoscenza dell’alterità, ma solo delle immagini dell’altro filtrate attraverso costruzioni e stereotipi occidentali.
[…] francesi e inglesi […] hanno una lunga tradizione in ciò che designerò come orientalismo: vale a dire un modo di mettersi in relazione con l’Oriente basato sul posto speciale che questo occupa nell’esperienza europea occidentale. L’Oriente non è solo adiacente all’Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del diverso. E ancora, l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente). Nella seconda metà del Novecento, il movimento di liberazione dei paesi colonizzati ha portato a una messa in dubbio radicale della mentalità orientalista; dal punto di vista della storia delle idee, uno dei frutti più interessanti di questa stagione è il volume Orientalismo di Edward Said (Feltrinelli, 2012). La tesi dell’autore, un palestinese esiliato prima in Egitto poi negli Stati Uniti, mette in dubbio l’oggettività dell’O. L’Europa, secondo l’autore, avrebbe costruito l’immagine di un oriente erotizzato, spirituale, fanatico, irrazionale, dispotico, per due motivi: - da una parte, tale atteggiamento avrebbe una funzione pratica: definire un’identità orientale omogenea, opposta e inferiore a quella europea. In questo modo, le colonizzazioni risultano giustificate come gesto di diffusione della civiltà (un atteggiamento che forse persiste: pensa alle giustificazioni degli interventi occidentali in Afghanistan, Iraq, Libia, ecc.). - dall’altra, però, l’O. avrebbe per l’Europa una funzione più complessa: quella di individuare il diverso, così da costruire la propria identità attraverso una contrapposizione.
Un gruppo di persone insediatesi su alcuni acri di terra stabilisce confini tra quella terra e i territori circostanti, che vengono chiamati “il regno dei barbari”. In altre parole, la pratica universale di designare nella nostra mente uno spazio familiare “nostro” in contrapposizione a uno spazio esterno “loro” è un modo di operare distinzioni geografiche che può essere del tutto arbitrario. […] È sufficiente che “noi” costruiamo questa frontiera nelle nostre menti; “loro” diventano “loro” di conseguenza, la loro terra e la loro mentalità vengono considerate diverse dalle “nostre”. Così, in una certa misura, le società moderne e quelle primitive sembrano costruire il loro senso di identità, per così dire, in forma negativa. Edwar Said, Orientalismo, Feltrinelli, 2012, pp. 11-12, 60. Abbiamo visto in questa dispensa come Tasso ponga gli elementi moralmente riprovevoli, ma dotati di grande fascino, nel campo avverso, nel giardino di Armida, maga musulmana. Allo stesso modo, l’Europa avrebbe potuto costruire la propria immagine razionale, democratica, strutturata, solo grazie alla definizione di un ‘altro’, da vedere in contrapposizione al ‘noi’.
Magia e razionalità Nel corso del Novecento moltissimi studi di antropologia si sono concentrati sulla magia: perché l’uomo ha percepito la necessità di ricorrere alle spiegazioni magiche della realtà? Perché la spiegazione magica risulta spesso così affascinante?
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Rispetto a diversi contesti, la risposta degli studi antropologici è stata sostanzialmente una: la magia interviene nel momento in cui l’uomo non è in grado di fornire una spiegazione dei fenomeni che lo circondano, di controllare la natura, di comprendere i nessi di causa ed effetto. Con l’avanzare del ragionamento razionale, l’area del magico tende a restringersi, ma non sembra mai giungere a scomparire. Nei frammenti più o meno sotterranei dell’esistenza e del ragionamento, la spiegazione magica continua ad attrarci. Lo sapeva bene il grande antropologo Ernesto De Martino, che studiò il Mondo magico che, nel secondo Novecento, ancora stringeva da vicino ampi tratti delle campagne italiane.
Se ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora sopravvivere un ideologia così arcaica nella Lucania di oggi la risposta più immediata è che tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna. E certamente la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di un economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche. (p.81) Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, 2009, p. 81.
Straniamento Lo S. è un procedimento artistico teorizzato, nel corso del Novecento, prima dal critico russo Viktor Šklovskij, poi dal poeta tedesco Bertolt Brecht. L’idea in sé è semplice: esistono dei procedimenti che, mostrando un oggetto, una persona, una situazione, da un punto di vista diverso e inedito, ci consentono di percepire una verità che prima ci era nascosta. Šklovskij, a partire da un racconto di Čechov, fornisce un esempio indicativo.
Per fare di un oggetto un fatto artistico, è necessario estrarlo dal novero dei fatti della vita. Per questo occorre prima di tutto, scuotere l’oggetto, come faceva Ivan il Terribile quando passava in rassegna i suoi uomini. Bisogna estrarre l’oggetto dalla serie di associazioni consuete, nella quale si trova. Bisogna rivoltare l’oggetto, come si volta un ceppo nel fuoco. In Čechov, nel suo Taccuino di appunti, c’è questo esempio: un tizio passava da quindici-trent’anni per un vicolo, ed ogni giorno leggeva l’insegna: “Grande assortimento di sigi” [in russo marene, pesci d’acqua dolce] e ogni giorno pensava: “Ma a chi diavolo serve un grande assortimento di marene?”. Ma un giorno, chissà per quale motivo, staccarono l’insegna e l’appoggiarono di fianco addosso al muro, e allora poté leggere «Grande assortimento di sigari». Il poeta stacca tutte le insegne dal loro posto. […] Con ciò il poeta compie uno spostamento semantico, toglie un concetto dalla serie semantica in cui si trovava, e lo pone, con l’aiuto di un’altra parola (del tropo) in un’altra serie semantica, così che noi sentiamo la novità, la collocazione dell’oggetto in un’altra serie. La nuova parola sta sull’oggetto come un vestito nuovo. L’insegna è staccata. Viktor Šklovskij, La struttura della novella e del romanzo, in Todorov, I formalisti russi, 220-1 Se lo straniamento è un procedimento artistico, il principio su cui si basa ha radici nell’esperienza comune: nel momento in cui cambia la prospettiva, può avvenire la rivelazione di una verità della quale prima non si sospettava l’esistenza. È probabilmente ciò che è avvenuto ai primi navigatori oceanici, entrati per la prima volta in contatto con popoli diversissimi, di cui non condividevano categorie e interpretazioni: vedere la propria immagine riflessa nello sguardo dell’Altro ha portato a riconsiderare, con occhi nuovi, le proprie posizioni. Alla base dell’esperimento artistico dello straniamento sta dunque un dato esperienziale, del quale possiamo immaginare la frequenza massima nel momento delle scoperte geografiche. Successivamente, proprio tale esperienza di incontro con l’altro è stata tematizzata: lo sguardo dell’orientale, del non europeo, coglie tratti della nostra civiltà che noi trascuriamo, mettiamo in secondo piano perché abituali. È il principio strutturante, ad esempio, delle Lettere persiane di Montesquieu.
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