Associazione ForMaLit Anno Scolastico 2017/2018
Laboratorio di invito alla lettura
Introduzione ............................................................................................................... 1
La narrazione orale come atto quotidiano ............................................................ 1 Il racconto breve ..................................................................................................... 2 A che cosa serve un racconto ................................................................................. 3 Accetti la sfida? ....................................................................................................... 4
Il rumore del cuore ……………………… Edgar Allan Poe ................................................... 5
Uno scherzetto …………………………… Anton Čechov ...................................................... 8
Un posto pulito, illuminato bene …... Ernest Hemingway .............................................. 10
Destino ………………………………………… Raffaele La Capria ............................................. 14
Il vicino…………………………………………. Franz Kafka .................................................... 15
Piccole cose…………………………………… Raymond Carver .............................................. 16
L’intervista…………………………………….. Primo Levi ..................................................... 18
Croci………………………………………………. George Saunders ............................................. 20 Gli autori ................................................................................................................... 21
Introduzione
La narrazione orale come atto quotidiano
Ogni volta che parliamo di narrazioni, racconti o storie tendiamo ad associare questi concetti alla letteratura, quasi facessero parte di un mondo che ha ben poco a che fare con la nostra quotidianità. Pensiamo subito a vecchi cantastorie del passato, a scrittori ingobbiti chiusi in anguste biblioteche poco illuminate e a ciò che essi hanno prodotto: fiabe, leggende, racconti popolari, miti, romanzi e racconti. Eppure nella vita d’ogni giorno noi sperimentiamo e raccontiamo, in maniera spesso caotica e inconsapevole, delle storie: siano esse il resoconto della giornata a scuola fatto ai nostri genitori, una barzelletta oppure il racconto di un evento reale o inventato riferiti a un amico. Creiamo narrazioni ogniqualvolta comunichiamo a qualcuno una storia, diventandone i narratori e cercando di rispettare una regola che sta alla base di tutte le narrazioni convenzionali: la presenza di un inizio, di un centro e di un finale. Raccontare storie è in poche parole un tratto qualificante di ogni discorso umano e la narrazione è una modalità di espressione universale che permette da sempre di dare forma e coerenza alla nostra esperienza individuale e collettiva, ordinandola in un inizio il passato , un centro il presente e un finale probabile il futuro . Partiamo quindi dalla nostra quotidianità, dalla narrazione orale, da quei momenti in cui ci mettiamo a raccontare una storia a un amico, cambiando impercettibilmente il registro della nostra voce, quasi volessimo implicitamente racchiuderla nelle formule tradizionali del «c’era una volta» e dell’«e vissero tutti felici e contenti». Immaginando di trascrivere la registrazione di un nostro racconto orale, molto probabilmente il risultato non sarebbe poi così lontano da quello prodotto dallo scrittore americano David Foster Wallace nel racconto Il diavolo è un tipo impegnato che di seguito vi presentiamo:
Per giunta quando aveva qualcosa di nuovo o se ripuliva il capanno degli attrezzi o la cantina spesso papà scopriva di avere un aggeggio che non voleva più da eliminare e siccome ci voleva una vita a portarlo col furgone alla discarica o alla beneficenza giù in paese si limitava ad alzare il telefono per mettere un annuncio sul «Trading Post» in paese e darlo via per niente. Stronzate tipo un divano o un freezer o un vecchio attrezzo agricolo. L’annuncio diceva Gratis venitevelo a prendere. E anche così ci voleva sempre una vita da quando veniva pubblicato prima che un’anima si degnasse di fare una telefonata e quell’aggeggio restava in mezzo ai piedi nel vialetto di papà che si incazzava come una iena finché un paio di tizi del paese finalmente andavano fin lì a vederlo. E facevano pure gli schizzinosi con le facce tutte concentrate come in una partita a carte e giravano attorno a quell’affare e gli davano dei calcetti con la punta del piede e attaccavano coi dov’è che l’hai preso che c’ha che non va perché ci tieni a sbarazzartene. Scuotevano la testa e parlavano con la loro signora e la tiravano per le lunghe e per poco non mandavano papà ai matti perché lui voleva soltanto dar via un vecchio attrezzo agricolo per niente e toglierlo dal vialetto e gli toccava sprecare tutto quel tempo a cazzeggiare con quella gente per farglielo prendere. Poi un bel giorno che si vuole sbarazzare di una cosa che fa piglia e ti mette il suo annuncio sul «Trading Post» e ci mette un prezzo assurdo che improvvisa lì per lì al telefono col tizio del «Trading Post». Un prezzo assurdo praticamente niente. Vecchio Erpice Con Qualche Dente Un Po’ Arrugginito $ 5, Divanoletto JCPenny Verde E Giallo $10 e roba simile. Al che spesso la gente chiamava il primo giorno che l’annuncio usava sul «Trading Post» e in un attimo piombavano lì dal paese e certe 1
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volte si macinavano anche un bel pezzo di strada da altri piccoli centri più lontani dove arrivava il «Trading Post» e frenavano facendo schizzare la ghiaia dappertutto e quell’aggeggio quasi manco lo guardavano e insistevano con papà per fargli prendere i 5 o 10 dollari subito, prima di farselo soffiare da qualcun altro e se era una cosa pesante tipo il divano li aiutavo io a caricarselo e quelli prendevano e telavano subito dopo. La faccia loro era diversa, come la faccia della moglie nel furgone, allegra e i denti in bella vista e lui un braccio intorno alla sua signore e un salutino a papà mentre faceva retromarcia. Contenti come una pasqua di essersi rimediati un vecchio erpice praticamente per nulla. Io chiesi a papà che lezione trarre dalla cosa e lui disse che secondo lui era che non puoi insegnare a un porco a cantare e mi disse di andare a rastrellare la ghiaia del vialetto dal fossato prima che fottesse il canale di scolo. David Foster Wallace, Il diavolo è un tipo impegnato, in Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi 2016
Il brano che abbiamo appena letto è particolare, per due motivi. Innanzitutto perché, come abbiamo già anticipato, ha tutti i tratti del racconto orale, anzi l’intenzione primaria dell’autore sembra essere proprio quella di mimare fedelmente il tono affabulatorio che assumiamo nel momento in cui siamo intenti a raccontare una storia: inizia in medias res, cioè a racconto già avviato – come se il registratore fosse stato azionato troppo tardi –; la punteggiatura virgole, punti e virgola, due punti è impiegata in modo volutamente poco ortodosso, quasi a indicare solo le pause effettive del narratore, il suo riprendere fiato; infine la narrazione è una colata unica, suggerisce un senso di caos tipico dell’esposizione orale, che per sua stessa natura è poco sorvegliata a livello formale e grammaticale è più facile commettere un errore grammaticale o sintattico mentre si parla, che mentre si scrive . In seconda battuta il brano di Wallace è interessante perché, meglio di altri racconti, ci mostra le somiglianze strutturali che esistono tra la narrazione orale e il racconto breve come genere letterario.
Il racconto breve Quando qualcuno ci racconta un aneddoto, una barzelletta o più in generale una storia può catturare la nostra attenzione oppure rischiare di perderla nel giro di pochi secondi. La riuscita del racconto dipenderà dalle sue doti linguistiche, ma anche dalla presenza scenica del narratore, dal tono e dalla gestualità più o meno accattivante che impiegherà per riferirci quella determinata storia. Tuttavia la presenza o l’assenza di certe qualità della storia raccontata potranno contribuire ad attrarre la nostra attenzione: più la storia sarà fuori dall’ordinario, più certamente ci colpirà e saremo disposti a rimanere ad ascoltarla con attenzione; più sarà breve 2
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e condensata, limitando digressioni e personaggi inutili, più riusciremo a mantenere la concentrazione e a seguirne il filo; più la storia avrà un buon ritmo, riuscendo a giocare anche sull’effetto suspense, più avremo voglia di scoprire come finisce, quale sarà il finale. Gli elementi che abbiamo appena elencato valgono di certo per qualsiasi forma narrativa, ma giocano una partita fondamentale nella creazione del racconto breve, ne costituiscono i tratti fondamentali. Non è un caso che una delle prime grandi raccolte di racconti o novelle che dir si voglia: la differenza è più nominale che sostanziale della storia della letteratura occidentale – il Decamerone di Giovanni Boccaccio – narri di un gruppo di giovani che, scampati alla peste che assedia Firenze, si rifugiano in campagna, decidendo di raccontarsi delle storie per passare il tempo. È quindi l’oralità ad aver dato origine alle forme brevi del narrare come testimoniano certe caratteristiche che anche il racconto scritto, come genere letterario, ha mantenuto nel corso dei secoli, al di là dell’evoluzione che ha subito. Come potremo constatare infatti, i racconti presenti in questa dispensa hanno tutti alcune caratteristiche in comune con la narrazione orale. La prima è quella legata alla straordinarietà dell’evento narrato: ci troveremo di fronte a figure o ad avvenimenti sempre al limite dell’ordinario, a storie inusuali che certe volte violeranno i principi stessi della realtà in cui viviamo, e anche per questo li troveremo affascinanti. La seconda è quella dell’unità e concentrazione dell’avvenimento narrato che, nel suo svolgersi, non viene disturbato o interrotto da episodi secondari è quella che si definisce, in letteratura, come unità di azione . Nel caso in cui siano presenti elementi accessori, deviazioni dal percorso, le digressioni sono comunque minime. Infine, l’ultimo tratto peculiare è la tendenza del racconto scritto, come il racconto orale, a far convergere i fatti narrati verso il finale. Se un romanzo, nella sua lunghezza, ha la possibilità di distendersi, di arrestarsi e di riavvolgersi in continuazione, il racconto è invece verticale, ogni cosa in esso scivola come su un piano inclinato e più ripido è il piano, tanto immediata sarà la fine .
A che cosa serve un racconto Ma, al di là della sua struttura e dei tratti fondamentali che lo caratterizzano, a che cosa potrà mai servire un racconto? Quale è, o quale è stato, lo scopo di questa particolare forma letteraria? Fin dal Medioevo il racconto scritto si è distinto per due finalità diametralmente opposte. Da un lato aveva infatti una finalità allegorica o simbolica tendente all’insegnamento morale: con un racconto si potevano, per esempio, narrare le vite dei santi si parla, in questo caso di racconto agiografico e attraverso di esse veicolare con maggiore efficacia i precetti della religione cristiana; oppure, tramite il ricorso alla narrazione di fatti pienamente inventati come le favole o reali gli aneddoti , offrire una lezione di vita come quella presente nel racconto di David Foster Wallace che abbiamo appena letto. Dall’altro invece il racconto scritto mancava totalmente di uno scopo educativo o morale, ponendosi come unico obiettivo l’intrattenimento del lettore. Si narrava solo e soltanto per il piacere di farlo, nel tentativo di creare, nello spazio di poche pagine, dei mondi altri e coerenti in cui ospitare una storia ai limiti dell’esperienza quotidiana. In questo senso anche gli esempi di racconto moderno presenti in questa breve antologia mantengono, più di quello educativo, lo scopo di dilettare il lettore, di fargli passare il tempo, di incatenarlo nella “trappola inventiva” che è stata preparata per lui. Per questo, ora, ti facciamo una richiesta un po’ bizzarra: dimenticati nel corso delle prossime due ore di laboratorio delle nozioni un po’ astratte che ti abbiamo esposto. Il tuo compito non sarà infatti quello di ricondurre i singoli testi a queste “regole generali” straordinarietà dell’evento narrato; concentrazione e unità; importanza del finale , ma di accettare una sfida, o meglio, una scommessa con noi, in merito alle presunte capacità del racconto di creare piacere, di intrattenere. 3
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Accetti la sfida?
Veramente la letteratura può intrattenere? Come possiamo divertirci, emozionarci, passare il tempo, incuriosirci di racconti scritti da autori vissuti anche secoli fa? Oggi abbiamo i film, la televisione, Youtube o Netflix per intrattenerci: perché sforzarsi di leggere? La nostra scommessa è dimostrarti come certi racconti scritti riescano, sollecitando la nostra immaginazione, a incuriosirci ed emozionarci allo stesso modo di tante “narrazioni visuali” che fruiamo ogni giorno. Il racconto, grazie alla sua brevità, è la forma letteraria più fruibile, la più facile, quella che impegna meno il lettore, almeno in termini di tempo. A questa facilità superficiale tuttavia si accompagna una profondità e un’ambivalenza di significati che crediamo possa colpire l’attenzione e stimolare la tua curiosità di lettore. La dispensa è composta da tre testi di ampia lunghezza circa due pagine , considerati dei piccoli classici del racconto breve, e da cinque più brevi alcuni non superano la pagina . Durante la lettura, verremo catapultati in mondi narrativi differenti e, tempo di affezionarsi al personaggio, il racconto sarà già finito. Avremo sotto gli occhi eventi rapidi a farsi e disfarsi, personaggi simili a estranei incontrati per caso di cui avremo la possibilità di spiare le vite solo con la coda dell’occhio, di sfuggita. Forse non ci diranno niente ‐ può capitare ‐, o forse le loro vite di carta illumineranno come lampi, per un attimo, le nostre di vite, fatte di carne e di sangue. Allora, accetti la sfida?
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Il rumore del cuore di Edgar Allan Poe
Sì, è vero! Sono stato sempre, sono tuttora nervoso, straordinariamente nervoso; ma perché mai mi volete pazzo? Il male ha acuito i miei sensi, non già disfatti, né ottusi. Più d’ogni altro acutissimo era il senso dell’udito. Tutto ciò che accadeva in cielo ed in terra, io l’udivo, e molto di ciò che accadeva nell’inferno. Perché mai, dunque, sarei folle? Ascoltate! E badate con quanta lucidità, con quanta calma io sia in grado di narrarvi tutta la storia. Non saprei dirvi in che modo quell’idea mi entrasse nel cervello; ma una volta concepita, prese a perseguitarmi notte e giorno. Non v’era scopo alcuno. Non passione. Quel vecchio m’era caro. Mai mi aveva fatto torto. Mai mi aveva offeso. Non bramavo il suo oro. Credo fosse quel suo occhio. Sì, era quello. Un occhio era simile ad occhio d’avvoltoio, azzurrognolo, velato. Quando mi si posava addosso, mi si gelava il sangue; e così, poco alla volta, lentamente, giunsi alla determinazione di togliere la vita a quel vecchio, e in tal modo liberarmi di quell’occhio, per sempre. Eccoci al punto. … Con quel vecchio mai fui più affettuoso che nella settimana che precedette quell’assassinio. Ed ogni notte, verso la mezzanotte, ruotavo il nottolino1 della sua porta e l’aprivo – oh, così piano! E poi, quando m’ero fatta un’apertura bastevole per farvi passare il capo, introducevo una lanterna cieca, chiusa, ben chiusa così che non ne filtrasse lume alcuno, e allora spingevo avanti il capo. Certo avreste riso vedendo quanto astutamente io mi muovevo! Lentamente, assai lentamente, così da non turbare il sonno del vecchio. Un’ora mi ci voleva, per infilare tutto quanto il capo, così da poter vedere lui steso sul letto. … E poi, quando la testa era ormai dentro la stanza, cautamente sganciavo la lanterna, ‐ oh cautamente davvero: i cardini stridevano – l’aprivo quanto bastava perché un sottile raggio di luce cadesse su quell’occhio d’avvoltoio. E tanto feci per sette lunghe notti, ogni notte a mezzanotte appunto, ed ogni volta trovai chiuso quell’occhio; e dunque non mi era possibile compiere quel lavoro, giacché non quel vecchio mi seviziava, ma il suo Malocchio. E tutte le mattine, quando s’era levato il giorno, entravo noncurante nella sua camera, con baldanza gli rivolgevo la parola, cordialmente lo chiamavo per nome e gli chiedevo come avesse trascorso la notte. Dunque capite, doveva essere un vecchio sottile ed occulto per poter sospettare che ogni notte, a mezzanotte appunto, mi affacciavo a scrutarlo, immerso nel sonno. L’ottava notte fui più del consueto cauto a scostare la porta. Più rapida della mia mano corre sul quadrante la lancetta dei minuti. … Soffocai un breve riso a quell’idea ed egli forse mi sentì, giacché subitamente si mosse nel letto, come disturbato. … Nelle tenebre fitte la sua stanza era nera come pece gli scuri erano ben chiusi, per timore dei ladri , e così io sapevo che egli non poteva vedere la porta che si apriva, e io continuavo a sospingere, pianamente. Già avevo introdotto il capo, e mi apprestavo ad aprire la lanterna, quando il pollice mi scivolò sul gancio di metallo, e il vecchio balzò sul letto, gridando: ‐ Chi è là? Mi tenni fermo, tacito. Per un’ora intera non mossi muscolo, e nel frattempo non lo udii sdraiarsi. Stava seduto sul letto, ad ascoltare; così io pure ho fatto, una notte dopo l’altra, in ascolto del letale ticchettio dei tarli dentro i muri. Poi udii un sommesso gemito, e sapevo che era il gemito del terrore mortale. Non gemito di dolore, di pena, no davvero, ‐ ma la voce soffocata che si leva dal fondo d’un’anima piegata dal terrore. Quella voce io conoscevo bene. Più d’una volta, di notte, quando tutti dormono, è scaturita dal mio stesso petto, incupendo, eco paurosa, i terrori che mi sconvolgevano. Ho detto, ben la conoscevo. Sapevo quel che provava quel vecchio, e ne avevo pietà, sebbene in cuor mio me la ridessi. Sapevo che era sveglio fin da quel primo lieve rumore, quando s’era girato sul letto. Da quel momento le sue paure erano andate crescendo. Aveva cercato di immaginarle irragionevoli, senza riuscirvi. S’era detto: «E’ solo il vento del camino; un topo ha attraversato la stanza; ma è un grillo, che ha dato un solo strido». Sì, con queste 1
Nottolino: stanghetta di legno per la chiusura dei portoni.
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congetture aveva cercato di consolarsi: ma invano. Invano. Perché la Morte, nel suo lento incedere, era giunta, nera ombra, davanti a lui, e avvolgeva la vittima. E la luttuosa influenza dell’intangibile ombra gli faceva avvertire – sebbene né vedesse né udisse – la mia testa affacciata nella sua stanza. Quando ebbi atteso pazientemente, a lungo, senza che lo sentissi riporsi a giacere, decisi di aprire un poco una piccola, minuscola fessura della lanterna. E l’aprii – non potete immaginare quanto piano – finché, alla fine, un unico tenue raggio, filamento di ragno, scattò dalla fessura e cadde sopra l’occhio d’avvoltoio. Era aperto, era spalancato, ed io a guardarlo mi sentii una furia2. Lo vidi nitidamente – l’azzurro opaco, il tristo velo che mi gelava le ossa; ma del volto, del corpo del vecchio, non vedevo nulla affatto; poiché come d’istinto avevo diretto il raggio esattamente su quel punto di dannazione. … Ora, ecco, giungeva alle mie orecchie un suono fioco, opaco, e rapido, quasi d’un orologio avvolto nell’ovatta. Anche quel suono io conoscevo bene. Era il cuore del vecchio. Accrebbe il mio furore, come i rintocchi del tamburo eccitano il coraggio del soldato. Ma seppi ancora trattenermi e rimasi immobile. Respiravo appena. Tenni la lanterna immobile. Mi costrinsi a tener fermo il raggio sopra l’occhio. E intanto cresceva l’infernale tambureggiare di quel cuore. Divenne rapido, sempre più rapido, ad ogni istante sempre più fragoroso. Il terrore del vecchio doveva certamente essere estremo! … Ed ecco che in quella morta ora notturna, nel silenzio terribile di quella vecchia casa, quel rumore così strano scatenò in me un incontrollabile terrore. E tuttavia, ancora alcuni minuti mi trattenni, e rimasi immobile. Ma quel rintocco diveniva sempre più fragoroso! Pensai che il cuore sarebbe scoppiato. Ed una nuova ansia mi colse – un vicino poteva udire quel rumore! L’ora del vecchio era giunta. Con un urlo spalancai la lanterna e balzai nella stanza. Diede un grido, un grido solo. In un attimo lo gettai al suolo, gli rovesciai addosso il letto pesante. Poi, ebbi un lieto sorriso: fin lì, era fatta. Ma per molti minuti il cuore pulsò di un suono soffocato. Non me ne angustiai; al di là del muro nessuno l’avrebbe udito. Infine, cessò. Il vecchio era morto. Scostai il letto, esaminai il corpo. Sì, morto, stecchito. Posi la mano sul cuore, e ve la tenni per molti minuti. Nessun battito, era morto. Il suo occhio non mi avrebbe mai più seviziato. Se pensate ancora che io sia pazzo, non lo credete più quando vi avrò descritto le savie cautele cui ricorsi per occultare quel corpo. La notte procedeva, ed io lavoravo in fretta, ma in silenzio. Prima di tutto, smembrai il cadavere. Ne tagliai via la testa e braccia e gambe. Poi spostai tre assi dal pavimento della camera, e deposi il tutto sotto il pavimento. Ricollocai quindi le tavole così scaltramente, che nessun occhio umano – neppure il suo – avrebbe potuto scoprire alcunché. Non una traccia da cancellare – nessuna chiazza – niente sangue. Io ero ben circospetto; era tutto finito in una vasca. Ah! Ah! Quando ebbi portato a termine questi lavori, erano le quattro – non meno buio che a mezzanotte. Come la campana suonò le ore, udii bussare alla porta. A cuor leggero, scesi ad aprire: ormai, che avevo da temere? Fecero il loro ingresso tre uomini i quali, con impeccabile garbatezza, si presentarono come funzionari della polizia. Durante la notte qualcuno aveva udito un urlo; si era sospettato un delitto; la polizia era stata informata; ed ecco i funzionari incaricati di perquisire i locali. Sorrisi – che avevo ormai da temere? Diedi loro il benvenuto. Io stesso, dissi, avevo gridato nel sonno. Il vecchio, aggiunsi, era assente, in campagna. Accompagnai i miei ospiti per tutta la casa. Li pregai di cercare – cercare con cura. Alla fine li condussi nella sua camera. Pacato, senza turbamento, mostrai i suoi tesori. Sicuro fino alla tracotanza, in quella stanza portai sedie, e proposi che lì appunto si riposassero delle loro fatiche, mentre io, reso audace fino all’insolenza dal mio meticoloso trionfo, collocavo la mia sedia sul luogo appunto sotto il quale riposava la salma della vittima. I funzionari erano soddisfatti. Il mio modo di fare li aveva persuasi. Io mi sentivo perfettamente a mio agio. Quelli sedevano, e parlavano delle faccende d’ogni giorno, ed io lietamente facevo eco. Ma, in breve, mi sentii impallidire, e cominciai a desiderare che se ne andassero. Mi doleva il capo, e mi parve di udire un ritmico pulsare nelle orecchie: ma quelli, seduti, continuavano a chiacchierare. Quel suono nelle Furia: personificazione della vendetta, dell’ira, con riferimento alle tre divinità della mitologia romana, rappresentate come tre donne alate con capelli di serpenti. 2
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orecchie divenne più nitido; non cessava, si faceva via via più netto: parlai disordinatamente per liberarmi di quella sensazione; ma il rumore cresceva, sempre più chiaro, finché, alla fine, mi accorsi che quel suono non era dentro le mie orecchie. Non c’è dubbio che io mi facessi pallido, molto pallido; ma io parlavo più spigliatamente, ed a voce più alta. E tuttavia il suono cresceva – e che potevo fare?
Era un suono sommesso, cupo, e tuttavia rapido, simile al suono di un orologio avvolto nell’ovatta. Ansimavo, e tuttavia gli uomini della polizia non l’udivano. Presi a parlare più rapidamente, con maggior impeto; ma il rumore continuava a crescere. Mi alzai in piedi, animatamente discorsi di sciocchezze, a gran voce, con gesti impetuosi, ma il suono non smetteva di crescere. Avevo la bava alla bocca, deliravo, imprecavo. Smossi la sedia su cui stavo seduto, la trascinai sulle tavole, ma il rumore sovrastava ogni cosa e ininterrottamente cresceva. Sempre più forte, più forte, più forte! E piacevolmente discorrevano, e sorridevano, quegli uomini. Era possibile che non udissero? Dio onnipotente! No, no! Udivano! Sospettavano! Sapevano! Si facevano gioco del mio terrore! … Non potevo subire oltre l’ipocrisia di quei sorrisi! Lo sapevo, dovevo urlare o morire! … ‐ Miserabili! – urlai, ‐ smettere di fingere! Quel che ho fatto, lo confesso! Strappate queste assi! Qui, qui! Qui pulsa quell’orribile cuore! Edgar Allan Poe, in I racconti 1831‐1849 , Einaudi 2009, pp. 186‐188
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Nell’incipit del racconto il protagonista afferma di avere un senso dell’udito particolarmente sviluppato. In quali momenti della storia ti sembra che il fattore dell’ascolto sia decisivo per la sorte del personaggio? Rileggi, a tal proposito, soprattutto il finale. Il protagonista racconta la sua vicenda in prima persona. In quali punti del testo ti sembra che stia raccontando la sua storia a qualcuno in particolare? Quale atteggiamento assume nei confronti del lettore? Il protagonista si presenta come un uomo meticoloso e razionale, che ama l’ordine e la pulizia, tuttavia compie un crimine efferato senza alcuna ragione. In che modo giustifica la sua decisione? Da quale punto in poi ti sembra che la razionalità stia rapidamente lasciando il posto alla follia?
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Uno scherzetto di Anton Čechov
È un sereno mezzogiorno d’inverno... Il gelo è rigido, la neve scricchiola e a Nàden’ka3, che mi ha preso per il braccio, si coprono di una brina argentea i riccioli sulle tempie e la lanugine4 sul labbro superiore. Siamo sulla cima di una montagnola. Dai nostri piedi fino al piano si stende una superficie levigata, in cui il sole si mira come in uno specchio. Accanto a noi c’è una piccola slitta foderata di panno vermiglio. «Andiamo giù, Naden’ka!» imploro io. «Una sola volta! Vi assicuro, arriveremo sani e salvi». Ma Nàden’ka ha paura. Lo spazio che corre dalle sue piccole calosce5 fino ai piedi della montagnola di ghiaccio le sembra spaventoso, un abisso d’insondabile profondità. Quando guarda in giù, si sente morire e le si mozza il respiro, non appena le propongo di sedersi nella slitta: e che cosa accadrà quando si arrischierà di volare in quell’abisso! Morirà, impazzirà. «Vi supplico!» dico io. «Non dovete aver paura! Non capite che è debolezza, viltà?» Finalmente Nàden’ka cede, e dal suo volto vedo che cede con la paura di rischiare la vita. La aiuto, pallida, tremante a sedersi nella slitta; le cingo con il braccio la vita, e con lei mi precipito nell’abisso. La slitta vola come un proiettile. L’aria tagliata frusta i nostri visi, ulula, fischia nelle orecchie, tira, punge dolorosamente di rabbia, sembra voglia strappare la testa dalle spalle. La violenza del vento non dà forza di respirare. Pare che il diavolo stesso ci abbia afferrati con le sue zampe e urlando ci trascini all’inferno. Gli oggetti intorno si confondono in un’unica striscia lunga che corre vertiginosamente... Ecco, ecco, ancora un istante, e sarà, sembra, la nostra rovina! «Vi amo, Nadja!» dico sottovoce. La slitta comincia a scivolare sempre più lentamente, e l’urlo del vento e il ronzio dei pattini non sono più così spaventosi, il respiro non è più mozzato, e finalmente, siamo arrivati in basso. Nàden’ka non è né viva né morta. È pallida, respira appena... L’aiuto ad alzarsi. «Per nulla al mondo ci tornerei un’altra volta» dice guardandomi con occhi sbarrati, pieni di terrore. «Per nulla al mondo! Per poco non morivo». Poco tempo dopo si è rimessa e già comincia a guardarmi negli occhi con una espressione interrogativa, come volesse accertarsi, se ho detto quelle tre parole veramente, o se le è sembrato soltanto di udirle nel frastuono del turbine. Ed io me ne sto accanto a lei, fumo e osservo attentamente il mio guanto. Mi prende sottobraccio, e a lungo passeggiamo accanto alla montagnola. L’enigma, evidentemente, non le dà pace. Sono state pronunciate quelle parole, oppure no? Sì o no? Sì o no? È una questione d’amor proprio, d’onore, di vita, di felicità, una questione molto importante, la più importante del mondo. Nàden’ka mi guarda in viso impaziente, triste, con uno sguardo scrutatore, non risponde a tono, aspetta che io mi metta a parlare. O come variano le espressioni su quel volto caro, come variano! Vedo che essa lotta con se stessa, che ha bisogno di dirmi qualcosa, di chiedermi qualcosa, ma non trova le parole, si sente impacciata, atterrita, la gioia la turba... «Sapete che cosa?» dice senza guardarmi in viso. «Che cosa?» domando io. «Facciamolo ancora una volta... scendiamo in slitta». Ci arrampichiamo per la scala sulla vetta del pendio. Di nuovo aiuto Nàden’ka pallida, tremante ad accomodarsi nella slitta, di nuovo voliamo nel terribile abisso, di nuovo urla il vento e ronzano i pattini, e di nuovo quando la slitta ha raggiunto la sua massima velocità io dico sottovoce nel frastuono: «Vi amo, Nàden’ka!» Quando la slitta si ferma, Nàden’ka abbraccia con uno sguardo la montagnola sul dorso della quale siamo or ora discesi, poi scruta a lungo il mio viso, ascolta la mia voce indifferente e spassionata, e tutta, 3 Naden’ka è un diminutivo di Nadja, un nome molto diffuso in Russia. 4 La lanugine è una leggera peluria.
5 Soprascarpe di gomma impermeabile.
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tutta, perfino il suo manicotto e il cappuccio, tutta la sua figurina esprime una estrema perplessità. Sul suo viso sta scritto: «Che succede? Chi ha pronunciato quelle parole? Lui, oppure mi è parso soltanto sentirle?» Questa incertezza la rende inquieta, la impazientisce. La povera fanciulla non risponde alle domande, si fa scura in viso. È sul punto di scoppiare in lacrime. «Dobbiamo forse tornare a casa?» domando io. «Ma, a me... a me piace questo scendere in slitta» dice arrossendo. «Non potremmo forse scendere un’altra volta?» Le “piace” questo scendere, e tuttavia, mentre si siede nella slitta, è pallida come le prime volte, respira appena dal terrore, trema. Facciamo la discesa una terza volta, e mi accorgo, come mi guarda in viso, fissa le mie labbra. Ma io accosto alle labbra un fazzoletto, tossisco e, quando raggiungiamo la metà della discesa, faccio in tempo a sussurrare: «Vi amo, Nadja!» L’enigma rimane tale! Nàden’ka tace, pensa a qualcosa... La riaccompagno a casa, essa cerca di camminare più adagio, rallenta i passi e aspetta sempre che le dica di nuovo quelle parole. E vedo quanto soffre la sua anima, come sta facendo uno sforzo su se stessa, per non dire: «Non può essere che le abbia dette il vento! E non voglio che le abbia dette il vento!». Il giorno dopo ricevo la mattina un biglietto: «Se oggi andate alla pista delle slitte, passate a prendermi. N.». E da quel giorno comincio ad andare quotidianamente con Nadja alla pista e, mentre voliamo giù sulla slitta, pronuncio ogni volta sottovoce quelle stesse parole: «Vi amo, Nadja!». Ben presto Nàden’ka s’avvezza a questa frase, come ci si avvezza al vino o alla morfina6. Non può più vivere senza di essa. È vero che le fa sempre molta paura volar giù dalla cima della montagna, ma ormai il terrore e il pericolo conferiscono un fascino speciale alle parole d’amore, alle parole che come prima formano un enigma e fanno languire l’anima. Il sospetto cade sempre sugli stessi due: su me e sul vento… Chi dei due le faccia la dichiarazione d’amore, essa non sa, ma ormai evidentemente per lei è lo stesso; non importa da quale recipiente si beva, basta che ci si inebrii. Un pomeriggio mi recai da solo alla pista; mescolatomi con la folla, vedo che Nàden’ka si avvicina alla montagnola, che mi cerca con gli occhi …Poi timidamente si arrampica su per la scaletta… È terribile far la discesa da sola, oh com’è terribile. È pallida come la neve, trema, cammina come se andasse al patibolo, ma cammina, cammina senza guardare indietro, decisamente. Ha deciso, si vede, di provare finalmente se sarà possibile udire quelle parole dolci, stupefacenti, quando non ci sono io. Vedo come pallida, la bocca aperta per lo spavento, si siede nella slitta, chiude gli occhi e, detto per sempre addio alla terra, si mette in moto… «ssss»… ronzano i pattini. Ode Nàden’ka quelle parole? Non lo so… Vedo soltanto come si alza debole, sfinita, dalla slitta. E dal suo volto si capisce che essa stessa non sa se abbia o no udito qualcosa. Il terrore, mentre scivolava, le ha tolto la facoltà di udire, di distinguere i suoni, di capire… Ma ecco che viene il mese primaverile di marzo… il sole si fa più carezzevole. La nostra montagnola di ghiaccio diventa più scura, smette di luccicare e finalmente si scioglie. Smettiamo di andare in slitta. Per la povera Nàden’ka non c’è più possibilità di sentire quelle parole, e poi chi le può ormai pronunciare? Il vento non si ode più e io mi accingo a partire per Pietroburgo, per lungo tempo, probabilmente per sempre. Una volta, due o tre giorni prima della partenza, me ne sto seduto, al crepuscolo, nel giardino, che uno steccato alto sormontato da chiodi separa dal cortile, dove vive Nàden’ka… Fa ancora piuttosto freddo, sotto il concime c’è ancora la neve, gli alberi sono morti, ma c’è già odore di primavera e, mentre si preparano a dormire, le cornacchie gracchiano rumorosamente. Mi avvicino allo steccato e guardo a lungo attraverso una fessura. Vedo Nadja che esce sulla soglia e volge uno sguardo triste, nostalgico al cielo… Il vento primaverile le soffia diritto nel viso pallido, abbattuto… Le ricorda quell’altro vento, che allora ci urlava in viso sulla montagna, quando udiva quelle parole, e il suo volto si fa triste, triste, e lungo la guancia scende lenta una lacrima… E la povera fanciulla protende tutte e due le braccia, come volesse pregare il vento di recarle ancora una volta quelle parole. Ed io, dopo avere atteso che il vento soffi di nuovo, dico sottovoce: «Vi amo, Nadja!». 6
Oppiaceo utilizzato in medicina per alleviare il dolore; può provocare assuefazione.
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Dio mio, che succede ora! Lancia un grido, sorride con tutto il viso e protende incontro al vento le braccia, beata, felice, così bella. E io torno a far le valigie… Questo è accaduto molto tempo fa. Ora Nàden’ka è già maritata; l’hanno data in sposa, o s’è data lei stessa, non importa, al segretario della Camera di tutela nobiliare, e ormai ha già tre bambini. Ma il ricordo di quando andavamo in slitta e il vento le recava le parole «vi amo, Nàden’ka», non si è spento; per lei è il ricordo più felice, più commovente e splendido della sua vita… Mentre io ora che mi sono fatto più vecchio, non riesco più a capire perché dicessi quelle parole, a che scopo scherzassi… Anton Pavlovic Čechov, in Racconti e teatro, Sansoni 1966
PER RIFLETTERE SUI TESTI Nell’introduzione a questa dispensa abbiamo parlato di unità e concentrazione dell’azione narrativa. Secondo te, c’è un elemento che rende coerente e unitario questo racconto? Riesci a individuarlo? Cosa prova Nàden’ka mentre si trova sulla slitta in discesa verso l’abisso? In che modo viene descritta l’esperienza della discesa? Segnala i passaggi salienti. Trovi che la descrizione della discesa abbia dei significati simbolici collegati alla tematica amorosa del racconto?
Un posto pulito, illuminato bene di Ernest Hemingway
Era molto tardi e quasi tutti se n'erano andati dal caffè, tranne un vecchio che sedeva nell'ombra che le foglie dell'albero proiettavano schermando la luce delle lampade elettriche. Durante il giorno la strada era polverosa, ma di notte la rugiada faceva depositare la polvere ed al vecchio piaceva stare seduto lì fino a tardi, perché era sordo e di notte, quando tutto era tranquillo, riusciva a sentire che era diverso. I due camerieri nel caffè sapevano che il vecchio era un po' ubriaco e, anche se era un buon cliente, sapevano che se si fosse ubriacato troppo se ne sarebbe andato senza pagare, così lo tenevano d'occhio. «La settimana scorsa ha tentato il suicidio.» disse uno dei camerieri. «Perché?» «Era disperato.» «Per quale ragione?» «Nessuna.» «Come lo sai che non aveva una ragione?» «Ha un sacco di soldi.» Si sedettero ad un tavolo che stava contro il muro vicino alla porta del caffè e continuarono a guardare la terrazza dove i tavoli erano tutti vuoti tranne quello dove sedeva il vecchio, all'ombra delle foglie dell'albero che si muovevano leggermente nel vento. Una ragazza ed un soldato passarono per la strada. La luce del lampione si riflesse sulla targhetta d'ottone che pendeva dal collo del soldato. La ragazza non portava niente in testa e faticava a tenere il suo passo. «La pattuglia lo beccherà.» disse uno dei camerieri. 10
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«Che importa, se otterrà comunque quello che sta cercando?» «Farebbe comunque meglio ad allontanarsi dalla strada adesso. La pattuglia lo prenderà. E' passata appena cinque minuti fa.» Il vecchio seduto nell'ombra batteva sul vassoio con gli occhiali. Il cameriere più giovane andò da lui. «Che cosa vuole?» Il vecchio lo guardò. «Un altro brandy» disse. «Si ubriacherà» disse il cameriere. Il vecchio lo guardò. Il cameriere andò via. «Resterà qui tutta la notte» disse al collega «Ed io ho già sonno. Non vado mai a dormire prima delle tre. Avrebbe dovuto ammazzarsi la settimana scorsa.» Il cameriere prese la bottiglia di brandy ed un altro bicchiere dal bancone dentro al caffè e marciò verso il tavolo del vecchio. Appoggiò il cabaret e riempì il bicchiere di brandy fino all'orlo. «Ti saresti dovuto ammazzare la settimana scorsa» disse all'uomo sordo. Il vecchio fece un gesto con le dita. «Un po' di più» disse. Il cameriere continuò a versare così che il brandy traboccò e scivolò giù dentro al primo vassoio della pila. «Grazie» disse il vecchio. Il cameriere riportò la bottiglia nel caffè. Si sedette nuovamente al tavolo con il suo collega. «Adesso è ubriaco» disse. «Si ubriaca tutte le notti.» «Perché voleva ammazzarsi?» «Cosa ne so io?» «Come ha fatto?» «Si è impiccato con una corda.» «Chi lo ha tirato giù?» «Sua nipote.» «Perché lo ha fatto?» «Per salvargli l'anima.» «Quanti soldi ha?» «Un sacco.» «Deve avere almeno ottant'anni.» «Sì, credo proprio che abbia ottant'anni.» «Vorrei che andasse a casa. Non riesco mai ad andare a letto prima delle tre del mattino. Che razza di ora è per andare a letto?» «Lui sta sveglio perché gli piace.» «Lui è solo. Io no. Ho una moglie che mi aspetta nel letto.» «Anche lui aveva una moglie, una volta.» «Una moglie adesso non gli servirebbe a niente.» «Chi lo sa? Forse starebbe meglio se avesse una moglie». «Sua nipote si occupa di lui. Hai detto che lo ha tirato giù lei.». «Lo so.» «Non mi piacerebbe essere così vecchio. I vecchi sono cose sporche.» «Non sempre. Questo vecchio è pulito. Beve senza rovesciare una goccia. Persino adesso che è ubriaco. Guardalo.» «Non ho voglia di guardarlo. Vorrei solo che andasse a casa. Non ha nessun rispetto per la gente che deve lavorare.» Il vecchio guardò la piazza attraverso le lenti degli occhiali, poi guardò i camerieri. «Un altro brandy,» disse, indicando il suo bicchiere. Il cameriere che aveva fretta andò da lui. «Finito,» disse, parlando con quell'omissione di sintassi che gli stupidi usano quando parlano con la gente ubriaca o con gli stranieri. «Basta stanotte. Adesso chiuso.» 11
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«Un altro,» disse il vecchio. «No. Finito.» Il cameriere iniziò a spazzare un lato del tavolo con un tovagliolo scuotendo la testa. Il vecchio si alzò, contò lentamente i vassoi, tolse un portamonete di pelle dalla tasca e pagò quel che aveva bevuto lasciando mezza peseta di mancia. Il cameriere lo guardò mentre si allontanava, un uomo molto vecchio che camminava con passo incerto ma con dignità. «Perché non gli hai permesso di restare a berne un altro?» chiese il cameriere che non aveva fretta. Stavano già chiudendo la serranda. «Non sono ancora le due e trenta.» «Voglio andare a casa, a letto.» «Che differenza fa un'ora?» «Fa più differenza per me che per lui.» «Un'ora è sempre un'ora.» «Adesso parli come se fossi vecchio anche tu. Poteva comprarsi una bottiglia ed andare a bersela a casa.» «Non è la stessa cosa.» «No, non lo è.» acconsentì il cameriere che aveva una moglie. Non voleva essere ingiusto. Aveva solo fretta. «E tu? Non hai paura ad andare a casa prima del solito?» «Stai cercando di insultarmi?» «No, hombre, sto solo scherzando.» «No,» disse il cameriere che aveva fretta, alzandosi dopo aver agganciato la serratura di metallo. «Mi fido. Mi fido molto.» «Hai gioventù, fiducia e un lavoro,» disse il cameriere più vecchio. «Hai tutto.». «Ed a te cosa manca?» «Tutto, tranne un lavoro.» «Hai le stesse cose che ho io.» «No. Non mi sono mai fidato di nessuno, e non sono giovane.» «Avanti. Smettiamola con queste sciocchezze e chiudiamo.» «Io sono uno di quelli a cui piace restare al caffè fino a tardi.» disse il cameriere più vecchio. «Con tutti quelli che non vogliono andare a letto.» «Io voglio andare a casa ed infilarmi a letto.» «Siamo di due tipi differenti,» disse il cameriere più vecchio. «Non è solo una questione di età o di fiducia, anche se queste sono comunque cose molto belle. Ogni notte sono riluttante a chiudere perché potrebbe arrivare qualcuno che ha bisogno del caffè.» «Hombre, ci sono bodegas aperte tutta la notte.» «Tu non capisci. Questo è un caffè pulito e piacevole. È illuminato bene. La luce è molto buona e poi, adesso, c'è l'ombra delle foglie.» «Buona notte,» disse il cameriere più giovane. «Buona notte,» disse l'altro. Spense la luce continuando la conversazione fra sé e sé. Era la luce, ovviamente, ma era comunque necessario che il posto fosse pulito e piacevole. Certamente non ci deve essere musica. Né si può stare con dignità in piedi di fronte ad un bancone, anche se è l'unica cosa che puoi trovare dopo una certa ora. Di che cosa aveva paura? Non era paura né timore, era un nulla che conosceva troppo bene. Tutto era nulla, anche gli uomini erano nulla. Era solo quello e la luce era l'unica cosa di cui aveva bisogno, assieme ad un poco di pulizia e di ordine. Alcuni ci vivevano e neanche se ne accorgevano, ma lui lo sapeva che tutto era nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il tuo nome ed il tuo regno, nada la tua volontà in
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nada come in nada. Dacci oggi il nostro nada quotidiano e rimetti a noi i nostri nada come noi rimettiamo ai nostri nada e liberaci dal nada; pues nada. Ave o nulla pieno di nulla, che il nulla sia con te. Sorrise e si fermò davanti ad un bancone con una luccicante macchina del caffè a pressione. «Che cosa vuole?» chiese il barista. «Nada». «Otro loco mas»7 disse il barista e si voltò. «Una tazzina,» disse il cameriere. Il barista gliela versò. «La luce è brillante e piacevole, ma il bancone non è lucidato,» disse il cameriere. Il barista lo guardò ma non rispose. Era troppo tardi per fare conversazione. «Vuole un'altra copita?» chiese il barista. «No, grazie,» disse il cameriere ed uscì. Non gli piacevano i bar e le bodegas. Un caffè pulito e ben illuminato era una cosa molto diversa. Ora, senza più pensare, sarebbe andato a casa, nella sua stanza. Si sarebbe coricato sul letto e finalmente, con la luce del giorno, si sarebbe addormentato. Dopo tutto si disse, è probabilmente solo insonnia. Deve essere un problema abbastanza comune.
Ernst Hemingway, in Tutti i racconti, Mondadori 1990, pp. 418‐423
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Quali sono i personaggi più importanti di questo racconto? Rappresentano semplicemente se stessi o alludono a qualcos’altro? Secondo te, per quale motivo i personaggi non hanno un nome? La luce e l’oscurità sono due elementi che avvolgono in modo diverso i personaggi del racconto. Individua questi momenti e prova ad interpretarli. Secondo te, che significato hanno?
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Traduzione: «Un altro pazzo»
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Destino di Raffaele La Capria
Appostato dietro un muro a secco, in piena campagna, aspettava che sul sentiero apparisse il suo nemico. Non sapeva nemmeno se lo avrebbe riconosciuto. Quando lui era partito per la Germania, cinque anni fa, il suo nemico era appena un bambino. Di lassù, da quella città del nord, il suo paese gli era parso un carcere, un inferno di miseria e di ignoranza, da cui non poteva nascere che il male che ogni generazione lasciava in eredità alla successiva. Era stata una vita dura, e ora, dopo cinque anni, appena arrivato in visita dai suoi, gli avevano messo in mano un fucile a canne mozze. Lo aveva deciso la famiglia Seminara al completo. L'anno scorso, dietro un altro muretto di campagna, s'era appostato il giovane che adesso stava per passare, e aveva ammazzato uno dei suoi. E ancora prima uno dei Seminara nella piazza del paese aveva sparato a uno dei Mammoliti. E prima, ancora prima, era stato uno dei Mammoliti a usare il coltello. Quante volte la stessa situazione si era ripetuta? Cercò di ricostruire attraverso i racconti che gli erano arrivati tutti gli anelli di questa catena, e man mano che risaliva nel tempo, i fatti e la loro configurazione si confondevano, se ne perdevano i motivi e il senso. Dietro la nebbia delle cose accadute restavano solo i nomi dei morti, quelli di una parte e quelli dell'altra, una lunga fila. Nomi di parenti che ormai gli erano più estranei di qualsiasi estraneo, più estranei certo del giovane che sarebbe tra poco passato di là. Nomi di parenti lontani, visti in qualche sbiadita fotografia, zii nonni cognati fratelli cugini del clan dei Seminara, ricordati sulle lapidi del cimitero. E poi anche i nomi si perdevano e una scia di sangue era l'unica lasciata da chi li aveva posseduti. Un rumore di passi interruppe il filo di questi pensieri. Adesso poteva vederlo, il nemico, attraverso una fessura del muro: era un bel ragazzo di sedici anni, era stato alla processione del Santo Patrono, alla chiesa del paese della fidanzata. Ora se ne tornava a casa tutto parato a festa e fischiettava con l'aria arrogante dei Mammoliti che lui aveva ben imparato a conoscere e a temere sin da piccolo. Mentre prendeva la mira si domandò perché mai obbediva così ciecamente a quell'ordine che prima ancora della sua venuta al mondo qualcuno gli aveva impartito. Ma un sorriso a sua insaputa gli attraversò la faccia e la impietrì in un ghigno. Raffaele La Capria, in Fiori giapponesi, Opere, Mondadori 2014, pp. 1200 – 1201
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Abbiamo appena detto che la ripetizione e l’insistenza su un unico tratto sono le caratteristiche principali del racconto breve. Secondo te, qual è il paragrafo che meglio realizza questa funzione? Individua e indica nel testo le azioni che si ripetono. Cerca di ricostruire la vita del protagonista di questo racconto. Che cosa sappiamo di lui? Per quale motivo si trova “appostato dietro un muro a secco” in attesa? Secondo te, che tipo di sentimenti prova nei confronti del suo “nemico”? Secondo te, perché l’autore ha intitolato questo racconto “Destino”? Se dovessi riassumerlo a voce, per esempio a un tuo compagno, come racconteresti il finale? In che modo si compie il destino del protagonista?
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Il vicino di Franz Kafka
La mia azienda pesa tutta quanta sulle mie spalle. Due signorine con macchine da scrivere e registri nell’anticamera, la mia stanza con scrivania, cassa, tavolo delle sedute, poltrone di cuoio e telefono, questo è tutto il mio apparato da lavoro. Così facile da abbracciare con lo sguardo, così semplice da condurre. Io sono giovanissimo e gli affari camminano sulle rotelle. Non mi lamento, non mi lamento. Da Capodanno un giovane mi ha portato via sotto il naso il piccolo appartamento accanto, che io stupidamente ho tanto esitato a prendere in affitto. Anche quello ha una camera e un’anticamera, e inoltre ha anche una cucina. Camera e anticamera mi sarebbero state molto utili – le mie due signorine a volte sono sovraccariche di lavoro – ma che cosa me ne sarei fatto della cucina? È colpa di questa meschina considerazione se mi sono lasciato portar via l’appartamento. E ora c’è quel giovane. Si chiama Harras. Che cosa faccia lì, non lo so. Sulla porta sta scritto «Studio Harras». Ho preso delle informazioni, e mi è stato riferito che è un ufficio del genere del mio. Non mi si sconsiglia addirittura di concedergli il mio credito, poiché si tratta d’un uomo giovane e intraprendente, la cui attività può avere un avvenire, però non mi si può neppure incoraggiare a concederglielo, perché per il momento, secondo tutte le apparenza, non esistono capitali. Le solite informazioni che si danno quando non si sa nulla di preciso. Qualche volto incontro Harras per le scale; deve aver sempre una fretta straordinaria, perché mi passa sempre avanti di corsa. Non l’ho mai visto bene, egli tiene pronta in mano la chiave dell’ufficio. In un secondo ha aperto la porta. È scivolato dentro come la coda d’un topo e io mi trovo davanti la targa: «Studio Harras» che ho già letto molte più volte di quel che merita. Maledetti muri sottili che tradiscono l’uomo dalle oneste attività e proteggono il disonesto! Il mio telefono è infisso alla parete che mi divide dal mio vicino. Lo dico soltanto per far notare le ironie del caso; anche se fosse alla parete opposta, nell’appartamento vicino si sentirebbe tutto. Mi sono abituato a non più pronunciare per telefono il nome dei clienti. Ma non ci vuole una grande furberia a indovinare il nome delle caratteristiche quanto inevitabili fasi del discorso. A volte, col ricevitore all’orecchio, assillato dall’inquietudine, saltello in punta di piedi attorno all’apparecchio, eppure non posso impedire che i miei segreti vengano dati in pasto al vicino. Naturalmente questo fa sì che le mie decisioni divengano incerte e la mia voce tremante. Cosa fa Harras mentre io telefono? Se volessi esagerar molto – ma questo bisogna sovente farlo per vedere chiaro – direi: Harras non ha bisogno di telefono, egli usa il mio, ha spinto il suo divano presso la parete e sta ad ascoltare; io invece quando il telefono trilla devo correre all’apparecchio, ascoltare i desideri dei clienti, prendere delle importanti deliberazioni, svolgere grandi discorsi persuasivi, ma innanzitutto, durante l’intera conversazione, devo involontariamente fare il mio rapporto a Harras attraverso la parete. 15
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Forse egli non aspetta neppure la fine della comunicazione, ma quando le mie parole l’hanno sufficientemente illuminato, corre attraverso la città com’è sua abitudine, e prima ch’io abbia riattaccato il ricevitore, egli forse sta già lavorando contro di me. Franz Kafka, in Il messaggio dell’imperatore, Adelphi 1981, pp. 367‐8.
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Il testo è costruito attorno al rapporto tra i due personaggi: il narratore e Harras. Entrambi, per diverse ragioni non compaiono, ma sappiamo molto su di loro. In che modo vengono rappresentati e attraverso quali espedienti narrativi? Che storia viene raccontata? È una storia straordinaria o ordinaria? Quanto conta il punto di vista nell’economia del racconto? Il testo, paragrafo dopo paragrafo, produce una progressione verso il finale. Cosa succede? Che modificazioni avvengono?
Piccole cose di Raymond Carver
Durante il giorno era uscito il sole e la neve si era sciolta in acqua sporca. Ora scorreva in rivoletti sulla finestrella ad altezza spalla che dava sul retro. In strada le macchine passavano frusciando nella poltiglia. Si stava facendo sempre più buio, sia dentro che fuori. Lui era in camera da letto e cacciava dei vestitini in valigia quando lei apparve sulla soglia. Sono proprio contenta che te ne vai! Sono proprio contenta!, disse. Mi senti? Lui continuò a mettere le sue cose in valigia. Brutto figlio di puttana! Sono proprio contenta che te ne vai! Scoppiò a piangere. Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia, vero? Poi notò la foto del bambino poggiata sul letto e la prese. Riportala qua, disse lui. Pigliati la tua borsa e levati di torno, disse lei. Lui non rispose. Chiuse la valigia, si mise la giacca, si guardò intorno in camera da letto prima di spegnere la luce. Poi andò in soggiorno. Lei era in piedi sulla soglia della piccola cucina, con il bambino in braccio. Voglio il bambino, disse lui. Ma sei matto? No, ma voglio il bambino. Farò venire qualcuno a prendere le sue cose. Tu questa creatura non la tocchi. Il bambino si mise a piangere e lei gli scostò la copertina dalla testa. Oh‐oh, disse, guardando il bambino. Per l’amor di Dio!, disse lei, arretrando nella cucina. 16
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Voglio il bambino. Vattene via Si girò e cercò di tenere il bambino riparato in un angolo dietro la stufa, mentre lui si avvicinava. Lui allungo le braccia oltre la stufa e afferrò il bambino. Lascialo andare, disse. Va via, va via!, strillò lei. Il bambino si era fatto tutto rosso in faccia e urlava. Nella lotta fecero cadere il vaso di fiori appeso dietro la stufa. Lui allora la chiuse contro la parete, cercando di farle mollare la presa. Teneva stretto il bambino e spingeva con tutto il peso sul braccio di lei. Lascialo, le disse. Smettila, disse lei. Gli fai male! Non gli faccio male. Dalla finestra della cucina non entrava luce. Nella penombra, con una mano tentava di allentare le dita di lei strette a pugno, mentre con l’altra stringeva il bambino urlante per il braccio, vicino alla spalla. Lei sentiva le proprie dita aprirsi e il bambino scivolarle via. No!, gridò nel momento in cui le sfuggi la presa. L’avrebbe avuto lei il bambino. Lo afferrò per l’altro braccetto. Riuscì a prenderlo per il polso e si tirò dietro. Neanche lui voleva cedere. Sentì il bambino scivolargli dalle mani e tirò con molta forza. E così la questione fu risolta. Raymond Carver, in Da dove sto chiamando, Einaudi 2014, p. 155
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Abbiamo detto che spesso, nella storia di questo genere letterario, gli autori hanno scelto di raccontare dei fatti straordinari, che interrompono il flusso della quotidianità. Ti sembra che questo testo riporti un fatto straordinario? Dove è ambientato il racconto? Quasi tutto il testo è occupato da un dialogo fitto tra moglie e marito. Se dovessi raccontare lo stesso episodio a un tuo compagno, lo racconteresti allo stesso modo? Cosa sappiamo di questi personaggi? Secondo te, qual è la miccia che scatena il litigio tra i due personaggi? Come si conclude il litigio? In quali mani va a finire il bambino?
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L’intervista di Primo Levi
Era ancora buio fitto e piovigginava. Elio rientrava dal turno di notte, ed era stanco e assonnato; scese dal tram e si avviò verso casa, prima per una via dal fondo dissestato, poi per un viottolo privo d'illuminazione. Nell'oscurità udì una voce che gli chiese: ‐ Permette un'intervista? Era una voce leggermente metallica, priva d'inflessioni dialettali; stranamente, gli parve che provenisse dal basso, presso i suoi piedi. Si fermò, un po' sorpreso, e rispose di sì, ma che aveva fretta di rientrare. ‐ Ho fretta anch'io, non si preoccupi, ‐ rispose la voce. ‐ In due minuti abbiamo finito. MI dica: quanti sono gli abitanti della Terra? ‐ Su per giù quattro miliardi. Ma perché lo chiede proprio a me? ‐ Per puro caso, mi creda. Non ho avuto il modo di fare scelte. Senta, per favore, come digerite? Elio era seccato. ‐ Cosa vuol dire, come digerite? C'è chi digerisce bene e chi male. Ma chi è lei? Non vorrà mica vendermi delle medicine a quest'ora, e qui al buio in mezzo alla strada? ‐ No, è solo per una statistica, ‐ disse la voce, impassibile. ‐ Vengo da una stella qui vicino, dobbiamo compilare un annuario sui pianeti abitati della Galassia, e ci occorrono alcuni dati comparativi. ‐ E… come mai lei parla così bene l'italiano? ‐ Parlo anche diverse altre lingue. Sa, le trasmissioni delle vostre Tv non si fermano alla ionosfera, ma proseguono nello spazio. Ci mettono undici anni abbondanti, ma arrivano fino a noi abbastanza distinte. Trovo interessanti i vostri sketch pubblicitari: sono molto istruttivi, e credo di essermi reso conto di come mangiate e di quello che mangiate, ma nessuno di noi ha idea di come digerite. Perciò la prego di rispondere alla mia domanda. ‐ Be', sa, io ho sempre digerito bene e non saprei darle molti dettagli. Abbiamo un … un sacco che si chiama stomaco, con degli acidi dentro, e poi un tubo; si mangia, passano due o tre ore, e il mangiare si scioglie, insomma, diventa carne e sangue. ‐ … carne e sangue, ‐ ripeté la voce, come se prendesse appunti. Elio notò che quella voce era proprio come quelle che si sentono in Tv: chiara ma insipida e snervata. ‐ Perché passate tanto tempo a lavarvi e a lavare gli oggetti intorno a voi? Elio, con un certo imbarazzo, spiegò che non ci si lava che per qualche minuto al giorno, che ci si lava per non essere sporchi, e che se si sta sporchi c'è il rischio di prendere qualche malattia. ‐ Già, era una delle nostre ipotesi. Vi lavate per non morire. Come morite? A quanti anni? Muoiono tutti? Anche qui la risposta di Elio fu un po' confusa. Disse che non c'erano regole, si moriva sia giovani sia vecchi, pochi arrivavano ai cento anni. ‐ Capito. Vivono a lungo quelli che usano lenzuola bianche e danno la cera ai pavimenti ‐. Elio cercò di rettificare, ma l'intervistatore aveva fretta, e continuò: ‐ Come vi riproducete? Sempre più imbarazzato, Elio si invischiò in una imbrogliata esposizione sull'uomo e sulla donna, sui cromosomi su cui appunto era stato informato pochi giorni prima dalla Tv , sull'eredità, sulla gravidanza e sul parto, ma lo straniero lo interruppe: voleva sapere a quanti anni incomincia a svilupparsi il vestito. Mentre Elio, ormai spazientito, gli stava spiegando che 18
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il vestito non cresce addosso, ma si compera, si accorse che stava spuntando l'alba, e nella luce incerta vide che la voce proveniva da una specie di pozzanghera ai suoi piedi; o meglio, non proprio una pozzanghera, ma come una grossa chiazza di marmellata bruna. Anche lo straniero si doveva esser accorto che era passato parecchio tempo. La voce disse: ‐ Mille grazie, scusi per il disturbo ‐. Subito dopo la chiazza si contrasse e si allungò verso l'alto, come se tentasse di staccarsi dal suolo. Parve a Elio che non ci riuscisse, e si udì ancora la voce che diceva: ‐ Per favore, lei che è così gentile, potrebbe accendere un cerino? Se non ho un po' di aria ionizzata intorno delle volte non mi riesce di decollare. Elio accese un cerino, e la chiazza, come se succhiata da un aspirapolvere, salì e si perse nel cielo fumoso del mattino. da Primo Levi, L'ultimo Natale di guerra, Einaudi 2000, pp. 9 – 11
PER RIFLETTERE SUI TESTI
In che modo viene narrata questa storiella? Che rapporto intercorre tra la straordinarietà della storia e il modo in cui viene raccontata? Se incontrassi un alieno che ti vuol fare un intervista racconteresti l’incontro nello stesso modo? Che tipo di domande pone l’intervistatore a Elio, che tipo di argomenti gli interessano? Che rapporto c’è tra queste, le trasmissioni televisive e gli sketch pubblicitari che a quanto «pare non si fermano alla ionosfera ma proseguono nello spazio»? Il racconto si dirama in un escalation di assurdità. Come vengono disposte le informazioni narrative il tipo di domande poste e quello che il lettore viene a sapere sull’intervistatore ? Che effetto produce? La critica all’antropocentrismo – all’idea dell’uomo di essere il centro intoccabile dell’universo – è un tema caro a Primo Levi. Come si manifesta in questo racconto?
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Croci di George Saunders
Ogni anno la sera del Ringraziamento seguivamo come un gregge papà che trascinava il vestito da Babbo Natale in giardino e lo sistemava su una specie di crocefisso che aveva costruito con un palo di metallo. La settimana del Super Bowl la croce portava una maglia da football e il casco di Rod e Rod doveva chiedere il permesso a papà se voleva riprendersi il casco. Il Quattro Luglio la croce diventava lo Zio Sam, il giorno dei caduti un soldato, ad Halloween un fantasma. La croce era l’unica concessione di papà all’entusiasmo. Potevamo prendere solo un pastello per volta dalla scatola. Una volta la notte di Natale papà sgridò Kimmie perché aveva sprecato uno spicchio di mela. Quando versavamo il ketchup ci ronzava intorno dicendo: Basta, basta, basta. Le feste di compleanno erano a base di merendine, niente gelato. La prima volta che ho portato a casa una ragazza lei mi ha detto: Perché tuo padre ha messo quei due pali in croce?, e io non sapevo dove guardare. Siamo andati via di casa, ci siamo sposati, siamo diventati genitori, abbiamo scoperto che il seme della grettezza fioriva anche dentro di noi. Papà ha cominciato a decorare la croce con più complessità e con una logica più ermetica. Il Giorno della Marmotta l’ha coperta con una specie di pelliccia e ha trascinato fuori un riflettore per creare un effetto ombra. Quando c’è stato un terremoto in Cile ha abbattuto la croce e dipinto una crepa per terra con lo spray. È morta mamma e ha mascherato la croce da Morte e sul braccio orizzontale ha appeso le foto di mamma da piccola. Passavamo a salutarlo e trovavamo strani talismani della sua gioventù disposti ai piedi della croce; medaglie dell’esercito, biglietti del teatro, vecchie felpe, cosmetici di mamma. Un autunno ha pitturato la croce di giallo vivo. E in inverno l’ha coperta d’ovatta per tenerla al caldo e fornita di prole piantando col martello sei mini croci e ci ha attaccato lettere di scusa, ammissioni d’errore, richieste di comprensione, tutto su cartellini scritti con mano affannosa. Ha dipinto e appeso alla croce un cartello con la scritta AMORE, poi un altro che diceva PERDONARE? E poi è morto in corridoio con la radio accesa e abbiamo venduto la casa a una giovane coppia che ha sradicato la croce e l’ha lasciata sul ciglio della strada perché la portasse via il camion dell’immondizia. George Saunders, Dieci dicembre, Minimum fax 2013, pp. 30‐31
PER RIFLETTERE SUI TESTI
Chi è il protagonista del racconto? Cosa sappiamo di lui e del rapporto con i suoi figli? Nel racconto Piccole cose di Raymond Carver i protagonisti litigano per il possesso di un bambino. Secondo te, nella vita reale quanto durerebbe un litigio del genere? Ti sembra che l’autore riesca a essere altrettanto breve? Quanto tempo invece pensi occuperebbe raccontare la storia di una famiglia intera, come la tua? Il padre del narratore camuffa una croce di legno inventando via via dei travestimenti eccentrici. Ti sembra che i travestimenti siano guidati sempre dalla stessa logica? Rileggi le ultime righe: credi che esista un legame tra il destino del protagonista e quello della croce? Secondo te, che cosa rappresenta la croce di legno?
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Gli autori Edgar Allan Poe 1809 – 1849 : nasce a Boston da attori girovaghi. È considerato il principale teorico del genere del racconto breve, e i suoi racconti influenzeranno notevolmente tutta la produzione ottocentesca, con riprese anche nel primo Novecento. Esordisce come poesia quando nel 1827 pubblica a proprie spese la raccolta di poesie Tamerlane and other poems, ispirata al romanticismo inglese di Byron. Vive alla giornata collaborando a vari periodici del tempo sui quali inizia a pubblicare i Racconti dell’incubo e del mistero che costituiscono i suoi capolavori, insieme a pagine di critica letteraria fra le più acute mai apparse in America. La fama di Poe si afferma per la prima volta nel 1845 con la pubblicazione dell’angosciante e malinconica poesia The raven “Il corvo” , in cui introduce, per la prima volta in poesia, un ossessivo fonosimbolismo, ossia una corrispondenza tra suono e contenuto. La dipendenza dall’alcol e la morte della giovane moglie nel 1847 portano Poe ad un tracollo psichico. Morirà pochi anni dopo. Anton Čechov 1860 – 1904 : nasce nella Russia meridionale in una famiglia disagiata il nonno era stato servo della gleba . Si laurea in medicina all’Università di Mosca, ma eserciterà solo occasionalmente la professione, dedicandosi prevalentemente all’attività letteraria. Malato di tubercolosi, compie molti viaggi in località marittime assieme alla moglie Olga Knipper, nel tentativo di combattere la malattia, ma a soli quarantaquattro anni muore nella Foresta Nera durante un soggiorno climatico per motivi di salute. La vastissima produzione dell’autore, inaugurata dalla raccolta Melpomene 1884 , presenta caratteri omogenei, al punto che si parla di “cechovismo”, per via dei personaggi caratterizzati da frustrazioni, umiliazioni e autoinganno, inseriti in un’atmosfera quotidiana ed ovattata. Fra i migliori racconti dell’autore vanno ricordati Il duello 1892 , La signora col cagnolino 1898 e Nel burrone 1900 . Čechov scrive anche per il teatro: si tratta di otto atti unici, fra i quali i capolavori Il gabbiano 1895 e Zio Vanja 1899 . Ernest Hemingway 1899 – 1961 : nasce a Oak Park, un sobborgo non lontano da Chicago, nell’Illinois. Si dedica all’attività giornalistica da cui deriverà lo stile chiaro, diretto, compresso della sua scrittura. Dopo aver partecipato alla Grande Guerra come volontario della Croce Rossa in Italia, soggiorna a Parigi e visita la Spagna, il cui folklore lascerà traccia in opere come Fiesta 1925 , che gli procura la fama. Sono quattro i romanzi unanimemente riconosciuti come i più importanti e significativi: a parteFiesta, Addio alle armi 1929 , Per chi suona la campana 1940 – in cui è centrale il tema dell’amore, rappresentato come un momento di grazia terrena offerta all’uomo – e Il vecchio e il mare 1952 , che è considerato il suo capolavoro, summa della sua concezione della vita come sfida alla morte. Oltre alla produzione romanzesca, Hemingway scrive molti racconti, che poi saranno raccolti per la prima volta ne I quarantanove racconti nel 1938.
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Franz Kafka 1883 – 1924 : nasce a Praga da una famiglia di agiati commercianti ebrei. Si laurea in giurisprudenza soprattutto per compiacere il padre, con cui avrà un rapporto conflittuale, testimoniato dalla Lettera al padre 1919 , mai consegnata e pubblicata postuma. I temi filosofici dei suoi romanzi, il senso di angoscia di fronte all’esistenza e la crisi psicologica tipica dei suoi personaggi influenzeranno notevolmente la narrativa del XX secolo. Il racconto La metamorfosi, pubblicato nel 1915 a Lipsia, ha come protagonista un venditore ambulante che improvvisamente si ritrova trasformato in uno scarafaggio ripugnante: questo racconto è considerato, assieme ad altri quali Nella colonia penale 1919 e Il digiunatore 1924 , una pietra miliare della narrativa del Novecento. Tra i romanzi spicca Il processo, cominciato nel 1914 e mai finito, in cui il protagonista si ritrova condannato a morte senza che gli vengano mai svelati le ragioni della sua condanna. Centrali, dunque, sono i temi della violenza fisica e psicologica, l’alienazione e la persecuzione. Primo Levi 1919–1987 è stato un partigiano, chimico, scrittore e poeta italiano. Ricordato soprattutto per Se questo è un uomo e celebrato come lo scrittore‐testimone della Shoah; tuttavia Levi non è solo autore di memorie, ma anche di romanzi, racconti, poesie e saggi. Gli elementi tematici più caratteristici della sua produzione sono il campo di concentramento e l’operatività sulla materia: il lavoro umano, il rapporto tra naturale e artificiale, i mondi possibili. Attraverso questi temi ha narrato l’antropologia dell’uomo del Novecento. Vizio di forma 1971 è una raccolta di racconti fantascientifici. Nella seconda edizione del 1987, la silloge ospita una premessa di Levi Lettera 1987 nella quale l’autore ravvisa nei racconti un’immagine del mondo per lo più negativa, dominata dal pessimismo e dall’incertezza sul futuro. Quest’ultima è legata a una riflessione sul rapporto tra uomo e sviluppo tecnologico, nonché sui comportamenti di massa e sulle libertà dell’individuo. Tuttavia sono presenti anche racconti distesi e propositivi, in cui è assente la componente fantascientifica.
Raffaele La Capria 1922 è uno dei maggiori scrittori italiani del dopoguerra. Ha collaborato alle pagine culturali del Corriere della Sera ed è condirettore della rivista letteraria Nuovi Argomenti. La carriera intellettuale e autoriale di La Capria copre quasi un secolo di storia italiana, essendo non solo autore letterario, ma anche traduttore e saggista, e quindi di difficile sintesi. Tra i libri di maggior successo comunque ricordiamo Ferito a morte, con il quale ha vinto il Premio Strega nel 1961. Non meno importanti L’occhio di Napoli 1994 , L’amorosa inchiesta 2007 e Letteratura e libertà 2002 .
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Raymond Carver 1938 – 1988 : nasce a Clatskanie nell’Oregon, in una famiglia di umili origini. Dopo aver frequentato un corso di scrittura creativa e letteratura nel Chico State College, pubblica i primi racconti su diversi periodici universitari. Si trasferisce a Sacramento dove lavora come custode in un ospedale, lavoro che gli permette di continuare a scrivere. Pubblica le sue prime raccolte di poesie, Near Klamath e Winter insonnia, alla fine degli anni Sessanta. Negli anni Settanta insegna in un corso di scrittura creativa all’Università della California Santa Cruz e pubblica nel 1976 le raccolte di racconti Vuoi stare zitta, per favore? e Furious seasons and other stories l’anno successivo. Le precarie condizioni economiche e la dipendenza dall’alcol si affiancheranno al successo in campo letterario, consacrato dall’uscita, nel 1981, della raccolta di racconti Di cosa parliamo quando parliamo d’amore lodata dalla New York Review of Books per lo stile essenziale e minimalista. Dopo essere stato candidato al premio Pulitzer per la narrativa nel 1984, in occasione del suo cinquantesimo compleanno nel 1988 viene pubblicata l’ampia auto‐antologia Da dove sto chiamando.
George Saunders 1958 è considerato, ad oggi, uno dei migliori scrittori americani viventi. Al di là di Croci, il racconto presente in questa dispensa, la scrittura di Saunders è definita spesso come una commistione tra contenuti tragici e uno stile leggero, molto ironico e comico. La sua fortuna di scrittore si deve ad alcune raccolte di racconti uscite a cavallo del nuovo millennio come Il declino delle guerre civili americane 1996 , Pastoralia 2000 , Nel Paese della persuasione 2010 . Nel 2017 è uscito il suo primo romanzo, Lincoln nel Bardo, che mantiene i tratti tipici della scrittura di Saunders e che gli è valsa la vittoria del più prestigioso premio letterario americano, il Man Booker
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