Inferni del Novecento

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Inferni del Novecento VIOLENZA E MEMORIA NEL XX SECOLO

ASSOCIAZIONE FORMALIT 2016/2017


Indice Pagina

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Introduzione La cultura del Rinascimento

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Rabelais. Gargantua e Pantagruel

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La Modernità La realtà del lager e lo sterminio degli ebrei

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Primo Levi. Se questo è un uomo Salamov. A razione secca

L’inferno della Modernità 14

Brecht. Meditando sull’inferno

La mutazione italiana 15 17 19

Vittorio Sereni. Una visita in fabbrica Calvino. La giornata di uno scrutatore Pasolini. Progetto di opere future

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Glossario

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Note bio-bibliografiche Altri percorsi e altri media

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a) b) c) d) e)

I sommersi e i salvati di Primo Levi Jean Amery. Un intellettuale a Auschwitz Samuel Becket e il teatro dell’assurdo Il viaggio ad Auschwitz di Eraldo Affinati Cinema e Shoah. Kapò di Gillo Pontecorvo


Introduzione Lo studio della letteratura nella scuola superiore assegna alla Divina commedia un posto di assoluta centralità, non eguagliato da nessun altro testo. L’importanza di Dante nella tradizione non solo italiana sembra indiscutibile. La sua opera-mondo, che incorpora al suo interno tutte le realtà, alte e basse, nobili e popolari; tutte le lingue e i dialetti, le azioni degne e riprovevoli, e le ordina secondo una gerarchia, si pone come vertice della letteratura medievale e archetipo della moderna. La Divina commedia continua a parlare ai suoi lettori a settecento anni di distanza dalla sua stesura. Proprio di tale dialogo vuole render conto questo laboratorio. Con il termine ‘classico’ si definisce, secondo il dizionario Devoto-Oli, un’opera «di realizzazione spirituale e culturale degna di studio ed elevata a modello». Perché una realizzazione artistica si trasformi in modello è necessaria una serie di fattori: oltre all’ampiezza del tema e all’attenzione allo stile, essa deve porsi in sintonia con il lettore, deve parlargli – e i lettori mutano col variare dei periodi storici. È possibile quindi che la valutazione di un’opera sia estremamente altalenante, che muti con il passare del tempo. Proprio così è avvenuto con la Divina Commedia. Fino all’Ottocento, al romanticismo, l’autore centrale della letteratura italiana fu Petrarca. Del Canzoniere si fecero innumerevoli imitazioni, dal punto di vista dei temi e soprattutto dello stile, dando addirittura origine a una corrente poetica di lunghissima durata, il petrarchismo. Dante invece, con il suo tentativo di mescolare i soggetti e le voci in un’opera inclusiva, andava contro i criteri estetici dell’età moderna che, rifacendosi alle prescrizioni classiche, imponeva una rigida suddivisione di argomenti e stili. Per questo motivo, egli venne considerato con una certa diffidenza; dalla sua opera trassero ispirazione autori con intenti opposti, parodici, come Rabelais, dalla cui opera Gargantua e Pantagruel inizieremo il nostro percorso. Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm ha definito il XX secolo «the age of extremes», l’età in cui opposte visioni del mondo sono entrate apertamente in conflitto. Il «breve XX secolo» (1914-1991) comprende gli anni che vanno dall’esplosione della prima guerra mondiale fino alla disgregazione dell’Unione Sovietica. È il secolo in cui si sono scontrate tre forme di ideologia: la democrazia liberale, sviluppatasi in seno alla società borghese ottocentesca, il totalitarismo nazi-fascista e il comunismo. La prima catastrofica fase del Novecento (1914-1945) è segnata da due guerre mondiali e dal genocidio delle etnie armena e ebraica (e di molte altre minoranze etniche). In poco più di un trentennio crollarono quei valori che avevano ispirato la moderna civiltà occidentale, dall’Illuminismo fino al termine della Belle Époque. L’ordine di una società che si era beata del progresso scientifico e dell’avanzata della tecnica, della progressiva estensione dei campi del sapere e dell’educazione, si rovesciò nella realtà infernale dei campi di concentramento. Nel Lager ogni singolo gesto, movimento, pensiero umano era controllato e disciplinato. Nella storia dell’uomo non era mai stato fatto un utilizzo della violenza così sistematico ed esteso nei confronti dei civili. Nel secondo dopoguerra, questa fase ha lasciato spazio ad un trentennio (1946-1973) di poderosa crescita economica e di sostanziale trasformazione sociale e culturale. L’equilibrio geopolitico si spostò al di là dell’Europa: le due potenze uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale (Stati Uniti e Unione Sovietica) si spartirono le diverse zone di influenza. Questi due fattori contrapposti diedero vita a un clima di tensione esasperata, attraversato dal conflitto ideologico e dalla consapevolezza delle dimensioni del disastro costituito dall’ultima guerra. È questo il clima storico nel quale avviene la rivalutazione dell’opera dantesca. La Divina commedia viene percepita come un modello di maggiore attualità a causa di alcuni fattori. Per prima cosa, il modello rappresentato dalla Commedia rappresenta un tentativo di costruire un universo letterario ancora in un qualche modo sperimentale, e comunque aperto, consono alle tendenze più radicate nella letteratura dello scorso secolo. L’esigenza di rappresentare i più differenti temi, le situazioni più fuori dall’ordinario trova in Dante il maestro. D’altra parte la figura stessa dell’autore, da 1


un punto di vista biografico, è sentita dagli scrittori novecenteschi come vicina: egli rappresenta in un certo senso il modello dell’intellettuale impegnato, dell’uomo che intende tenere assieme impegno politico e realizzazione artistica; inoltre, tratteggia l’archetipo dell’esiliato, dell’esule, fratello dei moltissimi che, fra anni Venti e Quaranta, secondo le parole di Bertolt Brecht camminavano, «cambiando più paesi che scarpe / attraverso le guerre di classe, disperati / quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta» (A coloro che verranno). L’intenzione è quella di mostrare da un’angolatura diversa quella che può essere la validità di un classico: non solo modello di stile o di ragionamento, ma anche termine di confronto attraverso il quale poter esprimere e dare forma al reale. La cantica maggiormente interessata da riprese letterarie, per evidenti motivi, sarà la prima: a partire dal lager narrato in Se questo è un uomo, vedremo come i riferimenti intrecciati alla Commedia servano agli autori del Novecento per affrontare ciò che sembra sfuggire alle possibilità della rappresentazione. Il richiamo a Dante tuttavia non è solo quello tragico del lager, o del gulag sovietico (Salamov): andremo a vedere come altri autori (Pasolini, Brecht, Calvino, Sereni) si inseriscano in questa rete di rimandi facendo riferimento agli anni Cinquanta e Sessanta, sfruttando altre possibilità offerte dal testo dantesco o, in senso lato, dal topos letterario dell’inferno. La lettura di queste pagine è solo la prima parte di un percorso in due fasi, che comprende anche un momento di dialogo, nella forma di un dibattito condotto all’interno di piccoli gruppi. A partire da questa finalità si spiega la struttura della dispensa. Essa è ripartita in due sezioni corrispondenti a due diversi periodi. Ciascuna di esse ospita poi al suo interno: un’introduzione storica; alcuni estratti, corredati da una proposta di riflessione (Per riflettere sui testi), a metà tra commento e questionario. Quest’ultima ci servirà da base comune per pensare insieme, durante il dibattito, al tema dell’inferno. Chiudono questa breve antologia un glossario dei termini chiave (in grassetto nel testo), un indice degli autori e delle opere e alcune proposte di approfondimento (Altri percorsi), facoltative e utili fra l’altro come spunti per ulteriori approfondimenti.

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La cultura del Rinascimento Il Rinascimento è un periodo storico concentrato tra gli anni 1492 (scoperta dell’America e morte di Lorenzo il Magnifico) e il 1559 (la pace di Cateau Cambrésis segna la fine delle guerre d’Italia e del conflitto tra gli Asburgo e i francesi). Questo periodo è segnato dalle scoperte geografiche: Bartolomeo Diaz apre la via oceanica per le Indie, Cristoforo Colombo scopre l’America, Vasco da Gama circumnaviga l’Africa, Ferdinando Magellano compie il primo giro completo del globo terrestre. A partire dal primo decennio del XVI secolo Spagna, Portogallo, Inghilterra e Paesi Bassi si lanciano nell’impresa colonizzatrice del “Nuovo Mondo”. La Germania è scossa dalla Riforma protestante, che determinando grandi trasformazioni ideologiche e culturali, contribuirà ad alimentare l’etica della nascente classe borghese. La Francia mantiene sostanzialmente il suo assetto continentale, accentrando il potere monarchico. Francesco I di Valois, durante il suo regno (dal 1515 al 1547), raccoglie attorno alla corte una vasta schiera di funzionari, burocrati, intellettuali e uomini di cultura provenienti in gran parte dal ceto medio. Di questa schiera di eruditi e poeti fa parte anche François Rabelais (1483-1553). Per l’epoca di Rabelais diviene centrale l’idea che la cultura rinascimentale sia una “cultura della crisi”, nettamente distinta da un ordine precedente. Si affermano in Europa i modelli culturali e letterari italiani, si diffonde il petrarchismo e si affermano nuovi generi letterari come il romanzo moderno, nato dall’ibridazione della tradizione del romance (l’avventura fantastica tipica del poema cavalleresco) con la prosa e il carattere realistico della novella.

François Rabelais, tra umanesimo e riformismo Nel romanzo di Rabelais trionfa una visione rovesciata del mondo, un recupero degli aspetti materiali e corporei della vita, una ripresa dei modelli culturali e comportamentali popolari, carnevaleschi e folclorici. Tutto ciò in polemica con il dogmatismo del sapere universitario e teologico, e più in generale della cultura dei ceti privilegiati. Nella finzione del romanzo, Pantagruele è educato per volontà del padre Gargantua secondo lo spirito dell’Umanesimo, che permea il pensiero dello stesso autore. In Gargantua e Pantagruele «echeggia un motivo del tutto nuovo, del tutto diverso e, a quei tempi, ben attuale, quello della scoperta d’un nuovo mondo, con tutta la meraviglia, l’ampliamento di orizzonti, il mutamento dell’idea di mondo che di tale scoperta era la conseguenza».1 La curiosità umanistica di Rabelais previlegia le componenti buffonesche e smisurate della rappresentazione, a partire dai personaggi giganteschi ed eccessivi. Un enciclopedismo erudito avvolge l’intero mondo, le lunghe e dettagliate descrizioni (in cui confluisce ogni tipo di sapere: religioso, scientifico, medico, letterario) incarnano l’idea dell’uomo rinascimentale: aperto, assetato di sapere e conoscenza, contrario a qualsiasi dogmatismo. L’antidogmatismo di Rabelais è ispirato soprattutto dalla sua vocazione religiosa, e in particolare alla ripresa delle posizioni evangeliche di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), che aveva promosso una riforma ecclesiastica ispirata a principi di pace universale e tolleranza. In Gargantua e Pantagruele queste idee riformiste trovano spazio in chiave satirica e ironica, in polemica con le posizioni dei teologi dell’Università della Sorbona. A questa cultura sentita come ortodossa e pedante, Rabelais oppone il riso della festa e del carnevale, come ha potuto notare Michail Bachtin: «Le immagini del principio materiale e corporeo in Rabelais (e in altri scrittori del Rinascimento) sono un’eredità della cultura comica popolare e, più in generale, di quella particolare concezione estetica della vita quotidiana che è caratteristica di questa cultura […]. Chiameremo tale concezione estetica, in modo del tutto convenzionale, realismo grottesco. Nel realismo grottesco (cioè nel sistema di immagini della cultura comica popolare), il principio materiale e corporeo è presentato

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E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. II, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-27.

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nel suo aspetto universale, utopico e festoso. Il comico, il sociale e il corporeo sono presenti qui in un’indissolubile unità, come un tutto organico e indivisibile. E questo tutto è gioioso e benefico.»2 In questo brano, estratto dal II libro di Gargantua e Pantagruele (1532), si narra di un viaggio agli Inferi di Epistemone, uno dei compagni di Pantagruele. Dopo la vittoria contro il popolo dei Dipsodi, Epistemone è caduto in battaglia, ma l’astuto vagabondo Panurgo lo riporta in vita utilizzando come medicamenti del vino bianco e la misteriosa polvere di diamerda. Dopo che la testa gli è stata riattaccata al corpo, Epistemone racconta di un regno infernale in cui i diavoli sono tutt’altro che terribili, mentre grandi personalità storiche, personaggi letterari e mitologici si ritrovano nella condizione di servire coloro che in vita furono letterati, filosofi e indigenti.

Conseguita questa gigantesca vittoria, Pantagruele si ritirò nel luogo in cui erano le bottiglie e chiamò Panurgo e gli altri che si recarono da lui sani e salvi, eccettuati Eustene, a cui uno dei giganti aveva un po’ graffiato il viso mentre lui lo sgozzava, ed Epistemone, che mancava all’appello, cosa di cui Pantagruele fu così addolorato che fu addirittura tentato di togliersi la vita. […] Ma Panurgo disse: «Ragazzi, non versate lacrime, è ancora tutto caldo, lo farò ritornare più sano che mai». Ciò detto, prese la testa e se la tenne sulle brache ben al caldo, perché non prendesse aria. […] Poi, lavò per bene il collo con buon vino bianco, e poi la testa, che cosparse di polvere di diamerda, che teneva sempre in tasca. Poi l’unse di non so qual unguento e la congiunse con esattezza, vena contro vena, nervo contro nervo, spondilo contro spondilo3 perché non avesse il collo storto (i collistorti4 li odiava a morte). […] Di colpo Epistemone cominciò a resuscitare, poi aperse gli occhi, poi sbadigliò, poi starnutì, poi fece un grosso peto casalingo. Allora Panurgo disse: «Ora è proprio risuscitato». […] E lì cominciò a parlare, dicendo che aveva visto i diavoli e aveva parlato a tu per tu con Lucifero e aveva banchettato sia all’inferno sia nei Campi Elisi.5 E assicurava a tutti quanti che i diavoli erano brava gente. Quanto ai dannati, disse che gli spiaceva tanto che Panurgo l’avesse richiamato così presto in vita: «Per me – diceva – era un bel passatempo vederli». – Ma come!?, disse Pantagruele. – Non sono poi trattati tanto male – disse Epistmeone – come voi pensereste; ma la loro condizione è stranamente mutata. «Ho visto infatti Alessandro il Grande che rammendava vecchie brache e così, miseramente, si guadagnava da vivere.6 E poi Serse vendeva per strada la mostarda, Romolo vendeva il sale, Numa i chiodi, Tarquinio era un taccagno, Pisone un villano, Silla un barcaiolo, Ciro un guardiano di mucche, Temistocle un vetraio, Epaminonda uno specchiaio, Bruto e Cassio facevano gli agrimensori, 7 Demostene il vignaiolo, Cicerone l’attizzafuoco, Fabio infilava rosari, Ulisse falciava i campi, Nestore setacciava, Anco Marzio calafatava, 8 Camillo faceva galosce, Marcello sbucciava le fave, Druso sbucciava le mandorle, Scipione l’Africano vendeva per strada, in uno zoccolo, la feccia del vino, Asdrubale era lanterniere, Annibale vendeva pollastre, Priamo faceva lo straccivendolo, Lancillotto del Lago squartava i cavalli morti. Tutti i cavalieri della Tavola Rotonda erano poveracci squattrinati, remavano per far passare i fiumi Cocito, Flegetonte, Stige, Acheronte e Lete quando i signori diavoli

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M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979. 3 Termine dell’italiano antico per indicare la vertebra. 4 Tortycolly designa chi, per ipocrisia, china il capo, torcendo il collo in atteggiamento falsamento devoto. 5 Luogo ultraterreno della mitologia greca, in cui si immaginava che risiedessero gli uomini eletti. Omero li pone ai confini del mondo, immaginando che vi abitassero gli eroi sottratti alla morte per meriti speciali. Sono descritti anche da Virgilio nel VI libro dell’Eneide. 6 Nell’originale francese il seguente elenco è interamente in rima. 7 Chi esercita l’agrimensura, cioè usa strumenti specifici per misurare e dividere il suolo. 8 Rendere stagna una struttura navale, metallica o di legno.

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volevano spassarsela sull’acqua come fanno le barcaiole di Lione o i gondolieri di Venezia. Ma per ogni attraversamento non ricevono che un buffetto sul naso e, verso sera, un pezzo di pane ammuffito. E poi: Traiano pescava ranocchie, […] Giustiniano commerciava in ninnoli, […] Achille ammucchiava il fieno […] Il papa Giulio vendeva timballi ma non aveva più quella sua gran barba tutta scarduffata, […] Papa Bonifacio VIII schiumava marmitte, Papa Nicola III era cartolaio, Papa Alessandro acciuffava i sorci, Papa Sisto curava la sifilide. – Ma come, disse Pantagruele, anche lì ci sono i sifiliaci? – Certo, risposte Epistemone, non ne ho mai visti tanti, ce n’è più di cento milioni. Credetemi, chi non ha la sifilide in questo mondo, se la becca nell’altro. – Corpo di Bacco!, disse Panurgo, allora posso star tranquillo, sono stato sino allo stretto di Gibilterra, ne ho riempito le colonne d’Ercole e ho cuccato le più fradice! […] «Cleopartra vendeva cipolle, Elena era mezzana di cameriere, Semiramide spulciava i clochards, Didone vendeva funghi.» […] A questo modo, quelli che in questo mondo erano stati gran signori, guadagnavano laggiù la loro povera, sgraziata e laida vita. Al contrario, i filosofi e quanti erano stati indigenti in questo mondo laggiù vivevano, a loro volta, da gran signori. «Vidi Diogene che si deliziava di ogni magnificenza con un grande abito di porpora ed uno scettro nella mano destra, e faceva tribolare Alessandro il Grande se non gli aveva ben rammendato le brache, caricandolo come compenso di gran bastonate. […] «Vidi Pathelin, tesoriere di Radamante,9 che mercanteggiava sul prezzo dei pasticci che vendeva papa Giulio, gli chiese infatti: “Quanto la dozzina?” – Tre franchi, disse il papa. – Ma come!, disse Pathelin, tre belle bastonate ti meriti! Daì qui, furfante, daì qui, e vaì a prenderne degli altri. «E il povero papa, in lacrime andò via, e giunto dinanzi al rosticciere gli disse che gli avevano portato via i pasticci e l’altro per tutta risposta lo prese a frustate così furibonde che la sua pelle non sarebbe servita a far cornamuse. «Vidi maestro Jean Lemaire10 che imitava il papa e a tutti quei poveri re e papi del mondo dava i piedi da baciare e poi con aria boriosa dava loro la benedizione dicendo: “Comprate le indulgenze, birbanti, compratele, sono a buon mercato. Vi assolvo dal pane e dalla zuppa e vi dispenso dal valere mai qualcosa”. […] Ma via, disse Pantagruele, tienici da parte questi bei racconti per un’altra volta. Dicci come sono stati trattati gli usurai. «Li ho visti, disse Epistemone, tutti intenti a cercare spilli arrugginiti e vecchi chiodi nei rigagnoli delle strade, come fanno i mendicanti in questo mondo. Ma un quintale di quella chincaglieria non vale un tozzo di pane, e per di più è roba che si vende male. Così quei poveracci stanno a volte per più di tre settimane senza mangiare neppure un boccone, neppure una briciola, e lavorano giorno e notte, in attesa della prossima fiera, ma di quel lavoro e della loro sfortuna nemmeno si ricordano, tanto si danno maledettamente da fare, purché alla fine dell’anno guadagnino malamente quattro soldi. - Ma via, disse Pantagruele, banchettiamo allegramente, vi invito a bere, è bello poter trincare tutto il mese»: Allora stapparaono cataste di bottiglie e in festa pranzarono coi vivere dell’accampamento. (F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Bompiani, Milano 2012, pp. 673-689)

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Radamante è uno dei tre giudici degli Inferi con Eaco e Minosse. Jean Lemaire de Belges, grande autore della fine del Quattro e dell’inizio del Cinquecento (1473-1515 circa), scrisse varie opere già impregnate di cultura umanistica; fu storico di Luigi XII, sostenendo la politica antipapale. 10

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PER RIFLETTERE SUI TESTI •

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Lo stile del brano estratto da Gargantua e Pantagruele ti sembra narrativo o descrittivo? Per quale motivo e quali figure retoriche possono testimoniare la tensione narrativa o descrittiva del testo? Ad esempio, la forma dell’elenco, ti sembra assolvere a una funzione descrittiva o piuttosto narrativa? Quale effetto di senso ottiene Rabelais attraverso i lunghi elenchi presenti in questo brano? Questi elenchi ti sembrano dare ordine al testo o piuttosto contribuiscono a renderlo più caotico il senso? Nella forma dell’elenco sono accostati elementi di diverso tipo, tanto realistici quanto inverosimili e fantastici, quale visione della realtà emerge da simili procedure deformanti? Le uniche armi che Rabelais ha a sua disposizione per contestare la società del suo tempo sono le figure retoriche. Contro chi vengono utilizzate le figure dell’esagerazione come l’iperbole? Chi sono gli obiettivi polemici di Rabelais e per quale motivo? Ora prova a pensare alla tua realtà quotidiana, quanto è cambiato rispetto all’epoca di Rabelais il senso del Carnevale e in generale della festa? Quale valore attribuisci oggi all’esperienza della festa?

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La Modernità La manifattura dei fiammiferi data dal 1833, dalla scoperta del modo di fissare il fosforo sull’accenditoio. […] Metà degli operai di questa manifattura sono bambini sotto i tredici anni e adolescenti di meno di diciotto anni. Essa ha così cattiva fama, per la sua insalubrità e per la repugnanza che desta, che soltanto la parte più decaduta della classe operaia, vedove semiaffamate ecc., le cede i figli, «fanciulli stracciati, semiaffamati, del tutto trascurati e non educati». […] Giornata lavorativa che andava dalle dodici alle quattordici, alle quindici ore; lavoro notturno; pasti irregolari, per lo più presi negli stessi locali di lavoro, che sono appestati dal fosforo. Dante avrebbe trovato che questa manifattura supera le sue più crudeli fantasie infernali. (Karl Marx, Il capitale, I, III, 8. La giornata lavorativa)

Le riprese intertestuali della Divina Commedia lungo il XIX e XX secolo divengono estremamente numerose, sia all’interno di opere letterarie che – è il caso dell’epigrafe di Marx posta in apertura – di riflessioni filosofiche, storiche o saggistiche. È possibile individuare alcune cause culturali: la centralità dell’opera dantesca nella cultura non solo italiana ma occidentale diviene sempre più chiara nel passaggio fra Ottocento e Novecento; la diffusione a livello scolastico dello studio della grande letteratura non nazionale ma europea, come base della solida educazione borghese, fa sì che i riferimenti al poema siano ampiamente riconosciuti dai lettori, divenendo un patrimonio comune cui far riferimento. Per quel che riguarda l’Italia verso la fine dell’Ottocento Dante diviene l’autore centrale del canone letterario, soppiantando il primato secolare di Petrarca, secondo una prospettiva che ancora oggi orienta la storia della letteratura nelle scuole. Altre cause extraletterarie contribuiscono però al pullulare di riferimenti alla Commedia, in particolare alla prima cantica. I modi degli uomini di vivere in società negli ultimi due secoli hanno subito l’applicazione di principi razionali alla produzione, all’istruzione, alla gestione delle problematiche sociali, alla guerra. Lungo questo processo, a una crescita generale del benessere e delle possibilità degli esseri umani si sono contrapposte, in modo contraddittorio, la creazione di luoghi, strutture ed istituzioni finalizzate alla gestione e al controllo delle esigenze di una società sempre più complessa. A una maggiore complicazione della società ha corrisposto un superiore controllo da parte di queste strutture, aggravato in particolari momenti storici (come durante la cosiddetta età dei totalitarismi): ecco sorgere, oltre alle prime fabbriche inglesi di cui parla Marx, la prigione, il manicomio, il campo di concentramento. La letteratura ha spesso faticato a istituire un rapporto con questa nuova situazione: come rappresentare questa condizione umana? Come gestirne la vista, la memoria, come renderla comprensibile? Una delle possibilità più interessanti riguarda il rapporto con la tradizione, e in particolare con Dante: l’Inferno della Commedia ha dei punti di tangenza inquietanti con alcune situazioni della modernità, per associazione o per contrapposizione, in modi diretti o mediati. Il riferimento a un testo universalmente conosciuto riesce così a dare una struttura all’irrappresentabile.

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La realtà del lager e lo sterminio degli ebrei Durante gli anni della Seconda Guerra mondiale trovarono la morte tra i cinque e i sei milioni di ebrei. Veniva portata a compimento un’operazione di sterminio di massa che i nazisti definirono “soluzione finale della questione ebraica”. Il genocidio trovò una legittimazione nelle ideologie note come razzismo e antisemitismo. La Shoah è stato un processo di sterminio principalmente europeo che ha coinvolto – oltre alla Germania nazista - molti altri stati, con essa alleati direttamente e indirettamente. La persecuzione nazista degli ebrei è soltanto l’apice di una serie di pratiche violente che – dalla seconda metà del XIX secolo alla metà del secolo successivo – anche altri stati hanno esercitato «contro le minoranze etniche, […] sulle popolazioni indigene nelle colonie europee al di fuori dell’Europa, […] contro gli oppositori dell’ordine economico e gli emarginati, […] in guerra oltre i limiti stabiliti dalle convenzioni internazionali: tutte queste caratteristiche erano generalmente accettate dal mondo in cui comparve il nazismo».11 Primo Levi è stato un partigiano, chimico, scrittore e poeta italiano. Nel febbraio del 1944 viene internato, in quanto ebreo, nel campo di concentramento di Auschwitz. È solitamente ricordato come l’autore di Se questo è un uomo, una delle opere che meglio hanno saputo rappresentare l’esperienza concentrazionaria. Per Levi, scrivere del Lager ha almeno due significati: liberarsi di una memoria traumatica e assumere la responsabilità della testimonianza, ovvero il compito etico di tendere alla verità.

Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita. Per descrivere la vita nel Lager lo scrittore assume il punto di vista dell’antropologo, nel tentativo di decifrare la complessa psicologia dell’uomo, sia nel suo ruolo di vittima che di carnefice. Levi si interroga sulla natura profonda dell’umano e su quella zona grigia in cui è difficile distinguere nettamente tra colpevoli e innocenti. Infatti, nel campo di concentramento tutti gli internati sono impegnati in una lotta per la sopravvivenza. Se questo è un uomo racconta il tentativo di ridurre l’uomo alla condizione animale: un gregge abbietto da cui non vi sia nulla da temere.

Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende. Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure una sguardo giudice. Tuttavia questo processo di degradazione non è mai veramente accettato da Levi. Egli vi oppone una resistenza che non è solo lotta per la sopravvivenza fisica, ma anche un tentativo di rimediare alla perdita totale di sé, dei propri affetti e sentimenti di uomo. L’autore concede poco spazio al crudo realismo dei fatti, preferendovi l’approfondimento psicologico e la riflessione. Il suo è un tentativo di capire e di rendere comprensibile a tutti quanto è accaduto nel Lager. Il libro segue un tenue filo cronologico, ma il flusso della narrazione è scandito dai capitoli-saggio: in ognuno di essi è concentrata una riflessione su un’esperienza particolare vissuta dal testimone. Levi fissa lo sguardo su un avvenimento o su un personaggio che la memoria recupera, per rinviarlo a una valutazione morale; il suo è un tentativo di riscattare sé e gli altri dalla distruzione. La materia narrativa è sempre dominata dall’intento di razionalizzare la follia del campo, tuttavia tale tentativo è una conquista dolorosa per chi ha vissuto l’esperienza concentrazionaria nella carne e nel sangue. I pochi momenti di abbandono emotivo servono ad aumentare la drammaticità degli eventi raccontati. Per queste ragioni il rapporto dell’autore con il lettore è didattico: egli lo sottrae al ritmo frenetico del racconto dei fatti per sottoporlo alle proprie riflessioni e giudizi morali. La narrazione, quindi, oscilla tra le opposizioni di vita e non vita, di normalità e ribaltamento dei valori umani. Se questo è un uomo racconta la progressiva distruzione dell’umano da parte dei nazisti e, al tempo stesso, il tentativo di resistervi degli internati.

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D. Bloxham, Lo sterminio degli ebrei. Un genocidio, Einaudi, Torino 2010, p. XVIII.

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Nel capitolo Iniziazione sono introdotti i temi della testimonianza e della resistenza al Lager. Levi dichiara di non volersi lavare, lo ritiene un gesto inutile e indegno, il residuo della vita precedente all’esperienza concentrazionaria. Su questo argomento ha una discussione con il sergente Steinlauf:

[A]ppunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare dritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire. Nel Lager, il tentativo di Levi non è solo quello di sopravvivere, ma di riuscirci restando uomo. A tal proposito, alcuni incontri ed esperienze hanno – agli occhi del testimone – il potere di sottrarre l’uomo dalla riduzione allo stato animalesco. Ricordiamo i momenti di condivisione con Alberto, ma anche l’amicizia con Lorenzo, l’operaio italiano che gli offre i suoi aiuti. Si tratta di aiuti materiali ma anche morali, in quanto - con il suo modo puro, incorrotto ed estraneo all’odio - Lorenzo ricorda all’autore che esiste una «remota possibilità di bene». Levi, che in campo è attraversato da sentimenti di invidia e calcolo, vede in Lorenzo un alternativa al campo di sterminio: «Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso uomo». In Se questo è un uomo la Commedia di Dante Alighieri è presente come ipotesto.12 Levi se ne serve, in modo implicito, per mettere in rilievo l’importanza della cultura, intesa come serbatoio di concetti utili a decodificare l’esperienza umana. Dante diventa la “guida” con cui attraversare il campo di concentramento, per poterlo comprendere e raccontare. Il Lager appare a Levi come «mondo infero»: i suoi abitanti, prigionieri e aguzzini, sono simili a dannati e diavoli. I prigionieri sono spogliati di tutto e vicini alla totale demolizione: non hanno nome, vestiti e dignità; i loro corpi sono deformati e piagati. Perfino la loro lingua è inutile, uomini e donne provenienti da tutta l’Europa sono costretti a sopportare l’unica lingua ufficiale, il tedesco rabbioso e brutale delle SS; chi non riesce a comprenderne le parole non ha speranze di sopravvivere. Gli internati sono esseri completamente svuotati, non ricordano o non desiderano ricordare; per Levi sono «pupazzi miserabili e sordidi», «fantasmi» tutti uguali tra loro; assomigliano alle schiere dei dannati. Anche questi ultimi marciano compatti, compiendo operazioni preordinate e spesso inutili, come accade agli avari e ai prodighi nel IV cerchio dell’Inferno.13 Gli uni e gli altri sono costretti a trasportare, in direzioni opposte, grossi massi con il petto; giunti all’estremità del proprio semicerchio finiscono per cozzare gli uni contro gli altri, e dopo essersi scambiati urla e rimproveri ripetono nuovamente le stesse azioni. Nei campi di lavoro, come nell’inferno dantesco, la necessità umana di produrre valore esperienziale e materiale è negata e rovesciata nel gesto inutilmente ripetitivo del lavoro forzato e mortale. Si tratta di un inferno moderno in cui si negano o si ribaltano le leggi dei vivi. Come in Malebolge,14 il dannato cerca di sottrarsi alle pene inflittegli in modo insensato, ma anche di ingannare e di vincere l’avversario. Auschwitz è una realtà in cui imprecazioni, grida, lamenti dolorosi e esplosioni d’ira si sono sostituite alla comunicazione umana. In Se questo è un uomo, la voce testimoniale si serve dell’opera di Dante anche in modo esplicito, richiamando i versi del XXVI canto dell’Inferno. Nel capitolo Il canto di Ulisse, il testimone si affida alla Commedia per insegnare l’italiano a Pikolo. Sono versi che l’autore ha imparato negli anni degli studi scolastici, e che la memoria involontaria recupera per sottrarli all’oblio a cui il Lager li ha consegnati. Sui primi versi che riaffiorano in modo inaspettato si esercita lo sforzo attivo di ricordare: tale lavoro psichico è il tentativo di creare un ponte linguistico tra sé e Pikolo, e mediante questo condividere il ricordo della vita precedente, dei valori e dei sentimenti che hanno animato le vite di entrambi. I due poli dell’esperienza vissuta nel campo di concentramento, gli uomini ridotti a bestie e la resistenza a tale annientamento, seguono due usi diversi di Dante: da un lato l’impiego implicito della Commedia come strumento per raccontare l’orrore; dall’altro l’uso esplicito del poema come recupero della cultura - ma anche dei gesti e degli affetti - che diventa il pilastro per difendere il valore umano dalla barbarie nazista.

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L’ipotesto è quell'opera che funge da riferimento per una creazione letteraria successiva, la quale riprende dal testo di partenza una o più caratteristiche tematiche o formali. 13 Inferno, VII, vv. 16-66 14 Malebolge è il nome che nella Divina Commedia viene dato all’ottavo cerchio dell’Inferno. Il nome deriva dalla forma di tale cerchio, suddiviso in dieci bolge (fossati concentrici). In Malebolge vengono puniti i fraudolenti, e nell’ottava bolgia Dante incontra Ulisse.

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Levi e Jean, il Pikolo del Kommando a cui è assegnato Levi, fanno insieme la strada per andare fino alle cucine a prendere la zuppa per il pranzo di tutta la squadra. Durante il tragitto hanno modo di parlare:

Rallentammo il passo. Pikolo era esperto, aveva scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti. Parlavamo delle nostre case, di Strasburgo e di Torino, delle nostre letture, dei nostri studi. Delle nostre madri: come si somigliano tutte le madri! Anche sua madre lo rimproverava di non saper mai quanto denaro aveva in tasca; anche sua madre si sarebbe stupita se avesse potuto sapere che se l’era cavata, che giorno per giorno se la cavava. […] È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito, una cosa vale l’altra, l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora. […] …Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. …Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando…

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua: e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile […] …Ma misi me per l’alto mare aperto.

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero e diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. […] «Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «…quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là della colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che l’uom più oltre non si metta.

«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:

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Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io sì acuti…

… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna […] …Quando mi apparve una montagna, bruna Per la distanza, e parvemi alta tanto Che mai veduta non ne avevo alcuna.

Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino! Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. […] È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque Alla quarta levar la poppa in suso E la propria ire in giù, come altrui piacque…

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui… Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets. – Kposzta és répak. Infin che ‘l mar fu sopra di noi rinchiuso.

(P. Levi, Se questo è un uomo, ediz. commentata a cura di A. Cavaglion, Einaudi, Torino 2012, pp. 75; 130; 31-32; 97-100)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

Perché Levi sceglie proprio il canto XXVI dell’Inferno? Si tratta di un uso casuale della memoria scolastica o piuttosto questo ha un significato particolare? Osserva che Levi riconosce sé stesso in quel «misi me per l’alto mare aperto» che inaugura l’avventura dell’Ulisse dantesco, infatti scrive: «è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera,

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• •

noi conosciamo bene questo impulso». Ulisse nella tradizione classica rappresentava la curiosità insaziabile e l’abilità nell’uso del linguaggio. Il mito di Ulisse è un vero e proprio motivo ricorrente per la cultura europea, che lo ha spesso interpretato come simbolo di libertà, sete di conoscenza e di cultura, come argine alle pulsioni animalesche dell’uomo. Tuttavia in Dante non è propriamente un eroe positivo: Ulisse è all’Inferno tra i consiglieri fraudolenti. Per la mentalità medievale, Ulisse è un peccatore perché non accetta i limiti della conoscenza umana fissata dai criteri divini, per questo è condannato alla sconfitta. Secondo te quali sono le differenza tra l’Ulisse di Dante e quello di Levi? Che cosa rappresenta Ulisse per Levi? Perché ricordalo in campo di concentramento? Nell’episodio si intrecciano diversi sentimenti e sensazioni, nostalgia e consolazione. I conforti della ragione si mescolano al dolore dei ricordi (la madre, le montagne di Torino). Perché allora Levi decide di ricordare? Perché più ricorda più è colto dall’urgenza di spiegare a Pikolo la Divina Commedia? Levi registra in Lager una bipartizione dell’umanità che non permette sfumature: o si diventa mussulmani (non più uomini) oppure si decide di resistere. Ma questo significa anche «scendere in campo da bruti contro altri bruti», gettandosi in una lotta per la sopravvivenza in cui tutti sono rivali e nemici. Alla luce di questa riflessione, secondo te quale effetto provoca in Levi quel richiamo dantesco a «seguire virtute e conoscenza»? Perché attraverso i versi di Dante Levi può dichiarare «Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono»? Nei Racconti di Kolyma Varlam Salamov non si limita a testimoniare la propria condizione di prigionia nei gulag staliniani, ma traccia un’immagine complessiva dell’uomo ridotto all’ultimo stadio della catena evolutiva, costretto a sopravvivere nel terrore di una morte imminente. Nella rappresentazione creaturale di una sofferenza che coinvolge tutti gli esseri viventi (gli animali, gli alberi, l’intero mondo naturale), i narratori di queste storie tentano disperatamente di porre in salvo la dignità del vivente. In questo brano estratto dal racconto A razione secca, un manipolo di prigionieri deve aprire un passaggio nel bosco, abbattendo diversi alberi.

Al nord gli alberi muoiono distesi, come gli uomini. Le loro enormi radici scoperte assomigliano agli artigli di giganteschi uccelli da preda aggrappati alla roccia. Dai ciclopici artigli conficcati nel terreno si protendevano verso il basso, verso lo strato perfettamente gelato, con mille piccoli tentacoli, germogli biancastri ricoperti da una tiepida scorza marrone. Ogni estate il gelo arretrava leggermente e le radicitentacoli, sottili come capelli, si infilavano in ogni palmo di terra scongelata e ci si impiantavano. I larici raggiungono la maturità in trecento anni: innalzano lentamente il proprio corpo pesante e possente su radici deboli che si diramano lontano nel terreno sassoso. Una bufera violenta poteva rovesciare a terra con facilità questi alberi dai piedi malfermi. I larici cadevano supini, la chioma tutta da una parte, e morivano distesi su una spessa e morbida coltre di muschio color verde smeraldo o rosa accesso. Solo gli alberi nani, contorti e ripiegati su se stessi, estenuati dai continui contorcimenti per seguire il sole, il calore, resistevano tenaci, solitari, uno lontano dall’altro. Essi lottavano da così tanto tempo, con tanto accanimento, per la vita, che il loro legno martoriato e deforme non poteva servire più a niente. Il corto tronco nodoso coperto di orribili escrescenze simili a stecche applicate a chissà quali fratture, non era utilizzabile come legname da costruzione nemmeno al Nord, pur così poco esigente in fatto di materiali. Questi alberi nodosi non potevano neanche essere impiegati come legna da ardere: la loro resistenza alla scure era tale da sfiancare chiunque. Si vendicavano così su tutti per la loro vita storpiata dal Nord. Il nostro compito consisteva nel praticare un varco e ci mettemmo coraggiosamente all’opera. Dal sorgere del sole al suo tramonto non facevamo che abbattere gli alberi, segarli per il lungo e sistemarli in cataste. Avevamo dimenticato ogni altra cosa, volevamo restare qui il più possibile, le miniere d’oro ci facevano paura. Ma le cataste di legname crescevano troppo lentamente e, alla fine della seconda giornata di intenso lavoro, apparve chiaro che quel che avevamo fatto non era sufficiente ma altresì che non avevamo la forza di fare di più. Ivan Ivanovič si fabbricò una specie di metro di legno, misurando cinque spanne su di un giovane larice di una decina d’anni che avevamo appena abbattuto. Quella sera arrivò il caporale. Misurò il nostro lavoro con il suo bastone graduato e scosse la testa. Avevamo fatto il dieci per cento della norma! Ivan Ivanovič si mise a dimostrargli questo e quello e a prendere anche lui misure, ma il caporale restò irremovibile. […] Solo una cosa era certa: ci avrebbero fatti tornare al lager, avremmo di nuovo varcato il portone sormontato dall’immutabile iscrizione governativa: «Il lavoro è una questione d’onore, una questione di gloria, una questione di 12


valore e di eroismo».15 Dicono che all’ingresso dei lager tedeschi campeggiasse l’antico aforisma, ripreso da Nietzsche: «A ciascuno il suo».16 Nella sua imitazione di Hitler, Berija17 l’aveva superato in cinismo. Il lager era un posto in cui ti insegnavano a detestare il lavoro fisico, a detestare il lavoro in generale. Il gruppi più privilegiato della popolazione carceraria era quello dei blatari, i delinquenti comuni: che fossero loro a considerare il lavoro una questione di eroismo e di valore? Ma non avevamo paura. Al contrario, il fatto che il caporale avesse constatato l’inadeguatezza del nostro lavoro e la pochezza delle nostre qualità fisiche non solo non ci aveva afflitto o spaventato, ma ci aveva arrecato uno straordinario sollievo. Eravamo ormai relitti in balia della corrente, quel che potevamo fare era di doplyt’, come dicono in lager, fino a toccare il fondo. Ormai non c’era niente che potesse darci pensiero, ci era facile vivere in potere della volontà altrui. Non ci preoccupavamo neppure di salvaguardare la nostra esistenza, e se dormivamo era sempre in obbedienza a un ordine, al regolamento della giornata del lager. La pace dell’anima che avevamo raggiunto con l’ottundimento dei nostri sensi, ricordava la suprema libertà della caserma di cui fantasticava Lawrence18 o la non resistenza al male di Tolstoj19: una volontà diversa dalla nostra vegliava incessantemente sulla nostra tranquillità spirituale. Da molto tempo eravamo diventati fatalisti, e non facevamo progetti per la nostra vita che andassero oltre il giorno dopo. La cosa più logica sarebbe stato mangiare tutti i nostri viveri in una volta sola e ritornare al lager, farci i giorni di cella di rigore che ci avrebbero inflitto e poi andare a lavorare alla miniera, ma non l’avevamo fatta. Interferire nel destino, nella volontà degli dèi era una cosa sconveniente, che andava contro i codici di comportamento del lager. (V. Ŝalamov, A razione secca, in I racconti di Kolyma, Einaudi, Torino 1999, pp. 48-50)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

Nelle prime righe dell’estratto è individuabile una figura retorica che conferisce al testo un senso tragico e problematico. Di quale figura si tratta? Qual è il rapporto tra la figura e il referente? Quale relazione c’è tra la descrizione degli alberi e la rappresentazione del fatalismo dei protagonisti nel finale dell’estratto? Il narratore del racconto riporta una scritta che dichiara di aver visto nel gulag: «Il lavoro è una questione d’onore, una questione di gloria, una questione di valore e di eroismo». Ti vengono in mente altri esempi storici in cui scritte, messaggi, cartelli simili a quello che abbiamo riportato, sono stati utilizzati come figure (come la metafora, la metonimia, l’ironia) finalizzate a uno scopo politico (sia esso l’esaltazione di una ideologia, la stigmatizzazione di un avversario o la mortificazione di un’etnia o di un gruppo sociale)?

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La frase è di Stalin (1879-1953); nell’originale ha un tono aulico: «Trud est’ delo cesti, delo slavy, delo doblessti i gerojstva». 16 L’aforisma è «antico» perché risale all’Unicuique suum del diritto romano. 17 Lavrentij Berija (1819-1953), uno dei massimi vertici del partito e dal 1938 capo dell’Nkvd. È Stato organizzatore ed esecutore delle repressioni (“purghe”); venne giustiziato dopo la morte di Stalin 18 Thomas Edward Lawrence (1888-1935), detto Lawrence d’Arabia, agente del servizio segreto britannico e scrittore. Nell’Urss del tempo non venne mai pubblicato e lo si descrisse come spia antisovietica, guerrafondaio e simpatizzante del fascismo. 19 L’idea di una nuova religione di Cristo, senza dogmi e miracoli, fondata tra l’altro sul principio non violento della “non resistenza al male” attraversa tutta l’opera dello scrittore Lev Tolstoj (1882-1945), dal Diario del 1855 alla Confessione del 1882.

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L’inferno della modernità Il topos dell’inferno, riferito più o meno direttamente a Dante, è stato impiegato da moltissimi autori del Novecento per descrivere altro rispetto alla situazione per molti versi eccezionale – anche rispetto alle guerre precedenti – del lager nella seconda guerra mondiale. Sono stati rappresentati come infernali il manicomio e la fabbrica, luoghi a vario livello inaccessibili e permeati da dinamiche di controllo sociale spesso estremamente dure; ma anche la quotidianità della vita nei paesi occidentali. Vediamo un primo breve riferimento, tratto dalla Terra Desolata di Eliot (parte I, vv. 60-4). Città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba invernale una folla fluiva sul London Bridge, sì gran tratta di gente ch’io non avrei creduto tanta morte n’avesse disfatta.

I versi comprendono una citazione diretta di una terzina dantesca (Inf. III, 52-57): E io, che riguardai, vidi una ’nsegna che girando correva tanto ratta, che d’ogne posa mi parea indegna; e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta.

Si tratta del canto degli ignavi, di coloro che, vigliacchi, non hanno scelto fra il bene e il male durante la loro vita. Nella poesia di Eliot (pubblicata nel 1922, conclusa da poco la Grande Guerra) il riferimento è agli impiegati bancari della City che, iniziando il lavoro alla stessa ora, si muovono tutti nella stessa direzione, folla scura e anonima sotto un’alba nebbiosa, torbida. Nel contesto delle grandi lotte ideologiche del Novecento, il riferimento è quindi a tutti quegli abitanti delle metropoli europee che, pensando vilmente solo al proprio tornaconto, non scelsero e non si schierarono, con conseguenze devastanti sulla storia europea. I riferimenti danteschi non sono legati però solamente alla guerra e alla violenza: nonostante il reticolo intertestuale conduca in questa direzione i quattro versi di Eliot hanno un referente ulteriore: si tratta della quotidianità, della routine, del grigiore indistinto nel quale sembrano scivolare le esistenze degli uomini raffigurati. L’inferno rappresentato dagli scrittori che leggeremo è anche quello della vita svuotata di senso, dell’uomo-animale sociale privato della sua socialità, della società occidentale interpretata come bellum omnium contra omnes, guerra di tutti contro tutti. Vedremo una lettura simile nella poesia di Brecht. Bertolt Brecht è stato fra i maggiori poeti tedeschi del Novecento. È noto, oltre che per la produzione poetica, per i testi teatrali connotati – almeno a partire dal 1927 – in direzione di un impegno politico rivoluzionario. Perseguitato dal nazismo, fugge negli Stati Uniti allo scoppio della seconda guerra mondiale. La società americana per il poeta tedesco risulta sconvolgente: non riuscirà mai ad integrarvisi, a causa sia dalle profonde differenze culturali che della sostanziale inautenticità riscontrata nei modi di vita comuni. La poesia, contenuta nella raccolta breve Elegie di Hollywood (1942), reca traccia profonda di questa difficoltà.

Meditando sull’inferno Meditando, mi dicono, sull’inferno il fratel mio Shelley trovò ch’era un luogo pressappoco simile alla città di Londra. Io che non vivo a Londra, ma a Los Angeles, trovo, meditando sull’inferno, che deve ancor più assomigliare a Los Angeles. 14


Anche all’inferno ci sono, non ne dubito, questi giardini lussureggianti con fiori grandi come alberi, che però appassiscono senza indugio se non si innaffiano con acqua carissima. E mercati con carrettate di frutta, che però non ha odore né sapore. E interminabili file di auto più leggere della loro ombra, più veloci di stolti pensieri, veicoli luccicanti in cui gente rosea, che non viene da nessuna parte, non va da nessuna parte. E case, costruite per uomini felici, quindi vuote anche se abitate. Anche all’inferno le case non sono tutte brutte. Ma la paura di essere gettati per strada divora gli abitanti delle ville non meno di quelli delle baracche. (Brecht, Brecht in America, trad. Cesare Cases)

La mutazione italiana La società italiana tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta è soggetta a trasformazioni radicali che mutano profondamente i modi della produzione e del consumo. Negli anni del «miracolo economico» (1951-1963) calano drasticamente gli addetti all’agricoltura e aumentano di oltre due milioni le persone impiegate nell’industria; la ricchezza degli italiani raddoppia (il reddito nazionale passa da 14.900 miliardi di lire a oltre 31.000). Il processo di industrializzazione coinvolge soprattutto il cosiddetto “triangolo industriale” (Torino-Milano-Genova), estendendosi successivamente al Veneto e all’Emilia. Oltre 9 milioni di persone si trasferiscono dal sud al nord del Paese, dalle campagne alle città. Mentre le campagne si spopolano, le moderne città industriali si riempiono di migliaia di immigrati meridionali che vivono in condizioni di povertà e emarginazione sociale. L’Italia partecipa al generale sviluppo economico dei paesi industrializzati, affermandosi sul mercato mondiale dei beni di consumo durevoli (auto, moto, elettrodomestici, televisori) e nel settore petrolchimico. L’uscita dal dopoguerra e la progressiva disgregazione della civiltà contadina producono una trasformazione culturale e sociale che lo scrittore e intellettuale Pier Paolo Pasolini ha definito Mutazione antropologica. Le tradizioni, i riti e le credenze del mondo contadino si avviavano a scomparire, per essere sostituite da nuovi comportamenti ispirati all’American way of life. La trasformazione dei modi di produzione coinvolge anche l’organizzazione della cultura [industria culturale]: gli intellettuali - assunti nelle fabbriche, nelle case editrici e nelle redazioni dei quotidiani – sono costretti a rinunciare alla loro autonomia di giudizio. Anche le opere artistiche mutano progressivamente il loro statuto, trasformandosi in merci [riproducibilità tecnica]. Gli strumenti umani di Vittorio Sereni raccontano la transizione dell'Italia dallo stadio premoderno e contadino a quello industriale e impiegatizio. Questo passaggio ha contraddistinto gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, periodo in cui sono state scritte le poesie che compongono la raccolta. In esse trovano spazio ampiamente le riflessioni del poeta sulla condizione socio-politica dell'Italia del dopoguerra, indagine questa condotta alla luce di una soggettività guidata da valori civili e sentimentali (amore, amicizia, poesia, progresso, gioia, accordo con il paesaggio); di questi valori Gli strumenti umani registrano il declino. Una visita in fabbrica è un lungo componimento strutturato sul topos della catabasi, ossia della discesa agli inferi. Diversi in esso sono i rimandi al modello dantesco. La fabbrica di cui Sereni parla è lo stabilimento milanese della Pirelli, dove il poeta è ispirato dall’incontro con Laura, una sua vecchia amica ed ex-partigiana. Su questo incontro Sereni ha scritto una breve prosa (Un angelo in fabbrica) che precede la stesura del poemetto.

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La L., conosciuta anni fa un po’ di sfuggita, mi telefona in ufficio. Ha saputo che lavoro qui e mi prega di raggiungerla in fabbrica, dove è arrivata con una troupe televisiva per girare un documentario. Facciamo colazione insieme nella nuovissima, prestigiosissima mensa impiegati. Mi ricordo di colpo di una foto della L., apparsa in tanti fogli e rotocalchi, anche in qualche libro, come un’immagine emblematica del 25 aprile e dell’insurrezione. Una ragazza di nemmeno vent’anni, impermeabile indosso e mitra in pugno. E adesso? Qui a legare l’asino dove vuole il padrone, con me e tutti gli altri qui attorno. Non glielo dico, naturalmente. Ma i suoi discorsi sul lavoro che fa, il suo tono distaccato nel commentarne le vicende, lo sottintendono. Distaccato e spento. Trovo in ciò un’analogia – di quelle che non si tenta nemmeno d’esprimere – col suono della sirena di fabbrica (che oggi non si sente più) nel momento in cui si spegneva, alla fine dei segnali di ripresa del lavoro: come una forza che rinunzia. E ne restava l’amarezza e insieme una minaccia nell’aria. (È un mio chiodo da qualche anno: mi ha offerto stranamente lo spunto per una poesia che immagino lunga e che non mi riesce di scrivere.) Fa bene pensarci, come a un’oscura solidarietà. E il ravvisare in questa donna disinvolta, che si crede e si vuole indifferente, un angelo, sui generis, del passato. (V. Sereni, Poesie e prose, Mondadori, Milano)

III. Dove più dice i suoi anni la fabbrica, di vite trascorse qui la brezza è loquace per te? Quello che precipitò nel pozzo d'infortunio e di oblio: quella che tra scali e depositi in sé accolse e in sé crebbe il germe d'amore e tra scali e depositi lo sperse:20 l'altro che prematuro dileguò nel fuoco dell'oppressore. Lavorarono qui, qui penarono. (E oggi il tuo pianto sulla fossa comune). IV. «Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno sanno quello che vogliono. Non è questo, non è più questo il punto». E raffrontando e rammemorando: «… la sacca era chiusa per sempre e nessun moto di staffette, solo un coro di rondini a distesa sulla scelta tra cattura e morte…» Ma qui, non è peggio? Accerchiati da gran tempo e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non più duramente (non occorre) si stringerà la morsa. C’è vita, sembra, e animazione dentro 20

I versi sono un riferimento allusivo a un concepimento e a un aborto avvenuto all'interno della fabbrica.

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quest’altra sacca, uomini in grembiuli neri che si passano plichi uniformati al passo delle teleferiche di trasporto giù in fabbrica. Salta su il più buono e il più inerme,21 cita:

E di me si spendea la miglior parte22 tra spasso e proteste degli altri – ma va là – scatenati. V. La parte migliore? Non esiste. O è un senso di sé sempre in regresso sul lavoro o spento in esso, lieto dell'altrui pane23 che solo a mente sveglia sa d'amaro. Ecco. E sia fa strada sul filo24 cui si affida il tuo cuore, ti rigetta alla città selvosa: – Chiamo da fuori porta. Dimmi subito che mi pensi e ami. Ti richiamo sul tardi –. Ma beffarda e febbrile tuttavia ad altro esorta la sirena artigiana. Insiste che conta più della speranza l'ira e più dell'ira la chiarezza, fila per noi proverbi di pazienza dell'occhiuta pazienza di addentrarsi a fondo, sempre più a fondo sin quando il nodo spezzerà di squallore e rigurgito un grido troppo tempo in noi represso dal fondo di questi asettici inferni. (V. Sereni, Una visita in fabbrica, ne Gli strumenti umani, Torino, Einaudi 1965)

La giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino è un romanzo breve pubblicato nel 1963. La narrazione ha per oggetto un’esperienza realmente vissuta dall’autore. Egli, in occasione delle elezioni del 1953 e del 1961, svolse il compito di scrutatore presso l'istituto Cottolengo di Torino: un celebre ospizio in cui vengono tutt'ora custoditi pazienti psichiatrici o fisicamente deformi. Il protagonista, Amerigo Ormea, come Calvino al tempo, è un militante del PCI, entrato nell'istituto torinese per presiedere alle operazioni di voto. All’interno di questo mondo, come in una città nella città, egli scende sempre 21

A parlare è uno degli operai della fabbrica. Il verso è una ripresa esplicita del v. 18 della canzone A Silvia di Giacomo Leopardi. In esso il poeta recanatese esprime un senso di rammarico ripensando agli anni della giovinezza interamente spesi nella biblioteca paterna. Qui Sereni recupera il verso di Leopardi per risemantizzarlo nel contesto del lavoro in fabbrica. 23 Ripresa esplicita dei versi danteschi “Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui” (Paradiso, Canto XVII, vv. 58-59). Essi vengono pronunciati da Cacciaguida, un avo di Dante, il quale profetizza al poeta fiorentino il destino di esilio che lo attende. Sereni intende accostare analogicamente la condizione dell'esilio e quella del lavoro salariato, che l'operaio svolge alienatamente in fabbrica. 24 Si tratta del filo del telefono, attraverso il quale il poeta parla alla sua donna. 22

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più in basso attraverso un inferno di malattia ed emarginazione, che a tratti può alludere alle bolge dantesche. Mano a mano che Ormea si addentra nel Cottolengo, con l’aumentare dell’orrore cresce anche la profondità delle riflessioni del narratore. Inizialmente l'autore si confronta, scontrandosi, con una visione cattolica del mondo e della politica. Successivamente, di fronte all'assurdità delle malformazioni genetiche che hanno colpito i pazienti, la sua riflessione si sposta ad interrogare i “confini dell'umano”. Sorgono domande e osservazioni che nessuna conclusione univoca sembra in grado di esaurire.

A tutto ci si abitua, più in fretta di quanto non si creda. Anche a veder votare i ricoverati del «Cottolengo». Dopo un poco, già sembrava la vista più usuale e monotona, per quelli di qua del tavolo: ma di là, nei votanti, continuava a serpeggiare il fermento dell’eccezione, della rottura della norma. Le elezioni in sé non c’entravano: chi ne sapeva nulla? Il pensiero che li occupava pareva essere soprattutto quello dell’insolita prestazione pubblica richiesta loro, abitatori d’un mondo nascosto, impreparati a recitare una parte di protagonisti sotto l’inflessibile sguardo di estranei, di rappresentanti d’un ordine sconosciuto; soffrendone alcuni, moralmente e nel fisico (avanzavano barelle con malati e arrancavano le grucce di sciancati e paralitici), altri ostentando una specie di fierezza, come d’un riconoscimento finalmente giunto della propria esistenza. C’era dunque in questa finzione di libertà che era stata loro imposta – si domandava Amerigo – un barlume, un presagio di libertà vera? O era solo l’illusione, per un momento e basta, d’esserci, di mostrarsi, d’avere un nome? Era un’Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso, era anche (ma non solo) la fine delle razze quando nel plasma si tirano le somme di tutti i mali dimenticati d’ignoti predecessori, la lue25 taciuta come una colpa, l’ubriachezza solo paradiso (ma non solo, ma non solo), era il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce, il rischio (prevedibile del resto in base al calcolo delle probabilità come nei giochi di fortuna) che si moltiplica per il numero delle insidie nuove, i virus, i veleni, le radiazioni dell’uranio… il caso che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso… E che cos’era se non il caso ad aver fatto di lui Amerigo Ormea un cittadino responsabile, un elettore cosciente, partecipe del potere democratico, di qua del tavolo del seggio, e non – di là del tavolo -, per esempio, quell’idiota che veniva avanti ridendo come se giocasse? […] Amerigo, velocemente, pensò al Discorso della Montagna 26 , alle varie interpretazioni dell’espressione «poveri di spirito», a Sparta e a Hitler che sopprimevano gli idioti e i deformi; pensò al concetto d’eguaglianza, secondo la tradizione cristiana e secondo i principi dell’89, poi alle lotte della democrazia durante tutto un secolo per imporre il suffragio universale, agli argomenti che opponeva la polemica reazionaria, pensò alla Chiesa che da ostile era diventata favorevole; e ora al nuovo meccanismo elettorale della «legge truffa»27 che avrebbe dato maggior potere al voto di quel povero idiota che al suo. Ma questo suo implicito considerare il proprio voto come superiore a quello dell’idiota, non era già un riconoscere che la vecchia polemica antiegualitaria aveva la sua parte di ragione? Altro che «legge-truffa». La trappola era scattata da un pezzo. La Chiesa, dopo un lungo rifiuto, aveva preso in 25

Nel linguaggio medico è sinonimo di sifilide. Si intende un sermone rivolto da Gesù ai suoi discepoli e a una grande folla, riportato nel Vangelo secondo Matteo 5, 1-12. 27 Legge elettorale italiana maggioritaria (1953) voluta dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati per ottenere il controllo certo della Camera dei deputati. Fu così definita dalle opposizioni di sinistra in quanto prevedeva che alla lista o all'insieme delle liste che, essendosi "apparentate" tra loro, avessero ottenuto più del 50% dei voti toccasse il 65% dei seggi. Fallì per poche migliaia di voti, fu subito revocata, ma lasciò uno strascico di grave instabilità politica. 26

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parola l’eguaglianza dei diritti civili di tutti gli uomini, ma al concetto d’uomo come protagonista della Storia aveva sostituito quello di carne di d’Adamo misera e infetta e che pur sempre Dio può salvare con la Grazia. L’idiota e il «cittadino cosciente» erano uguali in faccia all’onniscienza e all’eterno, la Storia era restituita nella mani di Dio, il sogno illuminista messo in sacco quando pareva che vincesse. Lo scrutatore Amerigo Ormea si sentiva un ostaggio catturato dall’esercito nemico. (Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Mondadori, 1990, pp. 27-30) Nella poesia Progetto di opere future Pasolini stende un programma dei prossimi progetti. Fra questi vi è la Divina Mimesis, una riscrittura complessiva dell’Inferno dantesco non più basata sulla Firenze medievale ma sulla situazione italiana – e in particolare romana – nel passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta. Nell’abbozzo sono delineati sia i nuovi peccati che i nuovi peccatori, secondo un criterio non più ispirato dal cattolicesimo quanto dal rifiuto moralista della borghesia italiana. La Divina Mimesis non sarà mai completata: solo due canti usciranno, curati dall’autore, pochissimi giorni dopo la morte, nel 1975.

[…] Ah, non stare più in piedi nel sapore di sale del mondo altrui (piccolo-borghese, letterario) col bicchiere di whisky in mano e il viso di merda, - che mi dispiacerebbe solo non rappresentarlo così com'è […] Getterò giù presto, in tono epistolare, con chiose e parentesi, una buriana di «motivi accennati», di «eccetera», blasoni, citazioni, e soprattutto allusività (autoesortativi all'infinito e sproporzioni di particolari in confronto al tutto), la prima parodistica terzina fatta pagina magmatica del Canto I, con fretta di giungere prima della prima metà, là dove all'Inferno arcaico, enfatico (romanico, come il centro delle nostre città dal suburbio ormai per sempre spacciato) s'inserisce un inserto d'Inferno dell'età neocapitalistica, per nuovi tipi di peccati (eccessi nella Razionalità e nell'Irrazionalità) a integrazione degli antichi. E lì vedrai, in una edilizia di delizioso cemento, riconoscendovi gli amici e i nemici,

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sotto i cartelli segnaletici dell'«OPERA incremento pene infernali», A: i troppo continenti: Conformisti (salotto Bellona), Volgari (un ricevimento al Quirinale), Cinici (un convegno di giornalisti del Corriere della Sera e affini): e poi: i Deboli, gli Ambigui, i Paurosi (individualisti questi, a casa loro); b: gli incontinenti, zona prima: eccesso di Rigore (socialisti borghesi, piccoli benpensanti che si credono piccoli eroi, solo per l'eroica scelta d'una buona bandiera), eccesso di Rimorso (Soldati, Piovene); eccesso di Servilità (masse infinite senza anagrafe, senza nome, senza sesso); zona seconda: Raziocinanti (Landolfi) gente che sta seduta sola nel suo cesso; Irrazionali […] (Pier Paolo Pasolini, Progetto di opere future, in Poesie in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964)

PER RIFLETTERE SUI TESTI •

La poesia di Sereni descrive il contesto della fabbrica come un ambiente infernale. Prova a riflettere sulle ragioni per le quali secondo te può essere considerato lecito un accostamento espressivamente così intenso. Che tipo di problematicità del lavoro salariato il poeta sta cercando di mettere in luce? Secondo te le posizioni di Sereni di fronte al rapporto tra operai e proprietari sono ancora valide? Focalizzati poi sull'ultima strofa. Ti sembra che la postura di chi scrive sia quella di qualcuno che guarda alla realtà che gli sta di fronte come qualcosa di immutabile, oppure l'inferno della fabbrica di Sereni non può essere considerato eterno come l'inferno dantesco?

Nella IV strofa parla un reduce dalla prigionia, cui l’Io del poeta pone una domanda, se non sia peggiore la condizione degli operai in fabbrica rispetto a quella dei prigionieri in guerra. Quale ti sembra possa essere la risposta che emerge dal testo? Nel testo di Calvino il protagonista Amerigo Ormea incontra la reclusione della malattia in un luogo separato rispetto a quello della vita sociale percepita come “normale”. Osserva l’andamento del testo che costituisce una messa in forma del pensiero di Amerigo: la serie di domande senza risposta; gli elenchi che – nel tentativo di capirla – provano a nominare la realtà del Cottolengo e falliscono: «ma non solo», dichiara e ripete Amerigo, constatando i limiti della sua razionalizzazione. La struttura del testo è dubitativo-meditativa; secondo te perché non vengono espresse certezze e le domande restano prive di una risposta forte? Cosa mette in crisi le opinioni del protagonista? A più di cinquant’anni dalla pubblicazione del testo, come ti poni rispetto alla netta separazione tra sani e malati, più avanti nel testo messa in discussione dallo stesso Amerigo? Pasolini in questa poesia elenca i peccati dell’Italia della prima repubblica. La rassegna potrebbe continuare, e virtualmente sembrerebbe poter stendere catalogo di tutti i tipi umani possibili. Prova a riflettere sui peccati elencati: trovi delle contraddizioni nelle affermazioni del poeta? Ad esempio: come è possibile che la razionalità e l’irrazionalità si scrutino dallo stesso ipotetico girone infernale? La regolarità della terzina incatenata dantesca simboleggia il procedere sia della narrazione di Dante, che del suo itinerario di purificazione. Come vedi Pasolini, oltre ad affermare di voler riscrivere la Commedia, ne imita il metro; ciò non avviene solamente in questa poesia, ma costituisce un carattere distintivo dell’autore. Anche la terzina pasoliniana è regolare? Come si può interpretare secondo te questa scelta?

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Glossario American Way of life L’A. (detto anche americanismo) è uno stile di vita che assunse nell'Europa del dopoguerra un peso sempre maggiore, grazie alla crescente influenza politica, economica e culturale degli Stati Uniti. Questo modello ha natura poliedrica. Si tratta infatti di: un modello di produzione e consumo (produzione meccanizzata di massa e società di consumatori); un modello politicosociale (la democrazia) e un modello culturale (abolizione della cultura d'élite e affermazione di una cultura pop, omologata e di facile fruizione per tutti). L'A. è un modello di benessere improntato sull'ottimismo e sul pragmatismo, i cui simboli principali possono essere ritenuti la Coca-Cola, il cinema, i fumetti o pratiche di mobilità sociale e rivendicazione egualitaria. Tuttavia va notato che, nonostante il dinamismo e la produttività di questo stile di vita, esso si fonda su una visione meccanizzata e venale della società, dove a tenere le redini dei giochi è in primo luogo il principio di profitto, dunque l'avidità e il denaro. Belle époque Periodo di relativa pace e ampio sviluppo che va dalla fine della guerra franco-prussiana alla prima guerra mondiale, (1870 ca. - 1914). La classe sociale più rappresentativa di questa fase storica è la borghesia francese tardo-ottocentesca, in particolare quella parigina. La B. può essere considerata come un periodo contraddistinto da creatività, spensieratezza, sicurezza, cosmopolitismo e fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Eppure, al di sotto di questa superficie apparente di positività, erano presenti forti contrasti di ceto e di classe, animati dal disagio sociale diffuso negli strati più poveri della popolazione. La capitale della B. fu Parigi, nella nuova veste conferitagli dai lavori di ridefinizione urbanistica coordinati dal prefetto Haussmann. Parigi in questi anni fu una città in forte espansione economica, animata da un inedito fervore culturale. Lungo le piazze e le strade proliferavano i circhi e i caffè concerto: mete privilegiate e fonti di ispirazione per i numerosi artisti presenti nella capitale francese. La B. è anche un periodo di forte espansione coloniale da parte delle grandi potenze europee, soprattutto Inghilterra e Francia. È infatti questa l'epoca dell'imperialismo, in cui l’ideologia nazionalista si radicalizza servendosi dei concetti darwiniani di ereditarietà razziale e genetica. Comunismo Può essere definita un’aspirazione ideale che ha come obiettivo la completa uguaglianza tra tutti gli individui e l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Tale ideale di convivenza umana ha origini molto antiche. Forme rudimentali di C. sono infatti riscontrabili già in epoca preistorica e permangono tutt'oggi in sporadiche tribù, cosiddette primitive, della Polinesia e dell'Australia. Pratiche di condivisione paritaria dei beni furono inoltre presenti in ambito religioso; le si riscontra già a partire dalle prime comunità cristiane, oppure all'interno dei monasteri buddisti. In seno al cristianesimo, nel corso della storia, furono numerose le riemersioni di un certo filone pauperistico e comunistico, il quale venne però puntualmente represso come eresia da parte della Chiesa e delle gerarchie feudali. I secoli tra il XVI e il XVII videro la comparsa di molte formulazioni filosofico-politiche di natura utopica. In esse venivano messe in evidenze le ingiustizie e le contraddizioni sociali. La radice fondamentale di questi mali veniva fatta coincidere con l'esistenza della proprietà privata. La risposta che queste teorizzazioni davano alle iniquità del mondo erano tuttavia di ordine esclusivamente utopico: la nuova società auspicata non andava al di là del sogno. Questo tipo di C. prende il nome di socialismo utopistico. In età capitalista e in seguito dalla rivoluzione industriale, con il filosofo tedesco Karl Marx (1818-1883) nacque il socialismo scientifico. Una corrente di pensiero fondata su una visione materialista della storia, che ha come scopo quello di porre nel C. l'obiettivo di una prassi politica, da raggiungere attraverso un programma di emancipazione di tutta la società. Secondo Marx, la classe sociale rappresentate del C. è il proletariato, ossia gli operai che lavorano nelle fabbriche; a loro spetta il compito di guidare la rivoluzione. Democrazia liberale Con D. l. si intende una particolare forma di democrazia, attuata attraverso l'applicazione delle dottrine politiche del liberalismo. Essa iniziò a prendere forma in Europa a partire dal XIX secolo. Il testo fondamentale da cui si iniziò a parlare di D. l. fu il discorso dell'intellettuale francese Benjamin Constant, pronunciato nel 1819: La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni. Con libertà dei moderni si intende la libertà individuale nei riguardi dello Stato. Se la democrazia propriamente detta è quella diretta, attraverso i pensatori liberali – come lo stesso Constant, Tocqueville, John Stuart Mill – si delineò l'idea per cui l'unica forma di democrazia compatibile con lo Stato liberale fosse quella rappresentativa o parlamentare. (Con Stato liberale si intende quella particolare forma statale che garantisce ai propri cittadini alcuni diritti fondamentali, quali i diritti di libertà di pensiero, di religione, di stampa, di riunione.) Nella D. l. – detta dunque anche rappresentativa o parlamentare – a fare le leggi non è tutto il popolo riunito, ma un corpo ristretto di rappresentanti eletti da quei cittadini aventi diritti politici (ossia di voto). Se nella democrazia diretta la partecipazione politica è compito di tutti i cittadini liberi, nella D. l. la partecipazione al potere politico fa parte anch'essa di una delle tante libertà individuali: un diritto che il cittadino non è obbligato ad assumersi come dovere. Dal XIX secolo in poi le democrazie liberali hanno seguito due direzioni parallele: 1) graduale allargamento del diritto di voto a strati di popolazione sempre più larghi; 2) moltiplicazione progressiva degli organi rappresentativi (cioè degli enti istituzionali composti da rappresentati eletti).

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Economia di mercato L'E. di m. è l'organizzazione economica dei paesi capitalisti, ossia di quei paesi in cui vige la proprietà privata, vi è libertà d'impresa e lo scambio di beni e servizi avviene all'interno di mercati non vincolati da limiti statali, regolamentati soltanto dal sistema della domanda e dell'offerta. Va segnalato che, nonostante lo scopo di questa forma di economia sia quello di togliere vincoli e aumentare la libertà dell'iniziativa privata e individuale, non è vero che nell'E. di m. lo scambio economico sia incondizionatamente libero. In questo contesto la maggiore o minore libertà economica è data infatti dalla concorrenza fra le imprese. La libertà di iniziativa economica infatti è fortemente limitata qualora nel mercato sia presente un unico potente produttore (monopolio) o pochi grandi produttori (oligopolio). Quest'ultimo caso corrisponde a ciò che avviene oggi nel mercato globale, a causa del ruolo egemonico che vi ricoprono le holding multinazionali. Economia pianificata Si parla di E. p. quando l'organizzazione economica di un paese viene gestita attraverso un piano programmato da enti governativi. In tal senso, cosa e quanto produrre, con quali tecniche, a che prezzo vendere i beni e servizi, sono tutti fattori che vengono decisi da ministeri o da commissioni statali. Nell'E. p. vengono ridotti al minimo gli elementi che caratterizzano l'economia di mercato: la proprietà privata, la libertà di impresa, e la regolazione dei prezzi sulla base del principio della domanda e dell'offerta. Questo tipo di organizzazione economica ha caratterizzato l'Urss, e i restanti paesi socialisti dell'Europa orientale, fino alla crisi economica che ha determinato il crollo del muro di Berlino (1989) e che ha portato anche questi paesi a optare per l'economia di mercato. Genocidio Distruzione fisica della gran parte di un gruppo sociale o etnico, su un territorio più o meno definito. L'intenzione che muove a un G. è quella di distruggere l'esistenza collettiva del gruppo in questione. Il termine viene utilizzato per la prima volta nel 1944 da un giurista statunitense di origine polacca, Raphael Lemkin. Guerra fredda Conflitto politico e ideologico che si protrasse dopo la seconda guerra mondiale dal 1945 al 1962. A contrapporsi erano i due blocchi orientale e occidentale, rispettivamente incarnati da Unione Sovietica e Stati Uniti. Questi due paesi si contesero in quegli anni l'egemonia su scala planetaria, rappresentando modelli politici, sociali ed economici opposti. Da un lato gli Stati Uniti erano fautori del capitalismo e dell'economia di mercato; dall'altro l'Unione Sovietica supportava il comunismo e l'economia pianificata. Sebbene furono numerose le occasioni di crisi militari tra i due blocchi, la G. f. non sfociò mai in un conflitto armato. Tuttavia nel rapporto tra le due potenze gravava il possesso della bomba atomica da parte degli Stati Uniti. Fattore quest'ultimo che indusse l'Unione Sovietica a mantenere un numero imponente di divisioni armate pronte ad aggredire l'Europa occidentale. Il timore di un possibile attacco dell'Urss spinse le potenze occidentali a stipulare il Patto Atlantico (aprile 1949) e dunque a istituire la NATO (1950). Da parte sua il blocco orientale, grazie anche alla sicurezza conferitagli dall'atteso ottenimento della bomba atomica sovietica, si coalizzò militarmente mediante il Patto di Varsavia (1955). Durante l'amministrazione del presidente americano Harry Truman (1945-1952) l'America adottò la cosiddetta strategia di contenimento, la quale non si limitava ad arginare l'Urss, ma intendeva anche combattere l'influenza comunista nell'Europa occidentale (in particolare in Francia e in Italia, dove erano presenti partiti comunisti molto forti). La fase più acuta della G. f. può essere ritenuta quella della prima metà degli anni Cinquanta; nella seconda metà, con il “disgelo” conseguito alla morte di Stalin, si aprirono invece speranze di distensione. La progressiva crescita degli arsenali nucleari dei due blocchi stabilizzò la situazione nei termini di una pressoché equivalente potenza militare. Per evitare dunque lo scoppio di una terza guerra mondiale, nel quale l'impiego delle armi atomiche avrebbe catastroficamente compromesso i destini del pianeta, Urss e Stati Uniti furono costretti a cercare la via per creare dei (precari) rapporti di pace. Industria culturale Con I. si intende l’organizzazione della cultura controllata, dalla fase di produzione artistica a quella del consumo, dalle grandi corporations (case editrici, discografiche ecc.) o multinazionali. L'I. è centrata sulla trasformazione di ogni oggetto culturale in prodotto di consumo: l'opera d'arte viene inserita in un circuito commerciale e pubblicitario che ne distrugge il valore estetico e conoscitivo, unico e non replicabile, riducendone l'essenza al valore di scambio, ossia a una valutazione effettuata secondo le leggi del mercato e del profitto. Secondo Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, nella società “di massa”, modellata secondo i dettami del capitalismo avanzato, si crea un nesso stringente tra bisogni umani e sistema produttivo. L’I. punta a creare un nuovo linguaggio artistico fondato sulla ripetizione di moduli, temi e forme apparentemente diversi, ma in realtà identici nel ripetere il loro carattere di merce. Questi prodotti sono pensati per intrattenere i consumatori, che sono progressivamente addestrati a consumare i prodotti culturali in modo distratto e passivo. In questo modo essi riproducono paradossalmente il tempo di lavoro, di cui credono di essersi liberati nei momenti di svago e distrazione. Memoria involontaria La M. i. si oppone alla memoria volontaria. Se quest'ultima è un processo cosciente attraverso cui il pensiero recupera intenzionalmente una conoscenza interiorizzata con l'apprendimento; la M. i. è contraddistinta al contrario da un

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procedimento inconscio. Essa consiste nel riaffiorare imprevisto di un ricordo che il soggetto credeva di aver dimenticato. Tale inaspettato recupero memoriale avviene soprattutto attraverso una sollecitazione sensoriale, che rievoca intensamente un'esperienza spesso vissuta in epoca infantile o adolescenziale. Questo particolare tipo di memoria è un tema fondamentale nel capolavoro della letteratura modernista Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust; si potrebbe quasi dire che la denominazione di M. i. sia un vero e proprio conio dell'autore francese. Mutazione antropologica

Mutazione è un concetto di origine genetica. Viene utilizzato come metafora per definire la trasformazione antropologica degli italiani durante l’irruzione della cultura dei consumi. Il termine è stato utilizzato per la prima volta in questa accezione dal poeta Eugenio Montale, convinto che «l’uomo dell’avvenire dovrà nascere fornito di un cervello e di un sistema nervoso del tutto diversi da quelli di cui disponiamo noi, esseri ancora tradizionali, copernicani, classici». La fortuna del concetto si deve però a Pier Paolo Pasolini che, negli anni Settanta, attraverso la forza della sua scrittura, denuncia il cambiamento delle mode e dei desideri della collettività e la conseguente scomparsa della civiltà contadina italiana. Riproducibilità tecnica R. t. è un concetto del filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940), che nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica28 ha pensato ai nuovi media della società di massa. In particolare, Benjamin ha teorizzato le problematiche del cinema, inteso come attività di massa. Il montaggio, che è la tecnica con cui sono realizzati i moderni film, implica cambi continui di scene e di immagini. Lo spettatore è costantemente sottoposto a questi mutamenti, per cui non ha tempo di valutare e interrogarsi sul significato di ogni singola immagine; non può mettere in atto le associazioni mentali sue proprie, ma deve abbandonarsi a quelle che gli vengono imposte in rapide sequenze. La sua visione è sottoposta ad uno shock, che causa distrazione piuttosto che capacità di valutazione. Secondo Benjamin, i regimi fascisti hanno usato i nuovi media per permettere alle masse di esprimersi liberamente, in modo da occultare le problematiche sociali. Per questo motivo il filosofo berlinese ritiene che i registi, e gli artisti in generale, debbano fare delle opere un uso politico. Significa utilizzare le opere per illuminare la totalità dei conflitti sociali, rendendoli comprensibili alle masse. Totalitarismo Il termine viene impiegato dagli storici e dagli analisti in riferimento soprattutto all'esperienza fascista italiana, a quella nazista tedesca e a quella socialista russa. Ogni T. è caratterizzato da un forte autoritarismo politico. L'opera che per prima ha sistematizzato il concetto è Origini del totalitarismo (1951) della filosofa tedesca Hannah Arendt. I sistemi politici che possono essere classificati come T. sono contraddistinti da: • • • •

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presenza di un partito unico il quale assorbe tutte le strutture istituzionali dello Stato; poteri illimitati nelle mani di una ristretta élite politica; una sofisticata ortodossia ideologica imposta alla popolazione attraverso metodi polizieschi, sistemi educativi (scuola, associazioni giovanili) e l'uso intensivo dei mezzi di comunicazione; azione politica finalizzata alla costituzione di un “nuovo ordine” sociale, economico, politico e morale, per raggiungere il quale divengono leciti metodi coercitivi talora particolarmente violenti.

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.

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Note bio-bibliografiche Berthold Eugen Friedrich Brecht (1898-1956): poeta e intellettuale tedesco, è stato uno dei maggiori autori teatrali del XX secolo. Cresciuto in una famiglia benestante (il padre è dirigente industriale), nel 1917 si iscrive all’Università di Monaco, prima alla facoltà di lettere e in seguito – per evitare il servizio militare – a quella di medicina. Durante gli anni Venti si avvicina al marxismo grazie al pensiero del filosofo Karl Korsch, che avrà notevole influenza sulla sua poetica teatrale. Dopo la presa del potere di Hitler (1933), vive il proprio esilio tra Svizzera, Danimarca, Svezia, Finlandia e Stati Uniti. Rientra a Berlino (Est) solo nel 1948, dedicandosi all’organizzazione degli spettacoli del Berliner Ensemble, la compagnia teatrale fondata con la moglie Helene Weigel. I suoi drammi hanno rivoluzionato il teatro moderno, tra i più importanti ricordiamo: L’opera da tre soldi (1928), Santa Giovanna dei Macelli (1930), Madre coraggio e i suoi figli (1941) e l’opera della maturità Vita di Galileo (1938-56). Italo Calvino (1923-1985), nato a Cuba, è uno tra i narratori italiani più noti del Novecento. La sua scrittura è articolata in 3 fasi: una prima di impronta realistica e a forte vocazione civile, maturata a partire dall’esperienza resistenziale (Il sentiero dei nidi di ragno, 1947; Ultimo viene il corvo, 1949); una seconda a dominante fiabesca e allegorica, di cui ricordiamo almeno la trilogia I nostri antenati (1952-1959); una terza dove lo scrittore si avvicina alla ricerca del gruppo sperimentale francese Oulipo sui temi della cibernetica e delle tecniche combinatorie, e in generale si interroga sui rapporti tra cultura scientifica e scrittura letteraria; ne escono testi a sfondo scientifico e metaletterario, densi di riflessione (Le cosmicomiche, 1967; Ti con zero, 1967; Le città invisibili, 1967; Palomar, 1973). Primo Levi (1919–1987) è stato un partigiano, chimico, scrittore e poeta italiano. Ricordato soprattutto per Se questo è un uomo viene spesso celebrato come lo scrittore-testimone per eccellenza; tuttavia Levi non è solo autore di memorie, ma anche di romanzi, racconti, poesie e saggi. Gli elementi tematici più caratteristici della sua produzione sono il campo di concentramento e l’operatività sulla materia: il lavoro umano, il rapporto tra naturale e artificiale, i mondi possibili. Nel 1962 pubblica La tregua, il racconto del suo ritorno in Italia dopo la liberazione da Auschwitz. Dopo questo libro decide di dedicarsi alla narrativa di invenzione partendo soprattutto dalla sua esperienza di chimico, dall’osservazione della natura, e dall’effetto della scienza e della tecnica nella vita dell’uomo. Solo nel 1975 deciderà di dedicarsi a tempo pieno all’attività di scrittore. Della sua produzione ricordiamo Vizio di forma (1971); Il sistema periodico (1975); La chiave a stella (1978); Lilìt e altri racconti (1981); I sommersi e i salvati (1986) saggio con cui torna per l’ultima volta sul tema dell’Olocausto. Muore suicida nel 1987. Pierpaolo Pasolini (1922-1975): poeta, scrittore, regista e raffinato saggista; è tra i maggiori intellettuali italiani del secondo dopoguerra. Esordisce come poeta dialettale nel 1942 (Poesie e Casarsa), ma pochi giorni prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 è richiamato per combattere in guerra. Il suo reparto è fatto prigioniero, ed egli fugge a Casarsa, dove si stabilisce – lavorando come insegnante – alla fine della guerra. Nel 1947 si iscrive al PCI (Partito comunista italiano) e ne è espulso due anni più tardi a causa di uno scandalo legato alla natura sessuale dei suoi rapporti con alcuni giovani ragazzi. A Roma, dove si trasferisce con la madre dal 1950, restandovi tutta la vita, conosce gli scrittori Alberto Moravia e Elsa Morante e frequenta l’ambiente culturale della Capitale. Negli anni ’50 partecipa alla rivista Officina con Leonetti, Roversi, Fortini e pubblica i suoi primi romanzi e altre importanti raccolte di poesia. Negli anni ’60 compie molti viaggi in Africa e in Oriente, dedicandosi soprattutto all’attività di regista. Dal 1973 collabora al Corriere della sera, impegnandosi in articoli civili che tengono traccia dell’impatto della società dei consumi sulla popolazione italiana, un processo che per P. avrebbe prodotto un’autentica “mutazione antropologica”, una cesura epocale che separa l’antica società contadini dal frenetico mondo del consumismo. Pasolini è stato ucciso con l’aiuto della mafia siciliana il 1 novembre 1975, dietro probabile mandato di Eugenio Cefis, ex presidente dellENI/Montedison. Pasolini stava lavorando al suo ultimo romanzo, Petrolio, in cui aveva dichiarato che avrebbe rivelato la verità sull’attentato che era costato la vita a Enrico Mattei (predecessore di Cefis all’Eni). Tra alcune delle sue opere più importanti: Ragazzi di vita (1955) Le ceneri di Gramsci (1957), Poesia in forma di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971), Scritti corsari (1975) e i film Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Il Decameron (1971). Francois Rabelais (1483-1553): scrittore francese dalla lunga carriera ecclesiastica. R. è stato frate francescano, poi benedettino, divenne curato di Meudon e fu anche uno stimato medico. In possesso di una sconfinata erudizione, si interessò al latino, al greco, all’archeologia, alla topografia. La sua fama è legata al grande romanzo Gargantua e Pantagruele, di cui ripubblicò emendati e corretti alcuni volumi, soprattutto a causa dei veti della censura. Il romanzo narra la storia di due giganti, un padre e un figlio, principi di un regno fiabesco chiamato Utopia, tanto distante quanto pericolosamente somigliante alla Francia del XVI secolo. Nel libro II si raccontano le gesta rocambolesche di Pantagruele, figlio di Gargantua: il padre organizza un viaggio di istruzione nelle più importanti università francesi, dove Pantagruele compie la sua formazione. A Parigi il gigante conosce Panurgo, un vagabondo astuto e poliglotta. I due sono costretti a tornare a Utopia per difenderla dall’assalto del popolo dei Dipsodi, che vengono sconfitti in una dura battaglia. Dopo la vittoria Pantagruele aggredisce Dipsodia, trasformandola in una colonia del regno di Utopia. La scrittura di Rabelais, ricca di neologismi e deformazioni, influenzerà importanti autori della modernità, dal XVIII secolo (Jonathan Swift ad esempio) al Novecento (da James Joyce e a Carlo Emilio Gadda).

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Varlam Salamov (1907-1982): scrittore e poeta russo. Studia legge all’Università di Mosca e alla fine degli anni Venti pubblica alcune prose e poesie. Viene arrestato la prima volta nel 1929, liberato nel 1931 viene nuovamente arrestato e condannato come “recidivo” a trascorrere cinque anni di reclusione nella regione della Kolyma, dove rimase fino al 1953. I quasi vent’anni trascorsi nei lager staliniani gli ispireranno I racconti di Kolyma, la sua opera maggiore. Diffusi inizialmente grazie al samizdat, furono pubblicati in Russia solo alla fine degli anni Ottanta. L’opera raccoglie un centinaio di racconti che non si limitano a documentare la condizione di prigionia dell’autore, ma tracciano un’immagine complessiva di un uomo ridotto all’ultimo stadio della catena evolutiva, costretto a sopravvivere nel terrore di una morte imminente. Nella rappresentazione creaturale di una sofferenza che coinvolge tutti gli esseri viventi (gli animali, gli alberi, l’intero mondo naturale), i narratori di queste storie tentano disperatamente di porre in salvo la dignità del vivente. Vittorio Sereni (1913–1983) è tra i più importati poeti italiani del secondo Novecento. Dopo la laurea in Lettere, per anni è insegnante nelle scuole medie. Nel corso della seconda guerra mondiale è chiamato alle armi; viene così a trovarsi con il suo reparto prima in Grecia e poi in Sicilia, dove è catturato dagli Alleati e costretto a due anni di prigionia in Algeria e Marocco. Terminata la guerra Sereni riprende l'insegnamento fino al '52, anno in cui passa a lavorare nel settore pubblicitario della Pirelli e successivamente come dirigente alla Mondadori. Una delle principali caratteristiche della lirica di Sereni è il tentativo di confrontare la propria esperienza esistenziale con la realtà socio-politica dell'Italia a lui contemporanea. Tra le sue opere risaltano in primo piano le raccolte di poesia Frontiera (1941), Diario d'Algeria (1947), Gli strumenti umani (1965) e Stella variabile (1979). Tra le opere in prosa di maggior rilievo si segnalano i testi diaristiconarrativi de Gli immediati dintorni (1962) e il racconto L'opzione (1963). Sereni si è occupato inoltre di traduzione, in particolare della lirica di William Carlos Williams e di René Char.

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Altri percorsi e altri media a) I sommersi e i salvati di Primo Levi L'inferno, oltre che dal male e dalla violenza, è dato anche dall'incomprensione e dall'indistinzione. I sommersi e i salvati (1986) è l'ultimo libro pubblicato da Primo Levi, poco prima del suicidio. È una raccolta di saggi, dalla struttura libera e aperta, in cui lo scrittore torna a riflettere, a distanza di quarant'anni, sull'esperienza del Lager. La distanza temporale e i mutamenti intercorsi sul piano storico [Mutazione] consentono all'autore l'attualizzazione della barbarie nazista nel contesto politico e sociale a lui contemporaneo. Le domande che si pone sono: quale significato ha oggi il ricordo dello sterminio di massa del popolo ebraico? Perché è importante non dimenticarlo? Quali sono le avvisaglie di un suo possibile ritorno? Questo libro è una risposta lucida e attenta a questi interrogativi, una meditazione razionale che consegna al lettore categorie valide per pensare la complessità del nostro presente. Qui si propongono alcuni estratti provenienti soprattutto dal saggio dedicato alla cosiddetta “zona grigia”, ossia quella particolare fascia sociale, interna al Lager, in cui i confini tra vittima e carnefice si confondono. In questo luogo la folle razionalità nazista, declinata in soprusi di ogni tipo sui detenuti ebrei, aveva come scopo principale quello di spogliare gli internati della propria umanità, di isolarli e di renderli vulnerabili. La “zona grigia” è composta da coloro che, pur versando nelle medesime condizioni dei molti compagni di prigionia, al fine di guadagnare dei minimi vantaggi che consentano loro di migliorare le proprie condizioni, sono disposti a scendere a patti con i tedeschi, svolgendo per delega i soprusi che spetterebbero direttamente alle mani dei nazisti. Questi individui vengono chiamati da Levi i “privilegiati”, o i “prigionierifunzionari”. Tale strategia aveva nel campo lo scopo specifico di diffondere l'indistinguibilità tra compagni e nemici, ossia di mettere i prigionieri gli uni contro gli altri. L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da «laboratorio»: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare. Vi è poi un'altra zona di indistinzione, tutta interna al fronte tedesco. Essa riguarda il carattere del nazista. Che tipo di uomini erano coloro che amministravano e dirigevano i campi di sterminio? È giusto ritenerli degli esseri abominevoli? La lucidità del ragionamento di Levi raggiunge una sottigliezza che, complicando le facili e fuorvianti semplificazioni interpretative, consente di comprendere in modo non schematico la fenomenologia del campo e di chiamare in causa il lettore in prima persona. Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d'origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori. […] Sia ben chiaro che responsabili, in grado maggiore o minore, erano tutti, ma dev'essere altrettanto chiaro che dietro la loro responsabilità sta quella della grande maggioranza dei tedeschi, che hanno accettato all'inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le «belle parole» del caporale Hitler […]. (P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, pp. 29 e 159-160)

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b) Jean Amery. Un intellettuale a Auschwitz Jean Améry (1912 – 1978) è stato un intellettuale austriaco di famiglia ebrea, non praticante. Con l'annessione dell'Austria alla Germania nazista emigra in Belgio e si unisce alla resistenza. Viene catturato, torturato e internato ad Auschwitz per due anni (1943 – '45). Terminata la seconda guerra mondiale si fa scrittore e lavora inoltre nella radiofonia e nella televisione. Muore suicida nel 1978. Améry è un filosofo di difficile collocazione; è posizionato politicamente a sinistra ed è ostile alla progressiva affermazione dell'American way of life nell'Europa occidentale del secondo dopoguerra. Riguardo all'eredità della colpa di cui si erano macchiati i tedeschi, si dimostra avverso al pensiero comune che propone facili assoluzioni. Non solidarizza nemmeno con il dibattito storiografico dell'epoca, il quale ha la pretesa di accostarsi allo sterminio con obiettività e distacco. È critico dello Stato di Israele.

Intellettuale a Auschwitz (1966) è il suo libro più celebre, anche se rimane comunque poco conosciuto. Viene pubblicato in Italia solo nel 1987. In questo libro Améry si oppone all’oblio della memoria dello sterminio che pervade la Germania dopo la fine del nazismo. Secondo Amèry la società civile tedesca e tutta quella occidentale hanno voluto dimenticare in fretta gli orrori della guerra. Se per molti il conflitto mondiale è un momento terribile causato da particolari congiunture economiche e dal folle delirio di una manciata di nazisti, colpevoli di avere asservito una nazione e di averla portata alla guerra; Améry ha una diversa visione della storia. Le sue riflessioni sono quelle di una vittima che ha compiuto una scelta radicale: anche in campo di concentramento, a rischio della vita, assumere come propria la morale del Zurückschlagen, del «rendere il colpo». È convinto che un’idea per essere valida debba trovare una sua realizzazione nel mondo materiale, quindi sceglie la via della rivolta e dell’opposizione politica. Resterà fedele a questa scelta anche dopo il Lager. Egli imparerà dalla tradizione degli oppressi che lo stato di emergenza è la regola, e non un momento particolare e irripetibile della storia: Sì le SS potevano agire come agivano: non esiste alcun diritto naturale e le categorie morali vanno e vengono come le mode. Esisteva una Germania che conduceva alla morte ebrei e avversari politici, ritenendo di potersi realizzare solo in questo modo. Cos’altro si poteva aggiungere? La civiltà greca poggiava sulla schiavitù, e su Milo un esercito ateniese aveva infuriato come le SS in Ucraina. Immani erano stati, sin dove è possibile scandagliare le profondità della storia, i sacrifici umani, e l’eterno progresso dell’umanità altro non era che un’ingenuità del XIX secolo. «Links, zwei, drei, vier»29 era un rituale come tanti altri. Vi era ben poco da dire contro le atrocità. Ai lati della Via Appia erano state poste file di schiavi crocifissi, e laggiù a Birkenau si diffondeva l’odore dei cadaveri bruciati. Per la sua scelta di scontrarsi con il mondo egli rifiuterà l’obbligo del perdono. Améry assume su di sé il risentimento come via per richiamare i tedeschi (i carnefici e i loro figli) alle proprie responsabilità. Ad ogni modo è consapevole che per il torto subito non esiste rimedio, ma non per questo Améry ricerca una vendetta o una giustizia sommaria: [...] la scientificità oggettiva, con nobile distacco, ha infatti già coniato il concetto di "sindrome da campo di concentramento" [...] I tratti caratteriali che determinano la nostra personalità sarebbero distorti. Il nostro quadro clinico sarebbe caratterizzato da stati di irrequietezza nervosa, dal ripiegamento ostile verso il proprio Io. Saremmo, così si afferma, dei "distorti". Di sfuggita ripenso alle mie braccia contorte dietro la schiena durante la tortura. E questo fatto d'altra parte m'impone di ridefinire il nostro essere distorti come forma di umanità moralmente e storicamente più elevata rispetto alla sana drittura. [...] Alle mie riflessioni non è rimasto nascosto che il risentimento è una condizione non solo contro natura ma anche contraddittoria a livello logico. Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato distrutto. Assurdamente esige che l'irreversibile sia rovesciato, che l'accaduto sia annullato. Il risentimento impedisce lo sbocco verso il futuro, la dimensione più autenticamente umana. Me ne rendo conto, il senso del tempo di chi è prigioniero del risentimento è distorto, dissociato, se si preferisce, poiché pretende ciò che è doppiamente impossibile: il cammino a ritroso verso il già vissuto e l'annullamento di ciò che è stato. [...] In ogni caso è questo il motivo per cui l'uomo del risentimento non può unirsi a quell'inno alla pace che ci esorta a non guardare più indietro, ma in avanti, verso un migliore e comune futuro! [...] Le montagne di cadaveri che mi separano da loro [i miei aguzzini] non possono essere spianate, mi pare, attraverso un processo di interiorizzazione, bensì, al contrario, attualizzandolo, o detto più radicalmente, affrontando questo conflitto irrisolto nella prassi storica [...] Il senso naturale del tempo ha le sue radici effettivamente nel processo fisiologico del rimarginarsi delle ferite ed è entrato a far parte della rappresentazione sociale della realtà. Proprio per questo motivo esso ha un carattere non solo extramorale, ma antimorale. È diritto e privilegio dell'essere umano non dichiararsi d'accordo con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno con il rimarginarsi biologico provocato dal tempo. Quel che è stato è stato: questa espressione è tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito. […] L'uomo morale esige la sospensione del tempo; nel nostro caso, inchiodando il misfattore al suo misfatto. In questo modo egli potrà, avvenuta l'inversione morale del tempo, essere accostato alla vittima in quanto suo 29

L’ordine dei Kapos per scandire il passo di marcia.

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simile. [...] Il futuro a quanto pare esprime un valore: ciò che è sarà domani ha un valore maggiore di ciò che è stato ieri. Questo esige una percezione naturale del tempo. (Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 41-42 e 110-120)

c) Samuel Beckett e il teatro dell’assurdo

Finale di partita è un dramma tragicomico e grottesco, privo di trama, dove le azioni e i dialoghi che si svolgono sulla scena sono per lo più tic ripetitivi e inutili. L'ambientazione e i personaggi sono gestiti in chiave anti-realista. Ha rilevato T. W. Adorno30 che il luogo in cui avviene la scena potrebbe essere ritenuto il rifugio dove trovano ospitalità i sopravvissuti a una catastrofe atomica. Dunque, sebbene sia definito in modo criptico, il contesto storico dell'opera va considerato come quello successivo alla seconda guerra mondiale. In Beckett la memoria delle devastazioni di Hiroshima e Nagasaki, e dei campi di sterminio, gravano come una pesante colpa e un'oscura minaccia. I personaggi sono inseriti in una cornice claustrofobica: l'intero dramma ha luogo all'interno di una stanza chiusa. Le uniche vie di uscita sono due finestre poste su due lati opposti del muro: due aperture che danno l'una sul mare, l'altra su un'enorme landa desolata; ad esse è possibile accedere soltanto attraverso una scaletta a pioli; tuttavia, per osservare ciò che c'è fuori, la vista a occhi nudi non basta, c'è bisogno dell'ausilio della tecnica: ossia un cannocchiale. Al centro della scena c'è Hamm, re del suo misero regno e padrone del servo Clov. Egli vive su una sedia a rotelle e dà continuamente a Clov ordini per lo più inutili. Dietro a Hamm sono posti due bidoni, all'interno di essi vi è, in uno la madre, nell'altro il padre. I due anziani genitori sono come rifiuti inutili, lasciati a marcire in pattumiere, prima che arrivi la morte definitiva. L'opera di Beckett è interamente percorsa dall'idea di una condizione umana segnata dalla sofferenza e dall'assenza di senso. Questo pessimismo radicale, lungi dall'essere un difetto, è ciò che ha determinato l'adesione di Adorno all'autore. In quest'ultimo egli infatti ha rintracciato la puntuale conferma della propria concezione dell'opera d'arte nell'età contemporanea. Dopo Auschwitz, nel pieno dell'esplosione dell'industria e del consumo di massa, per il filosofo tedesco l'arte non può far altro che dichiarare la negatività del presente. Seguendo Adorno, la negatività di Beckett costituisce quindi un antidoto contro l'utilitarismo cinico del nostro tempo. In un mondo dominato dalla logica del profitto, dove egoismo, arrivismo e competitività sono considerati come valori socialmente fondanti, la negatività e l'assurdità dell'esistenza, che stanno alla base della produzione beckettiana, costringono il lettore a ripartire da zero, a ripensare con coscienza al senso e al ruolo dell'uomo nel mondo, alla luce di una visione del mondo laica e guardinga (cioè non incline a pericolosi facili entusiasmi). HAMM Le onde, come sono le onde? CLOV Le onde? (Punta il cannocchiale) Piombo. HAMM E il sole? CLOV (guardando) Nulla. HAMM Eppure dovrebbe essere sulla via del tramonto. Cerca bene. CLOV (dopo aver cercato) Un accidenti. HAMM Ma allora è già notte? CLOV (sempre guardando) No. HAMM Allora com'è? CLOV È grigio. (Abbassando il cannocchiale e voltandosi verso Hamm, più forte) Grigio! (Pausa. Ancora più forte) Grrigio! (Scende dalla scaletta, si avvicina a Hamm da tergo e gli parla all'orecchio). HAMM (sussultando) Grigio! Hai detto grigio? CLOV Nero chiaro. In tutto l'universo. HAMM Adesso esageri. (Pausa). Non restar lì, mi fai paura. CLOV (riprende il suo posto accanto alla poltrona) Perché questa commedia tutti i giorni? HAMM La routine. Non si sa mai. (Pausa). Sta notte mi sono visto dentro. C'era un grosso bubù. CLOV Ti sei visto il cuore. HAMM No, era una cosa viva. (Pausa. Con angoscia) Clov! CLOV Sì.

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Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) è stato un filosofo tedesco. Fu, insieme a Horkheimer e Marcuse, uno dei più influenti esponenti della Scuola di Francoforte; una scuola di filosofia e sociologia che si rifà al pensiero del filosofo Karl Marx; è nata a Francoforte sul Meno nel 1923, con il nome di “Istituto per la ricerca sociale”. I suoi lavori si contraddistinguono per la radicale critica alla società del capitalismo avanzato. Oltre a diversi scritti di natura sociologica, Adorno si è occupato anche di filosofia morale e estetica. Ha inoltre elaborato diversi studi critici su Hegel, Husserl e Heidegger. Si è largamente occupato di musicologia.

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HAMM Che sta succedendo? CLOV Qualcosa sta seguendo il suo corso.

HAMM Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per la mano e lo tiravo davanti alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza! (Pausa). Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri. (Pausa). Sembra che questi casi non siano... non fossero... così rari. CLOV Un pazzo? Quando è stato? HAMM Oh, altri tempi, altri tempi. Tu non eri ancora di questo mondo. CLOV La belle époque! Pausa. Hamm si toglie la calotta. HAMM CLOV HAMM CLOV HAMM CLOV HAMM CLOV HAMM CLOV

Gli volevo bene. (Pausa. Rimette la calotta. Pausa) Dipingeva. Ci sono tante cose terribili. No, no, non ce ne sono più tante. (Pausa). Clov. Sì. Non pensi che sia durato abbastanza? Certo! (Pausa). Che cosa? Questo... questa... cosa. L'ho sempre pensato. (Pausa). Tu no? (spento) Allora è un giorno come gli altri. Finché dura. (Pausa). Tutta la vita le stesse insulsaggini. S. Beckett, Finale di partita (1956), in Teatro, Einaudi, Torino 2002, pp. 121-122 e 129).

d) Il viaggio ad Auschwitz di Eraldo Affinati Eraldo Affinati (Roma, 21 febbraio 1956) è uno scrittore e insegnante, vive a Roma e insegna letteratura alla Citta dei Ragazzi 31. Insieme alla moglie ha fondato la Penny Wirton, una scuola gratuita di italiano per immigrati. I suoi principali temi di riflessione sono: la guerra, l’olocausto, l’etica, l’incontro coi migranti, la responsabilità dell’insegnamento, la questione dell’eredità culturale e della paternità. Il libro che vi proponiamo è Campo del sangue (1997). È il resoconto di un viaggio da Venezia ad Auschwitz compiuto dall’autore per l’esigenza di ripercorrere la storia familiare (la madre scampata di fortuna alla deportazione e il nonno materno fucilato dai nazisti). L’esperienza di viaggio e le letture si mescolano in questo libro, che ibrida autobiografia e diario alle riflessioni saggistiche e alle parti romanzesche. L’impegno etico conduce l’autore alla scoperta del passato. Il tentativo di capire, attraverso un pellegrinaggio (fisico e intellettuale), i motivi del massacro diviene una via per riflettere sulla natura dell’uomo e sul presente. Infatti secondo l’autore: «Auschwitz chiama in causa il futuro, ancor più del passato». In questo modo Affinati rievoca la più grande tragedia del Novecento intendendola come un appello a guardare, come scrisse Primo Levi, alla storia dei campi di sterminio come a un «sinistro segnale di pericolo» per il futuro. La ricchissima offerta di trasporti rende ancora più anacronistico il nostro desiderio di andare a piedi. Il caldo aumenta. Facciamo brevi soste lungo gli argini soprattutto per bere. A Pörtschach, un’altra boutique urbana adagiata sui curatissimi greti, acquistiamo mele e banane in un supermercato. Mentre pago, grondo sudore davanti alla cassiera impegnata a racimolare il resto. L’unico nostro rapporto col mondo esterno avviene attraverso questi inservienti, sempre sprofondati nella noia del lavoro. Umanamente mi piacciono molto. Tuttavia avverto nei loro gesti strumentali – scegliere la merce, incartarla, fornire informazioni, piegarsi in due per allungarci il sacchetto di plastica, salutare – il tremendo pericolo della serialità. Zygmunt Bauman ritiene che il progresso industriale di questo secolo contenga in sé, come una cellula tumorale pronta a svilupparti, tutte le potenzialità sfociate nello sterminio; ne è così persuaso da sostenere l’esistenza di un terreno comune fra Buchenwald e Detroit, sede delle grandi aziende automobilistiche americane. A suo parere la concezione burocratica che regola l’organizzazione produttiva, certi aspetti razionali della civiltà occidentale, l’intermediariato fra volontà e azione, sono principi comuni della società moderna e dei lager. Perché l’orrore non era il Male, o almeno non era la sua essenza. L’orrore era altro che l’addobbo, l’ornamento, l’apparato. L’apparenza, insomma. (Jorge Semprún, 1996). 31

Si tratta di una comunità fondata nel 1953 dal sacerdote irlandese John Patrick Corrol-Abbing, basata sul principio dell’autogoverno e nata per provvedere all’educazione di adolescenti abbandonati ed esposti a rischi di devianza. La fondazione un tempo ospitava i giovani emarginati italiani, numerosi nel dopo-guerra. Ora accoglie soprattutto migranti.

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Lungo un prato sul lago alcuni bambini giocano. Due giovani obesi stanno facendo il bagno. Uno di loro, mentre esce, sputa contro la pietra e non sull’acqua. […] L’intero meccanismo che ha resto possibile lo sterminio del ventesimo secolo è basato sulla cancellazione della responsabilità: ogni uomo, nella Germania nazista, si sentiva giustificato, non direttamente punibile. In tale modo l’autorità morale viene resa inoperante senza essere sfidata o negata. Continuiamo a camminare sotto il solo cocente. Neutralizzo il peso dello zaino con le braccia, sollevandolo: la sera scoprirò un’ustione nella zona dei gomiti. Lasciamo sulla destra villette con abitanti da cartello pubblicitario che prendono il sole sulla sdraio e si sbaciucchiano spensierati. […]. Bauman, nel formulare il concetto di responsabilità assoluta, riprende alcuni spunti di Emmanuel Lévinas, il quale a sua volta si richiama a un’intuizione di Dostoevskij: «Siamo sempre responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli altri». Da interpretare così: appena un altro uomo posa lo sguardo su di noi, ci costituiamo come soggetti. Il cosiddetto “patto sociale”, da cui scaturiscono i vincoli giuridici, è posteriore a questa fase. Lo sterminio venne realizzato grazie alla cancellazione della responsabilità assoluta. Uno smantellamento che la tipologia dello sviluppo tecnologico nostro contemporaneo, in singolare parallelismo con la sensibilità artistica del Novecento maggiormente accreditata, ha resto possibili. Da una parte il burocrate, che si neutralizza nel gesto esecutivo, dall’altra l’artista, quando pretende di potersi sganciare dai doveri dell’uomo comune (Eraldo Affinati, Campo del sangue, Mondadori, Milano 1997, pp. 35-37.) e) Cinema e Shoah. Kapò di Gillo Pontecorvo

Kapò di Gillo Pontecorvo (1960) traspone dal punto di vista cinematografico le riflessioni di Primo Levi sul complesso di colpa che determina le azioni dei detenuti nei campi di concentramento. Il regista mette in scena la storia di Edith, una ragazza ebrea che viene imprigionata con la sua famiglia in un campo di lavoro in Polonia. Edith scampa alla morte facendosi passare per una criminale comune e si fa strada nel campo diventando kapò, cioè caposquadra e aguzzina delle sue compagne, aizzata alla ferocia dalla logica spietata del Lager. L’amore per Sascia, un prigioniero di origini russe, sembra redimerla. Tuttavia la ragazza dovrà pagare tale redenzione con il sacrificio della vita.

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