Luigi Meneghello LA LINGUA DELL’ESPERIENZA
arzare pòlese arese sparese bigolo ròcolo brunfolo còcolo róvare manego pévare bòcolo sòcolo tòssego pirolo rissigo mantese liévore simese cipete tòtano sòssolo mòcolo stròpolo astico bagolo mastese santolo anzolo bóvolo nónsolo stròlego sèlino panpano pòrtego sgaparo scursolo briscolo sòfego finfolo
ASSOCIAZIONE FORMALIT 2016/2017
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Luigi Meneghello. La lingua dell’esperienza
Sommario Introduzione………………………………………………………………………………………………………2 L’appartenenza…………………………………………………………………………………………………..6 Il ricordo……………………………………………………………….…………………………………………12 La mutazione……….…………………………………………………………………………………………..17 Il dispatrio……….……………………………………………………………………………………………….21 Glossario………………………………………………………………………………………………………….26 Note biliografiche……………………………………………………………………………………………..28
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Luigi Meneghello. La lingua dell’esperienza
Introduzione Sono nato e cresciuto a Malo nel Vicentino, e lì ho imparato alcune cose interessanti. Ho fatto studi assurdamente “brillanti” ma inutili e in parte nocivi a Vicenza e a Padova; sono stato esposto da ragazzo agli effetti dell’educazione fascista, e poi rieducato alla meglio durante la guerra e la guerra civile, sotto le piccole ali del Partito d’Azione. Mi sono espatriato nel 1947-48, e mi sono stabilito in Inghilterra con mia moglie Katia. Non abbiamo figli. L’incontro con la cultura degli inglesi e lo shock della loro lingua hanno avuto per me un’importanza determinante. Sono tuttavia certamente un italiano, e non ho alcun problema di identità, né mi sono mai sentito per questo aspetto in esilio. Io volevo soprattutto imparare, nella vita, invece mi sono trovato a insegnare. Ho insegnato letteratura italiana all’Università di Reading nella valle del Tamigi. Ho continuato inoltre a studiare e a scrivere, confondendo un po’ i due processi; e ho poi lasciato l’insegnamento, nel 1980, per confonderli con più comodo. Ho pubblicato dei libri nei quali, come in tutto ciò che studio e scrivo, cerco di giustificarmi la natura delle cose, se c’è. «da un profilo autobiografico del 1975 recentemente ritoccato», sul risvolto di copertina di Il dispatrio
Luigi Meneghello nasce il 16 febbraio del 1922 a Malo in provincia di Vicenza. Figlio di una maestra e di un artigiano ha l’opportunità proseguire gli studi fino all’Università. Quelli della sua giovinezza sono anni vissuti sotto l’influenza di un doppio potere. Da un lato quello della Chiesa Cattolica, però sempre mediato da una certa cultura paesana, in parte autonoma rispetto alle forze centripete dei poteri forti; Dall’altro quello del Fascismo, sia in termini politico-militari sia culturali. Meneghello fu uno studente eccellente e per certi versi una giovane promessa della cultura fascista; solo al suo secondo anno universitario (1940) inizia a maturare la sua critica al regime. Ciò si deve per buona parte a Toni Giuriolo, guida culturale e politica dei Piccoli Maestri, la banda di studenti universitari con cui Meneghello si impegnerà durante la Resistenza e subito dopo la guerra nelle file del Partito d’Azione. Tuttavia l’esperienza dell’attivismo politico sarà deludente; possiamo leggere in Bau-Sète!, il romanzo sugli anni del dopoguerra: Mi pareva che il mio paese mi scacciasse dalla sua politica, non per cattiveria sua o mia, ma per la nostra rispettiva conformazione: e che la speranza di far congruire in qualche punto la mia vita privata con quella pubblica del mio paese (che purtroppo mi ero messo in testa che fosse il senso più alto della vita) era morta. Bau-Sète!, p. 69
Meneghello, deluso dallo scenario politico-culturale dell’Italia, coglie l’occasione di una borsa di studio per fare un’esperienza in Inghilterra; nei suoi appunti personali troviamo scritto: Dunque: con che spirito lasciai l’Italia, venti anni fa? La lasciai per ritornarci moderno. Di nessun italiano mi pareva onesto scopo andarsene a pappare conforti e civiltà oltremare oltre manica, ma giusto e patriottico scopo mi pareva andare a prendere un po’ di mentalità civile, e riportarla qua. Le carte I, 12 febbraio 1967, pp. 327-28
Tuttavia le cose andarono diversamente. Meneghello, partito per l’Inghilterra nel 1947 con l’intento di soggiornarvi dieci mesi, vi resterà, invece, per tutta la durata della sua carriera di docente universitario al dipartimento di italianistica di Reading. Tuttavia egli trascorre sempre le vacanze in Italia e una volta in pensione decide di ritornare in patria, trasferendosi a Thiene, dove muore il 26 giugno 2007. Ora che l’autore è stato introdotto possiamo illustrare brevemente le caratteristiche della sua produzione artistica per poi presentare la struttura della dispensa che avete davanti. Per quanto possibile cercheremo di cedere la parola all’autore, utilizzando, come abbiamo fatto anche sopra, le parole di Meneghello per spiegare Meneghello. 2
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Sotto l’aspetto del genere letterario la sua produzione si contraddistingue per la forte tendenza all’ibridismo: ogni opera è contemporaneamente romanzo, autobiografia e saggio; così l’autore: Ho pubblicato una mezza dozzina di libri che vanno sotto il nome di «romanzi», ma non sono novels convenzionali: sono piuttosto narrazioni a sfondo autobiografico, che hanno spesso un andamento saggistico e non mai di storia personale romanzata. Non mi piace l’idea di affidarmi alle finzioni della fiction: anzi, quando ero più giovane e spavaldo avevo una mezza idea di scegliermi come impresa letteraria il motto «Fabulas non fingo»; ma d’altra parte ciò che scrivo non è autobiografia vera e propria. Fiori a Edimburgo in La materia di Reading, Opere scelte, p. 1328
Si comprende quindi come le sue opere non siano mai semplici narrazioni di esperienze di vita; al contrario, raccontare la propria biografia ha per lo scrittore una funzione conoscitiva. Come lui stesso afferma, Ogni frammento di esistenza contiene gli elementi costitutivi della realtà di cui fa parte: quasi lo scheletro essenziale, i semi del suo significato, una specie di DNA del reale. Il lavoro che cerco di fare è di estrarlo e di svolgerlo. Sotto questo profilo, scrivere per me è in essenza un esercizio conoscitivo. Nel prisma del dopoguerra, Opere scelte, pp. 1459-60
Se il fine è quello di estrarre il DNA del reale dall’esperienza individuale, i modi per farlo messi in atto dalla sua scrittura sono diversi. Egli può infatti trattare la sua biografia guardandola per così dire dall’esterno, descrivendo ad esempio la fisionomia fisica e sociale di Malo, il suo paese d’origine, quasi con l’intento di offrirci uno studio sociologico di un paese reale. Altrimenti, riprendendo lo stesso esempio, può scegliere di ritrarre l’altra faccia del paese, quella vissuta dall’interno attraverso gli occhi di lui personaggio e soprattutto attraverso gli occhi di lui personaggio bambino. In questo caso Malo non è più un paese reale, ma un paese poetico. Ne deriva che il termine reale assume significati diversi a seconda della strategia espressiva di volta in volta adottata: nel primo caso la realtà racchiusa nell’autobiografia si riferisce alla realtà storico-oggettiva, mentre nel secondo si assimila piuttosto al concetto di verità, da intendersi come ricerca dell’essenza delle cose. Naturalmente queste due prospettive portano ad esiti stilistici differenti e s’intrecciano costantemente l’una con l’altra, fatto che spiega la forma ibrida di ogni opera del nostro autore. Il problema di riuscire a dire l’essenza delle cose o il nucleo della realtà è anche e soprattutto un problema stilistico, per una scrittura pensata come strumento di conoscenza: Le scritture letterarie che più mi interessano – al di là dell’andamento narrativo, o lirico, o raziocinante – vanno a toccare nuclei di questa specie. Il lavoro che comportano si associa spesso al senso di uno scavo o di uno scandaglio. Strati segreti, fosse marine, scassi terrestri… E mi ha sempre colpito, in questo contesto, l’importanza cruciale delle nostre parole, i loro misteriosi legami con le cose, la magia dei loro rapporti interni, le risonanze occulte… La virtù senza nome in La materia di Reading e altri reperti, in Opere scelte, pp. 1434-35
La sfida quindi è tutta stilistica e linguistica: consiste cioè nel trovare i modi per dire e capire ciò che altrimenti resterebbe inspiegato. La strategia prediletta da Meneghello è quella dell’ironia intesa come processo creativo basato sullo scontro tra “piani”: C’è di mezzo l’accostamento e lo scontro di cose o piani diversi: anzitutto la lingua (l’italiano moderno) e il dialetto (vicentino), un aspetto di speciale importanza per me; e ancora lo scritto e il parlato, la serietà e l’ironia, il domestico e il pubblico, l’urbano e il paesano, i personaggi della storia civile e letteraria, e quelli dell’ambiente famigliare (il poeta Yeats, e mio nonno Piero, mediatore e contrabbandiere; l’altro poeta, loro coetaneo, D’annunzio, e mio padre che gli faceva da autista durante la Grande Guerra…) e in generale il contrasto tra il mondo della cultura riflessa e la sfera della vita popolare. […] per esempio il fatto che nell’infanzia, fonte delle più intense emozioni, la minaccia scherzosa delle zie di sbudellarti, che sapevi non era vera, creava un vertiginoso
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simulacro di paura, un tremore interno (che da qualche parte ho chiamato il TREMAIO) indistinguibile da un trasporto di gioia. La bellezza in Quaggiù nella biosfera, in Opere, pp. 1588-89
Avremo modo di approfondire nel corso della dispensa questi e altri elementi della poetica meneghelliana, ma vediamo ora quali sono i temi centrali della sua produzione. Possiamo elencarne alcuni ripercorrendo le varie opere, ricordando però che Meneghello è un autore che ritorna incessantemente sopra a ciò che ha scritto, sui modi in cui l’ha fatto e sui temi di cui si è occupato. La realtà paesana, in quanto primo luogo dell’esperienza, è il punto di partenza della scrittura di Meneghello. All’immagine di Malo come mondo, alla sua cultura, ai suoi mestieri, ai rapporti umani e all’enorme peso del Cattolicesimo nella sua prima educazione sono dedicati il primo libro Libera nos a malo (1963) e Pomo pero (1974). Il problema dell’educazione fascista e dell’impostazione dell’istruzione italiana – dalle scuole elementari all’università – è stato affrontato più direttamente ne I fiori Italiani (1976), mentre nel secondo romanzo in ordine cronologico, I piccoli maestri (1964), Meneghello racconta della Resistenza e della propria rieducazione culturale. Bau-Sète (1988) si concentra invece sugli anni del dopoguerra, sulle aspirazioni dell’Italia uscita dalla dittatura fascista e sul cambiamento in corso in tutta la società italiana. Il dispatrio (1993), infine, è un’opera ad alta tensione saggistica ed è incentrata sul suo soggiorno nel mondo inglese. Tuttavia molti altri sono i temi trattati nell’opera di Meneghello e non meno importanti di quelli elencati poco sopra. Basta pensare a tutto il mondo dell’infanzia; al rapporto tra italiano e dialetto e alle riflessioni sulla lingua; alla relazione tra i luoghi e la formulazione delle idee; alla mutazione antropologica e paesaggistica dell’Italia degli anni del boom economico. In sintesi, ci troviamo di fronte ad uno degli autori tematicamente più fertili e stilisticamente più rilevanti del Novecento italiano. Per affrontarlo in questa dispensa è stato necessario selezionare la sua produzione letteraria e saggistica cercando di mediare il dovere di presentare gli aspetti essenziali dell’autore con la necessità di presentarne un profilo capace di rendere l’idea della sua attualità per un pubblico giovane. Ne è risultato un percorso articolato in quattro punti su cui si suddividono le sezioni della dispensa: Appartenenza: Meneghello ritorna incessantemente sulla propria infanzia e giovinezza, quasi come fosse l’unica cosa di cui può scrivere. Perché l’appartenenza a Malo e insieme il suo distacco sono la via necessaria per estrarre l’essenza delle “cose” paesane: un DNA dal valore universale. Vedremo qui in particolare come l’autore risolva stilisticamente il problema di evincere l’universale dal particolare riproducendo la relazione strettissima fra i luoghi più profondamente appartenutigli e la lingua che li esprime e ne rende possibile il ricordo. Ricordo: Si potrebbe dire che il tema, l’unico vero tema di Meneghello, sia la morte: ciò che muta, ciò che scompare e ciò che persiste nello scorrere del tempo. Per questo motivo la sua attività di scrittura è incentrata su un continuo sovrapporre immagini: ieri e oggi sono a continuo confronto perché «c’è sempre un lato che cambia, cambiamo noi, soggetto dell’esperienza, e cambia il contenuto dell’esperienza; ma c’è anche un lato che permane e non sembra esposto al cambiamento». Ecco quindi spiegati la necessità di ricordare e il ritorno incessante sulla materia di Malo e sulla propria infanzia e giovinezza: salvare qualcosa di persistente dal flusso del tempo; commemorare ciò che è scomparso per sempre. Mutazione: Meneghello va e viene dall’Inghilterra e questo periodico ritornare acuisce la sua sensibilità nel cogliere i cambiamenti in atto. Quando torna in Italia, confronta il presente con il passato, l’Italia che vede in quel momento con l’Italia del suo ricordo. Riesce così a osservare la mutazione italiana con un certo distacco, senza viverla come catastrofe perché è ben consapevole del miglioramento delle condizioni materiali e culturali del ceto popolare. Eppure assiste al miracolo economico italiano anche senza euforia perché conosce i rischi della modernizzazione e della perdita di autenticità nei rapporti umani che questa comporta. È il suo acuto senso dell’ironia e della misura a permettergli di restare in un equilibrio sereno tra visione apocalittica del cambiamento e gusto euforico per il nuovo. 4
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Dispatrio: Dispatrio è il titolo di un libro ma anche il senso di tutta una vicenda umana. Come un distacco o una rottura Meneghello visse innanzitutto il suo mancato incontro con la cultura e la politica italiane e quindi il suo trasferimento in Inghilterra. Ma ancora prima dell’emigrazione, già l’esperienza della Resistenza – con la guerra partigiana combattuta sull’ Altipiano di Asiago e la rottura con la cultura italiana-fascista in favore di una cultura europea – si pone come un primo dispatrio. Il termine ha però per lo scrittore una duplice accezione: non è solo la perdita della patria, ma anche un guadagno, quasi una duplicazione del punto di vista. Questo perché il dispatrio consente di osservare le cose da dentro e da fuori allo stesso tempo, è la possibilità di guardare gli inglesi con gli occhi dell’alterità e di vedere le contraddizioni del loro mondo. Ma significa anche avere l’occasione di scrutare l’Italia da una prospettiva altra e vederla sotto una luce diversa.
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L’appartenenza Diamo inizio a questo percorso attraverso l’opera di Luigi Meneghello dal concetto, o categoria interpretativa, di appartenenza. È al suo paese d’origine che Meneghello dedica il romanzo d’esordio, Libera nos a malo, e poi anche Pomo Pero. Ma in realtà Malo, con la sua materia e il suo immaginario, è presente in tutto ciò che l’autore ha scritto: costituisce una fonte memoriale inesauribile da cui egli continua ad estrarre e poi a lavorare la sua materia. Tanta attenzione allo strato più sedimentato della propria identità – individuale e collettiva perché plasmata dal contesto comunitario, paesano, in cui l’autore è nato e cresciuto – è dovuta all’intensità dei ricordi associati alle prime esperienze compiute. Queste investono in particolare i rapporti che egli intrattiene con i luoghi e con la lingua materna. Alcuni luoghi, soprattutto quelli visti ed esperiti durante l’infanzia, hanno per Meneghello una potenza evocativa sproporzionata alla loro importanza, fatto che li rende poetici. Per spiegare la “plasticità” dei ricordi da essi evocati, l’autore parla di qualità tattili che alcuni di questi posti magici o poetici avrebbero. Grazie a queste si riuscirebbe non soltanto a “vedere” gli oggetti del ricordo, ma anche a «sapere che cosa vuol dire toccare e cosa troverebbe, sfiorando, il dito, anche oggi se volessimo passarlo (molto leggermente) sulle immagini di quelle superfici».1 Come dire che il ricordo di un luogo per qualche motivo significativo fa rivivere al soggetto ricordante le qualità fisiche, reali (nel senso derivativo da res) di quell’esperienza. Quasi che i ricordi di alcune cose a lui profondamente appartenute si palesino non come immagini o idee - qualcosa di vago e sfuggente -, bensì come le cose stesse. Anche il rapporto con la lingua materna, il dialetto di Malo, condivide questa relazione immediata con la realtà empirica. A differenza dell’italiano che lo scrittore ha appreso con la scolarizzazione e che avverte come una lingua artificiale e ufficiale, il dialetto è stato il suo primo mezzo per comprendere la realtà. E questa conoscenza della realtà è avvenuta, nella mente del bambino, sì attraverso la lingua ma in maniera non mediata da essa, ossia unendo indissolubilmente la cosa (il significato) alla parola che la codifica (il significante). Per questo motivo il dialetto, soprattutto nei romanzi dedicati a Malo, possiede uno statuto diverso da quello che ha in altri romanzieri. Il dialetto in Meneghello non ha infatti né una funzione mimetica, né tantomeno è usato in senso espressivo o deformante. Si spiega invece come un tentativo di ristabilire un’appartenenza con le cose, di arrivare alla loro essenza (al DNA del reale). E questo riappropriarsi delle cose assume ancora più senso e importanza alla luce del fatto che alcune espressioni linguistiche sopravvivono ai loro significati: rimangono cioè in circolazione quando le cose che designano sono scomparse per effetto del progresso. Imprimere nella pagina quelle parole desuete rimane quindi l’unico modo per contrastare la perdita della realtà a cui si riferiscono.
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L’autore pronuncia queste parole in un intervento sui motivi più ricorrenti della sua scrittura, poi diventato un saggio dal titolo L’acqua di Malo, ora in Opere scelte, pp. 1159-61.
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Iniziamo proprio da quest’ultimo punto, il significato del dialetto nelle opere di Meneghello dedicate a Malo, luogo emblematico dell’appartenenza. Il brano che segue figura tra le prime pagine di Libera nos a malo. Si apre con la descrizione di un ambiente familiare, l’orto, e della vita animale e vegetale che pullula attorno ad esso e che stimola l’immaginazione dell’autore. Alle associazioni libere ispirate dai dati dell’esperienza concreta espressi nel dialetto maladense, segue un passo più riflessivo in cui Meneghello teorizza il rapporto tra la lingua materna e le cose, tra il dialetto e la realtà fenomenica.
Maggio in orto, api, calabroni; virgulti, germogli, foglie tenere, e bai2 dappertutto, in aria in terra sulle foglie. Mi vede questo bao? Vede un bao grando; è tutto fatto a bai il mondo, bai-bimbissóli3, bailumèghe4, bai-sòrze5, bai-can, bai-omini, bai-angeli che zòla6 come questo bao. Zòla via bao! Nel zufolo delle api filandiere c’era il bandolo di una cosa che dardeggiava dentro e fuori dal tempo; mi sentivo uscire dal nostro man-locked set,7 lo spazio infinito e il tempo infinito erano gocciole di suono a mezz’altezza, press’a poco alte come le mura dell’orto, che fioccavano in aria senza cadere. Si sapeva che erano solo ave8. Ava: una giuggiola che si muove, una strega striata, minuscola; un bao che non è un bao, un segreto che non si può penetrare perché non parla, una goccia gialla che punge. Ava aveta, do lo ghètu ‘l basavéjo9? Ava: sa te me bèchi te lo incatéjo10. Non giocare con la Ava. Viene dalla zona dei noumeni11, non è un bao. Ava. Ci sono due strati nella personalità di un uomo; sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua. Questo vale soprattutto per i nomi delle cose. Ma questo nòcciolo di materia primordiale (sia nei nomi che in ogni altra parola) contiene forze incontrollabili proprio perché esiste in una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri follia. Sento quasi un dolore fisico a toccare quei nervi profondi a cui conduce basavéjo e barbastìjo12, ava e anguàna, ma anche solo rùa e pùa. Da tutto sprizza come un lampo-sgiantìzo, si sente il nodo ultimo di quella che chiamiamo la nostra vita, il groppo di materia che non si può schiacciare, il fondo impietrito. Non dico che questo è il dialetto, ma che nel dialetto c’è questo. So bene che non solo nel dialetto c’è questo, anzi ancor più in quell’altro dialetto degli occhi e degli altri organi del senso, quando il caso o certe disposizioni emotive determinano uno sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose. da Libera nos a malo, pp. 36-37 2
Bai: bachi, insetti, o anche semplicemente vermi. Bimbissóli: lombrichi. 4 Lumèghe: lumache. 5 Sorze: topo. 6 Zòla: vola, volano. 7 Citazione da Stevens Wallace; si potrebbe tradurre come la sfera o lo spazio che delimita l’uomo, che è proprio di esso. 8 Ave: api. 9 Basavejo: pungiglione. 10 Incatéjo: aggroviglio. 11 Ossia dal mondo delle idee, dell’essenza pensabile; contrapposto alla realtà sensibile o fenomenica. 12 Barbastìjo: pipistrello. 3
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PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Abbiamo detto nell’introduzione alla dispensa che il genere e lo stile dei romanzi di Meneghello sono ibridi; riconosci anche in questo brano una mescolanza di stili e un’alternanza del punto di vista del narratore? Le due cose sono tra loro correlate? Meneghello afferma qui che l’apprendimento del dialetto va di pari passo con la conoscenza della realtà. Sostiene poi che il dialetto è per certi versi realtà e per altri follia. Come ricolleghi queste affermazioni, soprattutto l’ultima, al primo frammento ed in particolare allo stile lì adottato? Ti sembra che lì la realtà concreta (l’orto, le presenze animali e umane ecc.) venga rappresentata realisticamente? Attraverso quali occhi, o punto di vista, ci viene presentata? Si potrebbero ritrovare, in questo estratto del romanzo, le idee sviluppate da Meneghello in sede teorica (citate nell’introduzione) sul senso che hanno per lui l’arte e la scrittura e il loro rapporto con la realtà?
Presentiamo ora due estratti da Libera nos a malo che rendono l’idea del profondo rapporto che unisce lo scrittore ad alcuni luoghi del suo paese e della sua infanzia. Nel primo è presente una descrizione paesaggistica in cui lo sguardo dell’autore segue il corso del torrente Livargón soffermandosi sui dettagli dell’ambiente circostante.
Il nostro proprio torrente si chiamava il Livargón, ma le tribù vicine lo chiamavano anche la Giara, ed è infatti tipicamente giara13. Vien giù dai colli sopra San Vito, e fa un’ansa sotto il paese, come circondandoci a sud, al piede del Castello. Ha poca acqua ed è spesso affatto prosciugato d’estate, benché si gonfi assai “nei tempi delle maggiori sue escrescenze” come avrebbe detto il Maccà.14 Quando ci scorre l’acqua, si formano dei piccoli bacini che sono i nostri bòji: il principale era il Rostón, poi il grazioso Bojetto, poi l’allegro gorgo dei Sojetti15 del Castello, poi i piccoli pelaghi bruni di Malo basso, fino al bójo di Cuca. Le lavandaie inginocchiate sui lavelli agitavano i panni nell’acqua chiara; i gattini annegando nei bóji spargevano sopra gli occhietti il velo rosa delle palpebre; le scaglie di sasso rimbalzavano lietamente sullo specchio dell’acqua; i bambini facevano le roste 16 fra i sassi, e i nuotatori drappeggiati nei giganteschi panneggi delle mutande di tela emergevano dalle sottarole a faccia in su per rifarsi la mascagna17. [...] C’erano dei luoghi inesprimibilmente ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo al Prà18 , oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del prato comunale, quasi a livello del torrente. Il dirupo del Castello lo chiude scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo19 antico del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto inaccessibile. Era uno di quei luoghi perfetti che si trovano nei romanzi di cavalleria; l’erba, l’acqua, la roccia, l’orto misterioso, aereo, e l’alto dirupo alle spalle e la prospettiva dei platani. Invece appena al di là del torrente c’erano i muri e gli orti del paese, le schiene rozze delle case (lì di fronte è quella dov’è nato mio nonno), le viottole dove non passava nessuno, tranne un bambino con la capra. Altri luoghi ho riconosciuto poi nei racconti di cavalleria, a cui davano adito i sentieruoli del Castello, luoghi come la Fontanella, il Paraìso, con la polla d’acqua sorgiva, il muschio e l’ombra pezzata degli alberi.
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Giara: ghiaia. Abate e storico, autore di una Storia del territorio vicentino del 1816. 15 “Scoglietti”. 16 Roste: dighe di sassi o terra. 17 Tipo di acconciatura maschile con i capelli pettinati all’indietro senza scriminatura. 18 Si tratta di un prato di proprietà del comune. 19 Brolo: orto, frutteto generalmente cinto da muro o siepe. 14
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I dossi dietro al Castello erano tutta una rete di sentierini-stròsi, e stròso20 è avventura. Stròso rimonta contrafforte, scala gobbetta, adduce a pino in cresta; penetra, infrasca, disinfrasca; punge con rùsse21, consola con primule. Da stròso si rubano pere pome ùe. Chi ze che ròba la ùa spinèla22? La ùa-mericana, la bromba idropica23, l’amolo acido24, il pèrsego25 che dà nel verdastro e sente di màndola, l’armellino26 che allega? Stròso da còrnole27, còrnole garbe28; stròso da dùdole29. Nosèlle appena fatte30, e nello spiàccico verde le tenere nòse nuove, e le more. Quale vùto, quele rosse e quele negre? Quel che vien vien! Quel che vien vien! Per questi viottoli si ruba, si esplora; viottolo turba, eccita, se ne sbuca correndo a mezzogiorno, si rivede dall’alto del paese, con la faccia tutta impiastricciata di more. da Libera nos a malo, pp. 84-86
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Quale tono ti sembra prevalere nel brano (saggistico, riflessivo, espositivo, lirico…)? Sulla base di quali elementi sviluppi la tua risposta? Meneghello afferma qui che l’apprendimento del dialetto va di pari passo con la conoscenza della realtà. Sostiene poi che il dialetto è per certi versi realtà e per altri follia. Come ricolleghi queste affermazioni, soprattutto l’ultima, al primo frammento ed in particolare allo stile lì adottato? Ti sembra che lì la realtà concreta (l’orto, le presenze animali e umane ecc.) venga rappresentata realisticamente? Attraverso quali occhi, o punto di vista, ci viene presentata? L’estratto che hai letto ti suggerisce qualcosa sul rapporto tra lingua e luoghi? Soffermati in particolare sulla parte finale del brano; vedi qualche relazione tra la materia descritta e l’utilizzo del dialetto? Sembra quasi di trovarsi davanti ad una lista-cantilena; perché o sulla base di cosa Meneghello associa quelle parole? Secondo te sta parlando l’io narratore adulto o piuttosto l’io personaggio bambino?
Nel secondo brano viene presentato un altro spazio dell’appartenenza: quello dell’ambiente domestico. L’autore parla inizialmente da un’ottica “generale”, riferendosi a quella che potrebbe essere una tipica abitazione della Malo degli anni Venti e Trenta. Poi ̶ secondo quella oscillazione tra esterno e interno caratteristica del suo stile ̶ il discorso si fa sempre più soggettivo per poi chiudersi, nuovamente, in un’ottica generale, anzi universale, con una riflessione sul male che contraddistingue la condizione umana.
Le case del centro hanno un portico selciato che dà nel cortile; nel portico si aprono le porte delle stanze a pianterreno, e le scale. Le stanze sono a travi, i pavimenti a mattoni o a tavole di legno. La cucina è la stanza più importante; c’è il focolare di pietra, la cucina economica, la tavola bislunga dove la famiglia si siede a mangiare due volte al giorno. Qui i bambini fanno i compiti, la mamma cuce. Gli 20
Stroso: Sentiero. Russe: rovi. 22 Ùa spinela: ribes. 23 Bromba o bronba: prugna. 24 Amolo: piccola prugna, o verde o rossetta. 25 Persego: pesca. 26 Armellino: albicocca. 27 Cornole: frutti del corniolo, un albero da frutto che cresce in tutta Italia, fuorché nelle isole. 28 Garbe: asprigne. 29 Dudole: nespole nane. 30 Fatte: mature. 21
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uomini non si vedono mai seduti in casa, tranne all’ora dei pasti. Una volta che Gaetano era gravemente malato il papà lo prese in braccio e si mise a sedere in cucina sulla sedia vicino alla porta: ricordo che aveva il cappello in testa, calato sugli occhi, e lagrimava. Le camere sono grandi e nude, gelide d’inverno; hanno letti di ferro con la rete metallica (figli), o gli elastici (genitori), il materasso di crine sotto e quello di lana sopra. C’è un lavandino in camera, con la brocca e la secchia; in questa al mattino si vuotano anche i vasi da notte. La casa ha amplissimi granai, quasi un’altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi. Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova di San Lorenzo a Firenze: c’era la zona intermedia delle cose terrene, camere, cucine, cortili; in basso quella oscura dell’Ade a cui davano adito la scala della cantina, la cassetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c’era la sfera nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che l’artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo.31 Gli sporti del tetto sono ampi, e danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne”, “stellaresse”32: qui al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile, all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’inferriata, e il sole entra nella casa a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati. Se c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa. Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice. Nelle case migliori c’è un rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retroterra dove le donne lavano i piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. quest’acqua dei secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella che si bene così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la faccia alla mattina. […] La stanza da bagno è sconosciuta; due o tre famiglie di signori si dice che l’abbiano; la Flora ne ha vista una nella casa del Cavaliere. Quando si è sporchi ci si lava sotto la fontana del cortile; in casi eccezionali si fa un bagno nel mastello in lissiara33. Dalla lissiara si scende in cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata anche talvolta da ande34 che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una pallida spoglia verdeazzurra (le consideravamo piccole fate trasformate in serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). C’erano altre cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite, addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore del pavimento di terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che cominciassero vagamente a esalare. La porta pesante si chiudeva con un grosso catenaccio (ancora sotto per la sberla dell’aria, allo scoppio della Pisa), sulle finestrelle c’erano robuste inferriate: le cose della cantina si serravano dentro. C’era nella casa un retroterra di barchesse,35 legnaie, ripostigli, cameroni di sgombero. Da noi c’era il favoloso solaio dell’officina, pieno di cadaveri d’ingranaggi, cuscinetti a sfere, leve, pedali, aste, rondelle, catene; tutti impegolati in grumi secchi di vecchio sangue verde-nero. Vi si montava per la più alta delle scale a 31
Meneghello scrive inoltre, in nota al passo, sull’aura suggestiva della “sfera dei granai”: «anche dal basso, e di notte, i granai (dove di notte non si va) hanno del misterioso. Quando la casa è buia, il cortile muto e come isolato, uscendo in cortile si vedono in alto, attraverso le finestre del granaio, ritagli di luce gialla. L’illusione che il granaio sia illuminato è così potente, che per un po’ si cerca smarriti il senso della faccenda, e questo senso non c’è. Poi si vede che queste luci sono le luci della strada che entrano dalle finestre davanti, e si spiegano negli spazi lassù come lìssia notturna ad asciugare; e a questo punto la casa ci appare – come uno struggimento – per quello che è, una vecchia macchina per abitare, piani di muratura sforacchiati, strutture secche e ignude». 32 Gorne e stellaresse: grondaie e punti della grondaia dove l’acqua tracima (voci dialettali). 33 Lissiara: lavanderia. 34 Ande: nome locale di grandi serpenti. 35 Barchesse: tettoie.
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pioli, attraverso un’apertura circolare, e dall’altra apertura circolare al di là dell’enorme stanzone in penombra si vedeva il pino dell’orto e la cerchia delle colline. Si aveva la sensazione di spiare il mondo da lassù, dal buio verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore; era anch’esso un solaio, dunque parte del sopramondo, una specola. […] Nella maggior parte dei cortili il cesso è usato da varie famiglie, e se c’è una bottega o un’officina, anche dai lavoranti. Per orinatoio si usa il letamaio, gli uomini davanti al muretto di riparo, i bambini sopra; in caso d’urgenza lo usano anche le bambine. L’urgenza assoluta spinge tutti, anche le donne, in fondo all’orto. I conigli (di cui la forgia36 era la patria, e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrìsole37. Montando sul muretto si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene, benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio. Queste visite erano più o meno rischiose a seconda delle condizioni del letamaio; anch’esso ha le sue stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia o lo secca senza posa; a volte è arido e compatto come un campo in tempo di siccità, a volte quasi un lago pieno di brutte bolle nere. Uno dei miei primi ricordi di mio fratello è quando ricomparve in cima al cortile dopo un’assenza un po’ lunga in forgia. Gli era accaduta per la prima volta la cosa che solo con una certa esperienza s’impara a prendere in one’s stride,38 ed era un po’ scosso. Era vestito di seta cruda, quei vestitini con gli sboffi, che s’abbottonavano sotto, ma la seta non si distingueva più molto, si confondeva con le braccine, con le manine aperte, con le gambette, con la faccina e coi capelli. Scendeva piano piano a gambe larghe, facendo suoni che parevano sospiri.
Libera nos amaluàmen. Non sono ancora molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema. Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago! Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori. Libera Signore i tuoi figliuoli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno! da Libera nos a malo, pp. 88-92
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In questo brano è abbastanza evidente un’alternanza di piani prospettici, o punti di vista, nella narrazione. Sapresti rintracciare i momenti in cui avviene questa alternanza? Che vantaggio o che scopo ha, secondo te, per il narratore, questo passare continuamente dall’esterno all’interno e viceversa mentre racconta la sua autobiografia? Libera nos amaluàmen. Meneghello ha affermato che il titolo del romanzo non allude affatto alla volontà di rinnegare il paese d’origine; come lo si potrebbe allora interpretare?
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Forgia: fucina, luogo dove era presente il fornello e l’attrezzatura per scaldare e manipolare pezzi di metallo. Sgrisole: brividi. 38 In one’s stride: disinvoltamente. 37
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Il ricordo Come già detto nell’introduzione il ricordo e l’uso delle memoria hanno una posizione centrale nell’opera di Meneghello. Non si esagera se si afferma che la scrittura di Meneghello è essenzialmente una scrittura del ricordo. Il genere letterario che caratterizza tutte le sue opere, quell'ibridismo tra autobiografia e saggismo di cui si è parlato più sopra, ne è segno evidente. La persona che dice Io nei brani qui riportati, ma in generale in tutti i testi dell'autore, risponde al nome di Luigi Meneghello. Le storie e le esperienze narrate sono state vissute da Luigi Meneghello bambino (in Libera nos a malo, e in Pomo pero), da giovane partigiano (in I Piccoli Maestri), o in altri momenti della sua vita. Luigi Meneghello scrittore vi ritorna con la memoria e attraverso la scrittura riflette, da forma al ricordo e prova a salvare il passato dall’oblio. La tematica del ricordo può essere però analizzata da due punti di vista: 1) il ricordo come materia e forma della narrazione, pressoché onnipresente; 2) il ricordare come attività mostrata nel suo svolgersi. Se per trovare esempi del primo caso è sufficiente aprire un punto qualsiasi di uno dei libri dell’autore; non così avviene per il secondo punto. Ossia il ricordare – ovvero la messa in scena di un personaggio che ricorda e quindi la rappresentazione delle modalità e dei meccanismi della memoria – appare più raramente. Saranno queste le due categorie con cui affronteremo il macro tema del ricordo. Un altro punto fondamentale da indicare per introdurre i testi che seguiranno è lo scarto tra passato e presente che è proprio della memoria stessa; il passato che si ricorda e il presente da cui si ricorda. Nel nostro caso questa distanza si riflette in modo particolarmente vistoso sul rapporto tra il Meneghello personaggio, calato nel presente del ricordo, e il Meneghello narratore nel presente da cui la storia è raccontata. Tale divergenza di prospettiva si esprime in modo fertile nel dialogo tra la voce e i pensieri dell'uno e la voce e i pensieri dell'altro. Questo distanziamento è prodotto attraverso numerose modalità retoriche e stilistiche (i tempi verbali, l'ironia, la caricatura, l'utilizzo della lingua, ecc.) e segna diversi modi in cui il passato viene salvato e interpretato. Non tutto può essere ricordato, e il tono del ricordo cambia a seconda del modo con cui l'esperienza viene raccontata: l'attività del ricordare non è mai neutra, ma è sempre frutto di una selezione, un'interpretazione e di una messa in forma del materiale memoriale dell'esperienza. Della complessità necessaria al trattamento del passato l'autore è pienamente cosciente. Proprio attraverso la sua scrittura egli cerca di saldare questa ferita aperta tra un passato che è finito per sempre e un presente dal quale il passato riemerge carico di tensione emotiva e forza conoscitiva. In Meneghello le due attività di ricordare e di raccontare finiscono per fondersi. Come è già stato detto in precedenza la scrittura è un tentativo di salvare dalla morte e dall’oblio, ma è anche un tentativo di comprensione. Attraverso le sue narrazioni l’autore vuole capire la propria esperienza, questo per la convinzione che la propria vicenda individuale e particolare sia un mezzo per guardare all’Italia intera, e quindi per comprendere fenomeni ed esperienze dotati di valore collettivo e generale. Infine, guardare con lucidità al passato è un modo per osservare e interpretare il presente che di quel passato è il figlio. Nei primi due testi che proponiamo, il primo da Pomo Pero e il secondo da Libera nos a malo, il narratore descrive la cultura che vige a Malo al tempo della sua infanzia. Una cultura dove cattolicesimo, fascismo e nozioni scolastiche si mischiano per creare un sistema. Questa cultura, che Meneghello e molti della sua generazione hanno provato sulla propria pelle di bambini, nel racconto assume dei toni comici e surreali.
La cultura che sedeva sopra di noi come una bella cappa di piombo azzurro aveva un lato rassicurante, e un altro che dava inquietudine. C'era un po' troppa congruenza nel mondo dove si imparano le cose – le nozioni formavano un sistema. I corpi si dividono in buoni e cattivi conduttori; Gesù incarnato nel grembo di Maria ha salvato l'umanità, che è perciò tenuta ad andare a messa, pagare le tasse, comunicarsi almeno a Pasqua; spartire come vorrebbero i sovversivi è impossibile, in pochi giorni i poveri spenderebbero tutto e si ritornerebbe come prima; il Duce, incarnato nel grembo di Rosa Maltoni, ha salvato l'Italia; l'innesto preserva dalle malattie, ma non c'è innesto contro la Tisi e 12
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contro l'Ernia; la fecondazione dei fiori avviene per mezzo degli stami e dei pistilli, sui quali le api e i calabroni compiono una specie di atti impuri permessi, anzi meritori e quasi sacri. Da nessuna parte ci veniva non dico lo stimolo a scegliere, ma anche solo l'avviso che ci fosse una scelta. Si possono forse scegliere le stagioni, le malattie? Cosa possiamo farci noi se c'è la corrente elettrica che somministra gli scossi, il freddo che ghiaccia l'acqua e gonfia le buanze, l'inferno che arde, il Duce che forgia, Dio padre che vede tutto e va in bestia, e quello smidollato dell'angelo custode vestito da donna, che non fa altro che piangere perché facciamo i peccati? Cosa possiamo farci? da Pomo Pero, pp. 47-48
Qui in paese quando ero bambino c'era un Dio che abitava in chiesa, negli spazi immensi sull'altar maggiore dove si vedeva infatti sospeso in alto un suo fiero ritratto tra i raggi di legno dorato. Era vecchio ma molto in gamba (certo men vecchio di san Giuseppe) e severissimo; era incredibilmente perspicace e per questo lo chiamavamo onnisciente, e infatti sapeva tutto e, peggio vedeva tutto. Era anche onnipotente, ma non in modo assoluto: se no sarebbe andato in giro con un paio di forbici a tagliare il ciccio a tutti i bambini che facevano le brutte cose. I piccoli adopratori del ciccio erano suoi mortali nemici, e potendo li avrebbe puniti senz'altro, ma grazie a Dio non poteva. da Libera nos a malo, p. 7
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Sebbene sia il narratore adulto che parla in prima persona, segno ne sono i verbi coniugati al passato, qual è la prospettiva attraverso la quale viene descritta la cultura fascista? Ti sembra una descrizione realistica o anti-realistica? Quali sono gli occhi a cui il narratore si presta? In che modo è costruito il primo estratto, ovvero: in che modo vengono accostate le frasi e le immagini? Quali sono le sfere semantiche che vengono accostate? Che senso ha per te l'utilizzo delle nozioni naturalistiche e dell'esperienza quotidiana? Qual è il tono degli estratti? Qual è la figura retorica che sostiene entrambi questi due testi e rende possibile il distanziamento tra il materiale narrato e il narratore? In che modo il narratore riesce a raccontare quello a cui credeva da bambino, nello stesso tempo mostrare che da adulto non ci si può più credere, e assieme strappare al lettore un sorriso?
Nel prossimo estratto di Libera nos a malo presentiamo il ricordo infantile delle prime esperienze sentimentali dell'autore. Una scena di gioco tra bambini che apre ad una meditazione lirica sul personaggio femminile di Marcella.
Il nostro atteggiamento verso le donne mutava, cominciavamo ad avere piccoli innamoramenti sentimentali: le còttole 39della Norma ricadevano compostamente sotto il ginocchio; nascevano nel bel sereno degli occhi della Marcella. L'ora della Marcella è il primo pomeriggio, la sua stagione l'estate colma, e la luce a cui appartiene è quella abbacinata che vibra sopra i sassi del torrente: giocavamo sul greto a fare le roste40, io ero l'animatore dei grandi lavori di ingegneria idraulica con cui una frotta di maestranze rifaceva la struttura del torrente. La Marcella cantava “Màila, primo sogno d'amore”, ed io per caso lavorando a scostare le pietre mio trovai vicino a lei e rialzandomi la guardai negli occhi. Ah, madonna! Questi occhi erano a due spanne dai miei e ridevano: erano grandi, damascati, assolutamente incredibili; tiravano la luce, ridendo, e la luce vi si raccoglieva come in specchi preziosi. Tiravano anche me, come oggetti magnetici nel cui campo ci si trovi con la sensazione di perdere vagamente l'equilibrio. (Ho rivisto poi quella lucentezza inverosimile e sentito l'effetto calamitato dei pianeti guardando l'immagine dei pianeti più splendidi che con gli specchi del telescopio si tirano giù dal cielo nelle notti serene.) 39 40
Còttole: gonne. Roste: dighe di sassi o terra.
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La Marcella aveva smesso di cantare e ci guardammo. Io avevo una grossa pietra tra le mani, lei aveva una margherita e seguitava tranquillamente a sfogliarla. Poi si allontanò sorridendo e riprese a cantare; io misi giù la pietra al suo posto, per fare la diga. da Libera nos a malo, pp. 45-46
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Come si armonizza il tono descrittivo dell'estratto con la componente altamente lirica? Il gioco di bambini e la riflessione sulla bellezza femminile? Chi parla: Il bambino o l'adulto? Il ricordo dell'esperienza sentimentale è ricordo di bambino o racconto di adulto?
Dai ricordi di infanzia passiamo ai ricordi della Resistenza. Il personaggio ritorna sul luogo di un violento rastrellamento alla ricerca del ricordo di quell'esperienza. Lo stesso luogo dovrebbe collegare tempi diversi, il passato e il presente, ma non lo fa. L'attività del ricordare è rappresentata nel momento del suo fallimento, il meccanismo memoriale s'inceppa.
Ero andato per cercare un buco. L’avevo cercato e cercato, con la collaborazione un po’ svogliata della Simonetta. Ore e ore: gli spazi non erano grandi, ma intricati e aggrovigliati. Ero emozionato fin da bel principio. Ogni tanto mi pareva che ci incanalassimo nel solco giusto, riconoscevo l’andamento delle pliche (che in cuor mio ho sempre conosciuto), mi orientavo un attimo tra le capziose armonie dei rialti e delle conchette. Poi riperdevo il filo. [...] «Ci siamo» dissi alla Simonetta. «È qua.» […] Una crepa orizzontale, uno spacco in un tavolato di roccia. Il paesaggio intorno era come lo ricordavo, forse un po’ più ameno. Una fessura, come tante altre; a nessuno sarebbe mai venuto in mente che sotto potesse starci una persona, anche due. Bisognava infilarsi di sbieco per passare; e anche di sbieco si passava appena. Mi calai giù fin che fui sottoterra, e mi lasciai andare un altro po’. Sapevo che avrei toccato quando le braccia fossero estese circa tre quarti, e infatti toccai. Avevo gli occhi chiusi, e stetti un momento così; poi li riapersi. Riconobbi le barbe dei mughi 41 , l’umidore delle pareti di roccia, lo spazio modellato, ombroso, un bozzolo irregolare schiacciato ai due capi. C’era tutto: il libretto era per terra, e quando lo presi in mano si aperse alla pagina più macchiata. Il parabello era al suo posto, con la canna in su, nero, quasi senza ruggine; aspettavo una fitta, e invece non venne; i due caricatori erano su uno zoccolo a mezza altezza, ed erano asciutti. Uno era pieno, uno metà. Aspettai un altro po’, ma non successe nulla. Si affacciava il pensiero: “Questa cosa non ha senso”. Ma sì, durante un rastrellamento sono venuto a finire qua; ora sono qua di nuovo. Il legame tra allora e adesso è tutto lì, e non lega molto. Ma sì, è in questo punto della crosta della terra che ho passato il momento più vivido della mia vita, parte sulla mia crosta, correndo, parte subito sotto, fermo. E con questo? […] Quello che è privato è privato, e quando è stato è stato. Tu non puoi più pretendere di riviverlo, ricostruirlo: ti resta in mano una crisalide. Non sono vere forme queste, mi dicevo, questa è materia grezza. Se c’era una forma, era sparsa in tutta la nostra storia. Bisognerebbe raccontare tutta la storia, e allora il senso della faccenda, se c’è, forse verrebbe fuori; qua certo non c’è più, e neanche sull’Ortigara, scommetto, e in nessun’altra parte. da I Piccoli Maestri, pp. 8-10
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Mughi: piccoli pini presenti in varie zone d’Europa.
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Perché la comunanza di luoghi dovrebbe produrre una comunanza di tempi? Cosa cerca il personaggio di Meneghello sul luogo del “momento più vivido della mia vita”? Cosa significa: “Quello che è privato è privato, e quando è stato è stato. Tu non puoi più pretendere di riviverlo, ricostruirlo: ti resta in mano una crisalide.”? Cosa sta cercando di dire l'autore rispetto al funzionamento dei meccanismi memoriali? Il ricordo è una cosa neutra e semplice come lo scatto di una fotografia o una cosa ben più complessa? Cosa significa secondo te parlare di forma del ricordo, o di senso della faccenda? Può essere significativo che questa scena sia posta giusto all'inizio del libro in cui Meneghello racconti l'intera sua esperienza resistenziale?
Lo stesso rastrellamento che nell'estratto precedente era narrato in absentia, nel prossimo estratto è raccontato in modo più preciso. Ma non senza complicazioni.
Dagli orli del bosco si vedevano le colonne raggrupparsi, e formarsi i cordoni e le file indiane; c’erano migliaia di soldati; le staffette in sidecar andavano e venivano, a qualche centinaio di metri davanti a noi. A metà della mattina mi venne paura; fu l’unica volta che ebbi veramente paura durante la guerra. Era evidente che eravamo in trappola: mi ero sempre figurato un centinaio di uomini che ti rastrellano, diciamo duecento; ma qui era tutto pieno dappertutto. In principio si aveva il senso di avere tedeschi davanti, e spazio alle spalle; ma poi questa impressione andò a farsi benedire, si sparava anche dietro di noi, dove giravano i nostri compagni, e si capiva che potevano arrivare da qualunque parte. Avevamo due o tre caricatori per ciascuno, e qualche bomba a mano: cinque minuti. Dante ci aveva fatto mettere in una conchetta tra i pini. «Adesso stiamo qua» disse. Fu a questo punto che mi venne la paura. Era proprio paura, un’esperienza eccitante. La cosa disgustosa è quel paio di minuti tra quando avvisti la processioncina in arrivo, e quando ti dici: Va bene, è proprio vero. Mi pareva molto più facile alzarsi subito, andargli incontro. Per fortuna c’era Dante, il quale o non aveva paura o non si vedeva assolutamente. «Cosa facciamo quando li vediamo?» dissi a denti stretti, che delle volte non battessero. «Non pensare» disse Dante. Infatti aveva ragione, basta non pensare. La prossima cosa che mi ricordo siamo tornati alla Fossetta. È sera, il rastrellamento è terminato, i camion stanno andando via da Marcésina. La malga non c’era più: misuravamo coi passi i residui neri, ed è incredibile quanto appariva piccola. Parte dei sacchi nascosti li avevano trovati, parte no. I due inglesi erano stati catturati, il resto uccisi, qualcuno disperso. Ne ritrovammo solo due, Vassili e un altro. […] Il resto che è accaduto su quello spalto davanti alla Valsugana, dove restarono uccisi Nello e il Moretto, e tanti altri nostri compagni, non lo abbiamo mai voluto ricostruire. Alcune cose si sanno, e sono altamente onorevoli, e perfino leggendarie. Ma io non ne parlerò. da I Piccoli Maestri, pp. 128-130
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Ti sembra un ricordo vivido, raccontato in modo ordinato, o una serie di impressioni affiancate? In che senso si può pensare che la grande carica emotiva dell'esperienza influisca sulla forma del ricordo? Alla fine del brano l'autore dal presente in cui racconta esplicita una reticenza, qualcosa che non si vuole ricordare, qualcosa che non si vuole dire. Che rapporto si instaura tra la memoria e l'oblio? È una questione di possibilità o una questione di volontà?
Nel prossimo brano estratto da Bau-sète, l'autore racconta una celebrazione in onore di Toni Giuriolo avvenuta alla fine della guerra. Ad una prima parte di ricordo dell'immediato dopoguerra e della celebrazione si affianca una seconda parte di riflessione sull'accaduto fatta con la mente fredda del tempo oramai trascorso.
In certi periodi si aveva l’impressione di nutrirsi principalmente di caffè e di “americane” delle quali non ne avevamo molte. Si annusavano avidamente prima di accenderle, cercando di ritardare il più a 15
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lungo possibile. Qualcuno dei miei amici riponeva addirittura gli aromatici cilindretti nell’alloggio tra il naso e il labbro superiore arricciato in una apposita smorfia, e li teneva lì per lunghi tratti di tempo, fumandone lentamente l’odore. Il dettaglio che ricordo più vividamente della commemorazione di Giuriolo che andammo a fare in montagna, quando fu intitolato al suo nome il rifugio a Campogrosso, è la lunghezza extraterrestre delle cicche che buttava via l’ufficiale americano venuto in rappresentanza degli Alleati. Era imbarazzante farsi vedere a raccoglierle (tanto più se uno era, come ero io, l’oratore ufficiale) ma noi non ci facemmo vedere. Di ciò che ho detto quel giorno su Toni è restata una buona impressione a quelli che erano lì a sentire: per me era una materia semi-sacra ed è possibile che i miei rapporti più profondi con essa li abbia espressi lassù quel ragazzo vestito da soldato inglese, beneducato, nervoso, pieno di dolore, di salute e di gioventù. Purtroppo il contenuto è scomparso, restano dei riflessi instabili in qualche frase dei giornali e giornaletti di allora. Tutto si è bevuto il cielo della Storia Patria! da Bau-sète, pp. 35-36
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Nella seconda parte dell'estratto, quella più riflessiva, l'autore nomina se stesso in terza persona (“quel ragazzo vestito da soldato inglese”) segnando una distanza radicale fra l'io nel presente e il personaggio nel passato. Che significato può avere questo distanziamento, in particolare alla luce delle considerazioni successive? Anche in questo caso viene messa in luce il rapporto tra memoria e oblio. Come si pone l'autore nei confronti della scomparsa delle sue parole?
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La mutazione In questa sezione della dispensa dialogheremo con i testi di Meneghello per leggere uno dei processi di cambiamento più complessi e incisivi fra quelli che hanno interessato l’Italia del Secondo Novecento. Il termine mutazione è un termine per certi versi estraneo alla saggistica di stampo storico e antropologico: proviene dal campo della biologia, e più precisamente dalla branca della genetica. Questa parola venne utilizzata con tutta la sua incisività da Pier Paolo Pasolini (un importante intellettuale e scrittore italiano, 1922-1975; per approfondire vai al glossario) all’interno di molti dei suoi interventi pubblicati sul Corriere della Sera e dedicati ai cambiamenti generati dal cosiddetto boom economico, o miracolo economico, italiano. Il miracolo economico fu il risultato di un’accelerazione quasi traumatica dei processi di modernizzazione del paese che vide nel giro di pochi anni (1956-1963) un innovamento tecnologico senza precedenti e un cambiamento della produzione. Durante il boom economico, il settore primario (agricoltura, allevamento) si ridimensionò notevolmente a favore del settore industriale: le fabbriche divennero l’asse portante della realtà economica italiana fino ad allora strettamente contadina. Questo cambiamento della produzione e dei rapporti economici portò con sé un insieme di ampie trasformazioni in tutti i settori della vita umana: sotto il termine mutazione non si raccolgono quindi solo i rinnovamenti di stampo economico, e le loro conseguenze a livello sociale, ma un più ampio insieme di cambiamenti culturali, o, per meglio dire, antropologici42. Negli stessi anni del miracolo economico infatti venne introdotta la scolarizzazione di massa, all’interno delle case degli italiani conquistò il proprio spazio la televisione, ed esplose il consumo di massa. Meneghello - che con le sue opere ci offre sentieri di riflessione che giocano in continuazione sul rapporto fra il passato e il presente - si fa testimone e interprete della mutazione, ma lo fa a una scala a lui più congeniale: quella del suo paese, e del suo territorio di origine. Malo e, come vedremo, anche alcuni altri frammenti della provincia di Vicenza sono luoghi in cui il cambiamento si fa leggibile, non solo attraverso trasformazioni di tipo materiale, ma soprattutto attraverso le trasformazioni dei rapporti tra le persone, e tra le persone e le cose. L‘autore si fa quindi interprete delle rotture, dei cambiamenti e anche dei rapporti di continuità che intercorrono tra il prima e il dopo, guidando il lettore a una riflessione critica continua e mai conclusa sul significato della mutazione. Ne’ I piccoli maestri l’autore ricorda e ricostruisce la propria esperienza di partigiano a vent’anni di distanza dai fatti narrati. La sua è quindi una parola di testimonianza che condensa sulle pagine l’esperienza passata (individuale e collettiva), ma è anche una parola che risuona chiaramente della prospettiva dell’autore che ha visto l’Italia cambiare completamente nei vent’anni che lo separano dall’esperienza narrata. Questo frammento ci guida a scoprire una voce narrante che sfrutta l’occasione del ricordo per farci riflettere sul carattere della mutazione.
I Colli Berici sono dietro a Vicenza, a sud; con minuscole propaggini, come miniate, fanno vallette e insenature. In una c’è un laghetto triste che si chiama Fimón; al di là del laghetto si divaricano due versanti pelosi, con gambe distese. La divaricazione è considerevole sotto alle ginocchia, e lì c’è il lago, come una antica urinata del monte; dalle ginocchia in su il monte tiene le gambe più strette. A mezzo autunno noi siamo lì, in questo spazio interfemorale. La terra è cretosa, tutta cosparsa di riccioli di castagne; ci sono alcune case isolate; la gente che vi abita vive sempre in questo luogo, passa qui tutta la vita. Sono così poveri, che non si capisce come riescano a campare: tutto ciò che si può dire è che stanno in piedi, e quando aprono la bocca vien fuori la voce; mangiano anche, cucinano, e ne danno anche a noi; ridono. Dicono di essere contadini, ma dove sono i campi? Gli uomini vanno a opere, o su pei boschi o là sotto oltre il lago. Le donne fanno figli e minestre, e vanno a prendere acqua coi secchi, e mescolano la polenta. Dove vanno in chiesa, e a scuola? Chi verrà quassù a curarli, se si ammalano? Quando devono scendere loro in città, ci vanno scalzi con le scarpe in mano: le indossano entrando a Porta Monte43. 42
Pasolini utilizzò proprio l’espressione mutazione antropologica per definire l’impatto che le molteplici trasformazioni portarono con sé segnando una vera e propria cesura epocale. 43 Porta Monte era uno dei punti di accesso alla città di Vicenza nella cinta muraria costruita dalla Repubblica di Venezia (XV secolo). La porta esiste ancora, e dà per l’appunto su Monte Berico, il più settentrionale dei Colli Berici.
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La loro relativa allegria mi sconcertava. «Bisognerebbe avere sempre un’espressione lugubre sul viso, fin che ci sono italiani in queste condizioni» dicevo a Bene. «Avresti una nazione lugubre attorno a un gruppo di valligiani relativamente allegri.» «Se fossi nato qua farei il terrorista.» «E non lo fai lo stesso?» Analizzavamo insieme la possibilità di sfruttare meglio le risorse della valle. C’erano tutte queste castagne per terra, e altrettante ancora sugli alberi. Perché non andavano in pianura a venderle? Ne parlammo ai contadini e loro ci dissero: «Perché nessuno le vuole». Ci mettemmo a postulare fabbrichette di marmellata di castagne sotto ai pendii; e immaginavamo la valle ripulita e redenta dalla prosperità, e la gente con le scarpe. «Dove le faresti le fabbrichette?» «Là sotto, in pianura, oltre il lago.» «E allora perché la gente dovrebbe restare proprio qui, a vivere?» Già: anzi, perché proprio la marmellata di castagne? Forse la cosa più importante non sono le castagne, ma le fabbrichette. Si possono fare anche bottoni. «Cosa dici tu, che in Italia si faranno, queste fabbrichette?» «Cosa vuoi sapere?» «Questa valle resterà vuota, le case saranno abbandonate; sarà un costone di collina.» Queste case non mi parevano edifici, ma modi di vivere; le corti tra i castani, e le viottole, e le stalle, e i sottoportici, tutto era mescolato con la povertà, era questa la forma della valle e della vita italiana. Dissi a Bene «Per uccidere la povertà, dovranno sfasciare l’Italia». «Esagerato» disse Bene. da I Piccoli Maestri, pp. 202-204
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
Come viene narrato il paesaggio dei colli Berici nella prima parte del frammento? Che tipo di figura retorica vi troviamo? Metti in relazione le tue osservazioni con l’ultima affermazione da parte del narratore: il testo ci
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In che modo l’autore sfrutta la sua distanza temporale dai fatti narrati? In questo caso c’è una grande differenza fra l’autore e il personaggio che parla in prima persona: definisci questa distanza e rifletti sul ruolo della letteratura nel maneggiare il tempo. Il testo ci presenta il quadro complessivo della realtà contadina prima della mutazione, suggerendone il dopo attraverso la voce dei personaggi. Riesci a ricavare dal testo i principali cambiamenti dovuti allo sviluppo economico di tipo industriale dell’Italia del boom?
guida verso una delle più grandi contraddizioni generate dal boom economico, quale?
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All’interno di Libera nos a malo emerge con tutta la sua forza il legame tra lo scrittore e il proprio paese di origine. Anche se non interessata da una mutazione repentina nella struttura materiale, Malo conosce a suo modo la trasformazione che interessa l’Italia intera. L’autore si fa lettore – e poi scrittore – di questi cambiamenti nell’immaterialità che caratterizza ogni luogo: nei rapporti tra le persone, tra le cose e le persone, tra la lingua e le cose, e nel cambiamento dei significati. Ecco allora due estratti su cui riflettere.
Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? È difficile dire. Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento. Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi 18
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è rimasta) la vita tout court. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case, degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile commemorarla. Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori. Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno, proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle, un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culatella? Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti. da Libera nos a malo, pp. 95-96
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
“I tempi mi oscillano sotto la penna”: contestualizza e rifletti su questa frase. Fai una breve analisi dei tempi verbali utilizzati all’interno del frammento: quali tempi prevalgono? Nel materializzare sulla pagina la mutazione il narratore mette in rapporto il prima e il dopo: è un rapporto di netta contrapposizione? Nella “lettura” e scrittura della mutazione da parte dell’autore troviamo elementi materiali ed elementi immateriali. Trova nel testo ciò che può essere definito materiale e ciò che si può definire come immateriale e rifletti sul loro ruolo nella definizione della “vita paesana”. L’autore parla di rimpianto “per sentimentalismo generico” e di commemorazione. Qual è secondo te la differenza fra queste due attitudini? Quale tra le due ritroviamo all’interno del testo?
Ecco il secondo frammento tratto da Libera nos a malo attraverso il quale riflettere sul concetto di mutazione.
Gli aspetti del lavoro di cui ho parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt nel suo bellissimo saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work”. È il lavoro-fatica, il tribulare del dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavori domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro che bisogna rifare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù primaria dell’uomo. Questo è il tipico labour, ma qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese. […] Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù connessa a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità. La voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio”, e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), 19
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l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice. Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale. Forse è una delle ragioni per cui l’esperienza di crescere in paese riusciva così schietta, e ancora oggi (pur sapendo benissimo che è inevitabile e desiderabile che si affermino nuove forme di vita associata) ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e fuori. Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevamo qui. […] Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte). da Libera nos a malo, pp. 103-104
PER RIFLETTERE SUI TESTI • • •
Rifletti sulle parole civilizzazione e disumanizzazione: qual è il significato dei due termini all’interno del testo, e qual è la loro differenza in relazione alla tematica che Meneghello sta affrontando? In questo frammento di testo trovi una delle caratteristiche peculiari della scrittura di Meneghello: la presenza del dialetto e della lingua inglese. Che ruolo hanno le parole in lingue diverse all’interno di questo frammento? Che rapporto si instaura in questo caso tra la lingua e la narrazione della mutazione? Comparando tutti e tre i testi che formano questa sezione, individua gli aspetti positivi e negativi della mutazione. Riesci a estrapolare dalla narrazione un giudizio da parte dell’autore?
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Il dispatrio Luigi Meneghello visse un profondo contrasto con il sistema culturale e politico italiano, giudicato poco “civile” e per nulla “moderno”. Tale contrasto emerse in modo chiaro durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare durante la Resistenza. L’opposizione al fascismo, culminata nella scelta civile e politica di combattere da partigiano, comporta per l’autore una messa in crisi di sé stesso e di tutto ciò che sentiva di essere stato: un giovane pregno di cultura fascista, della quale aveva introiettato pensieri, pose retoriche, atteggiamenti. Ma l’opposizione al fascismo ha delle ricadute anche sul fronte della percezione del proprio senso di appartenenza all’Italia. Ritirarsi nell’Altipiano di Asiago non è solo una scelta militare, ma è anche una fuga dalla patria, un modo per rifondarne un’altra attraverso una comunità umana unita da aspirazioni condivise. Ecco allora che la Resistenza in Meneghello viene quasi a prefigurare il Dispatrio vero e proprio che seguirà di un paio d’anni, alla fine del secondo conflitto mondiale. Nonostante il fascismo sia sconfitto sul piano storico, le divergenze tra Meneghello e l’Italia persistono; in gran parte per motivi simili a quelli sperimentati durante la dittatura. Proviamo a ripercorrere alcuni brani dell’autore per capire come mai un viaggio studio in Inghilterra si sia trasformato in una vera e propria emigrazione. Ma tentiamo anche di verificare se e come questo Dispatrio abbiamo portato a qualche guadagno in termini di conoscenza acquisita sulla realtà italiana. Iniziamo con un brano tratto da I piccoli maestri, il libro dedicato al racconto della Resistenza. Meneghello si trova nell’Altipiano di Asiago con i suoi compagni di banda; la descrizione del luogo procede appoggiandosi al ricordo di una poesia di Montale, Valmorbia, discorrevano il tuo fondo…44:
Ci aggiravamo tra i greppi45, cantavamo le canzonette disfattiste, ci perdevamo nella nebbia. Ogni tanto veniva infatti una nebbia, rada e luminosa.
Valmorbia, discorrevano il tuo fondo fioriti nuvoli di piante agli àsoli. Nasceva in noi, volti dal cieco caso…46 Ma in noi pareva che non nascesse niente. […] Certo il momento contemplativo non aveva tempo di nascere; c’era un giro di immagini passeggere che bisognava assortire in fretta, un gorgo praticistico. […]
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco lacrimava nell’aria.47 Prima di addormentarmi per terra chiudevo gli occhi per vederli, poi mi addormentavo, e sognavo volpi lunari.
Le notti chiare erano tutte un’alba e portavano volpi alla mia grotta. Valmorbia, un nome – e ora nella scialba
44 Rievocazione dell’esperienza sul fronte della Prima Guerra Mondiale. Montale vi partecipò comandando un avamposto in Vallarsa, dove si trova il paese di Valmorbia. Si tratta di una rilettura favolosa dell’esperienza bellica, motivo per cui la natura appare benigna e fiabesca e persino le espressioni di guerra assumono tratti privi di turbamento: è il caso dei razzi per le segnalazioni che vengono rappresentati come immensi fiori nell’aria. 45 Greppo: fianco privo di vegetazione e ripido di un’altura. 46 Vv 1-3. Discorrevano… caso: Valmorbia, percorrevano la tua valle, ai soffi del vento («àsoli»), nuvole mescolate ai fiori degli alberi. Nasceva in noi soldati, sottoposti al caso più ingovernabile… 47 Vv. 7-8. Sbocciava… nell’aria: La rappresentazione del razzo che esplode avviene tramite una metafora floreale. Un razzo esplodeva («sbocciava») dopo aver tracciato un segno verticale verso il cielo («stelo»), riscendeva nell’aria formando deboli luci simili a lacrime.
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memoria, terra dove non annotta.48 Niente, niente; lì c’erano i mughi49 che la notte rende deformi. Annottava su questa terra e come: annottava violentemente. La faccia della sera si gonfiava, come uno che s’arrabbia; poi addio, era buio. Non avevamo né lucette nelle tende, né tende tout court. […] Eravamo una trentina, ora più ora meno, e infine quando fummo alla Fossetta, verso la fine di maggio, trentasei. […] C’erano partigiani di qua e di là, ma intendiamoci, c’era molto più Altipiano che partigiani. Il luogo era vuoto, un deserto. In certi momenti questo si sentiva forte. «Mi pare di essere nella Tebaide» dicevo a Lelio. […] Questa faccenda della Tebaide c’è per me in ogni altra fase della guerra, è una componente fissa; ma qui sui monti alti si sentiva tanto di più. Era il posto migliore per isolarci dall’Italia, dal mondo. Fin da principio intendevamo bensì tentare di fare gli attivisti, reagire con la guerra e l’azione; ma anche ritirarci dalla comunità, andare in disparte. C’erano insomma due aspetti contraddittori nel nostro implicito concetto della banda: uno era che volevamo combattere il mondo, agguerrirci in qualche modo contro di esso; l’altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera. […] C’era inoltre la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica. Ci spaventava non tanto il collasso degli istituti, e delle meschine idee su cui era fondato il nostro mondo di prima, quanto il dubbio istintivo sulla natura ultima di ciò che c’è dietro a tutti gli istituti, la struttura della mente stessa dell’uomo, l’idea di una vita razionale, di un consorzio civile. Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova, che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l’educazione, la natura, la società. Da I piccoli Maestri, pp. 102-104
PER RIFLETTERE SUI TESTI •
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Quale rapporto intrattiene il testo con altri testi o immagini della tradizione letteraria? In particolare le citazioni da Montale che funzione svolgono? Come si rapporta l’io narrante all’autorità del testo montaliano? E il mito della guerra fratricida di Tebe che senso viene a prendere nel contesto della guerra tra italiani, cioè tra fascisti e partigiani? Ovvero la cultura letteraria dei Piccoli maestri che cortocircuito produce rispetto all’immagine classica della Resistenza, a sua volta mito del secondo dopo guerra italiano? Cosa diresti sul rapporto del personaggio con lo spazio? Pensa a come questo è descritto o come il protagonista interagisce con questo: che cosa viene a rappresentare lo spazio dell’Altipiano dal punto di vista della rielaborazione della propria esperienza partigiana? Quali sono gli stati d’animo con cui l’io e la “banda” vivono la propria esperienza resistenziale? Vedi delle possibili connessioni tra il ritiro in Altipiano e l’emigrazione a Reading? Al centro della narrazione vi è l’io narrante, ma ti sembra che l’esperienza valga solo per lui? Che rapporti testuali noti tra l’io e il noi della “banda”?
La Resistenza fu quindi un momento di intense speranze; ci si aspettava di vedere sorgere dalle macerie della guerra un’Italia diversa e questo anche dal punto di vista culturale. Nel dopo guerra Meneghello milita nel Partito d’Azione, ma la sensazione di fallimento è acuta e nasce l’idea di andarsene dall’Italia per un periodo. Vediamo con che emozioni e con quali pensieri Meneghello vive gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, con che spirito lascia l’Italia e cosa cerca nella realtà inglese. Leggiamo in serie tre estratti, rispettivamente da: Bau-Sète!; Jura, una raccolta di saggi; Il dispatrio. Nei primi due possiamo osservare il rapporto tra Meneghello e alcuni aspetti della retorica italiana e inglese. Mentre nel terzo troviamo esplicitati alcuni motivi del Dispatrio.
A Vicenza una delle prime cose a cui assistetti di persona fu il discorso ufficiale in piazza dei Signori. Lo faceva un personaggio illustre, emblema della Resistenza, e (mi aspettavo) della sua concretezza e 48
Vv 9-12. Le notti… annotta: le notti erano continuamente rischiarate – probabilmente dai razzi – come se ci fosse un’alba dopo l’altra. Accadeva che nella notte le volpi si avvicinassero alla grotta nella quale il poeta era alloggiato. La volpe è qui parte di una fauna propizia, funge da apparizione connotata mediante un’aura quasi sacrale. Valmorbia, ormai solo un nome, però è anche, nella memoria stanca e debole, un luogo dove non scende mai la notte. E di conseguenza un luogo dove non cade mai il buio dell’oblio. 49 Mugo: piccolo pino presente in diverse zone montuose d’Europa.
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sobrietà. La piazza era stracolma. Udii le prime parole: «Quando in cielo s’accende un palpito di stelle…». Mi venne la pelle d’oca, e andai via. Un palpito di stelle! Allora, mi dicevo, è stato tutto per niente… Ritiro tutto! da Bau-sète!, pp. 26-27
Però l’idea di fondo, lassù [in Inghilterra], era che la prosa è fatta per dire ciò che si vuol dire. Se si ha qualcosa da dire, più semplicemente e chiaramente lo si dice, e meglio è. Invece in Italia, a quel tempo, per la gente di cui parlo, pareva che valesse la regola opposta: meno hai da dire, più banale e miserevole è la roba che hai da dire, e più devi cercare di rendere oscuro, contorto, allusivo, involuto il modo in cui la dici. […] In questo ho un debito profondo con l’Inghilterra: fra le tante cose che devo a quel mondo e a quella cultura c’è il fatto di avere, credo, acquistato proprio lassù il gusto di un certo tipo di relazione con la pagina scritta. Non mi faccio scrupolo di usare i termini fuori moda: è una relazione morale, oltre che estetica. da Il Tremaio, in Jura , p. 1074
Sui venticinque anni, quando incomincia il fiore della gioventù a perdere, ma nel mio caso non pareva che perdesse ancora, mi sono trasferito dall’Italia in Inghilterra con l’idea di starci dieci mesi: periodo smisuratamente lungo per me allora, un tratto di tempo confinante con l’eterno. Partivo col vago intento di imparare un po’ di civiltà moderna e poi tornare e farne parte ai miei amici e ad altri italiani. Ma invece ciò che avvenne fu un trapianto, e il progetto iniziale restò accantonato, anche perché mi accorsi che la civiltà che ero venuto a imparare non era poi quella che mi immaginavo io, e quanto a impararla… Imparare… Si può dire che non ho fatto altro, nella vita, che cercare di imparare: prima la pappa scolastica, poi una sequela di traumi moderatamente istruttivi, sul piano pubblico e su quello personale, la guerra, la “resistenza”, il dopoguerra; infine questo vero e proprio corso remedial nel Paese degli Angeli. In Italia, a qualche anno dalla fine della guerra, le cose si erano messe male. Si veniva instaurando un regime che consideravo nefasto, e il panorama culturale mi sembrava particolarmente deprimente. Si sentiva nell’aria l’arretratezza della nostra cultura tradizionale, comune matrice degli indirizzi più palesemente retrivi a cui si appoggiava il nuovo regime, e di quelli velleitari a in parte spuri che cercavano di contrastarlo. E lì in mezzo si distingueva appena il nucleo striminzito delle idee e delle cose che approvavo: parzialmente santo ai miei occhi, ma striminzito. Ero convinto invece che “fuori” ci fosse un mondo migliore, migliore non solo di qualche grado ma incomparabilmente. E la chiave era la cultura dell’Europa moderna, per brevità avrei detto della Francia e dell’Inghilterra. da Il dispatrio, pp. 8-9.
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Anche alla luce del secondo brano, cosa puoi dire sui motivi per cui il semplice incipit di un discorso ufficiale è sufficiente a provocare il rifiuto del narratore? Confronta il primo e il secondo estratto, quali sono le rispettive scelte stilistiche di Meneghello per rappresentare ciò che pensa rispetto alla retorica del dopoguerra e quello che ha imparato dallo stile inglese? Il discorso nei due estratti procede in modo uguale? Si tratta di un’esposizione logico-argomentativa? Vi è una narrazione? Il tono è serio o ironico? Nel brano tratto da Il dispatrio l’autore ripercorre i motivi che lo hanno portato ad allontanarsi dall’Italia. Quali sono? Quali sono le esperienze alla base della sua scelta? Con che spirito decide di andare in Inghilterra? E, soprattutto, ha trovato ciò che cercava?
Abbiamo affermato che il Dispatrio per Meneghello non rappresenta solo la perdita della patria, ma anche un guadagno. Proviamo a capire perché:
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Volendone fare una storia, sarebbero due storie incrociate: come da un lato l’esperienza inglese (EN) ha stravolto la mia percezione dell’Italia (IT), e dall’altro come IT ha stravolto EN. Ho vissuto con l’idea che tutto ciò che avveniva lassù era anche (per me) roba di qui. Mi accorgo che il punto di vista continua a oscillare. L’Inghilterra è insieme “lassù” e “quassù”, e altrettanto l’Italia. Qui, là: corrente alternata. da Il dispatrio, p. 27
PER RIFLETTERE SUI TESTI • •
Ripensa ai vari estratti che abbiamo letto in tutta la dispensa, l’ultimo brano ti sembra interessante per qualche motivo? Allontanarsi dal proprio Paese può aver potenziato le capacità di osservazione di Meneghello sull’Italia? In che modo? Quello di Meneghello è un discorso sullo spazio e la prospettiva: andare altrove modifica la percezione sul luogo delle proprie origini e, allo stesso modo, arrivare da fuori permette uno sguardo diverso sul luogo di arrivo. Pensi che si potrebbe fare un discorso simile sul tempo? Tieni presente che uno dei dispositivi narrativi fondamentali per Meneghello è proprio il fatto che le sue narrazioni sono costruite con una forte mescolanza dei punti di vista: il personaggio-Meneghello vive immerso in un passato che però è il suo presente, mentre il narratore-Meneghello parla del passato da una prospettiva posteriore.
Arrivati a questo punto possiamo dire di aver affrontato gli aspetti principali sul tema del Dispatrio in Meneghello. Ma abbiamo deciso di chiudere questo percorso con l’ultimo brano – il capitolo finale di Bau-sète! - qui proposto per la sua bellezza e per la sua difficoltà. Il testo può risultare oscuro, ma ciò che abbiamo già osservato sull’autore dovrebbe facilitarcene la comprensione e permetterci di capire alcuni degli elementi che fanno il valore della scrittura di Meneghello:
It was my thirtieth year to heaven50… Nei primi anni del mio soggiorno inglese trovai questo verso al principio di una poesia. Non c’entrava per nulla con me, avrei detto: ero ancora infiniti anni lontano dai trenta, e della destinazione non mi davo certo pensiero. Ma la forma interna di quelle sette parole mi attraversò come una scheggia di vetro, e mi venne in mente una mattina di Pasqua… Ero all’anno ventesimo e rotti sulla strada del Cielo, e mi venne in mente una mattina di Pasqua antichissima, e le uova colorate con l’anilina 51 , in verde in rosso in viola, che di punta o di culo gareggiavano per sfondarsi a vicenda il culo o la punta, finché uno, un uovo qualunque, marezzato52, non ruppe con la punta tutti i culi, e col culo di pietra tutte le punte… Un picnic arcaico sul greto del Livargón nel punto dove riceve la misteriosa Rana53, e un rivolo di sassi scuri s’addentra nella corrente dei sassi più chiari…: là in un’aria di festa e di malinconia, con l’Ernestina e mia madre, assente mio padre in un alone d’oro sbiadito, straniante, io e mio fratello risplendenti nel vestito dei galletti54, identici il mio e il suo nell’Idea ma diversi per vispe varianti, gli oltremondani vestiti di panno celeste, giacchetta aperta davanti, le due metà congiunte da un nastro all’altezza del collo, e i galletti sul fianco, uno per parte, ritagliati nel panno e applicati alle tasche o nel luogo delle tasche, i non terrestri galletti di cui mano di artista giunto al suo ultimo mi pare impossibile che mai creasse cosa più gentile e ardita, là brevemente si aperse il guscio dell’aria e percepii la natura di un viaggio (e una sosta) alla volta del Cielo. Una mattina di Pasqua: il suo titolo nel discorso delle zie trasognate era “Pasqua di Resurrezione”, e una cosa così andrebbe bene anche a me, mi piacerebbe risorgere, spuntare all’improvviso da un cassone di pietra, bandiera alla mano, e fare bau-sète! Ero agli anni venti e qualcosa sulla strada del Cielo, quando mi venne l’idea di lasciare il comodo ramo su cui stavo appollaiato e dire addio agli amici, e perché? Anni venti e qualcosa, chili sui 60, denti 31 50
Dylan Thomas, Poem in October. Anilina: composto organico, olio in colore usato spesso come base per coloranti. 52 Marezzato: dipinto a marezzo: con linee sinuose a forma di onde marine. 53 Livargòn e Rana: due torrenti. 54 Galletti: si presume un tipo di tessuto, intreccio o ricamo applicato ai vestiti. 51
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abbastanza regolari, occhi e capelli scuri, gambe e braccia ben fatte, spalle larghe, vitino da studentessa magra, e (così ho sentito) una certa avvenenza. In Italia non mi si notava, ce n’erano tanti come me: ma quando a suo tempo passai le Alpi la gente che aveva occhi osservava e diceva: «Come sono belli gli Italiani!». da Bau-sète!, pp. 199-200
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Glossario Antonio Giuriolo: Antonio “Toni” Giuriolo (1912 - 1944) fu un antifascista e partigiano vicentino, figura determinante per la formazione di Meneghello e dei suoi compagni. Uomo carismatico, influenzò profondamente il pensiero di Meneghello, contribuendo a stravolgere l’educazione fascista ricevuta dallo scrittore. Ne’ I fiori italiani Meneghello definisce l’incontro con il maestro “la cosa più importante che ci sia capitata nella vita”. Giuriolo combatté da partigiano in terra bellunese, in Friuli, sull’Altopiano di Asiago, e infine sull’Appennino tra Bologna, Modena e Pistoia dove fu ucciso dai nazifascisti il 12 dicembre 1944.
Funzione mimetica: All’interno del multiforme linguaggio letterario le diverse strategie adottate e le scelte stilistiche compiute possono avere molteplici funzioni, e instaurare con la realtà rapporti più o meno stretti. Se una scelta stilistica, come ad esempio l’uso del dialetto all’interno di un’opera, ha funzione mimetica significa che assolve sulla pagina il compito di riprodurre una realtà esistente al di fuori della narrazione. Nel caso di Meneghello, come abbiamo visto, l’uso del dialetto non ha funzione mimetica: lo scopo dello scrittore infatti non è semplicemente quello di mimare sulla pagina la realtà dialettale di Malo, ma è quello di ricostruire attraverso la parola scritta il rapporto originario con le cose, arrivando con il dialetto alla loro essenza.
Hanna Arendt: Hanna Arendt fu una filosofa tedesca; nata in una famiglia ebraica nel 1906, abbandonò la Germania nel 1933 al momento dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, emigrando negli Stati Uniti. La sua riflessione filosofica verté soprattutto su temi eticopolitici, rivolgendosi in particolare all’analisi della genesi e delle conseguenze del nazismo in Le origini del totalitarismo (1951) e in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Meneghello in Libera nos a malo fa riferimento all’opera della Arendt intitolata Vita Activa (originariamente pubblicata negli Stati Uniti nel 1958 con il titolo The human condition), un’opera all’interno della quale la filosofa sviluppa una riflessione ad ampio raggio sulle ragioni della crisi politica e della vita attiva nelle società contemporanee. Hanna Arendt morì a New York nel 1975.
Ibridismo: Un testo letterario ha una forma ibrida, è caratterizzato cioè da ibridismo, nel momento in cui non è ascrivibile in maniera univoca a un unico genere letterario perché al suo interno coesistono generi diversi. L’ibridismo può interessare una singola opera o più opere di uno stesso autore; può essere un procedimento stilistico di un singolo autore oppure un elemento strutturale della produzione letteraria di un preciso momento culturale e storico. Per quanto riguarda la scrittura di Meneghello, l’ibridismo che la caratterizza è il frutto del dialogo continuo fra l’autobiografia, il saggismo, e una vena più spiccatamente romanzesca. La sorgente della tensione all’ibridismo va ricercata nel ruolo che ha la memoria all’interno della scrittura meneghelliana; infatti il ricordo personale dello scrittore, che sta alla radice della creazione narrativa, non dà espressione solo alla storia individuale e a fughe romanzesche, ma si fa occasione di riflessioni saggistiche di carattere linguistico, antropologico e storico.
Miracolo economico/boom economico: Il miracolo economico fu il risultato di un’accelerazione quasi traumatica dei processi di modernizzazione dell’Italia, la quale vide, nel giro di pochi anni (1956-1963), un innovamento tecnologico senza precedenti e un cambiamento della produzione. Durante il boom economico, il settore primario (agricoltura, allevamento) si ridimensionò notevolmente,
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superato del settore industriale: le fabbriche divennero il polo della realtà economica italiana fino ad allora strettamente contadina. Un grande sviluppo tecnologico, accompagnato da bassi costi del lavoro e da una grande disponibilità di manodopera portarono il paese a un’importante crescita economica. In poco tempo crebbe a livelli altissimi l’occupazione e fu accompagnata da fenomeni consistenti di migrazione dal sud al nord e dalle campagne alle città industrializzate. Con la conseguente crescita dei salari, la gente iniziò a entrare nei meccanismi del consumo delle nuove merci accessibili prodotte dalla recente industrializzazione.
Mutazione: Nel contesto di questa dispensa con il termine mutazione si vuole indicare la diretta conseguenza sociale e antropologica del miracolo economico italiano. L’industrializzazione del paese e il cambio repentino della produzione economica diedero vita a una serie di trasformazioni che Pier Paolo Pasolini raccolse sotto la definizione di “mutazione antropologica”. Nel termine mutazione non si raccolgono solamente i cambiamenti di stampo economico e le loro dirette conseguenze a livello sociale, ma un più ampio insieme di trasformazioni culturali. A partire dagli anni del miracolo economico, infatti, si diffuse la scolarizzazione di massa (anche grazie alla massiccia migrazione della popolazione in aree urbane, risultato dell’abbandono della campagna per la ricerca di un posto in fabbrica); inoltre, a partire dal miracolo economico prese piede il consumo di massa, che caratterizza tuttora la nostra società.
Partito d’Azione: Il Partito d’Azione fu una formazione politica costituitasi nel 1942 e prodotta dalla confluenza di diversi gruppi antifascisti (tra i quali anche il movimento antifascista Giustizia e Libertà). Il partito si proponeva di combattere il fascismo attraverso una linea politica che mirasse all’instaurazione della Repubblica, al decentramento dei poteri amministrativi, alla libertà sindacale, politica e religiosa. Fin dal suo inizio, il Partito d’Azione ebbe due anime differenti: una di stampo socialista, l’altra di stampo liberale. Il primo presidente del Consiglio a guida dell’Italia liberata e unificata, nel 1945, fu uno dei fondatori del Partito d’Azione, Ferruccio Parri. Le fratture politiche interne al partito, sorgenti continue di contrasto, portarono al suo smembramento già nel 1947, quando i suoi esponenti confluirono all’interno del Partito Socialista e all’interno del Partito Repubblicano Italiano.
Pier Paolo Pasolini: Pier Paolo Pasolini fu un importante scrittore, poeta, intellettuale del Novecento italiano. Nato a Bologna il 5 marzo 1922, già da giovanissimo iniziò a scrivere poesie in italiano, ma anche in friulano, il dialetto della madre cui era particolarmente legato. L’attività poetica fu una costante fondamentale della sua vita, una sorta di necessità esistenziale che si affiancò ad un’attività intellettuale multiforme. In questo breve approfondimento ricordiamo la sua produzione romanzesca, Ragazzi di
vita (1955), Una vita violenta (1959) e Petrolio (postumo, 1992); ma ricordiamo anche la sua attività di regista, iniziata nel 1960-1961 con il lungometraggio Accattone, e proseguita poi con la cadenza serrata di quasi un film all’anno (Mamma
Roma, 1962; il vangelo secondo Matteo, 1964 e molti altri). Fondamentali sono gli interventi di Pasolini pubblicati sul «Corriere della Sera» e poi raccolti con il titolo Scritti corsari (1975), fulminanti e lucidissime analisi della situazione politica, sociale e culturale dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Tra gli altri interventi saggistici ricordiamo anche gli scritti del volume Lettere luterane (1976, postumo), una sorta di trattato pedagogico in forma epistolare. Pasolini fu ucciso a Ostia, vicino Roma, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975.
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Note bibliografiche Libera nos a malo (1963)
Libera nos a malo è considerata l'opera più significativa nella produzione dell'autore vicentino. Al centro del romanzo c'è Malo, il paese natale di Meneghello, ritratto nei suoi usi e costumi, nelle sue figure caratteristiche, nei suoi luoghi tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta; la narrazione è caratterizzata da sguardo straniato e ironico e da una forte presenza del dialetto veneto. Particolare importanza è data all'infanzia e alla giovinezza dell'autore attraverso le quali vengono raccontate la cultura fascista, la famiglia, l'istruzione e la presenza della chiesa cattolica nella vita di tutti i giorni. Anche senza una trama ordinata, ma più come un montaggio di saggismo e materiale autobiografico, Libera nos a malo riesce a essere una delle rappresentazioni più convincenti della provincia vicentina, ma italiana in generale, di quegli anni. I piccoli maestri (1964) Il romanzo narra dell'esperienza di lotta partigiana dell'autore. Dal settembre 1943 Meneghello si dà alla macchia tra i boschi dell'Altopiano di Asiago per evitare la leva obbligatoria indetta dalla Repubblica Sociale Italiana. Qui si avvicina alle file dei primi gruppi resistenti armati che si stavano costituendo un po' in tutta Italia. Attraverso l’opera Meneghello racconta l'esperienza da partigiano, i contrasti interni, la figura del suo maestro, il Capitan Toni (Antonio Giuriolo), il senso di inutilità causato dalla scarsa operatività delle formazioni partigiane. Dal libro è stato ricavato il film omonimo del 1998 (regia di Daniele Luchetti). È da considerarsi una delle più importati e lucide testimonianze in materia di Resistenza. Pomo Pero (1976) In continuità con Libera nos a malo, ma più intimo e familiare Pomo Pero vede un ritorno di Meneghello sui temi della sua infanzia a Malo e della vita in paese. Significativa è la penultima parte chiamata Ur-Malo, dove l'autore raccoglie dei componimenti in versi costruiti attraverso un elenco di parole in dialetto ordinate su basi ritmiche e di omofonia. Fiori Italiani (1976)
Fiori italiani è un saggio sull'educazione (diseducazione) ricevuta dallo scrittore e da tutti i suoi coetanei durante il ventennio fascista. Documentandosi sui testi usati alle scuole elementari, alle medie, al ginnasio, al liceo e all'Università di Padova l'autore mostra un ritratto impietoso della scuola italiana colonizzata dalla cultura fascista. Jura (1987) In questo suo libro Meneghello dispiega più compiutamente le sue doti di studioso del dialetto vicentino e delle sue particolarità più bizzarre attraverso il racconto di vicende autobiografiche tra l'Italia e l'Inghilterra. 28
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Bau-sète (1988) In Bau-Sète Meneghello racconta, con il suo particolarissimo stile, il secondo dopoguerra italiano. Gli amici, le moto, le donne, le idee, la scoperta della cultura europea e più in generale le vicende personali dei suoi vent'anni offrono all'autore la possibilità di una riflessione sull'uscita (o meno) dell'Italia dal ventennio mussoliniano. Il Dispatrio (1993) In questo libro Meneghello racconta della sua personale esperienza di emigrazione in Inghilterra: l'abbandono dell'Italia, lo shock dell'incontro con la cultura anglosassone del secondo dopoguerra e il suo “acclimatarsi” nella vita inglese a Reading.
Di seguito, le edizioni cui abbiamo fatto riferimento:
Libera nos a malo, Rizzoli, Milano 2007. I Piccoli Maestri, Rizzoli, Milano 2013. Pomo Pero, Rizzoli, Milano 1990. Fiori Italiani, Jura è contenuto in Opere scelte, Mondadori, Milano 2006. Bau-sète, Bompiani, Milano 1996. Il Dispatrio, Rizzoli, Milano 1993. Le carte (Vol. I), Rizzoli, Milano 1999. Opere scelte, Mondadori, Milano, 2006.
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