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Associazione ForMaLit Anno Scolastico 2016/2017
Laboratorio di Invito alla Lettura
Viaggio nella letteratura contemporanea
Leggere la cittĂ per conoscere se stessi
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Viaggio nella letteratura contemporanea. Leggere la città per raccontare se stessi Introduzione. Perché leggere attraverso la città? La domanda che ci si pone sempre in questi casi non è di facile risposta: perché leggere? Il rischio è quello di innescare il meccanismo di una delle cantilene che enumerano i motivi (alcuni effettivi, altri più personali) per cui valga la pena aprire le pagine di un libro e fssarci per ore lo sguardo e il pensiero. Leggere non è né facile, né automatico: è una scelta e come ogni scelta comporta una serie di rinunce e possibilità, la proporzione fra le quali varia a seconda della singolarità che si approccia alla lettura. Perché quindi fare un laboratorio di questo tipo, il quale si presenta fn dal titolo quale invito alla lettura allargato indistintamente a tutti? Perché a questa pratica si può invitare, appunto, come ad un evento: quale sarà il seguito di questa esperienza non è dato sapere. Sapere bisogna soltanto che questo tipo di possibilità esiste, questo modo di essere nel - e non soltanto trascorrere il – tempo è accessibile a chi voglia rivolgerci una porzione di volontà. La volontà è esattamente l’unica qualità che chiediamo ora a voi, con la speranza che riesca a tradursi in una forma di curiosità: verso il libro certo, ma di rifesso verso il mondo e la realtà –dalla più remota alla quotidiana – che attraverso le parole si impara ad osservare in modi stratifcati. L’orizzonte delle letture possibili è sconfnato; la strategia che abbiamo scelto per tracciare un percorso nel mezzo di tanta varietà – limitando effetti di eccessiva frammentarietà, sovrabbondanza e dispersione – è quella di farvi leggere attraverso un tema: la città. L’esperienza urbana è qualcosa di condiviso, per lo meno conosciuto da ciascuno di voi: strade, case, palazzine, negozi, automobili che sfrecciano sulla carreggiata, periferie, centri commerciali, luci, folla, aggregazione, solitudine. Le pagine e le parole che andremo a leggere tratteggeranno quindi un panorama familiare, eppure (o proprio per questo) spesso attraversato distrattamente, lasciato scorrere indistintamente attraverso uno sguardo cieco. La penna degli autori scelti potrebbe aprire squarci prospettici inediti sul quotidiano, infuenzando di conseguenza le personali doti di osservazione e interpretazione della realtà, prima di tutto di quella a voi più vicina. Con le parole si può guardare, guardando si tenta di capire, di estrarre dal fuido inconsistente del tempo che non si arresta alcuni fashes da riconnettere nelle trame di un racconto: il vostro personale racconto del tempo e dello spazio in cui vivete, a partire da tempi e spazi narrati da altri. Il laboratorio prevede quindi di avvicinare varie scritture di città, organizzandole secondo tre direzioni tematiche, le quali possono suggerire altrettante traiettorie iniziali di decodifcazione del fenomeno urbano: 1. la periferia urbana, osservata nei suoi caratteri di quotidianità misteriosa e 3
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rappresentativa di certe situazioni di vita che in tali contesti si vengono a determinare; 2. lo spazio dell’altro quale rimosso o altrove che cova negli anfratti nascosti delle nostre stesse città e che può tramutarsi in presa di coscienza e possibilità di arricchire il personale punto di vista; 3. la città infernale come deformazione più o meno fantastica di un modello, che ne metta in risalto le reali problematiche latenti e la fragilità, nonché i caratteri positivi da difendere e conservare. Vostro compito ora è quello di leggere e tentare di costruire, a partire da tali letture, un dialogo, uno scambio di opinioni su un aspetto di realtà che vi riguarda. Se a ciò si aggiungerà un certo piacere per la forma che, nella scrittura, costruisce lo sguardo, allora tanto di guadagnato.
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La città e le sue declinazioni tematiche. Tre esempi: la periferia, l’altrove, la catastrofe Città e periferia. Gli spazi del quotidiano e la (critica alla) città espansa contemporanea Le città non sono solo spazi immaginari, ma anche luoghi reali, fatti di cemento e mattoni, in cui trascorriamo giorno dopo giorno le nostre esistenze. Gli spazi che attraversiamo nella nostra quotidianità lungo i tragitti per andare da casa a scuola, per incontrare un amico o raggiungere il posto di lavoro, fanno parte delle nostre vite e le infuenzano tanto quanto le persone che conosciamo e le attività che svolgiamo. Spesso, però, non ce ne rendiamo conto, e sembriamo non accorgerci di tutti quei luoghi che accompagnano i nostri percorsi. Non prestiamo attenzione ai paesaggi periferici che circondano le nostre città e, insieme a loro, a coloro che abitano quei luoghi. I racconti letterari si soffermano invece su questi spazi marginali, divenendo lenti di ingrandimento per imparare ad osservare ciò che ci circonda, a leggere le periferie delle città, a prestare attenzione anche al viaggio oltre che alla meta.
La città e gli spazi dell’altro. In fuga dalla città in cerca dell’altrove Il paese, la città, il quartiere in cui abitiamo rappresentano la nostra “casa”, gli affetti, la protezione del focolare attorno a cui siamo cresciuti. Diventano però, al contempo, luoghi da cui si sente la necessità di fuggire alla ricerca di nuovi orizzonti, di prospettive altre. L’intima esigenza di cambiare luogo per ricercare un altrove, di varcare le soglie di ciò che è noto per trovare l’ignoto fa parte dell’indole di ogni uomo. I testi letterari ci raccontano come, lungo il proprio percorso di maturazione, si tenda a volersi confrontare con l’altro per imparare a conoscere se stessi. Anche le città, reali e letterarie che siano, e le loro geografe sono ftte di margini visibili e invisibili, di spazi altri e luoghi sconosciuti. Alcuni di questi luoghi sono parti volutamente rimosse dalle nostre geografe urbane, zone nascoste allo sguardo perché incarnano le contraddizioni, le ingiustizie, le assurdità del nostro tempo. È allora fondamentale, raggiungendo l’altrove oltre quelle soglie che separano la città visibile da quella invisibile, imparare a conoscersi e riconoscersi, a ritrovarsi anche attraverso la diversità.
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La città distrutta. La deformazione di un modello come spunto di rifessione sulla realtà. La letteratura avvicina al reale attraverso vie disparate e non necessariamente dirette: esistono descrizioni allucinate o deformate della realtà in grado di suscitare rifessioni più che realistiche. La fantasia non è quindi necessariamente un veicolo di distrazione e di fuga dal mondo, può anzi trasformarsi in uno strumento afflato di indagine dello stesso. Le immagini letterarie di città si sono spesso modellate sui desideri o sugli incubi degli uomini: da medievali contee immerse nel verde a panorami postatomici di devastazione, la rappresentazione dello spazio incarna una prospettiva verso cui tendere o da temere, in relazione a un insieme di fattori che esulano dal luogo, ma che in esso trovano un effcace specchio in cui rifettersi. Qualsiasi pianifcazione urbana, del resto, risponde a un’idea di mondo ben precisa, a un concetto di distribuzione e differenziazione della popolazione, a determinati modi e stili di vita. Cosa fareste se tutto ciò venisse distrutto? Se la vostra realtà materiale, con i suoi simboli, venisse spazzata via? Dove cerchereste il “nemico”? Al di fuori o in grembo a quello stesso modello di esistenza – che si rapprende fsicamente in un modello urbano – che pare inattaccabile e sano?
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Leggere la città Invito alla lettura. Che fare? Questo laboratorio conta soprattutto sul tuo coinvolgimento, sulla tua disponibilità ad ascoltare e a voler leggere i brani che sono stati selezionati ed estratti per te da alcuni romanzi contemporanei. In alcuni casi sarà la trama a catturarti, in altri la curiosità destata dal carattere ambiguo di un personaggio, oppure la familiarità di alcuni spazi urbani che rimandano a ciò che hai già visto, a ciò che hai già vissuto. Ciascuno dei tre testi che leggerai rimanda ad una delle tre declinazioni tematiche della città che ti sono state presentate: la periferia, lo spazio dell’altrove, la degenerazione infernale del modello urbano. La prima cosa che ti invitiamo a fare è capire a quale di queste tre tematiche può essere ricondotto il brano. Ogni estratto, potrà poi, a sua volta, essere ricollegato anche ad un altro dei tre temi, ma uno dovrà sempre essere riconosciuto come dominante rispetto agli altri. Il secondo invito riguarda la tua esperienza di lettore. Segna a matita, in evidenziatore, a colori o in bianco e nero le frasi che più ti colpiscono durante la lettura, e magari, a fanco, appuntati il perché. Quando avremo fnito di leggere, scoprirai il motivo. Un’ultima cosa ancora. La tua opinione di lettore, la tua esperienza, i tuoi racconti di città, ma soprattutto la tua attenzione sono fondamentali. Ti invitiamo a non perderli!
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Gruppo A Vitaliano Trevisan I quindicimila passi Sono ancora in vita, pensavo, solo perché mi sfnisco percorrendo a piedi in lungo e in largo il bosco di roveri – bosco che non esiste più ormai da centinaia di anni. Tutti i giorni, almeno una volta al giorno, parto da casa per addentrarmi in questo bosco di roveri assolutamente immaginario, distrutto per lasciare spazio alla campagna, e cammino ogni giorno sopra strati e strati di depositi alluvionali. Mi aggiro ogni giorno col solo scopo di mantenermi in vita, per una campagna nebbiosa che non è altro che il confuso ricordo di una vera campagna, distrutta dalle zone artigianali e residenziali. Mentre penso di inoltrarmi nel bosco, cammino in realtà per strade disgustose, conto i miei passi su infami marciapiedi, quando ci sono, correndo di continuo il rischio di essere investito e schiacciato da una macchina o da un camion. Cammino tutti i giorni ai bordi di strade fatte apposta per respingere chiunque voglia percorrerle a piedi. Le nostre strade sono fatte per le macchine, pensavo attraversando il passaggio a livello, e risultano inospitali per il camminatore. I bordi delle strade provinciali – ma anche di quelle comunali e statali – sono ricettacoli di sporcizia, una lunga striscia di sporcizia ai lati della strada, piena di rifuti e di cadaveri. La strada stessa, a ben guardare, cosa che nessuno ha mai il tempo di fare, è piena di corpi di animali morti. Gatti schiacciati e rischiacciati, topi spiaccicati, uccelli appiattiti, porcospini, a volte persino scoiattoli, una volta persino una volpe. Di continuo sono costretto a fare i conti con questa realtà spaventosa, pensavo. Per quanto io mi sforzi, non posso fare a meno di vedere. Cammino con gli occhi fssi per terra, ma non basta: nel cono visivo, davanti a me, lateralmente, a destra o a sinistra, entra l’ala di un uccello completamente dispiegata al passaggio di un camion, il corpo inesorabilmente spiaccicato sull’asfalto. […] Le ali degli uccelli sono leggerissime, penso camminando, e vedo una strada piena di ali che sbattono inchiodate all’asfalto. (pagine 25-26) Solo dieci o quindici anni fa potevo almeno andare a camminare per i campi dei Dorio, al limite occidentale del bosco di roveri, e fermarmi a osservare gli uccelli che, in determinate stagioni dell’anno, in quella zona, dove c’era anche un laghetto, si fermavano a riposare. Ora non posso più andarci, pensavo, o meglio posso ancora andarci, ma solo per ritrovarmi circondato da capannoni artigianali e industriali affacciati su via del lavoro, via del progresso, via dell’artigianato, via dell’industria e quant’altro. Cosa pensare di tutto questo?, cosa pensare su tutto questo? Gli uccelli, penso ogni volta che passo per la zona artigianale, dove andranno ora gli uccelli?, di certo qui non si fermano più. Qui non più, dissi ad alta voce. Non più qui, pensai, non su questa terra 8
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devastata e calpestata e spezzettata a norma di legge, non su questa terra dove le ragioni di tutto sono ragioni prevalentemente, anzi: esclusivamente economiche, niente di personale, niente di niente: solo affari. Una terra desolata, pensavo, senza pensare neanche per un attimo a T. S. Eliot, una terra sconvolta desolata e desolante, intristente come non mai specie nei giorni di pioggia, per non parlare dei giorni di nebbia. (pagine 29-30) Come si fa a stare in queste case, pensavo passando sotto quelle case del rondò di viale Cricoli. Le fnestre sempre chiuse, altrimenti le macchine sembra di averle in casa. La biancheria non si può stendere, altrimenti diventa subito nera. Addirittura le terrazze avevano fatto a quelle case, con vista proprio sul rondò di viale Cricoli. Solo un demente, pensavo, può aver avuto l’idea di fare delle terrazze da questa parte. Eppure, un giorno, non mi ricordo più quanto tempo fa, passando a piedi esattamente dove sto passando ora, un uomo era uscito in terrazza. Saranno state le otto di mattina, il traffco era il dannato traffco di sempre: macchine camion eccetera. Nessun essere umano in vista; una giornata come tante, col solito ingorgo dell’ora di punta. Ma ecco che, con mio enorme stupore, un uomo esce in terrazza, al primo piano, con tanto di accappatoio, tazza di caffè nella mano destra e sigaretta accesa nella mano sinistra. Io stavo camminando verso Vicenza, verso il centro voglio dire, alzo la testa ed ecco che ho questa specie di visione. […] Se qualcuno me l’avesse raccontato non l’avrei mai creduto. A ogni modo quella fu l’unica volta che vidi qualcuno su uno di quei terrazzi. La gente del resto si adatta a tutto, è incredibile, ma è così. La gente si adatta a vivere in posti assolutamente invivibili, come del resto si adatta a respirare un’aria irrespirabile e a mangiare del cibo immangiabile. Questi nuovi quartieri, questi cosiddetti quartieri di edilizia popolare, la cui costruzione dura a volte degli anni, ma che quando sono fniti ci appaiono come spuntati dal nulla, dall’oggi al domani, così, senza alcun preavviso, sono spesso, per non dire sempre, quartieri squallidi e tristi. Spuntano sì come funghi, come si dice, ma restano funghi solo per il tempo che dura la sorpresa. Finito questo primo momento di sorpresa, questi edifci e interi quartieri, spuntati come funghi, diventano subito degli alveari. Ma naturalmente sono alveari solo in quanto a densità di popolazione; degli alveari hanno solo questa funzione di contenitori per esseri viventi, ma la razionale purezza architettonica dell’alveare è ben lungi dall’essere eguagliata o anche solo ricordata da questi esercizi architettonico-urbanistici condotti sulla pelle della gente. Eppure, malgrado la bruttezza di questi edifci, […] la gente, pensavo, malgrado tutto questo si abitua e ci vive per anni. […] Tutto questo alla fne non importa un fco secco. Ci si abitua a tutto, pensavo questa mattina camminando verso il centro di Vicenza. (pagine 84-85)
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Eraldo Affnati La città dei ragazzi Erano le undici di sera. Piazzale dei partigiani, vicino alla stazione Ostiense, assomigliava a una grande autorimessa all’aperto abbandonata dai custodi. Nell’angolo del parcheggio, alcune ombre si materializzarono. Le facce sembravano tolte di peso da un servizio del National Geographic: gli zigomi alti facevano venire in mente Tamerlano, gli occhi a mandorla le catene dell’Hymalaya, le barbe e i baff il deserto di Arbu Lut. Ma loro desiderano diventare come noi: la casa, il lavoro, l’automobile. […] Avevamo camminato per ore, io e Jean, seguendo gli argini del Tevere, alla ricerca di quei ragazzi sbandati. Il mio scolaro sapeva dove trovarli. Dovevo aver pazienza. Prima o poi sarebbero venuti fuori, acqua che passa. Fiume che scorre. «Quando piove le coperte si bagnano e non le possiamo usare. Siamo costretti a restare in piedi senza poter dormire» esclamò un ragazzetto di circa sedici anni con un giubbino di tela che metteva i brividi solo a vederlo. Cosa fate durante il giorno? «Andiamo dove ci danno da mangiare. La mattina facciamo colazione nella chiesa anglicana di via Nazionale. A pranzo si va nelle mense della Stazione Termini. In questi posti ci possiamo anche lavare». Tutti maschi: azeri, pashtun, tagiki, uzbeki, baluci, turkmeni. I nomi sono sempre gli stessi: Alì, Ahmad, Javid, Sharif. È un fusso ininterrotto. Attravesano il centro storico a piccoli gruppi portandosi dietro uno zainetto striminzito con tutto quel che possiedono. Ancora oggi passano davanti alle scuole dove ci sono gli studenti italiani, quasi fossero, rispetto a loro, degli alieni. Senza patria, senza famiglia, senza soldi. Non hanno niente. Soltanto l’energia li spinge a procedere oltre. Un paio, del gruppo che incontrammo quel giorno, parlava bene l’inglese. Avrebbero voluto lavorare, essere messi in regola, ma non sapevano come fare. Ancora non avevano deciso se restare in Italia o proseguire verso la Francia e l’Inghilterra. Indietro no, non avrebbero voluto tornare: «La polizia turca ci ha sparato addosso, i greci ci hanno picchiato a sangue». E quello che avevano lasciato in Afghanistan non c’era bisogno di chiederlo: glielo leggevi negli occhi smarriti, mentre si preparavano a trascorrere la notte all’adiaccio. […] Un ragazzino stava preparando i cartoni per la notte. Si stese in terra e, prima di girarsi dall’altra parte, ci salutò con un cenno della mano. Un compagno, lì accanto, si era alzato dal giaciglio e, in mezzo alla strada deserta, gridò qualcosa verso di me. Mentre andavamo via, chiesi a Jean di tradurmi le sue parole. «Gli dispiaceva di non averti potuto offrire niente. Sai, in Afghanistan l’ospite è sacro. (pagine 190-92)
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Niccolò Ammaniti Anna Impiegarono due settimane per arrivare a Palermo. L’autostrada flava dritta dentro la città occupata da colonne di camion, carrarmati e camionette con i vetri sporchi. Si trovarono di fronte a quello che doveva essere stato un posto di blocco. Cordoli di cemento e barriere di flo spinato sbarravano il passaggio e proseguivano tra la campagna e le case. Ovunque cartelli crivellati di colpi intimavano di fermarsi per i controlli sanitari: «Zona contagiata. Chiunque tenti di superare le barriere rischia da trent’anni alla pena capitale». Una lunga fla di baracche che avevano ospitato le unità sanitarie erano piene di computer, tute gialle, scafandri buttati alla rinfusa e ricoperti da escrementi di topi. Si avviarono nella città silente. Nulla era stato risparmiato dalla furia della devastazione. Nessun negozio, nessun palazzo, nessun appartamento. Tutte le porte forzate. Tutte le cucine svuotate. Tutte le ante dei pensili spalancate. I quadri buttati a terra, i vetri sfondati, i piatti ridotti in mille pezzi. Alcuni quartieri sembravano bombardati. Pezzi di muri resistevano come faraglioni tra cumuli di macerie che invadevano le strade e seppellivano le automobili. Incrociarono le carcasse carbonizzate di due elicotteri abbattuti. Arrivati vicino al mare dovettero scalare barricate di mobili e cassonetti dell’immondizia su cui sventolavano brandelli sflacciati di bandiere nere. Nessuno sembrava essersi salvato. E se si era salvato adesso non c’era piú. Mancavano anche i cani e i gatti. Unici esseri viventi, delle cimici verdi che formavano palle frementi di zampette e ti fnivano in faccia e tra i capelli. Pietro camminava tenendo per mano Astor che aveva perso la parola e guardava a occhi spalancati, pollice tra i denti, gli intrichi di corpi bruciati. Anna aveva l’impressione che la città non li volesse. Era ancora pregna del dolore dei suoi abitanti, l’unico desiderio che le restava era quello di essere dimenticata. Ma la natura faticava a seppellirla. L’erba cresceva facca tra le crepe dell’asfalto, la parietaria s’insinuava incerta tra i mattoni, gli alberelli erano deboli e miseri come se affondassero le radici in una terra zuppa di veleni. Anche l’edera, che proliferava ovunque intrecciando pietosi teli verdi sui resti del mondo dei Grandi, qui si allungava in stoloni striminziti con le foglie giallastre e accartocciate. […] Quando si fermarono davanti alla Bottega dello sport, un enorme magazzino scuro come l’atrio dell’inferno, Anna non riuscí a tacere – Qui non troveremo le tue scarpe. Pietro rimase un attimo in silenzio, poi disse: – Andiamo via. (pagine 191-3) – Andiamo? – disse al cane, che scodinzolò felice. Fece la strada per la spiaggia scortata dal maremmano, che dietro una macchina si 11
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trovò faccia a faccia con un gatto nero. Contro ogni legge della fsica il felino schizzò sulla facciata di una casa e si rifugiò su un terrazzino. Il cane, zampe poggiate sul muro, guaiva frustrato. Anna percorse il lungomare cantando una canzone che sentiva in macchina quando la mamma la accompagnava a scuola […]. Il cuore era leggero, si sentiva pronta a pescare una balena. Era attraversata da una felicità spumeggiante, tutto le appariva bello, le barche sfasciate, i resti fatiscenti dei ristoranti, le auto coperte di sabbia, le fle di gabbiani immobili sulla riva. Chiuse gli occhi e cercò di immaginare come doveva essere Cefalú fno a pochi anni prima. I turisti che scendevano dai pullman con le macchine fotografche, i tavoli apparecchiati con tovaglie a scacchi, i camerieri con la salvietta sul braccio e in mano le bistecche con l’insalata, le orchestrine che suonavano sul lungomare accanto ai neri che stendevano le loro borse sui marciapiedi. I pedalò sul bagnasciuga. I ragazzi che giocavano a pallavolo sulla sabbia. Allargò le braccia come se volesse contenerla tutta. Adesso è meglio. Cefalú adesso è mia. Chi di quei turisti, di quei camerieri, di quei ragazzi avrebbe potuto dire altrettanto? Anche solo immaginarlo? Si girò verso il paese vecchio. La terrazza di casa sua era baciata dal sole e la fnestra della stanza dove dormivano Astor e Pietro luccicava. (pagine 208-9) Pietro le era esploso nel petto e migliaia di frammenti aguzzi le scorrevano nelle vene straziandole la carne. Adesso capiva cos’era l’amore, quella cosa di cui si parlava tanto nei libri della mamma. L’amore sai cos’è solo quando te lo levano. L’amore è mancanza. Senza Pietro il mondo era tornato a essere minaccioso e il silenzio, che prima le faceva compagnia, ora l’assordava e la struggeva. Era cosí stupido il modo in cui se n’era andato, la lunga agonia che aveva patito, e non riusciva a trovarci un senso. Era come se qualcuno la osservasse dall’alto e scrivesse la sua storia inventando modi sempre piú crudeli per farla soffrire. La metteva alla prova per vedere quando avrebbe mollato. Le aveva portato via il padre, la madre, e l’aveva lasciata sola con un bambino da crescere. Si era divertito a farle incontrare Pietro, glielo aveva reso indispensabile e glielo aveva tolto. La verità era che avanzava come un criceto in un percorso obbligato. L’idea di poter scegliere se andare a destra o a sinistra era un’illusione. Le ritornò in mente quello che le aveva detto tante volte Pietro. «Questo mondo non esiste. È un incubo dal quale non riusciamo a svegliarci». (pagine 247-8)
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Gruppo B Nicola Lagioia Riportando tutto a casa Mi lasciavo alle spalle queste scene, e andavo a prendere Rachele in motorino. Non credo di avere mai girato tanto per una città come feci con lei nel corso di quella primavera. Il combustibile delle nostre peregrinazioni era un denso sentimento di ostilità per tutto ciò che di «uffciale» ci stava intorno. Detestavamo i nostri genitori. Cominciammo a detestare la scuola. Odiavamo la tv, di cui apprezzammo in quel periodo solo i flmati delle città fantasma intorno a Kiev, persuadendoci che il devastante scenario di Černobyl fosse un termometro forgiato a millecinquecento chilometri di distanza per misurare il livello d’intossicazione spirituale delle nostre città. Disprezzavamo gli uomini politici italiani, e quando ci capitava tra le mani un quotidiano che dedicava la prima pagina a un sempre componibile confitto tra Democrazia Cristiana e Pci, disprezzavamo il servilismo dei redattori del giornale. Erano questi sentimenti ad attirarci magneticamente (noi e il Vespino) verso i luoghi della città in cui potevano venire condivisi. E luoghi del genere, a Bari, avevano iniziato a spuntare come funghi: birrerie che funzionavano come sale da concerto confnate a qualche metro sotto il livello stradale, dove gruppi death metal si esibivano gratuitamente per un pubblico di venti, trenta, talvolta persino cinquanta persone che pogavano come matte. Se non erano questi luoghi, erano i negozi di dischi d’importazione o i piccoli club che rivendicavano la propria identità attraverso le fanzine disposte sul bancone. Scaricavamo la tensione che si accumulava nei nostri corpi pogando insieme agli altri oppure scopando a casa mia, per ritrovarci nudi e svuotati ma incredibilmente ancora tesi dentro un letto a una piazza. Era allora che, per stemperare il residuo nervosismo, risalivamo in motorino e puntavamo lontano, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerci, di corsa verso la zona industriale, di fronte alle enormi chiocciole delle turbine elettriche e della mostruosità degli altiforni e delle lingottiere. Ritornavamo in città e, dopo avere parcheggiato, ce ne stavamo seduti nei giardinetti di piazza Umberto a contare i tossici che ci passavano davanti. (pagine 213-4) Non eravamo mai stati un appartamento di drogati. Non ci era soprattutto mai successo di attraversare un intero quartiere in cui sembrava che il calendario gregoriano fosse stato sostituito dai turni degli spacciatori. […] Di tanto in tanto tra quelle strade incrociavamo Giuseppe e Donatella. Due sagome disegnate a carboncino risaltavano nell’immobilità del panorama. […] Ma il più delle volte, durante quelle passeggiate, io e Rachele non incontravamo nessuno. Accompagnati da un lontano ronzare di automobili, camminavamo verso sud, 13
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costeggiavamo la zona semideserta dove anni dopo sarebbe sorto il palazzetto dello sport. A qualche metro da noi si proflava una piccola collina sorta spontaneamente da una discarica abusiva. Affrontavamo il pendio, ci facevamo largo tra i cespugli che spuntavano qua e là sul terreno grigio e molle. Vedevamo in lontananza una B una A una N illuminate a giorno e salivamo ancora, senza sapere neanche più se fossimo completamente svegli. In pochi minuti davanti a noi c’era tutta la città – la città in cui eravamo nati con la sua sfolgorante foresta di luci, i cartelloni accesi di Bankamericard e dell’Amaro Lucano, le lunghe code di automobili dirette verso il centro, i rimorchi delle paninoteche per il lungomare, il bagliore proveniente dagli yacht che prendevano il largo. Era allora che questo senso desolante di tragedia in atto ci crollava addosso. Sembrava che la città morisse dalla voglia di venirci incontro, e di travolgerci malgrado le nostre resistenze, di assimilarci in quel concerto di colori dentro il quale non sarebbe stato più possibile concepire anche l’idea di una singola nota stonata. (pagine 258-9)
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Igiaba Scego La mia casa è dove sono - È la tua città, zia Igiaba? Non sapevo cosa rispondere. La domanda era improvvisa. Inaspettata. Contropiede. Non riuscivo a rientrare nella mia metà campo. Imbarazzo. Mia madre scosse la testa. Stava rifettendo. - Non basta – mi disse quasi brontolando. - Cosa? - Questo – e indicò un punto tra lei e l’orizzonte. - Questo cosa? - chiesi allora un po’ stizzita. - Maabka, la mappa – le sue parole erano mischiate, lingua madre e italiano. - Non basta per fare la tua città -. […] È la mia città? Non lo è? Ero a un crocevia. Mamma disse altre parole. Non le afferrai tutte. Mi ero distratta. […] Perché mi succedeva questo? Sono cosa? Sono chi? Sono nera e italiana. Ma sono anche somala e nera. Allora sono afroitaliana? Italoafricana? Seconda generazione? Incerta generazione? Meel kale? Un fastidio? […] Sono un crocevia, mi sa. Un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla fne sono solo la mia storia. Sono io e i miei piedi. Sì, i miei piedi... Mi ricordai dei miei piedi in un pomeriggio romano non particolarmente interessante, mesi dopo il pollo di Barack Street. Forse ero annoiata o pensierosa. Lo sguardo distratto si posò sulle mie estremità inferiori e fu rivelatore. Solo allora capii con chiarezza cosa fare con la mappa. […] Allora corsi dalla signora Cho, originaria dello Wenzhou, che vende tutto a 1 euro dietro casa. Ci andai quasi boccheggiando. Avevo un leggero affanno. Comprai tre pacchetti di post-it e iniziai. Quel giorno il vento soffava leggero. Il sole era un’illusione di primavera. Gli uccelli cinguettavano felici come nei cartoni animati della Walt Disney. […] Una volta a casa poggiai i post-it sul tavolo. Poi mi misi a cercare freneticamente la mappa che io, mio fratello Abdul e mio cugino O avevamo tracciato a Barack Street. […] Era ridotta un po’ male, la mappa, tutta spiegazzata, “ciancicata” direbbero i romani. La stirai con le mani un po’ come mi veniva. Poi presi un flo per i panni, lo stesi in un angolo del monolocale dove vivevo e con tre mollette a forma di coccinella appesi la 15
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mappa come una gonna appena lavata. Una volta stesa per bene, la osservai, quella mappa bastarda. Quasi con sfda. Lì c’era la Mogadiscio che non ricordavamo più. C’erano mio fratello Abdul e mio cugino O con i loro amore, le loro passioni, gli scazzi, le seghe a scuola, le ribellioni. Se mi avvicinavo con le narici alla carta da disegno potevo sentire l’aroma del caffè allo zenzero e il profumino che emanavano i piatti carichi di beer iyo muufo. […] In qualche anfratto di quella mappa c’ero pure io. Ero piccola, brufolosa, un po’ grassa, con l’aria tentennante che avevo sempre in quei miei giorni lontani passati nella bella Mogadiscio. Ero sotterranea. Nascosta. Mi atteggiavo talvolta a ospite talvolta a paesana. Giocavo più ruoli: ero terzino e centravanti; un’africana e un’europea. In quelle strade non sono nata. Non sono cresciuta. Non mi hanno dato il primo bacio. Non mi hanno deluso profondamente. Eppure le sentivo mie, quelle strade. Le avevo percorse anch’io e le rivendicavo. Rivendicavo i vicoli, le statue, i pochi lampioni. Anch’io avevo qualcosa in con il cugino O e con Abdul. Certo, la loro esperienza e la mia non erano paragonabili. Ma rivendicavo quella mappa con forza, come rivendicherò il mio ultimo giorno di vita. Era mia come loro, quella Mogadiscio perduta. Era mia, mia, mia. Ed è lì che entrarono in scena i post-it comprati dalla signora Cho che vende tutto a 1 euro sotto casa. Non volevo un foglio di carta: volevo qualcosa di provvisorio e scomponibile. I post-it mi sembrarono perfetti. Ne presi uno arancione. Un colore caldo, accogliente, di buon augurio. Ideale per cominciare un’avventura. Ci scrissi sopra in stampatello, molto grande: “ROMA”. Negli altri scrissi nomi di quartieri, piazze, monumenti: Stadio Olimpico, Trastevere, Stazione Termini e così via. Appiccicai tutto intorno alla mia Mogadiscio di carta. Poi, io che non so disegnare, tentai di disegnare i miei ricordi. Lavorai per ore. Tracciai linee, sagome, ombre. Ritagliali giornali. Feci scritte. Ne uscì fuori il disegno di una bambina. Era buffo vedere quel risultato. Era impresentabile. Ma la mappa era fnalmente completa. Ora mamma non avrebbe avuto niente da ridire. (pagine 29-34)
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Cormac McCarthy La strada Alla periferia della città si imbatterono in un supermercato. Qualche vecchia macchina nel parcheggio coperto di immondizia. Lasciarono il carrello nel parcheggio e girarono fra le corsie sudice. Nel reparto frutta e verdura, sul fondo delle cassette, trovarono un po’ di fagioli di Spagna vecchi di chissà quanto e un po’ di quelle che un tempo dovevano essere state albicocche, ormai ridotte allo spettro avvizzito di se stesse. Il bambino lo seguiva. Uscirono dalla porta di sicurezza sul retro. Nella stradina alle spalle del supermercato c’erano alcuni carrelli, tutti molto arrugginiti. Riattraversarono il negozio in cerca di un altro carrello ma non ne trovarono. Vicino alla porta c’erano due distributori automatici di bibite che erano stati rovesciati a terra e aperti con un piede di porco. Monetine sparse nella cenere. L’uomo si sedette, passò la mano fra gli ingranaggi delle macchine sventrate e nella seconda riuscì ad afferrare un freddo cilindro di metallo. Ritirò lentamente la mano e si ritrovò a guardare una lattina di Coca-Cola. Papà, che cos’è? È un regalo. Per te. Ma che cos’è? Vieni. Siediti. [...] Il bambino prese la lattina. Fa le bollicine, disse. Forza. Guardò il padre, poi inclinò la lattina e bevve. Rimase lì a pensarci per un attimo. È proprio buona, disse. Sì. Infatti. Bevine un po’ anche tu, papà. Voglio che la bevi tu. Solo un po’. L’uomo prese la lattina, bevve un sorso e gliela restituì. Bevila tu, disse. Stiamocene seduti qui per un po’. È perché non ne potrò bere mai più, vero? Mai è un sacco di tempo. Ok, disse il bambino. Al crepuscolo del giorno seguente erano in città. Le lunghe volute di cemento dei raccordi autostradali come rovine di un immenso luna park sullo sfondo dell’oscurità in lontananza. L’uomo teneva la rivoltella in vita sul davanti e la lampo aperta. Ovunque cadaveri 17
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mummifcati. La carne spaccata lungo le ossa, i legamenti secchi come funi e tesi come fli d’acciaio. […] Erano tutti quanti scalzi come pellegrini di una stessa chiesa, perché le loro scarpe erano state rubate da un pezzo. Proseguirono. Lui si guardava costantemente alle spalle tenendo d’occhio lo specchietto. Nelle strade l’unica cosa che si muoveva erano le folate di cenere. Attraversarono l’alto ponte di cemento sul fume. Sotto il ponte, un molo. Piccole barche da diporto mezzo affondate nell’acqua grigia. Più a valle, alte ciminiere offuscate dalla fuliggine. Il giorno dopo, qualche chilometro a sud della città, all’altezza di una curva e mezzo coperto da rovi secchi, trovarono una vecchia casa in legno e mattoni, con tanto di comignoli, frontoni e muro di cinta. L’uomo si fermò. Poi cominciò a spingere il carrello su per il vialetto d’ingresso. Papà, cos’è questo posto? È la casa dove sono cresciuto. […] Dobbiamo entrare? Perché no? Ho paura. (pagine18-20) Nel lungo crepuscolo livido attraversarono un fume, si fermarono e si sporsero dal parapetto di calcestruzzo a guardare l’acqua che scorreva lenta e senza vita sotto di loro. A volte, sopra la cappa di fuliggine, si disegnavano i contorni di una città bruciata, come un fondale di garza nera. La videro di nuovo appena fece buio, mentre spingevano il carrello su per una lunga china e si fermarono a riposare e l’uomo girò il carrello di traverso per evitare che rotolassero giù. Avevano gli occhi cerchiati di nero, e in corrispondenza della bocca le mascherine erano già grigie. Si sedettero nella cenere sul bordo della strada e spinsero lo sguardo verso est, dove la sagoma della città si offuscava man mano che scendeva la notte. Luci non se ne vedevano. Papà, secondo te c’è qualcuno laggiù? Non lo so. Fra quanto ci possiamo fermare? Anche adesso. […] Ok. Sei pronto? Sì. Il bambino si alzò, impugnò la scopa e se la mise in spalla. Poi lo guardò. Quali sono i nostri obiettivi a lungo termine?, disse. Come? I nostri obiettivi a lungo termine.
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E questa dove l’hai sentita? Non lo so. Dài, dimmi dove. L’hai detto tu. Quando? Tanto tempo fa. E la risposta qual era? Non lo so. Be’. Non lo so neanch’io. Forza, che si fa buio. Il giorno dopo, sul tardi, sbucando da dietro una curva, il bambino si fermò e mise una mano sul carrello. Papà, sussurrò. l’uomo alzò gli occhi. Una piccola fgura in lontananza sulla strada, che avanzava curva e a passo strascicato. L’uomo si appoggiò alla maniglia del carrello. Be’, disse, e quello chi è? Cosa facciamo, papà? Potrebbe essere un’esca. Cosa facciamo? Proviamo a seguirlo. Vediamo se si volta. Ok. (pagine 121-3)
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Eraldo Affnati è scrittore e insegnante, nato a Roma nel 1956. È il fondatore di “Penny Writon”, una scuola gratuita di italiano per immigrati, nella quale, accanto all’insegnamento della lingua, si tenta di costruire attorno ai ragazzi un contesto accogliente e umano, primo gradino di una loro reale integrazione nel tessuto sociale. Nel campo della narrativa esordisce nel 1992 con Veglia d’armi, l’uomo di Tolstoj; a partire da quel momento realizza vari romanzi, fra cui si ricordano Campo del sangue (1997); Secoli di gioventù (2004); Elogio del ripetente (2013) e Vita di vita (2014), ultima opera dello scrittore romano, che traccia il percorso di un viaggio in Africa a fanco dell’amico Khaliq. La città dei ragazzi (2008) è un romanzo incentrato sull’esperienza di Affnati presso la “Penny Writon”. Ali, Mohammed, Francisco, Ivan: ogni nome è la superfcie di una storia, di una personalità sfaccettata, complessa e intensa che l’insegnante ricerca e a cui il romanziere da voce. Da Roma al Marocco, i luoghi portano i segni della storia di chi li attraversa o li ha attraversati; riconoscendoli e recuperandoli si tenta di ricostruire l’integrità di identità spezzate. Niccolò Ammaniti è uno scrittore romano nato nel 1966. È autore di molti libri di successo, fra i quali Io non ho paura (2001), a cui si sono ispirate le sceneggiature di diversi flm. Anna è il suo ultimo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 2015. In un mondo in cui chiunque abbia superato i quindici anni muore in preda a un’epidemia che lascia indenni solo i bambini, Anna, accompagnata dal fratello Astor e dal libro dei consigli lasciatole dalla mamma, cerca l’antidoto al virus. I fratelli attraversano paesaggi devastati, città ormai irriconoscibili, cercando di tenere vivo il ricordo della vita prima della scomparsa dei Grandi e, al contempo, di adattarsi alla nuova situazione. Il ricordo del passato guida i giovani protagonisti nel labirinto del presente, ma talvolta non basta a interpretare un panorama a tal punto sconvolto, lasciando un senso di disorientamento e confusione tanto nei personaggi quanto nel lettore. Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Oltre all’attività di scrittore dirige la collana Nichel, per la casa editrice Minimum Fax, ed è una delle voci di Pagina3, la rassegna stampa culturale di Radio 3. Ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009). In questo romanzo il protagonista ripercorre il tragitto della propria adolescenza tornando nella propria città natale, Bari, dopo vent’anni per cercare di ricomporre i pezzi di quel passato. Andando alla ricerca delle persone che ha perso e di quelle che non ritroverà mai più, egli cerca di dare un senso non solo alla vita e alle scelte di allora, ma anche alla persona che è diventato. Nella sua ultima opera, La ferocia (2014), invece, sotto la superfcie di una trama noir assistiamo in realtà a un complesso dramma famigliare e sociale. Michele, indagando sulla morte della sorella maggiore, Clara, riporta alla luce la sostanza aspra e corrotta di un mondo dominato dalle leggi, ormai divenute animali, dell'economia. La ferocia diviene quindi indagine e requisitoria contro una realtà, la nostra, abitata da un profondo impoverimento culturale. Cormac McCarthy, nato a Providence nel 1933, è uno scrittore, ma anche sceneggiatore e drammaturgo americano. Le sue opere più famose sono la Trilogia della frontiera (con Cavalli selvaggi, Oltre il confne e Città della pianura) ed il romanzo Non è un paese per vecchi (2005), da cui è stato tratto l’omonimo flm dei fratelli Joel e Ethan Coen. Nel romanzo La strada (2006), per il quale è stato nominato vincitore del premio Pulitzer nel
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2007, McCarthy narra la desolazione e la violenza di un mondo post-apocalittico attraverso il viaggio disperato di un padre ed un fglio. In questo racconto di sopravvivenza, quasi una parabola, ma anche un monito per rifettere sulle condizioni in cui vertono il nostro pianeta e la nostra società consumistica, l’autore rivista il mito della frontiera americano, ponendo la speranza non tanto in una terra ancora da scoprire, quanto nella possibilità di un futuro migliore dell’angosciante presente in cui vivono i suoi protagonisti. In tutte le sue opere, la scrittura di McCarthy si caratterizza per uno stile asciutto, denso e altamente descrittivo, capace di costruire e proiettare nella mente del lettore scenari dotati di una nitidezza quasi cinematografca. Igiaba Scego è una scrittrice italiana nata a Roma nel 1974 da genitori somali che collabora come giornalista con la rivista Internazionale e il quotidiano Il Manifesto. La sua identità italosomala emerge in maniera forte dai suoi racconti, diventando spesso il fulcro delle sue narrazioni. Nelle sue opere, infatti, dalla raccolta di racconti Pecore nere (2005) alla guida nella Roma postcoloniale intitolata Roma Negata. Racconti postcoloniali nella città (2014), accompagnata dalle fotografe di Rino Bianchi, sino all’ultimo romanzo Adua (2015), Scego si fa portavoce di coloro che, come immigrati di “seconda generazione” nati in Italia da genitori stranieri, convivono da sempre con un’identità culturale ibrida. Ambientato a Roma, La mia casa è dove sono (2010) si muove tra Italia e Somalia, raccontando il legame tra la nostra capitale e la lontana Mogadiscio attraverso la storia dell’autrice e della fuga della sua famiglia dalle violenze che travolgevano allora il paese africano. La storia personale ed intima di Scego si incrocia così con la Storia con la “s” maiuscola, divenendo un ponte tra due città, due stati, ma soprattutto due culture che appaiono, così, meno lontane di quanto si pensi. Vitaliano Trevisan è nato a Vicenza nel 1960. È un autore noto per la sua sensibilità nell’osservare i cambiamenti che hanno coinvolto il territorio Veneto negli ultimi decenni. L’esplosione della “città diffusa”, così come l’irrazionale devastazione urbanistico-architettonica del paesaggio secondo la sola logica della speculazione edilizia sono infatti temi centrali del suo romanzo I quindicimila passi. Un resoconto (2002). Qui, nella cornice di un noir psicologico che troverà tragica conclusione proprio nei disturbi della psiche del protagonista, si racconta la storia di un uomo che giorno dopo giorno percorre le strade della città diffusa veneta alla volta di Vicenza per cercare di risolvere il caso dell’assassinio di sua sorella. Nemmeno la mente eccessivamente lucida del fratello potrà infatti aiutare Thomas, il protagonista, a sciogliere il mistero, e non gli resterà che continuare a pensare, camminando. Vitaliano Trevisan è anche attore, regista e sceneggiatore teatrale. Per la sua produzione saggistica, inoltre, si ricorda Tristissimi giardini (2010), una raccolta di saggi che rifettono sul valore, perduto, della bellezza estetica del paesaggio dell’Italia del nord-est, un territorio ormai divorato dalla mostruosa espansione della “periferia diffusa”.
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E adesso? Alcune proposte di lavoro sulla città. Scrivere la mia città. La penna degli scrittori allena lo sguardo e lo rende acuto. Un buon esercizio, che tracci la linea di una possibile eredità fra il laboratorio di oggi e la tua esperienza di osservatore, è quello di immedesimarsi in una delle situazioni testuali, traducendola però secondo il tuo punto di vista. Cercando di imitare lo stile d’autore e la struttura dell’estratto da te scelto, percorri e osserva attraverso la stesura di un testo personale, uno spazio a te familiare. Scoprirai ciò che spesso è scivolato inosservato ai tuoi stessi occhi.
Leggere la mia città. Ci sono diversi modi per leggere una città. Si può leggerla attraverso la letteratura, sfogliando le pagine e i romanzi degli scrittori che prima di noi hanno provato a descriverla, fermandola su carta. Si può leggere la città anche nei quadri di antichi pittori che hanno provato a ritrarla, così come nei murales di coloro che hanno iniziato a colorarla. È possibile leggere la propria città attraverso le vicende fttizie dei personaggi letterari, oppure nelle pagine dei quotidiani o nei racconti delle persone che conosciamo. C’è un modo, però, in cui puoi leggere la tua città unendo tutte queste diverse possibilità in un unico sguardo, il tuo: è camminando, alzando lo sguardo per osservare ciò che ti circonda, per iniziare a capire, interpretare e, infne, leggere e raccontare la tua città. Costruisci un racconto-reportage sulla tua città, o su alcuni luoghi che di essa ti hanno colpito (una piazza, una strada, un edifcio, un appartamento, etc.), attraverso ritagli di giornale, fotografe, disegni, racconti e interviste da te raccolti.
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