7/2014
ISSN 2281-2113
Forum di Quaderni Costituzionali – ISSN 2281-2113 Rassegna n.7 del 2014 TEMI DI ATTUALITA’-SISTEMI ELETTORALI Dal doppio turno di coalizione al doppio turno di lista. E il doppio turno di collegio? – M. Nardiello I PAPER DEL FORUM Sulla questione di legittimità costituzionale della «soglia di sbarramento» della legge elettorale per il Parlamento europeo – S. Lieto La legge di stabilità 2014 e l’art. 116, comma 3, Cost. – M. Mezzanotte Un’altra cerniera tra giurisdizioni statali e Corti sovranazionali? L’introduzione della nuova funzione consultiva della Corte di Strasburgo da parte del Protocollo n. 16 CEDU – G. Sorrenti
MONITORE DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Decisioni 35/2014 – 154/2014
GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014 La Corte e la “sindacabilità indiretta” dei regolamenti parlamentari: il caso dell’autodichia (sent. 120/2014) – T.F. Giupponi La Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014 – G. D’Amico Un’anomala additiva di principio in materia di “divorzio imposto”: il “caso Bernaroli” nella sentenza n. 170/2014 – P. Veronesi Divorzio imposto: incostituzionale ma non troppo (sent. 170/2014) – P. Bianchi Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazione a mansioni superiori dirigenziali tra organizzazione regionale e “ordinamento civile” (sent. 17/2014) – S. de Gotzen Progressività dell’imposta e federalismo fiscale (sent. 8/2014) – D. Stevanato La Corte costituzionale pone un altro “tassello” in materia di prorogatio dei Consigli regionali (sent. 181/2014) – G. Perniciaro GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2013 Collocamento a riposo docenti di materie cliniche (sent. 83/2013)* – P. De Angelis GIURISPRUDENZA – CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Il ruolo del Parlamento europeo nella conclusione di accordi in materia di politica estera tra “aperture” dei Trattati e “chiusure” della Corte di giustizia – M.E. Bartoloni GIURISPRUDENZA – CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO Baka c. Ungheria: Strasburgo condanna il prepensionamento del Presidente della Corte
suprema per le opinioni espresse – C. Bologna
TELESCOPIO La riforma sanitaria di Obama e la sentenza Burwell contro Hobby Lobby. Basta un nesso molto indiretto con la libertà religiosa a limitare il diritto alla salute? – V. Fiorillo
CRONACHE DAI CONVEGNI The day after. La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale – C. Pennacchietti
DAL DOPPIO TURNO DI COALIZIONE AL DOPPIO TURNO DI LISTA. E IL DOPPIO TURNO DI COLLEGIO?* di Massimo Nardini ** (10 luglio 2014) Una delle novità più importanti previste dall’A.S. 1385 (c.d. Italicum) riguarda l’introduzione del ballottaggio per l’elezione della Camera dei Deputati, sia pure nella forma “anomala” del doppio turno di coalizione; come noto, viene attribuito un premio di maggioranza al 53% per la prima lista o coalizione che supera il 37% dei suffragi, in caso contrario viene svolta una seconda votazione tra le prime due liste/coalizione più votate. Lo schema di fondo rimane quello della legge n. 270/2005 (c.d. Porcellum), dove il premio era legato ai suffragi ottenuti dalle liste o dalle coalizioni in un’unica tornata. Ciò premesso, per capire la differenza tra il doppio turno di lista (ora proposto dal Movimento Cinque Stelle) e quello (anche) di coalizione, si può richiamare il dibattito sviluppatosi tra il 2007 ed il 2009 attorno alla proposta referendaria Segni-Guzzetta, che incideva, tra l’altro, sulle modalità di attribuzione del premio introdotto dalla citata legge n. 270/2005, eliminando la possibilità di dare vita ad apparentamenti tra liste. Pur non intaccando lo scrutinio di lista (bloccata) per i noti motivi tecnici connessi alla natura meramente abrogativa del referendum, i proponenti intendevano porre fine al fenomeno delle coalizioni omnibus, che determinavano ulteriori criticità rispetto a quelle già proprie dell’impianto proporzionale (al riguardo, si vedano le sintetiche considerazioni di G. Guzzetta, Un referendum sulla legge elettorale, in Quaderni Costituzionali, n. 2, 2006). Infatti, pur se tale sistema avrebbe consentito di far emergere con chiarezza l’identità delle singole liste, ammettendo (e anzi facilitando) la formazione delle aggregazioni il messaggio politico di ciascun partito veniva già da principio “offuscato” dall’istituzionalizzazione del leader di coalizione ed il deposito di un programma comune (per ciò stesso, necessariamente di compromesso) si rendeva evidente la dicotomia tra “identità” ed “aggregazione”, certo presente nel previgente sistema (prevalentemente) uninominale dove però rappresentava una fase meramente temporanea nella direzione di una ristrutturazione e ricomposizione del quadro partitico. Se il citato referendum avesse raggiunto il quorum nel 2009 il premio sarebbe stato attribuito alla singola lista, dando così vita ad un processo aggregativo tra i partiti. Anzi, lo avrebbe vieppiù assecondato visto che alle elezioni politiche del 2008, svoltesi ancora con la legge n. 270/2005, si sono presentati due partiti nuovi a vocazione maggioritaria, il Partito Democratico ed il Popolo della Libertà (frutto, rispettivamente, della fusione tra Partito Democratico della Sinistra e Margherita da una parte, tra Forza Italia e Alleanza Nazionale dall’altra), che insieme hanno conseguito oltre il 70% dei voti (cfr. C. Fusaro, Breve risposta a Vincenzo Lippolis: disfatta dei referendum elettorali o disfatta dell’istituto referendario ex art. 75 Cost.?, in Forum di Quaderni Costituzionali, 30 giugno 2009). In sostanza, l’esito delle consultazioni del 2008 aveva visto realizzarsi le intenzioni del Comitato promotore, sia pure in una forma attenuata data comunque la presenza di coalizioni tra il PD e l’Italia dei Valori a sinistra, e tra il PDL e la Lega Nord a destra. Se quell’occasione è stata persa, ciò è avvenuto anche perché è mancata una formula elettorale che incentivasse tale esito di “razionalizzazione”, anziché favorire piuttosto la nascita di coalizioni quanto più ampie possibili, sotto la duplice spinta del premio e delle soglie di sbarramento “mobili”. Non si può sottacere che la normativa di risulta del referendum Segni-Guzzetta sarebbe stata con ogni probabilità oggetto di successivo intervento da parte del Legislatore; * Scritto sottoposto a referee.
soprattutto, con il senno di poi, tale riforma avrebbe acuito quelle “criticità” della legge n. 270/2005 che la Corte Costituzionale ha ritenuto tanto gravi da dichiararne l’illegittimità costituzionale, con la nota sentenza n. 1/2014. Pur tuttavia, con la normativa di risulta si sarebbe inciso alla radice su un problema atavico del sistema istituzionale nazionale: la mancanza di partiti a “vocazione maggioritaria”, non tanto per una mera carenza di suffragi quanto per la incapacità (o impossibilità, a seconda dei casi) di assumersi le responsabilità derivanti dal voto loro concesso dagli italiani, tenuto conto della necessità di allearsi a formazioni politiche minori per ottenere la maggioranza Parlamento. Se la formazione di coalizioni rappresenta una eventualità che non si può escludere neanche nei Paesi di one-party government (come oggi nel Regno Unito), ben diverso è però il caso, come quello italiano, dove è diventata una regola, a partire dal 18 aprile 1948 quando, nonostante la Democrazia Cristiana avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, si formarono governi di coalizione a due, tre o quattro partiti. Pertanto, il problema non è semplicemente quello di assicurare numericamente una maggioranza, bensì di favorirne la coesione intervenendo “al di dentro” dei partiti, mediante meccanismi elettorali inevitabilmente manipolativo-coercitivi. Perciò la proposta di dare vita ad un sistema a doppio turno di lista appare un importante cambiamento rispetto allo schema basato sulle coalizioni, nella direzione di una maggiore vocazione maggioritaria del sistema (e dei partiti stessi) nonché di un rafforzamento della trasparenza e, quindi, della responsabilità degli attori politici in gioco; a maggior ragione se si prevede un eventuale ballottaggio, che tende a rafforzare la legittimità del vincitore finale. Tuttavia, tale miglioramento metterebbe paradossalmente ancora di più in risalto le carenze dell’impianto complessivo della riforma: la “casa di vetro” è certamente un passo in avanti, ma non trasforma chi vi abita da “ranocchio” a “principe”! Detto in altri termini: anche nel dibattito su quale doppio turno adottare, emerge la timidezza, quali la gracilità del riformismo italiano nella specifica materia: forse proprio per questo il cambiamento della legge elettorale è stato realizzato negli anni ’90 per via referendaria - effettivamente in modo radicale per la procedura seguita ma comunque in linea con la tradizione del Paese pre-1919 e vieppiù ancorata all’uninominale in nuce del Senato della Repubblica - non certo per iniziative autonome del Legislatore che, anzi, dapprima ha cercano di frenare e, successivamente, di annacquarne i contenuti (a partire dalla “seconda scheda” prevista per l’elezione del 75% deputati mediante proporzionale a liste bloccate). Si consideri, peraltro, che il doppio turno da sempre ha riguardato la scelta di personalità, non di liste (e men che meno di coalizioni). A maggior ragione in un sistema parlamentare come quello italiano, il voto per il rinnovo delle Camere deve consentire in primis la selezione della rappresentanza politica, cioè dei singoli deputati e senatori: le ricadute sulla formazione della maggioranza e la nascita del governo sono elementi successivi, pur essendovi legati da indubbio nesso di consequenzialità. Non si intende certo svilire l’importanza di consentire ai cittadini di poter essere “scegliere il governo”, obiettivo per il quale viene previsto, appunto, un premio a chi ha ottenuto una maggioranza solo relativa dei consensi; si vuole però evitare che tale “ansia” produca gli stessi esiti nefasti propri dei meccanismi della legge n. 270/2005. Indubbiamente, questa “drammatizzazione” intorno alla riforma elettorale risente della perdurante inerzia nel modificare la forma di governo nazionale, cui il Governo Renzi non intende ad oggi porvi rimedio dans ses profondeurs, se non snellendo il procedimento legislativo con il superamento del bicameralismo perfetto e rivedendo i rapporti tra “centro” e “periferia”. In altri termini, l’esigenza di assicurare “a tutti i costi” una maggioranza al momento delle elezioni deriva dal permanere di un sistema tout à fait parlamentare e di un panorama
partitico che non offre garanzie di governabilità; a maggior ragione oggi, in presenza di un partito, quello Democratico, che ha ottenuto un risultato straordinario nelle recenti consultazioni europee, cui però si contrappone una “opposizione” divisa tra un partito identitario e con basso tasso di coalizione come il Movimento Cinque Stelle e uno schieramento di centro destra (nonostante un consenso complessivo ancora rilevante) indebolito nel suo asse portante, cioè Forza Italia. Tuttavia, appare criticabile proprio il fatto che il tema della legge elettorale sia stato sganciato da quello più ampio della riforma delle istituzioni, a meno che non si ritenga davvero sufficiente agire sulla sola formula di tramutazione dei voti in seggi per ottenere, a parlamentarismo invariato, la tanto auspicata governabilità. E’ proprio per i fondati dubbi su siffatta “presunzione” che non basta prevedere un sistema proporzionale a doppio turno, anche con un ballottaggio ristretto alle sole due liste più votate. Certamente in tal modo si faciliterebbe quella immedesimazione tra segretario del partito e candidato premier che rafforzerebbe, a sua volta, lo spirito “maggioritario” del sistema, peraltro favorendo una logica “duale” che un’unica tornata non realizza necessariamente (salvo il first-past-the-post system, almeno a livello di collegio); nondimeno rimarrebbe insoluto il problema della selezione della rappresentanza politica. Si ritiene infatti che le note criticità istituzionali non traggano origine, sic et simpliciter, dall’instabilità dei governi e (quindi) delle maggioranze, bensì dalla mancata coesione interna sia delle coalizioni, sia dei singoli partiti, che non necessariamente un Presidente del Consiglio così legittimato è in grado di bilanciare, essendo egli stesso direttamente connesso alle vicende delle forze di maggioranza, in più nel paradosso di ricevere, di fatto, una investitura popolare che si sovrappone, anziché sostituirsi, all’ineludibile vincolo fiduciario. In conclusione, la questione istituzionale presuppone una visione “ingegneristica” del diritto costituzionale: serve un sistema istituzionale nuovo che, nel suo complesso, ridisegni i rapporti tra cittadini e politica, tra elettori e candidati, nonché (soprattutto) tra gli stessi organi politici. L’Italicum non sembra rispondere a tali esigenze, quantomeno non interviene nel profondo delle criticità strutturali italiane. Per questo, anziché dibattere se passare dal doppio turno di coalizione al doppio turno di lista (cioè di apportare correttivi pur importanti ma non certo decisivi al c.d. Italicum), si dovrebbe riflettere sulla possibilità di adottare il doppio turno di collegio: sarebbe il primo passo verso il perseguimento della stabilità di governo non per effetto di espresse prescrizioni normative, bensì in modo “spontaneo” (N. Lupo nell’intervento alla riunione del 22 luglio 2013 della Commissione degli esperti, disponibile su www.riforme costituzionali.gov.it, parlava al riguardo di una “spinta gentile”), appunto grazie ad una diversa selezione della rappresentanza parlamentare. Dovendo far fronte nell’immediato alle conseguenze della sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale, indubbiamente la proposta di riforma elettorale di cui oggi si discute assolve un compito importante: sarebbe però opportuno che nel medio periodo, una volta “portati in salvo” la governabilità ed il principio dell’alternanza, si valuti serenamente se ancora può permanere l’ostracismo verso il ritorno ai collegi uninominali. ** Dottore di ricerca in Diritto Pubblico – XXVI Ciclo - Università LUISS “Guido Carli”
Sulla questione di legittimità costituzionale della «soglia di sbarramento» della legge elettorale per il Parlamento europeo * di Sara Lieto ** (7 luglio 2014) 1. Introduzione A distanza di pochi mesi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1/2014, che ha dichiarato l’illegittimità di alcune norme della legge n. 270 del 2005, inaugurando un nuovo corso nel controllo di costituzionalità in materia elettorale, il Tribunale di Venezia (sez. III civ.), in data 5 maggio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale di alcune norme della legge elettorale per il Parlamento europeo (artt. 21, comma 1, n. 1 bis e 2 della legge n. 18 del 24/01/1979), «nella parte in cui, con scelta manifestamente irragionevole, introducono per le consultazioni del Parlamento europeo una soglia di sbarramento per le liste che non abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi»1. Anche in questo caso, come per la legge n. 270 del 2005, la questione di legittimità costituzionale ha origine da un’azione di accertamento del diritto di voto di alcuni cittadini elettori, mediante ricorso al giudice competente. Nell’atto introduttivo del giudizio, i ricorrenti hanno sollevato in via preliminare l’eccezione, prospettando al giudice a quo profili di illegittimità costituzionale della legge n. 18/1979, nella parte in cui prevede la soglia di sbarramento del quattro per cento, costituendo tale previsione una limitazione irrazionale del diritto di voto. Inoltre, nel ricorso, sempre in via preliminare, i ricorrenti hanno avanzato dinanzi al giudice a quo l’ipotesi di ricorrere in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ravvisando un contrasto del c.d. Atto di Bruxelles con i principi dei Trattati dell’Ue 2. Si tratta, specificamente, di un atto relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo 3 che, stabilendo un sistema di tipo proporzionale, prevede all’art. 3 che «gli Stati membri possono prevedere la fissazione di una soglia minima per l’attribuzione dei seggi. Tale soglia non deve essere fissata a livello nazionale oltre il 5 % dei suffragi espressi». Il giudice a quo ha disatteso la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in quanto l’art 3 dell’Atto di Bruxelles «non detta una disciplina positiva operante nei singoli ordinamenti, liberi di non fissare alcuna restrizione di soglia, né prevale su fonti di rango costituzionale che precludano l’introduzione di simili limitazioni», riconducendo di conseguenza la questione esclusivamente al controllo di costituzionalità interno. Nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo, ritenendo sussistenti l’elemento della rilevanza e quello della non manifesta infondatezza, argomenta in maniera alquanto succinta in merito al primo, sottolineando che «la questione di legittimità costituzionale sollevata è rilevante posto che ai fini del richiesto accertamento sulla pienezza del diritto di voto dell’elettore in occasione delle consultazioni per l’elezione del Parlamento europeo deve farsi applicazione necessaria della disposizione e il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione». Sembra evidente, quanto alla rilevanza, l’effetto prodotto sul giudice a quo dalla recente sentenza n. 1 del 2014, che nel ritenere ammissibile la questione ha ribaltato l’impianto argomentativo di parte della *
Scritto sottoposto a referee. Ordinanza del Tribunale di Venezia del 5 maggio 2014, n. 1025/14 r.g. 2 In particolare, art. 3 CEDU, artt. 20, 22, 223 e 224 TFUE, e 2,6, 9, 10 e 14 TUE, del Preambolo cpv 2, artt 10, 12, 20, 21, 39, 51, 52, 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 3 Allegato alla Decisione del Consiglio 76/787/CECA, CEE, Euratom del 20 settembre 1976 approvata con legge 6 aprile 1977 n. 150, nel testo risultante a seguito della decisione del Consiglio 2002/772/CE, Euratom, del 25 giugno 2002 e del 23 settembre 2002). 1
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dottrina4 sull’inammissibilità per fictio litis5. In altre parole, l’estrema sintesi degli argomenti a sostegno della rilevanza e della incidentalità può forse essere ricondotta ad una elevata aspettativa da parte del giudice a quo in merito all’ammissibilità della questione scaturente dall’azione di accertamento. Anche se la Corte, nel caso specifico, potrebbe assumere comunque una decisione di inammissibilità per ragioni che non siano necessariamente di fictio litis, ma ad esempio – tenuto conto dell’elevata discrezionalità del legislatore in materia elettorale – per violazione dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, in quanto nella fattispecie il controllo di costituzionalità potrebbe comportare una valutazione di natura politica e un sindacato sul potere discrezionale del Parlamento. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo non ritiene il dubbio facilmente superabile, ravvisando nella previsione dello sbarramento una possibile limitazione del diritto di voto, con conseguente violazione degli artt. 1, 3 e 48 della Costituzione. E’ evidente quanto la questione sollevata risulti importante; infatti, ponendosi immediatamente a ridosso della storica sentenza n. 1/2014, a distanza di pochi mesi essa offre l’occasione alla Corte di confermare o disattendere il precedente giudizio. Infatti, pur tenendo conto della diversità delle questioni, il parametro costituzionale invocato – anche in questo caso – è l’uguaglianza del voto. Pertanto, la difficoltà potrebbe consistere nel trovare una ragionevole giustificazione per assumere, a distanza di così poco tempo, una posizione diversa rispetto a quella sulla legge Calderoli. Ad esempio, la Corte dovrebbe – per ipotesi – dover argomentare perché l’uguaglianza del voto, che è stata ritenuta violata nel caso della mancata previsione del voto di preferenza, non lo sia, invece, nel caso della previsione della soglia del 4%. Che argomenti in tal senso possano essere rilevati dalla Corte ed essere assolutamente persuasivi, non si può, allo stato, affatto dubitare. Infatti, ciò che ad una sommaria ricognizione delle due questioni appare del tutto assimilabile, potrebbe non rivelarsi tale in fase di approfondimento. Anche perché, in questo caso come nell’altro, la presunta violazione del voto eguale appare piuttosto vaga, trattandosi nella fattispecie della previsione di un correttivo (la soglia) che non sembra alterare le condizioni di parità degli elettori, ma semplicemente realizzare un effetto selettivo attraverso il contenimento dell’effetto proiettivo (tipico dei sistemi proporzionali puri) E che la violazione del diritto di voto sia stata ritenuta sussistente dalla Corte nel caso della legge Calderoli, a proposito della mancanza del voto di preferenza, non impedisce tuttavia di rilevare le difficoltà argomentative della stessa Corte, che per giustificare nell’assenza della preferenza la violazione dell’eguaglianza del voto ha dovuto risolvere introducendo, a sostegno, il concetto di “conoscibilità” dei candidati 6, che è stato un modo implicito per dire che l’eguaglianza del voto è fatta salva purché i candidati siano conoscibili (quindi l’eguaglianza è garantita non necessariamente dalla preferenza, ma anche dalla lista corta, fatta di pochi candidati!) Oltre alle esigenze di coerenza o, viceversa, di ragionevole differenziazione rispetto alla sentenza n. 1/2014, la questione di legittimità costituzionale va messa anche in relazione con due importanti pronunce della Corte costituzionale tedesca (una del 2011 e l’altra del
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Si v., tra gli altri, E. Grosso, Riformare la legge elettorale per via giudiziaria? Un’indebita richiesta di “supplenza” alla Corte costituzionale, di fronte all’ennesima disfatta della politica, in Rivista AIC n. 4/2013; A. Anzon Demmig, Un tentativo coraggioso ma improprio per far valere l’incostituzionalità della legge per le elezioni politiche (e per coprire una “zona franca” del controllo di costituzionalità), in Rivista AIC n. 3/2013; G. Repetto, Il divieto di fictio litis come connotato della natura incidentale del giudizio di costituzionalità. Spunti a partire dalla recente ordinanza della Corte di cassazione in tema di legge elettorale, in Rivista AIC n. 3/2013. 5 Di diverso avviso, invece, S. Lieto e P. Pasquino, Un’ordinanza particolare. Sull’ammissibilità ed il merito della richiesta del controllo di costituzionalità della legge elettorale, in Rassegna Astrid, settembre 2013. 6 Su questo aspetto si rinvia a S. Lieto e P. Pasquino, La Corte costituzionale e la legge elettorale: la sentenza n. 1 del 2014, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2014.
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2014), che ha dichiarato incostituzionale la previsione della soglia di sbarramento nella legge elettorale per il Parlamento europeo 7. Il compito della Corte, in questo specifico caso, appare dunque piuttosto complesso. Da un lato infatti vi è l’eredità della sentenza n. 1/2014, e dunque l’inevitabile confronto con essa, sia che prevalga un piano di coerenza sia che prevalga un piano di differenziazione nella decisione della nuova questione di legittimità costituzionale rispetto alla precedente. Dall’altro, la posizione molto radicale della Corte tedesca, che viene – tra l’altro – invocata dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione a sostegno della propria ricostruzione. E infine - per accenno - non trascurabile è il potenziale impatto che la decisione della Corte potrebbe avere sulla riforma in atto della legge elettorale nazionale, che si pone nel solco delle riforme istituzionali promosse dal Governo in carica, dove pure uno degli aspetti di discussione è rappresentato dalle misure delle soglie di sbarramento 8. 2. Consonanze e dissonanze con la sentenza n. 1 del 2014 In via preliminare, va evidenziato che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Venezia presenta delle similitudini con il giudizio deciso con la sentenza n. 1 del 2014: la materia elettorale, innanzitutto, e la genesi del ricorso per via incidentale, cioè l’azione di accertamento del diritto di voto. Aspetto, quest’ultimo, forse più significativo – come già sottolineato - in quanto la Corte, con la sentenza n. 1/2014, ha ritenuto ammissibile la questione, superando l’eccezione di fictio litis, cui l’azione di accertamento può essere facilmente assimilata, ridimensionando, in questo modo, l’ambito delle c.d. zone franche, ossia del novero di leggi tendenzialmente sottratte al controllo di costituzionalità. Tuttavia, se prima facie alcune similitudini tra i due casi sono indubbiamente riscontrabili, altrettante non sembra si possano prevedere negli esiti. O quanto meno, stando alle similitudini nelle premesse, gli esiti non appaiono del tutto scontati. Senza alcuna pretesa di previsione in ordine alla decisione che la Corte riterrà di dovere assumere nel caso di specie, si ritiene tuttavia di poter avanzare qualche osservazione sull’impianto complessivo dell’ordinanza di rimessione. Come è stato già evidenziato, il giudice a quo ha opportunamente rigettato l’ipotesi prospettata dai ricorrenti in merito alla necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Effettivamente, la decisione assunta dal giudice a quo ha un suo fondamento, in quanto – come egli stesso sottolinea - il diritto europeo non pone alcun vincolo alla discrezionalità degli Stati nella predisposizione di una soglia di sbarramento se non nel limite, che non può essere superiore al 5 %. Nell’ordinanza di rimessione, tuttavia, il giudice a quo ritiene, in sostanza, che la previsione di una soglia di sbarramento produca una ingiustificata limitazione della rappresentanza; pertanto, ciò che risulta quanto meno indifferente per il diritto europeo (soglia di sbarramento) costituirebbe nell’ordinamento nazionale una violazione del diritto di voto. Infatti – secondo il giudice a quo - mentre in un sistema proporzionale nazionale lo sbarramento ha una sua ratio, cioè evitare la frammentazione e rendere in questo modo i governi più stabili, altrettanto non sarebbe riscontrabile né giustificabile nel caso del Parlamento europeo. In questo modo però il giudice a quo non chiarisce i termini di violazione degli artt. 1, 3 e 48 Cost. da parte della norma impugnata, ma esprime una valutazione sulla soglia di sbarramento (e non è molto chiaro se sulla soglia tout court o sulla soglia nella misura del 4%), basandola su una peculiare ricostruzione del ruolo del 7
Sull’argomento si avrà modo di tornare successivamente. Si richiama, sin d’ora, sul tema della soglia di sbarramento nelle pronunce della Corte di Karlsruhe (anche rispetto al richiamo che ne fa l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia) M. Armanno, La soglia di sbarramento per l’elezione del Parlamento europeo è incostituzionale? Brevi considerazioni a proposito di una recente ordinanza di rinvio, in Quaderni costituzionali n. 2/2014, p. 402 ss. 8 Disegno di legge (S. n. 1385), Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati.
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Parlamento europeo e del sistema di relazioni tra le istituzioni europee 9. Infatti, sostenere che nell’un caso l’assenza della soglia è un fattore negativo, perché aumenta la frammentazione, nell’altro invece è un fattore positivo, perché favorisce una maggiore rappresentanza, non spiega la violazione dell’eguaglianza del voto. Del resto, anche il legislatore europeo, contemplando l’opzione, evidentemente non ha ritenuto lesiva della rappresentanza né tantomeno dell’eguaglianza del voto l’eventuale previsione della soglia di sbarramento, purché sia contenuta nel limite del 5 %. Inoltre, considerare la frammentazione un fenomeno del tutto irrilevante nel caso dell’elezione del Parlamento europeo, purché sia garantita la massima rappresentanza, è un punto di vista discutibile. In primo luogo perché, qualora si ritenga che un processo di «parlamentarizzazione» dell’ordinamento costituzionale europeo sia in qualche modo in atto (e il condizionale è d’obbligo, tenuto conto di opinioni in senso contrario), non può essere trascurato il ruolo che in esso dovrebbero svolgere i partiti politici europei, quali strutture aggregative fondamentali, non occasionali, consistenti, stabili e radicate, per garantire la partecipazione dei cittadini alla politica dell’Unione. E dal momento che non sembra si possa assumere quale argomento a sostegno della previsione di soglie l’esigenza di stabilità dell’esecutivo, allora forse si potrebbe dire che l’assenza di soglia di sbarramento disorienti il cittadino al momento del voto, perché lo pone dinanzi ad una offerta politica eccessivamente parcellizzata. 3. Alcune considerazioni sulle istituzioni comunitarie Senza andare troppo al di là di considerazioni strettamente legate al dato normativo, qualche puntualizzazione sul ruolo e le funzioni del Parlamento europeo può forse essere fatta. Non perché l’intento sia necessariamente quello di smontare l’impianto argomentativo del giudice a quo, ma semplicemente per riflettere sul quadro dallo stesso proposto (vedi nota n. 9), che appare un po’ riduttivo, e in ogni caso non sembra tenere conto del processo di «parlamentarizzazione» delle istituzioni europee, di cui da tempo e con le opportune cautele, si discute in dottrina 10. Che il ridimensionamento del ruolo del Parlamento europeo sia funzionale a sostenere la posizione del giudice a quo in merito all’assenza di giustificazione di una soglia di sbarramento, questo è evidente. Che l’argomento del ridimensionamento del Parlamento possa essere utilizzato per sostenere che la previsione della soglia, in un sistema 9
Precisamente, il giudice a quo ritiene che «il Parlamento europeo, infatti, non ha il compito di eleggere o dare la fiducia ad alcun governo dell’Unione, al quale possa fornire stabilità di indirizzo politico e continuità di azione; né ha un ruolo determinante nella produzione legislativa, collaborando invece con il Consiglio nella discussione e nell’approvazione della normativa europea, ed esercitando il controllo sulle altre istituzioni dell’Unione e concorrendo all’approvazione del bilancio». 10 Sul tema si v. S. Illari, Sulla nozione di forma di governo e l’ordinamento dell’Unione europea. Aspetti problematici del difficile cammino verso un nuovo ordine politico, in Studi in onore di Vincenzo Atripaldi, Napoli, 2010, in particolare nella parte in cui l’A. richiama J.H. Weiler, Europa sì, ma quale? Lectio magistralis, Milano, 7 maggio 2009, in Confronti. Autonomia lombarda: le idee, i fatti, le esperienze, 2009, p. 71: «Va osservato, tuttavia, che una tale evoluzione nel senso parlamentare, come sopra accennato, appare piuttosto lontana da un vero e proprio compimento, al più si potrebbe parlare di uno “stato embrionale”. A differenza di facili semplificazioni, bisogna ricordare che di recente per voce particolarmente autorevole si è rilevato che la situazione delle istituzioni europee rivela oggi una notevole incertezza quanto alle possibilità di attuazione in futuro di un’unione politica continentale. In particolare, merita di riferire le parole dedicate a materie connesse con la trattazione che precede. L’Autore, infatti, sottolinea “l’incapacità dell’Unione di sviluppare strutture e processi che replichino adeguatamente al suo livello i meccanismi anche imperfetti di controllo del governo, di responsabilità parlamentare e amministrativa che sono praticati con diverse modalità nei vari Stati membri”. Questa citazione assume chiarezza per la considerazione, sempre dello stesso Autore, secondo la quale la condizione fondamentale per una democrazia rappresentativa, che alle elezioni i cittadini possano “mandare a casa il governo”, in Europa non sussiste. Nel sistema di governo europeo la censura della Commissione da parte del Parlamento o l’approvazione della nomina del Presidente della Commissione non può conseguire l’effetto di “mandare a casa un governo”», p. 1565.
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elettorale proporzionale, sia incostituzionale, questo è meno evidente e comunque poco convincente. Ma restiamo alla posizione del giudice a quo, mettendo da parte momentaneamente il secondo punto. Secondo quanto riportato nell’ordinanza, a proposito dei compiti, il Parlamento europeo «non ha un ruolo determinante nella produzione legislativa, collaborando invece con il Consiglio nella discussione e nell’approvazione della normativa europea, ed esercitando il controllo sulle altre istituzioni dell’Unione e concorrendo all’approvazione del bilancio». A questo proposito però è opportuno ricordare che l’art. 14 TUE comma 1, prevede non solo che il Parlamento europeo eserciti, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio, eserciti funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai Trattati, ma elegga anche il Presidente della Commissione 11. Il Consiglio europeo, infatti, tenuto conto dei risultati delle elezioni del Parlamento, deliberando a maggioranza qualificata, propone un candidato che è eletto dal Parlamento a maggioranza dei membri che lo compongono. Tale disposizione sembra costituire un tassello importante nel processo evolutivo della rappresentanza 12 che in questo modo, a partire dall’elezione a suffragio universale e diretto dei membri del Parlamento, realizza un ulteriore progresso, sia pure attraverso un sistema elettivo di secondo grado 13. La 11
Si v. anche l’art. 17 TUE, comma 7, «Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura. Il Consiglio, di comune accordo con il presidente eletto, adotta l’elenco delle altre personalità che propone di nominare membri della Commissione. Dette personalità sono selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati membri, conformemente ai criteri di cui al paragrafo 3, secondo comma e al paragrafo 5, secondo comma. Il presidente, l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del Parlamento europeo. In seguito a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata», [nostro il corsivo]. 12 Su tali aspetti, anche tenuto conto dei risultati elettorali del 25 maggio 2014, si v. C. Curti Gialdino, Elezioni europee 2014 e scelta del candidato alla presidenza della Commissione europea: i primi passi della procedura, in federalismi.it, il quale osserva: «La logica del collegamento tra elezioni europee e designazione della personalità cui affidare la guida della Commissione europea è chiara e non è affatto neutra dal punto di vista istituzionale. Essa, infatti, è suscettibile di incidere sul modello di governo nell’Unione europea. Come noto, negli anni scorsi, complice la grave crisi economica e finanziaria, il sistema di governo dell'Unione europea ha visto notevolmente rafforzata l’istanza intergovernativa rappresentata dal Consiglio europeo, mentre il ruolo motore a carattere sovranazionale della Commissione europea si è molto appannato, nonostante gli ulteriori compiti di controllo sui comportamenti devianti degli Stati membri che le sono stati affidati. Inoltre, appare evidente che le candidature avanzate dai partiti politici europei sono suscettibili di innervare il rapporto con i partiti politici nazionali ed anche di svolgere una funzione di acceleratore della partecipazione elettorale», p. 6. 13 Sul tema si v G. Amato, L’Europa dal passato al futuro, in il Mulino, 1/2004, il quale osserva: «Il Parlamento europeo è l’altro, grande protagonista dei cambiamenti che intervengono; e lo è sul versante della configurazione stessa delle istituzioni comunitarie, della loro fisionomia e dei loro ruoli. Creato inizialmente dai governi come organo meramente consultivo, utile a fornire un pallido riscontro democratico al monopolio decisionale che essi esercitano in sede europea attraverso i Consigli, il Parlamento modifica progressivamente l’assetto, secondo la logica propria delle forme di governo parlamentari, con tanta maggior forza da quando i suoi componenti passano dall’elezione indiretta al voto popolare. A quel punto il ruolo consultivo diventa sempre più estesamente co-decisione legislativa, perché è legiferare, non esprimere pareri sulla legislazione, ciò che fa un Parlamento democratico. In più, e sempre in ragione della medesima logica, il Parlamento, che in quanto eletto dai cittadini per rappresentarli politicamente è organo intimamente politico, cerca una responsabilità politica per le attività non legislative che si svolgono in sede europea e cerca un «Esecutivo» che di tale responsabilità sia portatore. Lo identifica nella Commissione e comincia su questa premessa a trasformarne i connotati. Nell’insieme, le due spinte che partono dal Parlamento avviano una complessiva ibridazione delle preesistenti istituzioni comunitarie, che continuano ad essere ciò che erano all’inizio, ma che cominciano ad essere anche, e, certo, contraddittoriamente, ciò che potremmo trovare in un sistema federaleparlamentare», p. 7 ss.
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circostanza poi che il Consiglio proponga al Parlamento un candidato, tenuto conto delle elezioni del Parlamento, sembra suggerire che sui potenziali candidati possano gli stessi cittadini europei dare delle indicazioni, consolidando in questo modo il processo evolutivo 14 e determinando «un rafforzamento del loro potere democratico, quasi come mandato imperativo alla maggioranza parlamentare nell’esercizio di quel suo specifico potere di elezione»15. In altri termini, dal rilievo riconosciuto espressamente ai risultati delle elezioni per quanto riguarda il candidato presidente, «ne dovrebbe conseguire, verosimilmente, che tale candidato debba essere, in linea di principio, espressione del partito politico che ha ottenuto la maggioranza nel Parlamento europeo o che, in ogni modo, si addivenga ad un previo accordo tra il Consiglio europeo e il Parlamento, pena il fallimento della proposta»16. Se questa prospettiva ha un fondamento e se la rappresentanza oltre che massimizzata va anche innanzitutto organizzata per veicolare le istanze democratiche nelle istituzioni, allora forse immaginare che la frammentazione sia un fenomeno trascurabile nel caso del Parlamento europeo, che «non ha il compito di eleggere o dare la fiducia ad alcun governo dell’Unione, al quale possa fornire stabilità di indirizzo politico e continuità di azione» 17, sembra quanto meno non tenere conto delle prospettive verso cui le istituzioni europee, attraverso i partiti politici, dovrebbero tendere, in un’ottica di maggiore democratizzazione dei processi decisionali e quanto proprio «la perdurante assenza di partiti realmente europei impedisca un dibattito pubblico che possa coinvolgere i cittadini dell’Unione secondo comuni riferimenti politici e ideali» 18. Perché se è vero che il Parlamento europeo rappresenta i cittadini e non gli Stati, per andare oltre gli Stati, verso la realizzazione di una coscienza civile e politica europea c’è necessariamente bisogno di strutture organizzative della partecipazione democratica alla politica, che abbiano una loro identità 14
Sul punto si v. G. Amato, op. cit., il quale osserva: «In primo luogo abbiamo compiuto ulteriori passi lungo lo stesso percorso «costituzionale» che si era avviato entro il metodo comunitario: rafforzando il rapporto politico fra il Parlamento e il presidente della Commissione, che il Parlamento ora eleggerà, sia pure su candidature espresse dal Consiglio, ma tenendo conto tuttavia dei risultati delle elezioni (la politicizzazione dell’organo neutro non si compie, ma prosegue)», Ivi, p. 12. 15 Così A. Manzella, Prima lettura di un Parlamento (un po’ meno) europeo, in federalismi.it, p. 4., il quale, a proposito delle elezioni del 25 maggio 2014, osserva inoltre: «Sul piano strettamente interpretativo, non sembra esserci dubbio che il Trattato di Lisbona abbia consegnato al Consiglio europeo (“capo di Stato collettivo”,secondo una risalente definizione) il potere di designazione analogo a quello che hanno i Capi di Stato nei regimi parlamentari,”tenuto conto delle elezioni” e dopo aver “effettuato le consultazioni appropriate”. Al PE spetta il potere di decidere: potere che il Trattato, come si è visto,qualifica con l’inequivocabile termine di “elezioni” (rafforzato da un successivo “voto di approvazione” collettiva che riguarderà l’intera compagine della Commissione). Di più: nelle elezioni del 25 maggio si è inserito un elemento di “quasi presidenzialismo” con la presentazione - e la campagna elettorale mirata- di candidature trans-nazionali alla guida della Commissione. Le “elezioni del Parlamento europeo” di cui il Consiglio europeo deve “tener conto” non hanno dunque espresso solo risultati numerici ma anche indicazioni nominative. Sembra evidente, anche alla luce di univoche prassi nazionali, che solo la mancanza del coagulo di una maggioranza parlamentare intorno ad una di tali candidature (mancanza accertabile con le “consultazioni appropriate” di cui parla il Trattato) potrebbe consentire al “capo di Stato collettivo” di proporre un nome diverso da quelli per cui gli elettori europei sono stati chiamati a votare», p. 3 ss. 16 S. Illari, Sulla nozione di forma di governo e l’ordinamento dell’Unione europea. Aspetti problematici del difficile cammino verso un nuovo ordine politico, cit., p. 1551. 17 Così nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia. 18 G.M. Salerno, Le elezioni del Parlamento europeo del 2014: un risultato nel segno della continuità debole, in federalismi.it, p. 3, il quale osserva: «Tutto ciò produce un esito inevitabile: la scelta effettuata al momento delle elezioni europee è drammaticamente povera in termini di emersione di soluzioni politiche significativamente rilevanti a livello europeo. Questo voto non può che rimanere largamente ancorato alle logiche della competizione nazionale. Insomma, non è colpa dei candidati se durante la campagna elettorale si è parlato per lo più di questioni interne a ciascun Paese e se il voto è stato inteso per lo più come una sorta di referendum sugli esecutivi in carica. Anzi, forse, soltanto l’affacciarsi di spinte radicalmente anti-europeistiche – ovvero anti-euro – ha spinto il dibattito sul versante, per così dire “proprio”, delle tematiche sovranazionali. I rappresentanti nel Parlamento europeo sono il frutto di selezioni nazionali e, sino a quando ciò accadrà, alle ragioni di queste ultime risponderanno », p. 4.
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e un loro effettivo radicamento nella società, ma anche una loro autonomia rispetto ai partiti nazionali. Allo stato attuale, invece, i partiti politici europei sono federazioni transnazionali nelle quali, per affinità ideologiche, confluiscono i partiti nazionali, rendendo pertanto le elezioni europee prevalentemente la proiezione della contesa elettorale nazionale. Inoltre, se non si dubita di quanto dal giudice a quo sottolineato a proposito dell’assenza di un vero e proprio rapporto di fiducia tra il Parlamento e la Commissione (che poi non è esattamente identificabile come governo dell’Unione), tuttavia nell’esperienza comunitaria si possono anche rintracciare «alcuni svolgimenti nel rapporto tra i due organi, che paiono tali da indurre a significativi raffronti con l’istituto della fiducia parlamentare. Tanto si può rilevare in ragione del “trasferimento” nell’organizzazione europea, in particolare, di due noti elementi costitutivi di quel rapporto: il voto di censura e il voto di investitura parlamentare della Commissione, istituti di cui si è fatta per la prima volta applicazione fuori dall’ambito statale»19. Per quanto riguarda la censura, l’art. 17 TUE, comma 8, prevede che «la Commissione è responsabile collettivamente dinanzi al Parlamento europeo. Il Parlamento europeo può votare una mozione di censura della Commissione secondo le modalità di cui all’articolo 234 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Se tale mozione è adottata, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni e l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla Commissione». L’istituto europeo della mozione di censura non può, tuttavia, essere assimilato a quello della fiducia, attraverso il quale i parlamenti nazionali conferiscono o revocano il mandato politico al governo. Infatti, la Commissione è responsabile dinanzi al PE, ma tale responsabilità sembra più prossima all’ipotesi dell’impeachment americano e quindi riscontrabile in caso di violazione di pratiche di etica politica (come del resto è accaduto alla Commissione Santer - unico precedente in materia - che fu obbligata a dimettersi per ragioni di corruzione), piuttosto che collocarsi nell’ambito di un controllo politico da parte della maggioranza del PE. Tuttavia, anche se quelli europei non sono sovrapponibili agli istituti tipici dei modelli rappresentativi nazionali (e viceversa), non si può non riconoscere «il nesso costituzionale, che già esiste, tra la nomina del presidente della Commissione e il Parlamento europeo che possiede una legittimazione popolare massima in virtù dell’elezione diretta. Ciò vale anche nell’ottica europea, nella quale pure le due funzioni, legislativa e di governo, sono ripartite tra Consiglio, Parlamento e Commissione in modo differente rispetto ai modelli statali e federali esistenti» 20. 4. Gli argomenti del giudice a quo Ritornando all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, sembra necessario a questo punto riflettere sull’impianto argomentativo proposto dal giudice a quo per sostenere che la previsione della soglia, in un sistema elettorale proporzionale, quale è quello per il Parlamento europeo, sarebbe incostituzionale. Secondo il giudice a quo la soglia del 4 % «non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale che giustifichi la limitazione della rappresentanza» ed inoltre «comporta la svalutazione della volontà di parte anche consistente dell’elettorato che abbia espresso preferenze per liste che abbiano conseguito sul piano nazionale meno del 4 per cento dei voti validi espressi». L’idea che viene dunque avanzata è che nel caso del Parlamento europeo la ripartizione dei seggi debba essere necessariamente la proiezione in assemblea dei risultati elettorali, non essendo in tal caso rilevanti i fenomeni di frammentazione; infatti, tra PE e governo 19
S. Illari, Sulla nozione di forma di governo e l’ordinamento dell’Unione europea. Aspetti problematici del difficile cammino verso un nuovo ordine politico, cit, p. 1546. 20 A. Padoa Schioppa, L’assetto istituzionale dell’Unione europea, in il Mulino, 2/2002, p. 285.
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dell’Unione (Commissione/Consiglio) non vi sarebbe alcun rapporto di fiducia e quindi alcuna stabilità da garantire. Questa impostazione però, pur avendo un suo fondamento, sembra esprimere una visione particolare, di segno regressivo, del Parlamento europeo, come di un organo di cui, da un lato, si invoca la massimizzazione della rappresentanza, ma di cui, dall’altro, si evidenzia il ruolo non determinante, sia sul piano delle funzioni che su quello dei rapporti con le altre istituzioni. Sottolineatura, quest’ultima, non molto coerente proprio con l’esigenza, che sembra emerge dall’ordinanza, di garantire una maggiore rappresentanza dei cittadini. Sostenere che un organo, in fondo non determinante sul piano politico, che non ha il compito di eleggere o dare fiducia ad alcun governo, debba al contempo essere il contesto di massima valorizzazione della volontà dell’elettorato europeo, sembra un po’ un controsenso. Inoltre, dal ragionamento del giudice a quo sembra potersi desumere che le soglie siano necessarie nei sistemi elettorali proporzionali (nazionali) per impedire che il Governo sia “ricattato” dai piccoli partiti, mentre nel caso del PE esse non siano di alcuna utilità. Nell’un caso, dunque, la loro potenziale incostituzionalità verrebbe neutralizzata, in quanto attraverso il bilanciamento prevarrebbe l’interesse alla stabilità del Governo. Nell’altro, non essendoci un interesse prevalente, le soglie sarebbero incostituzionali. Il che equivale a dire che nel primo caso la violazione dell’eguaglianza del voto sarebbe giustificata, nell’altro caso non lo sarebbe. In realtà, più che una violazione dell’eguaglianza del voto, la questione riguarda l’accesso alla rappresentanza. Ma allora anche la dimensione del collegio può incidere sull’accesso: collegi piccoli, ad esempio, hanno un effetto più selettivo rispetto a quelli grandi con più seggi, ma non per questo sono ritenuti incostituzionali. Molto più realistico sarebbe stato invece impostare il discorso, partendo da una visione non regressiva ma (democraticamente) evolutiva della struttura istituzionale europea, e in particolare del Parlamento, che nel corso del tempo ha segnato delle tappe importanti in una prospettiva di maturazione nei cittadini di una coscienza civile e politica europea 21, innanzitutto fondando la sua legittimazione sul principio del suffragio universale diretto, ed inoltre acquisendo maggiore rilevanza sia in termini di funzioni che di controllo sugli altri organi. In ogni caso, per quanto gli argomenti del giudice a quo possano essere più o meno condivisibili in relazione al punto di vista sull’architettura istituzionale europea, residua comunque un’incertezza in merito al parametro costituzionale che si assume violato. Piuttosto, la questione sembra in realtà rivelare un problema – di notevole complessità sul piano interpretativo – che ha a che fare con la tendenza – almeno per il momento - a dover necessariamente assimilare le istituzioni nazionali con quelle europee, riproponendo a livello sovranazionale gli schemi dell’organizzazione statale. E anche se la dottrina, con 21
Ma affinché questa possa svilupparsi i partiti sono essenziali per veicolarne le molteplici espressioni. In prospettiva, dovrebbe trattarsi di organizzazioni politiche trasversali, autonome rispetto a quelle nazionali, che sappiano rendersi interpreti di temi e problematiche di rilevanza europea, non condizionate da interessi locali ma proiettate verso uno specifico modello di Europa. La tridimensionalità che caratterizza invece l’esperienza partitica europea (partiti nazionali, federazioni transnazionali, gruppi parlamentari) rende ancora le elezioni per il Parlamento europeo eccessivamente legate alle competizioni nazionali. La dinamica partitica ha carattere ascendente ma con una decisiva impronta nazionale; le federazioni – che sarebbero nominalmente i partiti politici europei – svolgono in realtà una funzione di aggregazione transnazionale dei partiti nazionali, vagamente accomunati da medesimi orientamenti ideologici. Data la circostanza, non sembra andare in direzione di un sistema partitico europeo prevedere che in queste ampie strutture aggregative possano riversarsi e disperdersi anche partiti che a livello nazionale non hanno dato prova, al momento delle elezioni, di avere un seguito consistente. Questo sistema infatti favorisce la frammentazione delle forze politiche nella fase ascendente, riaggregandole nella fase finale attraverso le federazioni, mentre invece ciò che si dovrebbe favorire è l’aggregazione già a partire dalla fase ascendente, che in qualche misura meccanismi di contenimento quali le soglie di sbarramento potrebbero contribuire a realizzare. Va tenuto conto, inoltre - come si è già evidenziato - della necessità di non alimentare un disorientamento negli elettori con una offerta eccessiva di organizzazioni partitiche momentanee, costituite in vista della competizione, la cui esigua percentuale di voti tende poi a disperdersi nel sistema delle federazioni e dei gruppi.
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sfumature diverse, appare propensa all’assimilabilità, tale atteggiamento oltre che esprimere un auspicio rivela anche la difficoltà nella elaborazione di paradigmi diversi da quelli tradizionali rispetto a fenomeni nuovi. Tornando all’impianto argomentativo del giudice a quo, se si parte dall’assunto che effettivamente il Parlamento europeo ed il Parlamento nazionale non sono assimilabili, proprio per questo, richiamare per differenza il modello parlamentare nazionale (e di un esecutivo responsabile dinanzi ad esso) non sembra il metodo più adeguato per giustificare l’incostituzionalità della soglia di sbarramento. Infatti, o il Parlamento europeo è qualcosa che ha un’assonanza solo nominale con il modello nazionale (in quanto non vi è un rapporto di fiducia con l’esecutivo e quindi alcuna stabilità da garantire), allora quest’ultimo non può essere richiamato come tertium comparationis, perché tra i due organi non c’è un piano di analogia. E quindi, se non è possibile fare una comparazione, andrebbe spiegato tout court perché in un sistema elettorale proporzionale la soglia di sbarramento è incostituzionale, senza per questo chiamare in causa il modello nazionale e argomentare per differenza. Oppure, viceversa, tra i due modelli qualche consonanza esiste, allora in questo caso bisognerebbe spiegare perché - tenuto conto dell’analogia per il Parlamento nazionale che viene eletto con metodo proporzionale la soglia è costituzionalmente legittima e viceversa non lo è per l’elezione di quello europeo. Argomento evidentemente non facile da sostenere, in quanto fondato sulla comparazione, sia pure per difetto, tra due modelli che si assumono non assimilabili. Ma al di là di considerazioni di carattere logico-razionale, rispetto alla questione sollevata va innanzitutto tenuto conto della giurisprudenza della Corte che, a proposito della previsione di correttivi al sistema elettorale proporzionale, tra cui la soglia, ha osservato, in diverse occasioni, che «tali correttivi non incidono sulla parità di condizioni dei cittadini e sull’eguaglianza del voto, che non si estende al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore, rimessa ai meccanismi del sistema elettorale determinati dal legislatore»22. Inoltre, la misura della soglia su cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale è del 4 %. Non è tuttavia di immediata evidenza nel petitum se la questione riguardi la misura o la previsione stessa della soglia, qualunque ne sia la misura. Potrebbe essere, infatti, ragionevolmente sollevato il dubbio se sia la previsione in assoluto di una soglia ad essere sospetta di incostituzionalità o specificamente la soglia nella misura del 4 %. A sostegno della prima ipotesi, oltre le considerazioni del giudice a quo sul ruolo del Parlamento europeo, sembra porsi il richiamo a due sentenze della Corte costituzionale tedesca, che ha censurato la legge per le elezioni europee, una prima volta, per avere previsto una soglia del 5%23 ed una seconda volta, per avere il legislatore previsto una 22
Sentenza Corte costituzionale n. 356 del 1998. BVerfGE 2 BvC 4/10 et al. del 9 novembre 2011; in particolare, per quanto riguarda la sentenza del 2011, si v. il commento di G. Delledonne, Il Bundeverfassungsgericht, il Parlamento europeo e la soglia sbarramento del 5%: un (altro) ritorno del Sonderweg?, in Rivista AIC, n. 1, 2012, il quale osserva: «A quanto finora detto si può aggiungere che la sentenza sembra attenersi a una sorta di vulgata circa gli assetti funzionali del Parlamento europeo, senza tenere conto delle rilevanti novità intervenute nella conformazione di questo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e per effetto delle trasformazioni del sistema politico-partitico dell’UE Il nuovo art. 10 del TUE afferma che “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa” (comma 1) e “i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo. Gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio” (comma 2). Non sfugge l’innovazione che tali disposizioni rappresentano – per lo meno sul piano delle petizioni di principio rispetto ai previgenti artt. 189 e 190 TCE, ove i membri del Parlamento europeo erano definiti “rappresentanti dei popoli degli Stati”, in un curioso ibrido tra rappresentanza generale e rappresentanza statuale. In secondo luogo, il nuovo art. 17, c. 7, TUE afferma che il Consiglio europeo debba tener conto dei risultati delle elezioni europee prima di proporre al Parlamento un candidato alla Presidenza della Commissione. Allo stesso modo, appare singolare che nel momento in cui il nuovo art. 14 TUE esplicitamente attribuisce al Parlamento la qualifica di co-legislatore dell’Unione, il Bundesverfassungsgericht muti avviso rispetto alla propria sentenza del 1979, in cui aveva “salvato” la soglia di sbarramento pur constatando che il Parlamento non era un vero organo legislativo», p. 12 ss. 23
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soglia del 3%24. Tornando invece alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Venezia, l’incertezza sulla soglia in assoluto o sulla soglia nella misura del 4% deriva anche dalla circostanza che il giudice a quo ha giustamente rigettato – come è stato prima ricordato – l’eccezione di parte del ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, sottolineando che il diritto dell’Unione europea non vincola gli Stati membri in merito alla previsione o meno di una soglia, purché non superiore al 5%. Tuttavia, proprio tale circostanza alimenta la contraddizione, perché assumendo la soglia (sia pure in termini di opzione) come una previsione legittima, sembra lasciare intendere che sospetta di incostituzionalità sarebbe la sua specifica misura del 4%. In ogni caso, per la giurisprudenza della Corte italiana, «quanto alla asserita violazione dell’art. 3 Cost., deve osservarsi che la determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa, censurabile in sede di giudizio di costituzionalità solo quando risulti manifestamente irragionevole» 25. A questo proposito, è opportuno – per assonanza tematica - richiamare la sentenza della Corte costituzionale italiana n. 271 del 201026. Si tratta di una decisione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, nn. 2 e 3, della legge n. 18/1979, come modificata dalla legge n. 10/2009, sollevata dal Tar del Lazio. Secondo il giudice a quo, la Corte avrebbe dovuto censurare la disposizione nella parte in cui prevede «la soglia nazionale di sbarramento […] senza stabilire alcun correttivo, anche in sede di riparto dei resti», in particolare «non consentendo anche alle liste escluse dalla soglia di sbarramento di partecipare all’assegnazione dei seggi attribuiti con il meccanismo dei resti» 27. 24
BVerfGE 2 BvE 2/13 et al. del 26 febbraio 2014., in cui la Corte pur richiamando l’argomento – già sostenuto nella sentenza del 2011 – della differenza tra Parlamento nazionale e Parlamento europeo, non esclude che a fronte di un’evoluzione futura delle istituzioni europee possa un intervento correttivo (la soglia) nel sistema elettorale rivelarsi opportuno. 25 Ordinanza n. 260 del 2002. 26 Per un dettagliato approfondimento dei ricorsi al Tar, da cui ha avuto origine la questione di legittimità costituzionale, si v. C Fusaro, Il Tar Lazio all’assalto della clausola di sbarramento per le Europee, in Quaderni costituzionali, 2010, p. 410 ss;ed inoltre C. Pinelli, Eguaglianza del voto e ripartizione dei seggi tra circoscrizioni, in Giur. cost. 2010, p. 3322 ss.; G. Ferri, Nuovi e vecchi problemi del sistema di elezione dei parlamentari europei: l’assegnazione dei seggi attribuiti con i resti e lo «spostamento» dei seggi da una circoscrizione e l’altra, in Giur. cost. 2010, p. 3326 ss. 27 In particolare, la Corte, nella sentenza n. 271, a proposito degli argomenti proposti dal giudice a quo, sottolinea: «4.1. – Il Collegio rimettente, pur riconoscendo la legittimità costituzionale della soglia di sbarramento in sé considerata, osserva che, secondo la disposizione censurata, ai fini del riparto dei seggi non attribuiti in base ai quozienti interi, «si considerano resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale». Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina sarebbe illegittima nella parte in cui essa non prevede che si considerino resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto la soglia di sbarramento del 4%, negando, in tal modo, a tali liste il c.d. “diritto di tribuna”. Secondo il Tribunale rimettente, la norma censurata, in primo luogo, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto diversi profili: essa irragionevolmente consentirebbe alle liste che hanno superato la soglia di ottenere seggi, in sede di computo dei resti, sulla base di cifre elettorali più modeste di quelle delle liste che, non avendo superato la soglia, risultano invece escluse anche dal riparto dei seggi in base ai resti; la norma oggetto di censura sarebbe, poi, non proporzionata rispetto al fine di favorire le aggregazioni politiche, già sufficientemente assicurato dalla esclusione delle liste minori dal riparto dei seggi a quoziente intero; infine, un ulteriore profilo di irragionevolezza viene individuato dal Collegio rimettente nella circostanza che le liste le quali, per mancato superamento della soglia, non ottengono alcun seggio, si vedono private (in base peraltro a diversa disciplina non censurata dal rimettente) del rimborso delle spese elettorali. In secondo luogo, il Tribunale amministrativo rimettente lamenta la violazione degli artt. 1, 48, 49, 51 e 97 Cost., in quanto la disposizione censurata «porrebbe radicalmente nel nulla la volontà popolare di una più o meno ampia platea di elettori». Infine, il Collegio rimettente deduce la violazione dell’art. 11 Cost, in relazione sia all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, secondo cui “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa” e “ogni cittadino ha diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione”, sia agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea], che sanciscono «il diritto di ciascun individuo di manifestare le proprie convinzioni e di godere dell’elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo».
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Si tratta di una questione non del tutto assimilabile a quella proposta dal Tribunale di Venezia, che però costituisce un importante precedente sull’argomento. Nell’un caso, infatti, la norma viene ritenuta sospetta di incostituzionalità non per via dello sbarramento, ma in quanto ha escluso dall’attribuzione dei seggi in base ai resti le liste che non hanno superato lo sbarramento del 4%. Nell’altro, invece, la questione è incentrata espressamente sulla previsione della soglia. Con la sentenza n. 271 la Corte ha ritenuto inammissibile la questione 28 innanzitutto per contraddittorietà: infatti, «se la soglia di sbarramento è legittima – come il giudice rimettente riconosce – allora non può censurarsi la conseguente scelta del legislatore di escludere dall’attribuzione dei seggi in base ai resti le liste che non l’abbiano superata; se, invece, la disciplina sul riparto dei seggi in base ai resti è illegittima, nella parte in cui esclude le liste che non abbiano superato la soglia di sbarramento – come il giudice rimettente lamenta – allora non può sostenersi che il legislatore possa legittimamente introdurre tale soglia». Inoltre, la questione è stata ritenuta inammissibile in quanto il giudice a quo ha sollecitato una pronuncia additiva – nonostante l’assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata - chiedendo alla Corte di introdurre «un meccanismo diretto ad attenuare gli effetti della soglia di sbarramento, consistente nel concedere alle liste che non l’abbiano superata la possibilità di partecipare, con le rispettive cifre elettorali, alla aggiudicazione dei seggi distribuiti in base ai resti. Ma tale attenuazione non ha una soluzione costituzionalmente obbligata, potendosi immaginare numerosi correttivi volti a temperare gli effetti della soglia di sbarramento, a partire dalla riduzione della soglia stessa»29. A questo proposito è stato osservato che, in via alternativa, la Corte, piuttosto che una decisione di inammissibilità avrebbe potuto adottare una sentenza di rigetto, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo, rifacendosi in tal caso alla consolidata giurisprudenza sul principio di eguaglianza del voto, che «non si estende “al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore. Risultato che dipende, invece, esclusivamente dal sistema elettorale che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari” (sentenza n. 43 del 1961)» 30. 5. Coda In attesa della decisione della Corte, l’ordinanza di rimessione sulla legge elettorale europea solleva importanti questioni, sulle quali è auspicabile che in dottrina si intensifichi il dibattito. Oltre agli aspetti che si è cercato in questa sede di mettere in rilievo, va infine considerata l’atipicità della legge elettorale europea, che si colloca in un’area di confine tra la dimensione nazionale e quella sovranazionale, ponendo un evidente problema di raccordo tra fonti di ordinamenti diversi. Essa è una legge statale, il cui impianto strutturale di tipo proporzionale è però espressione di una decisione esterna, in quanto è il diritto 28
Si tratta, tuttavia, di una vicenda che non si è conclusa con la decisione della Corte costituzionale, ma ha avuto un seguito con l’appello proposto da uno dei ricorrenti al Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 00642 del 13 maggio 2011 (sez V) ha disatteso la decisione della Consulta. Si tratta, nel caso di specie, di una sentenza – quella del Consiglio di Stato – che è stata fortemente, ed a ragione, criticata in dottrina per avere arbitrariamente ritenuto che nel caso in giudizio l’Ufficio elettorale nazionale dovesse sostituire la norma in vigore con una antecedente, sovvertendo – in pratica – i canoni fondamentali della successione delle norme nel tempo. Per un’analisi dettagliata di tale sentenza e per le forti considerazioni critiche, si v. C. Fusaro, Quando il Consiglio di Stato irride alla Corte costituzionale ovvero degli sberleffi di Palazzo Spada alla Consulta (e alla ragione), in Quaderni costituzionali n. 3/2011, p. 657 ss. 29 Di diverso avviso C. Pinelli, Eguaglianza del voto e ripartizione dei seggi tra circoscrizioni, cit., secondo il quale la Corte «avrebbe pur sempre potuto optare, però, per una pronuncia additiva di principio, tale da imporre al legislatore, in nome dell’eguaglianza del voto, di rimediare allo slittamento di seggi da una circoscrizione all’altra, lasciandogli la scelta del meccanismo correttivo più opportuno allo scopo», p. 3324. 30 Sentenza Corte costituzionale n. 429 del 1995,
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dell’Unione a rendere tale impianto obbligatorio per tutti gli Stati membri. E’ una legge statale, inoltre, le cui regole si rivolgono alla composizione di un organo esterno allo Stato, e che in questa specialissima contingenza si trova a dover essere giudicata secondo parametri costituzionali interni. Si tratta dunque di una circostanza che solleva diversi interrogativi sul dispiegarsi del controllo di costituzionalità di una legge il cui contenuto è sostanzialmente etero deciso e le cui regole sono volte alla composizione di un organo rappresentativo non statale. In ogni caso, va rilevato che la legge elettorale (come categoria) negli ultimi tempi ha innescato diversi processi di trasformazione, dal controllo di costituzionalità della legge elettorale nazionale, con la sentenza n. 1 del 2014, all’iniziativa legislativa di riforma della materia, fino alla recentissima proposta, contenuta nel disegno di legge di revisione costituzionale, di controllo di costituzionalità in via preventiva della legge elettorale 31. Ipotesi, quest’ultima, che si auspica possa trovare concreta attuazione, tenuto conto della difficoltà – con il controllo ex post – di giustificare la legittimazione politica di un organo rappresentativo eletto sulla base di regole incostituzionali. ** Assegnista di ricerca in Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Napoli Federico II saralieto@libero.it
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Si tratta di uno degli emendamenti al Disegno di legge costituzionale A.S. n. 1429 del Governo (recante le proposte di modifica alla parte seconda della Costituzione), approvati in Commissione Affari costituzionali nella seduta n. 171: «Art. 10-bis. (Modificazioni all’articolo 73 della Costituzione) “1. All’articolo 73 della Costituzione, il primo comma è sostituito dai seguenti: Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione. Le leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale su ricorso motivato presentato da almeno due quinti dei componenti di una Camera, recante l’indicazione degli specifici profili di incostituzionalità. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di un mese e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata.”. 2. All’articolo 134 della Costituzione, dopo il primo comma, è aggiunto il seguente: “La Corte costituzionale giudica altresì della legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l’elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, deferite ai sensi dell’articolo 73, secondo comma.”».
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La legge di stabilità 2014 e l’art. 116, comma 3, Cost.* di Massimiliano Mezzanotte** (14 luglio 2014) SOMMARIO: 1. L’innovazione; 2. L’analisi; 3. Questioni di procedura; 4. Le prospettive solidali; 5. Le indicazioni della Corte costituzionale; 6. La prova del nove.
1. L’innovazione
La legge di stabilità del 2014 1 ha introdotto un’importante novità. All’art. 1, comma 571, ha infatti stabilito che “anche ai fini di coordinamento della finanza pubblica, il Governo si attiva sulle iniziative delle regioni presentate al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro per gli affari regionali ai fini dell'intesa ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione nel termine di sessanta giorni dal ricevimento. La disposizione del primo periodo si applica anche alle iniziative presentate prima della data di entrata in vigore della presente legge in applicazione del principio di continuità degli organi e delle funzioni. In tal caso, il termine di cui al primo periodo decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge”. L’innovazione è di sicuro e grande rilievo, perché rappresenta il primo tentativo per svegliare dal letargo una disposizione costituzionale che doveva permettere la “specializzazione” delle Regioni 2, ovvero la possibilità di incrementare le competenze regionali in alcuni specifici settori (organizzazione dei giudici di pace, istruzione, tutela dell'ambiente e dei beni culturali). Le maggiori difficoltà sorgevano però sull’iter da seguire per completare il disposto costituzionale che incarnava una norma sulla produzione normativa, senza trovare però nell’ordinamento consistenti appigli procedurali o riferimenti concreti da seguire3. * Scritto sottopsoto a referee. 1 Legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”.
2 La terminologia utilizzata dalla dottrina per indicare tale prerogativa è stata varia, come ricorda A. MORRONE, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, Cost., in Federalismo fiscale, 1/2007, 143-144; usa il termine «differenzazione», A. POGGI, Il principio di “differenziazione” regionale nel Titolo V e la “clausola di differenziazione” del 116, comma 3: modelli, prospettive, implicazioni, sul sito http://www.astridonline.it/rassegna/Rassegna-24/30-11-2007/Poggi__Regionalismo-differenziato.pdf.
3 Sulle problematiche connesse alla norma costituzionale, S. AGOSTA, L’infanzia “difficile” (… ed un’incerta adolescenza?) del nuovo art. 116, comma 3, Cost. tra proposte (sempre più pressanti) di revisione costituzionale ed esigenze (sempre più sentite) di partecipazione regionale alla riscrittura del quadro costituzionale delle competenze, in AA.VV., La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, a cura di E. Bettinelli e F. Rigano, Torino 2004, 313 e segg.
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La norma appare tuttora priva di un’analitica disciplina sul procedimento, quasi a voler rimarcare che nella materia la lacuna è meglio di una stringente regolamentazione; l’unico limite imposto, quello del coordinamento della finanza pubblica, consente un collegamento con l’art. 119 Cost.4, non limitato però al mero rispetto delle competenze ma anche ai meccanismi ulteriori, come quello che permette la creazione di un fondo perequativo a favore dei territori con minore capacità fiscale per abitante. Su queste problematiche si soffermerà il presente studio, finalizzato a dare una possibile chiave di lettura della scarna normativa contenuta nella legge di stabilità. 2. L’analisi
Volendo invertire le problematiche sopra segnalate, va preliminarmente analizzato il riferimento al coordinamento della finanza pubblica e non, come si ha nella norma costituzionale, al più generico “rispetto dei principi dell’articolo 119 Cost.”. Quest’ultima formula appare a maglie più larghe della prima; in quella contenuta nella legge di stabilità pare si voglia svolgere un controllo più rigido, dal momento che la giurisprudenza costituzionale ha elaborato una nozione ampia di principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, precisando come la relativa attuazione non comporta solo l’esercizio del potere legislativo, ma anche di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica e di controllo 5. Nel contempo, però, tale potere statale nei confronti delle Regioni differenziate sembrerebbe ingiustificato se l’attribuzione non fosse accompagnata anche da idonee coperture finanziarie 6. In sostanza, sembra che l’incremento di funzioni ed il coordinamento con la finanza pubblica significhi che lo Stato, insieme alle competenze, permetta la specializzazione anche in termini finanziari. Il profilo da ultimo segnalato rappresenta, ovviamente, l’aspetto più problematico della questione. Da sempre ci si è chiesti se la specializzazione comportasse anche l’aumento delle risorse economiche da riconoscersi in capo alla Regione. In sostanza, appariva necessario tracciare un parallelismo tra ulteriori funzioni e mezzi di finanziamento, necessario per l’esercizio delle stesse, nel pieno rispetto dell’art. 119 Cost.. Sotto diversa angolatura, il passaggio di competenze può comportare sicuramente un risparmio per lo Stato, dal momento che esso dismette funzioni anche di rilievo; nel contempo, ciò determina anche un minor introito e, quindi, l’operazione necessita in ogni caso di un riequilibrio sotto il profilo economico. Tale aspetto necessità di particolare attenzione dal momento che l’art. 116, comma 3, Cost. permette di coniugare la specialità non al singolare, bensì al plurale, in ragione del numero delle Regioni ordinarie (ed anche 4 Su tale legame, L. MICHELOTTI, A dieci anni dalla costituzionalizzazione del regionalismo asimettrico: una mano sul freno a leva oppure un piede sull’acceleratore per l’art. 116 , terzo comma, Cost.?, in Le Regioni, n. 1-2/2012, 110 e segg.
5 In tal senso, P. SANTORO, Manuale di contabilità e finanza pubblica, Santarcangelo di Romagna, 2013, 141, nota 45, che richiama le sentenze nn. 376/2003, 57/2010, 112//2011 e 229/2011; sull’attività di controllo finalizzata al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, v. anche la recente decisione della Corte costituzionale n. 40/2014.
6 La problematica è sviluppata da M. CECCHETTI, Attuazione della riforma costituzionale del titolo V e differenzazione delle regioni di diritto comune, su http://www.federalismi.it/federalismi/document/ACFA98.pdf, pag. 10 e segg.
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speciali7) e degli ambiti materiali che potrebbero essere oggetto di specializzazione. In ragione del contenuto della norma, è facile intuire quanto sia ampio il numero di competenze che potrebbero passare dallo Stato alla Regione e, nel contempo, di quali e quante risorse economiche vengano messe in discussione al momento del passaggio. Solo per farsi un’idea, è stato evidenziato, ad esempio, che la specializzazione tentata in Lombardia nel 2007 si basava su di una preintesa con lo Stato in cui si prevedeva il trasferimento di ben dodici materie, sia di competenza esclusiva dello Stato che di competenza concorrente8. Tale passaggio comporta quindi il trasferimento delle funzioni legislativa e amministrative, accompagnate dall’attribuzione di cospicue risorse. E’ stato ad esempio calcolato che l’attuazione dell’art. 116 Cost. in quattro regioni (Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto) porterebbe ad un decentramento della spese pari circa a 15,8 miliardi di euro, soprattutto per le competenze legate all’istruzione 9. Quindi un sostanziale passaggio di consegne che necessita di un pieno finanziamento da parte dello Stato e di un riequilibrio tra centro e periferia volto ad evitare che le nuove competenze comportino spese insostenibili per le Regioni. Sotto tale profilo, è emblematica la disciplina contenuta sempre nella legge di stabilità. In essa si stabilisce una sorta di nuovo patto finanziario tra lo Stato e le province autonome di Trento e Bolzano e la Valle d’Aosta; queste, infatti, sono destinatarie del trasferimento di competenze di alcune materie e ciò viene considerato concorso al riequilibrio della finanza pubblica 10. Nel contempo, però, si riconosce alle province autonome di Trento e Bolzano la possibilità di instituire nuovi tributi, anche in deroga alla disciplina nazionale11. Appare evidente allora come maggiore autonomia e copertura finanziaria debbano necessariamente camminare di pari passo. 3. Questioni di procedura
La norma richiamata non detta un preciso metodo per ottenere la specializzazione, anche se sembra permettere l’individuazione di una corsia preferenziale. Volendola leggere congiuntamente alla disposizione costituzionale, emerge un quadro molto fluido, senza alcuna forma prestabilita. In sostanza, l’art. 116, comma 3, Cost. si 7 Sull’applicabilità di tale disposizione anche alle Regioni speciali, D. GALLIANI, All’interno del Titolo V: le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” di cui all’art. 116, comma 3, Cost. riguardano anche le Regioni a Statuto speciale?, in Le Regioni, n. 2/3, aprile-giugno 2003, 423 e segg.; in realtà, la questione è dibattuta in dottrina, come ricorda L. SALOMONI, Note in tema di problematiche attuative dell’art. 116 c. III cost. Il caso della Regione Lombardia, sul sito http://amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2010/04/salomoni.pdf, 1, nota 1.
8 Ricordano P. CIARLO e M. BETZU, Dal regionalismo differenziato al regionalismo pasticciato, in Le Istituzioni del Federalismo, 1/2008, 268, come il detto accordo prevedeva il trasferimento di dodici materie: «quelle riservate in via esclusiva allo Stato di cui alle lettere l), n) ed s) del secondo comma dell’art. 117, e altre nove estratte dalla lista delle competenze concorrenti di cui al terzo comma».
9 In tal senso, Regioni italiane e regioni federali europee: un confronto sulla spesa ante e post decentramento, in Federalismo e dintorni, 1/2011, sul sito http://osservatoriofederalismo.eu/febe/bollettino/file/11/lnk/Boll2011-01.pdf.
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limita a stabilire che, su iniziativa delle Regioni, sentiti gli enti locali 12, è possibile approvare una legge dello Stato (a maggioranza assoluta delle Camere), nel rispetto dei principi dell’art. 119 Cost. e previa intesa tra lo Stato e le Regioni. A questo punto, però, il disposto contenuto nella legge di stabilità 2014 sembra aggiungere un ulteriore tassello. Infatti, l’iniziativa legislativa spetta ovviamente al Consiglio, secondo il disposto dell’art. 121 Cost.; non sembra possibile una differente interpretazione, dal momento che, dovendo essere approvata una legge, l’iniziativa legislativa non può che spettare all’organo elettivo regionale. L’intesta invece può essere raggiunta anche dalla Giunta regionale; in questo caso, essa dovrà comunque essere siglata dietro la supervisione del Consiglio che, stante la natura dell’atto da adottare, resta comunque il referente principale 13. Ma a questo punto 10 Secondo l’art. 1, comma 515, della legge n. 147/2013, “mediante intese tra lo Stato, la regione Valle d'Aosta e le province autonome di Trento e di Bolzano, da concludere entro il 30 giugno 2014, sono definiti gli ambiti per il trasferimento o la delega delle funzioni statali e dei relativi oneri finanziari riferiti, in particolare, ai servizi ferroviari di interesse locale per la Valle d'Aosta, alle Agenzie fiscali dello Stato e alle funzioni amministrative, organizzative e di supporto riguardanti la giustizia civile, penale e minorile, con esclusione di quelle relative al personale di magistratura, nonché al Parco nazionale dello Stelvio, per le province autonome di Trento e di Bolzano. Con apposite norme di attuazione si provvede al completamento del trasferimento o della delega delle funzioni statali oggetto dell'intesa. Laddove non già attribuiti, l'assunzione di oneri avviene in luogo e nei limiti delle riserve di cui al comma 508, e computata quale concorso al riequilibrio della finanza pubblica nei termini dello stesso comma. Con i predetti accordi, lo Stato, la regione Valle d'Aosta, le province autonome di Trento e di Bolzano e la regione Trentino-Alto Adige individuano gli standard minimi di servizio e di attività che lo Stato, per ciascuna delle funzioni trasferite o delegate, si impegna a garantire sul territorio provinciale o regionale con riferimento alle funzioni i cui oneri sono sostenuti dalle province o dalla regione, nonché i parametri e le modalità per la quantificazione e l'assunzione degli oneri. Ai fini di evitare disparità di trattamento, duplicazioni di costi e di attività sul territorio nazionale, in ogni caso è escluso il trasferimento e la delega delle funzioni delle Agenzie fiscali di cui al primo periodo sia in relazione ad ambiti di materia relativi a concessioni statali e alle reti di acquisizione del gettito tributario sia con riferimento: 1) alle disposizioni che riguardano tributi armonizzati o applicabili su base transnazionale; 2) ai contribuenti di grandi dimensioni; 3) alle attività strumentali alla conoscenza dell'andamento del gettito tributario; 4) alle procedure telematiche di trasmissione dei dati e delle informazioni alla anagrafe tributaria. Deve essere assicurato in ogni caso il coordinamento delle attività di controllo sulla base di intese, nel quadro di accordi tra il Ministro dell'economia e delle finanze e i presidenti della regione Valle d'Aosta, delle province autonome di Trento e di Bolzano e della regione Trentino-Alto Adige, tra i direttori delle Agenzie delle entrate e delle dogane e dei monopoli e le strutture territoriali competenti. Sono riservate all'Amministrazione centrale le relazioni con le istituzioni internazionali. Con apposite norme di attuazione si provvede al completamento del trasferimento o della delega delle funzioni statali oggetto dell'intesa”.
11 Sempre l’art. 1 della legge n. 147/2013, stabilisce che “l'articolo 80 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, è sostituito dal seguente: «Art. 80. - 1. Le province hanno competenza legislativa in materia di finanza locale. 2. Nelle materie di competenza, le province possono istituire nuovi tributi locali. La legge provinciale disciplina i predetti tributi e i tributi locali comunali di natura immobiliare istituiti con legge statale, anche in deroga alla medesima legge, definendone le modalità di riscossione e può consentire agli enti locali di modificare le aliquote e di introdurre esenzioni, detrazioni e deduzioni… (omissis)”.
12 Sul significato dell’inciso “sentiti gli enti locali”, E. BALBONI e L. BRUNETTI, Il ruolo del CAL nell’applicazione dell’art. 116, ultimo comma, Cost., con particolare riferimento al caso della Lombardia, in Le Regioni, n. 1/2011, 205 e segg.
13 Su tale profilo, sul fatto che potrebbe esserci anche l’iniziativa del Consiglio delle autonomie locali nonché sulla possibilità di sottoporre tale iniziativa a referendum consultivo, L. SALOMONI, Note in tema di problematiche attuative dell’art. 116 c. III cost. Il caso della Regione Lombardia, cit., 4 e segg.
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sorge un ulteriore profilo, il più importante; la norma del 2013 infatti fa assumere un ruolo centrale nella vicenda al Presidente del Consiglio e al Ministro per gli affari regionali, cui spetterà gestire i rapporti con la Regione al fine di pervenire all’intesa richiamata dall’art. 116 Cost. In sostanza, oltre a formalizzare quello che in precedenza già si verificava 14, viene creata una sorta di corsia preferenziale per giungere a siglare un’intesa, in termini rapidi, con lo Stato. Ma forse la norma permette di andare anche oltre. Sembrerebbe strano, infatti, che i compiti governativi si esauriscano nella sola fase preparatoria; sembra preferibile intendere che, come avviene in alcune Regioni, l’intesa raggiunta venga poi trasformata in un progetto di legge e trasmesso al Governo per il prosieguo 15. Ma alla luce di quanto detto, si potrebbe giungere anche ad un’altra lettura del dettato costituzionale; quest’ultimo, infatti, richiede solo l’iniziativa della Regione, per cui potrebbe essere il Governo che, dopo aver stipulato l’intesa con il Consiglio (o la Giunta), presenti un d.d.l. volto a dare maggiore autonomia alla regione interessata 16. A questo punto, è evidente che l’iniziativa governativa potrebbe avere sicuramente maggiore possibilità di venire approvata in tempi celeri. Le lacune che interessano la procedura17, allora, più che costituire un limite, rappresentano invece un scelta consapevole per contemperare gli interessi di tutti gli enti coinvolti (Regioni, Stato ed Enti locali) e, nel contempo, permettono di non ingessare un iter che deve essere ispirato alla massima celerità e fluidità, coinvolgendo il governo con meccanismi acceleratori.
14 I tentativi volti all’attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., che hanno interessato le regioni Lombardia, Veneto e Piemonte, hanno visto comunque il Presidente del Consiglio ed alcuni ministri svolgere un ruolo fondamentale di raccordo tra periferia e centro; a riguardo, v. l’ampia documentazione sul sito http://www.issirfa.cnr.it/3518,46.html. Un resoconto analitico di tali iniziativa è fatto da L. VIOLINI, Le proposte di attuazione dell’art. 116, III comma, in Le Regioni, n. 2, aprile 2007, 199 e segg.
15 Com’è noto, ciò avviene in alcune regioni speciali, secondo le disposizioni previsti nei rispettivi statuti. Tale “anomalia” è evidenziata da T. MARTINES, A RUGGERI, C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 2012, 113, con riferimento agli artt. 35 T.A.A. e 26 F.V.G..
16 Come peraltro previsto nello “Schema di disegno di legge di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione approvato dal Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007”, su Le Istituzioni del Federalismo, 1/2008, 1920.
17 Ritiene invece utile una “legge-modello” statale, con riguardo, ad esempio, «alla diversa capacità di pressione di cui dispongono le Regioni ed in vista di salvaguardare al meglio quelle più deboli», A. RUGGERI, La “specializzazione” dell’autonomia regionale: se, come e nei riguardi di chi farvi luogo, sul sito http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0027_ruggeri.pdf
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4. Le prospettive solidali
Altro punto nodale è ovviamente lo spostamento di risorse dallo Stato alle regioni, le quali vedranno attribuirsi, contemporaneamente a nuove competenze, anche l’incremento della capacità di spesa. Ma la storia del regionalismo italiano insegna che l’attuazione della Costituzione, soprattutto quando riguarda il passaggio di competenze dal centro alla periferia, è animata da lunghi periodi di stasi, per cui è possibile che il passaggio di risorse non segua con altrettanta rapidità l’attribuzione di competenze. Appare allora credibile che in questa operazione siano avvantaggiate alcune Regioni, sia perché necessitano di maggior autonomia in relazione al proprio sistema economico, sia perché in grado di sostenere questo passaggio18, anche nell’attesa che lo Stato effettui il trasferimento delle risorse. In uno studio pubblicato nel 2013, è stato evidenziato, ad esempio, che nel caso di applicazione dell’art. 116 Cost. in Veneto si avrebbe uno spostamento di risorse di oltre 4 punti del Pil regionale, mentre la gestione a livello locale delle risorse avrebbe «”un effetto volano” sul Pil procapite, che potrebbe così crescere del 9,2 %» 19. In sostanza, l’aumento delle competenza determina un incremento della ricchezza regionale e, nello stesso tempo, favorisce l’erogazione di un servizio sicuramente più efficiente e più vicino alle esigenze dei cittadini in ragione della sua allocazione. Il modello di riferimento è ovviamente quello tedesco, in cui, secondo dati riportati nella stessa ricerca e risalenti al 2011, il grado di autonomia fiscale è pari al 68,8%; «in altre parole, quasi il 70% delle entrate locali sono date da tributi propri o compartecipazioni, mentre in Italia vi è ancora una componente molto forte di trasferimenti. Infatti, nello stesso anno, il grado di autonomia locale in Italia supera di poco il 43%» 20. Va però evidenziato che il federalismo a geometria variabile potrebbe portare ad un sistema a tre velocità (Regioni speciali, specializzate ed ordinarie non specializzate), con enti che si distinguono in ragione della differente ricchezza. Proprio in ragione di tale peculiarità, è necessario allora che il contenuto della legge atipica approvata secondo il meccanismo di cui all’art. 116, comma III, Cost. valorizzi anche i meccanismi di cui all’art. 119 Cost. e, in particolar modo, i commi 3 e 5. In sostanza, è utile, al fine di non aggravare eccessivamente il divario tra le regioni, creare fondi perequativi e prevedere interventi speciali. Mentre questi ultimi sono finanziati con contributi speciali del bilancio dello Stato, con i finanziamenti dell’Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali, per i primi è invece permesso modulare in modo differente le compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al territorio nazionale. Ed allora è possibile considerare che la maggiore autonomia comporti una rimodulazione di questa compartecipazione, in ragione della differente ricchezza di ogni regione. Volendo continuare il parallelismo con la Germania, si 18 La mancata attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost. è stata letta anche nel senso che le Regioni non sarebbero in grado di sostenere gli oneri delle competenze aggiuntive; in tal senso, A. CARIOLA – F. LEOTTA, Art. 116, in Commentario alla Costituzione, vol. III, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 2195.
19 Il federalismo in tempo di crisi. Analisi della spesa pubblica italiana tra riforme inattuate e politiche di riaccentramento, 2013, 82, sul sito http://osservatoriofederalismo.eu/febe/pubblicazioni/file/10/ita/QdR18_web.pdf.
20 Ult. op. cit., 17.
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permetterebbe non l’attribuzione di poteri fiscali autonomi, bensì l’incremento della compartecipazione ai tributi statali 21. E’ questo il meccanismo attuato in questo Paese, in cui si assegna il rango di principio fondamentale alla solidarietà, che si esprime per il tramite della perequazione sia in senso verticale, ovvero per mezzo della negoziazione delle quote sull’imposta, che in senso orizzontale. In particolare, l’art. 107 GG prevede al comma 2 che “la legge deve garantire un opportuno conguaglio della diversa capacità finanziaria dei Länder”. Un meccanismo quindi che permette di individuare sia i presupposti in base ai quali è possibile chiedere il conguaglio, sia gli obblighi contributivi a carico dei territori più ricchi, sia i criteri per determinare l’ammontare delle prestazioni di conguaglio22. Ma anche questa logica non comporta un sacrificio di alcuni Länder a discapito di altri. Il meccanismo prevede, oltre alla disciplina per principi contenuta nella Costituzione, sia un legge sui parametri (approvata nel 2005) sia una legge di perequazione vera e propria. Quest’ultima, approvata sulla base delle indicazioni della legge sui parametri, impone agli Stati più ricchi di mettere a disposizione di quelli più poveri una parte delle entrate finanziare; ma, giova sottolineare, «le modalità di assegnazione della perequazione vengono stabilite in modo che la differenza tra i due valori non venga annullata, perche questo obiettivo sacrificherebbe gli enti erogatori» 23. In sostanza, un sistema flessibile, in cui lo Stato centrale, in forza delle previsioni costituzionali, svolge un ruolo di finanziatore e regolatore, soprattutto nel caso di particolare necessità o di contestazioni che potrebbero provenire dai Länder più ricchi. Anche in Italia, allora, andrebbe valorizzato sia questo principio che questo meccanismo. Ma è possibile ricavare dalla Costituzione l’esistenza di questo obbligo di solidarietà al momento della specializzazione ex art. 116 Cost.? 5. Le indicazioni della Corte costituzionale
La Corte ovviamente gioca un ruolo fondamentale in questa materia. Nei paesi del federalismo fiscale solidale, il compito attribuitole consiste sia nello svolgere un’actio finium regundorum tra le competenze della federazione e quelle degli enti territoriali, sia di individuare la natura delle imposte24, in relazione sempre alla previsione costituzionale. La Consulta ha svolto, dopo la riforma del titolo V, un’opera attenta in merito alla perequazione regionale. In particolare, i principi cardine individuati sono molto puntuali. 21 L. ANTONINI, Impariamo dal federalismo tedesco, su Il Sole 24 ore del 12 agosto 2012. 22 Così riassume il contenuto dell’art. 107, comma 2, della Costituzione tedesca, A. DE PETRIS, Il federalismo fiscale nella Repubblica Federale di Germania, sul sito http://www.astrid-online.it/rassegna/Rassegna-27/26-062009/DePetris_Il-federalismo-fiscale-nella-Repubblica-Federale-di-Germania-Bologna-_2_.pdf, 14.
23 G. G. CARBONI, Federalismo fiscale comparato, Napoli, 2013, 124.
24 G. G. CARBONI, Federalismo fiscale comparato, cit., 96.
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Preliminarmente, è stato sottolineato che gli interventi statali volti a rimuovere gli squilibri tra le Regioni devono avvenire secondo le modalità fissate dall’art. 119, quinto comma, Cost.25. Da questa affermazione, è stato dedotto «l’implicito riconoscimento del principio di tipicità delle ipotesi e dei procedimenti attinenti alla perequazione regionale, che caratterizza la scelta legislativa di perequazione “verticale” effettuata in sede di riforma del Titolo V della Costituzione»26. Di contro, la Corte nella sentenza n. 176/2012 ha escluso che possa avere ingresso nel nostro ordinamento la c.d. perequazione orizzontale, basandosi proprio sul disposto dell’art. 119, comma 3, Cost.; sottolinea la Consulta che «l’analisi letterale e sistematica della norma impugnata porta dunque a concludere che essa non si limita ad autorizzare la spendita dei fondi integrativi dei contributi comunitari in deroga alle prescrizioni del patto di stabilità, ma attribuisce piuttosto le conseguenze finanziarie di tale disposizione allo Stato e alle altre Regioni, al fine di assicurare il rispetto della clausola di invarianza dei tetti. È proprio questa “chiamata in solidarietà”, lamentata dalle ricorrenti, che rende concretamente possibile ed attuabile la deroga contenuta nel comma 1 dell’art. 5-bis, gravando dei correlati oneri non solo lo Stato ma anche le altre Regioni», puntualizzando che «la disposizione impugnata non è comunque riconducibile alle ipotesi di cui all’art. 119 Cost., poiché detta norma e quelle attuative sono esplicite nello stabilire che gli interventi perequativi e solidali devono garantire risorse aggiuntive rispetto a quelle reperite per l’esercizio delle normali funzioni e che tali risorse devono provenire dallo Stato» 27. In sostanza, non si ammette alcuna forma di ausilio al di fuori delle ipotesi e del procedimento previsto dalla norma costituzionale né, a quanto pare, alcuna forma di perequazione orizzontale. In realtà, la norma costituzionale nulla dice al riguardo, per cui, non sussistendo alcun limite, sembra che tale strada sia percorribile 28. Anzi, va aggiunto che nel 2007, il Governo Prodi aveva presentato un DDL per l’attuazione dell’art. 119 Cost.; nel testo licenziato il 3 agosto 2007, era stato inserito l’art. 17-bis, secondo il quale “con la legge con cui si attribuiscono, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, forme e condizioni particolari di autonomia ad una o più Regioni (ordinarie), si provvede, altresì, all’assegnazione delle necessarie risorse finanziarie, che devono derivare da tributi propri o da compartecipazioni a tributi erariali riferiti al territorio regionale, in
25 C. cost., 6 novembre 2009, n. 284, in Giur. cost., 2009, 4412.
26 C. cost., 6 luglio 2012, n. 176, in Giur. cost., 2012, 2608.
27 C. cost., 6 luglio 2012, n. 176, cit., 2607-2608.
28 J. DI GESÙ, La Corte respinge la «chiamata in solidarietà» fra Regioni e la perequazione orizzontale, in Giur. cost., 2012, 2617.
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conformità all’articolo 119 della Costituzione e tenuto conto delle esigenze di perequazione in favore dei territori con minore capacità fiscale” 29. In sostanza, la disposizione considerava sia le problematiche connesse al finanziamento delle funzioni trasferite che, sotto altro profilo, la necessità di tenere in considerazione i territori svantaggi, per il tramite della perequazione.
6. La prova del nove Dall’analisi svolta è emerso che le procedure di specializzazione sono prive di una particolare forma; di contro, esse devono avere un contenuto, sotto certi aspetti, quasi obbligato, dal momento che devono ispirarsi al principio di solidarietà e permettere una sorta di perequazione pseudo-orizzontale. Ma soprattutto si può evidenziare che tra l’art. 116, comma III, Cost. e l’autonomia finanziaria, letta in un ottica di vincolo solidale tra Regioni, vi è un legame inscindibile che non potrà che essere tenuto in attenta considerazione al momento in cui si giungerà alla creazione di Regione specializzate. Ancora una volta, allora, sembra che il procedimento nella sua completezza avrà si la Regione come principale interlocutore, ma dovrà necessariamente passare attraverso l’attività di snodo svolta dal Governo, cui spetterà, secondo quanto sopra evidenziato, sia il compito di coordinare e promuovere avanti il Parlamento le istanze di maggior specializzazione provenienti dalle Regioni, sia di verificare il rispetto dei vincoli contabili e del principio solidaristico. In tal modo, il Governo, che nel dettato costituzionale poteva apparire uno spettatore inerte nei confronti degli accordi che venivano stipulati tra Parlamento e Regioni, assume il ruolo di regista nell’iter di specializzazione. Sicuramente esso svolge un ruolo di garanzia e di raccordo, ma anche di responsabile del procedimento, nei confronti del quale poter agire per il tramite del conflitto Stato-regioni nel caso di inerzia. La norma contenuta nella legge di stabilità, infatti, individua comunque un organo che entro termini brevi deve attivarsi, per cui l’eventuale omissione permette il ricorso allo strumento del conflitto intersoggettivo, con un sistema di tutela che la norma costituzionale sicuramente non permetteva di individuare. Resta comunque il dato di fondo, rilevato da un’attenta dottrina, che il nuovo imput all’attuazione dell’art. 116, comma III, Cost., nasce in ogni caso dall’insoddisfazione per il modo in cui è stato attuato il Titolo V 30; ma, ancora una volta, esso è solo un tentativo di correggere dei malfunzionamenti per i quali, in ogni caso, la via maestra resta quella delle riforme costituzionali, a questo punto non più procrastinabili. A riguardo, desta non poche perplessità la riforma in discussione in Parlamento che prevede la soppressione dell’art. 116, comma 3, Cost. Tale scelta è criticabile sotto due profili. Da un lato, infatti, dopo che nel dicembre 2013 si è pensato di dare nuova linfa vitale a questa norma, nel d.d.l.
29 Su tale normativa M. BARBERO, Il disegno di legge governativo per l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione: considerazioni a prima lettura, in Le Istituzioni del Federalismo, 5/2007, 598.
30 R. BIN, “Regionalismo differenziato” e utilizzazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Alcune tesi per aprire il dibattito, in Le Istituzioni del Federalismo, 1/2008, 17.
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costituzionale n. 1429 dell’8 aprile 2014 si è pensato di chiederne l’abrogazione (art. 25 31). Da un altro, non è dato comprendere il motivo per il quale una norma mai applicata e che poteva invece essere utile per non irrigidire le competenze regionale all’interno di un unico schema e valorizzare le specificità di ogni territorio venga eliminata, quasi a volerne rimarcare l’inutilità. E’ questa una strada che fa sorgere sicuramente più di qualche perplessità e che, se letta congiuntamente all’incremento delle competenze statali indicate nella proposta di riforma dell’art. 117 Cost. 32, rappresenta sicuramente un passo indietro verso quel percorso intrapreso nel 2001 che era volto, a differenza di quello contenuto nel teso della riforma costituzionale in discussione, a valorizzare e specializzare le regioni, secondo scelte che tuttora appaiono sicuramente condivisibili. ** Ricercatore di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Teramo
31 Molti sono peraltro gli emendamenti che invece mirano al mantenimento o alla parziale modifica della norma, sempre nel senso della continuità con il testo vigente; gli emendamenti possono essere letti alla pagina http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/testi/44283_testi.htm.
32 A ciò è da aggiungere che sempre l’art. 26 del d.d.l., che modifica l’art. 117 Cost., introduce una sorta di delega della funzione legislativa che lo Stato può attribuire alle Regioni in alcune materia.
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Un’altra cerniera tra giurisdizioni statali e Corti sovranazionali? L’introduzione della nuova funzione consultiva della Corte di Strasburgo da parte del Protocollo n. 16 CEDU* di Giusi Sorrenti** (8 luglio 2014)
SOMMARIO: 1.1. Il parere consultivo: nato per la sussidiarietà, potrebbe ritorcersi contro di essa... - 1.2. … secondo la posizione prescelta tra le due opzioni interpretative in campo. - 2. Il principale pericolo per la sussidiarietà (l’obiezione che il parere si trasformi in un’anticipazione del ricorso individuale) e il suo superamento. - 3. Gli argomenti decisivi a favore della strumentalità del parere nei confronti della causa nazionale pendente. - 4. Impiego legittimo e natura dell’advisory jurisdiction. - 5.1. Conclusioni: Prot. n. 16 e rispetto della sussidiarietà. - 5.2. Prot. n. 16 ed effetto deflattivo. - 5.3. Prot. n. 16 e dialogo tra le Corti .
1. Il parere consultivo: nato per la sussidiarietà, potrebbe ritorcersi contro di
essa L’adozione del Protocollo n. 16 sull’introduzione della procedura di parere consultivo in capo alla Corte di Strasburgo fa già molto discutere, prima ancora che esso entri in vigore, né che si sappia se ciò mai accadrà, posto che l’acquisizione di efficacia è subordinata dall’art. 8, par. 1 alla ratifica effettuata da dieci Alte Parti contraenti e nessuna ratifica è fino a questo momento sopraggiunta. Il dibattito pertanto, allo stadio attuale, si muove ancora tanto sul piano esterno al Protocollo, o de iure condendo, che concerne l’opportunità politica di introdurre un simile congegno, quanto sul piano interno, o de iure condito (presupponendo l’entrata in vigore dell’atto), concernente l’analisi della natura e della funzionalità dell’istituto come pensato dai suoi ideatori. In queste osservazioni, non ci si occuperà del punto di vista esterno o critico nei confronti degli autori del documento, ma ci si muoverà esclusivamente sul secondo piano indicato. A questo livello, diversi sono i profili discussi del nuovo istituto: tra essi un posto di rilievo occupa il confronto con la procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE, che, sebbene abbia potuto ispirare la previsione della nuova competenza, tuttavia occorre tenere distinta da quest’ultima, date le differenze radicali che connotano i rapporti instaurati tra le rispettive giurisdizioni sovranazionali e le giurisdizioni domestiche nell’ordinamento U.E., da una parte, ed in quello convenzionale, dall’altra; altresì, grande importanza assume la determinazione degli effetti da annettere al
* Contributo destinato agli Atti del Convegno su La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 CEDU, svoltosi a Milano-Bicocca il 10 marzo 2014, a cura di E. Lamarque, in corso di stampa per i tipi della Giuffrè.
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parere reso dalla Corte edu a conclusione della procedura, posto che esso è espressamente previsto come non vincolante 1. Lo specifico profilo problematico oggetto della presente analisi ‒ che costituisce una delle incertezze principali e di più urgente risoluzione tra quelle emergenti dalla lettura del Protocollo ‒ consiste però nel corretto modo di intendere la relazione che intercorre tra la procedura di parere consultivo richiesto alla Corte edu e la proposizione del ricorso individuale: diversi elementi, contenuti nel testo del Protocollo e negli atti che ne hanno accompagnato o seguito la stesura, concorrono infatti a rendere particolarmente oscuro questo aspetto. La sua compiuta comprensione è tuttavia determinante per assicurare la salvaguardia di uno dei tratti costitutivi del sistema di protezione Cedu dei diritti umani, id est il principio di sussidiarietà, come criterio che presiede all’azione della Corte di Strasburgo quale giurisdizione esclusiva di controllo del rispetto degli obblighi convenzionali da parte degli Stati aderenti. Tra i suddetti elementi, precisamente, vengono in considerazione: 1) la disposizione di cui all’art. 1, par. 2, Prot. n. 16, a norma della quale la facoltà di richiedere pareri potrà essere esercitata esclusivamente nell’ambito di una causa pendente davanti alle più alte giurisdizioni; 2) la preoccupazione ‒ emergente dal Documento di riflessione sulla proposta di estendere la competenza consultiva della Corte2 ‒ che la sua introduzione possa incidere negativamente sulla lunghezza dei giudizi interni; 3) l’affermazione, rinvenibile nel Rapporto esplicativo che ha accompagnato l’adozione del Protocollo, secondo cui detti pareri «s’inseriranno tuttavia nella giurisprudenza della Corte, accanto alle sue sentenze e decisioni. L’interpretazione della Convenzione e dei suoi protocolli contenuta in tali pareri consultivi è analoga negli effetti agli elementi interpretativi esposti dalla Corte nelle sue sentenze e decisioni» 3. 1 Art. 5, Prot. n. 16: «I pareri consultivi non sono vincolanti». 2 V. Reflection Paper on the Proposal to Extend the Court’s Advisory Jurisdiction, rinvenibile in http://www.coe.int/t/dgi/brighton-conference/documents/Court- Advisory- opinions_en.pdf, parr. 11 e 12. 3 Il Rapporto esplicativo è disponibile in http://www.echr.coe.int/Documents/Protocol 16 explanatory report ENG.pdf, punto 27 (commento all’art. 5) (trad. mia). Da notare che l’equiparazione degli effetti del parere è prevista rispetto agli “elementi interpretativi” contenuti nelle pronunce della Corte edu. Sugli effetti in generale di tali pronunce, invece, v. B. RANDAZZO, Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo: effetti ed esecuzione nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, a cura di N. Zanon, Napoli, ESI, 2006, 295 ss.; E. CANNIZZARO, Il bilanciamento fra diritti fondamentali e art. 117, 1 o comma, Cost., in Riv. dir. internaz., 2010, 128 ss. e M. LAZAROVA TRAJKOVSKA, Ways and means to recognize the interpretative autority of judgement against other States, discours prononcé lors de la conférence sur “The principle of subsidiarity” tenue à Skopje , 1-2 ottobre 2010, in Contribution to the Conference on the Principle of Subsidiarity, rinvenibile in http://www.assembly.coe.int/CommitteeDocs/2010/20101125_skopje.pdf e, da ultima, D. TEGA, International constitutionalism and human rights: the erga omnes effects of the ECtHR decisions and the national legal system, relazione al Panel “The Europe of Courts” tenutosi nell’ambito della Conferenza inaugurale dell’ICON·S “Rethinking the Boundaries of Public Law and Public Space”, Firenze 26-28 giu.
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1.1. … secondo la posizione prescelta tra le due opzioni interpretative in campo È evidente, dinanzi a questo scenario, come si ponga all’interprete una prima basilare opzione tra due ipotesi di lettura alternative: a) se il parere possa essere impiegato già dalle più alte giurisdizioni per la definizione del giudizio pendente dinanzi ad esse4 (giustificandosi perciò la sospensione di quest’ultimo) ovvero b) se il chiarimento della questione interpretativa fornito dalla Corte debba spiegare i suoi effetti solo pro futuro, senza incidere sul processo che pende dinanzi all’autorità giurisdizionale richiedente (di cui dunque non si giustificherebbe la sospensione). Resta fermo che, anche ad accedere alla prima ipotesi, in nessun caso la risoluzione della controversia deferita all’alta giurisdizione nazionale dovrebbe costituire l’oggetto diretto della richiesta di advisory opinion formulata dal giudice domestico, posto che questa risulterebbe altrimenti, com’è desumibile in modo inequivocabile dall’art. 1, par. 1, Prot. n. 16, irricevibile. Ancora più esplicitamente allora, il dubbio che si pone consiste nel chiedersi: a1) se dalla risoluzione della questione interpretativa generale data dalla Corte di Strasburgo l’alta giurisdizione interpellante possa da subito ricavare indicazioni per la decisione della controversia pendente o b1) se possa avvalersene (unitamente alle altre istanze giurisdizionali) solo per decidere in futuro casi analoghi, assumendo il giudice interno solo il ruolo di evidenziare potenziali problemi interpretativi ancora insoluti nella giurisprudenza di Strasburgo ed il caso pendente dinanzi ad esso mero valore esemplificativo della loro sussistenza. Per districare il nodo delle previsioni e delle indicazioni sul profilo segnalato, che appaiono a prima lettura contraddittorie, e tentare di chiarire in maniera quanto più possibile soddisfacente l’apparente enigma, occorre assumere, come punto di partenza dell’indagine e quale criterio-guida essenziale nella comprensione della nuova procedura, l’allarme che il Report of the Group of Wise Persons presentato al Comitato dei Ministri 5 ha lanciato, avvertendo le istituzioni del Consiglio d’Europa dell’esplosione di ricorsi dinanzi alla Corte edu, fenomeno in grado di incidere in maniera gravemente negativa sul funzionamento del sistema convenzionale. Il Gruppo dei Saggi ‒ istituito ai sensi del Piano di Azione adottato al Terzo Vertice dei Capi di Stato e di Governo degli 2014, in paper.
4 Posto che, ai sensi dell’art. 1, par. 2, Prot. n. 16, «La giurisdizione che presenta la domanda può chiedere un parere consultivo solo nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad essa ». 5 Reso nel corso del Meeting 979bis, CM(2006)203, il 15 Novembre 2006 e rinvenibile in https://wcd.coe.int/ ViewDoc.jsp? id=1063779&Site=CM.
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Stati Membri del Consiglio d’Europa (Varsavia, 16-17 maggio 2005) «per esaminare la questione dell’efficacia a lungo termine del meccanismo di controllo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» ‒ ha concluso precisamente che «sarebbe utile introdurre un sistema in virtù del quale le autorità giudiziarie interne possano richiedere pareri consultivi della Corte su questioni giuridiche relative alla interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, al fine di promuovere il dialogo tra le autorità giudiziarie e di potenziare il ruolo “costituzionale” della Corte. Le richieste di parere, che sarebbero presentate solo dalle corti costituzionali o dalle giurisdizioni di ultima istanza, sarebbero sempre facoltative e i pareri emessi dalla Corte non sarebbero vincolanti». È in conformità alla ricercata finalità deflattiva 6 poi che, facendo seguito alle High-level Conferences di Izmir e Brighton sul futuro della Corte (rispettivamente del 26-27 aprile 2011 e del 19-20 aprile 2012) 7, il richiamato Reflection Paper ha delineato gli obiettivi e le implicazioni della procedura, differenziandola nettamente dalla funzione consultiva già esistente ai sensi degli artt. 47-49 CEDU8. In nome della stessa finalità la Steering Committee for Human Rights del Consiglio d’Europa ha ricevuto infine l’incarico di redigere il documento, oggi concretizzatosi nel testo del Protocollo n. 16, pubblicato il 31 ottobre 2012 e aperto alla firma il 2 ottobre dell’anno successivo. Ma a questa finalità pratica ‒ e in stretta concordanza con essa ‒ se ne aggiunge un’altra, che è quella di ridurre l’intervento che la Corte effettua nell’ambito della giurisdizione contenziosa, riaffermando la primarietà degli Stati 6 «Among the proposed new filtering mechanisms to alleviate the Court from its overflowing docket was the introduction of “advisory opinions” which the domestic courts could request from the ECtHR. This new procedure was intended not only to strengthen the judicial dialogue between the domestic courts and Strasbourg, but also to emphasise the Contracting Parties’ primary responsibility to protect human rights thus relieving the ECtHR from further surges in individual applications»: P. GRAGL, (Judicial) Love is Not a One-Way Street: The EU Preliminary Reference Procedure as a Model. For ECtHR Advisory Opinions under Draft Protocol No. 16, in Eur. Law Rev., (38)2013, 2.
7 Su cui v. B. CONFORTI, Osservazioni sulla Dichiarazione di Brighton, in DUDI, 3/2012, 649 ss.; G. RAIMONDI, La Dichiarazione di Brighton sul futuro della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.rivistaaic.it, n. 3/2012, 25 sett. 2012 (che si sofferma in particolare sulle proposte elveticobritanniche, richiamando la sunset clause ovvero la perenzione dei giudizi allo spirare di un certo lasso temporale); F. TULKENS, La Cour européenne des droits de l'homme et la Déclaration de Brighton: oublier la réforme et penser l'avenir, in CDE, 2012, 305 ss.; R. SAPIENZA, L’equilibrio fra ricorsi interni e ricorsi internazionali nel processo di riforma del sistema della Convenzione europea dei diritti umani dopo la Dichiarazione di Brighton, in www.sioi.org/media/Rivista%20/, 2013, 309 ss.; C. ZANGHÌ, I progetti di protocolli 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. coop. giur. int., 2013, 24 ss. 8 Procedura sottoposta a limiti talmente restrittivi da essere stata impiegata fino ad oggi in uno sparuto numero di casi.
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nel perseguimento del compito di protezione dei diritti con rispetto per gli obblighi internazionali9. La consulenza d’interpretazione richiesta, infatti, esplica un ruolo di orientamento nei confronti dei Paesi contraenti, che consente di riportare nell’ambito degli ordinamenti nazionali la tutela giuridica dei diritti, assicurando che questi rispettino da sé, fisiologicamente, la Convenzione, senza ricorrere al controllo esterno affidato ai giudici europei. Precisamente, nella Dichiarazione finale della Conferenza di Izmir si afferma che l’introduzione dell’advisory opinion «would help clarify the provisions of the Convention and the Court’s case-law, thus providing further guidance in order to assist States Parties in avoiding future violations». Lo strumento progettato, quindi, si inserisce appieno entro lo schema della sussidiarietà che presiede al coordinamento tra sistema di protezione dei diritti nazionale e sistema di protezione dei diritti convenzionale 10. L’istituzione di una simile funzione mira anzi a rafforzare tale schema e non al contrario a indebolirlo o incrinarlo, come potrebbe pensarsi dinanzi ad una procedura che metta la Corte di Strasburgo in condizione di dialogare con i giudici nazionali nel corso della definizione di controversie nazionali in cui è in gioco la tutela dei diritti. Una conferma squisitamente procedurale dell’intento di ribadire il ruolo primario vantato dagli Stati nella materia è ad esempio desumibile dalla natura squisitamente facoltativa della richiesta di parere consultivo, nonché correlativamente dalla possibilità per l’autorità che ha emesso la richiesta di ritirarla successivamente11. A fronte delle intenzioni di sottolineare il compito primario e “in prima battuta” di garanzia dei diritti spettante agli Stati e di riservare alla Corte edu un ruolo di controllo esterno, successivo ed eventuale delle violazioni che residuano del testo convenzionale, è innegabile che l’istituzionalizzazione di una possibilità di intervento della Corte simultanea e parallela alla definizione di giudizi, se non correttamente intesa ed attuata, rischia di proiettare l’attività dei giudici europei all’interno della sfera di dominio degli Stati, alterando la stessa logica della sussidiarietà. 9 «As the Report of the Group of Wise Persons already indicated in 2006, the overall objective and purpose of this new procedure is to underline the paramount importance of the Contracting Parties’ highest courts in applying the Convention. The advisory opinion thence represents the first step towards a further institutionalisation of the links and contacts between the domestic courts and the Strasbourg Court»: P. GRAGL, (Judicial) Love, cit., 5.
10 N. SUDRE, La subsidiarité, «nouvelle frontière» de la Cour européenne de droits de l’homme. A propos de protocoles 15 e 16 à la Convention, in La semaine juridique, octobre 2013, 1912 ss. 11 «The aforementioned courts “may” request the Strasbourg Court to give advisory opinions. This means that the initiation of this new procedure is entirely optional for the national courts and in no way obligatory, which is, again, in accordance with the principle of subsidiarity. In addition, the requesting courts may also withdraw their requests»: P. GRAGL, (Judicial) Love, cit., 5 (tondo testuale).
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Ciò premesso, la posta in gioco delle due opzioni è presto definita: l’ipotesi sub a)-a1) risponde senz’altro meglio alla finalità di alleggerire il carico di lavoro della Corte edu, ma rischia di alterare la natura sussidiaria e dunque necessariamente successiva ed eventuale della giurisdizione di tale Corte, permettendo una sostanziale interferenza del parere con la decisione della controversia pendente, oltre che di rallentare i processi interni; l’ipotesi sub b)b1) non interferisce sulla collocazione sussidiaria dell’intervento della Corte edu, ma tuttavia indebolisce la funzione deflattiva, presupponendo che la più alta giurisdizione decida all’oscuro del parere, e sembra in un certo senso incoerente ed irrazionale. Non si vede infatti perché rischiare, dato che ci si trova dinanzi alle “più alte giurisdizioni”, di pervenire ad una decisione che risulti in contrasto con la Convenzione, nell’interpretazione di lì a poco datane dai giudici di Strasburgo, esponendosi, proprio per la decisione adottata in quello stesso giudizio, ad un ricorso individuale.
2. Il principale pericolo per la sussidiarietà: l’obiezione che il parere si
trasformi in un’anticipazione del ricorso individuale e il suo superamento Il sistema convenzionale di tutela dei diritti umani sembra possedere anticorpi abbastanza robusti per evitare che la logica della sussidiarietà che lo governa possa essere snaturata dall’introduzione del nuovo meccanismo di advisory jurisdiction. A ben vedere i rischi maggiori per la sussidiarietà provengono da un uso da parte delle alte giurisdizioni che, attraverso un quesito generale e di principio sull’interpretazione di un diritto sancito nella Cedu, mirino a ricavare una risposta della questione di diritto pendente dinanzi ad esse, così facendo assumere alla nuova competenza il carattere sostanziale di un doppione del ricorso individuale, con la sola differenza che (oltre a non essere sollecitata dagli individui interessati) essa opererebbe prima del compiuto esaurimento dei rimedi interni. Si sarebbe in questo caso di fronte ad una sorta di ricorso preventivo 12: un parere cioè richiesto da una giurisdizione superiore nel corso di una causa per decidere la controversia pendente secondo gli standard di tutela dei diritti controversi pretesi a Strasburgo, evitando che le parti insoddisfatte possano agire in sede sovranazionale dopo l’esaurimento delle vie giudiziarie interne. Questo utilizzo, peraltro – è stato notato – finirebbe, in particolare se fatto proprio dalla Corte costituzionale 13, per atrofizzare l’uso dello strumento stesso, 12 Del rischio di un impiego dello strumento come ricorso «in prevenzione» parla R. CONTI, I giudici ed il biodiritto, Roma, Aracne, 2013, 161. 13 Spetta ai governi indicare quali siano le “più alte giurisdizioni” abilitate a richiedere pareri consultivi, al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di
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in quanto non rientrerebbe nell’orientamento elaborato fino a questo momento dalla stessa Corte al fine di delineare i rapporti con la giurisprudenza dei giudici europei, tutto teso a mantenere margini di azione in capo al giudice delle leggi senza però entrare in scontro frontale con la Corte di Strasburgo 14. Tuttavia, un simile timore può essere fugato molto facilmente sulla base di considerazioni normative, sia sostanziali che processuali. Da una parte infatti il paventato utilizzo del parere al fine di sottoporre l’accertamento di una presunta violazione dei diritti umani alla cognizione della Corte edu contraddirebbe la ratio del meccanismo di advisory jurisdiction, posto che il Prot. 16 esclude che esso possa essere sollecitato per decidere controversie concrete: tale impiego esulerebbe dunque dalla configurazione normativa voluta per il meccanismo di nuova ideazione e ne costituirebbe, più che uno snaturamento, un uso indebito. Dall’altra, e in stretta connessione con il primo aspetto, la Corte avrebbe facile gioco nello stroncare sul nascere un simile impiego, in quanto non ad altri che ad essa spetta la valutazione preliminare sulla rispondenza delle richieste di parere al modello normativo prefigurato, e tale valutazione non potrebbe che concludersi nell’ipotesi in esame nel senso della irricevibilità 15: come si vede, un argomento molto pragmatico, legato al fatto che non vi sono altri organi di controllo collocati al di sopra della Corte stessa e che ad essa compete dunque, come statuisce l’art. 32 Cedu, l’interpretazione autentica della Convenzione europea e dei Protocolli annessi ad essa. Considerando questo argomento, risulta assolutamente fuorviante, come è stato notato16, la formula «interpretazione o applicazione» dei diritti e delle libertà sanciti dall’accordo del 1950 prescelta nella stesura del Protocollo all’atto di identificare l’oggetto in merito al quale il parere consultivo può essere richiesto, laddove infatti l’uso della disgiuntiva “o” sembra preludere alla possibilità che, pur risultando chiaro ed in equivoco il dettato convenzionale che definisce il diritto o la libertà in questione, i problemi sorgano dall’applicazione approvazione, attraverso una dichiarazione indirizzata al segretario Generale del Consiglio dì Europa (art. 10, Prot. n. 16). 14 L’osservazione è di O. POLLICINO, che esprime un’opinione favorevole all’inclusione del giudice delle leggi tra le giurisdizioni indicate nell’art. 1, par. 1, Prot. n. 16: La Corte costituzionale è un’”alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in www.forumcostituzionale.it, 2 apr. 2014.
15 A norma dell’art. 2, par. 1, «Un collegio di cinque giudici della Grande Camera decide se accogliere la richiesta di parere consultivo rispetto all’articolo 1».
16 V. V. ZAGREBELSKY, Intervento al presente Convegno, 3 del paper.
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ad uno specifico caso (con necessità di invio dell’intero fascicolo della causa pendente davanti all’alta giurisdizione nazionale per ricostruirne gli esatti contorni). Infatti, in una simile eventualità – resa, si ripete, possibile dalla formulazione inappropriata del Protocollo – il rilascio del parere, se effettuato dalla Corte, equivarrebbe a risoluzione del caso, incorrendo nel divieto implicito nello stesso art. 1 Prot. n. 16, che consente il deferimento di quesiti relativi esclusivamente a «questioni di principio». Per evitare simile contraddizione sarà indispensabile imputare l’opzione per la disgiuntiva al posto della congiunzione “e” ad un lapsus calami dei redattori dell’atto (come suffragato peraltro dall’esclusivo uso della “o” nel corso dei lavori preparatori). È’ chiaro quindi che è escluso un certo ipotetico sbocco del nuovo strumento: vale a dire un uso “anticipatorio”, che “attrae” nel corso di una causa nazionale pendente la risposta che la Corte europea potrebbe dare ove fosse chiamata a pronunciarsi sulla medesima controversia, una volta esauriti, in ipotesi in maniera insoddisfacente, i rimedi interni. Come si diceva, sgombra il campo da questa eventualità tanto la configurazione normativa del congegno, quanto, in maniera tranchante, la irrimediabile irricevibilità, dichiarata dalla Corte, cui un simile uso della richiesta di parere andrebbe incontro. Il primo punto fermo è dunque fissato: l’advisory opinion non può essere invocata per dare risposta al caso oggetto della controversia inerente i diritti umani in corso dinanzi alla (alta) giurisdizione nazionale, perché si stravolgerebbe il preciso ordine a posteriori di intervento del sistema Cedu – ai sensi dell’art. 35, par. 1 – che si colloca dopo l’esame dei ricorsi giudiziari interni e nell’eventualità del loro fallimento. Una decisione del singolo caso sub iudice contenuta nel parere, in breve, tradirebbe il principio di sussidiarietà. Sintetizzando al massimo, sono esclusi i due estremi opposti dell’ideale arco di possibilità lungo il quale il nuovo congegno può oscillare: sia la funzione di decisione di un concreto episodio di violazione (ossia pur sempre una risposta di individual justice, ma temporalmente anticipata rispetto al momento che segue all’esaurimento delle vie interne), sia la funzione generale, di carattere prettamente costituzionale, di interpretazione dei principi della Convenzione al fine di valutare la compatibilità con essi di leggi statali vigenti, ma in maniera astratta, a prescindere dalle esigenze di applicazione di tali leggi a casi concreti. Che questa forma di advisory jurisdiction della Corte edu non sia atta a rendere consulenze in astratto su specifiche leggi vigenti negli ordinamenti dei Paesi membri, si deve alla circostanza per cui questo significherebbe condizionare in una qualche misura la risoluzione dei casi che le potranno essere in futuro prospettati in relazione alle violazioni discendenti dall’applicazione della medesima legge17. Come si legge infatti nel Rapporto esplicativo, «the procedure is not intended, for example, to allow for abstract review of legislation which is not to be applied in that pending case»18.
17 Come ribadito da V. ZAGREBELSKY, «la Corte non vuole che un parere, scisso dalla piena conoscenza del dettaglio del caso concreto, pregiudichi le decisioni di casi concreti» (Intervento, cit., 4).
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3. Gli argomenti decisivi a favore della strumentalità nei confronti della causa pendente Rimane da chiarire però se l’opinion rilasciata dalla Corte sulla questione di principio e non sul singolo caso possa poi essere tenuta in considerazione dallo stesso giudice superiore richiedente. La trattazione di questo problema può essere scissa in due profili. Innanzitutto il fatto stesso di chiedersi se l’opinion possa essere presa in considerazione presuppone che essa sopraggiunga nelle more del processo e che dunque questo sia sospeso, posticipandosene la decisione all’esercizio della nuova funzione consultiva da parte dei giudici europei. Dalla documentazione della riflessione che ha accompagnato l’adozione del Prot. n. 16 risulta che si era manifestata la preoccupazione per l’allungamento della durata dei processi celebrati dinanzi ai giudici nazionali 19, dato questo che depone chiaramente nel senso della sospensione. La perplessità è stata in parte superata o almeno minimizzata considerando che la procedura non è accessibile per tutti i giudizi, ma solo per quelli che sono giunti dinanzi a istanze giurisdizionali superiori che i Governi hanno indicato come abilitate ad avvalersene20, e ulteriormente che, proprio in ragione di ciò, i processi sono già giunti al loro stadio finale. La sospensione pone poi spinosi problemi in relazione alle domande di parere provenienti dalla Corte costituzionale 21, soprattutto quando della richiesta ci si avvalga nel corso dell’esercizio di specifiche competenze dell’organo costituzionale di controllo22. 18 Rapporto esplicativo, cit., punto 10 (commento all’art. 1, par. 2).
19 Reflection Paper on the Proposal to Extend the Court’s Advisory Jurisdiction, cit., parr. 11 e 12. In generale, sulla serietà del tema, sia consentito rinviare a G. SORRENTI, Giustizia e processo nell’ordinamento costituzionale, Milano, Giuffré, 2013, spec. 197 ss. La preoccupazione si era posta unitamente a quella relativa all’ulteriore aggravio del sovraccarico di lavoro della Corte edu derivante dall’introduzione della procedura di advisory jurisdiction: Reflection Paper, cit., par. 13. Condivide tale ultimo timore F. VECCHIO, Le prospettive di riforma della Convenzione europea dei diritti umani tra limiti tecnici e “cortocircuiti” ideologici, in www.rivistaaic.it, Osservatorio, nov. 2013, 7 s. 20 Al momento della firma o del deposito dello strumento di ratifica (art. 10, Prot. n. 16).
21 Sulla inclusione della Corte costituzionale tra le “alte” giurisdizioni cui fa riferimento l’art. 1, par. 1, Prot. n. 16, v. O. POLLICINO, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in www.forumcostituzionale.it, 2 apr. 2014, 1 ss.
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Dirimente però è il secondo profilo problematico perché, a seconda della risposta che si dia ad esso, automaticamente troverà soluzione anche il quesito circa la sospensione dei processi (e si potranno eventualmente fronteggiare gli inconvenienti che nascono dalla sua ammissione). Questo secondo aspetto attiene propriamente all’ammissibilità di una configurazione del parere come dotato di carattere strumentale, anche indiretto, rispetto al giudizio nazionale pendente, senza che ciò comporti alterazione della concezione sussidiaria del sistema di protezione dei diritti di matrice Cedu. La compatibilità tra detta strumentalità rispetto alla decisione della singola controversia nel corso della quale l’advisory opinion viene sollecitata e il principio di sussidiarietà è infatti dubbia o quantomeno altamente problematica. Ed è infatti proprio questo alto tasso di problematicità che spinge a sostenere che il parere in alcun modo debba rivelarsi funzionale alla decisione della controversia interna nell’ambito della quale è richiesto, proponendosi che sia mantenuta una «divaricazione netta tra la dimensione consultiva propria del parere e quella contenziosa del ricorso individuale a Strasburgo»23. Indubbiamente, infatti, se il parere dovesse avvicinarsi alla decisione del ricorso individuale, sfumando così ogni distinzione tra advisory jurisdiction e individual justice, ne risulterebbe inficiata la logica per cui la tutela dei diritti umani spetta primariamente agli ordinamenti statali e solo in ultima battuta alla Corte edu, ovvero la logica della sussidiarietà, che è poi proprio quella che l’introduzione della nuova competenza consultiva vorrebbe tendere a corroborare. Con riferimento specifico al caso italiano, è stato anche notato che una tale sovrapposizione tra competenza consultiva e competenza contenziosa in capo alla Corte finirebbe con l’esautorare la funzione di advisory jurisdiction, almeno quella quota di essa che sarebbe esercitabile su iniziativa della Corte costituzionale italiana: dato l’orientamento di quest’ultima volto a riservarsi un margine d’azione utile a discostarsi dalla giurisdizione di Strasburgo, infatti, essa non sarebbe incoraggiata a chiedere un parere che, se confermato nella propria sentenza, implicherebbe azzeramento di tali spazi di manovra e, se disatteso, renderebbe manifesto un dissenso aperto dalla giurisprudenza di Strasburgo 24. Tuttavia, se innegabilmente occorre tenere distinta l’attività di advisory jurisdiction dalla decisione contenziosa del ricorso individuale, non è detto che il conseguimento di un simile risultato imponga necessariamente l’inutilizzabilità istituzionale del parere ai fini della risoluzione della causa pendente dinanzi all’alta giurisdizione che ha presentato la richiesta. Non è escluso in altri termini 22 Per es. nel giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo: per i delicati problemi che si pongono a questo riguardo, v. A. RUGGERI, Ragionando sui possibili sviluppi tra le Corti europee e i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla CEDU e all’entrata in vigore del prot. 16), in www.rivistaaic.it, n. 1/2014, 7 febbr. 2014, spec. 12, in nt. 47. 23 O. POLLICINO, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale”, cit., 11. 24 Ibidem, 13.
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che il giudice richiedente possa tenerne conto nella decisione del giudizio pendente. Non solo – com’è evidente – questa soluzione è la più consona alla richiamata finalità deflattiva, che costituisce la ratio dell’istituzionalizzazione della funzione consultiva, nonché alla posizione secondaria della giurisdizione spettante alla Corte edu, ma trova anche un appiglio nella fase preparatoria che ha portato all’adozione del Protocollo, posto che non si spiegherebbe altrimenti il senso dell’affermazione contenuta nella Dichiarazione finale della Conferenza di Brighton, secondo cui la competenza consultiva può essere svolta dalla Corte a richiesta «without prejudice to the non-binding character of the opinions for the other States Parties», presupponendo implicitamente che invece influisca sulle più alte giurisdizioni dello Stato che la sollecitino. Né v’è il pericolo che in tal modo l’opinion si trasformi in decisione della controversia interna e dunque in anticipazione della risoluzione di un potenziale ricorso individuale, posto che la Corte dà solo indicazioni interpretative “di principio” e che spetterà al giudice nazionale ricavarne, deduttivamente e adattandole alle peculiarità del caso, le ricadute concrete sulla causa pendente. Questa soluzione è anche confortata da quel passaggio argomentativo del Rapporto esplicativo in cui si legge che «limiting the choice to the ‘highest’ courts or tribunals is consistent with the idea of exhaustion of domestic remedies (…) and would reflect the appropriate level at which the dialogue should take place»25: il riferimento a un dialogo, senz’altra specificazione, presuppone la simultaneità dell’interazione, che risulterebbe invece spezzata se le alte giurisdizioni nazionali potessero tener conto del chiarimento interpretativo solo successivamente e nell’eventualità in cui si trovassero a decidere cause coinvolgenti la protezione degli stessi diritti rispetto ai quali il parere è stato richiesto. Ma ‒ ed è questo l’argomento senza dubbio più forte per sostenere la tesi della potenziale strumentalità del parere alla definizione della causa nazionale pendente e dunque della necessaria sospensione di quest’ultima ‒ il punto in questione è definitivamente chiarito da un altro passaggio del Rapporto esplicativo, dove si precisa in modo inequivocabile e incontrovertibile la finalità dell’istituto («the aim of the procedure»), affermando che essa «is not to transfer the dispute to the Court, but rather to give the requesting court or tribunal guidance on Convention issues when determining the case before it»26: lo scopo del parere non è di trasferire la controversia alla Corte europea ma di dare al giudice richiedente indicazioni-guida sulle questioni relative alla Convenzione nella definizione del caso pendente dinanzi ad esso27.
25 Rapporto esplicativo, cit., punto 8 (commento all’art. 1, par. 1). 26 Rapporto esplicativo, cit., punto 11 (commento all’art. 1, par. 3).
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La distanza rispetto alla funzione di decisione dei ricorsi individuali è evidente e duplice: da una parte i giudici europei illuminano solo una questione di principio e non si pronunciano direttamente sulle conseguenze che da essa derivano nella specifica fattispecie, dall’altra spetta al giudice nazionale valutare se tener conto o meno del parere consultivo (v. amplius infra, parr. 5.1. e 5.3.). Soccorre su questo punto ancora una volta il Rapporto esplicativo, per cui i pareri «take place in the context of the judicial dialogue between the Court and domestic courts and tribunals. Accordingly, the requesting court decides on the effects of the advisory opinion in the domestic proceedings »28. Precisata tale distanza, che deve restare incolmabile per evitare la sovrapposizione tra funzione consultiva e funzione propriamente giudiziaria, la potenziale strumentalità del parere consultivo sulla causa in corso va però pienamente riconosciuta ed è anzi il principale effetto diretto discendente dall’advisory opinion grazie al quale essa concorre da subito ad evitare violazioni della Convenzione. Un riconoscimento mediato di questa incidenza sulla controversia pendente dinanzi all’autorità richiedente deriva dall’affermazione per cui «advisory opinions under this Protocol would have no direct effect on other later applications»29: il riferimento a nessun altro effetto diretto nelle successive applicazioni, al di fuori della causa pendente davanti alla alta giurisdizione nazionale che attiva la procedura di parere consultivo, è anch’esso inequivoco nell’indicare che è facoltà di detta giurisdizione assegnare rilievo al parere ai fini della decisione della causa.
4. Impiego legittimo e natura dell’advisory jurisdiction L’advisory opinion copre un’area intermedia tra la decisione di una controversia e la funzione interpretativa astratta della Cedu slegata da situazioni concrete, nell’ambito della quale la Corte non giunge a dare nell’immediato, né a pregiudicare per il futuro, la decisione di un eventuale caso coinvolgente le stesse questioni di principio affrontate. 27 Su come possano a questo punto delinearsi le assonanze e le differenze rispetto al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia v. P. GRAGL, (Judicial) Love, cit., spec. 9 ss. Sul rapporto tra detto rinvio e il giudizio nazionale nella giurisprudenza della Corte UE, v. Corte giust., 31 gennaio 2008, C-380/05, Centro Europa 7, I-349, p.to 53. 28 Rapporto esplicativo, cit., punto 25 (commento all’art. 5), tondo non testuale. 29 Rapporto esplicativo, cit., punto 27 (commento all’art. 5), che prosegue asserendo «They would, however, form part of the case-law of the Court, alongside its judgments and decisions. The interpretation of the Convention and the Protocols thereto contained in such advisory opinions would be analogous in its effect to the interpretative elements set out by the Court in judgments and decisions». V. sul punto anche P. GRAGL, (Judicial) Love, cit., 18 ss.
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In correlazione a ciò il parere deve rimanere al livello di vaghezza e generalità proprio dell’indicazione di principio contenuta nella parte relativa al richiamo ai precedenti: quest’ultima è indeterminata perché «la Corte sa che dopo quella decisione che prende sul caso concreto, ma con aspirazione di definizione dei principi generali, arriveranno tanti altri casi il cui contenuto, le cui caratteristiche e il cui bisogno di giustizia sono specifici ed imprevedibili» 30. Si comprende così facilmente anche la ragione per cui il Protocollo dispone che il parere non sia vincolante in generale, disposizione che ha suscitato un certo disappunto, in considerazione della circostanza che esso è emesso dalla Grand Chamber (art. 2, par. 2)31. L’advisory opinion può così consentire alla Corte edu di colmare quei vuoti di interpretazione della Carta che possono rinvenirsi dinanzi alla varietà dei casi in cui è possibile prospettare una lesione dei diritti umani e rivendicare una loro tutela32. È vero che, a fronte dell’ampia casistica che fino a questo momento è stata assoggettata al vaglio della Corte edu, è difficile pensare a previsioni convenzionali rispetto a cui esistano lacune di interpretazione, pur tuttavia ci possono pur sempre essere situazioni inedite rispetto alle quali non appare ancora chiaro quali sarebbero i termini dell’interpretazione-applicazione del documento convenzionale e altresì possono pur sempre profilarsi nuove forme di aggressione del bene protetto che spingono a reclamare la tutela dei relativi diritti, sollevando ancora una volta dubbi sull’entità e sull’ampiezza dei diritti sottesi (di cui ci si chiede precisamente se abbiano portata tale da rifiutare l’inedito, imprevisto tipo di “attacco”)33. Si può istituire un parallelo sotto questo 30 Ancora V. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 4. 31 Per questo rilievo v. N. HIRVIEU, Cour européenne des droits de l’homme: Bilan d’étape d’un perpétuel chantier institutionnelI, in Lettre «Actualités Droits-Libertés» du CREDOF, 3 sett. 2013, 3. Tuttavia, l’attribuzione della competenza alla Grand Chamber appare «appropriate given the nature of the questions on which an advisory opinion may be requested and the fact that only the highest domestic courts or tribunals may request it, along with the recognised similarities between the present procedure and that of referral to the Grand Chamber under Article 43 of the Convention»: Rapporto esplicativo, cit., punto 16 (comm. all’art. 2, par. 2).
32 Anche secondo G. ASTA, Il Protocollo n. 16 alla CEDU: chiave di volta del sistema europeo di tutela dei diritti umani?, in www.sioi.org/media/Rivista%20/5asta.pdf, «con buona approssimazione, la Corte potrebbe far uso del suo nuovo potere per chiarire questioni su cui essa non si sia mai pronunciata o di rilievo per la generale evoluzione giurisprudenziale del sistema europeo di tutela dei diritti umani, oppure ancora per ristabilire l’ortodossia interpretativa in caso di posizioni dei giudici nazionali che si discostino sensibilmente dalla giurisprudenza consolidata» (780 s.). 33 Sul rilievo ricoperto dal caso nella procedura di advisory opinion v. P. GRAGL, op. cit., secondo cui il fatto che l’iniziativa dell’alta giurisdizione possa essere assunta «in the context of a case pending before it (…) means that the relevant legal question must have arisen on the basis of a contentious case regarding individual rights and that the procedure will not allow for abstract review of legislation. Moreover, Art. 1(3) of the Protocol obligates the requesting court to give reasons for its request and to provide the
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profilo con la giurisprudenza resa in occasione della procedura di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, che vede questa impegnata a discernere le situazioni in cui certi casi esigono ulteriori chiarimenti interpretativi da quelle nelle quali le precedenti decisioni hanno già sufficientemente acclarato la sottesa questione di diritto34. In sintesi, l’advisory jurisdiction, da un lato, dà modo alla Corte edu di precisare il significato della Convenzione in situazioni ancora inedite e, dall’altro, dà la possibilità ai giudici di tenere conto di tale significato, alla ripresa del processo sospeso, come loro mera facoltà e impregiudicata la decisione di un futuro ricorso individuale che pone non un quesito generale ma lamenta una concreta violazione35. Essa si presta pertanto, ulteriormente, all’estensione di quella funzione didascalica, didattica, di ammaestramento e indirizzo che costituisce una componente della sua giurisprudenza, sviluppatasi per fronteggiare due distinti fenomeni, da una parte l’ingresso nel Consiglio d’Europa dei Paesi dell’est, dall’altra il perdurare di violazioni seriali della convenzione dovute a carenze strutturali degli ordinamenti nazionali. Si tratta di quel filone il cui affiorare consentiva di sostenere che si stesse delineando una funzione costituzionale della Corte europea, grazie al ruolo di orientamento nei confronti di Stati democraticamente arretrati, nel primo caso, e ai suggerimenti utili a sopperire alle carenze strutturali degli ordinamenti nazionali contenuti nelle sentenzepilota, nel secondo36. relevant legal and factual background of a given case. The raison d’être of this provision is, firstly, that the requesting court has reflected upon the necessity and utility of the request, and, secondly, that the requesting court has already given serious consideration to the legal and factual issues of the case. This will allow the Strasbourg Court to focus on cases which raise principal questions or questions of general interest regarding the interpretation and application of the Convention rights» (9). 34 «Although no parallels to the EU’s preliminary reference procedure are mentioned in the final Draft Protocol No. 16, the Reflection Paper briefly indicates that the domestic courts could draw inspiration from the CJEU’s case law on the matter whether a certain case actually required further legal elucidation interpretation or whether the previous decisions had already sufficiently dealt with the point of law in question (which more or less alludes to the CJEU’s acte clair - and acte éclair - doctrines)»: P. GRAGL, (Judicial) Love, cit., 9.
35 Secondo G. ASTA, op. cit., «da quanto osservato potrebbe desumersi per i pareri della Corte un effetto sui tribunali nazionali che, se non immediato, mancando di vincolatività diretta per il procedimento in corso, si prospetterebbe quantomeno mediato. L’attività consultiva della Corte andrebbe infatti verosimilmente ad erodere il margine di incertezza interpretativa in merito ai profili di volta in volta esaminati. È dunque probabile che i giudici nazionali potrebbero tendere a conformarsi all’interpretazione data dai giudici di Strasburgo, per evitare di incorrere in una eventuale sentenza contenziosa le cui conclusioni, quantomeno sui punti esaminati dal parere, sarebbero già ipotizzabili in anticipo» (784). 36 V. O. POLLICINO -V. SCIARABBA , La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 18 ss. e anche in AA.VV., Sistemi
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5.1. Conclusioni: Prot. n. 16 e rispetto della sussidiarietà In definitiva, l’unico modo per intendere le previsioni del Protocollo, mantenendosi entro i confini segnati dalla sussidiarietà, è quello di concepire la forma di cooperazione che si intende introdurre con l’advisory jurisdiction tra alte giurisdizioni nazionali e Corte edu nel senso di un’attività di ausilio e collaborazione reciproci: di quest’ultima alla decisione della controversia riguardante diritti umani conformemente agli standard della Convenzione, ma anche delle (più alte) giurisdizioni nazionali nei confronti della Corte europea, evidenziando casi nuovi o particolari che pongono questioni di interpretazione del testo convenzionale. È il caso di riflettere ancora su un punto. Come si è detto, la giurisdizione nazionale competente non potrebbe chiedere alla Corte un’opinion su come vada deciso il caso coinvolgente la tutela dei diritti, ma proporre un quesito interpretativo di ordine generale suscitato da una controversia pendente non coperta, evidentemente, dai precedenti che compongono la giurisprudenza europea: la situazione concreta che può legittimare la domanda del parere deve essere emblematica dell’emergere di una questione interpretativa ancora non affrontata. Tuttavia, come si è pure aggiunto, sarebbe incongruente che tale advisory opinion in relazione ad una questione interpretativa di carattere generale fosse inservibile poi nel giudizio nazionale pendente 37 sulla base di una configurazione del parere come valevole solo pro futuro, perché è in tal modo che può attuarsi la finalità della nuova funzione di advisory jurisdiction, che è quella di ricondurre la preminenza nel campo della tutela dei diritti (conformemente alla Cedu) in seno agli ordinamenti degli Stati. Ora, perché un simile recupero della protezione dei diritti da parte dell’ordinamento nazionale possa realizzarsi, è naturalmente necessario che quest’ultimo consenta, sul piano delle sue previsioni normative, l’adozione di una decisione giudiziale in linea con il parere. Nel caso invece in cui tale possibilità non sussista, non rimarrà che la via del ricorso individuale, una volte esaurite le vie interne (esaurimento alquanto prossimo, posto che con la decisione del giudice richiedente ci si trova già dinanzi ad un’alta giurisdizione). Se l’ostacolo è la legge, occorrerà per es. fare prima ricorso alla Corte costituzionale (se non ci si trova già dinanzi ad essa). È escluso invece – punto questo della massima importanza – che il parere possa essere applicato dall’alta giurisdizione nazionale comune saltando il ricorso all’organo costituzionale di controllo, con l’argomento che la superiore forza giuridica della e modelli di giustizia costituzionale, t. II, Padova, Cedam, 2011.
37 Sulla posizione dell’incidenza su quest’ultimo si attesta anche la Corte di Cassazione italiana nella sua Relazione sul Protocollo del 10 ott. 2013: v. Rel. n. III/02/2013.
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Cedu sulla legge, riconosciuta a partire dalle celeberrime sentenze gemelle del 2007, lo imponga. Deve infatti ritenersi che tale giurisprudenza consultiva, al pari di quella contenziosa e delle norme convenzionali, difetti in generale di efficacia diretta (ma v. quanto si aggiungerà in proposito infra, par. 5.3). In ogni caso, come si vede, non sempre il contenzioso futuro risulterà ridotto ed anzi è pure possibile che il parere stesso provochi nuovo contenzioso, che cioè, come è stato notato, sia tale da operare in modo da «trigger, rather than prevent, applications»38. Qui tuttavia, come si è anticipato proprio all’inizio di queste osservazioni, non si intende riflettere tanto sull’opportunità politica di adottare il Protocollo, quanto sul modo in cui il funzionamento del nuovo meccanismo è stato inteso dai suoi creatori, qualora dovesse entrare in vigore. D’altro canto una funzione consultiva ha sempre affiancato quella propriamente giurisdizionale nell’esperienza delle principali Corti internazionali 39.
5.2. Prot. n. 16 ed effetto deflattivo Invece, proprio in una prospettiva prevalentemente de iure condendo, è stata avanzata la tesi che il Protocollo 16 aggraverebbe il carico di arretrato che già pesa sulla Corte di Strasburgo e potrebbe incidere negativamente sul dialogo tra le Corti40. Quanto al primo timore, per la verità (pur considerato quanto si è appena detto retro al par. 5.1.), la sua portata sembra ridursi grandemente se si riflette su tre elementi: 1) il carattere facoltativo della richiesta di parere da parte delle più alte giurisdizioni; 2) l’ambito di incidenza dell’advisory jurisdiction che, come si è visto, è limitato a chiarire questioni di principio relative all’interpretazione della Cedu, non affrontate dalla giurisprudenza europea resa nell’esercizio della funzione contenziosa; 3) la possibilità per la Corte di Strasburgo di respingere la richiesta di parere consultivo attraverso un collegio di cinque giudici della Grand Chamber (art. 2, par. 1). È vero, quanto al punto sub 3), che il rigetto della domanda – nello spirito del dialogo – deve essere motivato (art. 2, par. 2) ma, se la stessa esula dai confini entro cui è costretta dal Protocollo n. 16 e che qui si è tentato di 38 N. O’MEARA, Reforming the European Court of Human Rights through Dialogue? Progress on Protocols 15 and 16 ECHR, consultabile in http://humanrights.ie/civil-liberties/reformingech/, 2 giu. 2013.
39 V. G. ASTA, op. cit., 773 ss. 40 K. DZEHTSIAROU, N. O'MEARA, Advisory jurisdiction and the European Court of Human Rights: a magic bullet for dialogue and docket-control?, in Legal Studies, 2014, 5 genn. 2014 e già N. O’MEARA, Reforming the European Court of Human Rights through Dialogue?, cit.
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delineare, le argomentazioni a fondamento del rigetto potranno essere alquanto agevoli e non impegnative. Un effetto deflattivo è poi sicuramente legato alla precisazione contenuta nel Rapporto esplicativo per cui nell’ipotesi in cui un ricorso venga presentato rispetto ad un caso nel cui ambito il parere consultivo della Corte EDU sia stato effettivamente seguito dal tribunale nazionale, gli elementi della richiesta che attengono alle questioni trattate dal parere saranno probabilmente dichiarati inammissibili o cancellati dal ruolo: pertanto, si è concluso che «le pronunce consultive della Corte produrrebbero una sorta di effetto precludente o dissuasivo, prefigurando quella che ci sembra essere un’ulteriore condizione di ricevibilità sui generis»41.
5.3. Prot. n. 16 e dialogo tra le Corti Quanto, infine, alla negativa incidenza sul dialogo tra le Corti 42, a me pare invece che il dialogo risulti potenziato proprio da un ruolo cooperativo, non vincolante svolto dalla Corte, che non dallo svolgimento di una funzione di giurisdizione contenziosa, alla cui giurisprudenza adeguarsi a posteriori43. Non a caso il documento pubblicato nel dicembre del 2012 è stato battezzato il “Protocole du dialogue” dal Presidente della Corte EDU Spielmann 44, rafforzando un sistema improntato ai principi della shared responsability45. L’argomento dell’esigenza per la Corte interna di mantenere margini di manovra, attraverso cui discostarsi dalla giurisprudenza resa in veste contenziosa, che non invoglierebbe detta Corte a sollecitare tale nuova competenza, non osta all’introduzione di questa funzione e della sua utilità: la 41 G. ASTA, Il Protocollo n. 16 alla CEDU: chiave di volta, cit., 783. 42 Sul cui stato v., da ultima, E. LAMARQUE, Le relazioni tra l’ordinamento nazionale, sovranazionale e internazionale nella tutela dei diritti, relaz. alle VI Giornate italo-spagnolo-brasiliane di diritto costituzionale, dedicate a La protección de los derechos en un ordenamiento plural, Barcellona 17-18 ottobre 2013, in paper. 43 Secondo G. ASTA, anzi, il Protocollo «potrebbe al contempo aprire inaspettati scenari nel solco della costruzione di un sistema continentale di tutela dei diritti umani sempre più integrato ed effettivo» (op. cit., 775).
44 Discorso del Presidente della Corte edu Dean Spielmann alla 123 a Sessione del Comitato dei Ministri, 16 mag. 2013 (consultabile sul sito internet www.echr.coe.int). 45 G. ASTA, Il Protocollo n. 16 alla CEDU: chiave di volta, cit., 778.
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richiesta infatti, essendo facoltativa, è rimessa alla valutazione che ne fa la Corte costituzionale che, se intende avvalersi solo della tavola interna dei diritti, può non rivolgersi ai giudici europei. Né vi osta il prefigurare un attrito maggiore tra le due Corti nel discostarsi dal parere piuttosto che nel ricevere ex post una condanna a causa di una legge assolta in sede di sindacato di legittimità: anzi si potrebbe dire che tra la risoluzione della questione di principio contenuta nel parere e la decisone della questione di legittimità costituzionale può esserci uno scarto maggiore, ponendosi esse su due livelli diversi, che non tra la pronuncia di condanna della Corte edu resa sulla base del ricorso individuale di chi lamenta la violazione di un diritto da parte di una legge salvata dalla Corte costituzionale, dove invece i due piani delle decisioni antitetiche delle Corti coincidono evidenziando un contrasto irrimediabile. Semmai, posto che alle più alte giurisdizioni comuni è somministrato un principio interpretativo dei diritti convenzionali, potrà a mio avviso risultarne incoraggiato il ricorso all’interpretazione conforme alla Cedu da parte delle stesse giurisdizioni richiedenti. Se infatti sempre i giudici comuni sono gravati dall’onere di compiere il tentativo di interpretazione adeguatrice, disponendo di un preciso principio sulla questione controversa, essi saranno tentati di applicarlo, anche a costo di forzature della legge interna. Questo rischia di sospingere la Corte costituzionale sempre più lontano da un circuito di protezione dei diritti che si stringe intorno alla Corte europea da un lato e alle alte giurisdizioni comuni dall’altro. Il vero rischio che pare si corra non è che a seguito del Protocollo il dialogo non si infittisca, bensì che lo faccia, ma che questo sia un dialogo solo a due voci, estromettendo sul versante interno la Corte costituzionale che, nella garanzia dei diritti fondamentali, occupa un posto di primaria importanza assolutamente irrinunciabile.
** Professoressa associata di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Messina
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Monitore della Giurisprudenza costituzionale (decisioni 35/2014 – 154/2014)
LA CONSULTA FISSA CON UNA SOSTITUTIVA CONSIGLIERI E ASSESSORI REGIONALI
IL
NUMERO
DI
Corte Cost., sent. 26 febbraio-6 marzo 2014, n. 35, Pres. Silvestri, Red. Cassese Giudizio di legittimità costituzionale in via principale ex art.123 Cost. [Artt. 1 e 2 della delibera legislativa statutaria della Regione Calabria , approvata in prima lettura dal Consiglio regionale con deliberazione n. 230 del 9 ottobre 2012 e in seconda lettura con deliberazione n. 279 del 18 marzo 2013] (Cost., artt. 117, c. 3, e 127) La questione di legittimità costituzionale, posta in via preventiva dal Governo secondo quanto previsto dall'art. 123, comma 2, Cost., ha ad oggetto gli artt. 1 e 2 della delibera legislativa statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”». Tale delibera attua l'art. 14, comma 1, lettere a) e b), del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv., con modificazioni, dall'art. 1, c. 1, della l.14 settembre 2011, n. 148, che impone alle Regioni di provvedere, nell'ambito della propria autonomia statutaria e legislativa, alla riduzione del numero di consiglieri e assessori regionali in virtù di alcuni parametri (riferiti al numero di abitanti). La Presidenza del Consiglio dei ministri denuncia la violazione dell'art. 117, comma 3, Cost., derivante dal contrasto del numero dei consiglieri e assessori previsti dalla delibera statutaria con i parametri previsti dal menzionato art. 14, comma 1, lettere a) e b) del d.l. 138 del 2011, costituenti principi di coordinamento della finanza pubblica. Inoltre, il Governo lamenta l'avvenuta violazione dell'art. 127 Cost. Dichiarata l'inammissibilità della censura relativa all'art. 127 Cost. per carenza di motivazione, la Corte rileva la fondatezza della questione con riferimento alla violazione dell'art. 117, comma 3. Le argomentazioni della Consulta muovono da alcuni precedenti, dove si affermava la riconducibilità dell'art. 14 del d.l. 138 del 2011 ai principi di coordinamento di finanza pubblica (sent. 23/2014 e 198/2012). Inoltre, la Consulta richiama le argomentazioni svolte in occasione della sentenza 198/2012 – ove, tuttavia, la questione sollevata era totalmente diversa, anche in considerazione del fatto che l’art. 14, comma 1, del d.l. 138 del 2011 costituiva oggetto del ricorso, mentre nel caso di specie configura un parametro interposto – allo scopo di sottolineare la natura del menzionato art. 14, il quale, ponendo il numero di abitanti in relazione con quello di consiglieri e assessori, mira a garantire il diritto dei cittadini a essere egualmente rappresentati (artt. 48 e 51 Cost.): da ciò deriva la necessità di adeguamento degli statuti regionali alle prescrizioni dell’art. 14, in virtù del
requisito di “armonia con la Costituzione” di cui all’art. 123 Cost.. Svolte queste premesse, la Corte, stante l'avvenuta lesione dei parametri fissati dall'art. 14 del d.l. 138 del 2011, non limita la pronuncia alla dichiarazione di illegittimità della deliberazione demandando al Consiglio regionale il compito di adeguarsi ai parametri fissati nel decreto, bensì adotta una sentenza sostitutiva, dichiarando l'illegittimità degli artt. 1 e 2 della delibera legislativa statutaria in questione, rispettivamente, “nella parte in cui sostituisce il numero [di] «50» [consiglieri] con quello di «40», anziché con quello di «30»” e “nella parte in cui prevede «un numero di Assessori non superiore a otto» anziché «un numero di Assessori non superiore a sei»”: la Corte, quindi, interviene sulla fonte statutaria modificandola in virtù della previsione del decreto 138 del 2011. (E. Pattaro) L’ATTIVITÀ DELLA CORTE DEI CONTI TRA PRINCIPI DI ARMONIZZAZIONE E COORDINAMENTO ED ENTI AD AUTONOMIA SPECIALE Corte Cost., sent. 26 febbraio-6 marzo 2014, n. 39, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [D.l. 10 ottobre 2012, n. 174, conv., con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della l. 7 dicembre 2012, n. 213] (Cost., artt. 3, 24, 113, 116, 117, 118, 119, 127, 134; l. cost. 31 gennaio 1963, n. 1; d.P.R. 25 novembre 1975, n. 902; d.lgs 2 gennaio 1997, n. 9; l. 5 maggio 2009, n. 42; l. 13 dicembre 2010, n. 220; d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670; d.P.R. 28 marzo 1975, n. 473; d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266; d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268; d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305, come modificato dal d.lgs. 14 settembre 2011, n. 166; l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3; d.P.R. 16 gennaio 1978, n. 21) Con la pronuncia in esame la Corte Costituzionale ha giudicato sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e dalla Provincia autonoma di Trento aventi a oggetto molteplici disposizioni del d.l. 174/2012 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012). In particolare, le disposizioni censurate possono essere raggruppate come segue, in relazione all’oggetto: a) rafforzamento degli strumenti di controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria delle Regioni e sui gruppi consiliari dei consigli regionali (art. 1, commi 1-12); b) modalità di adeguamento degli enti ad autonomia speciale alle previsioni di cui all’art. 1 (art. 1, comma 16); c) controlli esterni sugli enti locali operati da sezioni regionali della Corte dei conti e dal Ministero dell’economia e delle finanze con previsione di sanzioni nei confronti degli amministratori in caso di inadeguatezza dei sistemi di controllo adottati (art. 3, comma 1, lett. e)); d) rafforzamento degli strumenti di controllo della gestione volti a operare una razionalizzazione della spesa pubblica (art. 6); e) clausola di salvaguardia per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome (art. 11-bis). La Consulta, in via preliminare, chiarisce che le disposizioni censurate sono riconducibili alla materia dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordinamento della finanza pubblica, nell’ambito della quale deve ritenersi assegnata al legislatore statale la competenza a disciplinare i principi fondamentali di riferimento (sent. 60/2013), in quanto la materia dei controlli sugli enti locali è strettamente collegata alla normativa sul patto di stabilità interno, che coinvolge Regioni e enti locali nella realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica scaturenti dai vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea (sent. 267/2006). Per questo motivo i controlli finalizzati al rispetto dei vincoli europei in materia di politiche di bilancio devono essere affidati a un organo neutrale e indipendente, quale è la Corte dei conti, e sono applicabili anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome (sent. 229/2011). Posto che il decreto prevede una clausola di salvaguardia per le autonomie locali, la Corte si occupa di passare al vaglio le disposizioni censurate che derogano alla clausola di salvaguardia prevista e di valutare, di volta in volta, la compatibilità delle deroghe con l’autonomia riconosciuta alle ricorrenti. Premesso che la maggioranza delle questioni viene ritenuta dalla Corte Costituzionale inammissibile o non fondata – per lo più in virtù delle considerazioni poc’anzi esposte – è opportuno richiamare una delle questioni ritenute, invece, fondate. Trattasi della censura, per violazione dell’autonomia legislativa regionale, dell’art. 1, comma 7, del d.l. 174/2012, che, con riferimento al controllo dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi delle regioni, poneva in capo alle amministrazioni l’obbligo di adottare i “provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio” nel caso in cui la sezione regionale della Corte dei conti competente avesse accertato “squilibri economico-finanziari”, “mancata copertura di spese”, “violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione finanziaria” o il “mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto di stabilità interno”. La disposizione in esame precludeva altresì l’attuazione dei programmi di spesa privi di copertura o di sostenibilità finanziaria nel caso in cui le regioni non avessero provveduto alla trasmissione dei provvedimenti menzionati o la verifica degli stessi da parte della sezione regionale di controllo avesse dato esito negativo. La Corte Costituzionale ha ritenuto le disposizioni censurate lesive dell’autonomia legislativa regionale, e quindi dei parametri statutari invocati dalle ricorrenti e dell’art. 117, commi 3 e 4, Cost., nella misura in cui si attribuisce a una pronuncia di un organo di controllo, la Corte dei conti, l’effetto di vincolare il contenuto degli atti legislativi o di inibire gli effetti degli stessi: infatti, le funzioni di controllo della Corte dei conti devono trovare un limite nella potestà legislativa dei Consigli regionali, la cui autonomia politica emerge dall’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione. La Consulta ha quindi dichiarato illegittima la disposizione “limitatamente alla parte in cui si riferisce al controllo dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi delle Regioni”. Emerge tutta la difficoltà nel trovare un equilibrio tra “tecnica” e “politica”, tra adempimento degli obblighi di natura economica derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione Europea, diventati poi obblighi costituzionali, e tutela dell’autonomia politico-decisionale degli organi rappresentativi. (E. Pattaro)
COLLABORATIVI MA NON TROPPO: ANCORA SUI CONTROLLI DELLA CORTE DEI CONTI SUI BILANCI DELLE AUTONOMIE Corte Cost., sent. 26 febbraio-10 marzo 2014, n. 40, Pres. Silvestri, Red. Carosi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Artt. 1, c. da 1 a 6; 2, c. 1; 12; 23 c. 2 e 10 l. prov. aut. Bolzano, 20 dicembre 2012, n. 22] (Artt. 81, c. 4; 97; 117, c. 3; 119 Cost.) Con la decisione in esame la Corte costituzionale torna sui controlli della Corte dei conti sulle autonomie locali, accogliendo le censure mosse dal Governo alla legge della Provincia autonoma di Bolzano 20 dicembre 2012, n. 22, in quanto avrebbe sottratto alla Corte dei conti le attribuzioni in materia di controllo sui bilanci degli enti locali previste dagli artt. 148 e 148-bis T.U.E.L. come modificati dall’art. 3, co. 1, lett e) del d.l. 174/2012, per intestarle ad un organismo di valutazione istituito presso la Provincia stessa. La Corte in primo luogo richiama la “diversità finalistica e morfologica” dei controlli svolti dalla Corte dei conti rispetto a quelli interni, che rende possibile, e anzi necessaria, la coesistenza delle due tipologie di controlli: la prima limitata alla finanza provinciale, la seconda necessariamente uniforme sul territorio nazionale, in quanto volta a garantire gli equilibri della finanza pubblica nel suo complesso, e strumentale al rispetto dei vincoli europei. La Corte in particolare richiama il rapporto tra patto di stabilità esterno e patto di stabilità interno e chiarisce come i controlli svolti dalle sezioni regionali della Corte dei conti siano strettamente funzionali al coordinamento della finanza pubblica ai fini del rispetto di tale disciplina da parte del complesso dei conti pubblici. La speciale autonomia di cui gode la Provincia autonoma non muta i termini della questione dal momento che, facendo parte della finanza pubblica allargata, anche la sua finanza è suscettibile di essere coordinata a livello statale (sent. 267/2006). A partire da queste premesse la Corte prende atto di come il controllo svolto dal giudice contabile abbia assunto via via natura sempre più cogente nei confronti dei destinatari (cfr. sent. 60/2013), “proprio per prevenire o contrastare gestioni contabili non corrette, suscettibili di alterare l’equilibrio di bilancio e di riverberare tali disfunzioni sul conto consolidato”. Se quindi da un lato tale natura cogente si distacca dal carattere strettamente collaborativo dei controlli sulla gestione, dall’altro lato essa non si traduce in un’espressione della supremazia statale, in quanto affidata ad un organo terzo e imparziale, posto al servizio dello Stato-comunità quale la Corte dei conti (cfr. sent. 29/1995; 39/2014). La Corte, ritenendo assorbiti i rilievi relativi all’art. 97 Cost., dichiara pertanto illegittime le disposizioni provinciali censurate, in quanto contrastanti con gli artt. 81, co. 4 e 117, co. 3, oltre che con gli artt. 8, 9 e 79 dello statuto speciale. [M. Morvillo]
COMPENSAZIONI REGIONALE
FRA
CIRCOSCRIZIONI
E
RAPPRESENTANZA
Corte Cost., sent. 26 febbraio-10 marzo 2014, n. 41, Pres. Silvestri, Red. Amato Conflitto di attribuzione tra enti [Verbale dell’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione del 5 marzo 2013] (Artt. 1, 3, c.1, 5 e 56, c. 4 Cost.) E’ inammissibile il conflitto di attribuzione tra enti promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia in relazione alla ripartizione dei seggi effettuata dall’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione, all’esito delle consultazioni elettorali del 24 e 25 febbraio 2013. La Regione censura in particolare il fatto che, a seguito dello svolgimento delle operazioni di compensazione tra circoscrizioni previste dall’art. 83, co. 1, n. 8) del d.p.r. 30 marzo 1957, n. 361 e successive modificazioni, le sarebbero stati attribuiti solo 12 seggi, anziché 13, con conseguente alterazione del rapporto di stretta proporzionalità tra popolazione e seggi contemplato dall’art. 56 Cost., e quindi con una sottorappresentazione della comunità regionale. La Regione chiedeva contestualmente la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale del suddetto art. 83, nella parte in cui, ai fini dell’effettuazione delle compensazioni “consente che si operi la sostituzione della circoscrizione nella quale viene assegnato il seggio, con la conseguenza di rendere il numero dei seggi assegnati alle circoscrizioni interessate dallo scambio difforme dalla previsione costituzionale”. La Corte rileva tuttavia la mancanza dei requisiti necessari ai fini dell’ammissibilità del conflitto sotto due diversi profili. In primo luogo non è ravvisabile alcuna lesione delle competenze costituzionali della Regione autonoma: questa infatti non è titolare di alcuna competenza in materia di elezioni per il Parlamento, fermo restando, tra l’altro, che “i deputati eletti nella circoscrizione regionale non sono rappresentanti della Regione né come ente, né come comunità, ma rappresentano l’intera Nazione”. In assenza di un collegamento con una sua competenza costituzionale, il carattere esponenziale della Regione non è peraltro sufficiente ex se “a far valere, in sede di conflitto di attribuzioni, [il mero] l’interesse della comunità stanziata sul proprio territorio ad avere nella Camera dei deputati una rappresentanza numericamente più consistente” (cfr. sentt. 276 e 51/1991). Manca in secondo luogo la natura direttamente lesiva dell’atto contestato, dal momento che il verbale del 5 marzo 2013 costituisce puntuale esecuzione del dettato dell’art. 83 citato, cui la lesione lamentata potrebbe essere eventualmente riconducibile. [M. Morvillo] IL COORDINAMENTO FINANZIARIO “COPRE” ANCHE LE UNIONI DI PICCOLI COMUNI Corte Cost., sent. 10-13 marzo 2014 , n. 44, Pres. Silvestri, Red. Criscuolo
Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [D.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in legge 14 settembre 2011, n. 148, articolo 16; d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 19, commi 2, 5 e 6] (artt. 3, 75, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, commi secondo, lettera p), e terzo-sesto, 118, 119, 120, 122, 123 e 133, secondo comma, Cost., art. 9, comma 2, l. cost. n. 3 del 2001; principio di leale collaborazione; art. 3, primo comma, lettera b), St. Sardegna) Sono quasi interamente respinti i numerosi e articolati ricorsi regionali contro disposizioni introdotte con la cd. manovra di agosto 2011, e in parte novellate con il decreto-legge sulla cd. spending review, perlopiù attinenti alle unioni tra comuni fino a 1.000 abitanti. Là dove le disposizioni originarie sono state novellate, senza avere ricevuto applicazione medio tempore, è dichiarata l’inammissibilità per sopravvenuto difetto di interesse; oppure la cessazione della materia del contendere, se la modifica risolve i dubbi sollevati; o ancora il trasferimento della questione, se la modifica non ha carattere sostanziale. Così smistate le questioni, alcune risultano inammissibili perché generiche. Nel merito, la Corte richiama soprattutto i principi in tema di incrocio e prevalenza di competenze; e il coordinamento della finanza pubblica (cfr. sent. n. 22 del 2014, sull’obbligo di esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni fino a 5.000 abitanti) come competenza in grado di incidere anche in materie residuali e di esprimersi, oltre che in principi – volti a prescrivere criteri e obiettivi, ferma la discrezionalità regionale nella scelta degli strumenti attuativi – anche in norme specifiche, purché legate ai principi da «evidenti rapporti di coessenzialità e necessaria integrazione» (cfr. in materia analoga sent. n. 237 del 2009; di recente sent. n. 272 del 2013). Nel caso, le disposizioni censurate «perseguono l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica corrente per il funzionamento di tali organismi, attraverso una disciplina uniforme che coordina la legislazione del settore»; sicché esse costituiscono principi di coordinamento finanziario o, comunque, regole «finalizzat[e] a realizzare il tessuto organizzativo mediante il quale la norma di principio dovrà essere attuata». Vero è che, secondo un indirizzo di giurisprudenza, limiti alla spesa degli enti territoriali possono essere imposti a condizione che mirino «a un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente» (la transitorietà è sottolineata nelle sentt. n. 193 del 2012 e n. 79 del 2014) e «non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi»; ma «il suddetto orientamento si è manifestato, in linea di principio, in casi nei quali l’incidenza sulla spesa corrente è immediat[a], trattandosi di governare o correggere, per l’appunto, flussi finanziari, non già quando si tratti di interventi volti ad incidere soltanto in via indiretta sulla spesa». Sono annullate solo poche disposizioni, attinenti agli equilibri tra maggioranze e minoranze dentro le unioni, e perciò esclusivamente rilevanti nella sfera interna dell’ordinamento di tali enti.
Altri temi toccati sono la nozione di modifica delle circoscrizioni comunali (art. 133 Cost.); il principio di differenziazione; i poteri sostitutivi; i limiti alla decretazione d’urgenza con riguardo alle riforme di carattere ordinamentale (tale carattere non è ravvisato nelle disposizioni, diversamente da quanto ritenuto nella sent. n. 220 del 2013); le clausola di salvaguardia previste nella legislazione statale a garanzia delle attribuzioni delle autonomie speciali. (M. Massa) DISCREZIONALITÀ LEGISLATIVA E SEMI-AUTOMATISMI CAUTELARI FAVOREVOLI Corte Cost., sent. 10-13 marzo 2014 , n. 45, Pres. Silvestri, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 89, comma 4] (artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma, e 32 Cost.) Un tossicodipendente, imputato di associazione per il traffico di stupefacenti, soggetto a custodia in carcere, chiede gli arresti domiciliari presso una comunità di recupero. La sent. n. 231 del 2011 ha annullato la preclusione assoluta, introdotta nel 2009, all’accoglimento dell’istanza, ripristinando il regime precedente: di regola, per i tossicodipendenti, gli arresti domiciliari sono preferiti, se connessi a un percorso di recupero; per alcuni reati più gravi, tra cui quello in questione, si applica il consueto bilanciamento tra esigenze di sicurezza e interessi dell’imputato. La questione è infondata: il giudice ha errato nel ricostruire il quadro normativo (difetto che, talora, porta all’inammissibilità manifesta: ordd. n. 197 e n. 206 del 2013); non sussistono automatismi tali da impedire l’apprezzamento del caso concreto; nei limiti del ragionevole, il legislatore può collegare a determinati titoli di reato non solo presunzioni relative di adeguatezza della sola custodia in carcere (sentt. n. 57, n. 213 e n. 232 del 2013), ma anche, a maggior ragione, l’esclusione da un generale favore per misure meno afflittive, come quelle orientate al recupero da dipendenze. (M. Massa) NESSUNA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA DAVANTI AL GIUDICE DI PACE Corte Cost., sent. 10-19 marzo 2014, n. 47, pres. Silvestri, red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 60 del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274] (3 e 76 Cost.) È infondata la qlc relativa alla mancata previsione legislativa della sospensione condizionale della pena nei casi di condanna a pena pecuniaria per reati di competenza del giudice di pace. Il giudice delle leggi esclude, da un lato, l’invocato eccesso di delega, in ragione del fatto che “l’art. 76 Cost. non
impedisce l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante”. Anche nel silenzio del delegante, quindi, le scelte del legislatore delegato possono dirsi legittime nella misura in cui non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega. Dall’altro, nel merito, la giurisdizione penale del giudice di pace, improntata a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità nella persecuzione di reati di ridotta entità, non è comparabile con il procedimento davanti al tribunale. La previsione oggetto del giudizio va letta, infatti, come parte di un sistema diversamente strutturato nel suo complesso, che mira a garantire “un diritto mite ma effettivo” attraverso sanzioni con modesto tasso di afflittività e carenti di effetti desocializzanti, che perseguono soluzioni deflattive e conciliative, anziché repressive. Questi elementi impediscono di scorgere nella preclusione denunciata un vulnus al principio di eguaglianza da parte della disciplina; al contrario, l’effettività delle sanzioni è finalizzata a dotare di attitudine dissuasiva anche le ridotte sanzioni del gdp, con intenti deflattivi nella commissione dei reati. [F. Minni] ECCESSO DI DELEGA E STATUTO FEDERALISMO FISCALE MUNICIPALE
DEL
CONTRIBUENTE:
NEL
Corte Cost., sent. 10-14 marzo 2014 , n. 50, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 3, commi 8 e 9] (artt. 3, 41, 42 e 76 Cost.) È annullata la disposizione del d.lgs. sul cd. federalismo fiscale municipale che, per i casi di registrazione omessa o con canone inferiore a quello reale, prevede «un meccanismo di sostituzione sanzionatoria della durata del contratto di locazione per uso abitativo e di commisurazione del relativo canone». È assorbente la censura per eccesso di delega. La Corte osserva come la disciplina in questione, «sotto numerosi profili “rivoluzionaria” sul piano del sistema civilistico vigente» (cfr. per lo scrutinio ex art. 76 di novità incisive sent. n. 272 del 2012 e sent. n. 340 del 2007) manchi di copertura nella legge delega «in riferimento sia al relativo àmbito oggettivo [concetto su cui cfr. sent. n. 219 del 2013], sia alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi perseguiti»: la delega riguardava il sistema della finanza locale; la lotta all’evasione fiscale è un «obiettivo dell’intervento normativo», ma non un «criterio per l’esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato»; era anzi prescritto il rispetto dei principi dello statuto del contribuente (legge n. 212 del 2000), sotto più profili derogati. (M. Massa)
PREGIUDIZIALE PENALE E PROCEDIMENTO DISCIPLINARE: LA CORTE SPOSA L’INTERPRETAZIONE CONFORME CONTRA LEGEM DEL CONSIGLIO DI STATO Corte cost., sent. 12 marzo – 21 marzo 2014, n. 51, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.lgs. 30 ottobre 1992, n. 449 art. 7, co. 6, e 64 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell’art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395)] (Artt. 3 e 97, Cost.) Impugnata è la disposizione sulla decorrenza del termine entro cui un appartenente al Corpo di polizia penitenziaria può essere sottoposto a procedimento disciplinare in esito a un procedimento penale (comunque definito) da cui emergano fatti e circostanze che rendano l’imputato passibile di sanzioni disciplinari. Stando alla lettera della legge, tale termine decorrerebbe dalla data della pubblicazione della sentenza (120 giorni), oppure da quella della notificazione all’Amministrazione (40 giorni). Il che, in assenza di un dovere di notificazione da parte del giudice, potrebbe vanificare l’attivazione del procedimento disciplinare nei casi in cui sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere per prescrizione del reato. La disposizione sarebbe pertanto incostituzionale per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza nonché di buon andamento della p.a. laddove non fa decorrere tale termine dal momento in cui l’Amministrazione abbia avuto notizia della sentenza penale. La Corte adotta un’interpretativa di rigetto con cui sposa l’orientamento del Consiglio di Stato che già aveva dato un’interpretazione costituzionalmente conforme alla disposizione in questione, nel senso della decorrenza dall’effettiva conoscenza della sentenza penale da parte dell’Amministrazione. Nel farlo, la Corte rileva come la norma da interpretare «non rimane cristallizzata, ma partecipa delle complesse dinamiche che nel tempo investono le fonti del diritto a livello nazionale e sovranazionale, che l’interprete che necessariamente prendere in esame, al fine di preservare attualità ed effettività delle tutele», «essendo la ‘vivenza’ della norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali» (ordinanza n. 191 del 2013). La Corte, a tal fine, ricostruisce l’evoluzione delle legislazioni che si sono susseguite sul sistema disciplinare del pubblico impiego, in genere, e di quello del Corpo di polizia penitenziaria, in particolare, il quale rinvia per più aspetti alla disciplina generale. Se al momento dell’entrata in vigore della legge speciale impugnata la disciplina generale era informata al principio della pregiudiziale penale (sospensione cautelare del dipendente in pendenza del procedimento penale; arresto, inizio o prosecuzione del procedimento disciplinare in esito alla definizione del procedimento penale), in seguito tale disciplina generale si è evoluta verso l’autonomia dei due procedimenti. Sulla scorta di tali
premesse, il Consiglio di Stato aveva interpretato la disposizione impugnata in modo da far decorrere il termine dalla data di conoscenza effettiva della pronunzia penale, per l’esigenza – dettata dal principio del giusto procedimento e del buon andamento – che l’azione disciplinare non decada prima che l’amministrazione abbia avuto effettiva conoscenza degli elementi emersi in sede penale e suscettibili di legittimare l’azione disciplinare. Per la Corte, tutto ciò si armonizzerebbe con la complementarità che imparzialità e buon andamento della p.a. hanno assunto a partire dalla legge n. 241 del 1990: l’amministrazione sarebbe da ciò impegnata ad assicurare l’effettivo raggiungimento dello scopo cui è orientata la sua azione anche attraverso il superamento dei vizi formali. L’interpretazione conforme così “antiformalista” patrocinata dal Consiglio di Stato e sposata dalla Corte troverebbe conforto nello stesso precedente con cui la Corte – superando la precedente sentenza n. 264 del 1990 – aveva ritenuto irragionevole e contrario al buon andamento che il decorso del termine scattasse dalla conclusione del giudizio penale anziché dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione (sentenza n. 186 del 2004, la quale, però, era una sentenza d’accoglimento sostitutiva, non una sentenza interpretativa di rigetto diretta a superare la lettera della disposizione). [A. Guazzarotti] QUAESTIO SULLA LEGGE L’INCIDENTALITÀ MANCA
ELETTORALE:
QUESTA
VOLTA
Corte Cost., ord. 24-27 marzo 2014 , n. 57, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, comma 1, numero 5), e comma 2; d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4; d.lgs. 25 luglio 198, n. 286, artt. 10-bis e 14, commi 5-bis e 5quater] (artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 Cost.; art. 3 del Protocollo addizionale CEDU) Un giudice di pace, pronunciandosi su fatti di immigrazione irregolare, dubita della costituzionalità delle disposizioni in epigrafe, siccome approvate da un Parlamento eletto a norma della legge n. 270 del 2005, a sua volta viziata dalla mancata previsione del voto di preferenza. La questione è manifestamente inammissibile: non solo per la mancanza di riferimenti alle vicende concrete, e per l’annullamento delle norme elettorali già intervenuto con la sent. n. 1 del 2014; ma anche perché il rimettente non è chiamato ad applicare tali norme, sicché la loro impugnazione «si configur[a] quale tentativo da parte del rimettente di proporre in via diretta un controllo di costituzionalità, che risulta surrettiziamente attivato»; e perché, comunque, come la stessa sent. n. 1 ha puntualizzato, restano salvi gli atti adottati dal Parlamento prima dell’annullamento della legge elettorale. (M. Massa)
BLOCCO DELLE ASSUNZIONI ANCHE ACCADEMICHE “INTERTEMPORALI”
PER
LE
PROGRESSIONI
Corte cost., sent. 24-28 marzo 2014, n. 60 - Pres. Silvestri, Red. Criscuolo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 1, c. 1 e 3, d.l. 10 novembre 2008, n. 180, conv. con modif. dalla l. 9 gennaio 2009, n. 1] (Artt. 3, 33 e 97 Cost.) Il blocco delle assunzioni, previsto dal d.l. n. 180 del 2008 per gli Atenei che avessero superato un determinato limite parametrico per quanto riguarda le spese per il personale di ruolo, era stato opposto da due Università all'avanzamento di un professore associato, dichiarato idoneo e chiamato alla copertura di un posto di professore ordinario e tuttavia non ancora immesso in ruolo alla data di entrata in vigore della l. di conversione del d.l., e all'assunzione di un ricercatore, dichiarato vincitore con decreto rettorale successivo a quella data, di un concorso svoltosi prima della stessa. Alle plurime censure di irragionevolezza della disciplina, la Corte replica, da una parte, con una interpretazione costituzionalmente conforme del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 1 del d.l., che non prevedono una disciplina di vantaggio per gli atenei “non virtuosi”, ma delineano tanto per questi come per le università rispettose dei parametri legislativi, i medesimi limiti alla facoltà di completare le assunzioni; dall'altra, considerando che «rientra nella discrezionalità del legislatore – nel momento in cui, per esigenze di contenimento della spesa pubblica, ritenga di stabilire, nei confronti delle università statali che si trovano in determinate condizioni, un blocco nelle assunzioni di personale – la determinazione sia delle modalità di tale blocco, sia di eventuali eccezioni, sia dei tempi entro i quali queste ultime sono destinate ad operare» e che «il discrimine nella applicazione di diverse discipline legislative normative, basato su dati cronologici, non può dirsi fonte di una ingiustificata disparità di trattamento». [C. Domenicali] CONFERMATA (ANCHE PER LE PROVINCE AUTONOME) LA LEGITTIMITA' DEL CONTENIMENTO DELLA SPESA IN MATERIA DI IMPIEGO Corte cost., sent. 24-28 marzo 2014, n. 61 - Pres. Silvestri, Red. Mazzella Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 9, c. 1, 2, 2-bis, 3, 4, 28 e 29, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modif. dalla l. 30 luglio 2010, n. 122] (Artt. 117, c. 3, e 119 Cost.; art. 8, n. 1), e Titolo VI d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) La Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle più volte contestate disposizioni della manovra correttiva 2010, destinate a contenere le spese in materia di impiego per le pubbliche amministrazioni e per
le società non quotate controllate. Secondo la Provincia autonoma ricorrente, la fissazione precisa della misura del taglio per le retribuzioni più elevate, l'imposizione di limiti a singole voci di spesa e la specificazione delle modalità di contenimento delle stesse, andavano a ledere l'autonomia organizzativa e finanziaria, nonché la competenza legislativa primaria, riconosciuta alla stessa dal quadro costituzionale e statutario. In linea con i propri precedenti (spec. sent. 215/2012) la Corte riconosce la natura di principio fondamentale in materia di «coordinamento della finanza pubblica», sia alla disciplina che ha l'effetto finale di fissare, per il triennio 2011-2013, l’ammontare complessivo degli esborsi a carico della Provincia autonoma a titolo di trattamento economico del personale, poiché si tratta di «norma che impone un limite generale ad una rilevante voce del bilancio regionale, legittimamente emanata dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa concorrente»; sia alla norma secondo la quale nel periodo 2011/2013, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale di ciascuna delle amministrazioni pubbliche non poteva superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed era, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, «poiché introduce un limite per un settore rilevante della spesa per il personale, costituito dalle voci del trattamento accessorio»; sia infine ai limiti alla possibilità per le pubbliche amministrazioni statali di ricorrere alle assunzioni a tempo determinato e alla stipula di convenzioni e contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nonché limiti alla spesa sostenibile dalle stesse amministrazioni per i contratti, poiché la disciplina «pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale, ma al contempo lascia alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previsti». Inoltre, quanto al trattamento economico complessivo e alla disciplina del rapporto di lavoro del personale dirigenziale, la Corte riconduce tali rapporti di impiego contrattualizzati alla competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» (sentt. 173/2012, 18 e 77/2013). [C. Domenicali] CONCESSIONI IDROELETTRICHE: SUPERA IL VAGLIO DELLA CORTE LA DETERMINAZIONE DEL CANONE IN BASE ALLA TARIFFA PROGRESSIVA Corte Cost., sent. 26 marzo-1 aprile 2014, n. 64, Pres. Silvestri, Red. Napolitano Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [L. Provincia autonoma Bolzano 8 aprile 2004, n. 1, art. 29; l. Provincia autonoma Bolzano 29 agosto 2000, n. 13, art. 3, c. 1 e 2] (Cost., artt. 3, 23, 24, 41, 97, 113, 117, c. 1, 2, lett. e) ed s), 3, e 120; d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, artt. 5, 9 e 13 – Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige – e d.P.R. 26 marzo 1977, n. 235, artt. 1 e 1-bis – Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di energia –)
Non sono fondate le diverse questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale superiore delle acque pubbliche sull’art. 29 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 aprile 2004, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2004 e per il triennio 2004-2006 e norme legislative collegate – legge finanziaria 2004), nella parte in cui, modificando l’art. 1, c. 1, lett. c), della legge della Provincia autonoma di Bolzano 29 marzo 1983, n. 10 (Adeguamento della misura dei canoni per le utenze di acqua pubblica), fissa l’ammontare del canone delle concessioni per le derivazioni di acqua pubblica ad uso idroelettrico, che sviluppano oltre 3.000 chilowatt di potenza nominale, in 24 euro per ogni chilowatt di potenza nominale concessa o riconosciuta, stabilendo, al c. 3, la decorrenza di detto aumento dal 1° luglio 2004. Per un compiuto inquadramento delle articolate questioni sollevate, la Corte ripercorre l’evoluzione normativa delle competenze in materia di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, rilevando in particolare che con l’entrata in vigore delle modifiche del Titolo V alle Regioni ordinarie è stata attribuita la competenza concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (art. 117, c. 3, Cost.); poichè le competenze spettanti in materia di energia alle Province autonome di Trento e di Bolzano in base allo statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige sono meno ampie rispetto a quelle riconosciute nella stessa materia alle Regioni, le Province stesse possono, sulla base dell’art. 10 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, rivendicare una propria competenza legislativa concorrente nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» identica a quella delle Regioni ad autonomia ordinaria (cfr. sent. n. 383 del 2005). In riferimento all’art. 117, c. 3, Cost., la questione non è fondata, poichè le disposizioni provinciali che hanno fissato importi differenziati del canone all’interno della stessa tipologia di uso idroelettrico, sulla base di una tariffa di tipo progressivo, non erano in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale. Infatti, la questione riguarda gli anni 2004/2005, periodo nel quale erano già state trasferite alla Province autonome le funzioni relative al demanio idrico statale ed in tale materia era stata riconosciuta la potestà legislativa concorrente. I soli principi della legislazione statale capaci di circoscrivere tale potestà in materia di energia consistevano nella onerosità della concessione e dalla determinazione del canone in base all’effettiva entità dello sfruttamento, che nel caso di specie risultano rispettati. Non può, di contro, qualificarsi come espressione di un principio fondamentale il criterio di determinazione del canone in base ad un importo fisso e non progressivo, in quanto la legislazione statale non vietava che un maggior uso del bene pubblico potesse essere assoggettato a costi maggiori. Analogamente infondate sono: 1) la censura di violazione del principio fondamentale espresso dalla legislazione statale secondo cui i canoni non possono essere aumentati indiscriminatamente, bensì aggiornati ogni certo numero di anni con provvedimento amministrativo adottato dalla autorità
amministrativa che deve attenersi ad un criterio predeterminato, generalmente costituito dal tasso di inflazione, o dall’aumento del costo della vita, o da simili parametri; 2) la censura in base alla quale l’art. 29, intervenendo a distanza di un solo anno da quando lo stesso legislatore provinciale aveva ribadito la regola dell’aggiornabilità biennale del canone con la legge prov. n. 1 del 2003, e disponendo, anche per le concessioni in corso, l’aumento del canone, si porrebbe in contrasto con i principi dell’ordinamento comunitario dell’affidamento all’invarianza dei canoni e della certezza del diritto cui il legislatore provinciale deve uniformarsi ai sensi dell’art. 117, c. 1, Cost. La prospettazione del Tribunale rimettente si presta infatti all’osservazione critica di aver accomunato il criterio di determinazione del canone dettato dalla normativa censurata, all’attività amministrativa di competenza della Giunta provinciale, di adeguamento biennale del canone al costo della vita; inoltre, la previsione avente la funzione di consentire la misurazione del canone non è espressione di un principio fondamentale della legislazione statale, costituendo la modalità concreta di esercizio della potestà normativa provinciale. A questo riguardo, la Corte rammenta che «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, c. 2, Cost.). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (sent. n. 264 del 2005). Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea ha sottolineato che una mutazione dei rapporti di durata deve ritenersi illegittima quando incide sugli stessi in modo «improvviso e imprevedibile» senza che lo scopo perseguito dal legislatore imponga l’intervento (sent. 29 aprile 2004, in cause C-487/01 e C-7/02). In tale solco, con la sentenza n. 302 del 2010 la Corte ha reputato legittimo l’intervento legislativo teso alla «variazione dei criteri di calcolo dei canoni dovuti dai concessionari di beni demaniali» e volto ad adeguare i canoni di godimento di beni pubblici con lo scopo di consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati a favore di locatori privati. Non è dunque irragionevole determinare il canone sulla sede di fasce commisurate alla potenza degli impianti di derivazione, in modo da garantire un maggior prelievo al progredire della risorsa sottratta all’uso della collettività, nell’ottica di una migliore preservazione delle risorse idriche. Il remittente contesta al legislatore provinciale anche di aver adottato una legge provvedimento arbitrariamente e in assenza dei presupposti per legiferare in violazione degli artt. 3 e 97 Cost., nonché per sottrarre agli interessati il diritto, garantito dagli artt. 24 e 113 Cost., di impugnare l’aumento del canone dinanzi al giudice ordinario o amministrativo. La Corte sul punto però rileva che le impugnate disposizioni in materia di determinazione dei canoni costituiscono espressione della potestà normativa riconosciuta alla Provincia dalla normativa di attuazione dello statuto; il potere di
determinazione dei canoni di concessione è stato esercitato dalla Provincia nel rispetto dei principi fondamentali delle leggi dello Stato; la modalità di quantificazione del canone costituisce atto di esercizio di potestà normativa, da tenere distinto dal provvedimento amministrativo di adeguamento biennale del canone in base al costo della vita. Anche sul piano soggettivo, infine, la platea dei destinatari è indeterminata, essendo la disciplina provinciale rivolta a qualunque concessionario che utilizzi l’acqua per impieghi di natura idroelettrica nell’ambito territoriale di riferimento. [A. Cossiri] LA CORTE SALVA IL PROCEDIMENTO SPECIALE PER LA LIQUIDAZIONE DEI COMPENSI DEGLI AVVOCATI Corte Cost., sent. 26 marzo-1 aprile 2014, n. 65, Pres. Silvestri, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, artt. 3, c. 1, e 14, c. 2; l. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54, c. 4, lett. a)] (Cost., artt. 76, 3 e 97) La questione investe gli artt. 3, c. 1, e 14, c. 2, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui prevedono che — nei procedimenti in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati — il Tribunale decida in composizione collegiale, anziché monocratica, e che ai medesimi procedimenti si applichi l’inconvertibilità nel rito ordinario. Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 76 Cost., la Corte rileva che la legge di delega ha prescritto che rimanessero «fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente». In attuazione della predetta delega, il legislatore delegato ha confermato il previgente modello processuale, caratterizzato dal procedimento camerale per le controversie sulla liquidazione degli onorari forensi (art. 28 della legge n. 794 del 1942) e dalla conseguente collegialità dell’organo giudicante (art. 50-bis, c. 2, cod. proc. civ.). L’inconvertibilità del rito sommario in quello ordinario è applicazione del principio della legge delega che esclude la conversione nel rito ordinario dei procedimenti sommari in cui sono prevalenti i caratteri di semplificazione della trattazione e dell’istruzione della causa. Parimenti infondate sono le questioni che investono le disposizioni della legge di delega che autorizzano la disciplina contestata posta dal decreto legislativo, sollevate in via subordinata dal giudice remittente, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. Anzitutto, come da consolidata giurisprudenza, «il principio di cui all’art. 97 Cost. si riferisce agli organi dell’amministrazione della giustizia unicamente per profili concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, ma non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso e i
provvedimenti che ne costituiscono espressione». Inoltre, «nella disciplina degli istituti processuali vige il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte operate dal legislatore con il limite della non manifesta irragionevolezza», che non appare superato in considerazione delle «molteplici peculiarità proprie del rito previsto per le controversie in materia di onorari forensi», tra le quali la riserva di collegialità, i criteri di determinazione della competenza, il regime delle impugnazioni, la possibilità di incardinare il giudizio in unico grado dinanzi alla Corte di appello e di partecipare personalmente al procedimento, senza l’assistenza di un difensore. Queste peculiarità impediscono l’assimilazione del caso ai procedimenti relativi alle controversie sulla sussistenza del credito del professionista, trattati dal giudice monocratico nelle forme del rito ordinario di cognizione. La prevista riserva di collegialità, quale modalità scelta dal legislatore per differenziare una situazione processuale eterogenea rispetto al modello ordinario, «può giustificarsi in termini di bilanciamento che il legislatore, con valutazione discrezionale insindacabile, ha ritenuto adeguato per compensare la riduzione dei rimedi e delle garanzie connessa, da un lato, all’esclusione dell’appello e, dall’altro lato, alla possibilità di partecipare personalmente al giudizio, rinunciando ad avvalersi dell’assistenza tecnica di un difensore». [A. Cossiri] MEMORANDUM PER I GIUDICI A QUIBUS: DEGLI INCONVENIENTI DI FATTO NON SI FACCIA UNA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ Corte cost., ord. 26 marzo – 1 aprile 2014, n. 66 - Pres. Silvestri, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 197, c. 1, lett d), c.p.p.] (Artt. 3, 97 e 111 Cost.) L'ordinanza dichiara manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d'appello di Venezia in relazione all'art. 197, c. 1, lett d), c.p.p., per la parte in cui non consente l’assunzione come testimoni di coloro che in un determinato procedimento svolgano o abbiano svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario, nemmeno «nella ipotesi in cui la prova testimoniale sia unicamente finalizzata all’accertamento di un errore materiale nell’atto al quale figurano avere partecipato». La Corte d'appello si trovava di fronte all'esigenza di verificare l'effettiva composizione del Tribunale collegiale davanti al quale si era svolta l'udienza dibattimentale di primo grado, per “evitare” di dover accogliere l'eccezione di nullità della sentenza impugnata per violazione del principio di immutabilità del giudice: le circostanze facevano invero supporre un mero errore materiale nella redazione del verbale di udienza, e la possibilità di procedere all'esame testimoniale dei giudici presenti, ovvero del cancelliere, avrebbe salvaguardato, secondo la rimettente, il principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, nonché il generale principio di ragionevolezza delle leggi. La Corte osserva però che «quello denunciato non è altro che un inconveniente di fatto […] e non certo un effetto
collegato alla struttura della norma censurata» e che la «assoluta inconciliabilità funzionale» tra il ruolo di giudice e quello di testimone vale a fortiori in un'ipotesi in cui si vorrebbe far sì che i giudici possano essere chiamati a testimoniare per evitare la dichiarazione di nullità proprio di atti da essi compiuti. [C. Domenicali] SPETTA ALLO STATO DETERMINARE LE GARANZIE DEI GESTORI DI RIFIUTI Corte Cost., sent. 26 marzo-2 aprile 2014, n. 67, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 22, comma 2, della legge della Regione Puglia 28 dicembre 2006, n. 39 (Norme relative all’esercizio provvisorio del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2007)] (Artt. 117, c. 2, lettera s), e c. 6 Cost; art. 195, c. 2, lettera g), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, secondo comma, L.r. Puglia n.39 del 2006, che prevedeva l'emanazione di un regolamento regionale per la «determinazione delle garanzie finanziarie per la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti» per sopperire provvisoriamente all'inerzia statale. A parere della Corte, infatti, in materia di tutela dell'ambiente (nella quale rientrano anche dette garanzie finanziarie, sent. n. 247 del 2009) la Regione «in assenza dei criteri che soltanto lo Stato può determinare, è comunque priva – anche in via transitoria – di titoli di competenza legislativa e regolamentare» (cfr. sentt. nn. 373 del 2010, 127 del 2010 e n. 314 del 2009). [F. Conte] «TREGLIO AFFRESCATA» È SENZA COPERTURA Corte Cost., sent. 26 marzo-2 aprile 2014, n. 68, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. art. 5, comma 3, della legge della Regione Abruzzo 10 dicembre 2012, n. 59 (Riconoscimento di Treglio paese dell’affresco)] (Artt. 81, c. 4 Cost. fino all'esercizio 2014 e 81, c. 1 e 3 a partire dall'esercizio 2014, Cost.) La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità di alcune disposizioni di una legge della Regione Abruzzo che istituiva e finanziava la manifestazione culturale «Treglio affrescata» «senza indicare, in concreto, la misura e la copertura dell’impegno finanziario richiesto» (sentt. nn. 181 e n. 51 del 2013, n. 68 del 2011 e n. 141 del 2010). Benché la legge fosse già stata abrogata, la Corte ha comunque deciso la questione nel merito, rilevando il
«ragionevole sospetto» che fosse stata medio tempore applicata (sentt. nn. 11 del 2014 e 192 del 2012). [F. Conte] AFFIDAMENTO E RETROATTIVITÀ: IL CASO DELLE DECADENZE Corte cost., sent. 26 marzo - 2 aprile 2014, n. 69, Pres. Silvestri, Red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.-l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni, dalla l. 15 luglio 2011, n. 111, art. 38, comma 4] (Costituzione, art. 3) La sentenza annulla, per violazione del principio di ragionevolezza, la norma – avvalorata dal legislatore come “interpretazione autentica” ed espressamente diretta ad applicarsi retroattivamente ai giudizi pendenti in primo grado – che introduceva, per le domande di adeguamento delle prestazioni previdenziali già riconosciute, un termine di decadenza triennale e un termine di prescrizione quinquennale (rispettivamente, per gli accessori e per i ratei arretrati), in luogo del termine di prescrizione decennale applicabile secondo il diritto vivente del giudice della nomofilachia. Secondo la Corte, la norma retroattiva – indipendentemente dal suo carattere interpretativo o meno – trova un limite nel principio dell’affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico. Tale principio di affidamento governa anche la materia processuale, ed è violato se il legislatore impone retroattivamente soluzioni interpretative innovative rispetto a quelle affermatesi nella prassi (sono richiamate le sentt. n. 525 del 2000 e n. 111 del 1998) . Una ulteriore conferma della intrinseca irragionevolezza della norma impugnata sta nel fatto che la retroattività investe una previsione di decadenza, non essendo logicamente configurabile una ipotesi di estinzione del diritto per mancato esercizio da parte del titolare in assenza di una previa determinazione del termine (è citata la sent. n. 191 del 2005). (Fabio Corvaja) CONFLITTO CONTRO ATTO FONDATO SU LEGGE ANNULLATA E TERMINI DI IMPUGNAZIONE DELLE LEGGI Corte cost., sent. 26 marzo - 2 aprile 2014, n. 71, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi Giudizio per conflitto di attribuzione tra enti [Decreto del Ministero dell’interno 26 luglio 2012 (Riduzione delle risorse per sanzione ai comuni e alle province non rispettosi del patto di stabilità – anno 2011)] (Costituzione, artt. 76 e 119, in relazione all’art. 10 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3; art. 43 del r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455). La sentenza dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Sicilia in relazione ad un decreto del Ministero dell’interno che, in
applicazione delle sanzioni previste dall’art. 7 del d.lgs. n. 149 del 2011, riduceva le risorse per gli enti locali della Regione che non avevano rispettato il patto di stabilità. La decisione in rito è motivata con la mancata tempestiva impugnazione, da parte della Regione ricorrente, della disposizione legislativa statale che fungeva da base normativa per il decreto direttoriale oggetto del conflitto, il quale risultava meramente esecutivo rispetto alla norma primaria. A nulla rileva, stando alla pronuncia, l’annullamento della norma statale pronunciato medio tempore dalla sentenza n. 219 del 2013, all’esito di un giudizio promosso da altre Regione speciali. Infatti, benché la sentenza in parola avesse espressamente statuito l’estensione degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità anche rispetto alla Regione Sicilia, l’inammissibilità del conflitto è imposta dalla esigenza che non siano elusi i termini perentori previsti per l’impugnazione in via principale delle leggi. L’annullamento sopravvenuto, secondo i giudici costituzionali, non vale a sanare un originario vizio di inammissibilità del ricorso. Rimane salva, tuttavia, la possibilità per la Regione di contestare il decreto avanti al giudice comune facendo valere il fatto che l’atto sia ormai privo di base normativa. (Fabio Corvaja) COORDINAMENTO DELLA FINANZA E SPECIALITA’: LA CLAUSOLA NON SCRITTA DELL’“ACCORDO DI MILANO” Corte cost., sent. 26 marzo - 2 aprile 2014, n. 72, Pres. Silvestri, Red. Cassese Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [d.-l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modifiche dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, art. 6] (Costituzione, art. 117, terzo comma, e 119; d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, art. 79) La Corte costituzionale, confermando una posizione già assunta con la sentenza n. 221 del 2013, osserva che il nuovo art. 79 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige non impedisce allo Stato di dettare norme di coordinamento della finanza pubblica vincolanti anche per le Province autonome. Invero, la disposizione statutaria – novellata dall’art. 2, comma 107, della l. 23 dicembre 2009, n. 191, che ha riscritto le norme finanziarie contenute titolo VI dello statuto speciale in attuazione del c.d. “accordo di Milano” del 30 novembre 2009 – prevede che tali Enti ad autonomia differenziata assicurino il concorso agli obiettivi di finanza pubblica concordando con il Ministro dell'economia e delle finanze gli obblighi relativi al patto di stabilità interno con riferimento ai saldi di bilancio da conseguire in ciascun periodo, e conseguentemente dispone che alle due Province non si applichino le misure adottate per le Regioni e per gli altri enti nel restante territorio nazionale.
Tuttavia, secondo la Corte, la speciale disciplina di cui all’art. 79 dello statuto riguarda soltanto il patto di stabilità interno: con riferimento alle altre disposizioni di coordinamento della finanza pubblica, invece, rimane il vincolo a carico della Regione e delle Province autonome, le quali debbono conformare ad esse la propria legislazione, entro i limiti stabiliti dallo statuto. (Fabio Corvaja) PROCESSO AMMINISTRATIVO: LA CORTE SI PRONUNCIA SUI LIMITI ALL’AMMISSIBILITA’ DEL RICORSO STRAORDINARIO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Corte Cost., sent. 26 marzo-2 aprile 2014, n. 73, Pres. Silvestri, Red. Cassese Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 7, c. 8] (Cost., artt. 76 e 77, c. 1) Il Consiglio di Stato, nell’esercizio della propria funzione consultiva in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, c. 8, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), per violazione del combinato disposto degli artt. 76 e 77, c. 1, Cost. Ad avviso del collegio rimettente, la disposizione censurata, secondo cui il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica «è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa» (con esclusione dunque delle controversie devolute al giudice ordinario), avrebbe determinato un effetto innovativo in una materia estranea all’oggetto della delega di mero riordino sulla cui base è stata adottata. In via preliminare, la Corte riconosce la legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare questioni di legittimità costituzionale in sede di parere sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: come già affermato in via giurisprudenziale per il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, l’art. 69, c. 1, l. 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) ha stabilito che l’organo competente ad esprimere il parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, «se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l’espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale». Tale disposizione, contenuta in una legge ordinaria, è coerente con i criteri posti dall’art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, ai sensi del quale la questione di legittimità costituzionale deve essere rilevata o sollevata «nel corso di un giudizio» e deve essere ritenuta non manifestamente infondata da parte di un «giudice». L’istituto del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, infatti, è stato oggetto di importanti interventi legislativi, che hanno tra l’altro riconosciuto natura vincolante al parere del Consiglio di Stato, che assume così carattere di decisione. Nel merito, la questione non è fondata: anzitutto la disposizione censurata non si riferisce ad un oggetto estraneo alla delega per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, che include il riordino delle norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni. A seguito della riforma, infatti, il ricorso straordinario ha perso la propria connotazione amministrativa, assumendo la qualità di rimedio giustiziale, con caratteristiche assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo. «La disposizione censurata, perciò, è intesa a coordinare i rapporti fra la giurisdizione amministrativa e l’ambito di applicazione di un rimedio giustiziale attratto per alcuni profili nell’orbita della giurisdizione amministrativa medesima, in quanto metodo alternativo di risoluzione di conflitti, pur senza possederne tutte le caratteristiche». La norma censurata, inoltre, non produce un effetto innovativo incompatibile con la natura della delega, che autorizza l’esercizio di poteri innovativi della normazione vigente, a condizione che siano strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con l’operazione di riordino. L’esperibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica anche per controversie devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, in regime di concorrenza e non di alternatività con tale giurisdizione, si basa su una risalente tradizione interpretativa, consolidatasi nel presupposto della natura amministrativa del rimedio; in virtù di tale natura, al giudice ordinario era sempre consentito disapplicare la decisione sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. La legge n. 69 del 2009, modificando la disciplina del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, «ha fatto venir meno quel presupposto, su cui si fondava il regime di concorrenza fra tale rimedio amministrativo e il ricorso dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria. Nel nuovo contesto, simile concorrenza si trasformerebbe, come ha rilevato la difesa dello Stato, in una inammissibile sovrapposizione fra un rimedio giurisdizionale ordinario e un rimedio giustiziale amministrativo, che è a sua volta alternativo al rimedio giurisdizionale amministrativo e ne ricalca solo alcuni tratti strutturali e funzionali. Per risolvere questa anomalia, la disposizione censurata, superando l’assetto consolidatosi in via interpretativa, ha limitato l’ammissibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica alle sole controversie devolute alla giurisdizione amministrativa. Tale soluzione, che avrebbe potuto ricavarsi dal sistema, è comunque la conseguenza logica di una scelta – la traslazione del suddetto ricorso straordinario dall’area dei ricorsi amministrativi a quella dei rimedi giustiziali – che è stata compiuta dalla legge n. 69 del 2009. Sotto tale profilo, la norma censurata risponde, quindi, ad una evidente finalità di ricomposizione sistematica, compatibile con la qualificazione di delega di riordino o riassetto normativo propria dell’art. 44 della legge n. 69 del 2009». [A. Cossiri]
SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE DELLA PENA NEL FURTO AGGRAVATO: LA CORTE RESTITUISCE GLI ATTI AL GIUDICE PER IUS SUPERVENIENS Corte Cost., ord. 26 marzo-2 aprile 2014, n. 75, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 656, c. 9, lett. a), cod. proc. pen.] (Cost., artt. 3 e 27) Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 656, c. 9, lett. a), cod. proc. pen., modificato dall’art. 2, c. 1, lett. m), del d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, della l. 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui stabilisce che la sospensione dell’esecuzione, anche qualora la pena detentiva non sia superiore a tre anni, non può essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 624 cod. pen., quando ricorrono due o più circostanze tra quelle indicate dall’art. 625 dello stesso codice. La Corte rileva che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore il d.l. del 1 luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena – cd. “decreto carceri”), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, della l. 9 agosto 2013, n. 94, il quale ha modificato la disposizione censurata, escludendo dall’elenco dei reati per i quali l’esecuzione della condanna, ancorché a pena detentiva inferiore ai tre anni, non può essere sospesa, il delitto di furto aggravato da due o più circostanze tra quelle indicate dall’art. 625 cod. pen. A fronte di questo ius superveniens, va disposta la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione riguardo alla rilevanza della questione, alla luce del mutato quadro normativo. [A. Cossiri] QUANDO IL GIUDICE RIPROPONE IDENTICHE QUESTIONI DICHIARATE INAMMISSIBILI (1) Corte Cost., ord. 26 marzo-2 aprile 2014, n. 76, Pres. Silvestri, Red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 9, c. 3, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 24 marzo 2012, n. 27] (Cost., artt. 3, 24, 101, 104, 107, 111 e 117) La Corte dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni, sollevate dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, aventi ad oggetto l’art. 9, c. 3, del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui dispone che «Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad
applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, fino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Infatti, questioni testualmente identiche a quelle riproposte con le ordinanze in epigrafe – già sollevate, con plurime ordinanze, dal medesimo Tribunale – sono state dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di motivazione sulla rilevanza, «del tutto incomprensibilmente legata soltanto all’obiettivo del rimettente di poter liquidare le spese processuali attraverso l’auspicata caducazione proprio di quella disposizione intertemporale che tale liquidazione gli consentiva», e perché, «in relazione ai numerosi parametri invocati (per altro in modo disarmonico tra motivazione e dispositivo), manca una pertinente e coerente motivazione delle ragioni che ne determinerebbero, nella specie, la violazione da parte della norma denunciata» (ordd. nn. 115, 217 e 261 del 2013). [A. Cossiri] QUANDO IL GIUDICE RIPROPONE IDENTICHE QUESTIONI DICHIARATE INAMMISSIBILI (2) Corte Cost., ord. 26 marzo-1 aprile 2014, n. 77, Pres. Silvestri, Red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 1385, c. 2, cod. civ.] (Cost., art. 3) La Corte dichiara manifestamente inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Tivoli sulla disciplina della caparra confirmatoria, censurata con riferimento all’art. 3, c. 2 Cost., per sospetta sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore». Questione identica era già stata sollevata dal medesimo Tribunale in fattispecie speculare di ritenzione della caparra da parte del promittente del venditore ed è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza con la sentenza n. 248 del 2013: «quanto al primo profilo, perché – nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento dell’accipiens o del tradens, e, rispettivamente, la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria – il rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385 cod. civ., è comunque un inadempimento «“gravemente colpevole […], cioè imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)” come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009». E, quanto al secondo profilo, perché quel Tribunale non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola
stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «“funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)». [A. Cossiri] NESSUNA PEREQUAZIONE A SPESE DELLE REGIONI Corte Cost., sent. 7-8 aprile 2014, n. 79, Pres. Silvestri, Red. Tesauro Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 16, c. 1 e 2, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95] (Artt. 3, 5, 117, c. 1, 2, 3 e 4, e 119 Cost) La Regione Lombardia ha impugnato alcune disposizioni contenute nel d.l. 95 del 2012, che imponevano di fatto una riduzione «consumi intermedi» delle Regioni, ossia quei quelle spese che «rappresentano il valore dei beni e dei servizi consumati quali input in un processo di produzione» (Regolamento CE 25 giugno 1996, n. 2223). La Consulta ha parzialmente accolto le censure della Regione. In primo luogo ha ribadito che il legislatore statale può fissare limiti a specifici capitoli di spesa delle Regioni ma solo in via transitoria per il raggiungimento di specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica (tra le molte, sentt. nn. 169 del 2007 e 36 del 2004) ed ha conseguentemente disposto, con pronuncia additiva, una limitazione temporale «sino al 2015» della portata della disposizione censurata. In secondo luogo la Corte ha bocciato un meccanismo di perequazione realizzato mediante prelievi alle Regioni effettuati sulla base indici indiretti di ricchezza (appunto, la spesa relativa ai consumi intermedi). Un siffatto sistema, infatti, violerebbe i principi espressi in materia dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare per l'origine delle risorse (che «devono provenire dallo Stato», sent. n. 176 del 2012) e per l'assenza dell'indicazione di un loro impiego per uno «specifico ambito territoriale di localizzazione» e per «particolari categorie svantaggiate» (sentenza n. 254 del 2013), . [F. Conte] UNA SENTENZA SOSTITUTIVA «A TEMPO»: IRRAGIONEVOLE PUNIRE L'OMESSO VERSAMENTO PIÙ DELLA DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA Corte Cost., sent. 7-8 aprile 2014, n. 80, Pres. Silvestri, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205)] (Art. 3 Cost.)
La Corte ha dichiarato l'illegittimità per irragionevolezza dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’IVA anche per evasioni di importo inferiore (50.000 euro) rispetto all'omessa dichiarazione (77.468,53 euro) e alla dichiarazione fraudolenta (103.291,38 euro), che invece costituiscono condotte più insidiose. Tale difetto di coordinamento risulta «foriero di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza, rendono censurabile l’esercizio della discrezionalità pure spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte di reato (ex plurimis, sentenze n. 68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010)». L'illegittimità, tuttavia, sussiste esclusivamente per i fatti commessi fino alla data del 17 settembre 2011, in quanto con L. n. 148 del 2011 (di conversione del d.l. 138 del 2011) il legislatore ha abbassato le soglie di punibilità dell'omessa dichiarazione e della dichiarazione fraudolenta. La Corte ha dunque aumentato la soglia di punibilità dell'omesso versamento solo per fatti precedenti a quella data, pronunciando una sentenza sostanzialmente sostitutiva ma con effetti delimitati nel tempo.[F. Conte] Corte Cost., Ord. 8 aprile 2014, n. 82, Pres. Silvestri, Red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 19, lettera b), legge 20 maggio 1970, n. 300, (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) ] (artt. 3 e 39 Cost.) Nel giudizio di legittimità costituzionale sollevato dal Tribunale ordinario di Melfi con ordinanza del 28 novembre 2012 e resa nel giudizio civile tra la FIOM – Federazione impiegati operai metalmeccanici – Federazione Provinciale di Potenza e la SATA – Società autoveicoli tecnologie avanzate s.p.a. et al., è venuta nuovamente in questione la legittimità costituzionale dell’art. 19, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), per supposto contrasto con gli artt. 3 e 39 della Costituzione nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda. Il giudice delle leggi, riscontrando come, nelle more del giudizio, fosse già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata (sent. n. 231/2013), ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione prospettata per sopravvenuta carenza di oggetto. (C. Drigo)
Corte Cost., Ord. 8 aprile 2014, n. 83, Pres. Silvestri, Red. Tesauro Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 18, comma 22-bis, d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, come successivamente modificato dall’art. 24, comma 31-bis, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214] (artt. 2,3 e 53 Cost.) Di fronte a due giudizi di legittimità costituzionale sollevati dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio (e riuniti dal Giudice delle Leggi) è venuta nuovamente in questione la legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria) - convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, come successivamente modificato dall’art. 24, comma 31-bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 - per violazione degli artt. 2,3 e 53 della Costituzione. La Consulta, riscontrando come, nelle more del giudizio, fosse già stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata (sent. n. 116/2013), ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione prospettata per sopravvenuta carenza di oggetto. (C. Drigo) I FONDI PER IL RIENTRO SANITARIO SONO VINCOLATI Corte Cost., sent. 7-10 aprile 2014, n. 85, Pres. Silvestri, Red. Tesauro Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [L.r. Abruzzo 10 gennaio 2012, n. 1 e L.r. Abruzzo 29 ottobre 2012, n. 51] (Artt. 117, c.1 , lettere e) ed s), c. 3a, e 120 Cost.) Con molteplici ricorsi lo Stato ha censurato due disposizioni della L.r. Abruzzo n.1 del 2012, la prima in materia di canoni di concessione di acque pubbliche e la seconda in materia di finanziamento del trasporto pubblico regionale. La Corte ha ritenuto in parte inammissibili ed in parte infondate le censure rivolte alla prima disposizione, escludendo che vi fosse una violazione delle competenze statali (in materia di ambiente, di tutela della concorrenza e di energia). Sono state accolte, invece, le censure relative alla seconda disposizione, la quale destinava al trasporto pubblico anticipazioni di liquidità autorizzate dallo Stato per la copertura di debiti sanitari in «aperta violazione del principio di contenimento della spesa pubblica» (sentt. n. 163 e n. 123 del 2011) ed interferendo sia con il piano di rientro che con l'operato del Commissario ad acta. La Corte ha invece dichiarato l'estinzione, per intervenuta
rinuncia, dei giudizi relativi a questioni sollevate sulla L.r. Abruzzo n. 51 del 2012. [F. Conte] AMBIENTE: LE AUTONOMIE (ANCHE SPECIALI) POSSONO AUMENTARE, NON RIDURRE LA TUTELA Corte Cost., sent. 7-10 aprile 2014 , n. 86, Pres. Silvestri, Red. Carosi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Legge prov. Trento 4 ottobre 2012, n. 20, artt. 14, 15, 18, comma 1, 25, comma 1, e 37, comma 1] (artt. 81, 117, comma secondo, lettera s), e comma terzo, Cost., in relazione alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, artt. 17 e 19) Diverse disposizioni di una legge trentina sull’energia sono impugnate dallo Stato. Per alcune, lo Stato deposita e la Provincia accetta la rinuncia al ricorso. Il processo prosegue, invece, per la disposizione che consente ad alcuni concessionari di piccole derivazioni a scopo idroelettrico di ottenere l’aumento della portata massima derivabile, prescindendo dalla valutazione dell’interesse ambientale altrimenti prescritta. L’esclusione di questa valutazione è stata, in realtà, abrogata da una legge provinciale successiva: ma non vi è prova che, medio tempore, non sia stata applicata la disposizione originale (cfr. sentt. n. 228 e n. 286 del 2013). Essa è giudicata incostituzionale: «pur nell’asserito intento semplificatorio, invade la materia riservata all’esclusiva competenza statale della tutela dell’ambiente senza che il suo contenuto sia rivolto nell’unica direzione consentita dall’ordinamento al legislatore regionale, ovvero quella di innalzare, eventualmente, il livello di tutela dell’ambiente» (cfr. sentt. n. 58, n. 139 e n. 178 del 2013). (M. Massa) LA LEGGE D’ATTUAZIONE DEL NUOVO ARTICOLO 81 COST. SUPERA L’ASSALTO DELLE REGIONI SPECIALI Corte cost., sent. 7 aprile – 10 aprile 2014, n. 88, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [L. 24 dicembre 2012, n. 243 art. 10, co. 3, 4 e 5, artt. 9, co. 2 e 3, artt. 11 e 12 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione)] (L. cost. 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale); l. cost. 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-V.G.); d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-A.A.) La Regione Friuli-V.G. e la Provincia autonoma di Trento impugnano la legge “rinforzata” d’attuazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, per diversi profili di contrasto con la loro speciale autonomia finanziaria e di contrasto con
la stessa legge costituzionale n. 1 del 2012. Preliminarmente la Corte afferma che l’impugnazione è ammissibile, trattandosi di legge rinforzata ma avente comunque il rango di legge ordinaria, avente fondamento e limiti nella legge cost. n. 1 del 2012. In secondo luogo la Corte sgombera il campo dall’obiezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la riforma costituzionale avrebbe introdotto una nuova competenza esclusiva statale nella materia dell’armonizzazione dei bilanci pubblici atta a giustificare l’intero raggio dell’intervento operato con la legge n. 243. Ad avviso della Corte, tale competenza esclusiva non può interpretarsi così estensivamente da coprire l’intero ambito materiale regolato dalla legge n. 243: la stessa Corte, infatti, aveva in passato ricondotto la disciplina dell’indebitamento delle autonomie territoriali (oggetto della legge n. 243) al coordinamento della finanza pubblica (sentenze nn. 70 del 2012, 284 del 2009, 285 del 2007, 320 del 2004, 376 del 2003). A difesa della inderogabilità dei vincoli posti dalla legge rinforzata anche da parte delle Regioni speciali e degli enti locali ad esse appartenenti la Corte invoca la natura generale del vincolo in materia di indebitamento cui deve soggiacere tutta la finanza pubblica (sentenza n. 245 del 2004). Il nuovo sistema di finanza pubblica disegnato dalla legge cost. n. 1 del 2012 ha una sua coerenza e completezza ed è pertanto solo alla sua stregua che vanno sindacate le questioni di costituzionalità sollevate. Nonostante la riforma statale si collochi idealmente nella materia del coordinamento della finanza pubblica di competenza ripartita (per cui le ricorrenti lamentavano la natura di dettaglio delle disposizioni impugnate della legge n. 243 contrastanti con puntuali disposizioni dei rispettivi statuti speciali), il nuovo assetto costituzionale giustificherebbe l’intervento anche dettagliato della legge di attuazione n. 243, posto che la legge cost. n. 1 del 2012 rinvia a quest’ultima la disciplina della facoltà di ricorrere all’indebitamento degli enti territoriali, comprese le Regioni speciali e le Provincie autonome di Trento e Bolzano (art. 5, co. 2, lett. b)). Così facendo, la disciplina attuativa rinviata «non appare in alcun modo limitata ai principi generali», dovendo anzi «avere un contenuto eguale per tutte le autonomie». «Questa esigenza di uniformità, del resto, è il riflesso della natura ancillare della disciplina dell’indebitamento rispetto ai princìpi dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito pubblico», i quali esprimono vincoli necessariamente estesi a tutti i soggetti che concorrono alla formazione del “bilancio consolidato delle pubbliche amministrazioni” (sentenze nn. 39 e 40 del 2014, 138 del 2013, 425 e 36 del 2004). In virtù della sua stessa genesi (il “Patto Europlus” e il c.d. “Fiscal Compact”), «(l)a riforma poggia dunque anche sugli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., oltre che – e soprattutto − sui princìpi fondamentali di unitarietà della Repubblica (art. 5 Cost.) e di unità economica e giuridica dell’ordinamento (art. 120, secondo comma, Cost.), unità che (…) ha accentuato la sua pregnanza.» Per la Corte, inoltre, il principio della sostenibilità del debito pubblico «implica una responsabilità che, in attuazione [dei principi] «fondanti» (sentenza n. 264 del 2012) di solidarietà e di eguaglianza, non è solo delle istituzioni ma anche di ciascun cittadino nei confronti degli altri, ivi compresi quelli delle generazioni future.» Analogo l’approccio seguito dalla Corte per respingere le censure dirette contro la norma
tesa a imporre a tutte le Regioni e agli enti locali, «(n)elle fasi favorevoli del ciclo economico», la contribuzione al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (art. 12, co. 2 e 3, l. n. 243 del 2012). Per la Corte, la norma trova giustificazione nei principi «di solidarietà e di eguaglianza, alla cui stregua tutte le autonomie territoriali, e in definitiva tutti i cittadini, devono, anche nella ricordata ottica di equità intergenerazionale, essere coinvolti nei sacrifici necessari per garantire la sostenibilità del debito pubblico.» [A. Guazzarotti] L’AUTONOMIA SPECIALE DI FRONTE ALLA CRISI. SALUS REI PUBLICAE SUPREMA LEX ESTO? Corte Cost., Sent. 10 aprile 2014, n. 89, Pres. Silvestri, Red. Amato Giudizio di legittimità in via principale [Art 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122] (art. 8, primo comma, numero 1), e al Titolo VI del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) Con la presente decisione la Consulta si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, rubricato Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica e convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promossa dalla Provincia autonoma di Bolzano, con riferimento all’art. 8, primo comma, numero 1), e al Titolo VI del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) Il giudice delle leggi, pur dichiarando non fondata la questione, non ha aderito alla posizione della difesa di avvocatura secondo cui le previsioni del d.l. n. 78 del 2010 troverebbero la propria ratio giustificativa nella necessità di fronteggiare con urgenza ad una grave crisi economica internazionale, la cui eccezionalità consentirebbe allo Stato di derogare “alle procedure statutarie, come alle altre finanche costituzionali, in ragione dell’esigenza di salvaguardare la salus rei publicae e in applicazione dei principi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2), dell’unità della Repubblica (art. 5), e della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10), che contenuti nella premessa alla prima parte della Costituzione si impongono a tutti, Stato e autonomie comprese”. Anzi, richiamando la propria precedente giurisprudenza (sent. 151/2012), la Consulta ha rilevato come il principio salus rei publicae suprema lex esto non possa essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione e derogare, in virtù della sussistenza eccezionali circostanze di emergenza finanziaria, al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte seconda della Carta fondamentale.
Le ragioni che hanno portato il giudice delle leggi a dichiarare non fondata la questione prospettatale sono state altre, e attinenti portata applicativa della normativa impugnata. Nel caso di specie la norma impugnata stabilisce che «I limiti previsti ai sensi dell’articolo 9, comma 28, possono essere superati limitatamente in ragione della proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle regioni a statuto speciale, nonché dagli enti territoriali facenti parte delle predette regioni, a valere sulle risorse finanziarie aggiuntive appositamente reperite da queste ultime attraverso apposite misure di riduzione e razionalizzazione della spesa certificate dagli organi di controllo interno». Essa, infine, prevede che «Le predette amministrazioni pubbliche, per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti ai sensi della normativa vigente, attingono prioritariamente ai lavoratori di cui al presente comma, salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti». Con riferimento alla prima parte della disposizione, la Consulta ha negato che si realizzi una indebita ingerenza nella competenza legislativa primaria della ricorrente in materia di organizzazione degli uffici e del personale (art. 8, primo comma, numero 1, dello statuto speciale), nonché di finanza locale (Titolo VI dello statuto speciale), dettando condizioni e limitazioni restrittive in merito all’assunzione del personale provinciale ed alla predisposizione delle relative risorse. Al contrario, essa avrebbe natura di norma più favorevole per la Provincia autonoma, che risulta priva di qualsivoglia portata lesiva. Con riferimento alla seconda parte della disposizione censurata, invece, la Corte ha rilevato come essa, disponendo che le amministrazioni pubbliche interessate attingano prioritariamente ai lavoratori a tempo determinato in regime di proroga, «salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti», stabilisca un “criterio di priorità «per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti»”, riscontrandosi, quindi, una preferenza espressa dal legislatore statale, derogabile da quello regionale. In altre parole, non si tratterebbe di una norma di dettaglio, ma solamente “di una norma che prescrive un criterio generale e impone di motivare le eventuali determinazioni regionali difformi da tale criterio”. (C. Drigo) Corte Cost., sent. 10 aprile 2014, n. 90, Pres. Silvestri, Red. Frigo Giudizio in via incidentale [artt. 630 e 637, comma 3, c.p.p.] (art. 24, comma 4, Cost.) Richiesta di pronunciarsi su una questione di legittimità costituzionale promossa dalla Corte d’appello di Napoli con riferimento agli artt. 630 e 637, comma 3, del c.p.p. - ritenuti lesivi dell’art. 24, comma 4 Cost., nella parte in cui non consentono la revisione delle sentenze di condanna irrevocabili sulla base della sola diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, allorché la condanna risulti fondata su un errore di fatto «incontrovertibilmente emergente
da quelle stesse prove» - la Consulta ha dichiarato la questione inammissibile per difetto di rilevanza. (C. Drigo) Corte Cost., Ord. 10 aprile 2014, n. 91, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [artt. 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150)] (art. artt. 3, 24, 97, 103, 104 e 107 Cost.) La Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle censure mosse dal TAR Lazio agli articoli 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150), con riferimento agli artt. 3, 24, 97, 103, 104 e 107 della Costituzione. Secondo i remittenti le disposizioni impugnate presenterebbero profili di illegittimità costituzionale “nella parte in cui la formulazione di tali previsioni è suscettibile di essere interpretata nel senso che l’individuazione della sede di trasferimento del magistrato sia rimessa alla Sezione Disciplinare del C.S.M., con riveniente reclamabilità delle relative decisioni dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione”. In particolare, le norme contestate “si presterebbero ad essere interpretate nel senso che sarebbe attratta nella sfera della giurisdizione ordinaria la cognizione in ordine alla «determinazione (amministrativa) di individuazione della sede di destinazione del magistrato, nel caso di trasferimento cautelare disposto nell’ambito del procedimento disciplinare”. Il giudice delle leggi, tuttavia, ha riscontrato come il giudice remittente non abbia assolto ai propri oneri motivazionali in punto di rilevanza, limitandosi “sollecitare un mero avallo interpretativo rispetto alla scelta tra una pluralità di opzioni che spetta al giudice a quo effettuare, attraverso, se del caso, la sperimentazione di soluzioni che pongano la normativa coinvolta al riparo dai prospettati dubbi di legittimità costituzionale (ordinanza n. 198 del 2013;sentenza n. 21 del 2013)”. Infatti si sarebbe meramente prospettato dubbio di legittimità costituzionale che “trarrebbe alimento non già da un difetto intrinseco delle norme censurate, ma soltanto da una possibile loro interpretazione, potendosi, eventualmente, esse prestarsi a far considerare attratta nella sfera della giurisdizione ordinaria anche la cognizione in ordine alla «determinazione (amministrativa) di individuazione della sede di destinazione del magistrato, nel caso di trasferimento cautelare disposto nell’ambito del procedimento disciplinare»”. (C. Drigo)
INTERPRETAZIONE AUTENTICA, RETROATTIVITA’ E CEDU Corte Cost., Ord. 10 aprile 2014, n. 92, Pres. Silvestri, Red. Criscuolo Giudizio in via incidentale [art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo)] (artt. 3, 24, 102, 11 e 117, comma 1, Cost.) Il Tribunale di Benevento, in composizione monocratica, con ordinanza del 28 giugno 2012 ha dubitato, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 rubricata Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo. La Consulta è stata, quindi, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale di una disposizione di interpretazione autentica avente carattere retroattivo e incidente sulla norme di natura processuale. La disposizione impugnata, infatti, prevede che “ Nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, l’articolo 165, primo comma, del codice di procedura civile si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’articolo 163-bis, primo comma, del medesimo codice”. Il giudice delle leggi, pur ricordando che il divieto di retroattività della legge costituisce un “valore fondamentale di civiltà giuridica”, ha, tuttavia precisato come lo stesso non riceva dall’ordinamento “la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost.” (ex plurimis sentt. 236/2011 e 393/2006) e, conseguentemente, come il legislatore possa emanare “disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale» ai sensi della Corte Edu” (ex multis, sent. 15/2012). Secondo la Consulta, pertanto non sono ravvisabili le supposte violazioni dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza della disparità di trattamento di situazioni omogenee, della lesione del principio di legittimo affidamento nonché dell’eccesso dei cosiddetti limiti di coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico poiché la disposizione impugnata non introdurrebbe nella disposizione interpretata elementi ad essa estranei, limitandosi ad assegnarle un significato già in essa contenuto (ex plurimis, sentt. 15/2012, 271 e 257/2011; 209/2010, 24/2009) rendendo vincolante un dettato comunque ascrivibile al tenore letterale della disposizione interpretata. Non è parimenti riscontrabile la supposta violazione dell’art. 24 Cost. sotto il profilo del diritto alla tutela giurisdizionale, poiché la norma censurata avrebbe lo scopo di assicurare: “1) con riguardo ai giudizi di opposizione a decreto
ingiuntivo, pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011 ed incardinati prima della sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 19246 del 2010, la tutela dell’affidamento incolpevole dell’opponente in relazione ad atti compiuti sulla base di un consolidato previo orientamento giurisprudenziale e prima della oggettiva conoscibilità del cosiddetto overruling, comportante un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte; 2) con riguardo ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011 ed incardinati dopo la sentenza ora citata, il non aggravamento della posizione di una sola delle parti del giudizio nell’esercizio del diritto di difesa, ferma restando la possibilità da parte dell’opposto di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163-bis, terzo comma, cod. proc. civ., a tutela dell’interesse di quest’ultimo alla trattazione sollecita del giudizio”. Inoltre, non sussiste nemmeno la violazione dell’art. 111 Cost., sotto il profilo della violazione del “giusto processo” né dell’art. 102 Cost. sotto il profilo di un’assunta invasione della sfera giurisdizionale riservata alla magistratura ordinaria. In relazione al primo, perchè “la norma censurata non interferisce sull’esercizio della funzione giudiziaria e sulla parità delle parti nello specifico processo” ponendo, al contrario, “una disciplina generale sull’interpretazione di un’altra norma”, collocandosi, pertanto, “su un piano diverso da quello dell’applicazione giudiziale delle norme a singole fattispecie” (ex plurimis, sent, 15/2012 e ord. 428/2006); in relazione al secondo, poiché “l’attribuzione per legge ad una norma di un determinato significato non lede la potestas iudicandi, ma definisce e delimita la fattispecie normativa che è oggetto della potestas medesima” (ex plurimis, sentt. 15/2012, 234/2007). Da ultimo, non è ritenuta sussistente nemmeno la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU. La consulta, infatti, richiamata la giurisprudenza della Corte EDU sul punto (cfr. sent. 7.6.2011, Caso Agrati et al. C. Italia) ha comunque ritenuto che residua “uno spazio, sia pur delimitato, per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.), se giustificato da «motivi imperativi di interesse generale» che spetta innanzitutto al legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto dalla Convenzione europea ai singoli ordinamenti statali”. La Consulta, quindi, ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni impugnate poiché “la soluzione prescelta dal legislatore ha superato una situazione di oggettiva incertezza, contribuendo così a realizzare principi d’indubbio interesse generale e di rilievo costituzionale, quali sono la certezza del diritto e l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge” atteso che, “nella fattispecie, la norma censurata si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell’originario testo normativo, peraltro già fatta propria da un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità”. (C. Drigo)
SFORBICIATE AL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO Corte cost., sent. 15 aprile 2014, n. 94, Pres. Silvestri, Red. Cartabia, Giudizio in via incidentale [artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c) e 135, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) e dell’art. 4, comma 1, numeri 17) e 19), dell’Allegato 4 al medesimo decreto legislativo n. 104 del 2010] (art. 76 Cost.) Sollecitata da due ricorsi in via incidentale promossi dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la Consulta ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente su alcune disposizioni del c.d. codice del processo amministrativo che trasferivano alla giurisdizione esclusiva, estesa al merito, del giudice amministrativo, e in particolare alla competenza del TAR Lazio, le controversie relative ai provvedimenti sanzionatori di natura pecuniaria adottati dalla Banca d’Italia. Nel solco della precedente decisione n. 162 del 2012, la Corte costituzionale . In relazione agli artt. artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c), e 135, comma 1, lettera c), d.Lgs 104/2010, la Consulta ha rilevato come tali disposizioni, nel trasferire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e alla competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, le controversie relative ai provvedimenti sanzionatori adottati dalla Banca d’Italia, avrebbero ecceduto i limiti della delega conferita, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost. Infatti, similmente a quanto affermato in relazione al caso delle sanzioni applicate alla Consob (sent. 162/2012), anche con riferimento alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia il legislatore delegato, nel momento in cui è intervenuto in modo innovativo sul riparto di giurisdizione, aveva il dovere di tenere in debita considerazione i principi e criteri enunciati dalla delega, i quali richiedevano di «adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori» (art. 44 della legge n. 69 del 2009). Ma così non è stato, poiché il legislatore delegato, in violazione della delega, non si è attenuto al limitato margine di discrezionalità cui godeva in virtù della legge delega (ex multis sentt. 73 e 4/ 2014, 80/2012, 293 e 230/2010), ma ha inciso profondamente sul precedente assetto, discostandosi illegittimamente dalla consolidata giurisprudenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione formatasi specificamente sul punto. Analogamente, la Consulta ha ritenuto affette da illegittimità costituzionale anche le norme abrogative, di cui all’ 4, comma 1, numeri 17) e 19), dell’Allegato 4 al d.lgs. n. 104 del 2010, direttamente conseguenti alla disciplina poc’anzi richiamata. (C. Drigo) NON È IRRAGIONEVOLE CHE IL LICENZIAMENTO LAVORATORE NON SEGUA LA DISCIPLINA ORDINARIA
DEL
Corte Cost., ord. 9-15 aprile 2014, n. 95, Pres. Silvestri, Red. Morelli
SOCIO
Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale Oggetto: art. 5, c. 2, l. 3 aprile 2001, n. 142; art. 2533, c. 3, cod. civ. Parametro: Cost., art. 3. Il combinato disposto delle disposizioni oggetto dell’incidente di costituzionalità è impugnato, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, “nella parte in cui non prevede, in caso di licenziamento del socio lavoratore che si applichino le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile”, ma prevede invece che “Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo” e che “Contro la deliberazione di esclusione il socio può proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione”: secondo il rimettente tale normativa è irragionevole, in quanto “ignora la prevalenza del rapporto di lavoro dipendente rispetto al vincolo associativo proprio nell’ipotesi dell’atto estremo del rapporto di lavoro dipendente, cioè del licenziamento” e “discriminatoria” nei confronti dei soci lavoratori di cooperative, i quali, in caso di licenziamento, diversamente dagli altri lavoratori dipendenti, non potrebbero avvalersi del rito di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile e della competenza funzionale del giudice del lavoro. Tuttavia, la Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione proposta, sulla scia di analogo precedente (ord. 460/2006), in quanto il licenziamento impugnato nel giudizio a quo risale al 2011, mentre la disposizione impugnata non è più in vigore dal 2003: anno in cui è stata sostituita dall’art. 9 della l. 14 febbraio 2003, n. 30 (Simone Calzolaio). FRA GIP E PM LA CORTE NON ARCHIVIA LO STALLO Corte Cost., ord. 9-15 aprile 2014, n. 96, Pres. Silvestri, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale Oggetto: Art. 409, c. 5, cod. proc. pen. Parametro: Cost., artt. 111, 112. Il GIP del tribunale di Varese solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 409, c. 5, nella parte in cui – alla luce dell’interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità, qualificabile secondo il rimettente come «diritto vivente» – prevede che, ove il pubblico ministero ometta di formulare l’imputazione ordinata dal giudice per le indagini preliminari, quest’ultimo sia obbligato ad archiviare la notizia di reato. La Corte costituzionale ne dichiara la manifesta inammissibilità sotto diversi profili. In primo luogo, il GIP eleva al rango di «diritto vivente» un indirizzo interpretativo espresso da due pronunce di sezioni singole della Corte di cassazione, apertamente contrastante con l’indirizzo del giudice costituzionale (sentt. 130/93, 263/91, ordd. 182/92, 253/91) secondo cui le prescrizioni impartite dal GIP ai sensi dell’art. 409, c. 4 e 5, cod. proc. pen. (e segnatamente, per quanto qui interessa, l’ordine di formulare l’imputazione
entro dieci giorni) sono vincolanti per l’organo dell’accusa, essendo siffatta conclusione nella logica del meccanismo di controllo giurisdizionale sulla determinazione di non agire (sulla inammissibilità della questione, nel caso di inesistenza del «diritto vivente» oggetto di censura o di sua inesatta ricostruzione da parte del giudice a quo, ex plurimis, sent. 320/09, ordd. 90/09, 251 e 64/06). In secondo luogo, il rimettente si è già discostato dal supposto «diritto vivente» nel procedimento a quo, applicando la norma censurata in una diversa interpretazione, ritenuta «costituzionalmente orientata»: di fronte alla seconda richiesta di archiviazione, presentata dal pubblico ministero dopo che in relazione alla prima il rimettente aveva ordinato la formulazione dell’imputazione, il rimettente stesso – lungi dall’adottare il provvedimento richiesto dall’organo dell’accusa – ha ribadito l’anzidetto ordine. Pertanto la questione appare sollevata all’improprio fine di ottenere dalla Corte un avallo dell’interpretazione ritenuta dal rimettente corretta e costituzionalmente adeguata, nonché già applicata nel procedimento principale, contro una diversa interpretazione non condivisa (sulla manifesta inammissibilità delle questioni proposte con finalità di avallo interpretativo, ex plurimis, ordd. 26/12, 139/11, 219/10). In terzo luogo, prima di sollevare la questione a fronte della nuova richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero, il rimettente non si è neppure adeguato in modo compiuto all’indirizzo interpretativo censurato. Infatti, stando alla ricostruzione operata dallo stesso giudice a quo, l’ipotetico «diritto vivente» postulerebbe che, quando il pubblico ministero non ottemperi all’ordine di formulare l’imputazione e insista nel chiedere l’archiviazione, il giudice per le indagini preliminari abbia due alternative: o aderire alla richiesta, ovvero sollecitare il procuratore generale presso la corte d’appello ad avocare le indagini e ad esercitare l’azione penale; solo se nemmeno il procuratore generale decidesse di agire il provvedimento di archiviazione diverrebbe ineluttabile per il giudice. Tuttavia, nella specie, il giudice a quo non ha sollecitato l’avocazione, ritenendo sufficiente la già avvenuta (e diversa) comunicazione al Procuratore generale, ai sensi dell’art. 409, comma 3, cod. proc. pen., della fissazione delle due precedenti udienze in camera di consiglio in esito alle quali il rimettente ha disposto la formulazione dell’imputazione. Una cosa è la nuda notizia della fissazione di un’udienza, altra la sollecitazione ad avocare le indagini postulata dall’indirizzo giurisprudenziale assunto come «diritto vivente», la quale implica una specifica comunicazione al procuratore generale dell’esito di detta udienza e del fatto che vi è, per tabulas, una inadempienza del pubblico ministero all’obbligo di agire, giudizialmente affermato. Anche sotto tale profilo, quindi, la questione si profila almeno come prematura: il giudice a quo avrebbe dovuto preventivamente avvalersi dello strumento che – in base alla sua stessa ricostruzione – gli sarebbe offerto per evitare di dover archiviare la notizia di reato e solo all’esito eventualmente porsi il dubbio di legittimità costituzionale (sulla manifesta inammissibilità delle questioni premature, ex plurimis, ordd. 176/11, n. 277 e 96/10).
Infine, secondo la Corte emerge dall’ordinanza di rimessione come l’obiettivo perseguito dal giudice a quo, tramite l’incidente di legittimità costituzionale, sia di superare lo «stallo procedimentale» fra GIP e PM, suscettibile potenzialmente di protrarsi sine die; ma, sotto questo profilo, il petitum del rimettente risulta indeterminato (sulla manifesta inammissibilità della questione, nel caso di indeterminatezza del petitum, ex plurimis, ordd. 195/13, 170/12), in quanto il giudice a quo non precisa quale dovrebbe essere il rimedio processuale all’indicata situazione di «stallo», tra i molti astrattamente ipotizzabili. D’altra parte – conclude la Corte - l’adozione di una alternativa risolutiva della situazione di stallo implicherebbe scelte discrezionali, riservate come tali al legislatore (ord. 122/92) (Simone Calzolaio) . DOPO IL SISMA, MASSIMA GARANZIA A CONCORRENZA E AUTONOMIA NEGOZIALE NEL RIPRISTINO DI IMMOBILI PRIVATI Corte Cost., sent. 9-16 aprile 2014, n. 97, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale Oggetto: art. 10, c. 1, l. reg. Umbria 8 febbraio 2013, n. 3 Parametro: Cost., art. 117, c. 2, lett. e), l). Testo: Il Governo impugna la disposizione in oggetto che estende ai lavori privati il sistema di qualificazione rilasciato da Società Organismo di Attestazione (SOA) previsto per gli appalti di lavori pubblici dall’art. 40, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) e dagli artt. 60 ss., DPR 5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione del codice dei contratti pubblici). In seguito all’impugnazione la Regione modifica la disposizione in senso satisfattivo delle pretese del Governo, ma in giudizio non vi è prova – anche perché la Regione non si è costituita - che la disposizione non abbia avuto medio tempore applicazione e pertanto non può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere. La Corte ritiene che la norma regionale violi la competenza statale sia in materia di tutela di concorrenza, sia di ordinamento civile. Sotto il primo profilo, la trasposizione nell’àmbito privatistico dei sistemi di qualificazione delle imprese interessate alle commesse pubbliche compromette l’assetto concorrenziale degli appalti privati regolati dalle norme civilistiche, ponendo in essere una previsione che – condizionando la capacità dell’imprenditore di stipulare il contratto – ha come conseguenza quella di limitare il numero degli operatori e, conseguentemente, l’ampiezza della possibilità di vagliare un maggior numero di imprese da parte del committente: si tratta pertanto, di fatto, di una scelta anti-concorrenziale. Sotto il secondo profilo, la norma impugnata determina (relativamente alla sola contrattazione riguardante l’affidamento dei lavori privati della ricostruzione delle zone terremotate umbre) anche una limitazione della facoltà del soggetto interessato di individuare il contraente da lui ritenuto più idoneo e quindi
rappresenta un limite alla autonomia negoziale di soggetti che operano in un assetto civilistico in posizione di parità. Di qui il contrasto anche con l’evocato parametro che riserva al legislatore statale la competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile» (Simone Calzolaio). LA CORTE SALVA GLI ISTITUTI DEL RECLAMO E DELLA MEDIAZIONE NEL PROCESSO TRIBUTARIO Corte Cost., sent. 9-16 aprile 2014, n. 98, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale Oggetto: art. 17-bis, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, inserito dall’art. 39, c. 9, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 15 luglio 2011, n. 111 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, c. 611, lett. a, l. n. 147 del 2013). Parametro: Cost., artt. 3, 24, 25, 111 e 113. Le Commissioni tributarie provinciali di Perugia, Campobasso, Benevento e Ravenna sollevano numerose questioni di costituzionalità della disposizione in oggetto, che ha introdotto gli istituti del reclamo e della mediazione nella disciplina del processo tributario. La Corte ritiene non fondate o inammissibili la quasi totalità delle questioni proposte. In particolare, secondo la Corte è consentito al legislatore, ai sensi degli artt. 3, 24, 113 Cost., imporre il previo esperimento di un rimedio amministrativo che, condizionando la proponibilità dell’azione, ne comporti il differimento, purché ciò sia giustificato da esigenze di ordine generale o da superiori finalità di giustizia (sentt. 132, 81 e 62/98, 233/96, 56/95, 255/94, 406/93, 154/92): ciò si verifica nel caso del reclamo e della mediazione tributaria, che favoriscono la definizione delle controversie nella fase pre-giurisdizionale e tendono a soddisfare l’interesse generale sia sotto l’aspetto di un più pronto e meno dispendioso soddisfacimento delle situazioni sostanziali oggetto di controversia; sia riducendo il numero dei processi di cui sono investite le commissioni tributarie. Anche il fatto che tali rimedi siano imposti solo ai contribuenti che hanno una controversia su atti emessi dalla Agenzia delle entrate e per importi fino a € 20.000, e non, quindi, a tutti gli altri contribuenti, risulta frutto di un corretto esercizio della discrezionalità del legislatore in materia: ciò in quanto le controversie nei confronti di atti della Agenzia delle entrate sono maggioritarie rispetto alle altre controversie tributarie e, in tale ambito, quelle al di sotto di € 20.000 di contestazione sono numericamente le più numerose (ancorché il loro valore complessivo sia molto limitato nel contesto delle controversie instaurate nei confronti della Agenzia delle entrate) e, pertanto, l’intervento legislativo che solo su queste incide tende ragionevolmente a deflazionare il contenzioso tributario. In questo contesto, la Corte ritiene illegittima la specifica previsione secondo cui l’omissione della presentazione del reclamo comporta l’inammissibilità del
ricorso: comportando la perdita del diritto di agire in giudizio e, quindi, l’esclusione della tutela giurisdizionale, la disposizione rende l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale eccessivamente gravoso e pertanto si pone in contrasto con l’art. 24 Cost. (Simone Calzolaio) Il principio di gratuità degli incarichi vale anche per le Regioni speciali Corte Cost., sent. 9-16 aprile 2014, n. 99, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via principale Oggetto: art. 5, c. 5, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 30 luglio 2010, n. 122. Parametro: Cost., artt. 117, c. 3, e 119; St. spec. TAA, artt. 79, 104, c. 1. La Provincia di Bolzano impugna la disposizione in oggetto in quanto imporrebbe un vincolo puntuale relativo ad una singola voce di spesa, con ciò ledendo i parametri costituzionali invocati, fra cui in particolare, quelli derivanti dall’autonomia speciale ad essa riconosciuta. La Corte ritiene non fondata la questione, in quanto in un suo precedente ha già ritenuto la disposizione impugnata come recante un principio fondamentale di «coordinamento della finanza pubblica»: il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle indicate pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive (inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo), in forza del quale i soggetti che svolgono detti incarichi hanno diritto esclusivamente al rimborso delle spese sostenute ed al gettone di presenza limitato ad € 30 (sent. 151/12, punto 7.1.2. del Considerato in diritto). La riconduzione della disposizione ad un principio fondamentale della legislazione statale comporta che anche le censure mosse dalla ricorrente in riferimento agli artt. 79 e 104, primo comma, del d.P.R. n. 670 del 1972, risultano infondate. In base all’art. 79, c. 4, la Provincia autonoma è infatti tenuta, per espresso vincolo statutario, ad adeguare la propria legislazione «ai princípi costituenti limiti» ai sensi dell’art. 5 dello stesso statuto, cioè ai princípi «stabiliti dalle leggi dello Stato». Al riguardo, come già affermato da questa Corte, occorre quindi ribadire che l’art. 79 dello statuto speciale «detta una specifica disciplina riguardante il solo patto di stabilità interno; per le altre disposizioni in materia di coordinamento della finanza pubblica, la Regione Trentino-Alto Adige e le Province autonome si conformano alle disposizioni legislative statali, legiferando entro i limiti stabiliti dallo statuto, in particolare agli articoli 4 e 5» (sent. 221/13). (Simone Calzolaio) LA CORTE SALVA LE NORME SULL’EMERGENZA RIFIUTI IN CAMPANIA Corte Cost., sent. 9-16 aprile 2014, n. 100, Pres. Silvestri, Red. Mazzella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
Oggetto: art. 11, c. 1, 2 e 3, d.l. 30 dicembre 2009, n. 195, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 26 febbraio 2010, n. 26. Parametro: Cost., artt. 11, 114, c. 2, 117, c. 1, 2, 3, e 118, c. 1 e 2. Il TAR Campania, sez. distaccata di Salerno, solleva con due distinte ordinanze questione di legittimità delle disposizioni in oggetto. Una prima questione concerne la lesione delle competenze legislative regionali, di cui all’art.117, primo, secondo e terzo comma: il TAR lamenta che la disposizione censurata travalicherebbe quelle esigenze di tutela ambientale che, a certe condizioni, possono legittimare l’avocazione allo Stato delle funzioni legislative in materie di competenza regionale, e si ingerirebbe in aspetti di disciplina di dettaglio del servizio che sono tipici delle prerogative regionali, quali quelle attinenti al governo del territorio e alla tutela della salute. La Corte rigetta la questione sull’assunto che l’avocazione alle Province della gestione del ciclo integrato dei rifiuti è principio fondamentale nell’ambito della competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e, come tale, assolutamente inderogabile da parte delle Regioni. A partire da questa considerazione discende il rigetto della questione proposta ai sensi degli artt. 114 e 118 Cost.: infatti il carattere eccezionale e transitorio della disciplina introdotta giustifica razionalmente l’avocazione delle funzioni amministrative dai Comuni alle Province e rende la stessa rispettosa dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed autonomia di cui all’art. 118 Cost. La legge censurata, pertanto, non lede l’autonomia amministrativa dei Comuni e, per le stesse ragioni, è ragionevole che spetti (provvisoriamente) alla Provincia e non ai Comuni la riscossione dei tributi TARSU e TIA. Secondo la Corte non sussiste neanche la violazione degli artt. 11 e 117, c. 1, Cost., in riferimento al rispetto delle direttive comunitarie in tema di affidamento degli appalti pubblici: in tale materia, le società in house possono legittimamente operare se il meccanismo dell’affidamento diretto sia strutturato in modo da evitare che esso possa risolversi in una ingiustificata compromissione della tutela della concorrenza richiesta dai trattati e dalle direttive europee. Secondo la Corte di giustizia, è possibile non osservare le regole della concorrenza: a) quando l’ente pubblico svolge sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) quando il soggetto affidatario «realizzi la parte più importante della propria attività» con l’ente o con gli enti che la controllano (sentenza Teckal del 18 novembre 1999, in causa C-107/98). Nel caso in esame, la Corte ritiene che le suddette condizioni non siano state violate dalla disposizione di legge in esame, che, prevedendo l’affidamento del servizio a società provinciali in house, senza disciplinare la composizione e i limiti di operatività di tali società, deve essere interpretata in senso costituzionalmente conforme, con implicito richiamo a tale indefettibile condizione di legittimità. (Simone Calzolaio)
IL SOLITO LEITMOTIV: IL GOVERNO IMPUGNA E RINUNCIA, A SEGUITO DELLA MODIFICA DA PARTE DELLA REGIONE Corte Cost., ord. 9-16 aprile 2014, n. 103, Pres. Silvestri, Red. Carosi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale Oggetto: artt. 1, c. 1, lett. a), e 4, l. Reg. aut. Trentino-Alto Adige 18 marzo 2013, n. 2. Parametro: Cost., art. 81, c. 4. Il Governo impugna le disposizioni in oggetto in quanto poste in violazione dell’art. 81, c. 4, Cost. e, in particolare, dell’obbligo di copertura della spese in esse disposte. La Regione Trentino Alto Adige non si costituisce in giudizio, ma nel frattempo modifica la disposizione impugnata nel senso di prevedere idonea e specifica copertura finanziaria della spesa conseguente alle norme impugnate. Il Governo decide di rinunciare al ricorso e la Corte, in mancanza di costituzione in giudizio della controparte, dichiara estinto il processo. (Simone Calzolaio) ESERCIZIO DELL’ATTIVITA COMMERCIALE TRA (TENTATIVI LIMITAZIONI REGIONALI E TUTELA DELLA CONCORRENZA
DI)
Corte Cost., sent. 14-18 aprile 2014, n. 104, Pres. Silvestri, Red. Napolitano Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18, l. r. Valle d’Aosta 25 febbraio 2013, n. 5] (Artt. 25 e 117, c. 2, lett. l) ed e), Cost.) La Regione Valle d’Aosta ha introdotto, nel 2013, una disciplina generale («Principi e direttive») per l’esercizio delle attività commerciali sul territorio regionale. Adita dal Governo, la Corte dichiara illegittime, per violazione della competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza ex art. 117, c. 2, lett. e), Cost.: l’attribuzione alla Giunta regionale del compito di individuare «gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi» (art. 2 l. r.), ritenendo la previsione e la conformazione di tale potere tali «da consentire alla Giunta di incidere e condizionare gli operatori sul mercato»; la previsione (art. 7, c.4, l. r.) per cui il rilascio dell’autorizzazione all’apertura di medie e grandi strutture di vendita è subordinato all’attestazione del rispetto degli indirizzi stabiliti dalla Giunta regionale (illegittimità consequenziale); la reintroduzione (art. 4 l. r.) di limiti e vincoli agli orari di apertura per le attività commerciali su area pubblica, in contrasto con la liberalizzazione operata a livello statale (art. 3, c. 1, lett. d-bis), d.l. n. 223 del 2006); il divieto di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali nei centri storici (art. 11 l. r.), in contrasto con la normativa statale che, pur prevendendo la facoltà delle Regioni di introdurre limitazioni e preclusioni territoriali per ragioni di tutela anche dell’ambiente urbano (art. 31 d.l. n. 201 del 2001), impone che ciò avvenga «senza discriminazioni degli
operatori». La Corte dichiara inoltre illegittima la disposizione dell’art. 18 l. r., i cui rinvii interni renderebbero applicabili le sanzioni amministrative per violazione delle norme sulle attività commerciali anche a comportamenti posti in essere prima dell’entrata in vigore della legge regionale, per violazione dell’art. 25 Cost., la cui applicabilità agli illeciti amministrativi è confermata dagli artt. 6 e 7 CEDU (come interpretati dalla Corte cost. nella sent. n. 196 del 2010) e dalla l. n. 689 del 1981. Risulta invece infondata la questione relativa all’art. 3 della l. r., che reintroduce per le attività del settore latu senso alimentare, anche se effettuate nei confronti di una determinata cerchia di persone, una serie di requisiti professionali non più richiesti a livello statale (art. 8 d. lgs. n. 147 del 2012). In questo caso la Corte qualifica la previsione regionale come «misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori» e perciò rientrante nella materia “tutela della salute”, di competenza concorrente ex art. 117, c. 3, Cost.. [C. Bergonzini] IL RECIDIVO HA DI NUOVO RAGIONE: PREVALGANO LE ATTENUANTI! Corte Cost., sent. 14 aprile 2014 , n. 105/2014, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi Corte Cost., sent. 14 aprile 2014 , n. 106/2014, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 69, c. 4, cod. pen.] (Artt. 3, 25 c. 2, 27 c.3) Nelle due sentenze viene nuovamente esaminata la legittimità costituzionale dell’art. 69, c. 4 del codice penale. Tale disposizione come noto, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251 (c.d. legge ex Cirielli), prevede che nell’ambito del bilanciamento che il giudice è chiamato a compiere tra le diverse circostanze, vi sia il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sull’aggravante della recidiva reiterata. Recuperando le argomentazioni della sent. 251 del 2012 che già aveva censurato tale norma, la Corte costituzionale, con due sentenze di accoglimento parziale, stabilisce che l’art. 69 c. 4 c.p. è illegittimo nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza, sulla recidiva reiterata, dell’attenuante ex art. 648, c. 2. c.p. (ricettazione di particolare tenuità) e di quella ex art. 609 bis, c. 3 c.p. (violenza sessuale di minore gravità). La Corte ribadisce che la legittimità in via generale di trattamenti differenziati per il recidivo «non sottrae allo scrutinio di legittimità costituzionale le singole previsioni». Nei due casi di specie, il trattamento sanzionatorio che emerge dal divieto di applicazione delle attenuanti risulta irragionevole per la parificazione di condotte di diversa gravità: fattispecie di particolare tenuità poste in essere da un recidivo verrebbero infatti sanzionate con la stessa pena comminata a fatti di grande gravità. Tale situazione sarebbe in contrasto anche con il principio di proporzionalità della pena ex art. 27, c.3, pena che «diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze». Risulta violato infine (cfr. in particolare sent. 105) il principio di
offensività di cui all’art. 25 c. 2, «che pone il fatto alla base della responsabilità penale», richiedendo che sia appunto il fatto oggettivo, più che la colpevolezza e la pericolosità rappresentate dalla recidiva, ad essere al centro del processo di «individualizzazione della pena» (Chiara Bologna). INTERVENTI REGIONALI DI CONTENIMENTO DELLA FAUNA: SÌ, MA SENZA I CACCIATORI! Corte Cost., sent. 14 aprile 2014 , n. 107/2014, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [L.r. Veneto 23 aprile 2013, n. 6, art. 2 cc. 1, 2, 3] (Art. 117 c. 2, lettera s) Oggetto del giudizio è una disposizione di una legge regionale veneta che disciplina gli interventi di contenimento della fauna selvatica in zone dove è precluso l’esercizio dell’attività venatoria. Incostituzionale è, tra le norme impugnate, solo quella che, individuando le persone idonee a eseguire gli interventi di contenimento, include i cacciatori residenti negli ambiti territoriali di caccia. L’identificazione dei soggetti abilitati spetta infatti alla legge dello Stato (cfr. sent. n. 392 del 2005), quale esercizio della competenza esclusiva sulla tutela dell’ambiente, competenza esercitata dal legislatore statale nell’art. 19, c.2, l. n. 157 del 1992, che non include i cacciatori tra i soggetti abilitati ad attuare i piani di abbattimento. Infondate sono invece le altre questioni di legittimità proposte, poiché basate secondo la Corte «su un erroneo presupposto interpretativo». La disciplina regionale infatti non esclude, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, l’intervento dell’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) nell’autorizzazione dei piani di abbattimento, intervento previsto sì nella legislazione nazionale ma richiamato anche in un’altra legge veneta (l.r. Veneto 9 dicembre 1993, n. 50). Anche i poteri sostitutivi attribuiti in materia al presidente della Regione non estendono i casi in cui sia possibile ricorrere alla caccia per controllare la fauna selvatica: la norma prevede solo la sostituzione (eventuale) di enti inadempienti, senza ampliare le ipotesi di piani di abbattimento, appannaggio della competenza esclusiva statale (Chiara Bologna). STORNI DA UN CAPITOLO CHIARIMENTI PER LE REGIONI
ALL’ALTRO
DI
BILANCIO:
ALCUNI
Corte Cost., sent. 14 aprile 2014 , n. 108/2014, Pres. Silvestri, Red. Carosi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [L.r. Abruzzo 24 aprile 2013, n. 10, artt. 2, 5, 6] (Artt. 81 c. 4, 117 c. 3)
La Presidenza del Consiglio contesta dinanzi alla Corte la legittimità costituzionale di tre disposizioni con cui la Regione Abruzzo ha posto gli oneri economici derivanti da alcuni interventi legislativi a carico di un capitolo di bilancio ricompreso nell’elenco delle spese obbligatorie allegato al bilancio di previsione 2013. Per due delle tre disposizioni la Presidenza del Consiglio rinuncia al ricorso, essendo state queste abrogate dalla Regione Abruzzo subito dopo l’impugnativa dello Stato. Nel corso dell’udienza pubblica si apprende che anche la terza variazione di bilancio oggetto di ricorso è stata abrogata, ma la difesa erariale insiste per l’accoglimento del ricorso relativamente al periodo in cui la norma abrogata è stata vigente. La Corte conferma che, pur essendovi stata una modifica pienamente satisfattiva delle pretese statali, «l’assenza di qualsiasi indicazione circa la mancata applicazione medio tempore della norma censurata induce a ritenere non provato» l’ulteriore requisito per la declaratoria di cessazione della materia del contendere (cfr. sent. 272/2013). Nel merito i giudici ritengono le questioni non fondate. Il primo profilo di incostituzionalità evidenziato dalla difesa erariale è la violazione dell’art. 27 della l.r. Abruzzo 25 marzo 2002, n. 3 (Ordinamento contabile della Regione Abruzzo) che preclude che la copertura finanziaria di nuove spese possa avvenire tramite la riduzione di spese obbligatorie. Tale norma sarebbe, secondo il ricorrente, conferente con l’art. 34 c. 1, d.lgs. 76/2000 che affida alla legge regionale la disciplina del bilancio in conformità ai principi contenuti nello stesso decreto. Il combinato disposto delle due norme fungerebbe da parametro interposto, implicando in particolare la violazione dell’art. 117, c.3, con riguardo alla materia del «coordinamento della finanza pubblica». Tale ricostruzione è tuttavia smentita dalla Corte che sottolinea come «sia da escludere che una disposizione di contabilità regionale possa di per sé essere considerata norma interposta utile a scrutinare altre norme regionali dello stesso rango». Nella legislazione statale, che pur contiene principi vincolanti per le Regioni (cfr. l. 31 dicembre 2009, n. 196), non è invece rinvenibile un principio di intrasferibilità assoluta tra spese obbligatorie e discrezionali. Parimenti non violato è l’art. 81 c. 4 Cost. La «pretesa automatica incidenza negativa» sull’equilibrio di bilancio prodotta da un trasferimento di risorse tra spese obbligatorie e discrezionali appare infatti priva di fondamento. La lesione dell’equilibrio di bilancio «non può essere configurata nel modo automatico prospettato dal Presidente del Consiglio dei Ministri» e l’incidenza negativa sull’equilibrio di bilancio di uno storno da un capitolo all’altro non può essere sostenuta «senza collegare la censura all’eventuale assenza, nel capitolo attinto, di un’eccedenza di stanziamento sufficiente a coprire la nuova spesa deliberata (sent. 17/1961) o alle ipotesi di carenza di istruttoria in ordine ai presupposti della variazione» (Chiara Bologna).
COMPOSIZIONE DEL CONSIGLIO DI PRESIDENZA DELLA CORTE DEI CONTI? IRRILEVANTE Corte Cost., ord. 14 aprile 2014 , n. 109/2014, Pres. Silvestri, Red. Cartabia Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [L. 4 marzo 2009, n. 15, art. 11 c. 8] (Artt. 3, 100, 101, 103, 104, 108 c. 2) Il Tar Lazio solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 c. 8 della l. 4 marzo 2009, n. 15, che stabilisce che i componenti del Consiglio di presidenza della Corte dei conti eletti dai magistrati della medesima Corte siano in numero di quattro, pari al numero di quelli eletti dal Parlamento. Tale assetto secondo il ricorrente costituirebbe «un vulnus all’autonomia organizzativa dell’apparato giurisdizionale che è strumentale all’indipendenza sia interna che esterna della giurisdizione speciale contabile». La questione è tuttavia manifestamente inammissibile per la Corte: il rimettente non ha infatti chiarito «in quale modo sia chiamato ad applicare nel giudizio a quo la censurata disposizione che determina la composizione del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti». In tema di rilevanza l’ordinanza di rimessione appare secondo la Corte «perplessa e contraddittoria». Se da un lato, infatti, il Tar ritiene che l’accoglimento della questione travolgerebbe gli atti amministrativi sottoposti al suo giudizio, dall’altro afferma che nei casi diversi dal giudizio a quo il principio di continuità dell’ordinamento implicherebbe, anche in caso di declaratoria di incostituzionalità delle norme di elezione dei componenti di un organo, la permanenza della validità degli atti da esso adottati. Né vale nel caso di specie il tema del «vuoto di tutela costituzionale»: come dimostra la sentenza della Corte n.16 del 2011, avente il medesimo oggetto della decisione de qua e in cui la Corte ha sostenuto l’inammissibilità della questione sotto altri profili, la norma analizzata può assumere piena rilevanza nel giudizio principale (Chiara Bologna). ILLEGITTIMA LA STABILIZZAZIONE DEL PERSONALE SANITARIO DELLA REGIONE CALABRIA Corte cost., sent. 11 marzo – 16 aprile 2014, n. 110, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [ Legge della Regione Calabria 29 marzo 2013, n. 12, art. 1, commi 1,2 e 3 (Provvedimenti per garantire la piena funzionalità del Servizio Sanitario regionale)] (Costituzione, artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, e 120) Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso qlc nei confronti dell'art. 1, commi 1, 2 e 3, della legge della Regione Calabria n. 12/2013 che prevede la stabilizzazione (sia pure al ricorrere di determinate condizioni) di personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato presso le Aziende sanitarie e
ospedaliere della Regione Calabria. Nell'accogliere la questione, la Corte costituzionale richiama il proprio consolidato convincimento che "l'autonomia concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obbiettivi di finanza pubblica e del contenimento della spesa". (F. Benelli) VALLE D’AOSTA, LUOGHI DI RISTORO DIFFICILMENTE RAGGIUNGIBILI E BARRIERE ARCHITETTONICHE Corte Cost., sent. 16 aprile-5 maggio 2014, n. 111, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Artt. 6, c. 11, 26, c. 1 e 28, c. 1, l. r. Valle d’Aosta 8 aprile 2013, n. 8] (Artt. 117, c. 2, lett. e), l), m), c. 3, Cost.; artt. 2 e 3 Statuto Valle d’Aosta; art. 10 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3) Dopo la rinuncia da parte dello Stato alle impugnazioni relative agli artt. 6 e 28, la Corte dichiara illegittima la previsione dell’art. 26, co. 1, della l. r. Valle d’Aosta n. 8 del 2013, «alla cui stregua le disposizioni in materia di abbattimento delle barriere architettoniche non si applicano agli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande non raggiungibili con strade destinate alla circolazione a motore». Confermando che per l’individuazione della materia a cui ascrivere una disposizione censurata «non assume rilievo decisivo la qualificazione che di tale disposizione dà il legislatore» (ex multis, sent. n. 207/2010), la Corte ritiene che l’art. 26, c.1, non sia riconducibile a materie rimesse dallo Statuto alla competenza primaria della Regione (art. 2, lett. g) e f), l. cost. n. 4 del 1948), ma disciplini – in deroga alla normativa statale di cui all’art. 82, c. 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – profili che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni «per come si conformano, rispetto ai diritti delle persone diversamente abili, con riguardo alle caratteristiche di accessibilità che devono avere gli edifici e i locali ove sono posti esercizi di somministrazione di alimenti e bevande». Essi rientrano quindi nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, c. 2, lett. m), Cost., di cui si ribadisce la natura «non tanto di una “materia” in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie» (sent. n. 207 del 2012). [C. Bergonzini] TROPPO PERICOLOSO PER LAVORARE NELLA PUBBLICA SICUREZZA: RAGIONEVOLE LA DESTITUZIONE DI DIRITTO Corte Cost., sent. 16 aprile-5 maggio 2014, n. 112, Pres. Silvestri, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 8, c. 1, lett. c), d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737]
(Artt. 3 e 97 Cost.) La Corte è chiamata a giudicare la legittimità della previsione, per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, della destituzione di diritto quale conseguenza automatica dell’applicazione di una misura di sicurezza personale. Dopo aver qualificato la disposizione impugnata «in termini di specialità nell’ambito dell’ordinamento del pubblico impiego», la Corte ritiene «compatibile con i principi costituzionali una disciplina che valuti in termini rigorosi le conseguenze che discendono, sul piano del rapporto di impiego, dalla accertata pericolosità del pubblico dipendente, in particolar modo laddove […] tale situazione abbia determinato condotte penalmente rilevanti». Una simile disciplina «trasparentemente riflette la preminenza attribuita dal legislatore all’interesse della collettività ad essere difesa dalla pericolosità sociale di un suo membro, allorché questo sia un dipendente dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, rispetto all’interesse del singolo alla graduazione della sanzione disciplinare che gli deve essere applicata», e porta pertanto ad escludere la violazione degli artt. 3 e 97 Cost.. [C. Bergonzini] IMPUGNAZIONE DELLE LEGGI REGIONALI SICILIANE E “CLAUSOLA DI MAGGIOR FAVORE”: LA CORTE SI FA GIUDICE A QUO Corte Cost., ord. 5-7 maggio 2014, n. 114, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 4 della delibera leg. relativa al d.d.l. n. 579-607, stralcio I-623, approvata dall’Assemblea reg. siciliana nella seduta del 19/11/2013 n. 579; art. 31, c. 2, l. 11 marzo 1953, n. 87] (Art. 127 Cost. e art. 10 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3) Cogliendo lo spunto di un ricorso del Commissario dello Stato su una delibera legislativa (poi promulgata con omissione della disposizione oggetto di censura), la Corte affronta in realtà il nodo del regime di impugnazione delle leggi regionali siciliane davanti all’Alta Corte. Dopo un excursus della propria giurisprudenza in materia (sentt. nn. 38 e 112 del 1957, n. 6 del 1970, n. 545 del 1989), all’esito della quale «il regime di controllo delle leggi della Regione siciliana era divenuto, quanto agli aspetti principali, sostanzialmente analogo a quello allora previsto per le leggi delle altre Regioni», la Corte individua come punto di svolta l’approvazione della l. cost. n. 3 del 2001, ed in particolare dell’art. 10, che contiene la “clausola di maggior favore” per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, facendo salvo però il regime speciale previsto dallo Statuto della Regione Sicilia. Rileva inoltre che, mentre sulla base di tale disposizione aveva progressivamente esteso il regime di controllo ex art. 127 Cost. (ritenuto di “maggior favore”) anche alle Regioni speciali e alle Province autonome (sentt. nn. 408 e 533 del 2002), con riferimento alla Regione Sicilia aveva deciso in difformità da quanto affermato per gli altri enti, concludendo per «la perdurante
applicabilità del sistema statutario di controllo delle leggi siciliane sull’assunto che quest’ultimo non fosse comparabile con quello previsto dall’art. 127 Cost.» (sent. n. 314 del 2003), anche in vista di una preannunciata revisione dello Statuto medesimo, mai realizzata. A distanza di dieci anni, la Corte dichiara di non potersi esimere «dal risolvere pregiudizialmente il problema della legittimità costituzionale della disposizione di legge ordinaria», di cui all’art. 31, c. 2, della l. n. 87 del 1953 (come modificato dopo la riforma del Titolo V), «che fa salvi l’impugnazione da parte del Commissario dello Stato e il relativo regime di controllo sulle leggi della Regione siciliana, rispetto all’obbligo costituzionale di estendere il sistema di controllo delle leggi regionali, regolato dall’art. 127 Cost., alle Regioni a statuto speciale, sulla base della “clausola di maggior favore” prevista dall’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001»; solleva quindi, disponendone la trattazione innanzi a sé, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 127 Cost. e all’art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001, dell’art. 31, c. 2, l. 11 marzo 1953 n. 87, limitatamente alle parole «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana». [C. Bergonzini] ANCORA SUL NESSO FUNZIONALE NEI CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE EX ART. 68, COMMA 1, COST. Corte cost., sent. 8 aprile – 5 maggio 2014, n. 115, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio su conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato [Deliberazione del Senato della Repubblica del 3 agosto 2010 (Doc. IV-ter, n.17-A)] (Costituzione, art. 68, comma 1) Il Tribunale di Roma ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in ragione della delibera con la quale l'Assemblea ha dichiarato l'insindacabilità delle opinioni espresse da un Senatore in un suo libro nei confronti di alcuni magistrati. La consolidata giurisprudenza costituzionale ha chiarito che il nesso che deve sussistere tra la dichiarazione divulgativa extra moenia e l'attività parlamentare propriamente intesa, "non può essere vista come un semplice collegamento di argomento o di contesto politico fra l'una e l'altra, ma come identificabilità della dichiarazione quale espressione della attività parlamentare , postulandosi anche, a tal fine, una sostanziale contestualità tra i due momenti, a testimonianza dell'unitario alveo funzionale che le deve, appunto, correlare". Nel caso di specie il prescritto nesso funzionale non può essere ravvisato, atteso che l'attinenza delle opinioni espresse all'attività propriamente parlamentare è solamente generiche non presenta "alcuna comunanza di argomenti in riferimento alle specifiche vicende...narrate nel libro in
questione". A tale carenza "si aggiunge anche la non configurabilità di un ragionevole 'legame temporale' tra attività parlamentare e attività divulgativa esterna, giacchè la richiamata attività funzionale risale a quasi cinque anni prima della pubblicazione incriminata". (F. Benelli) UNA QUAESTIO MAL POSTA SUL CONTROLLO GIUDIZIARIO PER LE S.R.L. Corte Cost., ord. 5-7 maggio 2014, n. 116, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Artt. 2049 e 2476 Cod. civ.] (Artt. 3 e 24 Cost.) La Corte dichiara manifestamente inammissibile una q.l.c. relativa agli artt. 2049 e 2476 c.c., nella parte in cui non consentono l’utilizzo dello strumento del controllo giudiziario ex art. 2049 c.c. per le s.r.l. con finalità diverse da quelle di cui alla l. 23 marzo 1981, n. 91 (attività sportive o a esse collegate), a causa della «inadeguata individuazione del contesto normativo», che «incide in maniera decisiva sulla motivazione esibita per asseverare l’impossibilità di una interpretazione secundum constitutionem della disciplina denunciata». [C.Bergonzini] Corte Cost., ord. 5-7 maggio 2014, n. 117, Pres. Silvestri, Red. Cartabia Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 2 l. r. Sardegna 23 maggio 2013, n. 12] (Artt. 3, 4 e 5 Statuto Regione Sardegna e art. 117, c. 2 e 3, Cost.) Giudizio promosso in riferimento a una disposizione della legge Finanziaria della Regione Sardegna 2013, dichiarato estinto a seguito della rinuncia al ricorso da parte dello Stato e accettata dalla Regione. [C. Bergonzni] Corte Cost., ord. 5-7 maggio 2014, n. 118, Pres. Silvestri, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 3 l. reg. Marche 17 giugno 2013, n. 13] (Art. 117, c. 2, lett. s) e c. 3 Cost.) Giudizio promosso in riferimento a una disposizione della legge regionale in materia di Consorzi di bonifica, dichiarato estinto a seguito della rinuncia al ricorso da parte dello Stato e accettata dalla Regione. [C.Bergonzini]
ANCORA SUI CONFINI DELLA MATERIA “PRODUZIONE, TRASPORTO E DISTRIBUZIONE NAZIONALE DELL’ENERGIA” Corte cost. 8 aprile – 5 maggio 2014, n. 119, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via principale (G.U. n. 21 del 2014) [Legge della Regione Abruzzo 7 giugno 2013, n. 14 art. 2, (Interpretazione autentica dell’art. 11, comma 1, lett. c, della legge regionale 30 marzo 2007, n. 5 «Disposizioni urgenti per la tutela e la valorizzazione della costa teatina» e modifiche alla legge regionale n. 2/2008 «Provvedimenti urgenti a tutela del territorio regionale» e alla legge regionale n. 41/2011 «Disposizioni per l’adeguamento delle infrastrutture sportive, ricreative e per favorire l’aggregazione sociale nella città di l’Aquila e degli altri Comuni del cratere»)] (Costituzione, artt. 117, secondo comma, lettere h) e m), e terzo comma, e 118, primo comma) E' illegittima la LR Abruzzo n. 14/2013 nella parte in cui consente la localizzazione e la realizzazione di centrali di compressione a gas al di fuori delle aree sismiche classificate di prima categoria. Tale disposizione infatti, deve essere ricondotta alla competenza concorrente della "produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" che, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost. riserva allo Stato l'identificazione dei principi della materia e alle Regioni la regolamentazione dei dettagli. Tra questi principi, argomenta la Corte con richiami espliciti a sue precedenti decisioni, vi è quello che riserva allo Stato i poteri autorizzatori e le competenze amministrative generali in materia; competenze queste illegittimamente esercitate nella legge regionale impugnata (F. Benelli). LA CORTE SALVA L'AUTODICHIA DELLE CAMERE... CON ALCUNE PRECISAZIONI Corte cost., sent. 25 marzo – 5 maggio 2014, n. 120, Pres. Silvestri, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (G.U. n. 21 del 2014) [Regolamento del Senato della Repubblica 17 febbraio 1971, art. 12 ] (Costituzione, artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma) Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del Regolamento del Senato nella parte in cui attribuisce al Senato stesso il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall'amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti dei propri dipendenti. Nel dichiarare inammissibile la questione , la Corte rileva come "i regolamenti parlamentari non rientrano espressamente tra le fonti-atto indicate nell'art.
134., primo alinea, Cost. - vale a dire tra le leggi e gli atti aventi forza di legge - che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità". Risiede dunque in ciò "e non in motivazioni storiche o risalenti tradizioni interpretative, la ragion d'essere attuale e di diritto positivo dell'insindacabilità degli stessi regolamenti in sede di giudizio di legittimità costituzionale". Invero, la Corte nega che detti regolamenti possano avere solo un rilevanza meramente interna, ma precisa che "il rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali il diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), così come l'attuazione dei principi inderogabili (art. 108 Cost.) sono assicurati dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale". In questi casi, tuttavia, "la sede naturale in cui trovano soluzione le questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati è quella del conflitto tra i poteri dello Stato (…). In tale sede la Corte può stabilire il confine - ove questo sia violato - tra i poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri, così assicurando il rispetto dei limiti delle prerogative e del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto" (F. Benelli).
LA SCIA NUOVA MATERIA TRASVERSALE Corte cost., sent. 25 marzo – 5 maggio 2014, n. 121, Pres. Silvestri, Red. Criscuolo Giudizio di legittimità costituzionale in via principale (G.U. n. 21 del 2014) [Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, art. 49, comma 4 ter (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, legge 30 luglio 2010, n.122] (Costituzione, art. 117, comma 2, lett. e-m) La norma impugnata dalla Provincia autonoma di Bolzano qualifica la disciplina sulla "segnalazione certificata di inizio attività" (SCIA) come attinente alla tutela della concorrenza e come espressione del livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Secondo la ricorrente, tale disposizione si porrebbe in contrasto con la vigente disciplina provinciale, in particolare in materia di "urbanistica". Nel rigettare la questione, il Giudice delle leggi sottolinea come la SCIA si riferisce ad ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato. Detta disciplina, quindi, "ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini" e perciò va oltre alla individuazione delle singole materie ex art. 117 Cost. Si tratta, infatti, "non tanto di una materia in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie,
in relazione alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare in modo generalizzato sull'intero territorio nazionale il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti , senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle" (F. Benelli). MANIFESTAMENTE INAMMISSIBILE LA QLC SOLLEVATA NEI CONFRONTI DI DISPOSIZIONI GIA' ANNULLATE NELLE MORE DEL PROCESSO COSTITUZIONALE Corte cost., ord. 12 marzo – 5 maggio 2014, n. 122, Pres. Silvestri, Red. Cartabia Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (G.U. n. 21 del 2014) [Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c), e 135, comma 1, lettera c), e Allegato 4, art. 4, comma 1, numero 19)] (Costituzione, art. 76) E' manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla terza sezione del TAR Lazio nei confronti degli artt. 133, comma 1, lett. l), 134, comma 1, lettera c) e 135, comma 1, lettera c) del D.Lgs. 104/2014. Nelle more del processo costituzionale, infatti, è stata pronunciata la sent. 94 del 2014 con cui la Corte costituzionale ha annullato le disposizioni impugnate in precedenza in altro processo (F. Benelli). MANIFESTAMENTE INAMMISSIBILE LA QLC SOLLEVATA DAGLI ARBITRI IN FORZA DI UNA CLAUSOLA COMPROMISSORIA INVALIDA Corte cost., ord. 26 marzo – 5 maggio 2014, n. 123, Pres. Silvestri, Red. Tesauro Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (G.U. n. 21 del 2014) [Codice civile art. 2941, primo comma, numero 7] (Costituzione, art. 3 e 24) Il collegio arbitrale di Padova ha sollevato qlc in riferimento all'art. 2941, primo comma, numero 7, del Codice civile. Pur ribadendo la legittimazione degli arbitri rituali a sollevare incidentalmente questione di legittimità costituzionale delle norme di legge che essi sono chiamati ad applicare, la Corte ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile. Rientra, infatti, tra i poteri del Giudice delle leggi il sindacato , in sede di ammissibilità, sulla validità dei presupposti di esistenza del giudizio principale, "qualora risultino manifestamente carenti ... ovvero manchi una plausibile
motivazione in ordine agli stessi". Nel caso di specie, la nomina degli arbitri è avvenuta in violazione dei principi indicati dal D.Lgs. n. 5/2003 (che regola la definizione dei procedimenti in materia societaria). Ne consegue che "il mancato esame, sotto questo profilo, della validità della clausola compromissoria si risolve in una carenza argomentativa in ordine alla potestas iudicandi degli stessi, che comporta la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per difetto di motivazione sulla rilevanza" (F. Benelli). IL DIRITTO ALL'EQUA RIPARAZIONE PER ECCESSIVA DURATA DEL PROCESSO SPETTA ANCHE ALLA PARTE SOCCOMBENTE Corte cost., ord. 26 marzo – 5 maggio 2014, n. 124, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale (G.U. n. 21 del 2014) [Legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile), art. 2-bis, comma 3] (Costituzione, art. 117, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848) E' impugnata in via incidentale la disposizione che disciplina l'equa riparazione in caso di eccessiva durata del processo nella parte in cui prevede che la misura di tale indennizzo "non può in ogni caso essere superiore al valore del diritto accertato dal giudice". Secondo i Giudici rimettenti, tale disposizione comporterebbe "l'Impossibilità di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente", con ciò violando l'art. 117, primo comma, Cost. e l'art. 6, par. 1 della CEDU. Secondo la Corte costituzionale, tuttavia, l'impugnata doglianza muove da un presupposto interpretativo errato. La norma impugnata, infatti, "deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in cui questi accerti l'esistenza del diritto fatto valere in giudizio e non anche, come invece ritenuto dai giudici a quibus, al caso dell'accertamento dell'inesistenza di tale diritto - e, quindi, della soccombenza (dell'attore)". Nel motivare la decisione, il Giudice delle leggi sottolinea come alla corretta interpretazione della norma impugnata "si giunge anche alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nel limite in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell'uomo interpreta l'art. 6, par. 1, della Convenzione nel senso della spettanza dell'equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente" (F. Benelli).
BOCCIATA LA LEGGE UMBRA ANTI-LIBERALIZZAZIONI Corte Cost., sent. 7-15 maggio 2014, n. 125, Pres. Silvestri, Red. Napolitano Giudizio di legittimità in via principale [Artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10] (Artt. 41 e 117, cc. 1 e 2, lettera e) Cost.) Con la sentenza n.125 del 2014, la Corte costituzionale torna a pronunciarsi in materia di liberalizzazioni, ribadendo il divieto per le regioni di introdurre disposizioni che si pongano in contrasto con gli obiettivi di tutela della concorrenza la quale «non è una “materia di estensione certa” o delimitata, ma è configurabile come “trasversale”» (sentt. n. 80 del 2006, n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato l'illegittimità di alcune disposizioni della L.r. Umbria n. 10 del 2013, le quali introducevano limiti all'apertura di nuovi esercizi commerciali e di nuovi impianti di distribuzione di carburanti. [F. Conte]
“CONCORRENZA DI COMPETENZE” (PER UNA VOLTA RISOLTA IN FAVORE DELLE REGIONI) NELLA MATERIA DEI “CONTRATTI DI FORMAZIONE SPECIALISTICA” Corte cost., sent. 7 maggio 2014, n. 126; Presidente: SILVESTRI, Redattore: AMATO Giudizio di legittimità costituzionale in via di azione Oggetto: Art. 3, Legge della Regione Veneto 14 maggio 2013, n. 9 (Contratti di formazione specialistica aggiuntivi regionali) Parametro: Art. 117, 2° comma, lett. l) Cost.; Art. 117, 3° comma Cost. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di una disciplina della Regione Veneto in materia di “Contratti di formazione specialistica”, laddove contempla in particolare che “Il medico specializzando assegnatario del contratto aggiuntivo regionale, sottoscrive apposite clausole, predisposte dalla Giunta regionale, sentita la Commissione consiliare competente, al contratto di formazione specialistica di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 6 luglio 2007 (…)”, rileva nel caso di specie la sussistenza di una “concorrenza di competenze”. È fin troppo noto che, il più delle volte, la evidenziazione da parte della Consulta di una “concorrenza di competenze” conduce all’applicazione del “criterio della prevalenza”, o, al massimo, di quello della “leale collaborazione”; conduce in sostanza alla prevalenza della competenza statale su quella regionale. Infatti, già dalle sentenze n. 370/2003 e n. 50/2005, nonostante detto criterio avrebbe dovuto servire a coordinare le
competenze esclusive statali con quelle regionali, pareva abbastanza chiaro che la sua applicazione avrebbe potuto determinare la costante prevalenza della competenza esclusiva statale, come puntualmente verificatosi in numerose successive pronunce (tra le tante, si segnala la n. 411/2008). Qualora la Corte non ravvisi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto agli altri ricorre semplicemente al principio di leale collaborazione, che conduce comunque alla soccombenza della competenza regionale, ancorché mediante una più articolata procedimentalizzazione (cfr., sent. 33/2011). Nel caso di specie, la Corte rileva che è possibile ravvisare una “concorrenza di competenze”, in quanto la disposizione al suo esame si presta ad incidere contestualmente sulle materie “ordinamento civile”, “professioni” e “tutela della salute”, precisando che l’individuazione dell’ambito materiale a cui ricondurre la disposizione impugnata è operata alla luce del criterio che valorizza “l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre” (sent. 50/2005). Tuttavia, forse per la prima volta, non perviene alla prevalenza di una competenza statale su quelle regionali, ma esclude che la norma al suo esame sia riconducibile alla materia dell’“ordinamento civile”, “in quanto le clausole contrattuali previste dalla disposizione impugnata non modificano lo schema tipo di contratto disciplinato dallo Stato, ma si limitano ad adattarlo all’eventualità, contemplata dalla stessa normativa statale, che la Regione finanzi contratti aggiuntivi”, ricordando che la stessa Corte aveva già escluso “che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l’opera dei sanitari, (…), rientri per ciò stesso nell’area dell’“ordinamento civile”, riservata al legislatore statale” (cfr., sent. 282/2002). Ne deriva conclusivamente che la disciplina impugnata deve essere ascritta, in prevalenza, alle materie “professioni”, ovvero “tutela della salute”, “in ragione della stretta inerenza che essa presenta con la formazione del medico specializzando, dalla quale dipendono tanto l’esercizio della professione medica specialistica, quanto la qualità delle prestazioni rese all’utenza”, poiché non v’è dubbio che entrambi questi aspetti sono condizionati, sotto molteplici profili, dalla preparazione dei sanitari in formazione. (M. Belletti) ANCORA UN GIUDIZIO ASSOLUTORIO (A TRATTI PERENTORIO) DEL PERVASIVO COORDINAMENTO FINANZIARIO Corte cost., sent. 7 maggio 2014, n. 127; Presidente: SILVESTRI, Redattore: MAZZELLA Giudizio di legittimità costituzionale in via di azione Oggetto: Art. 22, 3° comma, decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 Parametro: Art. 117, 3° comma, Cost.; Art. 118 Cost.; Art. 119 Cost.; Artt. 4, 1° comma, numero 1), 8, 1° comma, numero 1), 16, 79, 80, 103, 104 e 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige); Principio di leale collaborazione; Art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3
(Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); Artt. 2, 1° comma, lettera a), 3, 1° comma, lettera f), e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta) Questa sentenza si inserisce in un filone giurisprudenziale oramai ampiamente consolidato, tale per cui la natura di disciplina statale di “coordinamento della finanza pubblica” legittima la sostanziale invasione dell’autonomia organizzativa e di spesa regionale, finanche delle Regioni a Statuto speciale. Ciò che risulta evidente in questa pronuncia è che non è nemmeno più necessario che la Consulta verifichi la reale natura della disciplina contestata di principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, poiché la normativa da taluni qualificata della “crisi”, nel caso di specie i decreti legge n. 78 del 2010 e 201 del 2011, pare aver incontestabilmente assunto la detta qualifica. Il caso riguarda l’estensione alle Regioni e alle Province autonome della disciplina di cui all’art. 6, 5° comma del d.l. 78/2010, per cui “tutti gli enti pubblici, anche economici, e gli organismi pubblici, anche con personalità giuridica di diritto privato, provvedono all’adeguamento dei rispettivi statuti al fine di assicurare che, (…), gli organi di amministrazione e quelli di controllo, ove non già costituiti in forma monocratica, nonché il collegio dei revisori, siano costituiti da un numero non superiore, rispettivamente, a cinque e a tre componenti”. Con la conseguenza per cui “La mancata adozione dei provvedimenti di adeguamento statutario o di organizzazione (…) determina responsabilità erariale e tutti gli atti adottati dagli organi degli enti e degli organismi pubblici interessati sono nulli”. Il percorso argomentativo della Consulta risulta dunque a dir poco “perentorio”. Si limita infatti a rilevare di aver più volte affermato che l’art. 6 del d.l. n. 78 del 2010 è espressione di un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica diretto a realizzare una riduzione dei costi degli apparati amministrativi (sentt. 182/2011, 139/2012, 161/2012 e 218/2013). Analoga considerazione vale per l’art. 22, 3° comma, del d.l. 201/2011, laddove prevede un generale limite massimo al numero dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo e dei collegi dei revisori dei conti costituiti negli enti sottoposti alla vigilanza delle Regioni e delle Province autonome, che costituisce “espressione della «scelta di fondo» (sentenza n. 23 del 2014) di riduzione dei costi degli apparati amministrativi espressa dal legislatore statale con l’art. 6 del d.l. n. 78 del 2010 e, dunque, ha natura di principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica”. Come a dire in sostanza che è sufficiente verificare che la scelta di fondo del legislatore statale sia quella della riduzione dei costi degli apparati amministrativi, della riduzione della spesa pubblica, per giustificarne la natura di principio di coordinamento della finanza pubblica. Cosicché, ne deriva la non fondatezza di tutti i profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle ricorrenti, sia sotto il profilo dell’autonomia di spesa e della pervasività del coordinamento finanziario, sia sotto il profilo dell’autonomia organizzativa amministrativa. (M. Belletti)
LA CONSULTA DELIMITA (SOTTO IL PROFILO TEMPORALE E SOSTANZIALE) IL CONTROLLO SUI RENDICONTI DEI GRUPPI CONSILIARI REGIONALI Corte cost., sent. 7 maggio 2014, n. 130; Presidente: SILVESTRI, Redattore: CORAGGIO Conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni Oggetto: Controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali relativi all’esercizio finanziario 2012 Deliberazioni della Corte dei conti, sezione delle autonomie, 05/04/2013, n. 12, e 05/07/2013, n. 15; sezione di controllo per l’Emilia Romagna 12/06/2013, n. 234, e 10/07/2013, n. 249; sezione di controllo per il Veneto, 13/06/2013, n. 160, e 29/04/2013, n. 105, e sezione di controllo per il Piemonte 10/07/2013, n. 263 Parametro: Art. 121, 2° comma Cost. In questa pronuncia, la Corte costituzionale afferma, e in parte richiama, tre importanti principi nel controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari regionali esperibile dalla Corte dei Conti. Si tratta in particolare di una regola di carattere procedimentale, una di natura sostanziale e una di natura intertemporale. È da premettere che questa decisione, attivata da un ricorso per conflitto intersoggettivo delle Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, ha ad oggetto le delibere assunte dalla Corte dei Conti in forza dell’art. 1 del d.l. n. 174 del 2012, sottoposto ad esame della Consulta e parzialmente dichiarato incostituzionale con la pronuncia n. 39 del 2014, ove, per quanto qui interessa, vengono definiti i confini sostanziali di tale competenza dei giudici contabili. Sotto il profilo procedimentale, a fronte dell’eccezione di inammissibilità di parte statale per cui l’art. 121 Cost., 2° comma, tutelerebbe le sole prerogative e competenze costituzionalmente garantite dei Consigli regionali, mentre gli atti contestati inciderebbero sui gruppi consiliari, “soggetti autonomi rispetto al Consiglio regionale, in quanto tali legittimati a far valere le proprie ragioni di fronte alla giurisdizione comune”, la Consulta risponde che i gruppi consiliari sono stati qualificati dalla giurisprudenza costituzionale “come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale (sentenze n. 187 del 1990 e n. 1130 del 1988), ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio (sentenza n. 1130 del 1988)”. Cosicché, la lamentata lesione delle prerogative dei gruppi consiliari si risolve in una compressione delle competenze proprie dei Consigli regionali e quindi delle Regioni ricorrenti, come tali legittimate alla proposizione del conflitto intersoggettivo (sent. 252/2013, 195/2007 e 163/1997). Per quanto concerne gli aspetti sostanziali del controllo esperibile dai giudici contabili, la Corte richiama le conclusioni alle quali era pervenuta in occasione della sentenza n. 39 del 2014, rilevando che tale tipologia di controllo non può “addentrarsi nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi, nei limiti del mandato istituzionale”. Il che costituisce conseguenza del fatto che questo sindacato della Corte dei
conti ha natura prevalentemente formale e documentale, assumendo a parametro la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza Stato, Regioni e Province autonome. In particolare, la Corte ricorda che l’art. 1 del d.l. 174/2012 detta una disciplina del controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari comunque esercitabile solo secondo i criteri previsti nelle linee guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, successivamente recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato il 21 dicembre 2012 ed entrato in vigore il 17 febbraio dell’anno seguente. Ne deriva che il dettato normativo configura un potere di controllo “condizionato alla previa individuazione dei criteri per il suo esercizio”, nell’evidente presupposto della loro indispensabilità. Essendo state assunte le delibere contestate prescindendo dall’adozione dei citati criteri, in relazione ad un esercizio finanziario addirittura antecedente all’entrata in vigore dei medesimi criteri, la Consulta conclude che “non spettava allo Stato e, per esso, alla Corte dei conti, sezione delle autonomie e sezioni regionali di controllo per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, adottare le deliberazioni impugnate con cui si è, rispettivamente, indirizzato ed esercitato il controllo sui rendiconti dei gruppi consiliari in relazione all’esercizio 2012”. Ciò sostanziandosi in una lesione dell’autonomia organizzativa e contabile, in particolare dei Consigli regionali e dei loro gruppi consiliari, tutelata dall’art. 121, 2° comma, Cost. (M. Belletti)
LA CORTE AMMETTE LA PARAMETRICITÀ NEL GIUDIZIO INCIDENTALE DEL NUOVO (RECTIUS, VECCHIO) ART. 81 COST. Corte cost., sent. 7 maggio 2014, n. 132; Presidente: SILVESTRI, Redattore: CAROSI Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale Oggetto: Art. 3 bis, 11° comma, del decreto legislativo 30/12/1992, n. 502, inserito dall’art. 3, 3° comma, del decreto legislativo 19/06/1999, n. 229 Parametro: Art. 76 Cost. e Art. 81, 3° comma, Cost., nel testo modificato dall’art. 6 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale) Nel caso di specie, la Corte costituzionale prende ad esame una questione estremamente tecnica, quella del trattamento pensionistico del direttore generale, amministrativo o sanitario presso aziende sanitarie, verificando in particolare la puntuale convergenza con i principi posti dalla legge di delega dalla quale è originata la relativa disciplina. Ciò che tuttavia interessa particolarmente è il fatto che la Consulta, pur salvando la disposizione impugnata, ammette la parametricità dell’art. 81 Cost., sotto il profilo dell’individuazione di una precisa copertura finanziaria, sia nella vecchia che nella nuova versione, anche nel giudizio in via incidentale.
È noto come la Corte abbia già da tempo riconosciuto detta parametricità all’art. 81 Cost., sostanzialmente nella nuova versione, ancorché formalmente applicando la vecchia, nel giudizio in via di azione (cfr., sentt. 4/2014, 51/2013, 192/2012). Nel caso del giudizio in via di azione è infatti evidente l’interesse “ad agire” dello Stato, a lamentare la mancata indicazione della copertura economica da parte delle leggi regionali. Rileva infatti la Corte che “l’esistenza di oneri nascenti dal contenuto della legge determina la necessità dell’indicazione dei mezzi finanziari per farvi fronte”, altrimenti verrebbe “disatteso un obbligo costituzionale di indicazione al quale il legislatore, anche regionale (…), non può sottrarsi, ogni qual volta esso preveda attività che non possano realizzarsi se non per mezzo di una spesa” (sent. 51/2013). Assai meno evidente è invece l’interesse delle parti del giudizio a quo, oppure del giudice rimettente, a denunciare analoga violazione costituzionale. Pur rinvenendosi un difetto di copertura finanziaria, difficilmente la relativa questione potrebbe essere rilevante ai fini della definizione del giudizio a quo. La Corte invece rileva nel caso di specie l’ammissibilità del riferimento del giudice rimettente all’art. 81 Cost., seppur con talune precisazioni. In primo luogo erroneamente il giudice rimettente fa riferimento al 6° anziché al 3° comma dell’art. 81, secondo il quale “Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”, ma soprattutto lo stesso giudice non tiene conto del fatto che ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge costituzionale 1/2012, l’operatività di quella disciplina scatta “a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014”. Ne deriva che al caso di specie potrà trovare applicazione esclusivamente il 4° comma dell’art. 81 Cost., nel testo vigente al momento della rimessione della questione di legittimità costituzionale. Ciononostante, non viene precluso “l’esame del merito in relazione al parametro della copertura della spesa, giacché risulta chiaro il senso del richiamo del giudice a quo al precetto costituzionale, anche in considerazione del fatto – almeno per quanto attiene al rapporto tra la presente fattispecie ed i valori prescrittivi di riferimento – che tra il vecchio parametro e quello sopravvenuto sussiste una sostanziale continuità”. Tuttavia, in concreto, il Giudice delle leggi analizza il rispetto del criterio di invarianza degli oneri finanziari non già sulla base dell’art. 81 Cost., ma in ragione del rispetto o meno di quanto disposto dalla legge delega, la quale lascerebbe, tra l’altro, diverse opzioni al legislatore delegato, essendo la scelta legislativa all’esame della Corte “solo uno dei possibili strumenti attuativi della delega, con tutte le possibili implicazioni positive e negative intrinsecamente legate al modello di riforma adottato”. Cosicché la Corte può concludere che il legislatore delegato “non ha violato le regole di copertura della spesa, come delineate dalla legge delega, e non ha introdotto, sempre nel rispetto del mandato ricevuto, alcuna modifica strutturale nell’ordinamento della previdenza pubblica, limitandosi a rendere omogenea la disciplina del rapporto di lavoro dei soggetti di diversa provenienza chiamati a svolgere le funzioni di direttore generale, amministrativo e sanitario”.
Ciononostante, se si considera che in una questione sostanzialmente analoga, ma pervenuta alla Corte in via di azione, con riguardo all’incremento ed all’integrazione del trattamento economico dei direttori generali, dei direttori sanitari e dei direttori amministrativi degli enti ed istituti sanitari, è stato affermato che la mancata indicazione della copertura finanziaria comporta la violazione dell’art. 81 Cost. (sentenza n. 68 del 2011), non può non rilevarsi che, nonostante la formale ammissione del parametro della copertura finanziaria anche nel giudizio in via incidentale, il sindacato della Consulta al riguardo sia assai più rigoroso nel giudizio in via di azione, con particolare riferimento alle leggi regionali di spesa. (M. Belletti) LA PUBBLICITÀ DELLE UDIENZE TRA CEDU E GIUSTO PROCESSO Corte Cost., sent. 19-21 maggio 2014, n. 135 del 2014, Pres. Silvestri – Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale] (Art. 111 e art. 117, c. 1, Cost.) La pubblicità delle udienze è uno di quei principi riconducibili al giusto processo, del novellato art. 111 Cost., ma, ancor prima, un diritto inviolabile di qualsiasi imputato espressamente affermato all’intento della CEDU così come enucleato e pacificamente ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sulla cui sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia). Tali premesse – già affermate in occasione della sent. 93 del 2010 – vengono ribadite dalla Corte costituzionale nella sent. n. 135, con la quale si ritiene fondato il dubbio del Magistrato di sorveglianza di Napoli sull’incostituzionalità degli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che la procedura di applicazione delle misure di sicurezza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della pubblica udienza». La Corte dunque, dichiarando l’incostituzionalità delle censurate disposizioni, estende anche in tale ipotesi che, su istanza degli interessati, sia assicurata la pubblicità delle udienze, in ossequio all’art. 117 c. 1° Cost. integrato dalla norma interposta contenuta nell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, per cui «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […], pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale […]». [E.C. Raffiotta] L’AUTONOMIA SPECIALE COME LIMITE ALLE FUNZIONI DELL’AUTORITÀ PER L’ENERGIA ELETTRICA ED IL GAS
Corte Cost., Sent. 19-21 maggio 2014, n. 137 del 2014, Pres. Silvestri, Red. Tesauro Giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni [d.l. n. 201 del 2011] Il conflitto di attribuzioni intersogettivo risolto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 137, muove da un ricorso della Provincia autonoma di Trento nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione all’art. 3, comma 1, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012, con il quale, in attuazione del d.l. n. 201 del 2011, si definivano le nuove funzioni dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici. Secondo la Provincia autonoma tale disciplina rappresentava una violazione delle proprie attribuzioni costituzionali definite dallo Statuto speciale in materia di servizio idrico (in particolare con l’art. 8, numeri 1), 5), 17), 19) e 24); con l’art. 9, numeri 9) e 10); con l’art. 13; con l’art. 14; con l’art. 16; con gli artt. 80 ed 81 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nonché tutta una serie di disposizioni attuative). La Corte riconoscendo il “tono costituzionale” delle presunte violazioni «delle attribuzioni statutarie della Provincia autonoma […] restando irrilevante la concorrente possibilità di impugnativa giurisdizionale», accoglie nel merito parzialmente le censure dell’Ente provinciale. Premesso il rilevo e l’interesse delle funzioni svolte dall’Autorità indipendente, la Corte, rileva come lo Statuto speciale non si sia limitato a determinare singole e specifiche funzioni a vantaggio della provincia autonoma, ma un vero e proprio sistema di programmazione, gestione controllo del servizio idrico che si sovrappone e prevale rispetto a quello valido nel resto del territorio nazionale, e che dunque limita le funzioni dell’Autorità nazionale. [E.C. Raffiotta] UN ULTERIORE OSTACOLO PER L’ISTITUZIONE DELLE “ZONE A BUROCRAZIA ZERO” Corte Cost., sent. 19-28 maggio 2014, n. 144, Pres. Silvestri, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 14, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 12 novembre 2011, n. 183] La sent. 144 del 2014, sembra rappresentare un ulteriore ostacolo al complesso e faticoso avvio delle c.d. “zone a burocrazia zero”. Sono queste, o meglio dovrebbero essere, aree libere dalla “burocrazia”, nelle quali dovrebbe vigere una deroga dalle comuni regole del procedimento amministrativo. Tale progetto, è stato spesso riproposto, in via sperimentale, soprattutto, dopo la recente crisi economica, come misura per sostenere le zone più depresse del Paese. In un primo momento, l'articolo 43 del d.l. 78 del 2010, prova in via sperimentale a costituire delle zone a burocrazia zero nelle regioni meridionali,
ma la Corte costituzionale con la nota sent. 232 del 2011 ne dichiara l’incostituzionalità per violazione delle competenze concorrenti e residuali delle regioni a statuto ordinario. Successivamente, l’art. 14 della legge di stabilità 2012, la n. 183 del 2011, estende – in via sperimentale, fino al 31 dicembre 2013 – sull'intero territorio nazionale le “zone franche”, ma soprattutto, rimette la loro individuazione ad un processo collaborativo volto a coinvolgere gli enti territoriali interessati. In particolare, può essere istituito istituito in ciascun capoluogo di Provincia, su richiesta della Regione, d'intesa con gli enti interessati e su proposta del ministro dell'Interno, l'Ufficio locale del Governo, il quale – presieduto dal prefetto e composto da un rappresentante della Regione, da un rappresentante della Provincia o della Città metropolitana e da un rappresentante del Comune interessato – può attivare percorsi sperimentali di semplificazione amministrativa per gli impianti produttivi e le imprese in ambiti territoriali delimitati. Contro tale disciplina, però, si oppone, in particolare, la Regione autonoma Valle d’Aosta, che contesta l’applicazione di tale disciplina nel suo territorio, per violazione di molte sue competenze fissate nello statuto speciale. La Corte con la sent. n. 144, accogliendo il ricorso della regione, dichiara l’incostituzionalità della citata normativa impugnata nella parte in cui “è destinata ad applicarsi anche ai procedimenti amministrativi che si svolgono entro l’àmbito delle materie di competenza primaria e integrativa/attuativa della Regione autonoma Valle d’Aosta”. [E.C. Raffiotta] A QUALI CONDIZIONI SONO LEGITTIME LE DEROGHE ALL’AUTONOMIA TRIBUTARIA DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE? Corte cost., sent. 19 maggio 2014, n. 145, Pres. Silvestri, Red. Carosi Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [art. 7-bis, commi 3 e 5, decreto-legge 26 aprile 2013, n. 43 - Disposizioni urgenti per il rilancio dell’area industriale di Piombino, di contrasto ad emergenze ambientali, in favore delle zone terremotate del maggio 2012 e per accelerare la ricostruzione in Abruzzo e la realizzazione degli interventi per Expo 2015 - convertito dalla legge 24 giugno 2013, n. 71] (artt. 36, 37, 43 regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 recante lo statuto della Regione siciliana, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2; art. 2, primo comma, decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074 - Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria - ; principio di leale collaborazione). La Regione Sicilia ha ritenuto la propria autonomia tributaria violata dalle disposizioni del d.-l. n. 43/2013, che prevedono l’aumento delle imposta di bollo e la conseguente riserva allo Stato del maggior gettito conseguito, al fine di consentire la prosecuzione degli interventi per la ricostruzione privata nei territori dell’Abruzzo. D’altro canto, il d.-l. 43/2013 prevedeva che il gettito derivante dall’aumento dell’imposta di bollo fosse destinato, oltre che a coprire tali interventi nel periodo 2014-2019, anche ad aumentare, per l’anno 2013, il Fondo per interventi strutturali di politica economica (d.-l- n. 282/2004).
La Corte costituzionale ricorda le tre condizioni che legittimano l’eccezionale riserva allo Stato del gettito tributario e la conseguente deroga all’autonomia finanziaria della Regione speciale: 1) natura impositiva dell’entrata; 2) innovatività del tributo (sia dal punto di vista dell’an , sia dal punto di vista del quantum); 3) destinazione del gettito alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato. In tal senso, mentre è perfettamente legittima l’assegnazione del gettito alle particolare finalità di ricostruzione nelle aree terremotate, il requisito della specificità della destinazione non può dirsi soddisfatto con riguardo alla generica destinazione all’incremento del fondo istituito per interventi strutturali di politica economica. La Corte costituzionale, con una sentenza di accoglimento parziale, ha così dichiarato l’incostituzionalità dell’ art. 7-bis commi 3 e 5, del d.-l. n. 43/2013 nella parte in cui riserva (per l’anno 2013) al Fondo per interventi strutturali il maggior gettito tributario derivante dal territorio della Regione siciliana. [C. Caruso] FARMACI OFF-LABEL E INAMMISSBILITà DELLE QUESTIONI IN CASO DI PRASSI AMMINISTRATIVE “COSTITUZIONALEMNTE ORIENTATE” C. cost., sent. 19 maggio 2014, n. 151, Pres. Silvestri, Red. Cassese Giudizio di legittimità in via incidentale [art. 1, comma 4, decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996), convertito dall’art. 1 legge 23 dicembre 1996, n. 648; art. 8 del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (Attuazione della direttiva 2001/83/CE – e successive direttive di modifica – relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE] (artt. 2, 3, secondo comma, 97, primo comma, e 119, primo e quarto comma Cost.) In un giudizio avente ad oggetto la delibera regionale di temporanea erogabilità del medicinale “Avastin” per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata (cd. uso off-label), il TAR Emilia-Romagna ha dubitato della legittimità costituzionale delle disposizioni che regolano l’erogazione a carico del SSN dei medicinali off-label, nella parte in cui non consentono un adeguato coinvolgimento della Regione nella procedura di autorizzazione all’utilizzo del farmaco, e là ove non attribuiscono alcun rilievo, nella scelta sull’utilizzo di tali prodotti, all’impatto sui conti pubblici. La Corte dichiara inammissibili le questioni sulla base di tre considerazioni: 1) la delibera “applicativa”, adottata dalla Commissione unica del farmaco (oggi: AIFA), della disciplina sull’inserimento dei farmaci off-label coinvolge la Regione riconoscendo un potere di iniziativa alle ASL; 2) la medesima delibera prevede anche che l’AIFA decida tenendo conto dei dati relativi alla spesa farmaceutica dei medicinali da inserire nell’elenco; 3) nel caso di specie la decisione della regione EmiliaRomagna sul farmaco è stata comunque adottata in carenza di potere, posto che la norma regionale di legge che consentiva l’adozione del provvedimento è
stata dichiarata incostituzionale dalla sent. n. 8/2011) [C. Caruso].
8/2011 (precedente: sent. n.
VIOLAZIONI DELL’ORARIO DI LAVORO E SANZIONI A CARICO DEL DATORE: SUL NECESSARIO RAPPORTO DI GERARCHIA TRA DECRETO CORRETTIVO E DELEGA PRINCIPALE Corte costituzionale, sent. 19 maggio 2014, n. 153, Pres. Silvestri, Red. Mattarella Giudizio di legittimità in via incidentale [art. 18-bis, commi 3 e 4, decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), introdotto da decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro)] (art. 76 Cost., legge delega 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001) L’art. 2, comma 1, lettera c), l. n. 39/2002, ha posto un criterio direttivo generale per l’attuazione, da parte del Governo, di alcune direttive comunitarie in materia di organizzazione dell’orario di lavoro: in base a tale criterio, le sanzioni amministrative avrebbero dovuto essere identiche a quelle previste, per violazioni omogenee e di pari offensività, dalle legge vigenti. In attuazione di tale criterio, gli artt. 4, 7 e 9, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2003, intervenuti a regolare la materia dell’orario di lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali, non hanno previsto specifiche sanzioni per la violazione di dette norme, violazioni che, di conseguenza, risultavano ancora disciplinate da una serie di r.d.l. anteriori alla Costituzione (r.d.l. n. 692 del 1923, r.d.l. n. 692 del 1923). Il d.lgs. correttivo n. 213/2014 ha modificato il d.lgs. n. 66/2013, inasprendo, con l’art. 18 bis, le sanzioni previste dalla normativa pre-repubblicana. Ad avviso della Corte, tale aggravamento è incostituzionale perché contrario al criterio direttivo stabilito dalla delega principale, che richiede un’identità sanzionatoria rispetto a violazioni che si riferiscono a situazioni omogenee. La legittimità costituzionale del decreto correttivo è condizionata, infatti, al rispetto della “funzione di correzione o integrazione delle norme delegate già emanate” senza che possa essere configurato “un esercizio tardivo (…) della delega “principale””; è dunque necessario rispettare “pienamente i medesimi principi e criteri direttivi già imposti per l’esercizio della medesima delega principale”. [C. Caruso]. CONTENIMENTO DELLA SPESA PUBBLICA E BLOCCHI STIPENDIALI: I “FINANZIERI” NON FANNO ECCEZIONE
Corte costituzionale, sent. 21 maggio 2014, n. 154, Pres. Silvestri, Red. Coraggio Giudizio di legittimità in via incidentale [Art. 9, comma 21, decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122] (Artt. 2, 3, 36, 53 e 97 Cost.) La Corte costituzionale riprende, in questa decisione, topoi ricorrenti nelle sentenze sui blocchi stipendiali di alcune categorie di dipendenti pubblici non contrattualizzati. Non sono incostituzionali il blocco di progressione automatica degli stipendi e il contenimento - a soli effetti economici - delle progressioni di carriera, previsti per il triennio 2011-2012-2013, che impediscono, agli ufficiali della Guardia di finanza che nel corso del triennio abbiano acquisito il grado di maggiore o maturato i 13 anni di servizio, di conseguire una remunerazione del lavoro straordinario nella misura corrispondente alla qualifica conseguita o all’anzianità raggiunta. La transitorietà della misura e le esigenze di contenimento della spesa pubblica ammettono “una disomogeneità delle retribuzioni anche a parità di qualifica e di anzianità”, e un affievolimento del principio di affidamento del cittadino nei rapporti di durata con la pubblica amministrazione, purché non trasmodino in un regolamento irrazionale”. Posto che le diversità di trattamento giuridico ed economico escludono un’irragionevole discriminazione rispetto ai lavoratori dipendenti del settore privato, il Giudice delle leggi sottolinea come il principio di “dignità” della retribuzione debba essere sempre parametrata all’insieme delle voci “che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza”. Nessuna violazione, infine, dell’art. 53 Cost., posto che il blocco stipendiale non può essere assimilato a un’imposizione tributaria, non comportando una decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, né una copertura di pubbliche spese (ma determinando, piuttosto, un mero risparmio di spesa) (precedenti: sentt. nn. 223/2012, 304/2013, 310/2013) [C. Caruso].
La Corte e la “sindacabilità indiretta” dei regolamenti parlamentari: il caso dell’autodichia di Tommaso F. Giupponi * (3 luglio 2014)
Come evidenziato anche dai primi commentatori (tra gli altri Brunetti, Buonomo, Dickmann sul Forum di QC, Ruggeri su Consulta on-line), la sent. n. 120/2014 sembra muoversi tra continuità e discontinuità, confermando l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari in sede di giudizio di legittimità (già affermata con la nota sent. n. 154/1985, oggi “integrata” con l’espressa qualificazione degli stessi quale fonte generale dell’ordinamento, primaria e a competenza riservata), ma indicando espressamente la via del conflitto di attribuzione quale rimedio volto a contemperare le ragioni dell’autonomia costituzionale delle Camere e i diritti o i principi costituzionali con essa confliggenti. Partendo dalla controversa prerogativa connessa al potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione dei due rami del Parlamento nei confronti degli stessi dipendenti, e in alcuni casi anche dei terzi (c.d. autodichia, di cui all’art. 12 dei regolamenti di Camera e Senato), la Corte dà ora una lettura complessiva della sua giurisprudenza sullo statuto di autonomia e indipendenza delle Camere, offrendo diversi spunti di riflessione nel tentativo di “aggiornamento” della sua consolidata giurisprudenza. Secondo la Corte, infatti, l’autonomia costituzionale delle Camere deve avere precisi confini, essenzialmente riconducibili all’organizzazione interna e alla disciplina del funzionamento dei due rami del Parlamento, con particolare riferimento al procedimento legislativo “per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione” (artt. 64 e 72 Cost.; vedi anche la sent. n. 9/1959). In merito a tali ambiti, però, non è prevista solo la possibilità di adottare una disciplina espressione di autonomia, ma anche l’inevitabile momento di interpretazione-applicazione della stessa, al fine di garantire appieno l’indipendenza delle Camere. Dunque, in relazione alle “funzioni primarie delle Camere”, risulta inevitabilmente escluso ogni intervento giurisdizionale ordinario, essendo quindi rimessa la garanzia del rispetto delle norme regolamentari agli stessi organi parlamentari. Tale ricostruzione, a ben vedere, appare coerente con la pregressa giurisprudenza della Corte in materia, con particolare riferimento ad alcune importanti decisioni sull’autonomia regolamentare, sull’autonomia contabile e sulla stessa autodichia (sentt. nn. 129/1981, 78/1984, 154/1985, 379/1996). Tuttavia, la Corte non perde l’occasione per fornire alcune importanti indicazioni, dalle quali sembra trapelare qualche dubbio sulla piena compatibilità costituzionale dell’autodichia delle Camere, espressamente ricondotta ad “un’antica tradizione interpretativa”, e non ad una vera e propria consuetudine costituzionale (come invece affermato, ad esempio, per l’autonomia contabile dalla già citata sent. 129/1981; di “lunga tradizione” interpretativa quale fondamento della c.d. immunità di sede aveva invece parlato la Corte nella sent. 231/1975).
Il punto, allora, è verificare se l’autodichia attenga alle funzioni primarie delle Camere riconducibili in toto a quella capacità classificatoria dei regolamenti parlamentari da cui deriva l’esclusione di ogni intervento della giurisdizione ordinaria, oppure se ciò non accada, e debba quindi prevalere la “grande regola dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale”, ex artt. 24, 112 e 113 Cost., essendo messi in discussione “beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi” (sulla scia di quanto affermato dalla già citata sent. n. 379/1996). Ebbene, la questione è definita “controversa” dalla stessa Corte costituzionale, che quindi non si spinge a dare una risposta definitiva sulla legittimità costituzionale dell’autodichia. La Corte però non si tira indietro del tutto, e indica nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato lo strumento volto ad affrontare e risolvere tale problematica questione: “infatti, anche norme non sindacabili potrebbero essere fonti di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili e, d’altra parte, deve ritenersi sempre soggetto a verifica il fondamento costituzionale di un potere decisorio che limiti quello conferito dalla Costituzione ad altre autorità”. Questo perché, in via generale, “l’indipendenza delle Camere non può […] compromettere diritti fondamentali”, quali il diritto di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost., “né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili”, come l’art. 108 Cost. In sede di conflitto, conclude la Corte, potrà essere quindi ristabilito, se violato, “il confine […] tra poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri, così assicurando il rispetto delle prerogative e del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto”. Ad ulteriore supporto delle sue conclusioni, la Corte porta l’esempio della (pur diversa) giurisprudenza costituzionale in materia di insindacabilità parlamentare, fondata proprio sullo strumento del conflitto di attribuzione e caratterizzata (almeno a partire dalle sentt. nn. 10/2000 e 11/2000) da un particolare rigore “proprio per limitare l’impedimento all’accesso al giudice da parte di chi si ritenga danneggiato” da opinioni espresse da un membro delle Camere. Il riferimento, nemmeno troppo implicito, è quindi anche all’art. 6 della CEDU e alla nota giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha più volte condannato l’Italia in relazione all’interpretazione data dalle Camere (e, a volte, dalla stessa Corte costituzionale) in materia di insindacabilità parlamentare. D’altronde, la rilevanza della giurisprudenza della Corte EDU è apparsa in tutta la sua evidenza anche in relazione all’autodichia. Con la nota decisione del 28 aprile 2009 (Savino e altri c. Italia), i giudici di Strasburgo hanno infatti condannato l’Italia non tanto per la previsione dell’autodichia in sé e per sé considerata (dal momento che è considerata “tribunale” ex art. 6 CEDU anche una giurisdizione di tipo non classico), quanto per l’assenza di imparzialità dei competenti organi giurisdizionali interni della Camera, al tempo stesso giudici e parti in causa. Dunque, almeno in relazione alla Camera dei deputati, la natura giurisdizionale degli organi parlamentari competenti in materia di autodichia è pienamente compatibile con la CEDU, ferma restando la necessità di prevedere una loro composizione volta a garantirne la piena imparzialità e indipendenza.
Forse per questo, allora, la Corte evidenzia nell’art. 108 Cost. (non invocato nell’ordinanza di rinvio delle SS.UU. della Cassazione) uno dei parametri in gioco nel caso di attivazione di un eventuale conflitto di attribuzione. Tale norma, come noto, prevede tra l’altro che “la legge” (e non il regolamento parlamentare…) “assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia”: dobbiamo quindi dedurne che, per la nostra Corte costituzionale, si sarebbe in presenza di un giudice speciale (più o meno nuovo, ai sensi dell’art. 102.2 Cost.)? Se così fosse, però, il rischio di trasformare il conflitto di attribuzione in una sorta di conflitto di giurisdizione sarebbe dietro l’angolo, anche se (in questo caso) si tratterebbe di un anomalo conflitto tra giurisdizioni… appartenenti a poteri diversi! In ogni caso, sembra difficile che la Corte giunga ad annullare le citate disposizioni regolamentari di Camera e Senato in materia di autodichia all’esito di un futuro conflitto di attribuzione. L’art. 12 del regolamento della Camera, infatti, è stato modificato proprio successivamente alla decisione della Cote EDU del 2009, e prevede espressamente che i componenti dell’Ufficio di Presidenza non possano far parte degli organi interni di primo e secondo grado ora previsti da un apposito regolamento. A sua volta, l’art. 12 del regolamento del Senato attribuisce all’Ufficio di Presidenza la competenza ad approvare i regolamenti interni dell’amministrazione e ad adottare i provvedimenti relativi al personale “nei casi ivi previsti”, rinviando quindi a quelle che la Corte ora chiama fonti “subregolamentari”. Alla luce della difficoltà di ipotizzare in materia un vero e proprio caso di vindicatio potestatis, gli eventuali conflitti (da menomazione o da interferenza) potrebbero allora avere indirettamente ad oggetto, in relazione a decisioni di specifiche controversie interne, proprio tali disposizioni “sub-regolamentari”, con particolare riferimento a quelle che non garantiscano appieno l’indipendenza e l’imparzialità degli organi competenti in materia di autodichia. Sempre che le Camere non provvedano direttamente a rivedere in modo radicale la loro prerogativa, sensibili al “monito comparatistico” della Corte, la quale ha ricordato che “negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti e sui rapporti coi terzi non è più prevista”. Una sentenza a due velocità, dunque, dove il tentativo di farsi carico delle evocate esigenze dello stato di diritto sembra fare i conti (a distanza di quasi trent’anni) con il precedente rappresentato dalla sent. n. 154/1985, avente ad oggetto la medesima questione: oggi, però, la stessa evoluzione della forma di governo italiana spinge la Corte a motivare diversamente l’inammissibilità, dovuta esclusivamente al tenore dell’art. 134 Cost. e non più a “motivazioni storiche” o a “risalenti tradizioni interpretative” connesse alla centralità del Parlamento nel nostro sistema costituzionale. Quanto poi il rimedio (processuale) del conflitto tra poteri potrà rappresentare una soluzione adeguata ai profili (sostanziali) evocati dalla Corte rimane ovviamente tutto da verificare, anche alla luce della necessità di individuare gli atti parlamentari concretamente
aggredibili perché espressione di illegittima interferenza nell’esercizio dell’attività giurisdizionale ordinaria, non essendo, a rigore, lo strumento del conflitto direttamente destinato, per sua stessa natura, alla tutela dei diritti fondamentali dei terzi.
* Professore di Diritto costituzionale, Università di Bologna – tommaso.giupponi@unibo.it
La Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014 * di Giacomo D’Amico** (3 luglio 2014) La pronuncia che qui si commenta costituisce l’ennesima – ma non ultima – tappa del processo di graduale verifica della compatibilità costituzionale delle prescrizioni recate dalla legge n. 40 del 2004, il cui impianto complessivo, pur non risultando stravolto, appare oggi sensibilmente modificato. Non è necessario ricordare le precedenti decisioni, anche perché sufficientemente note; è interessante, invece, rilevare come la Corte abbia alternato significative pronunzie caducatorie (sentt. 151 del 2009 e 162 del 2014) a discutibili decisioni interlocutorie (ordd. 369 del 2006 e 150 del 2012). Questo dato, al di là delle (indubbiamente) preminenti ragioni in punto di diritto che hanno determinato l’inammissibilità o la restituzione degli atti, è indicativo del travaglio della stessa Corte nell’adottare decisioni sul merito delle questioni sollevate. Peraltro, la natura controversa delle questioni di cui si discute è confermata dall’elevato numero di ordinanze di rimessione fin qui emanate su norme della legge n. 40 del 2004 (quindici), specie se confrontato con quello delle ordinanze relative ad un’altra legge assai contestata, quella sull’aborto (sedici in un lasso di tempo di gran lunga maggiore). Nel caso di specie, la decisione della Corte ha avuto ad oggetto la norma recante il divieto di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) di tipo c.d. eterologo (secondo la terminologia utilizzata dal legislatore ed ormai affermatasi nella prassi, ma che allude alla diversa ipotesi di organi, tessuti o sostanze organiche provenienti da una specie diversa da quella considerata). Come già avvenuto all’indomani dell’approvazione della norma in esame, anche in occasione della pubblicazione della pronunzia de qua la dottrina e l’opinione pubblica specializzata si sono profondamente divise. In particolare, da una parte (C. Casonato, La fecondazione eterologa e la ragionevolezza della Corte, in www.confronticostituzionali.eu, 17.6.2014), l’intervento della Corte è stato salutato come una tappa fondamentale nel riconoscimento dei diritti di libertà attinenti alla sfera riproduttiva, mentre, dall’altra parte (A. Morrone, Ubi scientia ibi iura. A prima lettura sull’eterologa, in www.forumcostituzionale.it, 11.6.2014), è stata sottolineata la deriva scientista che starebbe alla base della decisione. La tesi che si intende qui sostenere è che la pronunzia in esame, pur avendo un effetto mediatico notevole, costituisce un coerente (e, per questa ragione, non sorprendente) sviluppo di una linea interpretativa seguita dalla Corte già nella sent. 151 del 2009. Non manca, invero, qualche contraddizione, specie in relazione all’ord. 150 del 2012; nondimeno, paiono prevalenti gli elementi di continuità con la precedente giurisprudenza, che, pertanto, ridimensionano la portata apparentemente dirompente della sent. 162 del 2014. Nel merito, il dato che balza subito agli occhi del lettore è quello relativo ai parametri costituzionali (artt. 2, 3, 29, 31 e 32 Cost.) sui quali si fonda la decisione [cfr. A. Ruggeri, La Consulta apre alla eterologa ma chiude, dopo averlo preannunziato, al “dialogo con la Corte EDU, in www.forumcostituzionale.it, *
Scritto sottoposto a referee.
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14.6.2014, e G. Sorrenti, Gli effetti del garantismo competitivo: come il sindacato di legittimità costituzionale è tornato al suo giudice naturale, in www.giurcost.org, 13.6.2014]. La restituzione degli atti ai giudici a quibus, decretata con l’ord. 150 del 2012, sull’assunto della sopravvenuta decisione della Grande Camera della Corte EDU (S.H. ed altri c. Austria), lasciava supporre che la Corte costituzionale riprendesse le fila del suo sindacato dalle questioni prospettate rispetto all’art. 117, I co., Cost., in relazione alle norme della Convenzione EDU. Esaminando le nuove ordinanze di rimessione (cioè adottate dopo l’ord. 150 del 2012) si scopre, però, che alla possibilità di pervenire ad una declaratoria di incostituzionalità sulla base delle norme CEDU non hanno creduto più neanche i giudici rimettenti, uno solo dei quali (Trib. Milano) ha riproposto la questione nei termini sopra indicati. V’è da aggiungere che le vecchie ordinanze di rimessione prospettavano in via preliminare la questione relativa alla violazione dell’art. 117, I co., Cost., di tal che, in quell’occasione (a differenza di quella odierna), il Giudice delle leggi sarebbe stato obbligato ad esaminare prioritariamente la conformità alle norme CEDU. Quanto appena detto non giustifica, però, il diverso atteggiamento tenuto dalla Corte nei due giudizi, che pure riguardavano le medesime norme. Di particolare interesse per la ricostruzione del percorso argomentativo seguito dalla Corte nella sent. 162 è l’individuazione del petitum delle tre ordinanze di rimessione, che non è la caducazione secca, sempre e comunque, del divieto di ricorrere alla donazione di gameti da parte di un soggetto esterno alla coppia, ma l’illegittimità del divieto in parola, limitatamente alle coppie assolutamente sterili o infertili, quali sono le ricorrenti nei tre giudizi a quibus; dunque, anche volendo, la Corte non avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità costituzionale del divieto in sé e per sé, a meno di non ricorrere ad un’illegittimità consequenziale, che sarebbe apparsa oltremodo forzata. Se così è, si comprende la ragione del richiamo al diritto alla salute, che include non solo il benessere fisico ma anche quello psichico dell’individuo. In questa prospettiva, appare effettivamente irragionevole che il legislatore assicuri una cura per le coppie parzialmente infertili o sterili e non per quelle che lo sono in maniera assoluta ed irreversibile. Non è casuale che nella sentenza non si parli mai esplicitamente di un diritto a procreare o ad avere un figlio, preferendo piuttosto discutere di «scelta» o di «determinazione» a formare una famiglia e a diventare genitori. Scelta o determinazione che, per ammissione dello stesso Giudice delle leggi, «costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi», già qualificata come autonomo diritto fondamentale dell’individuo nelle sentt. 438 del 2008 e 253 del 2009 (sia pure incidentalmente in due giudizi promossi in via d’azione avverso leggi regionali) ed il cui fondamento costituzionale è stato più volte evidenziato, anche se in ambiti diversi da quello esaminato in questa sede (v. sentt. 230 e 107 del 2012, 236 del 2011, 21 del 2009). In generale, la Corte ha ricondotto l’autodeterminazione «al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale» (sent. 307 del 1990). Se dunque non pare dubitabile il suo fondamento costituzionale, non può dedursi da ciò l’assolutezza del principio di autodeterminazione (sent. 162 del 2014, ult. cpv. del p. 6 cons. dir.; per una diversa lettura della sentenza, M.G. Rodomonte, È un diritto avere un figlio?, in www.confronticostituzionali.eu, 17.6.2014).
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In definitiva, non si riconosce l’esistenza di un diritto ad avere figli ma si ribadisce l’esigenza di assicurare la tutela del diritto alla salute in un contesto in cui le conoscenze della scienza medica hanno reso possibili tecniche di riproduzione che esulano dalla maternità surrogata e che vanno limitate ai soli casi di sterilità ed infertilità assolute ed irreversibili. L’irragionevolezza della scelta legislativa sta, pertanto, nell’aver posto un divieto assoluto che non trova giustificazione nell’esigenza «di garantire la tutela di altri valori costituzionali coinvolti dalla tecnica in esame» (p. 6 c.d.). Né a questo ambito può ricondursi l’interesse alla genitorialità naturale della persona nata dalla donazione di gameti, che paradossalmente può essere pienamente realizzato solo vietando che la stessa persona venga generata. Il Giudice delle leggi esclude altresì che l’accoglimento delle questioni possa determinare un vuoto normativo, preoccupandosi, forse più di quanto gli fosse richiesto, di dimostrare l’esistenza di una normativa “minima” in materia o comunque di principi ricavabili anche da pronunce della stessa Corte, da integrare con l’aggiornamento delle linee guida, il cui carattere periodico è già previsto dalla legge n. 40. Al riguardo, il sentiero interpretativo delineato dalla Corte non è privo di ostacoli, se è vero che difficilmente la questione dell’anonimato del donatore e del connesso diritto all’identità genetica può essere risolta seguendo le indicazioni desumibili dalla sent. 278 del 2013, relativa ad un caso assai diverso, quello del diritto all’anonimato della madre naturale, nel caso di adozione, e del contrapposto diritto del figlio a conoscere le proprie origini (cfr. A. Pioggia, Un divieto sproporzionato e irragionevole, in www.astrid-online.it, 2). Così inquadrati i termini del giudizio di ragionevolezza operato dalla Corte (v., amplius, S. Penasa, Nuove dimensioni della ragionevolezza? La ragionevolezza scientifica come parametro della discrezionalità legislativa in ambito medicoscientifico, in www.forumcostituzionale.it, 16.6.2014), la presente pronuncia appare in linea di continuità con la sent. 151 del 2009, che, pur riguardando una norma diversa, si fonda su argomentazioni simili: la violazione dell’art. 3 Cost., in quanto il legislatore aveva riservato il medesimo trattamento a situazioni dissimili; nonché la violazione dell’art. 32 Cost., per il pregiudizio alla salute della donna ed eventualmente del feto. Anche in quel caso l’intervento demolitorio è stato solo parziale, facendo salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico. Non sembra, pertanto, che la pronuncia della Corte avalli un’inversione rispetto al «programma di sviluppo della personalità e di promozione dell’eguaglianza prefigurato dalla Costituzione» (così A. Morrone, op. cit., 6); la centralità del diritto alla salute nel percorso argomentativo seguito dalla Corte e la sua natura di «fondamentale diritto dell’individuo» parrebbe semmai portare ad una conclusione diversa. Né il principio di autodeterminazione può essere declinato in modo tale da vanificarne la portata, come emerge, tra l’altro, dall’art. 2 della Convenzione di Oviedo (rubricato «Primauté de l’être humain»), secondo cui «L’intérêt et le bien de l’être humain doivent prévaloir sur le seul intérêt de la société ou de la science». D’altra parte, la Corte, nella pronuncia in esame, non ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del generale divieto di ricorrere a tecniche di tipo eterologo, limitandosi ad eliminare dalla originaria previsione il caso delle coppie assolutamente infertili o sterili, e, di conseguenza, escludendo per quest’ultima ipotesi la sanzionabilità delle
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relative condotte (ex art. 12, co. 1). La scelta – questa sì – politica di vietare in generale il ricorso alla donazione di gameti è rimasta fuori dal sindacato di costituzionalità. Non pare, quindi, che possa rimproverarsi al Giudice delle leggi la colpa dell’Ulisse dantesco, condannato per aver osato seguire, al di là dei limiti dettati dall’etica, la sua sete di conoscenza («l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore», Canto XXVI, Inferno). ** Professore associato di Diritto costituzionale – Università di Messina
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UN’ANOMALA ADDITIVA DI PRINCIPIO IN MATERIA DI “DIVORZIO IMPOSTO”: IL “CASO BERNAROLI” NELLA SENTENZA N. 170/2014 di Paolo Veronesi * (6 luglio 2014) (in corso di pubblicazione in “Studium Iuris”, 2014)
1. LA GENESI DI UN’“ORIGINALE” FATTISPECIE: IL “DIVORZIO IMPOSTO” A SEGUITO DI RETTIFICAZIONE ANAGRAFICA DEL SESSO DI UNO DEI CONIUGI Il “caso Bernaroli” – in tutta la sua originalità – approda a Palazzo della Consulta veicolato dall’ordinanza di rimessione n. 14329/2013 1. La Cassazione solleva in tal modo una complessa quaestio relativa agli artt. 2 e 4 della legge n. 164/1982, nella parte in cui essi imporrebbero la cessazione degli effetti civili del matrimonio ove intervenga la rettificazione anagrafica del sesso di uno dei coniugi 2. Ciò che differenza la fattispecie in commento rispetto alle altre già sperimentate in passato –da qui la sua peculiarità – consiste nel fatto che, ribaltando ogni convenzione, le coniugi coinvolte nella vicenda intendono pervicacemente rimanere tali (non proponendo perciò alcuna domanda di scioglimento del matrimonio) 3. A riprova di una tale sintonia di coppia balza anzi agli occhi come l’una abbia assistito l’altra nel suo lungo transito Male to Female. In conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione adottata del Tribunale di Bologna4 – in cui peraltro nulla si prevedeva con riguardo al matrimonio in 1 Per l’esaustiva descrizione delle varie tappe affrontate da tale vicenda – prima dell’intervento della sentenza n. 170/2014 – si rinvia (per tutti) ad A. LORENZETTI, Diritti “in transito”. La condizione giuridica delle persone transessuali, Franco Angeli, Milano 2013, p. 105 ss. e a M. BALBONI - M. GATTUSO, Famiglie e identità di genere: “divorzio imposto” e diritti fondamentali, in GenIUS 2014, n. 1, p. 6 ss.
2 Più di preciso, l’art. 4 della legge n. 164/1982, nella sua originaria formulazione, prescriveva che la sentenza di rettificazione anagrafica del sesso avrebbe provocato l’automatica cessazione degli effetti civili del matrimonio già celebrato, affermando tuttavia che, in simili circostanze, si sarebbero dovute applicare le disposizioni della legge n. 898/1070 (e successive modificazioni). L’art. 3, comma 4, lett. g), della legge n. 898/1970 (introdotto a seguito della legge n. 74/1987), ha quindi espressamente aggiunto all’elenco di casi in cui il divorzio può essere domandato da uno dei coniugi, anche (e proprio) il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso. Da qui il dubbio se, dopo la legge n. 78/1987, lo scioglimento del matrimonio sia una conseguenza necessitata dall’intervento di una sentenza di rettificazione ovvero se ciò sia destinato a prodursi solo a seguito dell’esplicita domanda di uno degli interessati (e della conseguente pronuncia di un giudice). La Cassazione evidentemente propende per la prima alternativa; diversamente, essa avrebbe potuto respingere la quaestio adottando una decisione d’inammissibilità o un’interpretativa di rigetto, come rileva F. BIONDI, La sentenza additiva di principio sul c.d. “divorzio imposto”: un caso di accertamento, ma non di tutela, della violazione di un diritto, in www.forumcostituzionale.it (24 giugno 2014).
3 Nei (pochi) casi conosciuti, il coniuge del transessuale aveva infatti sempre richiesto una pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio: cfr. i precedenti menzionati da B. PEZZINI, Transgenere in Italia: le regole del dualismo di genere, in ID. (a cura di), Genere e diritto. Come il genere costruisce il diritto e il diritto costruisce il genere, II, University Press, Bergamo 2012, p. 178 s.
4 Si tratta della pronuncia adottata il 30 giugno 2009.
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corso – l’ufficiale dello stato civile del Comune di Finale Emilia procedeva quindi ad annotare (d’ufficio) l’avvenuto scioglimento del rapporto coniugale nei relativi registri. Egli riteneva perciò che la rettificazione di sesso avesse di per sé generato – in ossequio alle norme vigenti – il venir meno del vincolo5. Nella successiva pronuncia del Tribunale di Modena si accoglieva invece il conseguente ricorso della coppia; si ordinava dunque di cancellare l’annotazione de qua, posto che nessun giudice si era mai espresso al riguardo 6. Il Tribunale riteneva quindi che la P.A. avesse posto in essere un’ipotesi di scioglimento coatto del matrimonio in palese violazione delle norme vigenti e dello stesso principio di legalità. In base alle medesime norme, la Corte d’appello di Bologna riformava però tale decisione, ritenendo del tutto automatico lo scioglimento matrimoniale conseguente alla rettificazione anagrafica del sesso di un coniuge. Il giudice affermava perciò che l’ufficiale di stato civile avrebbe dato seguito a un suo specifico dovere 7, a pena di ammettere – aggiungeva – il matrimonio (anche solo temporaneo) tra persone dello stesso sesso; ipotesi da ritenersi invece vietata ai sensi dell’art. 29 Cost., specie dopo i “paletti” predisposti dalla sentenza n. 138/2010. La Cassazione – investita finalmente della vicenda – ha perciò sollevato (con la citata ordinanza) una sequela di dubbi di legittimità 8: essa ha evidentemente ritenuto che le disposizioni coinvolte nel caso non lasciassero margini d’incertezza, riscontrando però, nei loro effetti concreti, più d’una perplessità di ordine costituzionale. La Consulta replica ora mediante la sentenza n. 170/2014. 2. L’ART. 29 COST., OVVERO IL “PARAMETRO ESCLUSO” Nell’avvicinarsi alla soluzione dell’inedita quaestio, la Corte toglie progressivamente rilievo ai diversi parametri costituzionali messi a frutto dalla rimettente: uno per uno – tranne quello poi valorizzato (ovvero l’art. 2 Cost., applicato con la “ragionevolezza” prescritta dall’art. 3) – essi vengono infatti abbattuti come soldatini sottoposti a un irresistibile fuoco di fila9. La prima norma costituzionale ad essere accantonata è l’art. 29. Sta qui il vero cuore della pronuncia, esattamente com’era avvenuto nella motivazione dell’ormai nota
5 Dubbi sull’esistenza di un simile potere certatorio dell’ufficiale dello stato civile sono stati illustrati da A. SCHUSTER, L’identità di genere: tutela della persona o dell’ordinamento?, in Nuova giur. civ. comm. 2012, fasc. 3, p. 259 ss.
6 Si v. il decreto 27 ottobre 2010, in GenIUS 2014, n. 1, p. 173 ss.
7 Cfr. la pronuncia della sez. I civ., 4 febbraio - 8 maggio 2011, in GenIUS 2014, n. 1, p. 170 ss.
8 Appoggiandosi agli artt. 2, 3, 10 (rectius: 11), 24, 29 e 117 Cost. – e richiamando altresì gli artt. 8 e 12 della CEDU – la remittente ritiene infatti che le previsioni legislative tese a imporre quest’ipotesi di “divorzio coatto” contrastino con il diritto ad autodeterminarsi nelle scelte relative all’identità personale; con il diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, sviluppata durante il vincolo coniugale; con il diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate (le quali possono infatti decidere se divorziare o no); con il diritto del coniuge rimasto del sesso d’origine di scegliere se continuare la relazione coniugale (e di esercitare in tal senso il suo diritto di difesa).
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sentenza n. 138/2010 (che viene perciò richiamata e ulteriormente “sviluppata”). Da questo snodo concettuale occorre dunque partire. Per la Corte, la concreta vicenda de qua – nei suoi irreversibili approdi – si collocherebbe ormai del tutto al di fuori dell’istituto matrimoniale. Su questo specifico fronte – ma non su altri, come vedremo – nessun rilievo viene quindi attribuito alla circostanza per cui, nel caso, un matrimonio “atto” e “rapporto” c’è indubbiamente (e del tutto legittimamente) stato; lo prova del resto la circostanza per cui gli stessi interessati stiano lottando ormai da anni per farlo sopravvivere. Il tono della pronuncia, su questo versante, è quello di una sin troppo rapida “resa dei conti”: «la situazione… di due coniugi che, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendano non interrompere la loro vita di coppia, si pone , evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale, della eterosessualità, non può proseguire come tale –»10. Da qui la logica conseguenza per cui il parametro costituzionale mediante il quale va inquadrata la fattispecie in discorso non può (più) essere l’art. 29: infatti, «la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che “stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso” (sentenza n. 138/2010)» 11. E’ indubbiamente vero che questo passaggio della sentenza n. 138 – ancora una volta ribadito – ha suscitato un vivace dibattito non destinato a sopirsi neppure dopo l’odierna pronuncia. Le interpretazioni via via messe in luce appaiono infatti contrapposte: le une – com’è noto – comunque a favore della possibilità di introdurre il matrimonio same-sex in via meramente legislativa 12; le altre di tenore esattamente opposto, sia pure con giudizi assai variegati (e non sempre positivi) sul responso attribuito alla Consulta 13. Tuttavia, quanto la Corte oggi aggiunge al segmento di motivazione ereditato dalla 9 Giustamente, C. SALAZAR, Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento, in www.confronticostituzionali.it (27 giugno 2014), § 2, afferma pertanto che «scorrendo la motivazione della sent. n. 170/2014, si scopre che la Consulta respinge quasi tutte le argomentazioni della Corte di cassazione».
10 Punto 5.1 del Considerato in diritto.
11 Punto 5.2 del Considerato in diritto.
12 Cfr., tra i tanti, V. ANGIOLINI, Sulle coppie gay l’Alta Corte non chiude, su l’Unità del 16 aprile 2010; M. GATTUSO, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Fam. e d. 2010, p. 663 s.; B. PEZZINI, Il matrimonio same-sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sentenza n. 138/2010 della Corte costituzionale, al sito della Rivista AIC (2 luglio 2010); ID., La sentenza 138/2010 parla (anche) ai giudici, in B. PEZZINI - A. LORENZETTI (a cura di), Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, Jovene, Napoli 2011, p. 95 ss.; G. FERRANDO, La “via legislativa” al matrimonio same-sex, ivi, p. 31 ss.
13 V., tra gli altri, con valutazioni ben diverse, A. PUGIOTTO, Una lettura non reticente della sent. n. 138/2010: il monopolio eterosessuale del matrimonio, in www.forumcostituzionale.it (sia pure con l’indicazione di un suggestivo escamotage interpretativo di segno contrario: cfr. § 13); R. ROMBOLI, Il diritto “consentito” al matrimonio e il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice “troppo” e “troppo poco”, in Giur. cost. 2010, p. 1629 ss.; ID., La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni, in B. PEZZINI - A. LORENZETTI (a cura di), Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010, cit., p. 3 ss.; A. RUGGERI, “Famiglie” di omosessuali e famiglie di transessuali: quali prospettive dopo Corte cost. n. 138/2010?, in Rivista AIC n. 4/2011 (18 novembre 2011).
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sentenza n. 138 sembra inclinare in un senso decisamente più preciso (oltre che conservatore e tradizionalista) l’assunto a suo tempo espresso: per la Consulta, il matrimonio ex art. 29 Cost. pare dover essere solo e soltanto eterosessuale 14. Tanto più che la Corte stessa, in un successivo passaggio (e rincarando indubbiamente la dose), non esita ad affermare che è proprio l’art. 29 a non «rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso» 15; non, dunque, quanto prescritto dal codice civile o da ulteriori norme di rango legislativo (pur agganciate al dato costituzionale), bensì proprio gli assunti comunque incorporati (una volta per tutte) nella trama del citato articolo della Carta. 3. SEGUE: COME VA “INTESO” L’ART. 29 COST.? L’approdo era in realtà già pianamente estraibile da quanto inserito nella trama della sentenza n. 138/2010. La Corte vi sosteneva infatti che, per quanto i concetti famiglia e matrimonio non siano affatto «“cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore» – andando quindi «interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi» – tuttavia «detta interpretazione… non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata»16. In tale “nocciolo” intangibile la Corte collocava (e colloca) proprio la natura eterosessuale del matrimonio: un significato che essa afferma essere stato direttamente mutuato in Costituzione dal codice civile del 1942, e perciò non superabile in via meramente ermeneutica dello stesso art. 29 Cost. (che ne sarebbe invece irrimediabilmente “intriso”). Il “gene” di tale disposizione si riferirebbe perciò – sempre secondo la Corte – «al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto»; ciò escluderebbe dunque le unioni same-sex – neppure prese in esame dal Costituente – oltre che (per molti interpreti, ma non per altri) la stessa possibilità di approvare leggi che si discostassero da tali assunti 17. Il tono è – come può notarsi – alquanto “netto”: c’è anzi da sperare che la Corte non abbia con ciò voluto contrassegnare l’ambito di un vero e proprio “principio supremo” (con tutte le conseguenze che ne deriverebbero). Poco convincente appare perciò l’eccessiva valorizzazione del contenuto di una parentesi, riferita al paradigma eterosessuale ancor oggi inglobato nel codice civile (“e tuttora stabilisce”), per trarne conseguenze di assai ampio respiro (come la certa legittimità di una norma che introducesse il matrimonio same-sex per via legislativa)18. L’inciso in discorso raccoglie invece una constatazione che nulla lascia effettivamente trapelare circa 14 V. le conclusioni di F. BIONDI, La sentenza additiva di principio sul c.d. “divorzio imposto”, cit.
15 Punto 5.6 del Considerato in diritto.
16 Punto 9 del Considerato in diritto.
17 V. ancora il punto 9 del Considerato in diritto. Critiche su questi specifici passaggi della pronuncia sono stati avanzati, ad esempio, da R. ROMBOLI, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali, cit., p. 18 e da A. PUGIOTTO, Una lettura non reticente della sent. n. 138/2010, cit., § 13.
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la presunta costituzionalità di una futura legge dotata di un simile contenuto; specie allorché questo passaggio venga sistematicamente interpretato alla luce di altri squarci (davvero portanti) della pronuncia. Rimanendo perciò negli angusti recinti suggeriti dalle sentenze n. 138/2010 e n. 170/2014 – almeno per come sono stati poco sopra intesi – l’art. 29 Cost. non sembrerebbe tollerare contenuti diversi da quelli (essenziali) appena indicati: la sua origine, i suoi presupposti culturali e – soprattutto – la sua natura di norma-parametro gerarchicamente sovraordinata non lo consentirebbero. «Se ne deve coerentemente trarre la conclusione che la modifica di quel nucleo sia possibile da parte del legislatore, ma non nelle forme ordinarie, bensì in quelle della revisione costituzionale» 19. Sempre che – come sopra accennato – il fraseggio non intenda addirittura alludere all’esistenza di un “principio supremo”. Insomma, persuade assai poco l’ipotesi per cui l’art. 29 Cost. sarebbe camaleonticamente destinato a mutare pelle e sostanza in base ai contenuti che il codice civile potrà (nel tempo) liberamente assumere. E così pure la conclusione per cui esso impedirebbe certo di superare il paradigma eterosessuale del matrimonio in via ermeneutica, ma non già per mano del legislatore 20. Non convince dunque l’idea di una sorta di “rinvio non recettizio” o “formale”, in cui la norma costituzionale verrebbe (di fatto) ad assumere la fisionomia di un mero contenitore e in cui sarebbe quindi la norma gerarchicamente subordinata a delineare (progressivamente) la portata del proprio parametro di legittimità. Un’inversione dei ruoli e della “gerarchia” che suscita notevoli perplessità, tanto più che, com’è noto, «in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa»21. 4. SEGUE: SULLA (PRESUNTA) NECESSITÀ CHE IL MATRIMONIO O È ETEROSESSUALE O NON POSSA ESSERE 18 In questo senso v. B. PEZZINI, A prima lettura (la sent. n. 170/2014 sul divorzio imposto), in www.articolo29.it (15 giugno 2014) e G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti: la sent. n. 170/2014 sul c.d. “divorzio imposto”, ivi, § 3.
19 R. ROMBOLI, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali, cit., p. 19. Analogamente v. A. SPADARO, Matrimonio “fra gay”: mero problema di ermeneutica costituzionale – come tale risolvibile dal legislatore ordinario e dalla Corte, re melius perpensa – o serve una legge di revisione costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it (9 settembre 2013), § 3, nonché, da ultimo, M. DI BARI, Commento “a caldo” della sentenza n. 170/2014 della Corte costituzionale: quali prospettive?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (giugno 2014).
20 Così, invece, B. PEZZINI, La sentenza 138/2010 parla (anche) ai giudici, cit., p. 95 s.
21 Cfr. la sentenza n. 1/2013, punto 8.1 del Considerato in diritto, ove la Consulta ulteriormente precisa che «la Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme (sentenza n. 356 del 1996). Naturalmente allo stesso principio deve ispirarsi il giudice delle leggi» (corsivo non testuale).
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Quanto sin qui analizzato trova ora conferma nella precisazione (assai netta) per cui chi cambia sesso può sposarsi solo «con persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito»22, nonché – ancor prima – nell’altrettanto poco sfumata affermazione per cui, nel caso in discorso, quanto avvenuto pone la coppia, «evidentemente, fuori del modello del matrimonio» di cui all’art. 29 Cost.23. Tanto è vero che la Corte – ragionando dell’eventuale utilizzo, a mo’ di parametro, dell’art. 24 Cost. 24 – procede anche oltre: «non essendo, per quanto detto, configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa»25. E’ il secondo “soldatino-parametro” a sparire dalla scena: venendo meno ex post l’eterosessualità dei coniugi, non esiste più alcun diritto, per chi fosse già sposato, a rimanere tale; tanto meno – resta inteso – ciò potrà valere per la coppia sin da subito same-sex. Una simile conclusione è ulteriormente rafforzata dal passaggio in cui la Corte delinea il proprio dispositivo additivo (benché “di principio”) 26: per i casi come quello in discorso, il legislatore deve – senza indugio – introdurre una forma di convivenza «alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza»27. La cogenza dell’assunto eterosessuale tratto dall’art. 29 è tale per cui la Corte ritiene di non poter “tollerare” la prosecuzione del matrimonio de quo neanche ragionando – com’era peraltro possibile – della pur riconosciuta eccezionalità della fattispecie in giudizio. La Consulta è senz’altro consapevole di tale profilo, tanto è vero che lo sottolinea senza mezzi termini: la situazione è «innegabilmente infrequente», ma, «nella vicenda al centro del giudizio principale», essa «si è comunque verificata» 28. L’assoluta peculiarità delle circostanze avrebbe dunque probabilmente meritato una ben diversa ponderazione, consentendo – almeno per questa ipotesi – di mantenere lo status matrimoniale29; forse è stato anzi il timore di generare futuri effetti “a cascata”, determinati da un’eventuale (e prima) decisione in tal senso, a suggerire, sin da subito, questa netta “chiusura” 30. 22 Punto 5.2 del Considerato in diritto.
23 Punto 5.1 del Considerato in diritto. Su questo passaggio v. anche supra § 2.
24 Con riguardo al diritto dei soggetti coinvolti di essere ascoltati in giudizio e di difendere i loro diritti (specie in riferimento alla volontà di proseguire il loro rapporto coniugale)
25 Punto 5.4 del Considerato in diritto.
26 V. infra § 7 e 8.
27 Punto 5.6 del Considerato in diritto (corsivo non testuale).
28 Punto 5.1 del Considerato in diritto. Sulla giurisprudenza riguardante casi analoghi v. M. GATTUSO - M. BALBONI, Famiglie e identità di genere, cit., p. 9.
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Se ciò non è dunque accaduto è perché – nell’ottica della Corte – l’eterosessualità di cui all’art. 29 Cost. si sarebbe a tal punto “cementata” con il contenuto essenziale della norma da non consentire alcun “margine” di manovra. Pare quindi se ne debba (ancora) desumere che una legge tesa a permettere – a parametro inalterato – il matrimonio tra persone dello stesso sesso (o che ne ammettesse la continuazione nel caso in cui uno dei coniugi chieda la rettificazione anagrafica del proprio genere) 31 incorrerebbe in un pressoché inevitabile vizio d’illegittimità. Perché – nella prospettiva della Corte – l’art. 29 non avrebbe nulla a che fare con simili situazioni; tanto è vero che – come avvenne nel 2010 – anche oggi essa pervicacemente rifiuta di usarlo come parametro. Se si ragiona di matrimoni same-sex (ex ante o ex post) non è dunque all’art. 29 – e al matrimonio – che occorre volgere lo sguardo: alla Corte poco importa quindi distinguere tra coppie dichiaratamente same-sex (in un’ottica di orientamento sessuale) e coppie che – originariamente “regolari” – debbano poi fare i conti con la “sindrome transessuale” 32 di uno dei coniugi (orbitando dunque nel ben diverso tema dell’identità di genere) 33. 5. QUALE SPAZIO PER UN REVIREMENT DELLA CORTE (ANCHE IN BASE ALLA SUA “TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE”)? Esistono – sul punto – i margini per un (auspicabile) revirement da parte della Corte? Posto che spesso (anche nel recentissimo passato) la giurisprudenza costituzionale in materia di adulterio femminile 34, di transessualismo35, di procreazione medicalmente assistita36 (e così via) ha conosciuto spesso brusche trasformazioni, nulla esclude che possano intervenire (del tutto) opportune correzioni di rotta anche 29 L’uso dell’argomento “eccezionale” era già stato ampiamente illustrato – prima della decisione in discorso – da B. PEZZINI, Il paradigma eterosessuale del matrimonio di nuovo davanti alla Corte costituzionale: la questione del divorzio imposto ex lege a seguito di rettificazione di sesso, in GenIUS 2014, n. 1, p. 28 ss. e da A. D’ALOIA, Il “divorzio obbligato” del transessuale. Ancora un “incerto del mestiere di vivere” davanti alla Corte costituzionale , in www.confronticostituzionali.it (23 luglio 2013). Analogamente v. ora le considerazioni di G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 4. Contra v. invece M. DI BARI, Meglio cambiar genere che essere gay? Alcuni interrogativi sul ragionamento dell’ordinanza n. 14329/2013 della Cassazione , in GenIUS 2014, n. 1, p. 79, per il quale l’“eccezione” eventualmente ammessa a favore del transessualismo, celerebbe, in realtà, una discriminazione indiretta tra omosessuali, eterosessuali e transessuali.
30 Così G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 4.
31 Mentre invece è chiaro che il matrimonio – nonostante il cambio di sesso – può comunque continuare ove l’interessato rinunciasse alla rettificazione anagrafica del sesso (e così pure se entrambi i coniugi reciprocamente mutassero i loro tratti sessuali, posto che il loro matrimonio continuerebbe a essere eterosessuale): M. BALBONI - M. GATTUSO, Famiglie e identità di genere, cit., p. 6, nota 1.
32 Questa l’espressione che più volte compare nella celebre sentenza n. 161/1985.
33 Cfr. il punto 5.6 del Considerato in diritto, in cui la Corte tratta congiuntamente le due ipotesi.
34 Si pensi alla successione tra la sentenza n. 64/1961 e la sent. n. 126/1968.
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nell’approccio che la Corte dedica al tema in discorso (e all’art. 29 Cost. in particolare). Un mutamento di giurisprudenza – su questa delicata materia – non si dovrebbe insomma negare a priori. Anche perché se quello illustrato è davvero l’iter logico mediante il quale la Corte è giunta (di fatto) a negare specifici “diritti matrimoniali” degli omosessuali e dei transessuali “tardivi” – nonché a pietrificare (il presunto) assunto eterosessuale dell’art. 29 Cost. – davvero non si spiega poi come essa possa rimanere fedele all’affermazione (già ricordata) per cui «in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa» 37. Nel caso in discorso, la Corte procede infatti in un senso esattamente opposto, attribuendo cioè natura (almeno apparentemente) inamovibile a quanto prevedeva il codice civile nel momento in cui l’art. 29 è andato forgiandosi (il quale si sarebbe così irrimediabilmente fuso con il contenuto del primo). Un approdo, questo, dai toni tradizionalisti (se non addirittura originalisti) 38 che meriterebbe ben altri approfondimenti rispetto alle scarne argomentazioni contenute nel corpo della sentenza n. 138/2010 (e, ora, della sentenza n. 170/2014). Anche perché è davvero dubbio che si possa estrapolare un simile assunto – con tutti i suoi inevitabili corollari – tra le pieghe del dibattito costituente sul punto39. Del resto, quante nozioni i Costituenti – da uomini del loro tempo – non potevano “non dare per scontate”? E quanti concetti hanno certamente elaborato usufruendo delle norme e delle situazioni che avevano (nel bene o nel male) conosciuto? Se ne dovrebbe dunque coerentemente concludere che tutto ciò ancora alberghi nel tessuto esplicito o implicito delle singole norme costituzionali? Paradossalmente, parrebbe allora che i Costituenti non abbiano «“considerato” le coppie omosessuali neppure quando hanno elaborato il concetto di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost.» 40, mentre invece le sentenze n. 138 e n. 170 interpretano questa norma attribuendogli proprio un simile contenuto. 35 In materia, la già citata sentenza (di accoglimento) n. 161/1985 faceva pertanto seguito alla sentenza (di rigetto) n. 98/1979.
36 Alla (discussa) ordinanza processuale n. 369/2006 ha fatto seguito il demolitorio “uno-due” di cui alle sentenze n. 151/2009 e n. 162/2014.
37 Sentenza n. 1/2013, punto 8.1 del Considerato in diritto, giustamente sottolineato da G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 3.
38 Di una pericolosa «costituzionalizzazione della tradizione» (soprattutto con riguardo alla problematica dei c.d. “nuovi diritti”) ragiona R. ROMBOLI, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali, cit., p. 18. Del resto, nella sentenza n. 138/2010 è stata la stessa Corte ad affermare che, con l’art. 29, il Costituente «intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto» (punto 9 del Considerato in diritto).
39 Per una ricostruzione delle discussioni che i Costituenti intavolarono sull’art. 29 Cost. v., ad esempio, il mio Costituzione, “strane famiglie” e “nuovi matrimoni”, in Quad. cost. 2008, p. 579 ss.
40 Come chiosato da F. DAL CANTO, La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale, in Foro it. 2010, I, cit., c. 1371.
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E’ stata del resto la stessa Corte costituzionale ad avvertire che «la Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela» 41. Ancora una volta, esattamente il contrario di quanto praticato nella sentenza in commento (oltre che nella decisione del 2010), ove la soluzione del caso scaturisce – in pratica – dalla piana applicazione di un solo parametro di legittimità, accuratamente isolato da tutti gli altri e ulteriormente circoscritto nel suo significato. Sia nella sentenza n. 138/2010, sia nella n. 170/2014, la Corte non sembra poi fare sufficiente tesoro dell’assunto (da essa stessa affermato in altri contesti) per cui «la norma non rimane cristallizzata ma partecipa delle complesse dinamiche che nel tempo investono le fonti del diritto a livello nazionale e sovranazionale, che l’interprete deve necessariamente prendere in esame al fine di preservare attualità ed effettività della tutela, in particolare sotto il profilo del corretto bilanciamento degli interessi presi in considerazione, essendo la “vivenza” della norma una faccenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali» (i quali dovrebbero peraltro risentire della medesima dinamica) 42. Ed è proprio la lettera della legge a «segna[re] il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» 43. Mutatis mutandis, la lettera dell’art. 29 Cost. non sembrerebbe favorire le restrittive interpretazioni avallate dalla Consulta, ed è altresì dubbio che la sua lettura sistematica debba necessariamente condurre a quanto già fatto proprio dalla Corte nella sentenza n. 138/201044. Invece, con la stessa rapidità già sopra evocata, la Corte archivia altresì – sia nella sentenza n. 170/2014, sia nella sentenza n. 138/2010 – il tema delle denunciate discriminazioni (ex art. 3 Cost.) tra coppie eterosessuali coniugate e coppie same sex, 41 Sentenza n. 1/2013, punto 8.1 del Considerato in diritto.
42 Così nella sentenza n. 51/2014, punto 3 del Considerato in diritto, che rinvia anche all’ordinanza n. 191/2013.
43 V. la sentenza n. 219/2008, punto 4 del Considerato in diritto.
44 Ad esempio, non convince affatto la pretesa – assunta dalla Corte nella sentenza n. 138/2010 – di ricavare, dal secondo comma dell’art. 29 Cost., argomenti definitivi nel senso della necessaria eterosessualità del matrimonio (cfr. il punto 9 del Considerato in diritto). E’ senz’altro vero che la norma trae spunto dalla presa di coscienza di una sostanziale disuguaglianza tra uomo e donna che si voleva finalmente rimuovere; ciò tuttavia non toglie che «il principio di pariordinazione dei coniugi in essa affermato trascende con evidenza» la «contingenza storica» che l’ha suggerito, vietando, ad esempio, ogni scelta legislativa che implichi comunque una gerarchia intrafamiliare [L. IMARISIO, L’estensione alle coppie omosessuali dell'accesso al matrimonio civile: la strada maestra per un diritto costituzionale della famiglia "preso sul serio", in AA.VV., La "società naturale" e i suoi nemici. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, a cura di R. BIN - G. BRUNELLI - A. GUAZZAROTTI - A. PUGIOTTO - P. VERONESI, Giappichelli, Torino 2010, p. 187. Nello stesso senso v. anche M. CROCE, Diritti fondamentali programmatici, limiti all'interpretazione evolutiva e finalità procreativa del matrimonio: dalla Corte un deciso stop al matrimonio omosessuale, in www.forumcostituzionale.it (23 aprile 2010) e C. FUSARO, Non è la Costituzione a presupporre il paradigma eterosessuale, in AA.VV., La "società naturale", cit., p. 152]. Analogamente può ragionarsi con la (del tutto) presunta necessità che il matrimonio sia “aperto” alla procreazione: su questo aspetto rinvio al mio Il paradigma eterosessuale del matrimonio e le aporie del giudice delle leggi, in Studium Iuris 2010, p. 1004 ss.
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ovvero tra le prime e quelle che, pur essendo originariamente tali, conoscano poi la rettificazione anagrafica del sesso di uno dei coniugi (ma non vogliano rinunciare al loro legame). Così, l’art. 3, comma 1, Cost. – ovvero l’ennesimo “soldatino-parametro” (almeno in parte) a cadere – non è affatto assunto dalla Corte nel suo nucleo forte di “diritto all’uguaglianza soggettiva”, entrando invece in gioco «soltanto attraverso il criterio, indubbiamente più blando, della ragionevolezza, intesa come coerenza dell’ordinamento nel disciplinare fattispecie tra loro non assimilabili» 45. In tal modo depotenziato, l’art. 3 può quindi giustificare la contestata ipotesi del divorzio imposto ove intervenga la rettificazione anagrafica del sesso di uno dei coniugi 46. Sin dalla sentenza n. 138/2010 tale approccio ha inoltre fondato – e, dopo la sentenza n. 170/2014, esso incardina in modo ancora più vistoso – la pretesa legittimità di discipline che regolino diversamente le varie unioni sulla base degli specifici tratti delle famiglie in discorso 47. Ma c’è di più. Una simile “tecnica d’avvicinamento” alla fattispecie sotto la lente consente poi alla Corte di orientare il bilanciamento tra i due interessi ritenuti davvero pregnanti nella vicenda de qua: tuttavia, «l’apodittico riferimento ad un interesse dello Stato a conservare inalterati i caratteri tradizionali di un istituto giuridico di tale rilievo» (il matrimonio), fatto prevalere sul corrispondente diritto della coppia del caso a continuare il rapporto già instaurato, «sembra in questo caso evocare una sorta di etica di Stato, impermeabile alle inevitabili evoluzioni di una società pluralista». Invece, «la domanda a cui sarebbe… necessario rispondere (e alla quale la Corte ancora una volta, non risponde), riguarda l’esistenza e la conseguente definizione di un interesse costituzionale concorrente che giustifichi il persistente divieto di matrimoni same sex. Interesse che dovrebbe radicarsi in altre posizioni soggettive costituzionali a rischio di compromissione (ma quali?)», e non certo in una ideologica pretesa di conservazione da parte dello Stato48. 6. QUALE SEGUITO PER IL “CASO BERNAROLI” (E PER ALTRI CASI ANALOGHI)? Come se ne esce? Ovvero: come dovranno comportarsi i giudici e gli operatori che si troveranno a fare i conti con il prosieguo della vicenda de qua (o con altre simili)?
45 G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 3.
46 La Corte afferma infatti che «la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa del mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina» (punto 5.4 del Considerato in diritto).
47 Cfr. A RUGGERI, Questioni di diritto di famiglia e tecniche decisorie nei giudizi di costituzionalità (a proposito della originale condizione dei soggetti transessuali e dei loro ex coniugi, secondo Corte cost. n. 170 del 2014), in www.giurcost.org (13 giugno 2014) e le conseguenti critiche di G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 4 in fine, per la quale ciò conduce «ad una inevitabile frammentazione delle tipologie familiari, all’adozione cioè di misure legislative peculiari per ciascuno dei gruppi sociali considerati».
48 G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 3.
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Il seguito del caso – nient’affatto semplice da inquadrare 49 – deve prendere necessariamente le mosse dalla tipologia della decisione utilizzata dalla Corte: appare chiaro che la pronuncia è – innanzi tutto – di accoglimento, caratterizzandosi tuttavia per un dispositivo riconducibile ai (controversi) crismi delle c.d. sentenze “additive di principio”. Da qui i problemi e i dubbi di cui si dirà. La Corte dichiara quindi «l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore» 50. E’ perciò evidente che la Corte non forgia una regola immediatamente applicabile, traendo invece dalla Costituzione un ben più generico principio. Come già ricordato, la Corte afferma infatti che sarà «compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine» 51. Nessun esplicito accenno è dedicato invece alla possibilità che i singoli giudici utilizzino il principio tracciato nella sentenza al fine di provvedere sin da subito alla tutela dei diritti coinvolti. Già in passato una simile circostanza non ha mancato di far discutere, taluno concludendo che – a fronte di additive di principio così ambiguamente strutturate – sarebbe in realtà escluso qualsiasi attivismo giudiziario; approdo respinto invece da altri commentatori, per i quali risulterebbe a dir poco incomprensibile e preoccupante che «i giudici comuni non ritenessero le sentenze di questo tipo suscettibili di immediata applicazione, in quanto rivolte al solo legislatore», così rifiutandosi «di decidere, attraverso l’individuazione di una regola, il caso loro sottoposto». Tanto più che «ai giudici dovrebbe essere comunque inibito decidere sulla base di norme dichiarate incostituzionali»; «diversamente l’accoglimento della questione in nulla differirebbe da una pronuncia d’inammissibilità, eventualmente corredata da un monito o da un semplice invito a provvedere ricolto al legislatore»52. Come accade spesso, la soluzione va dunque e probabilmente calibrata caso per caso, ovvero ragionando della peculiare fisionomia delle singole “additive di principio” 49 V., ad esempio, la preoccupata chiosa di F. BIONDI, La sentenza additiva di principio sul c.d. “divorzio imposto”, cit., per la quale «in assenza dell’intervento del legislatore, qualunque decisione è contraria alla Costituzione»: sia accogliere il ricorso delle interessate, sia deciderlo in base al criterio dell’analogia, sia rigettarlo. Né «sarebbe utile immaginare una qualche forma di sospensione del giudizio a quo in attesa dell’intervento del legislatore: poiché i ricorrenti erano risultati soccombenti in appello ed ora non sono sposati, sospendere il giudizio non consentirebbe comunque cdi vedere garantito il diritto ad un riconoscimento giuridico del loro rapporto di coppia».
50 La Corte dichiara altresì, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 31, comma 6, d. legisl. 1° settembre 2011, n. 150 (peraltro non rilevante nella fattispecie).
51 Punto 5.6 del Considerato in diritto.
52 V., in particolare, G.P. DOLSO, Le sentenze additive di principio: profili ricostruttivi e prospettive, in Giur. cost. 1999, p. 4121, p. 4123, p. 4127.
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proposte dalla Corte, nonché alla luce degli specifici tratti di ciascuna fattispecie sotto la lente53. 7. SEGUE: LE POSSIBILI SOLUZIONI SUL TAPPETO. LA CONTINUAZIONE DI UN MATRIMONIO ORA SOTTOPOSTO A “CONDIZIONE” O LO SCIOGLIMENTO IMMEDIATO IN SPERANZOSA ATTESA DEL LEGISLATORE? In base allo specifico tenore della sentenza n. 170/2014, taluno ritiene dunque che si debba valorizzare al massimo il diritto delle coniugi a continuare il loro rapporto affettivomatrimoniale nell’attesa della nuova disciplina delle unioni omosessuali. E’ la posizione che potremmo definire più “audace”. La sentenza avrebbe infatti dichiarato l’illegittimità delle norme che impongono lo scioglimento del matrimonio della coppia (diventata) samesex, senza che sia contemporaneamente (e più precisamente) regolato il diritto dei coniugi di mantenere in vita una convivenza giuridicamente riconosciuta. La Corte sostiene infatti che sarebbe illegittimo sostituire (ex art. 29 Cost.) «il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso» 54. Al contempo, «e altrettanto chiaramente, riconosce, con tutta la forza di un dispositivo di accoglimento, che sarebbe contrario a Costituzione consentire il passaggio da “uno stato di massima protezione giuridica” (il matrimonio) ad una condizione di “assoluta indeterminatezza”» (per le coppie soggette a uno scioglimento coatto senza sbocchi in una convivenza registrata); tale condizione produrrebbe anzi «quel vulnus dell’art. 2 Cost. che la sentenza costituzionale intende evitare»55. Posto tuttavia che la Cassazione non sembrerebbe nelle condizioni di operare direttamente la conversione del matrimonio in una convivenza registrata – troppe le variabili di cui occorrerebbe tener conto 56 – ne consegue che gli articoli impugnati «non possono, allo stato, produrre gli effetti propri dello scioglimento, che si potranno verificare solo nel momento in cui il legislatore renderà possibile la conversione del matrimonio in una convivenza registrata». Il matrimonio risulterebbe così sottoposto a una “condizione risolutiva” che indubbiamente modifica nel profondo la situazione delle coniugi, proiettandola verso uno status di diversa e minore tutela giuridica (caratterizzata – sin da
53 Nelle additive di principio viene infatti affidato ai giudici comuni,« caso per caso, quando è possibile», il compito «di reperire nell’ordinamento la regola del caso concreto»: G. ZAGREBELSKY - V. MARCENÒ, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna 2012, p. 403 (corsivo non testuale).
54 Punto 5.6 del Considerato in diritto.
55 B. PEZZINI, A prima lettura (la sent. n. 170/2014 sul divorzio imposto), cit.
56 A. RUGGERI, Questioni di diritto di famiglia, cit., segnala perciò che «diversamente da ciò che accade in presenza di altre additive di principio, nell’odierna vicenda è fuori discussione che il principio somministrato dalla Corte non si presta ad essere per l’intanto tradotto in regole… sussidiariamente prodotte dal giudice comune».
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subito – da un’evidente precarietà)57; quello ora esistente tra di loro sarebbe insomma un diritto sostanzialmente “a tempo”. All’opposto, la ricostruzione più “prudente” e “conservatrice” appare invece propensa a rimarcare i (già citati) passaggi della pronuncia in cui la Corte (inequivocabilmente) afferma che il matrimonio tra le coniugi non può comunque continuare; esso sarebbe dunque destinato a venir meno, pena l’inevitabile violazione dell’art. 29 Cost. Lo scioglimento del matrimonio de quo sarebbe dunque inevitabile, nell’attesa di un futuro e proficuo intervento del legislatore che regoli un’«altra forma di convivenza registrata»58. Per evitare un’ulteriore illegittimità, andrebbe quindi ammesso e praticato lo scioglimento coatto di siffatti rapporti coniugali sin quando non saranno finalmente forgiati gli istituti che il legislatore deve, senza indugi, elaborare. Una posizione che trarrebbe forza da specifici passaggi testuali della pronuncia oltre che dall’esplicita investitura del legislatore: quest’ultimo sarebbe perciò l’unico potere davvero competente a intervenire, a pena di un’«attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti… coinvolti» 59. 8. SEGUE: LA “TERZA VIA”. UN CONVIVENZA NON PRIVA DI SIGNIFICATO GIURIDICO. Oltre a quelle sin qui illustrate esiste peraltro una “terza via”. Quella adottata dalla Corte è senz’altro un’additiva di principio sui generis, condividendo i propri tratti solo con talune delle pronunce ascrivibili a tale (assai frammentaria) categoria. Di norma, simili pronunce constano di due parti, «una demolitoria della norma impugnata e l’altra contenente un principio, frutto di un bilanciamento dei principi costituzionali operato dalla Corte. Le due parti risultano non solo distinte ma anche dotate di differente efficacia, essendo la prima vincolante e ponendosi invece la seconda a livello di indicazione, monito o suggerimento con forza meramente persuasiva» 60. Ciò può anzi cagionare uno dei problemi tipici di alcune sentenze di tal fatta, nel caso in cui i principi affermati dalla Corte non risultino poi concretamente applicabili da parte dei giudici. In queste ipotesi si assiste infatti a un “doppio effetto paralizzante”: da un lato il giudice non potrebbe applicare la norma dichiarata incostituzionale – posta l’efficacia erga omnes del giudicato costituzionale – dall’altro, lo stesso giudice non potrebbe concludere il giudizio sin quando il legislatore non si decidesse finalmente a intervenire 61. Perciò – almeno da alcuni 57 I brani citati – e le conclusioni proposte – sono tratte da B. PEZZINI, A prima lettura (la sent. n. 170/2014 sul divorzio imposto), cit. Ne condividono gli assunti anche G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 2 e M. WINKLER, La Corte costituzionale si pronuncia sul caso del divorzio “imposto”: luci e ombre, in www.articolo29.it (13 giugno 2014), § 6.
58 Come da motivazione e dispositivo della sentenza n. 170/2014.
59 Punto 5.6 del Considerato in diritto.
60 R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in ID. (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), Giappichelli, Torino 2011, p. 112.
61 Su tale profilo v. G. PARODI, La sentenza additiva a dispositivo generico, Giappichelli, Torino 1996, p. 180 ss.
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commentatori – «le sentenze contenenti principi così formulati sono state parificate alle decisioni di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore» 62. La prima parte della sentenza n. 170 non sembra tuttavia esplicitare l’afflato demolitorio appena rammentato. Non è infatti illegittimo – per la Corte – che il matrimonio già contratto e operante si sciolga (anzi: la Corte ribadisce che ciò è del tutto conforme alle norme della Costituzione); è invece incostituzionale che l’ordinamento non preveda alcun istituto destinato eventualmente a “ospitare” le coppie che versino nella situazione in discorso. Tanto più che la Corte stessa ribadisce espressamente (e più volte) che il matrimonio de quo non può affatto continuare come se nulla fosse accaduto: neppure se le parti concordassero in tal senso. Stante ciò, la Corte non potrebbe neanche – in caso di prolungata inerzia del legislatore – rafforzare la sua attuale presa di posizione adottando una sentenza di accoglimento semplice: ne deriverebbe infatti – nell’ottica della Consulta – una disciplina comunque non consona al dettato dell’art. 29 Cost. (il quale – nelle parole della Corte – comunque non tollera la prosecuzione di un matrimonio ormai privo del carattere dell’eterosessualità). In considerazione del suo specifico tenore, la sentenza n. 170 non parrebbe quindi in grado di paralizzare l’applicazione della prima parte della norma impugnata (che, in sé, non è affatto descritta come incostituzionale): è quindi la successiva omissione a essere sproporzionata e illegittima, non già l’esplicita previsione dello scioglimento “coatto”63. Che fare dunque se fosse questa la ricostruzione (e l’applicazione) a prevalere? In tal caso forse varrebbe la pena collocarsi in una prospettiva sostanzialmente “mediana” rispetto a quelle illustrate al precedente paragrafo: una posizione certo “scomoda” ma non priva di (pur faticosi) spiragli. Qualunque operatore dovrebbe cioè dare per scontato l’automatico scioglimento del matrimonio che – come nel caso – conosca il transito ad altro genere di uno dei coniugi. Contemporaneamente però – ove le parti lo richiedessero – si dovrebbe comunque ammettere la prosecuzione non giuridicamente indifferente della relativa convivenza, sia pure tenendo presente che una coerente (e doverosa) disciplina della materia è ben lungi dall’essere ancora entrata in vigore. Caso per caso (e problema per problema), a fronte delle rivendicazioni della coppia che intendesse comunque proseguire la propria vita in comune, dovrà dunque essere chi intende negare i diritti di volta in volta in rilievo a opporre e provare la base legale-costituzionale della pretesa esclusione (causata, peraltro, dalla colpevole inerzia del legislatore). Di risulta, i soggetti coinvolti nelle varie circostanze potranno eventualmente reagire per le vie legali; un giudice potrà quindi essere chiamato a decidere se – alla luce del principio abbozzato dalla sentenza n. 170, e in ossequio delle norme costituzionali disponibili – sia possibile (o no) estendere alla coppia coinvolta i diritti pianamente riconosciuti ai coniugi. «Nel caso in cui la magistratura reputi che le norme non consentano tale operazione ma ritenga comunque di trovarsi di fronte a un’irragionevole differenziazione tra le “forme” di
62 R. ROMBOLI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, cit., p. 112. V. anche G.P. DOLSO, Le sentenze additive di principio, cit., p. 4146 e, di recente, proprio con riguardo al caso in commento, A. RUGGERI, Questioni di diritto di famiglia, cit., il quale afferma perciò che «l’additiva di principio può tutt’al più esprimere una carica di persuasività maggiore di quella racchiusa in una decisione di rigetto con monito: nei fatti, però, il quadro normativo di risulta non muta».
63 A tal proposito, contra la tesi dell’inapplicabilità (sempre e comunque) della disciplina impugnata, essendo invece dichiarata incostituzionale non tutta la normativa sottoposta all’attenzione della Corte, bensì soltanto l’omessa previsione del “trattamento più favorevole”, v. G. PARODI, La sentenza additiva a dispositivo generico, cit., p. 181 s.
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convivenza, potrebbe proporre la questione di costituzionalità, sollecitando – in sostanza – un’interpretazione autentica della sent. n. 170/2014» 64. Parafrasando (quasi alla lettera) quanto dalla Corte sancito nella sentenza n. 138/201065 – a ulteriore conferma del “dialogo” esistente tra tali pronunce e della continuità della giurisprudenza costituzionale sul punto – può (e deve) insomma accadere che, in relazione a ipotesi particolari, la coppia eterosessuale regolarmente coniugata, ovvero quella che intenda continuare la propria sperimentata relazione nonostante la modifica anagrafica del sesso di uno dei suoi componenti, usufruiscano di trattamenti del tutto omogenei66. E’ un percorso che – tanto per cambiare – impone fatiche inspiegabili ed esposizioni coatte delle coppie coinvolte, “scaricandosi” immancabilmente sui giudici ordinari e fomentando perciò una tutela inevitabilmente «a macchia di leopardo» degli interessati67: purtroppo è tuttavia questa la sorte incrociata da coloro che prendono di petto la sempre più evidente necessità di superare i patologici ritardi dell’ordinamento italiano sul delicato fronte dei diritti68. 9. LE CONSEGUENZE SUL PIANO “EUROPEO” Last but not least, gli ultimi “soldatini-parametro” a cadere sotto il “fuoco” della Consulta sono – nell’economia di questo commento – gli artt. 10 (in realtà 11) e 117 Cost. A tal proposito, la Corte ribadisce quanto già affermato nella sentenza n. 138/2010: non è possibile utilizzare gli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e formare una famiglia) della CEDU, invocandoli quali “norme interposte” supportate dalle menzionate norme costituzionali. «E ciò perché, in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso» 69. 64 C. SALAZAR, Amore non è amore se muta, cit., § 4.
65 V. il punto 8 del Considerato in diritto.
66 Mentre, come già detto (v. supra § 4, nota 31), il mutamento di sesso di uno dei coniugi senza la corrispondente richiesta della rettificazione anagrafica non provoca problemi di sorta sulla continuazione del rapporto matrimoniale.
67 Così F. BIONDI, La sentenza additiva di principio sul c.d. “divorzio imposto”, cit.
68 Da ultimo, si pensi alla progressiva demolizione (per via giudiziaria) della legge n. 40/2004, in materia di procreazione medicalmente assistita, oppure al grande tema del “fine-vita”, illuminato dai noti casi Welby ed Englaro.
69 Punto 5.3 del Considerato in diritto. Corsivo non testuale. In tal senso, già prima della pronuncia, v. l’analisi di E. BERGAMINI, Famiglia e identità di genere, “divorzio imposto” e diritti fondamentali: profili di diritto europeo , in GenIUS 2014, n. 1, spec. p. 96 ss., in cui l’a. – dati giurisprudenziali alla mano – sottolinea come lo stesso art. 9 della Carta dei diritti fondamentali UE (citata dalla Cassazione nella sua ordinanza) sia stata spesso sopravvalutata sul piano interno. Per una critica dell’impostazione assunta dalla Corte su questo specifico punto v., invece, G. BRUNELLI, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti, cit., § 3.
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Ne deriva che – come già poteva desumersi dalla sentenza n. 138 70– se la Consulta non è forse abilitata ad adottare, in materia, sentenze additive “a rime obbligate”, la Corte EDU – magari aggiornando via via le sue interpretazioni e la propria giurisprudenza (anche alla luce delle progressive evoluzioni degli ordinamenti statali) 71 – potrà invece condannare l'Italia per le sue eventuali (e quasi scontate) inadempienze in materia: specie dopo quanto sancito nella sentenza in commento. Forse non sarà molto ma (soprattutto in presenza di “grandi numeri” e di altrettanto corpose conseguenze economiche) la circostanza potrebbe assumere un significato nient’affatto simbolico. A seguito di quanto concluso nella sentenza n. 170/2014, il “margine di apprezzamento” italiano pare infatti decisamente più angusto di quanto taluno poteva forse prima ipotizzare: nessuno può più negare che esista un vero e proprio diritto a ottenere la regolamentazione dell’unione omosessuale o transessuale comunque configurata. Sulla falsariga di quanto accaduto sul delicato fronte dell’owercrowding carcerario72, questo “punto fermo” potrebbe perciò preludere a una sequela di condanne italiane in sede europea, magari accompagnate dall’adozione di una “sentenza pilota” la quale fissi limiti, tempi e obiettivi di una disciplina che attende ormai da troppi anni di venire alla luce (e che troppi veti hanno sin qui ottusamente ostacolato). * Professore di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
70 Si rinvia a P. VERONESI, Il paradigma eterosessuale del matrimonio, cit., p. 1007.
71 Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte EDU in relazione a profili variamente collegati a quello in discussione v., ad esempio, oltre al citato scritto di Elisabetta Bergamini, A. COSSIRI, Famiglie omosessuali, famiglie clandestine. La lacuna dell'ordinamento che produce discriminazioni, in AA.VV., La "società naturale", cit., p. 83; A.O. COZZI, Esiste un'obbligazione convenzionale o comunitaria volta a consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso?, ivi, p. 85 ss.; E. CRIVELLI, Il diritto al matrimonio, cit., p. 92 ss., nonché ID., Il matrimonio omosessuale all'esame della Corte costituzionale, in Giur. cost. 2009, p. 1242 ss.
72 Si pensi alle ripetute condanne europee subite dall’Italia in relazione allo stato delle sue carceri e alla conseguente sentenza-pilota della Corte EDU, sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, a proposito della quale (e anche sui caratteri di tali pronunce della Corte europea) cfr. la nota di F. VIGANÒ, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.penalecontemporaneo.it (2013).
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Divorzio imposto: incostituzionale ma non troppo* di Paolo Bianchi ** (7 luglio 2014) Con la sentenza n. 170/14 la Corte torna ad esprimersi sul dettato costituzionale in tema di matrimonio e famiglia. La questione, ampiamente dibattuta in dottrina (v. ad es. Genius n.1/14, monografico sulla vicenda), concerneva l’obbligatorio scioglimento del matrimonio conseguente alla pronuncia di rettifica del sesso di uno dei coniugi. La Corte di cassazione, nell’ordinanza di rimessione, aveva sollevato dubbi riferiti a diversi parametri: non solo gli artt. 2 e 29 Cost. (in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU) per l’asserita violazione dei diritti dei coniugi conseguente all’automatismo previsto dalla legge, ma anche l’art. 24 Cost. perché le norme impugnate non prevedono alcuna possibilità di difesa in giudizio delle posizioni del coniuge per il quale è intervenuta la rettificazione del sesso né, tanto meno, per l’altro, che risulta del tutto estromesso dal procedimento pur trovandosi a subirne le conseguenze. Infine era invocato l’art. 3 Cost.: poiché negli altri casi di scioglimento del vincolo matrimoniale di cui all’art. 3 l.n. 898/70 è necessaria la domanda di uno dei coniugi, la procedibilità d’ufficio nella sola ipotesi del cambiamento di sesso introdurrebbe sia una discriminazione irragionevole che una ingiustificata differenziazione in ordine alla tutela giurisdizionale. Di fronte a tale complesso di questioni la Corte ha prodotto argomentazioni sbrigative. Innanzitutto ha nuovamente (come nella sent. n. 138/10 e nell’ord. n. 276/10) liquidato il tema della necessaria eterosessualità del matrimonio senza alcuna motivazione, trasformandolo da elemento controverso in presupposto logico-giuridico della decisione. A poco serve allora rilevare che l’insistenza della Corte su una lettura dell’art. 29 Cost. tale da modellarlo sul codice civile del 1942 risulta contraddittoria anche in relazione alla sua stessa giurisprudenza, nella quale è dato leggere che «occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa» (sent. n. 1/13). Così come a poco serve notare che la concezione “naturalistica” dell’eterosessualità non regge nel caso di specie, dove la diversità di sesso rimane, sul piano biologico, mentre è il dato normativo che dalla rettifica fa derivare lo scioglimento del vincolo. Altrettanto sommariamente vengono accantonati sia i riferimenti alle norme CEDU in tema di famiglia, sia la giurisprudenza recente ad esse relativa, che pure avrebbe potuto suggerire – al pari delle pronunce dei tribunali costituzionali tedesco e austriaco richiamate nell’ordinanza di rimessione – un approccio meno rigido. La violazione del diritto alla difesa è stata esclusa in base all’affermata inesistenza del diritto sostanziale (al matrimonio tra persone dello stesso sesso) sottostante, da ciò traendosi ulteriore sostegno per negare possibili discriminazioni rispetto agli altri casi di scioglimento del vincolo: la peculiarità dell’ipotesi sarebbe tale da escludere in radice ogni possibile comparazione. Dopo tali premesse, la pronuncia vira però verso l’accoglimento, una volta considerato che le disposizioni impugnate, nel bilanciamento tra l’interesse dello Stato alla difesa del modello eterosessuale e quello degli individui alla conservazione del rapporto, negano ogni tutela a questi ultimi. La cautela della Corte traspare però dalla scelta del dispositivo. Sarebbe infatti stato ben possibile addivenire ad un accoglimento “secco”, fondato sulla lesione dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., prodotta dall’imposizione per legge della dissoluzione del vincolo matrimoniale contro la volontà dei diretti interessati, a fronte della quale neppure nelle parole della sentenza si rinviene un interesse superiore meritevole di tutela. * Scritto sottoposto a referee.
Tale soluzione avrebbe condotto la nostra Corte sulle orme di quella tedesca, che, pronunciando su un caso analogo a questo (BVerfG, 1 BvL 10/05 del 27 maggio 2008), ritenne non potersi invadere la sfera dei diritti personalissimi dei coniugi in nome della salvaguardia dell’istituto matrimoniale tradizionalmente concepito. Quella decisione fece salvo nell’immediato – ed esplicitamente – il matrimonio in essere, rinviando al legislatore per un eventuale, diverso quadro normativo nel quale inserire l’unione tra individui dello stesso sesso (sopravvenuto). Sulla stessa linea del Bundesverfassungsgericht si colloca la più recente sent. H v. Finland, pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 13 novembre 2012, in cui la lesione del diritto alla vita familiare è esclusa dalla predisposizione, contestuale rispetto all’imposizione del divorzio, di una forma di unione civile alternativa al matrimonio ma ad esso sostanzialmente assimilabile. La Corte costituzionale – che pur ha citato entrambe le sentenze, ma solo per trarne conferma della piena discrezionalità legislativa nella materia de qua – non ha nemmeno ipotizzato l’accoglimento semplice, che avrebbe equiparato la condizione esaminata a quella di ogni altra coppia sposata, anzi ha escluso anche l’adozione di una sentenza «manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso», ipotesi che contrasterebbe con il principale assunto della decisione. La via prescelta è stata dunque quella dell’additiva di principio, nella quale l’accoglimento della questione è accompagnato dal fermo invito al legislatore a introdurre («con la massima sollecitudine») una disciplina delle forme di convivenza che assicuri adeguata tutela ai soggetti che si trovino nelle medesime condizioni, escludendo sin d’ora sia l’apertura dell’istituto matrimoniale, sia l’adozione di un modello unico di disciplina di tali unioni. Una prima considerazione è necessaria in relazione agli effetti della decisione in esame. Autorevole dottrina ha sostenuto che essa non avrebbe alcuna possibilità di applicazione in concreto, giungendo ad equipararla, nella sostanza, ad un rigetto con monito analogo a quello disposto con la sent. n. 138/10. Secondo A. Ruggeri, Questioni di diritto di famiglia e tecniche decisorie nei giudizi di costituzionalità (a proposito della originale condizione dei soggetti transessuali e dei loro ex coniugi, secondo Corte cost. n. 170 del 2014), in www.giurcost.org., 3, «è infatti fuori discussione che il principio somministrato dalla Corte non si presta ad essere per l’intanto tradotto in regole, ancorché solo a titolo precario, “sussidiariamente” prodotte dal giudice comune, in attesa della organica e compiuta disciplina vagheggiata dalla Corte». Tale impostazione non può essere condivisa, poiché sottovaluta il dispositivo a tutto vantaggio della (pur ambigua) motivazione. La scelta di una pronuncia di accoglimento risponde all’esigenza di incidere sul quadro normativo, in vista della tutela di diritti di cui si è appena affermata l’inviolabilità (così G. Brunelli, Quando la Corte costituzionale smarrisce la funzione di giudice dei diritti: la sentenza n. 170 del 2014 sul c.d. “divorzio imposto”, in www.articolo29.it), mentre la pluralità di soluzioni disponibili per il legislatore non può essere vista come strumento idoneo ad impedire la tutela immediata degli stessi diritti in sede giurisdizionale. Si obietta (F. Biondi, in www.forumcostituzionale.it) che l’accoglimento del ricorso nel giudizio a quo sarebbe precluso dall’affermata inesistenza del diritto della coppia «a rimanere unita nel vincolo del matrimonio». Si deve osservare che la motivazione può integrare e orientare la lettura del dispositivo, non certo privarlo di effetti allo scopo di “salvare” la norma annullata, sia pure in attesa dell’intervento del legislatore. Preferibile è allora la soluzione di chi (B. Pezzini, La Corte costituzionale applica una condizione risolutiva al matrimonio del transessuale, in www.confronticostituzionali.it, e G. Brunelli, Quando la Corte cit.) ritiene immediatamente efficace la pars destruens della
decisione, con ciò salvaguardando i diritti individuali in gioco, mentre rinvia al futuro assetto legislativo la possibile cessazione degli effetti del matrimonio, subordinandola alla predisposizione, imposta dalla Corte, di «una forma alternativa» di regolazione dei rapporti, della quale potrà comunque essere vagliata l’idoneità a tutelare «adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia». Da qui è possibile passare a considerazioni più generali, relative al dialogo tra Corte e legislatore. Le critiche da molti rivolte alla sentenza in commento, per quanto condivisibili, non dovrebbero offuscare la percezione di un netto cambiamento di tono tra la sent. n. 138/10, in cui, affermato il paradigma eterosessuale del matrimonio, negata la lesione del principio di eguaglianza formale, evocata la necessaria garanzia dei diritti individuali, si concludeva con un rigetto accompagnato dall’invito a legiferare, e l’attuale pronuncia, in cui analoga struttura motiva sostiene un dispositivo di accoglimento accompagnato da una enunciazione di principio e da un ulteriore sollecito rivolto al legislatore. Si tratta di uno schema altre volte seguito, anche di recente, dalla Corte, in cui il mancato accoglimento del monito conduce ad una nuova decisione, stavolta di accoglimento. Tra le due decisioni si inserisce, come ulteriore passaggio dialettico, la relazione sull’attività giurisdizionale del 2012, in cui il Presidente Franco Gallo segnalò (oltre a questo) numerosi casi di inerzia legislativa a fronte di «inviti» contenuti in pronunce di rigetto o inammissibilità, evidenziando il difficile rapporto tra il Parlamento e il Giudice delle leggi. La decisione in esame appare dunque come un ulteriore tentativo di ottenere risposta da un legislatore evidentemente distratto, non più con un mero invito ma con la cancellazione di un frammento del complesso mosaico della disciplina del matrimonio. Sia che il legislatore decida di rispondere, approvando quella articolata disciplina delle unioni (para)familiari che la Corte richiede, sia che resti inerte, adagiandosi su un dettato normativo già oggi dichiarato costituzionalmente illegittimo, il sentiero tortuoso tracciato dai giudici di Palazzo della Consulta li condurrà inevitabilmente a confrontarsi ancora in futuro con gli esiti potenzialmente discriminatori della differenziazione, da essi rintracciata nelle pieghe della Costituzione, tra il matrimonio e le “altre forme di convivenza”. ** Professore di Diritto costituzionale, Università di Camerino
Procedure di mobilità nel lavoro pubblico, assegnazione a mansioni superiori dirigenziali tra organizzazione regionale e “ordinamento civile” di Sandro de Gotzen (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)
1.La sentenza 17/2014 si pronunzia per la illegittimità costituzionale di disciplina (l.r. Abruzzo 71/2012 art. 2 commi 2, 6 e 7) in tema di lavoro pubblico, per violazione da parte della legge regionale dello spazio rientrante nell’ordinamento civile di competenza esclusiva statale. Si prendono in considerazione due fattispecie diverse. Nel primo caso, in materia di mobilità nel lavoro pubblico l’art. 2, comma 2, l.r. 71/2012, prevede che il personale dirigente di ruolo nella Azienda regionale per il diritto allo studio universitario il cui incarico non venga rinnovato o conferito, sia considerato in esubero e venga trasferito direttamente nei ruoli regionali. Nella seconda fattispecie, individuata dall’art. 2,commi 6 e 7, l. r. 71/2012, nell’ipotesi di mancanza di personale di livello dirigenziale, si prevede che il funzionario di grado più elevato, che ha i requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, venga assegnato temporaneamente alle funzioni superiori, di livello dirigenziale, percependo il trattamento salariale corrispondente. La disciplina delle due fattispecie è delineata dalle norme regionali in modo diverso dalla corrispondente disciplina dettata dal d. lgs. 165/2001, ponendo regole che sembrano di dettaglio e, comunque, di applicazione dei principi posti dalla normativa statale. Il trasferimento per mobilità nella disciplina regionale è facilitato rispetto alla disciplina statale e così pure il mutamento provvisorio di mansioni. Entrambe le fattispecie, rileva la Corte, sono inerenti alla disciplina del rapporto di lavoro e, per ciò solo, vanno ricondotte alla materia dell’ordinamento civile che, come è noto, è materia di esclusiva pertinenza statale. Va notato che, a fronte di una copiosa giurisprudenza incentrata sulla necessità di concorso pubblico per accedere alle funzioni dirigenziali, la sentenza in oggetto non fa menzione della sussistenza di un precedente concorso pubblico per il personale di cui si tratta. Si deve ritenere, in questo caso, che un precedente concorso pubblico vi sia stato e che il personale che vien trasferito per mobilità sia parte di un rapporto di pubblico impiego1. 2.La qualificazione delle fattispecie come rientranti nella materia dell’ordinamento civile sembra consolidata nella giurisprudenza costituzionale, ma si possono individuare aree di incertezza su tale collocazione sia nella stessa giurisprudenza che nella dottrina giuslavoristica. 1 La Corte costituzionale nella successiva sent. 134/2014 valorizza, in merito ad una fattispecie simile - si tratta di trasferimento di contratti di lavoro da ente privato a una azienda sanitaria - la insussistenza di un concorso pubblico. Si prende in esame la successione, prevista da legge regionale, di una ASP nel contratto di diritto privato di personale che viene trasferito una struttura privata, senza costituzione di alcun rapporto di pubblico impiego; in tal caso si riconosce la fondatezza dell’impugnazione della norma regionale per contrasto con l’art. 97 Cost., che prevede che il personale venga selezionato con un concorso pubblico. L’immissione del personale proveniente dall’organico dell’ente di diritto privato nella struttura dell’azienda sanitaria senza prevedere il rapporto di pubblico impiego costituisce un privilegio indebito: si tratta pur sempre di un rapporto di pubblico impiego, senza necessità di concorso pubblico ciò che viola gli art. 97 e 3 Cost. La deroga al principio del pubblico concorso non appare giustificata da alcuna esigenza.
Si può dunque notare che la riconduzione delle fattispecie alla competenza normativa dello stato vien operata nel tempo, dalla giurisprudenza costituzionale, sulla base di differenti criteri. La sentenza 17/2014 sembra operare la riconduzione delle fattispecie di mobilità del personale e di assegnazione alle mansioni superiori sopra considerate all’ordinamento civile sulla base di una definizione delle competenze condotta per oggetti o materie. La sentenza 17/2014 sembra attestarsi sulla linea, dominante nella giurisprudenza costituzionale, per cui tutte le regole in materia di rapporto di lavoro attengono all’area dell’ordinamento civile e sono, quindi, per ciò solamente, di competenza statale. La sentenza richiama alcune decisioni conformi, che si pronunziano sul presupposto della spettanza alla materia dell’ ordinamento civile del rapporto di lavoro pubblico privatizzato 2. SI può ricordare che la Corte costituzionale, ancora nella vigenza del testo costituzionale originario, aveva ricondotto al limite del diritto privato il rapporto di lavoro, facendo risalire ad esso il divieto per le Regioni di regolare con legge aspetti del rapporto di lavoro 3; ancora oggi, dopo la riforma costituzionale che ha introdotto l’espressa menzione della materia dell’ordinamento civile, la Corte costituzionale si pronunzia in tal senso, statuendo che rientra nell’ordinamento civile la disciplina degli effetti del mobbing sul rapporto di lavoro4. In un quadro della giurisprudenza costituzionale sostanzialmente coeso, va ricordata la divergente sent. 388/2004, che si pronunzia sulla normativa statale in materia di mobilità, e si differenzia rispetto al canone seguito dalla Corte in ambiti attinenti al rapporto di lavoro. La sentenza 388/2004 argomenta la riconduzione della disciplina puntuale del procedimento di ricollocazione del personale della pubblica amministrazione alla competenza normativa statale richiamando gli artt. 4 e 120 della Costituzione; tale decisione fa salva la norma statale che stabilisce il procedimento di ricollocazione del personale eccedente delle amministrazioni pubbliche presso le amministrazioni regionali e degli enti locali, senza invocare il limite dell’ordinamento civile, ma gli artt. 4 e 120 della Cost., che rendono effettivo il diritto al lavoro e rimuovono ostacoli all’esercizio del diritto nel territorio nazionale. Tale sentenza, inoltre, esclude che la norma statale impugnata costituisca ingerenza nella competenza regionale di organizzazione amministrativa o che sia norma di dettaglio in materia di tutela del lavoro. Il richiamo all’art 4 e all’ art. 120 della Costituzione, sembra risentire dell’eco della contrapposizione di teorie dottrinali in merito al significato della menzione nel testo costituzionale dell’ordinamento civile in generale ed in particolare in merito al rapporto di lavoro pubblico privatizzato 5.
2 Sentt. 68/2011, 324/2010.
3 Si v. in tal senso sentenza 691/1988.
4 Si v. sent 359/2003.
3. Il richiamo operato dalla sentenza 17/2104 al criterio dell’ordinamento civile 6 per stabilire la spettanza alla competenza normativa statale della disciplina delle fattispecie della mobilità del personale e della assegnazione a mansioni superiori sembra accogliere un concetto estensivo del criterio stesso per cui tutta la disciplina del rapporto di lavoro rientra nell’ applicazione del limite dell’ordinamento civile 7. Sembra dover essere presa in considerazione, tuttavia, un'altra costruzione dottrinale del limite dell’ordinamento civile nell’ambito del rapporto di lavoro, che 8 integra i criteri di delimitazione per materia con un approccio integrato con criteri funzionali, in modo che non si sancisce il monopolio della regolamentazione statale in tutti gli aspetti della disciplina del rapporto di lavoro, aprendo spazi per le Regioni per disciplinare la propria organizzazione. In tal caso, si dovrebbe attribuire alla competenza esclusiva statale in virtù della attribuzione all’ambito dell’ordinamento civile unicamente quegli oggetti che siano contrassegnati da esigenze di unitarietà della disciplina del rapporto. Tale modalità di individuazione dell’ordinamento civile importa, nelle diverse fattispecie, la possibilità di prevedere normative regionali privatistiche differenziate secondo le esigenze locali, sempre che esse non pregiudichino il valore dell’unità dell’ordinamento, che è alla base del limite dell’ordinamento civile. 9 Ci si può chiedere, in tale prospettiva, se la disciplina puntuale della mobilità collettiva del personale e quella della attribuzione temporanea di mansioni superiori di tipo dirigenziale debbano essere fatte rientrare tra le “linee ordinamentali della disciplina” 10, o se si tratta di disciplina di dettaglio regionale, divergente da quella statale. Si tratterebbe, nel caso, di valutare se in ipotesi possa riconoscersi la competenza legislativa regionale a porre trattamenti migliorativi per il personale, dato che si tratta di norme che facilitano la mobilità del personale e la copertura provvisoria con attribuzione di mansioni 5 Si v. nella pluralità di fonti dottrinali, per una esposizione riassuntiva e critica, E. LAMARQUE, Regioni ed ordinamento civile, Padova, Cedam, 2005, in partic. p. 294 ss. sul problema dell’ordinamento civile relativamente al diritto del lavoro; AA.VV., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, Milano, 2003, passim, con contributi di N. Lipari, S. Chiarloni, R. Costi, P. Schelsinger, S. Bartole, A. Luna Serrano, G. Alpa. Per un panorama della precedente giurisprudenza costituzionale in tema di limite del diritto privato con individuazione di diversi periodi M. MALO, Il limite del diritto privato nella giurisprudenza costituzionale, in Le Reg., 1995, p. 879 ss.; e, in modo parzialmente coincidente, G. ALPA, Il limite del diritto privato alla potestà legislativa regionale, in Studi in onore di Fausto Cuocolo, Milano, Giuffrè, 2005, p. 1 ss.
6 Ivi, in particolare T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, p. 35 ss.
7 In tal senso pare S. BARTOLE R. BIN G. FALCON R. TOSI, Diritto regionale, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 157.
8 T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit., p. 44, 45.
9 T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit., p. 45.
10 T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit., p. 45.
superiore, con una scelta che incide anche personale.
sull’organizzazione regionale, agevolando la provvista di
4. Ci si può chiedere, dunque, nella prospettiva dottrinale sopra ricordata, se le fattispecie considerate in questa sede non possano essere ricondotte, piuttosto che all’ordinamento civile, viceversa, all’ ambito dell’ organizzazione regionale e, conseguentemente, essere validamente disciplinate dalla legge regionale. Vi sono, infatti, evidenti intersezioni fra il regime (anche) privatistico del rapporto d’impiego pubblico e la disciplina dell’organizzazione pubblica, sempre rilevante per questi rapporti e riservata alla potestà normativa delle Regioni11. Si tratta di tener conto delle implicazioni organizzative delle disposizioni in tema di personale delle pubbliche amministrazioni. Nel caso si potrebbe far applicazione del criterio della prevalenza “ritenendo la competenza attratta nell’orbita della materia che presenti carattere prevalente”12. Il richiamo all’ordinamento civile non è l’unica argomentazione portata dalla sentenza 17/2014 per giustificare la spettanza alla legge statale della disciplina delle fattispecie. Essa richiama anche l’argomento della necessarietà dell’impiego della legge statale per la disciplina della mobilità tra amministrazioni diverse, ma non pare che tale esigenza esista nella fattispecie. La normativa in tema di mobilità del personale in esubero può richiedere l’intervento di legge statale che sola può avere valore vincolante per tutte le amministrazioni pubbliche, centrali e locali, se essa riguarda amministrazioni non collegate; tuttavia, nel caso in esame, su cui decide la sentenza 17/2014, la legge regionale impugnata disciplina il passaggio diretto da un ente dipendente dalla Regione ai ruoli regionali. In questo caso l’obiezione che verte sulla necessarietà della legge statale per la disciplina della mobilità tra amministrazioni13, avanzata dalla Corte nella sentenza 388/2004 e ripresa dalla sentenza 17/2014 non vale, dato che la normativa regionale in tal caso ha efficacia vincolante anche per gli enti dipendenti. Si tratta di amministrazioni tra loro collegate entrambe disciplinate dalla normativa regionale. 5. La legge regionale dichiarata costituzionalmente illegittima detta, per un verso, una disciplina parzialmente derogatoria rispetto alla disciplina statale, in materia di esubero di dipendenti e di mobilità collettiva e sulla attribuzione di funzioni superiori (dirigenziali) 14 15.
11 T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit., p. 50.
12 In tal senso A. D’ATENA, Diritto regionale, Torino, Giappichelli, 2010, p. 147, a proposito degli oggetti ad imputazione multipla.
13 V. in tal senso sent. 388/2004, par. 3.2 in dir., che avanza tale argomento per escludere l’ammissibilità di normativa regionale, dato che la fattispecie in esame non disciplina amministrazioni collegate, soggette ambedue alla normativa regionale.
14 La l.r. 71/2012 sembra porre disposizioni di dettaglio in merito ai due istituti, la mobilità collettiva del personale in caso di esuberi e il mutamento provvisorio di mansioni.
Le normative regionali giudicate costituzionalmente illegittime pongono regole accessorie o strumentali che possono essere viste come di favore per il personale regionale coinvolto, non potendosi riscontrare, nel caso, violazione di diritti o posizioni giuridiche del funzionario, non vertendosi, nella specie, sull’osservanza dei limiti inerenti ai diritti civili e politici. E’ da chiedersi, quindi, volendo applicare la dottrina lavorista su menzionata, se l’ambito dell’ordinamento civile si estenda anche a contenuti di carattere strumentale ed accessorio, come quelli che sembrano propri delle fattispecie considerate. In tale modo si verrebbe a negare la coestensività tra ordinamento civile e disciplina del rapporto di lavoro, come invece fa la sentenza 17/2014. Assumere, quindi, che l’ordinamento civile non si identifica (anche) con i contenuti di carattere strumentale ed accessorio della disciplina del rapporto di lavoro consentirebbe, viceversa, di tener in considerazione le esigenze di disciplina della propria organizzazione come percepite dalla Regione. 6. Ci si può interrogare se in questi limiti possa trovare spazio un diritto privato regionale 16, là dove si dispone di strumenti privatistici organizzativi. La giurisprudenza costituzionale ammette, ad esempio con riferimento alla disciplina di società regionali, che la normativa regionale possa dettare norme di diritto privato, speciali rispetto alla disciplina di diritto comune, allo scopo precipuo di porre regole relative al rapporto tra società e Regione 17 18. Istituendo un parallelo tra tali ultime fattispecie e la disciplina di fattispecie organizzative particolari attinenti della dirigenza pubblica, sembrerebbe da chiedersi se l’assegnazione operata dalla Corte alla 15 Le differenze di disciplina sono sintetizzate nella decisione in questo modo: a) L’art. 33 e segg. del d.lgs. 165/2001 disciplina la mobilità d’ufficio seguendo altre regole procedurali, prevedendo che i lavoratori dichiarati in eccedenza siano ricollocati presso la propria amministrazione o altre sempre che esista una posizione lavorativa disponibile e che se non siano ricollocati siano posti in disponibilità per 24 mesi al termine dei quali il rapporto di lavoro si intende risolto. La disposizione regionale prevede, per contro, il passaggio diretto ai ruoli regionali anche in difetto, osserva la Corte, di una posizione lavorativa disponibile. b)Il mutamento provvisorio di mansioni è disciplinato in modo diverso: la norma dell’art. 52 d.lgs 2001 limita nel tempo tale assegnazione e la limita alla sostituzione di altro dipendente con diritto alla conservazione del posto. La norma regionale impugnata invece prospetta una nozione di assenza od impedimento che autorizza al mutamento di mansioni molto più ampia e prevede che il trattamento economico superiore sia corrisposto indipendentemente dall’accertamento della prevalenza delle mansioni attribuite sotto l’aspetto quantitativo qualitativo e temporale.
16 Con accenti diversi si v. F. GALGANO, Il diritto privato tra codice e costituzione, Bologna, Zanichelli, 1988 (2 ed. accr.), p. 57. Nel vigore del nuovo Titolo V v. P. SCHLESINGER, Ordinamento civile, in AA.VV., L’ordinamento civile nel nuovo sistema delle fonti legislative, cit., p. 27 ss.; N. LIPARI, Il diritto privato fra fonti statali e legislazione regionale, ivi, p. 3 ss.; R. COSTI, Il limite dell’ordinamento civile in materia di banche, fondazioni bancarie e fondi pensione, ivi, p. 21 ss.; G. ALPA, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale, ivi, p 105 ss.
17L’orientamento è risalente. Si v. ad esempio Corte cost. sent. 35/1992, in le Regioni, 1992, p. 1750 ss. , con scritti di E. BALBONI, LA Corte apre uno spiraglio per gli interventi regionali nel diritto privato?, p. 1751 ss; D. VITTORIA, La disciplina delle organizzazioni collettive e il limite del diritto privato nella competenza legislativa delle Regioni, ivi, p. 1757 ss.; L. PALADIN, Diritto regionale, Padova, Cedam, 1992, p. 86 e 116.
18 G. ALPA, Il limite del diritto privato alla potestà normativa regionale, cit, p. 6 s in una prospettiva più ampia rileva che la giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni in materia di diritto privato determina la competenza regionale per quel settore che “comprende solo le
materia dell’ordinamento civile, delle due fattispecie, tutta imperniata sulla appartenenza di esse alla disciplina del rapporto di lavoro, senza altro considerare, sia necessaria. Sembra, alla luce delle aperture della giurisprudenza costituzionale in tema di organizzazione privatistica regionale, possano essere valorizzate le affermazioni di quella dottrina lavoristica, preoccupata in modo particolare, tra l’altro, dell’eguaglianza dei lavoratori, secondo cui non tutta la regolamentazione del rapporto di lavoro deve necessariamente venire identificata con l’ordinamento civile; sembra che possa, dunque, essere riconsiderata la tesi che limita la riserva di competenza statale in materia di ordinamento civile agli aspetti della disciplina del rapporto di lavoro relativi alle “sole <<linee ordinamentali>>”,”che esprimono diritti civili e sociali dei lavoratori e come individui e nelle forme organizzate “19.
materie che sono strumentali all’esercizio delle funzioni pubbliche regionali”.
19 T. TREU, Diritto del lavoro e federalismo, cit., p 45.
Progressività dell’imposta e federalismo fiscale 1 di Dario Stevanato (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)
1. Nell’ambito dei provvedimenti attuativi del c.d. “federalismo fiscale”, prefigurato dalla legge delega n. 42 del 2009, il D.Lgs. n. 68 del 2011 ha come noto dettato disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, tra l’altro introducendo alcuni elementi di flessibilità nella fissazione dell’addizionale regionale all’Irpef 2. La legge delega n. 42 del 2009 aveva in effetti previsto che, «per i tributi di cui alla lettera b), numero 2) [n.d.a. cioè le addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali] le regioni, con propria legge, possono introdurre variazioni percentuali delle aliquote delle addizionali e possono disporre detrazioni entro i limiti fissati dalla legislazione statale». Nell’attuare questa disposizione, l’art. 6 del citato D.Lgs. n. 68 del 2011 ha previsto un’aliquota di base pari allo 0,9 per cento, che le Regioni possono diminuire od aumentare 3, anche modulandola secondo canoni di progressività. Nell’esercitare quest’ultima facoltà, tuttavia, le Regioni devono rispettare gli «scaglioni» di reddito già previsti dalla legge statale, ovvero dall’art. 11 del Testo Unico dell’imposta sui redditi. Più in dettaglio, in base al comma 4 dell’art. 6 del predetto D.Lgs. n. 68 del 2011, «per assicurare la razionalità del sistema tributario nel suo complesso e la salvaguardia dei criteri di progressività cui il sistema medesimo è informato, le regioni possono stabilire aliquote dell'addizionale regionale all'IRPEF differenziate esclusivamente in relazione agli scaglioni di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalla legge statale». Orbene, sfruttando questa possibilità di variare in aumento l’aliquota di base, la Regione Puglia ha al tempo stesso deciso di farlo secondo un modulo progressivo, introducendo una maggiorazione pari allo 0,1 per cento per i redditi rientranti nel primo scaglione Irpef (fino a 15 mila euro), pari allo 0,2 per cento per i redditi compresi nel secondo scaglione Irpef (da 15 mila fino a 28 mila euro), e pari allo 0,5 per cento per quelli che si collocano nel terzo e nei successivi scaglioni, cioè per tutti i redditi eccedenti la soglia di 28 mila euro. Secondo la Presidenza del Consiglio dei Ministri, però, in questo modo la legge regionale, prevedendo l’applicazione di un’unica aliquota per una fascia di redditi particolarmente estesa (quelli eccedenti i 28 mila euro), avrebbe violato il principio costituzionale di progressività sancito dall’art. 53, secondo comma, ponendosi altresì in contrasto con le norme statali in materia di rimodulazione delle aliquote dell’addizionale regionale Irpef, dato che queste imporrebbero l’applicazione integrale degli scaglioni fissati dal legislatore statale, così 1 Nota a Corte Cost., sentenza del 15 gennaio 2014, n. 8. 2 Addizionale istituita dall’art. 50 del D.Lgs. n. 446 del 1997. 3 In tal caso entro un certo limite massimo prefissato dalla legge statale.
violando l’art. 117 terzo comma Cost. ed il principio del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. La Corte ha tuttavia ritenuto infondata la questione sia con riguardo alla presunta violazione dell’art. 53 e del principio di progressività , sia con riferimento alla asserita violazione dell’art. 117 terzo comma, con argomentazioni tra loro sinergiche, che sollecitano qualche riflessione supplementare. 2. La Corte osserva, in primo luogo e richiamando la propria precedente giurisprudenza, che «la progressività è principio che deve informare l’intero sistema tributario nel suo complesso e non il singolo tributo», e che nel caso di specie la progressività dell’Irpef «non è certo messa in discussione dalle modeste (rispetto alle aliquote statali) addizionali regionali». L’affermazione è pienamente condivisibile: come sapevano benissimo anche i costituenti, non tutte le imposte possono essere conformate al principio di progressività. Si veda, segnatamente, la dichiarazione dell’On.le Salvatore Scoca all’assemblea costituente, il quale, dopo aver perorato il principio di progressività, osservò che «naturalmente, con questa enunciazione non vogliamo dire — né lo potremmo — che tutte indistintamente le imposte debbono essere progressive, perché ben sappiamo come ciò sarebbe impossibile o scientificamente errato; perché ben sappiamo che la progressione non si addice alle imposte dirette reali e può trovare solo inadeguata e indiretta applicazione nelle imposte sui consumi e nelle imposte indirette in generale». Detto questo, la questione di costituzionalità sollevata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a mio avviso piuttosto formalisticamente e forse per una questione di «posizionamento preventivo» rispetto ad un atto di esercizio di autonomia impositiva da parte di una Regione, risiedeva non tanto in un preteso sovvertimento della progressività del sistema o del singolo tributo in discussione (l’Irpef), quanto in un deficit di progressività rispetto a quella voluta dal legislatore statale con riguardo all’intera curva delle aliquote dell’imposta personale sul reddito complessivo. Secondo la tesi sostenuta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, «l’applicazione di un’unica aliquota (pari allo 0,5 per cento) per una fascia di redditi particolarmente estesa (dai 28 mila euro annui sino a tutti i redditi oltre i 75 mila euro annui)… violerebbe i parametri costituzionali sopra citati», tra cui appunto l’art. 53 secondo comma della Costituzione. Sennonché, come puntualmente rilevato dalla Corte, il principio di progressività va riferito all’intero sistema, e sono dunque con esso compatibili non solo tributi - diciamo così – a progressività attenuata, ma altresì prelievi proporzionali o finanche regressivi4. 4 Rammento che, in base ad una diffusa opinione, per garantire il rispetto del principio di progressività del sistema sarebbe sufficiente che alcuni tra i tributi più importanti per entità del gettito abbiano carattere progressivo, come accade nel nostro ordinamento per l’Irpef, che è un’imposta progressiva da cui deriva circa un terzo del gettito complessivo delle entrate tributarie. Ci si deve dunque accontentare di un giudizio di larga massima, visto che il grado di progressività del sistema non può essere misurato con esattezza: se è possibile attraverso indici statistici misurare il grado di progressività dell’imposta sul reddito, è pressoché impossibile misurare la progressività dell’intero sistema tributario, in assenza di una completa mappatura delle ricchezze e dei tributi pagati dai singoli.
Inoltre, le modalità con cui attuare la progressività dei singoli tributi, e, mediatamente, quella dell’intero sistema, sono pressoché interamente rimesse alla discrezionalità del legislatore. Come la stessa sentenza della Corte dimostra, ciò conferma le difficoltà in cui si imbattono quei tentativi ermeneutici volti a suggerire al legislatore un certo tipo di progressività, ovvero una progressività che non si arresti ai redditi medi ma differenzi adeguatamente questi ultimi rispetto ai redditi delle fasce più elevate. Il Governo aveva infatti prospettato una violazione dell’art. 53, nonché di altri parametri5, per un difetto di progressione dell’aliquota dell’addizionale regionale, posto che questa parificava i possessori di redditi medi a quelli di redditi elevati, stabilendo che l’aliquota marginale massima si applicasse a tutti i redditi eccedenti la soglia di 28 mila euro annui. Quest’argomento non sembra però aver fatto presa sulla Corte, anche se la stessa ha per la verità valutato l’impatto dell’addizionale sui diversi scaglioni di reddito guardando al prelievo regionale non già in modo isolato ed atomistico, bensì congiuntamente a quello erariale cui il primo accedeva, osservando così che «nel caso di specie è anche l’imposta specifica (l’Irpef) a essere significativamente progressiva e che tale qualità non è certo messa in discussione dalle modeste (rispetto alle aliquote statali) addizionali regionali». La valutazione della Corte contenuta nella sentenza n. 8 del 2014, insomma, non è necessariamente indicativa di quello che potrebbe essere il giudizio laddove il legislatore statale rimodulasse l’Irpef attenuando la progressività sui redditi elevati. A mio avviso un tale giudizio non potrebbe tuttavia essere diverso: il principio di progressività sancito dall’art. 53 secondo comma della Costituzione, infatti, indica al legislatore ordinario una direzione da seguire nella progettazione del «sistema tributario», ma non impone che, una volta imboccata la strada della progressività, questa debba necessariamente tradursi in una progressività estrema, moderata, o di altra natura, né lo vincola ad utilizzare una progressività basata sulla graduazione delle aliquote o sull’introduzione di deduzioni e detrazioni: i «criteri» di progressività cui il sistema tributario deve essere informato non impongono nemmeno l’adozione di aliquote graduate, giacché la progressione del prelievo 6 può essere ottenuta anche adottando imposte ad aliquota proporzionale con esenzione alla base e/o un sistema di deduzioni o detrazioni descrescenti al crescere del reddito. Allo stesso modo, il legislatore resta libero, una volta introdotto un certo grado di progressione in un certo tributo o in un insieme di tributi, e così indirettamente nel sistema, di tornare sui propri passi modificando le scelte compiute, rimodulando le aliquote e se del caso attenuando il grado di 5 Probabilmente, la ipotizzata violazione dell’art. 3 era stata dal Governo prospettata in modo congiunto a quella dell’art. 53, sotto il profilo della «parità di trattamento» di situazioni disuguali, in quanto l’aliquota marginale massima fissata dalla legge regionale avrebbe trovato applicazione sia ai possessori di redditi medi che ai contribuenti titolari di redditi elevati. La questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 3 è stata tuttavia dichiarata inammissibile dalla Corte in quanto non argomentata nel ricorso governativo, anche se la stessa risulta implicitamente trattata e rigettata attraverso l’esame della presunta violazione dell’art. 53. 6 Che tecnicamente si realizza quando l’aliquota marginale del prelievo è maggiore dell’aliquota media.
progressività precedente7. Non sembra dunque molto sensato prospettare una violazione dell’art. 53 da parte di normative che abbiano l’effetto di diminuire il tasso di progressività del sistema attraverso un appiattimento della curva delle aliquote, come era avvenuto, sia pure in modo appena percettibile, con la legge della Regione Puglia sottoposta al giudizio della Corte. 3. Si tratta a questo punto di stabilire se nel caso di specie il legislatore regionale avesse ecceduto nell’esercizio del proprio ambito di discrezionalità, che risultava circoscritto dalla legge statale attuativa dei principi del federalismo fiscale sanciti dalla L. n. 42 del 2009. Come visto sopra, a mente del comma 4 dell’art. 6 del predetto d.lgs. 68/2011, «per assicurare la razionalità del sistema tributario nel suo complesso e la salvaguardia dei criteri di progressività cui il sistema medesimo è informato, le regioni possono stabilire aliquote dell'addizionale regionale all'IRPEF differenziate esclusivamente in relazione agli scaglioni di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalla legge statale». Ora, secondo la tesi del Presidente del Consiglio dei Ministri, la legge regionale impugnata, nell’avvalersi della possibilità di graduare le aliquote dell’addizionale regionale Irpef, avrebbe violato il principio stabilito dalla norma statale di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (e con esso l’art. 117 terzo comma Cost.), non differenziando adeguatamente le aliquote in relazione a tutti gli scaglioni di reddito previsti dal D.p.R. n. 917 del 1986 (Tuir), e trattando così allo stesso modo i redditi medi e quelli elevati. La Corte ha rigettato la questione osservando che l’art. 6 del D.Lgs. n. 68 del 2011, contrariamente a quanto era stato sostenuto dal Governo ricorrente, «non impone l’obbligo di osservare integralmente tutti gli scaglioni statali, restando così affidati direttamente al principio costituzionale di progressività – nei sensi prima chiariti – i limiti del potere regionale di differenziazione delle addizionali e della loro misura». Mi sembra possibile aggiungere che la differenziazione delle aliquote dell’addizionale è appunto, per le Regioni, soltanto una facoltà, e il suo mancato esercizio implica l’adozione di un’aliquota unica per tutti gli scaglioni di reddito. Detto in altri termini, le Regioni non hanno alcun obbligo di graduare l’aliquota dell’addizionale, dunque di introdurre un tasso ancorché minimo di progressività. Non si vede, allora, perché dovrebbe essere censurata la scelta di graduare le aliquote sotto il profilo di una «insufficiente» progressività sui redditi elevati. Sarebbe infatti contraddittorio riconoscere alle Regioni la facoltà di non incrementare l’aliquota di base o di introdurre una maggiorazione uguale per tutti gli scaglioni di reddito, ed al contempo imporre un certo andamento nella curva delle aliquote una volta decisa la loro differenziazione. Se infatti è legittima l’opzione per una addizionale proporzionale, cioè «non progressiva», non si comprende perché la diversa opzione per la progressività dovrebbe necessariamente avere una certa «intensità minima».
7 Su questi aspetti si consenta di rinviare a D. Stevanato, La giustificazione sociale dell’imposta. Tributi e determinabilità della ricchezza tra diritto e politica, Bologna, Il Mulino, 2014, pagg. 453 ss. (in corso di pubblicazione).
La verità è che il vincolo posto dalla legge statale, cioè quello di differenziare le aliquote dell’addizionale «esclusivamente in relazione agli scaglioni di reddito corrispondenti a quelli stabiliti dalla legge statale», mira esclusivamente ad evitare che le Regioni riformulino gli scaglioni stabiliti dall’art. 11 del testo unico delle imposte sui redditi, per elementari ragioni di omogeneità, razionalità, semplicità applicativa, e per non aggravare la compliance dei contribuenti, ma non impone affatto di differenziare le aliquote in relazione ad ogni scaglione, anche perché – come poc’anzi osservato - un obbligo del genere risulterebbe contraddittorio rispetto alla possibilità di approvare un’unica aliquota proporzionale, eventualmente maggiorata rispetto a quella di base, applicabile all’intero reddito posseduto. A conclusione di queste note, si può formulare un’ultima osservazione, di carattere politico-istituzionale più che strettamente giuridico. È abbastanza singolare, in effetti, che dopo la grande enfasi posta sui temi del federalismo fiscale e sull’esigenza di attribuire a regioni ed enti locali un’autonomia tributaria maggiore di quella di cui gli stessi godevano in passato, l’organo esecutivo dello Stato ricorra alla Corte Costituzionale per contestare i modi di esercizio di quei (piuttosto esegui) margini di autonomia tributaria attribuiti alle regioni dalla legge delega n. 42 del 2009 e dalla successiva legislazione attuativa. Sembra proprio che lo Stato, nonostante altisonanti dichiarazioni di principio e di indirizzo politico, abbia il timore di vedere eroso il proprio tradizionale monopolio nella gestione della finanza pubblica e nelle decisioni concernenti le entrate tributarie e le politiche fiscali 8. Il ricorso che ha originato la sentenza qui commentata appare più un riflesso pavloviano e un retaggio del passato (e forse un segno premonitore dei futuri assetti istituzionali) che un consapevole e ponderato esercizio del potere di sindacare il corretto esercizio delle competenze regionali attraverso un’impugnazione in via principale.
8 Come oltretutto palesano le recenti proposte di riforma istituzionale nei rapporti Stato-regioni, che sembrano svelare un disegno neo-centralistico.
La Corte costituzionale pone un altro “tassello” in materia di prorogatio dei Consigli regionali* di Giovanna Perniciaro** (4 luglio 2014) La disciplina della prorogatio dei Consigli regionali – che già nella vigenza dell’originario Titolo V Cost. aveva sollevato alcuni dubbi interpretativi – è divenuta, a seguito della novella costituzionale del 1999, materia di competenza statutaria, in quanto attinente alla forma di governo: la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarirlo con la sentenza n. 196 del 2003, nella quale ha anche evidenziato che rimane, invece, nella disciplina della competenza statale il solo caso di scioglimento anticipato di tipo “sanzionatorio”, ex art. 126 Cost., primo comma. In seguito, la Corte è tornata sul tema della prorogatio delle assemblee regionali in un solo altro caso: con la sent. n. 68 del 2010 ha dichiarato illegittime due leggi approvate dal Consiglio della Regione Abruzzo, dopo le dimissioni del Presidente della Giunta (coinvolto in vicende giudiziarie), sebbene lo statuto regionale non “limitasse” i poteri degli organi durante il periodo di prorogatio. La decisione, dunque, da un lato, aveva ribadito la competenza del legislatore statutario, dall’altro, ne aveva circoscritto le scelte, partendo dal presupposto che una limitazione dei poteri del Consiglio regionale è “connaturale” all’istituto (a prescindere da una espressa indicazione statutaria in tal senso) (D. Coduti, La prorogatio dei Consigli regionali: l’armonia con la Costituzione tra uniformità e omogeneità, www.issirfa.cnr.it, 2011). La sentenza n. 181 del 2014 risulta, dunque, interessante, anzitutto perché la Corte torna su un tema poco affrontato (ancorché non privo di profili problematici), ma anche perché appare una decisione a tratti contraddittoria. Il caso nasce dell’impugnativa, da parte del governo, di una legge regionale in materia di attività economiche, tutela ambientale, difesa del territorio, gestione del territorio, infrastrutture, lavori pubblici, edilizia e trasporti, attività culturali, ricreative e sportive, relazioni internazionali e comunitarie, istruzione, corregionali all’estero, ricerca, cooperazione e famiglia, lavoro e formazione professionale, sanità pubblica e protezione sociale, funzione pubblica, autonomie locali, affari istituzionali, economici e fiscali generali – la cui rubrica è di per sé sintomatica dell’eterogeneità dei contenuti – approvata dal Consiglio della Regione Friuli-Venezia Giulia il 21 marzo 2013, dopo che il 4 marzo il Presidente della Regione aveva fissato con decreto i comizi elettorali, per il 22-23 aprile 2013. Data di convocazione dei comizi che, per il vero, era già stata individuata da una precedente deliberazione della Giunta regionale, del 13 febbraio 2013. A fronte di tali tempistiche, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato l’intero testo della legge regionale, ritenendo violati «i principi generali dell’ordinamento in tema di prorogatio», parametri che però ad avviso della Corte non sono «pertinenti, perché attengono a fattispecie strutturalmente diverse da quelle cui» la censura si riferisce (va, peraltro, aggiunto che l’impugnativa è riferita anche ad alcune specifiche disposizioni della legge regionale, che la Corte ha in parte dichiarato illegittime). Per arrivare alla inammissibilità sul punto, la Corte muove da due presupposti. Anzitutto, chiarisce che il Consiglio regionale non si trovava in prorogatio, posto che tale istituto presuppone la scadenza, naturale o anticipata, dell’organo (e, nel caso di specie, il 21 marzo il mandato del Consiglio regionale friulano non si era ancora concluso). In secondo luogo, poiché né nello statuto, né nella legge statutaria della Regione Friuli-Venezia Giulia, che disciplina la forma di governo, è possibile rinvenire limiti ai poteri del Consiglio nella fase che ne precede la scadenza, la Corte non può ricavarli in via interpretativa (il riferimento è alla disciplina posta dall’art. 3, c.2, della l.n. 108 del 1968, che – come interpretata dalla Corte costituzionale – dispone che i Consigli regionali a partire dal 46° giorno antecedente la data delle elezioni dispongono di poteri attenuati. Sul punto, sentt. *
Scritto sottoposto a referee.
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n. 468/1991 e n. 515/1995, su quest’ultima E. Gianfrancesco, Legge regionale approvata a fine legislatura e sindacabilità dei motivi posti a fondamento del suo rinvio, in Giurisprudenza costituzionale, 1996, p. 2683 s.). Fin qui la motivazione del Giudice delle leggi va, dunque, nella direzione di distinguere la fase della prorogatio “in senso stretto”, nella quale una limitazione dei poteri del Consiglio è da ritenere “immanente”, e la fase di “prescadenza”, in cui (sembrerebbe) la Regione può scegliere se limitare o meno tali poteri. L’impressione è, tuttavia, che la differenziazione appena richiamata sia utile “soltanto” al fine di dichiarare l’inammissibilità della questione. La Corte sembra, infatti, contraddirsi in un passaggio immediatamente successivo (lasciando, peraltro, trasparire un rispetto più formale che non sostanziale dell’autonomia della Regione). Nell’ultima parte della motivazione dedicata alla prorogatio, il giudice costituzionale lancia infatti una sorta di “monito” al legislatore statutario regionale: l’assenza, nella legge statutaria, di una previsione in grado di assicurare che, «nell’immediata vicinanza al momento elettorale», il Consiglio non ponga in essere interventi legislativi che possano essere interpretati come una forma di captatio benevolentie nei confronti degli elettori è in contrasto con l’art. 12 dello statuto regionale, secondo cui la legge regionale che determina la forma di governo della Regione deve porsi in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica. A differenza della prima parte del ragionamento, la Corte torna a ricordare che l’istituto della prorogatio è necessario a coniugare il principio della rappresentatività politica del Consiglio regionale con quello della continuità funzionale dell’organo. Bilanciamento, quello appena richiamato, che porta a ritenere che anche «nell’immediata vicinanza al momento elettorale […] il Consiglio regionale» deve limitarsi ad assumere «determinazioni del tutto urgenti o indispensabili […], al fine di assicurare una competizione libera e trasparente, da ogni intervento legislativo che possa essere interpretato come una forma di captatio benevolentiae nei confronti degli elettori» (sent. 68/2010). Un’attenuazione dei poteri del Consiglio è dunque necessaria anche nel periodo che precede le elezioni regionali (prima della scadenza). Per questo, dopo aver dichiarato inammissibile la questione, la Corte “invita” il legislatore regionale speciale a porre rimedio alla lacuna della legge statutaria. Ma, se così è (e, dunque se la Regione non è libera di scegliere “se” limitare o meno i poteri del Consiglio), la Corte si sarebbe allora, forse, potuta spingere fino a esplicitare la dizione nella «immediata vicinanza elettorale», arrivando a sostenere che il dies a quo decorre dalla data di convocazione dei comizi (dai quali peraltro ha inizio, almeno formalmente, la campagna elettorale), come del resto avviene per le Camere (alla cui disciplina della prorogatio la Corte costituzionale si è in più occasioni richiamata). Quella appena menzionata, invece, è solo una delle soluzioni prospettate dalla Corte, la quale non soltanto fa riferimento alla possibilità che la Regione individui «la soluzione normativa più idonea a salvaguardare» l’esigenza di assicurare una competizione elettorale libera, ma sembra lasciare spazio a discipline ulteriori rispetto a quella statutaria (del resto, già nella sent. 68/2010, la Corte aveva chiarito che i limiti “connaturali” alla prorogatio possono essere espressi nella disciplina statutaria, o eventualmente «tramite apposite disposizioni legislative di attuazione dello statuto o anche semplicemente» rilevare «nei lavori consiliari o dallo specifico contenuto delle leggi»). Vi è, poi, un altro aspetto della decisione, legato a quelli appena richiamati, che lascia perplessi. Se dunque, l’assemblea legislativa ha poteri limitati “in prossimità dell’appuntamento elettorale”, sia durante la prorogatio sia prima della scadenza, perché riservare una disparità di trattamento alla legge statutaria e allo statuto ordinario? Senza negare le differenze tra le due fonti (A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, II ed., 2013, p. 237 s.), poco comprensibile risulta infatti il diverso atteggiamento della Corte a seconda che a non rispettare un principio «immanente» all’istituto della prorogatio (o della “pre-scadenza”) sia lo statuto ordinario o la legge statutaria. 2
Nelle tre decisioni (sentt. 196/2003, 68/2010 e 181/2014), la Corte costituzionale non dubita che la prorogatio sia materia da disciplinare con fonti regionali. Tuttavia, nel caso dello statuto ordinario, privo dell’indicazione dei limiti che il Consiglio deve rispettare durante la prorogatio, la Corte lo “interpreta” nel rispetto dei precetti e dei principi «tutti ricavabili dalla Costituzione», e dichiara illegittime le leggi regionali approvate in regime di prorogatio. Nel caso della legge statutaria, invece, pur partendo di fatto dai medesimi presupposti, la Corte non “integra” la legge statutaria, ma si limita a “suggerire” al legislatore regionale speciale di intervenire. Un ultimo cenno solo per evidenziare che l’individuazione del termine a partire dal quale (nel caso di scadenza naturale dell’organo) il Consiglio regionale ha poteri attenuati è pressoché assente nella maggior parte degli statuti. Circostanza, forse almeno in parte, da attribuire alla distribuzione, tra diverse fonti, di competenze in qualche modo intrecciate alla disciplina della prorogatio, e in particolare l’indizione delle elezioni, che, in quanto parte del procedimento elettorale, è adesso disciplinata dalle leggi elettorali regionali (almeno per le Regioni ordinarie, essendo invece la materia elettorale e la forma di governo entrambe affidate alla legge statutaria nelle Regioni speciali). ** Assegnista di ricerca di Istituzioni di Diritto pubblico – Università di Roma “LUISS”
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COLLOCAMENTO A RIPOSO DOCENTI DI MATERIE CLINICHE: COMMENTO A CORTE COSTITUZIONALE, 9 MAGGIO 2013, n. 83 * di Paolo De Angelis** (9 luglio 2014) Sommario: 1. Inquadramento normativo. - 2. La disciplina vigente alla data di emanazione della sentenza in commento. - 3. La sentenza della Corte costituzionale e i dubbi applicativi da essa scaturenti. - 4. La disciplina applicabile per il collocamento a riposo dei docenti medici. - 5. Conclusioni.
1. Inquadramento normativo La disciplina del collocamento a riposo dei docenti universitari è stata oggetto, negli anni, di una pluralità di normative e di interventi giurisprudenziali non sempre tra loro concordanti; in riferimento al collocamento a riposo dei docenti di materie cliniche, poi, la disciplina è ancora più complessa dovendo essere armonizzata con quella propria dei dirigenti medici. Per tali ragioni, al fine di comprendere l’esatta portata che la sentenza in commento avrà sui docenti di materie cliniche, ritengo opportuno un breve esame della pregressa normativa. 1. Inizialmente lo stato giuridico ed economico dei docenti universitari era regolato dal Regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 (recante Approvazione del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – da ora, GU – 7 dicembre 1933, n. 283) che disponeva, all’art. 110 1, il collocamento a riposo dei professori che avessero compiuto il 75° anno di età. 2. Con l’articolo unico2 del decreto luogotenenziale del Capo provvisorio dello Stato 26 ottobre 1947, n. 1251 (recante Disposizioni per il collocamento fuori ruolo dei professori universitari che hanno raggiunto i limiti di età e pubblicato * Già pubblicato in “Sanità pubblica e privata” 1 1. I professori, compiuto il 75° anno di età, vengono collocati a riposo. 2. Coloro che compiono il 75° anno di età durante l’anno accademico, se abbiano effettivamente iniziato il corso, conservano l’ufficio fino al termine dell’anno accademico medesimo. 3. Qualora un professore collocato a riposo per limiti di età, ricopra anche l’ufficio di rettore di università o di direttore di istituto superiore, può continuare in tale ufficio sino alla scadenza del biennio per il quale è stato nominato (comma abrogato dall’art. 1, c. 6, D.lgs. lgt. 1257/1947, nel testo aggiunto dalla legge di ratifica, 480/1950 N.D.A.). 4. I professori possono essere dispensati dal servizio, con Decreto del ministro su conforme parere del consiglio superiore dell’educazione nazionale, ove si accerti che prima di raggiungere il limite di età di cui al comma primo, non sono più in grado di adempiere con sufficiente efficacia le mansioni del loro ufficio. Gli interessati possono presentare al consiglio superiore le loro deduzioni. 2 1. I professori universitari, compiuto il 70° anno di età, assumono la qualifica di professori fuori ruolo fino a tutto l’anno accademico durante il quale compiono il 75° anno. Le cattedre ed i relativi posti di ruolo sono considerati vacanti ai sensi e per gli effetti delle disposizioni vigenti; le facoltà provvederanno all’insegnamento nelle forme e con le modalità stabilite dalle disposizioni medesime (comma così sostituito dalla L. 4 luglio 1950, n. 498 N.D.A.). 2. Coloro che compiono il 70° anno di età durante l’anno accademico, se abbiano effettivamente iniziato il corso, conservano l’ufficio di professori di ruolo fino al termine dell’anno accademico medesimo. 3. Con l’inizio dell’anno accademico successivo a quello in cui hanno compiuto il 75° anno di età, i professori predetti vengono collocati a riposo. 4. Salvo quanto è stabilito dal successivo articolo, i professori, nella posizione di cui al primo comma del presente articolo conservano le prerogative accademiche che, ai sensi delle vigenti disposizioni, sono inerenti allo stato di professore di ruolo, con l’integrale trattamento economico ad esso relativo. 5. Nondimeno nella determinazione del numero di professori cui va riferita la maggioranza prevista dagli artt. 73 e 93 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore, nonché quella prevista per l’attribuzione dei posti di ruolo a materie d’insegnamento non si tiene conto dei professori fuori ruolo (comma così aggiunto dalla L. 4 luglio 1950, n. 498 N.D.A.). 6. Il terzo comma dell’art. 110 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore, approvato con regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, è abrogato (comma così aggiunto dalla L. 4 luglio 1950, n. 498 N.D.A.).
nella GU 22 novembre 1947, n. 269), ratificato con legge 480/1950, si stabilì che dopo il compimento del 70° anno di età i professori universitari assumessero la qualifica di fuori ruolo fino a tutto l’anno accademico durante il quale compivano i 75 anni. 3. Con la legge 18 marzo 1958, n. 311 (recante Norme sullo stato giuridico ed economico dei professori universitari e pubblicata nella GU 15 aprile 1958, n. 91)3, agli articoli 144 e 155 si dispose in senso sostanzialmente conforme alla precedente disciplina. 4. Con il decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (recante Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica e pubblicato nella GU 31 luglio 1980, n. 209), all’art. 19 (Collocamento fuori ruolo e collocamento a riposo)6, sono state differenziate le categorie dei professori ordinari e associati, prevedendosi la collocazione fuori ruolo a decorrere dall’anno accademico successivo al compimento del 65° anno di età per i professori associati ed a riposo cinque anni dopo il collocamento fuori ruolo mentre per i professori ordinari furono mantenuti i limiti rispettivi di 70 e 75 anni. 5. La legge 7 agosto 1990, n. 239 (recante Disposizioni sul collocamento fuori ruolo dei professori universitari e pubblicata nella GU 17 agosto 1990, n. 191), nei primi due dei tre articoli di cui è composta prevedeva una disposizione 3 Il comma 1 dell’art. 1, D.Lgs. 1° dicembre 2009, n. 179, in combinato disposto con l’allegato 1 allo stesso decreto, come modificato dall’allegato C al D.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 213, ha ritenuto indispensabile la permanenza in vigore del presente provvedimento, limitatamente agli articoli da 1 a 7, 8 comma 1, e da 9 a 31.
4 1. Il professore universitario, con l’inizio dell’anno accademico successivo a quello in cui compie il 70° anno di età, assume la qualifica di professore fuori ruolo, ai sensi del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 26 ottobre 1947, n. 1251, ratificato, con modificazioni, con legge 4 luglio 1950, n. 498. 2. Ai professori di cui all’art. 19 del decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 238 è data facoltà di chiedere il collocamento fuori ruolo, a norma del precedente comma. 3. Ai fini della determinazione del numero legale richiesto per la validità delle adunanze del Corpo accademico e del Consiglio di facoltà, si tiene conto del professore fuori ruolo soltanto se intervenga all’adunanza. 4. Qualora la deliberazione debba essere adottata con la maggioranza assoluta dei professori «appartenenti alla Facoltà», si tiene conto del professore fuori ruolo solo nel caso che intervenga all’adunanza. 5. I professori collocati fuori ruolo, ai sensi del presente articolo, possono essere eletti o rieletti all’ufficio di rettore o di preside, dal quale cessano all’atto del collocamento a riposo, se si tratta della carica di preside; mentre, per l’ufficio di rettore, il professore che lo ricopre, nell’atto che è collocato a riposo nei limiti di età può continuare in tale ufficio fino alla scadenza del triennio per il quale era stato eletto (comma abrogato dalla lettera a) del comma 11 dell’art. 29, L. 30 dicembre 2010, n. 240 N.D.A.).
5 1. I professori universitari sono collocati a riposo con l’inizio dell’anno accademico successivo a quello in cui compiono il 75° anno di età. 2. Ai professori collocati a riposo può essere conferito il titolo di professore emerito o di professore onorario, ai sensi dell’art. 111 del testo unico delle leggi sulla istruzione superiore approvato con regio decreto 31 agosto 1933, numero 1592. 3. Nulla è innovato alle disposizioni del comma ultimo dell’art. 110 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore sopra citato.
6 1. I professori associati sono collocati fuori ruolo a decorrere dall’inizio dell’anno accademico successivo al compimento del sessantacinquesimo anno di età e a riposo cinque anni dopo il collocamento fuori ruolo. 2. Al professore fuori ruolo si applicano le stesse norme previste per i professori ordinari, salvo l’obbligo di presentare la relazione di cui all’art. 18 e salvo che non sia diversamente disposto. 3. La loro partecipazione all’attività didattica e scientifica e agli organi accademici resta regolata dalle norme attualmente in vigore. 4. Le competenti autorità accademiche determineranno i compiti didattici e scientifici dei professori fuori ruolo in relazione al loro impegno a tempo pieno o a tempo definito. Il DPR 382/80 fu emanato in base alla delega contenuta nella L. 28/80, recante Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica e fu modificato in modo sostanziale dalla L. 705/85, recante Interpretazione, modificazioni ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica.
6.
specifica per il collocamento fuori ruolo dei professori ordinari (art. 1) 7 e dei professori associati (art. 2)8. Il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (recante Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421 e pubblicato nella GU 30 dicembre 1992, n. 305), all’art. 15-nonies (Limite massimo di età per il personale della dirigenza medica e per la cessazione dei rapporti convenzionali)9 aggiunto dall’art. 13, D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, ha previsto, per la prima volta, un disallineamento tra l’età pensionabile del docente medico dal punto di vista universitario e assistenziale; la norma dispone, infatti, che al raggiungimento di una determinata età il personale medico universitario cessi dallo svolgimento delle attività assistenziali benché
7 1. Il collocamento fuori ruolo dei professori universitari ordinari di cui all’articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, è opzionale, fermo restando il collocamento a riposo dall’inizio dell’anno accademico successivo al compimento del settantesimo anno di età. Sono fatte salve le disposizioni più favorevoli previste per coloro che siano in possesso di specifici requisiti. 2. L’opzione può essere esercitata con domanda da presentare a partire dal sessantacinquesimo anno di età e non oltre il compimento del sessantanovesimo anno di età; ha effetto dall’anno accademico successivo e, dopo il collocamento fuori ruolo, non può essere revocata. 3. La disposizione del comma 1 si applica, a domanda da presentare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai professori universitari ordinari collocati fuori ruolo a norma dell'articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, sempre che essi non abbiano già raggiunto il sessantanovesimo anno di età. Qualora si sia già provveduto alla copertura dei posti resisi vacanti a seguito del collocamento fuori ruolo disposto in applicazione del medesimo articolo 19 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980, e non sia possibile al professore riammesso in ruolo di riassumere il suo insegnamento, il consiglio di facoltà provvede a norma dell'articolo 9 dello stesso decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980.
8 1. I professori universitari associati, fatte salve le disposizioni più favorevoli previste per coloro che siano in possesso di specifici siti, sono collocati fuori ruolo a decorrere dall'inizio dell’anno accademico successivo al compimento del sessantacinquesimo anno di età, e a riposo cinque anni dopo il collocamento fuori ruolo. 2. I professori associati collocati a riposo ai sensi dell’articolo 24, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, come sostituito dall’articolo 6 della legge 9 dicembre 1985, n. 705, sono riammessi, a domanda, in servizio e contestualmente collocati fuori ruolo a decorrere dall'anno accademico successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, sempre che essi non raggiungano il settantesimo anno di età entro l’anno accademico in corso. La domanda di riammissione deve essere presentata entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. 3. Le competenti autorità accademiche determinano i compiti didattici e scientifici dei professori associati fuori ruolo in relazione al loro impegno a tempo pieno o a tempo definito. 4. Sono fatti salvi i provvedimenti di esclusione dai concorsi per l’accesso alla prima fascia già adottati, se motivati dal raggiungimento del sessantancinquesimo anno di età del professore associato candidato.
9 1. Il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età, ovvero, su istanza dell’interessato, al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età e la permanenza in servizio non può dar luogo ad un aumento del numero dei dirigenti. È abrogata la legge 19 febbraio 1991, n. 50, fatto salvo il diritto a rimanere in servizio per coloro i quali hanno già ottenuto il beneficio (comma così modificato dal comma 1 dell’art. 22, L. 4 novembre 2010, n. 183 N.D.A.). 2. Il personale medico universitario di cui all’articolo 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, cessa dallo svolgimento delle ordinarie attività assistenziali di cui all’articolo 6, comma 1, nonché dalla direzione delle strutture assistenziali, al raggiungimento del limite massimo di età di sessantasette anni. Il personale già in servizio cessa dalle predette attività e direzione al compimento dell’età di settanta anni se alla data del 31 dicembre 1999 avrà compiuto sessantasei anni e all’età di sessantotto anni se alla predetta data avrà compiuto sessanta anni. I protocolli d’intesa tra le regioni e le Università e gli accordi attuativi dei medesimi, stipulati tra le Università e le aziende sanitarie ai sensi dell’articolo 6, comma 1, disciplinano le modalità e i limiti per l’utilizzazione del suddetto personale universitario per specifiche attività assistenziali strettamente correlate all’attività didattica e di ricerca (la Corte costituzionale, con sentenza 7-16 marzo 2001, n. 71, ha dichiarato l’illegittimità del presente comma nella parte in cui dispone la cessazione del personale medico universitario di cui all’art. 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, dallo svolgimento delle ordinarie attività assistenziali, nonché dalla, direzione delle strutture assistenziali, al raggiungimento dei limiti massimi di età ivi indicati, in assenza della stipula dei protocolli d’intesa tra università e regioni previsti dalla stessa norma ai fini della disciplina delle modalità e dei limiti per l’utilizzazione del suddetto personale universitario per specifiche attività assistenziali strettamente connesse all’attività didattica e di ricerca N.D.A.). 3. Le disposizioni di cui al precedente comma 1 si applicano anche
sia ancora in costanza di rapporto con l’Università. 7. Con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (recante Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421, pubblicato nella GU. 30 dicembre 1992, n. 305), all’art. 16 (Prosecuzione del rapporto di lavoro)10, fu introdotta la facoltà per tutti i dipendenti civili dello Stato di chiedere il trattenimento in servizio per un biennio oltre i limiti di età. 8. Con la legge 28 dicembre 1995, n. 549 (recante Misure di razionalizzazione della finanza pubblica e pubblicata nella GU 29 dicembre 1995, n. 302), all’art. 1, c. 3011, si stabilì che la durata del collocamento fuori ruolo dei professori universitari, sia ordinari sia associati, fosse ridotta a tre anni; ciò al fine di ricondurre agli originari limiti temporali il periodo che l’art. 16 del D.Lgs. 503/92 aveva dilatato di due ulteriori anni. 9. Con la legge 4 novembre 2005, n. 230 (recante Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari e pubblicata nella GU 5 novembre 2005, n. 258), all’art. 1, commi 17, 18, 19 12, sono modificati alcuni aspetti del nei confronti del personale a rapporto convenzionale di cui all’articolo 8. In sede di rinnovo delle relative convenzioni nazionali sono stabiliti tempi e modalità di attuazione (Per la sospensione dell’efficacia della disposizione di cui al presente comma vedi il comma 2- ter dell’art. 8 del presente provvedimento, aggiunto dall’art. 6, D.Lgs. 28 luglio 2000, n. 254 N.D.A.). 4. Restano confermati gli obblighi contributivi dovuti per l’attività svolta, in qualsiasi forma, dai medici e dagli altri professionisti di cui all’articolo 8 (la Corte costituzionale, con ordinanza 12-25 luglio 2001, n. 303, ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15-nonies aggiunto dall’art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 , sollevate in riferimento agli articoli 3, 9, 36, 76 e 77 della Cost. N.D.A.). 10 1. È in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti. In tal caso è data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi. La disponibilità al trattenimento va presentata all’amministrazione di appartenenza dai ventiquattro ai dodici mesi precedenti il compimento del limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento. I dipendenti in aspettativa non retribuita che ricoprono cariche elettive esprimono la disponibilità almeno novanta giorni prima del compimento del limite di età per il collocamento a riposo (comma così modificato prima dall’art. 1-quater, D.L. 28 maggio 2004, n. 136, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, poi dall’art. 33, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 e dall’art. 72, comma 7, D.L. 25 giugno 2008, n. 112 e dal comma 2 dell’art. 22, L. 4 novembre 2010, n. 183 e, infine, dalle lettere a), b) e c) del comma 17 dell’art. 1, D.L. 13 agosto 2011, n. 138 . Vedi, anche, i commi 8, 9 e 10 del suddetto articolo 72, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, il D.P.R. 19 luglio 2005 e il comma 8-bis dell’art. 1, D.L. 10 novembre 2008, n. 180, aggiunto dalla relativa legge di conversione N.D.A.) . 1-bis. Per le categorie di personale di cui all’articolo 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, la facoltà di cui al comma 1 è estesa sino al compimento del settantacinquesimo anno di età (comma aggiunto dal comma 12 dell’art. 34, L. 27 dicembre 2002, n. 289 N.D.A.).
11 30. La durata del collocamento fuori ruolo dei professori universitari di prima e seconda fascia, che precede il loro collocamento a riposo, prevista dagli articoli 19 e 110 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, e successive modificazioni, è ridotta a tre anni. Le posizioni di fuori ruolo eccedenti il terzo anno, già disposte alla data di entrata in vigore della presente legge, cessano di avere efficacia alla fine dell’anno accademico 1995-1996. [Sono esclusi i docenti che necessitano del periodo di cinque anni fuori ruolo per raggiungere l’età di pensionamento prevista dai regimi vigenti] (periodo soppresso dall’art. 1, comma 86, L. 23 dicembre 1996, n. 662 N.D.A.).
12 17. Per i professori ordinari e associati nominati secondo le disposizioni della presente legge il limite massimo di età per il collocamento a riposo è determinato al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ivi compreso il biennio di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni, ed è abolito il collocamento fuori ruolo per limiti di età. 18. I professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ferma restando l’applicazione dell’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni. 19. I professori, i ricercatori universitari e gli assistenti ordinari del ruolo ad
collocamento a riposo dei docenti universitari e, relativamente ai docenti di materie cliniche, si riafferma l’allineamento tra il pensionamento universitario e quello assistenziale. 10. E’ la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008 e pubblicata nella GU 28 dicembre 2007, n. 300) che, all’art. 2, c. 434 13, sia pure gradualmente, abroga l’istituto del fuori ruolo dei professori universitari. 11. La legge 30 dicembre 2010, n. 240 (recante Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario e pubblicata nella GU 14 gennaio 2011, n. 10), all’art. 25 (Collocamento a riposo dei professori e dei ricercatori)14, ha abolito per i professori universitari la possibilità di chiedere il prolungamento del biennio. Stante la situazione normativa ora descritta si cercherà, nel prossimo paragrafo, di definire quale fosse la disciplina applicabile ai docenti universitari (e alla ristretta e particolare categoria dei docenti medici) al momento del pronunciamento della Corte costituzionale. 2. La disciplina vigente alla data di emanazione della sentenza in commento In considerazione di quanto brevemente illustrato nel precedente paragrafo, la disciplina legislativa applicabile per il collocamento a riposo dei professori universitari dipendeva dalla data di nomina in ruolo, a seconda che essa fosse avvenuta prima o dopo il 20 novembre 2005 (data di entrata in vigore della legge 230/2005): 1. per i professori ordinari nominati prima del 20 novembre 2005, sussisteva l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 70° anno d’età; 2. per i professori associati nominati prima del 20 novembre 2005 (e che dopo la pubblicazione della legge non avessero optato per il nuovo regime), sussisteva l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 65° anno d’età; 3. per i professori ordinari e associati nominati dopo il 20 novembre 2005, sussisteva l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 70° anno d’età. Dal 29 gennaio 2011, inoltre, ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 25 della L. 240/10, non era più possibile chiedere il cd. biennio di proroga, per cui l’età indicata nell’elenco numerato sopra riportato costituiva l’età massima al raggiungimento della quale non era più possibile svolgere attività accademiche. esaurimento in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge conservano lo stato giuridico e il trattamento economico in godimento, ivi compreso l’assegno aggiuntivo di tempo pieno. I professori possono optare per il regime di cui al presente articolo e con salvaguardia dell’anzianità acquisita.
13 434. A decorrere dal 1° gennaio 2008, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a due anni accademici e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel terzo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2009, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a un anno accademico e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel secondo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2010, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è definitivamente abolito e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel primo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico.
14 1. L’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, non si applica a professori e ricercatori universitari. I provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono alla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti.
La situazione era, però, differente per i docenti di materie cliniche. Infatti, il c. 18 della legge 230 prevedeva, al riguardo, che “I professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell'anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ferma restando l’applicazione dell’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni”. Dopo l’emanazione della norma erano sorti alcuni dubbi interpretativi che la giurisprudenza aveva, nel frattempo, risolto. Una problematica molto rilevante aveva a oggetto il rapporto tra il c. 18 e l’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92; di essa si tratterà, infra, nel paragrafo 4. Altre questioni interpretative riferite al comma 18 concernevano: 1. la parificazione dell’età pensionabile per i docenti associati e ordinari di materie cliniche; 2. la possibilità di comprendere nell’età pensionabile anche la richiesta di prolungamento del servizio; 3. l’applicabilità della disciplina sul mantenimento delle funzioni assistenziali anche al personale che al momento della entrata in vigore della norma era ancora in servizio universitario ma era già cessato dallo svolgimento delle funzioni assistenziali. 1. Quanto al primo dei dubbi interpretativi indicati, ci si era chiesti se il comma 18, utilizzando la locuzione <<docenti di materie cliniche>>, affermasse una regola applicabile sia ai professori ordinari sia a quelli associati, facendo venire meno la differenziazione esistente tra le età di collocamento a riposo previste a seconda che si appartenesse alla categoria dei professori ordinari (cd. prima fascia della docenza universitaria) ovvero a quella dei professori associati (cd. seconda fascia della docenza universitaria). Con ciò non solo accorpando, quanto meno relativamente alla età di pensionamento, le due fasce della docenza in relazione alle materie cliniche ma anche creando una differenziazione circa l’età di collocamento a riposo tra professori associati in generale e professori associati di materie cliniche. Per la categoria generale dei docenti universitari, come già più sopra ricordato, infatti, sussisteva una differenziazione sull’età del collocamento a riposo per i docenti nominati prima della entrata in vigore della legge 230: 65 anni per i professori associati, 70 anni per i professori ordinari. Ciò premesso, il c. 18 deve essere interpretato nel senso di fare venire meno questa differenziazione per i soli docenti (ordinari e associati) di materie cliniche? Si può subito dire che è questa l’interpretazione della norma accolta dalla giurisprudenza, secondo un indirizzo assolutamente condiviso. Ad avviso della giurisprudenza, cioè, l’interpretazione letterale della norma non lascia dubbio alcuno; in questo senso depongono15: l’utilizzo della locuzione <<professori di materie cliniche>> senza ulteriori specificazioni a differenza di quanto avvenuto in altri commi della legge; la previsione che anche per gli altri docenti universitari (di materie diverse da quelle cliniche), se nominati in ruolo dopo l’entrata in vigore della legge o se abbiano esercitato l’opzione prevista dal successivo comma 19, la data di collocamento a riposo sia prevista per tutti (prima e seconda fascia) al termine dell’anno accademico successivo al compimento del 70° anno di età. Anche da un punto di vista sistematico l’interpretazione è sembrata corretta alla rara dottrina che ha esaminato la vicenda in quanto si è ritenuto che essa potesse trovare motivazione “… nel fatto che in molti casi i professori associati svolgono funzioni 15 Per le citazioni riportate nel testo vedi, rispettivamente, TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19 aprile 2007, n. 678 e TAR Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, 13 gennaio 2012, n. 16.
assistenziali superiori di livello apicale al pari di un docente ordinario, per cui non pare irragionevole che il legislatore, prendendo atto di ciò, abbia deciso di introdurre un limite uguale per entrambe le categorie …”16. Per le ragioni sopra esposte la giurisprudenza consolidata è giunta, dunque, ad affermare che per i docenti di materie cliniche l’età di collocamento a riposo sia stata parificata, dall’art. 1, c. 18, L. 230/05, e prevista al termine dell’anno accademico successivo al raggiungimento del 70° anno di età; ciò sia per i docenti già in servizio alla data di entrata in vigore della norma (20 novembre 2005) sia per quelli nominati successivamente a quella data. 2. Altra questione interpretativa è sorta in relazione alla possibilità che nell’età massima pensionabile sia compresa anche la richiesta di prolungamento del servizio. La questione, che è emersa dopo la pubblicazione della L. 240/10, va spiegata in quanto di non immediata comprensione. Si è detto che il c. 17 dell’art. 1 della L. 230/05 ha previsto che il limite di età per il collocamento a riposo è fissato, a regime, al raggiungimento del 70° anno di età e ciò per tutte le categorie di docenti universitari; la norma contiene un inciso ulteriore secondo cui nei 70 anni deve essere <<compreso il biennio di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503>>; quando la L. 240/10 ha eliminato per i professori universitari il diritto di chiedere il prolungamento del biennio, alcune Università hanno ritenuto, in virtù di una interpretazione restrittiva dell’inciso normativo sopra riprodotto, che la norma dovesse intendersi nel senso che l’anzianità andasse, se mi si passa il termine, scissa; ossia, che il limite di età fosse il compimento del 68° anno di età e che a questa età di 68 anni potesse eventualmente aggiungersi il biennio di proroga, così da raggiungere i 70 anni. Questa interpretazione, secondo alcune Università, era l’unica che poteva consentire il rispetto della disposizione che prevedeva il collocamento a riposo al compimento dei 70 anni, ivi compreso il biennio di proroga. Questa interpretazione non è stata accolta dalla giurisprudenza che, anche in questo caso senza ondeggiamenti, ha ripetutamente affermato che la previsione di cui all’art. 1, c. 17, L. 230/05, “… non opera nel senso ritenuto dall’amministrazione, di portare in diminuzione il biennio predetto dall’anzianità massima anagrafica raggiungibile, ma vuole solo rappresentare una precisazione nel senso di escludere che al nuovo regime dei 70 anni possa aggiungersi per sommatoria il beneficio di cui all’art. 16 …”17. Come precisato anche da altra giurisprudenza, infatti, l’espressione <<ivi compreso il biennio>> deve essere interpretata in relazione alla situazione esistente al momento dell’entrata in vigore della legge 230, per cui alcuni professori avrebbero già potuto usufruire del biennio di prolungamento18. Questa affermazione da ultimo citata porta alla soluzione di una ulteriore problematica consistente nella valutazione circa la possibilità che un professore associato che, prima della entrata in vigore della legge 230, avesse già goduto del beneficio del prolungamento del servizio biennale al raggiungimento del 65° anno di età possa, rimasto in servizio sino a 70 anni a seguito delle modifiche apportate all’età di collocamento a riposo da parte delle legge 230, nuovamente chiedere il prolungamento del biennio e permanere in servizio fino a 72 anni. La giurisprudenza, dopo un primo momento nel quale alcune sentenze avevano ritenuto possibile il duplice godimento del beneficio, ha mutato opinione affermando che la nuova disciplina non deve essere intesa nel senso di aver voluto 16 Chiellini L., Commento alle nuove disposizioni introdotte dalla legge n. 230 del 4.11.2005 in materia di pensionamento assistenziale dei medici universitari, in www.unipv.it . 17 TAR Campania, Napoli, sez. II, 8 gennaio 2010, n. 17, confermata da Cons. St., sez. VI, ord., 5 maggio 2010, n. 2001. 18 In questo senso, TAR Lazio, Roma, sez. III, 22 ottobre 2012, n. 8713 e TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 24 gennaio 2013, n. 38.
attribuire indiscriminatamente il beneficio del prolungamento del biennio a tutti i professori di materie cliniche ma si sia limitata a richiamare la sussistenza di tale beneficio 19. 3. Particolarmente controversa è anche una terza questione concernente l’applicabilità della disciplina sul mantenimento delle funzioni assistenziali anche al personale docente di materie cliniche che al momento della entrata in vigore del c. 18, era già cessato dallo svolgimento delle funzioni assistenziali per il raggiungimento del limite di età previsto nella normativa sanitaria. L’ubi consistam della questione risiede nel valutare se l’espressione, contenuta nel c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05, secondo cui <<… i professori di materie cliniche in servizio … mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali …>> debba essere interpretata nel senso di renderla applicabile ai soli professori di materie cliniche che, al momento della entrata in vigore della legge, erano ancora nello svolgimento delle funzioni assistenziali e primariali, a nulla valendo che essi fossero ancora in servizio universitario laddove, per la decorrenza dell’età prevista nell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92, non svolgessero più attività assistenziale e primariale. In parole più semplici, il quesito è il seguente: la norma si applica ai docenti di materie cliniche in servizio universitario o solo a quelli che oltre a essere in servizio per l’Università fossero ancora in servizio anche presso la struttura sanitaria convenzionata? Al riguardo la giurisprudenza ha consolidato un orientamento secondo cui la disposizione consente la prosecuzione dello svolgimento delle funzioni assistenziali fino ai 70 anni ai soli docenti che tali funzioni stavano ancora svolgendo alla data di entrata in vigore delle disposizione stessa; in tal senso depone non solo l’interpretazione letterale della norma ma anche considerazioni di più ampia natura. Quanto alla interpretazione letterale, non è revocabile in dubbio che il termine <<mantengono>> riferito allo svolgimento delle funzioni assistenziali e primariali possa essere interpretato solo nel senso che la norma sia applicabile a chi quelle funzioni ancora svolgeva alla data del 20 novembre 2005 (data di entrata in vigore della norma)20. La decisione è ulteriormente confermata da altre considerazioni di più ampia natura; deve ritenersi, infatti, che, essendo già cessato il rapporto con il servizio sanitario nazionale, una interpretazione della norma nel senso di consentire al docente lo svolgimento delle funzioni assistenziali e primariali comporterebbe la necessità di reintegrare il docente in una funzione che, nel frattempo, è già stata attribuita ad altro professionista, con indubbi problemi sia di natura giuridica sia di natura economica21. Riassumendo quanto sino a qui sostenuto nella esegesi dei tre punti problematici affrontati dalla giurisprudenza, può dirsi che, alla data della decisione assunta dalla Corte costituzionale, poteva ritenersi definito, per i docenti di materie cliniche, un quadro normativo come elencato nell’elenco puntato di seguito riportato: l’età di collocamento a riposo per i docenti di materie cliniche (associati e ordinari) era fissata al termine dell’anno accademico successivo a quello di compimento del 70° anno di età; i docenti di materie cliniche che al 20 novembre 2005 erano in costanza di svolgimento di attività assistenziale potevano, sino al pensionamento universitario, continuare a svolgere attività assistenziale in deroga rispetto a quanto previsto dal c. 2 dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 (ma sul rapporto tra la norma da ultimo citata e la L. 230/05 vedi, infra, paragrafo 4); 19 In questo senso, vedi TAR Lazio, Roma, sez. III, 7 luglio 2009, n. 6542; contra, per il primo orientamento, poi rimasto isolato, vedi TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19 aprile 2007, n. 678. 20 Così, ex multis, Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2007, n. 5108 e TAR Toscana, Firenze, sez. I, 6 marzo 2007, n. 289. Da ultimo, vedi Cons. St., sez. VI, 5 marzo 2013, n. 1301. 21 In questo senso vedi TAR Lazio, Roma, sez. III, 22 maggio 2007, n. 4733 e TAR Lombardia, Milano, sez. III, 22 gennaio 2008, n. 91.
il compimento del 70° anno d’età costituiva limite non superabile in considerazione del fatto che l’art. 25 della L. 240/10 aveva escluso che i docenti universitari potessero godere del beneficio del prolungamento biennale del servizio previsto per tutti i dipendenti pubblici dall’art. 16, c.1, del D.Lgs. 503/92.
3. La sentenza della Corte costituzionale e i dubbi applicativi da essa scaturenti Su questo stato di fatto interviene il pronunciamento della Corte costituzionale che, con sentenza 9 maggio 2013, n. 83 (pubblicata nella GU 15 maggio 2013, n. 20) ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 25 della L. 240/10, perché in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione. La questione di legittimità costituzionale era stata sottoposta al vaglio della Corte dal Consiglio di Stato con tredici ordinanze e dal Tribunale Amministrativo Regionale del Molise con due ordinanze. Le quindici ordinanze, di contenuto identico o analogo, dubitavano della legittimità costituzionale della norma per tutta una serie di ragioni che, nella sostanza, possono essere ricondotte a tre: 1. violazione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) e di autonomia universitaria (art. 33, c. 6, Cost.), perché la norma priverebbe le Università, discriminandole rispetto a qualsiasi altro ente pubblico, del potere di valutazione e di accoglimento delle istanze di trattenimento in servizio presentate dal personale docente, anche laddove tale prolungamento risulti funzionale a specifiche esigenze organizzative, didattiche o di ricerca, impedendo alle università di utilizzare una misura organizzativa, seppure eccezionale, in materia di provvista del personale e privando gli atenei di ogni margine di autonomo apprezzamento nonché della possibilità di mantenere in servizio docenti caratterizzati da una qualificazione scientifica ben difficilmente ripetibile; 2. violazione del principio del legittimo affidamento e della sicurezza giuridica (art. 3 Cost.) nella misura in cui la regola introdotta dalla norma censurata si applichi indistintamente a tutti i professori e ricercatori universitari, anche a quelli che hanno fatto legittimo affidamento su una disciplina che consentiva il mantenimento in servizio per un ulteriore biennio, in quanto erano stati già autorizzati con decreto rettorale adottato sulla base della originaria normativa dettata dall’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503; 3. violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) in quanto la normativa pensionistica vigente (art. 24, c. 4, D.L. 201/11, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214) riconoscerebbe a tutti i dipendenti pubblici e privati il diritto soggettivo di protrarre il periodo lavorativo fino al compimento del settantesimo anno di età. Pertanto, tutti i lavoratori pubblici e privati, se intendono beneficiarne, hanno diritto a tale proroga, tranne i professori e ricercatori universitari. Tale regime particolare di sfavore verso i docenti universitari non ha alcuna ragion d’essere, specie se si considera che il lavoro intellettuale da essi svolto, notoriamente, è meno usurante di tante attività manuali, materiali e pratiche di quei lavoratori ai quali, paradossalmente, si consente il prolungamento. Il Giudice della legge, dopo aver respinto una eccezione preliminare (inerente il problema dei rapporti tra incidente di legittimità costituzionale e giudizio cautelare 22), che, se accolta, 22 La questione si è posta in quanto la Corte costituzionale ha sempre affermato che una questione di legittimità costituzionale sollevata durante un giudizio cautelare è inammissibile per difetto di rilevanza se sollevata dopo l’adozione del provvedimento cautelare: ciò in quanto la rimessione alla Corte sarebbe tardiva rispetto al giudizio cautelare (perché già concluso) e prematura rispetto a quello di merito (perché non ancora avviato). Poiché seguendo questo indirizzo in modo letterale si arriverebbe a conseguenze non coerenti con il principio di effettività della tutela (il rigetto della domanda cautelare comporterebbe l’applicazione della legge sospettata di incostituzionalità;
avrebbe potuto far dichiarare la questione inammissibile per difetto di rilevanza, è passata all’esame del merito delle questioni, ritenendole fondate. La sentenza, dapprima, ha affermato che se è vero che il legislatore ben può emanare disposizioni che vengano a modificare in senso sfavorevole per gli interessati la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, ciò può essere considerato legittimo solo se le disposizioni emanate non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto. Poi, esaminando le ragioni giustificative della norma rappresentate dall’Avvocatura dello Stato in sede di costituzione in giudizio, ha ritenuto che: quanto alla presunta gradualità dell’intervento di riforma essa non è, invero, ravvisabile; ciò in quanto le precedenti disposizioni, in parte limitative del diritto di cui al testo originario dell’art. 16 del d.lgs. n. 503/92, riguardavano tutti i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici, mentre l’art. 25 della legge n. 240 del 2010 ha fatto venir meno per la sola categoria dei docenti universitari la possibilità di ottenere il trattenimento in servizio, così realizzando anche una non spiegabile disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 Cost.; quanto all’argomento che vorrebbe giustificare la norma in questione con rilevantissime esigenze di contenimento finanziario e razionalizzazione della spesa pubblica, esso non resiste a un sia pur sommario vaglio critico in quanto non solo la disposizione di cui si tratta interessa un settore professionale numericamente ristretto e ha ad oggetto un lasso temporale molto breve, ma, inoltre, in considerazione del fatto che l’accoglimento dell’istanza di trattenimento in servizio non è più automatica ma consegue alla valutazione dell’amministrazione di appartenenza, che decide in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali consentendo all’Amministrazione di ridurre il numero dei beneficiari del trattenimento solo a coloro le cui esperienze professionali siano ritenute ancora valide; quanto alla esigenza di consentire l’incremento del ricambio generazionale del personale docente, essa deve essere bilanciata con l’esigenza di mantenere in servizio docenti in grado di dare un positivo contributo per la particolare esperienza professionale acquisita in determinati o specifici settori ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi. l’accoglimento della domanda cautelare comporterebbe l’inammissibilità della questione sollevata alla Corte costituzionale; la sospensione del giudizio in attesa della decisione della questione di legittimità costituzionale vanificherebbe le esigenze sottese alla domanda cautelare), la giurisprudenza, sia costituzionale sia amministrativa, aveva, nel tempo, adottato due distinti orientamenti entrambi volti a superare la situazione di apparente impasse: un primo orientamento prospettava la concessione della sospensiva e la disapplicazione della legge sospettata di incostituzionalità, rinviando al giudizio di merito la rimessione della questione di legittimità costituzionale (così, ad esempio, C. Cost., 12 ottobre 1999, n. 440 e Cons. St., Ad. Plen., ord., 20 febbraio 1999, n. 2.); un secondo e più recente orientamento ritiene che la fase cautelare vada distinta in due fasi: nella prima il giudice sospende sì l’atto, ma solo in via interinale (ossia fino alla pronuncia della Corte); nella seconda assume la decisione definitiva con ordinanza che tenga conto della pronuncia della Corte (in questo senso, da ultimo, Cons. St., sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 597). Questo orientamento, che trova un precedente nella soluzione adottata dalla Corte di Giustizia (sin dalla decisione del 19 giugno 1990, C-213/89) in relazione alla medesima situazione che si potrebbe porre nel caso di ordinanza di rinvio pregiudiziale sollevata nel corso di un giudizio cautelare, è stato accolto favorevolmente dalla Corte Costituzionale che si è espressa sul punto affermando che sono ammissibili questioni di legittimità costituzionale sollevate in sede cautelare in due ipotesi: quando il giudice sospenda il giudizio e non provveda sulla domanda; quando conceda la misura senza però, con tale decisione, esaurire la fase cautelare del giudizio (così, C. Cost., 8 maggio 2009, n. 151); quanto a quest’ultimo aspetto, esso si realizza nelle ipotesi in cui i procedimenti cautelari siano ancora in corso e i giudici non abbiano esaurito la potestas iudicandi, così come la Corte ha ritenuto essersi verificato nella sentenza in commento in cui ha ritenuto “… di carattere provvisorio e temporaneo la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale …”.
Infine, ritenuto che le ragioni esposte dall’Avvocatura non fossero tali da prevalere sul contrapposto interesse di evitare, per la sola categoria dei professori e ricercatori universitari, l’esclusione dalla possibilità di avvalersi del trattenimento in servizio disciplinato dal citato art. 16, c. 1, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 25 della legge 240/10, ritenendo “… priva di giustificazioni l’esclusione della sola categoria dei professori e ricercatori universitari dall’ambito applicativo del citato art. 16, comma 1, quando proprio per tale categoria l’esigenza suddetta si presenta in modo più marcato, avuto riguardo ai caratteri ed alle peculiarità dell’insegnamento universitario. La norma impugnata trascura del tutto tale profilo, introducendo una disciplina sbilanciata e irrazionale, che si pone in deciso contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost. …”. La sentenza, così come succintamente esposta, pone un rilevante problema 23 inerente l’individuazione della disciplina applicabile a seguito della avvenuta abrogazione. Come è noto, l’abrogazione di una norma non comporta automaticamente la reviviscenza della disciplina da quella norma a suo tempo abrogata 24; nel caso di specie, tuttavia, tale principio non è applicabile in quanto la disposizione contenuta nell’art. 25 costituiva una disciplina speciale, non abrogatrice di pregresse normative ma solo volta a introdurre un regime peculiare per una particolare categoria di soggetti. Dunque, è evidente come la normativa nazionale valida per tutte le altre categorie di dipendenti pubblici, ossia l’art. 16, c. 1, del D.Lgs. 503/92, riprenda ad applicarsi anche ai docenti universitari. E’ necessario, pertanto, osservare la norma nel suo vigente testo per comprendere quale situazione fattuale essa esprima. Già nel primo paragrafo si era evidenziato come il decreto legislativo 503/92 (recante Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421, pubblicato nella GU. 30 dicembre 1992, n. 305), all’art. 16 (Prosecuzione del rapporto di lavoro), introducesse la facoltà per tutti i dipendenti civili dello Stato di chiedere il trattenimento in servizio per un biennio oltre i limiti di età. La norma, nella sua versione originaria, incentivava i dipendenti pubblici a permanere in servizio e, pertanto, accordava a costoro un vero e proprio diritto soggettivo, come si può evincere dalla lettura della originaria disposizione: “E’ in facoltà dei dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti”. La norma è stata più volte modificata e, nella vigente versione, prevede che nel caso di richiesta di proroga del biennio sia “… data facoltà all’amministrazione, in base alle proprie esigenze 23 Altra problematica scaturente dalla sentenza è quella inerente la possibile applicazione del principio statuito dalla Corte costituzionale ai docenti andati in pensione dal 1° novembre 2011 al 1° novembre 2012, periodo di applicazione dell’art. 25 della legge 240/10. Si potrebbe, infatti, pensare che costoro, essendo andati in quiescenza in base a una norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima, possano vantare qualche titolo giuridico nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza e chiedere di essere reintegrati. Questa possibilità, oltre a essere negata da altre considerazioni sia di natura giuridica sia di natura economica (come la giurisprudenza ha più volte ricordato – si vedano, ad esempio, le sentenze citate, supra, nella nota 18 – è evidente come una volta interrotto il rapporto lavorativo la reintegrazione dello stesso comporterebbe l’attribuzioni di funzioni già attribuite ad altri e l’utilizzo di fondi già spesi in altro modo) è ostacolata anche dall’applicazione del limite dei cd. rapporti esauriti, limite esplicitato già da tempo dalla Corte costituzionale, secondo cui “… è nella logica del giudizio costituzionale incidentale che - ferma restando la perdita di efficacia della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, e la sua inapplicabilità nel giudizio a quo e in tutti quelli ancora pendenti, anche in relazione a situazioni determinatesi antecedentemente - la retroattività delle pronunce d'incostituzionalità trovi un limite nei rapporti ormai esauriti, la cui definizione - nel rispetto del principio di uguaglianza e di ragionevolezza - spetta solo al legislatore di determinare … ”: così, C. Cost., 9 gennaio 1996, n. 3. Da ultimo, in termini analoghi, si veda Cass. civ., sez. lav., 27 settembre 2013, n. 22256. Sulla tematica, pur con considerazioni differenti da quelle fatte nel testo, si veda Pignataro S., La problematica dell’atto amministrativo adottato in base ad una disposizione di legge successivamente dichiarata incostituzionale , in www.lexitalia.it, 9/2013. 24 Principio, questo, affermato da ultimo da C. Cost., 26 gennaio 2011, n. 24.
organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell’efficiente andamento dei servizi …”. La prevista introduzione di una facoltà a favore dell’Amministrazione di accogliere o meno l’istanza (facoltà introdotta, così come oggi è presente, dall’art. 72, c. 7, D.L. 112/08, poi convertito dalla legge 133/08, nell’ottica del contenimento della spesa pubblica cui tutto il D.L. 112 è improntato) realizza una sorta di bilanciamento tra le esigenze del lavoratore e quella dell’Amministrazione, affidando alla stessa la facoltà di accogliere o meno la richiesta del dipendente, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali e secondo i criteri nella norma medesima indicati. Pertanto, l’abrogazione della norma da parte della Consulta non comporta un diritto di tutti i docenti universitari a ottenere il prolungamento del servizio per un biennio ma solo la possibilità di poter chiedere il beneficio e di verificare che l’eventuale diniego sia sorretto da interessi pubblici: per dirla in termini più giuridici, le modifiche intervenute sul testo originario del D.Lgs. 503/92 hanno trasformato il diritto soggettivo (nella specie di diritto potestativo) al prolungamento del biennio in una aspettativa di fatto, tutelabile quale interesse legittimo. In sostanza, l’istituto del trattenimento in servizio, nella vigente versione, ha assunto un carattere di eccezionalità in considerazione delle generali esigenze di contenimento della spesa pubblica; ne consegue che l’ipotesi ordinaria è quella della mancata attivazione dell’istituto del trattenimento (ipotesi ricorrendo la quale l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione sarà limitata all’insussistenza di particolari esigenze organizzative e funzionali le quali inducano a decidere in tal senso), mentre all’ipotesi del trattenimento sarà da riconoscere carattere di eccezionalità, con la necessità di esplicitare in modo adeguato le relative ragioni giustificatrici, conferendo rilievo preminente alle esigenze dell’amministrazione lato sensu intese. La scelta di consentire il prolungamento del biennio, cioè, va ormai considerata alla stregua di un’ipotesi eccezionale di provvista di personale docente25, che deve essere adeguatamente giustificata da oggettivi e concreti fatti organizzativi, tali da imporre che si faccia ricorso a un tale particolare strumento eccettuale. Spetterà, pertanto, adesso alle Università il compito di valutare le istanze pervenute e di decidere quale interesse prevalga nel bilanciamento fra l’interesse privato al trattenimento in servizio e l’interesse pubblico alla salvaguardia delle esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione di appartenenza. La valutazione spettante alle Università, sulla scorta di quanto già stabilito in casi assolutamente similari dalla giurisprudenza 26, dovrà essere compiuta o esaminando le istanze caso per caso oppure preconfigurando dei criteri generali da applicare nell’esaminare le domande di trattenimento in servizio. Tali criteri generali, tuttavia, andando a condizionare il potere discrezionale alla valutazione di specifici presupposti, devono essere legati non solo ai profili organizzativi dell’amministrazione ma anche alla situazione specifica soggettiva e oggettiva del richiedente. I criteri, cioè, per rispettare in modo logico e ragionevoli tali elementi, non devono essere né eccessivamente ampi (tali da snaturare il criterio della tutela del livello organizzativo e funzionale postulato dalla norma) né eccessivamente oggettivi (a tal punto da privare di qualsiasi valore la specifica esperienza professionale acquisita dal richiedente). 25 Così, espressamente, Cons. St., sez. VI, 2 maggio 2012, n. 2518. La ragione di questa affermazione è da rinvenire nella considerazione che, alla luce delle stringenti norme in materia di reclutamento del personale, il trattenimento in servizio può essere disposto esclusivamente nell’ambito dei limiti assunzionali previsti; in altri termini, la scelta che le Università si trovano ad affrontare è se utilizzare il budget a disposizione per assumere nuovi professori o consentire il prolungamento del biennio di quelli già in servizio. 26 Cons. St., sez. VI, 26 marzo 2013, n. 1672.
4. La disciplina applicabile per il collocamento a riposo dei docenti medici La principale questione che si pone per i docenti universitari di materie cliniche a seguito della sentenza della Consulta è quella che attiene la possibilità o meno che essi, qualora ottengano il prolungamento del biennio, possano durante questo periodo continuare a svolgere attività assistenziale. Si è detto, nel paragrafo dedicato all’inquadramento giuridico, che la disciplina inerente il collocamento a riposo dei docenti medici era da interpretarsi alla luce di più normative, peraltro tra loro in apparente contrasto, scaturendo essa dal rapporto tra l’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 (come aggiunto dall’art. 13, D.Lgs. 229/99)27 e l’art. 1, c. 18, della L. 230/0528. La questione è duplice. Occorre, dapprima, interpretare l’apparente contrasto esistente tra il c. 2 dell’art. 15nonies del D.Lgs. 502/92 e il c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05 per verificare quale delle due norme sia applicabile (di questo dubbio interpretativo si era già fatto cenno in precedenza e, per la sua analisi, si era fatto rinvio a questo paragrafo); poi, verificare se le attività primariali e assistenziali, per le quali l’art. 1, c. 18, della L. 230/05 ha previsto il mantenimento sino a 70 anni, possono continuare immutate anche durante il periodo di prolungamento biennale del servizio che i docenti possono nuovamente chiedere a seguito di quanto deciso dalla sentenza in commento. Quanto alla interpretazione delle due norme, è evidente dalla lettura delle stesse che il loro contenuto sia in netta contrapposizione. Il c. 2 dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 (a seguito della modifica del 1999) ha, in sostanza, disgiunto l’età pensionabile assistenziale da quella universitaria; con ciò introducendo il cd. pensionamento assistenziale del docente di materie cliniche, ossia l’obbligo per i docenti universitari di materie cliniche di lasciare l’incarico primariale e assistenziale in essere al raggiungimento dei 68 anni e ciò in costanza di rapporto lavorativo con l’Università. Il c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05 ha, invece, ricomposto la disgiunzione prevedendo espressamente che, in base al principio di inscindibilità delle funzioni assistenziali da quelle di insegnamento e ricerca, i professori di materie cliniche mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età. Benchè la norma del 2005 non abbia abrogato in via espressa la disciplina del 1999, la giurisprudenza, sin da subito, non ha mostrato dubbi affermando che quanto contenuto nel c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05 costituisca abrogazione tacita dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92; ciò in applicazione del principio, statuito nell’art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale, secondo cui la abrogazione tacita di un provvedimento legislativo si verifica quando tra due norme vi sia una incompatibilità tale per cui deve ritenersi che il Legislatore, emanando la seconda legge, abbia voluto disciplinare la situazione giuridica sottostante in modo difforme da quanto avveniva in precedenza 29. Ritengo che 27 Si riporta nuovamente, per comodità, il c. 2 della vigente versione dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92: Il personale medico universitario di cui all’articolo 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, cessa dallo svolgimento delle ordinarie attività assistenziali di cui all’articolo 6, comma 1, nonché dalla direzione delle strutture assistenziali, al raggiungimento del limite massimo di età di sessantasette anni. Il personale già in servizio cessa dalle predette attività e direzione al compimento dell’età di settanta anni se alla data del 31 dicembre 1999 avrà compiuto sessantasei anni e all’età di sessantotto anni se alla predetta data avrà compiuto sessanta anni. I protocolli d’intesa tra le regioni e le Università e gli accordi attuativi dei medesimi, stipulati tra le Università e le aziende sanitarie ai sensi dell’articolo 6, comma 1, disciplinano le modalità e i limiti per l’utilizzazione del suddetto personale universitario per specifiche attività assistenziali strettamente correlate all’attività didattica e di ricerca. 28 Si riporta nuovamente, per comodità, il c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05: I professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, ferma restando l’applicazione dell’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, e successive modificazioni.
29 Sull’abrogazione tacita dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 vedi, tra le prime a sostenerla, TAR Lazio, Roma, sez.
l’orientamento consolidato assunto dalla giurisprudenza sia assolutamente condivisibile, ciò in considerazione, anche, di una serie di criticità che la norma introdotta nel 1999 aveva provocato e che è presumibile che il Legislatore, nel 2005, abbia inteso risolvere: innanzitutto, essa aveva sì uniformato la disciplina sul collocamento a riposo dei dirigenti medici e di quelli universitari ma, così facendo, aveva anche provocato nelle Università indubbi problemi, tra i quali il principale inerente la necessità di affidare le funzioni primariali a docenti associati (pur in costanza di presenza del professore ordinario ancora in servizio come universitario) o di assumere un altro docente in sostituzione di quello cessato dal punto di vista assistenziale (ma ancora in servizio dal punto di vista universitario): ciò, in entrambi i casi, con indubbio spreco di risorse e con il pericolo dell’insorgere di problemi di natura organizzativa interna; poi, essa aveva comportato la scissione tra le funzioni assistenziali e quelle di insegnamento e di ricerca; funzioni queste che, più volte, la Corte costituzionale aveva affermato essere tra loro inscindibili, comportando una sorta di compenetrazione30; inoltre, la Corte costituzionale31 aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 15-nonies nella parte in cui disponeva la cessazione del personale medico universitario dallo svolgimento delle ordinarie attività assistenziali al raggiungimento dei limiti massimi di età ivi indicati, in assenza della stipula dei Protocolli d’Intesa tra Università e Regioni previsti dalla stessa norma ai fini della disciplina delle modalità e dei limiti per l’utilizzazione del suddetto personale universitario per specifiche attività assistenziali strettamente connesse all’attività didattica e di ricerca; la norma, pertanto, era stata oggetto di applicazione <<a macchia di leopardo>>, nel senso che il cd. pensionamento assistenziale poteva ritenersi costituzionalmente legittimo solo nelle Regioni nelle quali i Protocolli d’Intesa erano stati stipulati; con la conseguenza, dunque, che l’età pensionabile, ai fini assistenziali, di un docente di materie cliniche poteva essere differente a seconda della Università nella quale egli prestasse servizio; infine, è da considerare che la Corte costituzionale è recentemente intervenuta anche relativamente alla età di collocamento a riposo dei dirigenti medici, prevedendo la incostituzionalità del c. 1 dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 nella parte in cui non consente a costoro la facoltà di permanere in servizio fino al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo, con il solo limite del raggiungimento del settantesimo anno di età 32. Deve, dunque, ritenersi, che benché il c. 2 dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 fosse ancora vigente, la previsione in esso contenuto (secondo cui i docenti universitari di materie cliniche cessano dalle funzioni assistenziali al compimento del 68° anno di età pur rimanendo in servizio come docenti universitari) fosse stata tacitamente abrogata dal c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05; norma che aveva nuovamente uniformato al raggiungimento del 70° anno di età il pensionamento universitario e quello assistenziale. Ciò posto, si pone il secondo dubbio interpretativo anticipato in apertura di paragrafo; un dubbio interpretativo già esaminato dalla pregressa giurisprudenza e tornato di attualità a seguito della sentenza della Corte costituzionale che qui si commenta: le attività primariali III, 14 febbraio 2006, n. 1065 e TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19 aprile 2007, n. 678.
30 Sulla inscindibilità, per i docenti di materie cliniche, tra le funzioni assistenziali, quelle di ricerca e quelle di insegnamento vedi le già citate C. Cost., 10 luglio 1981, n. 126; id., 16 maggio 1997, n. 134. 31 C. Cost. 16 marzo 2001, n. 71. 32 C. Cost., 6 marzo 2013, n. 33.
e assistenziali, per le quali l’art. 1, c. 18, della L. 230/05 ha previsto il mantenimento sino a 70 anni, possono continuare immutate anche durante il periodo di prolungamento biennale del servizio che i docenti possono nuovamente chiedere a seguito di quanto deciso dalla sentenza in commento? La giurisprudenza che ha affrontato la questione non è giunta a un indirizzo univoco; infatti, mentre alcune sentenze 33 avevano affermato che dovesse essere mantenuta la titolarità piena delle funzioni primariali e assistenziali durante il biennio di prolungamento del servizio, altra sentenza ha affermato che la tesi secondo cui “… un professore associato o ordinario in materie cliniche potrebbe conservare le funzioni primariali ed assistenziali fino al settantaduesimo anno di età non risulta suffragata né da un’interpretazione complessiva della citata disposizione né risulta integrarsi coerentemente nell’ambito dell’intero quadro normativo …”34. A mio avviso, deve ritenersi che se il docente universitario di materie cliniche ottenga il prolungamento del biennio di servizio, durante i due anni di proroga egli possa continuare a esercitare anche le funzioni primariali e assistenziali; sono convinto di ciò non solo in virtù di una specifica nota esplicativa del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (secondo cui il c. 18 più volte citato deve essere interpretato nel senso che i professori di materie cliniche “… possono mantenere le proprie funzioni assistenziali e primariali, … fino al compimento del 72° anno di età, cioè fino alla conclusione del biennio di trattenimento in servizio, concesso ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 …”35) ma anche per ulteriori considerazioni. Innanzitutto, da un punto di vista letterale la norma sembra chiara; in essa, infatti, dopo aver affermato che i professori di materie cliniche mantengono le proprie funzioni assistenziali fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, si dispone espressamente che resta salva (<<ferma restando>>) l’applicazione dell’art. 16 del D.Lgs. 503/92 e successive modificazioni. Alla locuzione <<ferma restando>> mi sembra non possa attribuirsi altro significato se non quello che la disciplina del D.Lgs. 503/92 (inerente il prolungamento del biennio) sia mantenuta in vigore e possa essere utilizzata al compimento del 70° anno di età. Se questa è l’interpretazione letterale, non c’è motivo per utilizzare altre interpretazioni posto che, in base all’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, altri criteri interpretativi possano prevalere su quello letterale soltanto ove quest’ultimo dia luogo a un effetto incompatibile con il sistema normativo36; e non mi sembra ricorra questo caso. Questa conclusione è, peraltro, anche in linea con i principi più volte espressi dalla Corte costituzionale circa l’inscindibilità delle funzioni assistenziali, di insegnamento e di ricerca che si compenetrano nell’esercizio dello svolgimento delle proprie attività da parte dei docenti medici37. Se la compenetrazione delle funzioni costituisce la regola, l’interruzione 33 Sul mantenimento delle funzioni primariali e assistenziali durante il prolungamento del biennio, vedi, tra le prime a sostenerlo, TAR Lazio, Roma, sez. III, 11 gennaio 2006, n. 726 e TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19 aprile 2007, n. 678. Da ultimo, vedi, Cons. St., sez. VI, 23 maggio 2011, n. 3056. 34 Così, espressamente, TAR Lazio, Roma, sez. III, 7 luglio 2009, n. 6542 (la fattispecie, tuttavia, concerneva un ricorso proposto da un professore associato che aveva già in precedenza goduto del beneficio del prolungamento biennale del servizio e, nel negare la possibilità di un secondo prolungamento, la sentenza si è spinta ad affermare quanto indicato nel testo). 35 Nota 18 gennaio 2006, prot. 182, inviata a tutte le Università in risposta a un quesito posto dall’Università di Roma Tor Vergata. 36 Così, ex multis, Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874. 37 “… l’attività di assistenza ospedaliera e quella didattico-scientifica affidate dalla legislazione vigente al personale medico universitario si pongono tra loro in un rapporto che non è solo di stretta connessione, ma di vera e propria compenetrazione … L’affermata esistenza di un preciso nesso funzionale tra attività assistenziale, da un lato, ed attività didattica e di ricerca, dall’altro, non preclude certo al legislatore di modulare in concreto, nell’esercizio della sua
della stessa deve essere espressamente disposta e non può certo essere frutto di interpretazione. Ritengo che le due ragioni ora esposte (l’interpretazione letterale della norma e l’applicazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale) siano sufficienti a spiegare la ragione per la quale ritengo che il docente medico debba continuare a svolgere attività assistenziale anche durante il periodo biennale di prolungamento del servizio; tuttavia, se così non fosse, soccorrono anche altri elementi che, pur non essendo strettamente connessi alla disciplina dei docenti di materie cliniche, mi sembrano particolarmente rilevanti. Il prolungamento del biennio, è tutt’altro rispetto al cd. fuori ruolo universitario 38. A differenza di quanto avveniva per il fuori ruolo (caratterizzato dalla necessità per le Università di considerare i posti dei docenti – che peraltro rimanevano in servizio, pur con alcune limitazioni – come vacanti), infatti, il prolungamento del biennio non comporta alcun quid minus per il dipendente pubblico che ne fruisce; egli, cioè, mantiene integralmente diritti e doveri di quando era in servizio; anzi, non si potrebbe neanche dire che vi sia un prima e un dopo, nel senso che il dipendente che fruisce del prolungamento del biennio è a tutti gli effetti in servizio. Se così è per tutte le categorie di dipendenti pubblici, non si vede perché durante il prolungamento del biennio (ergo, durante lo svolgimento della propria attività ordinaria svolta sì dopo il compimento del 70° anno di età ma non per questo in modo differente da quella svolta prima del compimento del 70° anno di età) il docente di materie cliniche debba vedere ridotto il proprio ambito lavorativo venendogli precluso lo svolgimento delle attività primariali e assistenziali, peraltro, come più volte affermato, assolutamente inscindibili con quelle di insegnamento e di ricerca. Un ultimo elemento da considerare è quello inerente la tendenza in atto di prolungare quanto più possibile l’età lavorativa dei dipendenti; ciò in considerazione, da un lato, dell’innalzamento della durata della vita (innalzamento che ha causato quale diretta conseguenza anche un innalzamento di quello che la giurisprudenza ha definito come <<energia compatibile con la prosecuzione del rapporto>> lavorativo 39), dall’altro, della necessità di ridurre il disavanzo pubblico mediante qualsiasi operazione che comporti un risparmio per le casse dello Stato. Se così è per tutte le categorie di dipendenti, non si vede perché per i docenti di materie cliniche ciò non possa valere o, meglio, possa valere solo relativamente alle attività di insegnamento e ricerca e non già per quelle assistenziali. 5. Conclusioni La disciplina del collocamento a riposo dei docenti universitari è stata oggetto, negli anni, di una pluralità di normative e di interventi giurisprudenziali non sempre tra loro armonici; in riferimento al collocamento a riposo dei docenti di materie cliniche, poi, la disciplina è ancora più complessa dovendo essere armonizzata con quella propria dei dirigenti medici. Quanto alla categoria dei docenti universitari in generale, la disciplina legislativa discrezionalità, ampiezza e modalità di svolgimento della attività assistenziale dei medici universitari, eventualmente anche in funzione dell'età dei docenti. Ciò che non può invece ritenersi … è la scissione tra l’uno e l’altro settore di attività, con la conseguente creazione di figure di docenti medici destinati ad un insegnamento privo del supporto della necessaria attività assistenziale …”: così, la già citata C. Cost., 16 marzo 2001, n. 71.
38 Contra, per una interpretazione secondo cui vi sarebbe una sostanziale omogeneità tra fuori ruolo universitario e prolungamento del biennio di servizio, vedi F. Paterniti, La Corte costituzionale completa di fatto il percorso di reintroduzione dell’istituto del collocamento fuori ruolo dei professori universitari (nota a prima lettura di corte cost., sent. n. 83/2013), in www.federalismi.it , luglio 2013 39 La definizione di energia compatibile con la prosecuzione del rapporto è contenuta, per la prima volta, in C. Cost., 12 ottobre 1990, n. 444. Già all’epoca si affermava come tale energia fosse destinata ad aumentare come riflesso delle migliori condizioni di vita.
applicabile per il collocamento a riposo dipende dalla data di nomina in ruolo, a seconda che essa sia avvenuta prima o dopo il 20 novembre 2005 (data di entrata in vigore della legge 230/2005): 1. per i professori ordinari nominati prima del 20 novembre 2005, sussiste l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 70° anno d’età; 2. per i professori associati nominati prima del 20 novembre 2005 (e che dopo la pubblicazione della legge non hanno optato per il nuovo regime), sussiste l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 65° anno d’età; 3. per i professori ordinari e associati nominati dopo il 20 novembre 2005, sussiste l’obbligo di pensionamento al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il 70° anno d’età. La situazione è, però, differente per i docenti di materie cliniche per i quali, dopo alcuni anni di scissione tra le età pensionabili previste per le attività svolte nell’esercizio delle funzioni universitarie connesse all’assistenza e di quelle esclusivamente universitarie (scissione introdotta nel corpo del c. 2 dell’art. 15-nonies del D.Lgs. 502/92 dal D.Lgs. 229/99), la L. 230/05 ha previsto, al c. 18, che “I professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età …”. La successione delle leggi nel tempo aveva creato tutta una serie di questioni applicative che, nel testo, sono state esaminate per valutare la validità delle soluzioni che la giurisprudenza aveva negli anni adottato. La 240/10, all’art. 25, ha abolito per i professori universitari la possibilità di chiedere il prolungamento del biennio, con ciò individuando, per i soli docenti universitari, una lex specialis rispetto al genus contenuto nell’art. 16, c. 1, D.Lgs. 503/92. La Corte costituzionale, con la sentenza che qui si è commentata, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 25, perchè in contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost., avendo disposto il venire meno: per una sola categoria di dipendenti pubblici (i professori e i ricercatori universitari), della possibilità di chiedere la permanenza in servizio per un ulteriore biennio successivo al raggiungimento dell’età pensionabile; per una sola tipologia di Ente pubblico (le Università), della possibilità di ogni margine di autonomo apprezzamento sulle istanze pervenute. L’abrogazione della norma comporta che la disciplina del prolungamento del biennio prevista dall’art. 16 del D.Lgs. 503/92 torni a essere utilizzabile anche per i professori universitari. Deve precisarsi, tuttavia, che la disciplina normativa, nel testo vigente, non consente un diritto soggettivo del dipendente di rimanere in servizio ma, a seguito della istanza presentata, attribuisce all’Amministrazione di appartenenza la possibilità di trattenere in servizio il dipendente sia in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali sia in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti, dovendosi bilanciare i contrapposti interessi del richiedente al mantenimento in servizio e dell’Amministrazione al rispetto delle proprie esigenze organizzative. E’ in questo stretto ambito, circoscritto dalle contrapposte esigenze ora rappresentate, che le Università dovranno muoversi, vagliando le istanze che perverranno caso per caso o prefigurando criteri generali che, tuttavia, non siano né eccessivamente ampi (tali da snaturare il criterio della tutela del livello organizzativo e funzionale postulato dalla norma) né eccessivamente oggettivi (a tal punto da privare di qualsiasi valore la specifica esperienza professionale acquisita dal richiedente). L’abrogazione della norma ha comportato, inoltre, il riproporsi di alcune problematiche
applicative che si erano già poste prima del 2010, inerenti, in particolare, la possibilità che i docenti universitari di materie cliniche, durante questo periodo, continuino o meno a svolgere attività assistenziale. Questo dubbio interpretativo, non risolto in modo univoco dalla giurisprudenza, deve a mio avviso essere risolto in senso positivo; nel senso, cioè, di ritenere che il docente universitario di materie cliniche che ottenga il prolungamento del biennio di servizio, durante i due anni di proroga, possa continuare a esercitare anche le funzioni primariali e assistenziali. Come ampiamente illustrato nel paragrafo 4, tale conclusione è avvalorata non solo da considerazioni di natura più strettamente giuridica (l’interpretazione letterale di quanto contenuto nel c. 18 dell’art. 1 della L. 230/05; una circolare interpretativa del Ministero dell’Università del 2006; l’inscindibilità più volte ribadita dalla Corte costituzionale tra le funzioni assistenziali, di insegnamento e di ricerca) ma anche da considerazioni di più ampio spettro (la effettiva identità di funzioni esercitabili durante il periodo di prolungamento del biennio di servizio; la tendenza ad aumentare l’età lavorativa dei dipendenti). ** Università di Bologna - ARIC – Unità professionale Servizio giuridico per la ricerca.
Il ruolo del Parlamento europeo nella conclusione di accordi in materia di politica estera tra “aperture” dei Trattati e “chiusure” della Corte di giustizia * di M. Eugenia Bartoloni** (12 luglio 2014) Con sentenza del 24 giugno 2014, resa nella causa C-658/11 (Parlamento europeo c. Consiglio), la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata chiamata a chiarire il ruolo che spetta al Parlamento europeo nella conclusione di accordi internazionali ai sensi dell’art. 218, § 6, TFUE. Il § 6 è incluso, come è noto, in una disposizione che, pur accorpando in un’unica previsione la disciplina relativa alla conclusione degli accordi internazionali da parte dell’Unione, è peraltro volta ad imporre il principio del parallelismo nella conclusione degli accordi internazionali rispetto alle procedure di formazione di atti interni. Così, pur nell’ambito di una disciplina unificata, ciascun accordo andrà tendenzialmente concluso secondo il medesimo ordine di competenze necessario per l’adozione di un atto interno avente il medesimo contenuto, non diversamente da quanto è previsto da molte Costituzioni nazionali. Anche il § 6 riflette, pur con qualche ambiguità, l’esigenza di salvaguardare il principio del parallelismo nella conclusione degli accordi internazionali rispetto alle procedure di adozione di atti interni. Esso prevede infatti che il Consiglio «adotta la decisione di conclusione dell’accordo», previa, a seconda dei casi, approvazione o consultazione del Parlamento, a meno che l’accordo previsto non riguardi «esclusivamente la politica estera e di sicurezza comune». Nell’indicare, in particolare, che la regola generale e residuale rispetto al coinvolgimento del Parlamento europeo è quella della consultazione, mentre solo alcune categorie di accordi esigono la previa approvazione, l’art. 218, § 6, prevede dunque chiaramente che le forme di partecipazione del Parlamento alla formazione di un accordo si modellino sulle prerogative assegnate al Parlamento dai Trattati istitutivi per la formazione di atti interni. L’art. 218, § 6, sembra, invece, attenuare la portata del parallelismo laddove impone la partecipazione del Parlamento alla conclusione di accordi che non riguardino “esclusivamente” la politica estera e sicurezza comune (PESC). Sulla base di un’interpretazione letterale di questa previsione, il Parlamento dovrebbe dunque partecipare - nella forma impegnativa dell’approvazione, ovvero della consultazione anche alla conclusione di accordi aventi un contenuto prevalente di politica estera, pur se, come è noto, nella formazione di atti interni di politica estera il ruolo parlamentare è assolutamente marginale. Dato che la politica estera si concreta, nella massima parte dei casi, in atti che hanno qualche contenuto materiale (relativo ad es. alla cooperazione allo sviluppo, all’aiuto umanitario, alla politica ambientale, ecc.), ancorché di rilievo funzionale alla realizzazione di obiettivi politici, la disposizione avrebbe l’effetto di imporre la partecipazione parlamentare per accordi il cui contenuto ricada, sia pure in maniera marginale, in una qualsiasi politica materiale interna. In questa prospettiva, il Parlamento europeo si troverebbe dunque ad esercitare sul piano esterno funzioni che, in ambito PESC, gli sono invece precluse sul piano interno. La sentenza in commento trae origine da un ricorso del Parlamento europeo avverso la decisione 2011/640/PESC del Consiglio, relativa alla firma e alla conclusione dell’accordo tra l’Unione europea e la Repubblica di Mauritius sulle condizioni in presenza delle quali le persone catturate dalla forza navale diretta dall’Unione europea * Scritto sottoposto a referee.
(EUNAVFOR), in quanto sospettate di atti di pirateria, possano essere trasferite alla Repubblica di Mauritius per essere processate. Ad avviso del Parlamento, il Consiglio, nell’adottare la decisione di conclusione senza alcun coinvolgimento del Parlamento, avrebbe leso le prerogative parlamentari nella conclusione di accordi internazionali. Secondo il Parlamento, l’accordo con la Repubblica di Mauritius riguarderebbe non solo la PESC, ma anche la cooperazione giudiziaria in materia penale, la cooperazione di polizia e la cooperazione allo sviluppo, materie per le quali è prevista, sul piano interno, la procedura legislativa ordinaria. Ne dovrebbe conseguire che l’accordo “avrebbe dovuto essere concluso previa approvazione del Parlamento europeo ai sensi dell’articolo 218, § 6, lett. a), v), TFUE”. La posizione del Parlamento appare senz’altro comprensibile alla luce dell’accordo: le sue disposizioni non sono tese esclusivamente a stabilire vincoli di politica estera, ma dispongono anche obblighi ricadenti nell’ambito di altre politiche materiali dell’Unione. L’accordo non si limita infatti a disciplinare le condizioni generali sulla base delle quali le persone, che sono arrestate dall’EUNAVFOR, in quanto sospettate di aver commesso atti di pirateria nelle acque territoriali della Somalia, possano essere trasferite sul territorio di Mauritius e sottoposte ad azione giudiziaria. L’accordo prevede altresì obblighi per l’Unione europea di prestare misure d’assistenza finanziaria, tecnica e di altro genere a favore della Repubblica di Mauritius. La presenza di tali clausole, pur accessorie, sembra quindi indicare che l’accordo non riguardi “esclusivamente” la politica estera e che la sua conclusione, di conseguenza, comporta l’approvazione del Parlamento europeo. La Corte, presumibilmente proprio al fine di evitare che il Parlamento si trovi ad esercitare sul piano esterno funzioni che, in ambito PESC, gli sono invece precluse sul piano interno, ha dato un’interpretazione assai restrittiva dell’art. 218, § 6, prima frase, TFUE. La Corte ha bensì riconosciuto che l’accordo con la Repubblica di Mauritius persegue anche finalità rientranti nell’ambito di politiche dell’Unione diverse dalla PESC; essa ha tuttavia escluso, in netto contrasto con il dato testuale dell’art. 218, § 6, che il carattere accessorio di dette finalità rispetto a quella principale di politica estera abbia l’effetto di imporre la partecipazione parlamentare alla conclusione dell’accordo. Conviene ripercorrere, pur brevemente, l’argomentazione della Corte. Essa ha tratto questa conclusione sulla base di un approccio sostanzialista: “è la base giuridica sostanziale di un atto a determinare le procedure da seguire per l’adozione del medesimo” e ciò vale “non soltanto per le procedure previste per l’adozione di un atto interno, ma anche per quelle applicabili alla conclusione degli accordi internazionali” (§ 57); ne consegue che un accordo, quale quello concluso con la Repubblica di Mauritius, in quanto volto a perseguire in via principale obiettivi di politica estera “poteva validamente fondarsi soltanto sull’articolo 37 TUE, ad esclusione di qualsiasi altra base giuridica sostanziale” (§ 45). In un caso del genere, quando cioè “la decisione di conclusione dell’accordo in questione è validamente fondata soltanto su una base giuridica sostanziale rientrante nell’ambito della PESC, risulta applicabile il tipo di procedura previsto dall’articolo 218, § 6, secondo comma, frase iniziale, TFUE” (§ 59), con esclusione quindi del Parlamento dall’iter decisionale. La soluzione della Corte riflette chiaramente le difficoltà di inquadramento sistematico dell’art. 218, § 6, TFUE e, più in particolare, le difficoltà, non agevolmente superabili, di conciliare una norma procedurale, qual è appunto l’art. 218, con la giurisprudenza relativa alla base giuridica sostanziale. Da una parte, l’art. 218, § 6, nell’imporre che accordi PESC, che solo in via marginale riguardino una politica materiale, siano conclusi attraverso un iter procedurale sostanzialmente corrispondente a quello previsto per l’adozione di atti ricadenti nella politica materiale toccata solo marginalmente, ha l’effetto di svincolare la procedura di conclusione di un accordo dalla base giuridica sostanziale di questo. Dall’altra, i principi giurisprudenziali sulla base giuridica impongono,
invece, che la procedura applicabile nell’adozione di un atto sia determinata dalla base giuridica sostanziale. La Corte, nel fondare dunque la sua soluzione su una rigorosa applicazione dei principi giurisprudenziali sulla base giuridica anche riguardo alla conclusione di accordi internazionali, ripristina il collegamento tra base giuridica sostanziale e procedura decisionale. Questa operazione ha chiaramente l’effetto di ristabilire, in materia di PESC, un rapporto di simmetria tra la procedura di adozione di atti e la procedura di adozione di accordi internazionali, a scapito, però, del tenore letterale dell’art. 218, § 6. Il risultato è che il Parlamento è escluso dalla procedura di conclusione di un accordo anche quando questo non riguarda “esclusivamente” la politica estera. Ci si può chiedere se una soluzione maggiormente conforme al dato testuale fosse possibile. Si potrebbe infatti pensare che l’art. 218, § 6, abbia meramente l’effetto di imporre un adempimento procedurale aggiuntivo per la conclusione di accordi che non concernano esclusivamente la politica estera, senza però incidere sulla identificazione della loro base giuridica. Di conseguenza, accordi aventi un contenuto prevalente, ma non esclusivo, di politica estera andrebbero conclusi sulla sola base giuridica dell’art. 37 TFUE, ma per mezzo di una procedura che preveda altresì l’approvazione del Parlamento europeo. Anche questa soluzione non appare però convincente. L’art. 218 TFUE avrebbe infatti la paradossale funzione di imporre una sorta di asimmetria “alla rovescia”, stabilendo una procedura ad hoc per l’esercizio della competenza esterna dell’Unione nel campo della politica estera e di sicurezza comune che riconosca al Parlamento europeo un ruolo che gli è invece precluso nell’adozione di atti interni. In definitiva, l’interpretazione della Corte, pur contrastando con il dato letterale dell’art. 218, § 6, appare l’unica in grado di non vanificare l’esigenza di parallelismo tra la procedura di adozione di atti dell’Unione e la procedura di conclusione degli accordi internazionali, e ciò al fine di garantire che, con riguardo a una data materia, il Parlamento disponga, nel rispetto dell’equilibrio istituzionale previsto dai Trattati, degli stessi poteri sia a livello interno che a livello esterno. In una differente prospettiva, ci si può interrogare sul ruolo che dovrebbe spettare al Parlamento europeo qualora l’accordo da concludere riguardi in egual misura sia la politica estera che altre politiche dell’Unione. La Corte, in questa sentenza, non assume alcuna posizione esplicita. Anche se non appare irragionevole ipotizzare che, in applicazione della giurisprudenza sulla base giuridica, un accordo che non ricade interamente né nell’ambito dell’una, né delle altre, debba, in principio, essere fondato su tante basi giuridiche quanti sono le componenti caratterizzanti o gli scopi principali dell’atto, questa soluzione dovrebbe tuttavia essere esclusa. Dalla costante giurisprudenza della Corte si ricava, infatti, che il cumulo di basi giuridiche debba essere escluso se le procedure a queste riconnesse siano tra loro incompatibili. Benché la Corte non sempre abbia offerto criteri univoci per stabilire quando due procedure debbano essere considerate incompatibili, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il cumulo di basi giuridiche debba comunque essere escluso quando esso abbia l’effetto di determinare un’alterazione della posizione delle istituzioni coinvolte nel processo decisionale. È plausibile pensare che questa conseguenza possa realizzarsi nel caso in cui si cumulassero una base giuridica PESC ed una base giuridica non PESC. Solo per evocare i principali elementi di differenziazione, basti ricordare che il processo decisionale nel quadro della PESC si caratterizza non solo per il potere decisionale riservato al solo Consiglio, il quale lo esercita quasi esclusivamente all’unanimità, ma soprattutto per il ruolo marginale che caratterizza la partecipazione della Commissione - che non svolge alcun ruolo d’iniziativa - e del Parlamento europeo - per il quale non è prevista alcuna forma di consultazione sulle decisioni del Consiglio e del Consiglio europeo. Questi elementi, insieme con l’inalterata diversità strutturale del sistema della PESC,
nell’imprimere al processo decisionale PESC una specificità tutta sua rispetto ai procedimenti normativi previsti per le altre politiche materiali, sono tali da rendere il cumulo difficilmente realizzabile. In particolare risulterebbe difficile conciliare due procedure basate l’una sulla maggioranza qualificata e l’altra sull’unanimità in seno al Consiglio, perché ad uscirne alterata sarebbe probabilmente la posizione del Consiglio; altrettanto difficoltosa sarebbe la partecipazione del Parlamento europeo in conseguenza della simultanea applicazione della base giuridica PESC. E’ ragionevole dunque supporre che la Corte, in applicazione della sua costante giurisprudenza, sia indotta ad escludere il cumulo di basi normative PESC e non PESC (v., mutatis mutandis, Corte di giustizia in Parlamento c. Consiglio, C-130/10,). Una volta escluso il cumulo, non è altrettanto agevole, invece, determinare la base giuridica eventualmente applicabile. Sulla base degli orientamenti espressi dalla Corte, si potrebbe ipotizzare una preferenza per la base giuridica che attribuisce al Parlamento europeo un maggiore coinvolgimento. Se si analizza, pur brevemente, la sua giurisprudenza sul punto, ci si accorge che la Corte, al fine di giustificare l’esclusione del cumulo, sembra in genere guidata dall’intento di evitare che la procedura maggiormente garantista del ruolo del Parlamento europeo venga svuotata della sua stessa sostanza in conseguenza del contestuale utilizzo di una procedura con questa incompatibile (v., in tal senso, Commissione c. Parlamento e Consiglio, C-178/03, § 59; Parlamento c. Consiglio, C-155/07, § 77. V., inoltre, le conclusioni dell’Avv. gen. Kokott presentate rispettivamente nelle cause C-178/03, § 63 e 64 e C-155/07, § 90 e 91). Se questa è la ratio che ispira la giurisprudenza della Corte, la scelta dovrebbe presumibilmente cadere sulla base giuridica “che collega più strettamente il Parlamento all’adozione dell’atto” (§ 6 delle conclusioni presentate dall’Avv. gen. M. Poiares Maduro, C-411/06). Sarebbe allora una base giuridica diversa dall’art. 37 TUE ad essere utilizzata, nel caso in cui un accordo contenesse, in egual misura, sia disposizioni di politica estera che disposizioni relative ad altre politiche (in termini simili v. P. Van Elsuwege, EU External Action after the Collapse of the Pillar Structure: in Search of New Balance between Delimitation and Consistency, in Common Market Law Review 2010, p. 1007). ** Ricercatrice di Diritto internazionale – Università di Macerata
Baka c. Ungheria: Strasburgo condanna il prepensionamento del Presidente della Corte suprema per le opinioni espresse* di Chiara Bologna** (18 luglio 2014) Nella decisione Baka v. Hungary del 27 maggio 2014 la seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto in contrasto con la Cedu la cessazione anticipata dall’incarico di Presidente della Corte suprema subìta dal ricorrente András Baka. A poco più di un mese dalla decisione con cui la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per la sostituzione del Garante per la protezione dei dati personali (v. Commissione c. Ungheria, C-288/12, 8 aprile 2014), anche la Corte di Strasburgo censura il governo Orbán per un caso analogo. Nell’ambito delle radicali riforme realizzate dalla coalizione Fidesz-KDNP, titolare come noto dei due terzi dei seggi parlamentari dopo le elezioni dell’aprile 2010, la Corte suprema ungherese è stata sostituita, con la revisione costituzionale del 2011, dalla Kúria. Nonostante tale organo svolga sostanzialmente le medesime funzioni della Corte suprema, sulla base di alcune norme transitorie è stato stabilito che si dovesse comunque dar luogo a nuove elezioni del Presidente della Kúria facendo cessare dal proprio incarico il giudice Baka tre anni prima della scadenza naturale. Secondo il giudice, ricorrente alla Corte di Strasburgo, tale disciplina transitoria è stata adottata in conseguenza delle osservazioni da lui sollevate nei confronti delle riforme del potere giudiziario proposte dalla nuova maggioranza (S. Benvenuti, La riforma del sistema giudiziario ungherese tra recrudescenze autoritarie e governance europea, in Nomos, 3/2012) che mostrerebbe dunque, in questa vicenda, il modus operandi dei regimi illiberali che estromettono i loro oppositori. Dopo una lunga serie di critiche avanzate dal giudice attraverso atti istituzionali e dichiarazioni pubbliche, in effetti, il Parlamento ungherese il 30 dicembre 2011 ha approvato una disposizione di rango costituzionale (sez. 11(2) delle Disposizioni Transitorie della Legge Fondamentale di Ungheria) in base alla quale con l’entrata in vigore della nuova Legge Fondamentale, fissata per il primo gennaio 2012, sarebbe terminato il mandato del Presidente della Corte suprema. La Corte di Strasburgo ritiene che nel caso di specie siano stati violati sia l’art. 6 sia l’art. 10 della Cedu. Il ricorrente lamenta in effetti, tra le varie violazioni della Convenzione, la mancata possibilità di tutelare i propri diritti davanti a un giudice a causa del carattere costituzionale delle norme che prevedono le nuove elezioni del Presidente della Kúria. Dal rango costituzionale delle disposizioni è derivata infatti l’impossibilità materiale di impugnarne la legittimità e dunque di vedere tutelati davanti a un giudice i diritti civili coinvolti, come richiesto dall’art. 6 Cedu. Il giudice Baka parallelamente, al di là delle mancate garanzie procedurali, lamenta che nel merito sia stata violata la sua libertà di espressione, essendo la prematura conclusione del mandato conseguenza delle critiche mosse alle riforme sostenute dalla maggioranza. Per quanto concerne la violazione del “diritto a un giudice” garantito dall’art. 6 Cedu la Corte di Strasburgo respinge le argomentazioni del governo ungherese secondo il quale sarebbero presenti le condizioni, indicate dalla Grande Camera nel caso Eskelinen c. Finlandia del 19 aprile 2007, necessarie a superare la presunzione di applicabilità dell’art. 6 alle controversie relative ai dipendenti pubblici. In base a tale giurisprudenza l’art. 6 si applicherebbe infatti anche ai civil servants a meno che la legislazione nazionale non escluda esplicitamente la tutela giurisdizionale per quella determinata categoria del * Scritto sottoposto a referee.
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pubblico impiego e tale esclusione sia giustificata da «obiettive e peculiari necessità della pubblica amministrazione» (F. Gambini, art. 6, Commentario breve alla Cedu, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, Cedam, 2012, 179). Nel caso di specie, secondo la Corte edu, manca nell’ordinamento ungherese un’esplicita esclusione alla tutela giurisdizionale per le vicende relative al rapporto di lavoro dei giudici della Corte suprema: l’“accesso a un giudice” è stato impedito non da un’esplicita preclusione, ma piuttosto, sostanzialmente, dal fatto che la norma in oggetto fosse di rango costituzionale e «pertanto non soggetta a alcuna forma di judicial review» (v. Baka v. Hungary, § 75). La Corte afferma poi che, pur assumendo che la presenza di una norma costituzionale equivalga a un’esplicita limitazione alla tutela giurisdizionale del rapporto di lavoro dei giudici della Corte suprema, non può comunque ritenersi soddisfatta la seconda condizione richiesta. Nel caso analizzato infatti, secondo i giudici, il governo ungherese non ha addotto nessun argomento che mostrasse come «l’oggetto del conflitto, relativo alla cessazione prematura del mandato del ricorrente come Presidente della Corte suprema, fosse legato all’esercizio del potere dello Stato in modo tale che l’esclusione delle garanzie previste dall’art. 6 fosse oggettivamente giustificata» (ivi, § 77). Ad essere violato nel caso di specie è anche, come si diceva, l’art. 10 Cedu. La Corte di Strasburgo a tal proposito respinge le argomentazioni del governo ungherese, secondo cui non vi sarebbe stata interferenza con la libertà di espressione: la cessazione dall’incarico del ricorrente sarebbe dovuta infatti ai cambiamenti apportati alla suprema autorità giudiziaria ungherese con la revisione costituzionale e non alle opinioni da lui espresse. Al contrario, secondo i giudici europei, il fatto che la proposta di eleggere un nuovo Presidente della Kúria sia maturata solo dopo una lunga serie di critiche avanzate dal giudice Baka dimostra come la cessazione dall’incarico sia ad esse correlata. Ne è prova anche il fatto che lo stesso Ministro della giustizia avesse in precedenza affermato che, vista l’analogia di funzioni tra la Kúria e la Corte suprema, la nuova disciplina «non avrebbe fornito fondamento giuridico per mutare la persona del Presidente» (ivi, § 18). La volontà di una rimozione ad personam è evidente anche alla luce dell’introduzione di un nuovo criterio per essere eletti nella Kúria: l’aver ricoperto la funzione di giudice all’interno del territorio ungherese per almeno cinque anni. Il ricorrente, infatti, avendo svolto la maggior parte della propria carriera nella Corte europea dei diritti dell’uomo, non soddisfa tale requisito (ivi, §§ 93-94). Premessa l’avvenuta ingerenza nella libertà di espressione del ricorrente, la Corte è chiamata ad applicare il test triadico previsto dall’art. 10 secondo cui ogni limitazione a tale diritto può avvenire solo se prescritta dalla legge, se volta a perseguire uno dei fini legittimi indicati nella Convenzione e solo qualora l’eventuale limitazione costituisca una misura necessaria in una società democratica. Nell’applicazione dell’art. 10 Cedu lo status di fonctionnaire public, e in particolare di giudice, ha rappresentato in diverse occasioni il presupposto per specifiche limitazioni alla libertà di espressione. In riferimento ai magistrati, in particolare, l’art. 10 prevede esplicitamente, nel catalogo dei fini che possono giustificare limitazioni alla libertà di espressione, quello di «garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario», costituendo il presupposto per un peculiare dovere di riserbo che i giudici sono chiamati a rispettare (es. Altin c. Turchia, 6 aprile 2000). Nella decisione commentata, tuttavia, la Corte edu non rievoca tale giurisprudenza e al contrario sottolinea come nel caso de quo sia necessario sottoporre a scrutinio stretto l’azione del governo ungherese a causa del legame esistente, nel caso analizzato, tra la tutela della libertà di espressione del giudice e l’indipendenza del potere giudiziario. Nel constatare la violazione della Cedu la Corte utilizza, tuttavia, argomentazioni già emerse nella sua giurisprudenza sulla libertà di espressione dei magistrati e, in riferimento al citato test ex art. 10, si sofferma direttamente
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sul terzo elemento ritenendo che la limitazione alla libertà di espressione del ricorrente non sia certamente «necessaria in una società democratica». L’organizzazione del potere giudiziario è infatti una questione di pubblico interesse e in quanto tale il relativo dibattito merita di essere alimentato da tutti, inclusi i magistrati, «anche nel caso in cui abbia implicazioni politiche» (v. Baka v. Hungary, § 99; Kudeshkina v. Russia, 26 febbraio 2009, § 86). Nel caso di specie, peraltro, come ricorda la Corte, le osservazioni sulle proposte legislative del ricorrente «non costituivano solo un suo diritto ma anche un suo dovere» (Baka v. Hungary, §100) in quanto parte integrante delle sue funzioni: la normativa vigente dal 1997 assegnava infatti al Presidente della Corte suprema anche il ruolo di Presidente del Consiglio nazionale di giustizia, prevedendo esplicitamente per quest’ultimo l’obbligo di esprimere opinioni sulle proposte di legge che avessero effetti sul potere giudiziario. La prematura sostituzione del giudice Baka ha inoltre, sottolineano i giudici, un chilling effect, un effetto inibitore sul futuro esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte del ricorrente e degli altri giudici che, intimoriti dalla rimozione del Presidente della Corte suprema, sarebbero scoraggiati dal fare in futuro «osservazioni critiche circa istituzioni e politiche pubbliche per il timore di perdere il proprio ufficio», producendo delle conseguenze «che lavorano a detrimento dell’intera società» (v. Baka v. Hungary, §101; Wille v. Liechtenstein, 28 ottobre 1999, § 50). Nel caso di specie, come evidente, la Corte edu sembra valorizzare una lettura “funzionalista” della libertà di espressione, lettura tradizionalmente presente nella sua giurisprudenza (G.E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico tra Corte europea e Corte costituzionale, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2006, p. 467). In quest’ultima, infatti, vicino alla dimensione puramente “individualistica” della libertà di espressione, quale mezzo per il pieno sviluppo della personalità del singolo, emerge una ricostruzione che esalta l’esercizio di tale libertà nell’interesse generale, sottolineandone la centralità in una società democratica quale strumento essenziale di pluralismo. Nel caso analizzato in effetti, più che in tanti altri, la violazione dell’art.10 non rappresenta solo un’interferenza con l’esercizio del diritto di un singolo, ma lo strumento, come ha riconosciuto la Commissione Venezia rievocata dalla stessa Corte di Strasburgo, «per minacciare l’indipendenza del potere giudiziario» (v. Baka v. Hungary, § 49). ** Ricercatrice di Diritto pubblico comparato – Università di Bologna
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La riforma sanitaria di Obama e la sentenza Burwell contro Hobby Lobby. Basta un nesso molto indiretto con la libertà religiosa a limitare il diritto alla salute? * di Valentina Fiorillo** (20 luglio 2014)
Nel dibattito costituzionalistico statunitense erano stati in molti a prevedere che il Religious Freedom Restoration Act (Rfra), prima ed unica legge generale sulla libertà religiosa, avrebbe generato più problemi di quanti non si proponesse di risolvere. Tuttavia forse nessuno in questo ultimo ventennio avrebbe potuto immaginare che sarebbe stato proprio il Rfra lo “scoglio” su cui sarebbe andata ad infrangersi la principale riforma sociale del Paese dai tempi della Great society di Lyndon Johnson. Nel 1993 il Rfra – legge invero insolita, che parla più il linguaggio delle Corti che quello del Congresso – aveva espressamente reintrodotto a livello legislativo l'interpretazione della free exercise clause (I Emendamento, Cost. Usa) così come deducibile da una serie di sentenze antecedenti all'overruling del caso Employment division v. Smith (1990). Secondo il Rfra, il legislatore federale nel legiferare deve non solo evitare leggi deliberatamente persecutorie nei confronti della religione ma anche premurarsi di verificare che il suo intervento non rappresenti un onere sostanziale per l'esercizio di quella libertà ("substantially burdes the exercise of religion") e sia giustificato da un interesse pubblico essenziale e prevalente (cd. compelling interest test). Un interesse che deve essere tanto rilevante da giustificare una lesione, seppure indiretta, della sfera individuale della libertà religiosa. Ove questa lesione sia comunque necessaria, il legislatore deve operare con i mezzi meno invasivi possibili per la sfera della libertà religiosa ("the least restrictive means"). L'intervento del legislatore federale da valutare in questo caso è proprio la riforma sanitaria Obamacare, la quale prevede, tra le altre novità, l'obbligo per i datori di lavoro di pagare le spese per l'assicurazione sanitaria dei propri dipendenti. Le linee guida del Dipartimento della salute, emanate in via definitiva nel giugno 2013, chiariscono che nella copertura assicurativa obbligatoria ricadono anche i più comuni contraccettivi, i cosiddetti contraccettivi di emergenza (da alcuni considerati veri e propri abortivi, la “pillola del giorno dopo”), gli interventi di sterilizzazione e i programmi di assistenza per la salute riproduttiva delle donne. Quelle stesse linee guida – a seguito di un duro confronto con un movimento d’opinione sostenuto in particolare dalla Conferenza dei vescovi cattolici statunitensi – stabiliscono una serie di esenzioni per gli istituti di istruzione, le charities e gli ospedali sotto l’egida di chiese e organizzazioni religiose, purché siano enti no-profit. Se il regime delle esenzioni fosse rimasto quello previsto dal legislatore (altre esenzioni minime per gruppi minoritari erano già nel testo di legge) e dal Governo ci si sarebbe trovati dinanzi ad un bilanciamento tra diritti in grado forse di tenere assieme le differenti sfere giuridiche a cui essi sono riconducibili. Ma gli oppositori della riforma non hanno ritenuto soddisfacente la mediazione ottenuta nelle Linee guida e così *
Scritto sottoposto a referee.
la partita contro l’Obamacare, tanto in Congresso quanto nelle corti federali, si è incentrata tutta sulla questione dell’illegittimità della copertura per farmaci anti-concezionali e abortivi (cd. contraceptive mandate) rispetto alla clausola del libero culto (free exercise clause) così come riletta dalla menzionata legge generale sulla libertà religiosa del 1993. Così lo scorso 30 giugno nella decisione Burwell v. Hobby Lobby (573 U.S._2014) la Corte Suprema federale ha dunque posto quella che pare essere una pesante ipoteca sulla riforma sanitaria, ampliando significativamente il novero di soggetti esentati per motivi religiosi dal pagamento delle spese assicurative. La Corte, applicando proprio il Rfra, ha riconosciuto la legittimità di un’esenzione a una categoria potenzialmente molto ampia di datori di lavoro (nello specifico Hobby Lobby è una catena di megastore di bricolage), i quali per motivi religiosi potranno rifiutarsi di finanziare i piani assicurativi delle proprie dipendenti donne per la parte relativa a metodi anti-concezionali e farmaci abortivi. Hobby Lobby si presenta dunque come una importante sentenza, la seconda sulla Obamacare dopo la decisione del giugno 2012 NFIB v. Sebelius, dove diritti civili e diritti sociali entrano in conflitto, con esiti che appaiono purtroppo sfavorevoli per la salute delle donne. La sentenza, molto ampia e articolata, comprende, oltre all’opinione di maggioranza redatta da Samuel Alito (sottoscritta dagli altri 4 giudici di nomina repubblica: il chief justice Roberts, Kennedy, Thomas e Scalia), anche un’opinione concorrente di Kennedy e due opinioni dissenzienti tra i giudici liberal, una redatta da Ruth Ginsburg e l’altra, molto specifica e breve, predisposta da Breyer e Kagan. I profili giuridici principali sono due, uno di carattere soggettivo e l’altro di carattere oggettivo: a) una società a scopo di lucro diviene titolare di diritti fondamentali quale quello di esercitare liberamente una fede religiosa; b) l’obbligo di fornire una copertura assicurativa, che comprenda anche le spese per metodi e farmaci contraccettivi e abortivi, rappresenta una violazione della libertà religiosa di quei datori di lavoro che li ritengono contrario ai propri precetti religiosi. L'elemento soggettivo assume un ruolo centrale ed è il primo principale tratto innovativo della decisione. Questo poiché, come condivisibilmente ricorda il giudice Ginsburg, mai finora la Corte suprema ha qualificato un ente a scopo di lucro (for-profit corporation) come titolare di un diritto di libero culto, tale da giustificare per esso un'esenzione da leggi di generale applicabilità, dal momento che l'esercizio della religione è intrinsecamente connesso all'individuo e non a entità giuridiche astratte ("artificial legal entities", Ginsburg J. dissenting p. 14). L'opinione di maggioranza utilizza due argomenti per giustificare ciò. In primo luogo, essa spiega come, dal punto di vista meramente letterale, nella legislazione e nei codici la parola "persona" ricomprenda anche le persone giuridiche. Di conseguenza se il Rfra si applica all'esercizio della libertà religiosa di una persona ("to a person's exercise of religion"), allora, data l'ampia definizione giuridica di "persona", esso si estenderà anche alle società a scopo di lucro, siano esse definibili come aziende, compagnie, corporations, società di capitali, a seconda del diritto societario in vigore nei vari stati (opinion of the Court, p. 19). Il solo argomento letterale appare già di per sé pericoloso, nella misura in cui apre ad libitum e acriticamente alla richiesta di ulteriori esenzioni da parte di qualsiasi esercente di attività commerciale nel Paese.
In secondo luogo, la Corte sostiene che, anche nell'esercizio di un'attività economica, il titolare deve godere del più ampio diritto di libertà religiosa, posto che persino in quel caso le sue azioni, traslate attraverso l'attività dell'azienda, se guidate da precetti religiosi, possono mirare a scopi più alti della mera realizzazione del profitto e, dunque, la distinzione tra "a scopo di lucro" e "non a scopo di lucro" assume contorni più sfumati alla luce delle intenzioni dichiarate dei titolari (opinion of the Court, pp. 20-25). In altre parole è come se la Corte avesse deliberatamente ignorato una distinzione, ormai pacifica in dottrina, tra enti esponenziali e di culto, enti strumentali e organizzazioni di tendenza, da un lato, e attività di carattere lucrativo, non connesse nelle loro finalità statutarie all'esercizio collettivo di un diritto religioso né all'intento di servire la sola comunità di fedeli, dall'altro. In termini giuridici la debolezza di questo argomento è evidente (Ginsburg J. dissenting, pp. 14-16) ma se anche solo ci si volesse fermare a valutazioni di carattere pratico, si fa fatica comunque ad accettare l'argomento per cui, trattandosi di imprese a conduzione familiare esclusivamente controllate da un ristretto nucleo di persone ("closely held corporations"), si rimarrebbe comunque in un ambito di esercizio diritti individuali, quando ci si trova dinanzi a una società che occupa oltre 13 mila dipendenti in più di 500 megastore dislocati nell'intera nazione. Si diventa ancor più critici con l'opinione della Corte quando si passa a valutarne la parte dedicata espressamente al Rfra, di cui i giudici di maggioranza forniscono per la prima volta una sorta di interpretazione autentica, sostenendo che questa legge impone uno standard di costituzionalità ben più elevato di quello della giurisprudenza in materia di free exercise antecedente al citato caso Smith. La Corte afferma che un individuo non può essere posto nella condizione di violare i propri precetti religiosi, cosa che accadrebbe, anche se solo indirettamente, quando una sua azione (il pagamento di una polizza completa) può condurre ad un'azione (la scelta eventuale dell'aborto da parte di una donna) contraria al precetto religioso per cui la vita comincia al momento del concepimento (opinion of the Court, pp. 31-38). Ma se il "compelling interest test" può considerarsi soddisfatto poiché l'interesse pubblico consistente nella salute della donna è meritevole di attuazione, lo stesso non può dirsi delle modalità di attuazione di tale interesse. Difatti – e qui sta l'elemento davvero innovativo, secondo la maggioranza, rispetto alla tradizionale giurisprudenza in materia di free exercise – la scelta di inserire i contraccettivi e gli abortivi nella copertura sanitaria ponendone i costi a carico dei datori di lavoro non è compatibile con il principio della essenzialità e non eccedenza dell'intervento pubblico a danno della libertà religiosa ("the least restrictive means standard"). Il Governo aveva il dovere di individuare una strada alternativa a quella del contraceptive mandate per tutelare la salute delle donne, fornendo egli stesso direttamente questo tipo di assistenza (opinion of the Court, pp. 40-45). In questo ragionamento sta, ad avviso di chi scrive, il vero vulnus apportato allo stato di diritto da un'interpretazione radicale del Rfra, quale quella proposta dalla Corte in questa sentenza. La legittimazione di un'esenzione dai confini così labili e ampi farebbe sì che il Governo dovrebbe sostenere dei costi aggiuntivi (la cui portata peraltro non è quantificabile) per l'attuazione di qualsiasi programma pubblico, in tutti i casi in cui vi sia la possibilità di ledere, anche in maniera del tutto indiretta, una sensibilità religiosa.
A poco valgono le parole di rassicurazione della Corte quando questa sostiene che la decisione è relativa solo alla copertura assicurativa per contraccettivi e abortivi (opinion of the Court, p. 46): è lecito chiedersi con quali argomenti la Corte, dopo una lettura così ampia del Rfra, potrà respingere le istanze che proverranno da datori di lavori nell'ambito di qualsivoglia attività commerciale ove questi obietteranno "alle trasfusioni (Testimoni di Geova), agli anti-depressivi (Scientology), a farmaci e sostanze contenenti siero animale quali quelle impiegate per l'anestesia (alcuni Musulmani, Ebrei e Induisti) nonché alle vaccinazioni di minori (Chistian scientists)" (Ginsburg, J. dissenting, p. 33)? Una lettura così radicale del Rfra quale quella contenuta nell'opinione di Alito non consente un bilanciamento e comporta un sacrificio troppo elevato per l'interesse pubblico volto ad assicurare parità d'accesso all'assistenza sanitaria e soprattutto risulta troppo svantaggioso per le donne, soggetti terzi coinvolti. Un sacrificio che mai nella precedente giurisprudenza in materia di free exercise la Corte aveva riconosciuto come legittimo, anche nei casi in cui erano stati concessi accomodamenti per motivi religiosi e obiezioni di coscienza. Ed è proprio la mancata tutela dei soggetti terzi a preoccupare i giudici dissenzienti, posti dinanzi ad un'interpretazione così radicale del Rfra: questa legge non può giustificare il mancato rispetto della libertà altrui, nello specifico la sfera individuale delle donne, le quali verrebbero limitate, secondo il giudice Ginsburg, nell'esercizio della propria libertà religiosa e di coscienza da un'autorità pubblica che, nel concedere così ampie esenzioni nell'ambito dell'Obamacare, dimostrerebbe di preferire a priori le inclinazioni morali e religiose dei datori di lavoro a quelle delle dipendenti donne. Avendo escluso la creazione di un sistema sanitario nazionale pubblico, Obamacare si basa sulla distribuzione dei costi per la copertura sanitaria tra soggetti privati, i quali, una volta attratti nel meccanismo di tipo pubblicistico sono tenuti a sottostare a delle regole e non agiscono più da individui singoli. Il caso presenta alcune similitudini con quanto accaduto in Germania, dove i consultori cattolici, su sollecitazione della Santa Sede (all'epoca del Pontificato di Giovanni Paolo II), si opponevano al rilascio del certificato dell'avvenuto colloquio dissuasivo con il medico, certificato necessario ad accedere all'interruzione volontaria di gravidanza depenalizzata. Non venne trovato un compromesso e i consultori cattolici uscirono dalla rete di assistenza pubblica, anche se poi anche se poi un'analoga rete di consultori organizzata da laici cattolici in disaccordo con il Vaticano subentrò alla precedente. Se si viene attratti nell'ottica pubblicistica in quanto si svolge una funzione pubblica stabilita dalla legge, la regola non può che essere la tutela dei soggetti terzi beneficiari (le donne), mentre le esenzioni per motivi religiosi rappresentano eccezioni limitate a casi in cui, come per le comunità religiose o le Chiese e le organizzazioni di tendenza, vi è un vincolo molto forte e quasi "volontaristico" o comunque "motivazionale" tra datori di lavoro e dipendenti. La sentenza va dunque letta come la soluzione (insoddisfacente) di un conflitto tra diritti di libertà negativa, anche se, agli occhi di un osservatore europeo, in realtà il contrasto che appare evidente è quello tra libertà religiosa e diritto alla salute. Né nella opinione di maggioranza né nella principale opinione dissenziente si giunge mai a riconoscere apertamente questo contrasto tra una libertà dallo Stato e una libertà attraverso lo Stato,
dal momento che nell'ordinamento costituzionale americano i diritti sociali non sono costituzionalmente garantiti, essendosi affermati per via legislativa ed essendo tuttora riconosciuti dalla giurisprudenza solo come entitlements, piuttosto che come veri e propri diritti di rango costituzionale. Tuttavia, anche se non è pensabile leggere nella sentenza, anche a contrario, l'affermazione esplicita di un diritto costituzionale alla salute, si scorge una costante attenzione per la "sfera sociale" nelle parole dei giudici, soprattutto dei dissenzienti, i quali dimostrano a più riprese di tenere in grande considerazione l'interesse del Governo a garantire la salute riproduttiva di tutte le donne. Un interesse che, al contrario, i giudici di maggioranza hanno ritenuto recessivo. Gli effetti negativi dell'interpretazione estensiva del Rfra non hanno tardato a manifestarsi. Pochi giorni dopo la sentenza Hobby Lobby, la Corte ha accolto una richiesta di ingiunzione a favore di un ente di istruzione no-profit di ispirazione cristiana, il Wheaton College (Wheaton college v. Burwell, 573 U.S._2014). L'istituto, che in quanto ente noprofit già ricadeva nell'esenzione ai sensi delle citate Linee guida, contestava l'obbligo di compilare un modulo predefinito dal Dipartimento della salute per qualificarsi come ente esentato. La compilazione del modulo predefinito avrebbe comportato, secondo il College, una lesione della libertà religiosa come tutelata dal Rfra, poichè rappresentava comunque un coinvolgimento in un'attività che avrebbe potuto comportare l'impiego di farmaci abortivi. Come fa notare il giudice Sotomayor che si è opposta alla decisione, una così ampia interpretazione del Rfra tale da ricomprendervi azioni che del tutto indirettamente colpiscono sentimenti religiosi, rischia di condurre alla sistematica contestazione di ciascun aspetto, anche solo procedurale, dell'intervento pubblico, limitando sistematicamente la capacità del Governo di attuare qualsiasi tipo di riforma. Un onere che, volendo parafrasare il linguaggio del Rfra, diviene sostanziale e potenzialmente insostenibile per l'esercizio dei pubblici poteri.
** Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate, Università di Roma “la Sapienza”. Le opinioni espresse in questo contributo sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione presso la quale l'Autrice presta attualmente servizio.
Cronache dal Convegno:
The day after. La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale Università di Macerata, Centro interdipartimentale di Studi costituzionali, 5 febbraio 2014 di Claudia Pennacchietti* Il 5 febbraio 2014 nell’Università degli Studi di Macerata si è svolto l’Instant seminar promosso dal Centro interdipartimentale di Studi costituzionali dal titolo The day after. La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale, nel corso del quale, a pochi giorni dal deposito delle motivazioni della sentenza, i costituzionalisti dell’Ateneo maceratese hanno analizzato i profili più significativi della sentenza n. 1/2014 e hanno espresso le loro valutazioni a prima lettura in merito all’iniziativa di riforma della legge elettorale presentata in Parlamento e sottoscritta da Partito Democratico, Forza Italia e Nuovo Centro Destra. Nell’introdurre l’incontro, il prof. Giovanni Di Cosimo ha evidenziato la rilevanza politica e l’impatto sull’assetto istituzionale della sentenza con la quale la Corte ha risolto la questione della legittimità costituzionale della legislazione elettorale vigente per la formazione delle Camere (legge 270/2005). Ha individuato inoltre la prospettiva che il Centro di Studi ha inteso seguire, ovvero quella di analizzare la vicenda processuale e i contenuti della sentenza alla luce dei riflessi che la stessa potrà avere sulle istituzioni e sulle scelte politiche future intorno alla normativa elettorale. Il prof. Giulio Salerno si è soffermato sul profilo inerente l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale della legge elettorale. La delicatezza di tale valutazione risiedeva nella circostanza per cui l’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione esprimeva una modalità non ordinaria di sollecitazione della Corte costituzionale. La Corte di Cassazione era stata infatti chiamata a pronunciarsi sulla domanda con la quale un cittadino elettore chiedeva che fosse accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in coerenza con i principi costituzionali. In altre parole, si trattava di una domanda di accertamento del contenuto giuridico del diritto di voto spettante al cittadino in presenza di norme che costruiscono un sistema elettorale che si presume tale da impedire un’espressione libera, piena e trasparente della volontà dell’elettore. Dunque, tale azione di accertamento si caratterizzava per il fatto che la determinazione del contenuto effettivo del diritto di voto era condizionata dal preventivo accertamento ad opera della Corte costituzionale della conformità della legge elettorale alla Costituzione. Tale apparente coincidenza tra il giudizio del giudice ordinario e il giudizio della Corte costituzionale (cd. identità dei petita) poneva il problema della sussistenza di uno dei requisiti fondamentali di ammissibilità del giudizio, ovvero la rilevanza della questione di costituzionalità rispetto al giudizio di provenienza. Sul punto, già da anni una parte (minoritaria) della dottrina si schierava a favore dell’ammissibilità di questioni costituzionali sorte in relazione ad azioni di accertamento, rilevando che altrimenti si consentirebbe la permanenza nell’ordinamento di norme incostituzionali il cui accesso alla Corte è possibile solo tramite lo strumento giurisdizionale del sindacato di mero accertamento. 1
Nell’ordinanza di rimessione, il giudice remittente ha prospettato un’argomentazione ulteriore per far fronte alla dottrina maggioritaria che invece negava la possibilità di accesso alla Corte. La Cassazione infatti chiarisce che ad essa non è demandato un giudizio di mero accertamento, ma un giudizio di accertamento costitutivo, volto ad accertare e ripristinare la pienezza del diritto di voto (con conseguente sussistenza del requisito della pregiudizialità e distinzione dei petita). La Corte costituzionale, pur non aderendo a questa particolare ricostruzione del giudice remittente, dichiara ammissibile la questione, considerando sussistenti il requisito della rilevanza e la distinzione tra i petita, sulla base del rilievo per cui l’accertamento richiesto al giudice a quo non sarebbe assorbito interamente dalla sentenza della Corte, «in quanto residuerebbe la verifica delle altre condizioni cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto»1. La Corte aggiunge una considerazione ulteriore, legata alla peculiarità costituzionale del diritto oggetto di accertamento: sottrarre al sindacato costituzionale leggi incidenti sul diritto fondamentale di voto per ragioni puramente procedurali o sulla base di interpretazioni troppo restrittive dei canoni procedurali che guidano i meccanismi di accesso alla Corte consentirebbe di creare “zone franche” nel sistema di giustizia costituzionale, «proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico» 2. Concludendo, il prof. Salerno ha ritenuto che la decisione della Corte di non trincerarsi dietro ad un giudizio formalistico e di entrare nel merito di una questione centrale per l’ordinamento democratico ha rappresentato un’assunzione di responsabilità pubblica meritevole di apprezzamento: con questo atto di coraggio la Corte sembra tornata ad essere un giudice sostanzialmente costituzionale. La dott.ssa Sara Giustozzi ha esposto alcune considerazioni in merito alle argomentazioni spese dalla Corte nel motivare l’ammissibilità della questione di costituzionalità. Innanzitutto ha rilevato che la Corte ha inteso rafforzare la parte della sua motivazione attinente all’aspetto tecnico dell’accesso al sindacato di legittimità costituzionale in via incidentale con una serie di valutazioni di natura garantista, sebbene ciò non fosse necessario dal punto di vista strettamente tecnico-procedurale per entrare nel merito della questione. La difficoltà di ammettere la questione, infatti, riguardava il requisito della incidentalità. La Corte, pur individuando argomenti tecnici con cui superare tale ostacolo, sembra tuttavia aver ritenuto preponderanti e, dunque, comunque di per sé sufficienti, le esigenze di natura garantista sottese alla possibilità di vagliare la legittimità costituzionale della legge elettorale. Tale logica argomentativa non risulta isolata nelle pronunce della Corte 3. Il caso deciso con la sentenza in commento, secondo la dott.ssa Giustozzi, mostra poi una peculiarità in materia di tutela giurisdizionale dei diritti. Ciò emerge dal particolare atteggiarsi della vicenda: si era in presenza di un diritto (il diritto ad un voto libero, 112 Punto 2 del Considerato in diritto.
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3 Si vedano, ad esempio, le pronunce n. 226/1976, n. 406/1989, n. 384/1991 e n. 387/1996, citate del resto anche nella stessa sentenza n. 1/2014.
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personale, eguale e segreto) la cui esistenza nell’ordinamento non era in discussione, così come non era discussa la titolarità in capo al soggetto che ne chiedeva tutela. Il problema, dunque, non si poneva rispetto al diritto sostanziale, quanto piuttosto rispetto alla possibilità tecnica di accesso alla tutela giurisdizionale. Sebbene il giudizio di legittimità costituzionale non sia direttamente preordinato alla tutela dei diritti, gli argomenti di natura garantista offerti dalla Corte costituzionale a sostegno di quelli più propriamente tecnici sembrano voler riconoscere alla effettività della tutela (mediante la verifica della legittimità delle leggi) un peso considerevole, se non addirittura preponderante, ove un rispetto rigoroso dei requisiti strettamente tecnici di accesso al sindacato di legittimità costituzionale dovesse precludere la possibilità di ottenere il sindacato medesimo. La dott.ssa Giustozzi ha ricordato che, nel motivare la decisione sulla domanda cautelare (ex art. 700 c.p.c.) presentata da P. Welby di interruzione del trattamento cui era sottoposto, il giudice civile aveva ritenuto di fondare il proprio rigetto sull’assunto per cui, pur dovendosi ritenere che il diritto sostanziale per cui Welby chiedeva tutela fosse senz’altro esistente nell’ordinamento, tuttavia l’ordinamento medesimo non prevedeva, per tale diritto, uno specifico strumento processuale per accedere alla tutela giurisdizionale, così che il diritto non poteva ritenersi concretamente tutelato 4. Secondo la relatrice, la vicenda da ultimo richiamata, unitamente al caso di attualità costituzionale in esame, dimostrano come il problema della tutela dei diritti venga spesso affrontato facendo esclusivo riferimento agli aspetti di diritto sostanziale (c.d. “tutela primaria”), senza valutare che a volte la lacuna che impedisce al diritto di ricevere tutela interessa, invece, il piano procedurale (c.d. “tutela secondaria”). La prof.ssa Benedetta Barbisan, riferendosi alle norme della legge elettorale relative al premio di maggioranza (da assegnare alla lista o alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza relativa indipendentemente dal raggiungimento di una soglia minima di voti o di seggi) ha analizzato gli scrutini che dette disposizioni non hanno superato dinanzi alla Corte, nonché i parametri costituzionali rispetto ai quali la mancanza dell’indicazione di una soglia si pone in contrasto. Quanto ai primi, tramite la verifica del principio di proporzionalità, la Corte valuta se i mezzi scelti dal legislatore (nella specie il premio di maggioranza) sono proporzionati agli obiettivi che intende perseguire; il principio di ragionevolezza impone poi di trattare in maniera differente fattispecie omogenee e in maniera equipollente fattispecie disomogenee, ma implica anche la necessità di rilevare l’illogicità, l’incoerenza o la contraddittorietà di una data norma rispetto al contesto normativo. Infine, il bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti e in reciproca tensione deve operare in modo tale che si produca il minor sacrificio possibile degli stessi nel perseguimento degli obiettivi discrezionalmente scelti dal legislatore. Quanto ai singoli parametri costituzionali che si presumevano violati, la Corte rileva l’incompatibilità del meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza con l’art. 67 Cost. Difatti, un premio di maggioranza che può essere conferito alla lista o alla coalizione di liste che abbiano raccolto anche un modesto numero di suffragi è distorsivo della rappresentanza parlamentare, che risulta illimitatamente compressa, perché potenzialmente illimitato è il premio che può essere attribuito alla lista o coalizione di maggioranza relativa. Ne consegue il contrasto anche con l’art. 1 Cost., poiché le norme impugnate producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo e la
4Tribunale di Roma, ordinanza 16.12.2006
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volontà dei cittadini manifestata con il voto, che costituisce lo strumento principale di espressione della sovranità popolare. Non si può dimenticare poi, che le assemblee, composte in ragione dell’assegnazione di un premio di maggioranza così ampio, sono depositarie di alcune funzioni fondamentali di garanzia (l’elezione dei giudici costituzionali, l’elezione del Presidente della Repubblica – sia pure in forma integrata –, il procedimento di revisione costituzionale). Infine, la Corte rileva che il meccanismo premiale così formulato altera il circuito democratico definito in Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). In merito, la relatrice ha ricostruito due argomenti della Corte: 1) il meccanismo premiale produce una sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa; 2) il sistema proporzionale scelto dal legislatore genera nell’elettore la legittima aspettativa di un meccanismo speculare o proiettivo, data la sua intrinseca capacità di proiettare sull’assemblea rappresentativa gli stessi equilibri registrati nella raccolta dei suffragi. Vi sarebbe dunque una incoerenza tra la scelta di un sistema elettorale proporzionale e l’introduzione di un premio di maggioranza in assenza di una soglia minima, dotato di forti potenzialità distorsive. Venendo all’iniziativa di riforma presentata in Parlamento, la prof.ssa Barbisan ha osservato come – a differenza del sistema spagnolo cui questa formula è debitrice e che si configura come un modello proporzionale con limitati correttivi – la proposta interviene sul sistema elettorale “aggiungendo correttivo a correttivo”. Il cd. Italicum infatti è un sistema elettorale di tipo proporzionale che prevede soglie di sbarramento (8% per le liste che corrono da sole, 5% per quelle all’interno di una coalizione, 12% per le coalizioni ) e la suddivisione del territorio nazionale in un numero di circoscrizioni tale per cui in ciascuna non si eleggano più di 7 deputati. Secondo la relatrice, pare ripresentarsi il problema di rintracciare una logica in un sistema a vocazione proporzionale che presenta correttivi, alcuni dei quali significativamente distorsivi. Il prof. Luigi Cozzolino ha sostenuto che tra gli aspetti degni di rilievo della pronuncia n. 1 del 2014 siano da annoverare i richiami che nella motivazione i giudici della Consulta operano da una parte al modus operandi della Corte di giustizia e delle Corti di altri ordinamenti e, dall’altra, a specifici passaggi tratti da alcune pronunce dei giudici del Bundesverfassungsgericht. Per quanto riguarda il primo riferimento, esso viene compiuto allorché la Corte afferma che le scelte legislative in materia di sistema elettorale soggiacciono allo scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza. Enunciando l’ubi consistam del test di proporzionalità, ossia la valutazione del “se la norma oggetto di scrutinio con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria ed idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al conseguimento di detti obiettivi”, i giudici della Consulta ricordano come questa tipologia di scrutinio rientri nello strumentario adottato da molte delle giurisdizioni costituzionali europee e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in sede di controllo della legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri. Come detto in apertura quello appena evidenziato non costituisce l’unico richiamo effettuato nella sentenza in esame a pronunciamenti di giudici di ordinamenti stranieri. Il riferimento più pregnante, ricorda il prof. Cozzolino, viene operato allorquando i giudici della Consulta affermano che “Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare 4
un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto”. Per dimostrare la correttezza della propria argomentazione i giudici costituzionali evocano la ricostruzione che del principio di eguaglianza e del suo impatto sulle scelte del legislatore ordinario in tema di sistema elettorale viene svolta da giudici, come quelli tedeschi, che si trovano ad operare in un ordinamento omogeneo al nostro sia per quanto concerne il principio di eguaglianza sia per quanto riguarda il silenzio costituzionale in merito alla formula elettorale. È, in particolare, un punto della lunghissima motivazione della sentenza del secondo Senato del BVG del 25 luglio 2012 che viene evocato, quello in cui si afferma che i giudici possono accertare una violazione del principio di eguaglianza del voto allorché il legislatore nella disciplina del sistema elettorale introduca delle differenziazioni che non siano necessarie al perseguimento di un interesse costituzionalmente fondato o che superino la misura necessaria per realizzare quell’interesse. I riferimenti appena ricordati, utilizzati dai giudici costituzionali quali argomenti quoad auctoritatem, costituiscono un dato innovativo nella giurisprudenza della nostra Corte e sembrano contribuire, secondo il prof. Cozzolino, a connotare questa come una decisione storica. La prof.ssa Angela Cossiri si è soffermata sulle argomentazioni della Corte relative al giudizio di costituzionalità delle disposizioni che prevedono l’espressione del voto sulla lista bloccata. La Corte considera tali disposizioni nel contesto normativo in cui sono inserite, ovvero in un sistema in cui la totalità dei parlamentari, senza eccezioni, è eletta sulla base di liste bloccate, caratterizzato da circoscrizioni elettorali molto ampie, nelle quali il numero dei candidati è talmente elevato da renderne difficile la conoscibilità agli elettori. È in questo peculiare quadro che le disposizioni censurate feriscono la logica della rappresentanza consegnata in Costituzione, compromettendo la libertà di scelta dei rappresentanti, che viene essenzialmente ad essere coartata dai partiti, reali decisori dell’inserimento e dell’ordine di collocazione in lista dei candidati. A tale proposito, la Corte ribadisce, secondo un consolidato orientamento, che i partiti, quali strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita democratica, non sono titolari di attribuzioni costituzionali, non possono sostituirsi agli elettori, né prevalere sulla volontà del corpo elettorale rispetto agli esiti delle consultazioni. La situazione in concreto è aggravata anche dalla possibilità di candidature multiple e dalla conseguente facoltà dei capilista eletti di optare per una circoscrizione o per l’altra sulla base delle indicazioni dei partiti, che dunque per questa via decidono chi debba essere eletto e chi no in un momento successivo rispetto alla consultazione elettorale. Alla luce della logica argomentativa usata, ha notato la prof.ssa Cossiri, la Corte ha inteso giudicare incostituzionale il voto di lista non in sé considerato, ma in quanto inserito nel sistema elettorale disegnato dalla legge oggetto di sindacato, per gli effetti combinati che l’insieme delle sue previsioni produce in concreto. A questo proposito, particolarmente significativo, in prospettiva de iure condendo, è il passaggio della motivazione che circoscrive l’ambito della pronuncia, sottolineando come la disciplina scrutinata non sia comparabile con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, o da circoscrizioni più piccole, in cui il numero di candidati sia talmente esiguo da garantirne la conoscibilità agli elettori (come accade per i collegi uninominali). La prof.ssa Cossiri ha riflettuto poi sulla circostanza che la Corte ha inteso collegare la rappresentanza politica alla dimensione del collegio, facendo emergere – probabilmente per la prima volta in modo così esplicito nella giurisprudenza costituzionale – un legame tra candidati e “territorio” che in fase elettorale sembrerebbe “costituzionalmente 5
necessario” e la cui concreta “forma” dovrebbe essere rimessa alla discrezionalità legislativa. Alla luce di quanto illustrato, rimane assorbita la doglianza di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento al «diritto a libere elezioni», tutelato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 3, Prot. 1, CEDU). Come è stato rilevato nella dottrina internazionalistica, il richiamo della Cassazione al parametro convenzionale non implica puntuali riferimenti alla giurisprudenza di Strasburgo e sembra piuttosto “agganciato” al contesto giuridico-culturale di un “diritto costituzionale comune europeo” in materia elettorale, puntualmente richiamato nell’ordinanza di rinvio. L’utilizzo siffatto di materiale giuridico esterno, secondo la Cossiri, potrebbe dunque assumere un carattere originale “tutto da scrivere”, che pare valorizzato dal richiamo della Corte costituzionale alla sentenza del Tribunale costituzionale tedesco. Nel merito, la docente ha osservato che dall’irrilevanza della decisione della Corte Edu nel caso Saccomanno, sottolineata dalla Corte costituzionale, e dalla constatazione che spetti solo ad essa la verifica di compatibilità delle norme elettorali con la Costituzione, non dovrebbe desumersi l’affermazione di un generale monopolio interno in ordine al giudizio di validità della legislazione elettorale, dal momento che costituiscono parametro interposto di validità costituzionale anche le interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo in casi che coinvolgono Stati diversi dall’Italia e posto che dalla giurisprudenza Edu emergono parecchi profili di frizione tra la legge elettorale esaminata e il parametro convenzionale. La prof.ssa Barbara Malaisi è intervenuta sui profili della legittimità del Parlamento eletto e della validità degli atti adottati nella vigenza della legge elettorale dichiarata incostituzionale. In premessa, la relatrice ha chiarito la necessità che la questione sia letta separando nettamente il piano della politica dal piano del diritto. Dal punto di vista giuridico è la Corte stessa che specifica gli effetti della sua pronuncia, dopo averli anticipati nel comunicato del 4 dicembre 2013. L’art. 136 Cost. stabilisce che gli effetti delle sentenze di accoglimento risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata. La cd. retroattività vale però solo per i rapporti pendenti, con esclusione di quelli esauriti. Nella vicenda in esame, si doveva dunque comprendere se le elezioni svolte in applicazione delle norme elettorali incostituzionali fossero da ritenersi un fatto concluso o ancora pendente. Le interpretazioni strumentali emerse all’indomani della sentenza nascevano proprio dalla confusione sui due concetti utili a risolvere la questione: proclamazione e convalida. L’art. 1 dei regolamenti parlamentari chiaramente sancisce che i parlamentari entrano nel pieno esercizio delle loro funzioni all’atto della proclamazione; è dunque da questo momento che la loro condizione assume i connotati di un rapporto esaurito. Ne consegue che la sentenza, non travolgendo il Parlamento, non intacca neanche gli atti che l’organo ha adottato prima delle nuove consultazioni. Il principio fondamentale sul quale poggia la decisione viene enunciato dalla Corte nell’ultima parte della sentenza. Si tratta del principio di “continuità dello Stato”, in base al quale, le Camere, in quanto “organi costituzionalmente necessari” non possono mai cessare di esistere perché deve essere garantito il corretto funzionamento delle dinamiche costituzionali 5. In conclusione, la prof.ssa Malaisi ha rilevato come i due profili – quello giuridico e quello politico – siano stati inopportunamente sovrapposti nel dibattito pubblico; perché se è vero che, sul piano politico la legittimazione democratica del Parlamento esce inficiata dalla 5 Ultimo punto del Considerato in diritto.
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pronuncia, è altresì vero che, sul piano del diritto il Parlamento è pienamente legittimo, ancorché la legge elettorale che ne ha determinato l’elezione sia stata dichiarata incostituzionale. La prof.ssa Raffaella Niro è ritornata su alcuni dei punti trattati nelle relazioni precedenti, in particolare sul profilo dell’ammissibilità della questione e degli effetti della pronuncia della Corte. Innanzitutto ha ricordato come la dichiarazione di incostituzionalità della legge elettorale non è arrivata a sorpresa. Già nel 2008, e di nuovo nel 2013, la Corte aveva segnalato al Parlamento le criticità costituzionali del sistema elettorale vigente, invocando un intervento modificativo. In entrambi i casi, però, la sede in cui la Corte si era trovata a pronunciarsi (vaglio di ammissibilità del referendum) non era idonea al controllo di costituzionalità, che avrebbe potuto essere esercitato solo in sede di giudizio di legittimità in via incidentale. In merito all’ammissibilità della questione, la relatrice ha evidenziato che la novità principale della pronuncia risiede nel riconoscimento della possibilità di adire la Corte per il tramite di un’azione di accertamento di un diritto fondamentale. Sino a questo momento l’accesso alla Corte era stato riconosciuto solo in relazione ad azioni di accertamento relative a diritti di natura patrimoniale. La Corte integra l’argomentazione tecnico-formale, affermando la necessità che venga consentito l’accesso al sindacato di leggi incidenti su diritti fondamentali che, altrimenti, resterebbero privi di un giudice. A quest’ultimo proposito, la prof.ssa Niro ha ricordato le tappe che i cittadini ricorrenti hanno percorso, con esito negativo, prima di rivolgersi al giudice comune: l’impugnazione davanti al TAR del decreto di convocazione dei comizi elettorali adottato in applicazione della legge elettorale; il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale; il regolamento di giurisdizione; la presentazione di un esposto alla Giunta per le elezioni della Camera e del Senato; il ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione della CEDU. Residuava quindi solo l’azione di accertamento, che veniva proposta davanti al giudice comune, il quale − sia in primo grado, sia in appello − non metteva in discussione i presupposti del giudizio, ovvero la legittimazione all’azione dei ricorrenti e la giurisdizione, ma respingeva nel merito la domanda. La Corte di Cassazione invece sollevava la questione, motivando che la negazione del controllo di legittimità di una legge fondamentale per il sistema democratico avrebbe contraddetto l’essenza stessa del controllo di costituzionalità. Anche la Corte costituzionale, nell’argomentare l’ammissibilità, afferma la necessità di evitare “zone franche” nel sistema di giustizia costituzionale, soprattutto in relazione a leggi incidenti su diritti fondamentali che non dispongono di strumenti procedurali di accesso alla Corte. D’altra parte, ha ricordato la Niro, non è la prima volta che si forzano le maglie del giudizio di ammissibilità. Lo si è fatto, ad esempio, con riguardo alle leggi di spesa o al riconoscimento della legittimazione come giudice a quo della Corte dei conti. Quanto al problema della presunta identità dei petita, che per taluni appariva come insuperabile, la prof.ssa Niro ha rilevato che la situazione che si è creata in riferimento alla legge elettorale è assimilabile a quanto accade quando si propone ricorso davanti al giudice amministrativo contro un atto che è strettamente esecutivo di una cd. leggeprovvedimento al solo scopo di ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge sulla base della quale è stato adottato l’atto impugnato. In questa ipotesi, anche se vi è coincidenza sostanziale dei petita, non è stata mai esclusa la sussistenza del presupposto della pregiudizialità della questione. La prof.ssa Niro infine ha rilevato come la Corte, nel momento della decisione, avrebbe potuto scegliere di ricorrere alla illegittimità costituzionale cd. consequenziale, concependo 7
le norme della legge impugnata come tutte inscindibilmente connesse. Ma simile intervento demolitorio avrebbe lasciato il sistema privo di una legge elettorale a meno di non percorrere la strada, già esclusa, della reviviscenza della precedente disciplina. La decisione della Corte (da più parti criticata) di avanzare suggerimenti interpretativi sugli effetti della sua pronuncia è finalizzata a fronteggiare tutte le possibili obiezioni circa la non autoapplicatività della normativa di risulta e a segnalare l’operatività del sistema che sarebbe rimasto in vigore. È evidente la volontà di evitare una situazione di sbandamento istituzionale che avrebbe finito per arrecare un vulnus nell’ordinamento costituzionale, forse anche maggiore di quello prodotto dalla vigenza di una legislazione incostituzionale in materia elettorale. Abstract With decision no. 1/2014, delivered on January 13, 2014, the Italian Constitutional Court struck down two aspects of the current electoral law (no. 270/2005): the majority prize (premio di maggioranza) and the closed-list system (liste bloccate). The first mechanism gives the winners too many seats compared to the number of votes obtained (at national level, in the Lower House; and at the regional level, in the Upper House): 55 per cent of seats whatever the majority gained. The Court found that the majority prize violates the principles of popular sovereignty (art. 1 Const.), equality before the law (art. 3 Const.) and equality of the vote (art. 48 Const.). The second mechanism prevents voters from exercising their democratic prerogative of expressing a preference for specific candidates, giving them only the chance to choosing a very long party list, in which candidates are ranked in order of electoral priority by party leaders. The Court ruled that closed-list system, as regulated by the current electoral law, violates the principle of the freedom of the vote (art. 48 Const.). Following the Court’s decision, the Democratic Party (PD), the Forza Italia (FI) and the Nuovo Centrodestra group (NCD) agreed on a new electoral regulation, the so called “Italicum”. Now the question is whether this proposal complies with the requirements of the Italian Constitutional Court.
* Dottoranda di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europea nell’Università degli Studi di Macerata.
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